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Anno XX n. 1/2018 Trimestrale € 10,00 20181 ISSN 1973-3658

POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N.46) ART. 1,COMMA 1 C1/FI/4010

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EDITORIALE

Mille giorni di te e di me

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nnesimo centro per la Rai. Anche quest'anno il Festival della canzone ha fatto oltre il 50% di share. Personalmente mi è piaciuta molto la conduzione, che ha valorizzato volti noti, ma provenienti da altri settori. Ad esempio Favino: bravissimo attore, conosciuto per i suoi ruoli in teatro, le interpretazioni cinematografiche e, non ultimo, il ruolo di camionista per la famosa pasta. Posso con tranquillità affermare che la sua conduzione, a volte ironica, ha lasciato il segno. E cosa dire del suo monologo? Se ci penso, ancora adesso mi vengono i brividi. La formazione teatrale predispone a varie interpretazioni. Se sei bravo sul palcoscenico molto probabilmente lo sarai anche quando ti esibirai negli altri ambiti. Quest'anno ha trionfato la canzone italiana. Del resto, con un direttore artistico del genere che cosa ti aspettavi? Naturalmente sono ironica, ma con Baglioni si ha sempre una sicurezza, una prospettiva: Mille giorni di te di me. Di Michelle Hunziker cosa dire? "meravigliosa, meravigliosa, meravigliosa!" Qualche fake news ha sfiorato il festival. Forse anche noi, dicendo di un 50% di share, abbiamo creato una face. La creiamo proprio adesso perché gli ascolti sono di più, o forse perché sono di meno? A quale fonte abbiamo attinto? Abbiamo verificato i dati ufficiali, abbiamo consultato i vari social o blogger o l'abbiamo saputo semplicemente dall'amico su Facebook? Bell'argomento! È stato anche trattato da noi giornalisti locali della carta stampata − quotidiani e periodici − insieme a quelli del web, nel consueto incontro con il vescovo di San Miniato, monsignor Migliavacca, rifacendoci alla lettera del Santo Padre, in occasione della giornata del santo protettore dei giornalisti. L'indicazione del papa ai giornalisti è di far attenzione alle fake news, di operare in maniera seria e professionale, poiché ognuno di noi, nel suo piccolo, è responsabile della notizia che dà e del modo di raccontare l'accadimento. Bisogna pensare sempre al rispetto della persona, in qualsiasi situazione si possa trovare. Penso che il papa non si riferisse certo alle piccole inesattezze in cui ognuno può incorrere nella comunicazione della notizia, ma soprattutto a non diffondere notizie assolutamente non vere, inventate o falsate per destabilizzare situazioni o attaccare persone. Su queste dobbiamo lottare e ricordarci sempre che una notizia sbagliata data dagli organi di stampa, provoca sempre molti danni oltre a squalificarci professionalmente. Nessuno è perfetto e tutto può accadere, ma quando si è in buonafede, si può rimediare all'errore e venirne fuori. Ciò che oggi, come già detto, succede attraverso i social, porta tutto all'esasperazione: ogni persona diventa portatore di notizie più o meno interessanti, più o meno vere. Vorrei ricordare che anche un semplice fruitore del mezzo, mette in rete quel che scrive e firma. Magari lo fa ingenuamente, e non considera che il web è dilagante. Scusatemi se sono critica. Il web in tutte le sue sfaccettature è molto utile, ma bisogna farne un uso quanto mai oculato e serio, per non renderlo uno strumento negativo, da quello straordinario mezzo al nostro servizio che è.

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Photo Archivio CTE Stampa Bandecchi & Vivaldi s.r.l. - Pontedera (PI) ISSN 1973-3658

In copertina: Giovanni Greppi, VI, 1997 acrilico su carta di riso sintetica intelata 170x163 cm

Reality numero 87 - marzo 2018 Reg. Trl. Pisa n. 21 del 25.10.1998 Responsabile: Margherita Casazza dal 19.11.2007 Reg. ROC numero 30365

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SOMMARIO

ARTE MOSTRE letteratura territorio storia 10 20 22 26 28 30

In viaggio con Greppi Eclettiche armonie In Germania con Karl-Heinz Pietre figurate Museo di Doccia Domenico Difilippo

33 38 40 41 42 44

D’Annunzio e la musica 46 Un mito, quella voce 48 Grammy Awards 2018 50 52 Luca Guadagnino regista da Oscar 75° Golden Globe Awards 54 Ombra Diva 56 Alice senza tempo 58

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L’arte in Italia Sotto i tigli di Berlino Nadezhda De Santis, e altre Fucecchio umbertina Una vita con Leonardo Il ritorno di Ardengo

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SOMMARIO

spettacolo EVENTI economia società COSTUME 59 60 62 65 66 68

Novità editoriali 90° Carnevale d’Autore La tsantsa che ride Andar per borghi toscani Meraviglie toscane Gallia mediterranea

72 74 76 78 79 80 81

83 Business con gli occhi a mandorla Una vita senza pelliccia 84 85 Donne come aiuole. Primavera 1957 Mercato itinerante 86 Invecchiare, come? 88

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Un workshop per progettare Pelle & Design Abitare Traguardi raggiunti Stile ed eleganza Acqua 360 S come Sciarada

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artista

Senza titolo (molti titoli), 1988 olio su tela cm 144x115

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viaggio con

G re p p i L

Nicola Micieli

Portare avanti discorsi o mondi differenti quali Fondali & Vegetazioni, La Pietà, La Natura Ordinaria come se fossi tre diverse persone; il non essere riconoscibile alla prima, è qualcosa che mi ha condizionato nel mercato dell’arte. Io sono andato avanti per la mia strada. Nell’uomo infatti, agiscono in sinergia il cuore, la mente e l’anima, le tre componenti della personalità, secondo la suddivisione classica. Similmente, è sempre stato per me naturale, e mi è parso assolutamente logico e coerente, dipingere partendo e “coprendo” ognuno di quegli ambiti, senza voler per forza parteciparli con schematica rigidità. Pertanto, si può dire che le immagini di Fondali & Vegetazione appartengono alla dimensione animica dell’essere. La Pietà scaturisce dall’essere sociale e politico, ovvero dall’uomo inserito nel suo tempo. La Natura Ordinaria è la mia interlocuzione alla realtà comunicativa delle immagini digitali.

a virtù penetrativa dello sguardo. Vorrei dire la sua discesa nel corpo sottile, al limite impalpabile e in continua mutazione della materia pittorica e della materia fisica simulata nella pittura. Materia attraversata a svelarne per trasparenza radiografica, al filtro della luce che la investe e la imbeve, la rada tessitura, la stratificazione e i depositi. Uno sguardo, quello di Giovanni Greppi, non già analitico e oggettivante, per quanto il processo formatore sia in lui assai puntuale. Segnatamente nell’ambito dell’incisione a colori a più lastre, il mezzo grafico che egli predilige e che usa con modalità operativa squisitamente pittorica per ottenere atmosfere rarefatte, in assenza della pur lieve plasticità degli impasti nei quali consiste il corpo egualmente sensibile dei suoi dipinti. Non mira, lo sguardo di Greppi, alla restituzione otticamente esatta, dunque estraniata sul piano mentale, di strutture sommerse ed evidenze pellicolari del reale fenomenico. Non appartiene alla sua forma grafo-pittorica né la resa lenticolare né la fissità dell’immagine, pur quando demandi, e lo fa di frequente, alla ripresa fotografica propria o altrui il compito di registrare l’imprinting visivo dal quale prenderà avvio la sua ricognizione/ricostruzione del reperto visivo dal vero, spesso ripreso in bianco e nero, nell’immagine poeticamente evocativa rilanciata semanticamente e rigenerata formalmente sempre con interventi rigorosamente manuali. Lo sguardo di Greppi non scorre come specchiandosi sulla superficie da occupare, ma si sofferma a figurare impressioni dal mondo esterno alle quali corrispondono simultanee proiezioni da quello interiore. Presuppone dunque una durata che lo qualifica con una propria identità nell’area della pittura d’immagine italiana, rivelando nei suoi esiti più rarefatti e sospesi, qualche contiguità con le esperienze di quei pittori della durata percettiva e dell’insinuazione ultramondana che Roberto Tassi diceva della Metacosa. Impostato alla posa lunga

Giovanni Greppi 10


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Fondale illuminato, 2011 olio su tela cm 189x271

e alla discesa attraverso la materia, lo sguardo di Greppi non è tentato dall’algido iper-realismo, ma si tiene egualmente estraneo al naturalismo, che peraltro sarebbe spesso giustificato dal soggetto. Con un gioco sapiente di trasparenze Greppi suggerisce un movimento dello sguardo in profondità, nella stratificazione delle trame che si sviluppano nella profondità dello spazio, rendendo in qualche modo intuibile la tridimensionalità in una pittura in apparenza risolta sul piano-superficie. Siffatta discesa nel profondo delle strutture segniche introduce la componente temporale nella percezione dello spazio animato. Siamo con ciò trasportati in un ambito psicodinamico che ricorda gli “stati d’animo” di Boccioni. Il simbolismo è il presupposto, prima che l’obiettivo, della ricerca di Greppi, ossia il movente dell’immersione dello sguardo nella materia vivente, portatrice di sensi e di misteri. È come se l’artista compisse ogni volta una discesa placentare, recuperando la primitiva sintonia con lo spirito universale. Non a caso predilige situazioni visive che rimandano alla fluidità e investono, diremmo, i quattro elementi della fisica di Empedocle, che stabiliscono la continuità metamorfotica tra la terra e il cielo. Greppi ha dipinto con eguale impegno la densità del

magma tellurico e la labilità dell’aria e del fuoco, ma ha dedicato una particolare attenzione alle masse acquoree esplicitamente riconducibili al liquido amniotico o, che è lo stesso, al brodo originario dove è avvenuta l’incubazione della vita. Il concetto di fluidità è da intendersi, pertanto, sia in senso proprio, come rappresentazione di stati della materia per definizione instabili, anzi cangianti e trascorrenti da una condizione all’altra, sia in senso figurato come simulazione, nell’immagine, di un moto che, intrinseco alla struttura formale, si lascia leggere come diagramma di pulsazioni e di fremiti, di ritmi e di concertazioni interiori. Si noterà, a margine del discorso generale, il fatto che Greppi abbia espresso tale assunto sia nella pittura, sia, e forse con maggior pertinenza concettuale, nelle incisioni a colori a più lastre, una tecnica che egli governa magistralmente e con soluzioni stilistiche personali, avendola appresa da Swietlan Kraczyna alla scuola internazionale de Il Bisonte, a Firenze. Nel caso dell’incisione a più matrici, il divenire della forma, dunque il principio rappresentativo del divenire universale, è intrinseco alla successione degli interventi incisori sulle lastre e delle corrispondenti fasi di stampa: si struttura e si complica man mano che si sovrapppongono, con le lastre,

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ulteriori segni e insinuazioni materiche e indizi figurali alla semplificata e diremmo essenziale figura originaria. Le immagini che ne risultano sono una stratificazione visiva che consente perlustrazioni simultanee in profondità e in superficie, alla ricerca di gemme che rendano almeno l’idea del fluire di energia che pervade e sommuove ogni fibra della materia. Non di rado, dunque, Greppi ha visitato stati della natura naturans che sembrano offrirsi come vere e proprie epifanie germinative, fatte di tessiture biomorfe e di variegati paramenti nei quali giocano un ruolo vitale la motilità del segno e la risonanza del colore. Ricordo i fondali marini e le cortine vegetali che hanno contrassegnato l’intera sua prima stagione creativa, maturata sulla scia del naturalismo simbolico di Pont Aven per il tramite della lezione, per Greppi formativa, dell’ultimo Dova. Nonché rappresentarla con una qualche aderenza al dato esterno, Greppi piuttosto si cala nella porzione di mondo prescelta, nella situazione critica indagata, nella scena di ordinaria quotidianità casualmente ripresa, dalla quale di volta in volta si senta attratto direi proprio in quanto intuisce, in essa, un potenziale inespresso di senso e di verità, persino di una bellezza latente che al suo sguardo è specola della


visione, possibile via d’accesso alla dimensione sommersa dell’immaginario. Può essere un brano di natura, appunto, ancora vivibile come originaria, o per meglio dire che tale di fatto appare in virtù della particolare angolazione e incidenza del suo sguardo sovente ravvicinato, che quella particola individua ed estrapola dall’ambiente antropico diffusamente artefatto nel quale essa è come imprigionata, e occorre rivelarla. Può essere l’uomo da Greppi incontrato in presenza corporale, lungo l’intera seconda stagione della sua ricerca riepilogata nell’insegna concettuale e testimoniale de La Pietà. L’uomo con il vario portato materiale e immateriale del suo “status” civile e della sua “fabbrica” pro-

duttrice di beni e di contaminazioni. L’uomo dello spirito e della cultura, dell’arte e dei codici linguistici e normativi, degli slanci ideali ma anche capace, in parallelo, di comportamenti ferini e sempiterne prevaricazioni, di insensatezze e crudeltà nell’esercizio personale e collettivo del potere. Un itinerario doloroso compiuto nel calvario del mondo contemporaneo, sono le stazioni visive, che Greppi chiama appunto “icone del contemporaneo”, registrate sotto l’insegna tematica de La Pietà, le cui tavole incise sono altre dalle liquide o svaporanti o incorporee o fisiologiche o nucleari partiture dei cicli Fondali in acquatinta, Tra le foglie nel fondo e Trasfigurazioni. Mentre ieri svolgeva un ruolo decisivo

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la tipologie dei puri morfemi (nucleari filamentosi striati sgranati pezzati), giocati in molteplice combinazione quantitativa e qualitativa nelle diverse tessiture tenute al limite tra astrazione e natura, oggi prendono campo immagini – o lacerti di immagini – che con analoga logica combinatoria, ma condotta sovrapponendole nella successione di stampa, si contaminano mutuamente e determinano icone di più complessa articolazione, leggibili come una sorta di palinsesto in cui lo stato finale assorbe, ma non annulla gli strati sommersi, le impronte talora appena percepibili delle matrici costitutive. Pietà nella totalità delle accezioni. Pietà per gli oppressi e per gli oppressori, anelli della stessa catena, nodi della

Fondale interno, 2002 olio su tela cm 120x120



Trasmutazione II. Da una seguenza di "Sogni" di Kurosawa, 1997 acrilico su carta di riso sintetica intelata cm 100x180


V, 1997, incisione a più lastre cm 50x65 preparatoria per carta di riso sintetica cm 220x289

stessa rete che oggi collega, intreccia e inesorabilmente lega i destini dei pochi manovratori della gran macchina in cui consiste il villaggio globale, e dei molti che del mostruoso marchingegno non partecipano, e non raccolgono, che i resti della combustione, di cui per aggiunta cinica e beffarda di spoliazione, sono essi stessi la materia prima energetica, se così si può dire parlando di umanità che paga con la moneta terribile del sangue prosciugato lo strapotere delle minoranze ipersviluppate. I suoi elettivi brani di realtà nella presente sua terza stagione Greppi li isola infine dal contesto inquadrandoli come inserti della disattesa “natura ordinaria” o icone della distrazione dello sguardo contemporaneo, per il quale è divenuto irrilevante il nesso tra immagine, senso e bellezza. Attraverso quei reperti visivi, banalmente ripresi per l’avvio del viaggio con il telefonino, come Warhol riprendeva con l’altrettanto banale polaroid i “modelli” dei suoi ritratti in serigrafia, però rilanciati solo per esaltare l’effetto maquillage della superficie pittorica, Greppi compie la sua rivisitazione per filtraggio formale, elevazione stilistica e potenziamento di senso. In tal

modo li sottrae allo schermo giroscopico della nostra visione quotidiana, sul quale scorre rapinosa e fulminea la selva dei messaggi visivi che sono lo specchio più fedele del nostro vivere attuale. Ma quanto affastellarsi, quanto rumore e quanta precipitazione di senso nel flusso delle immagini che ci assediano, ci sfiorano, ci abbandonano senza depositi nella nostra memoria! La ragione degli scarti con i quale anche nella presente sua terza stagione Greppi sottrae alcune di quelle immagini al flusso e le rielabora consegnandole a un mezzo grafico che richiede un lungo e laborioso processo formatore, consiste nel desiderio di leggerle con altri tempi, altra durata percettiva ed esperienza interiore e un diverso registro espressivo, rispetto alla linearità e labilità della comunicazione fluida alla quale andiamo sempre più abituandoci. È una lettura, questa, inevitabilmente proiettiva. Non si dà senza aver assimilato e interiormente elaborato il dato reale originario alla luce della sensibilità dell’artista da esso stimolata e dell’emozione suscitata nel suo animo, per cui è importante rigenerare il filo di quel moto lungo tutto il percorso formatore e nella vibrazione,

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non solo sottotraccia, dell’immagine alla quale infine egli approda. Nella qualità avvertita e partecipe di quello sguardo penetrante che presuppone un viaggio della rivelazione del sommerso attraverso la materia pittorica e i luoghi fisici e metafisici e le situazioni esistenziali e psicologiche che essa mette in scena, ravviserei dunque la soluzione di continuità della ricerca visiva in divenire di Giovanni Greppi, che a far data dallo scorcio degli anni Ottanta, quando può dirsi sostanzialmente acquisita l’identità formale e stilistica del suo linguaggio, può dirsi articolata nelle tre grandi stagioni alle quali abbiamo accennato e che costituiscono un esempio, oggi raramente reperibile, di lavoro concentrato e partecipe in un’arte d’immagine diversamente connotata nel senso della natura, dell’umana condizione e della labilità comunicativa attuale, ma con l’unico obbiettivo di restituire allo sguardo la capacità di scoprire e rivelare, sempre al filtro della sensibilità e del sentimento personale, il senso, la verità, la bellezza delle cose e delle creature che ci accompagnano, del mondo nel quale siamo immersi e nel quale viaggiamo, come un’astronave nello spazio.


dalla serie Natura ordinaria. Caprifoglio, 1994 incisione a piĂš lastre cm 32,5x50 Vortici II, 1994 acquatinta cm 39,5x60

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La Pietà. Icone del contemporaneo, 2000-2004 incisioni a più lastre, misure varie

Giovanni Greppi nasce, come uomo e come artista, in un contesto di grande dinamismo, di contatti internazionali, propizio agli incontri e alle esperienze. A diciotto anni, dopo gli studi in Svizzera, diventa assistente di Giovanni Gastel, uno dei più raffinati e celebri fotografi di moda; tre anni dopo conosce Gianni Dova, nucleare e spazialista, e frequenta il suo atelier milanese dall’84 all’86, esplorando con lui tecniche e fervori dell’arte contemporanea. Nei due anni successivi si sposta a Firenze, dove lavora al restauro di quadri antichi presso un noto laboratorio del mondo antiquario, mentre segue i corsi di incisione presso il famoso studio Il Bisonte, l’unico in Italia dove abbia lavorato ed esposto Pablo Picasso. Allora ha come insegnanti Swietlan Kraczyna e Domenico Viggiano; pochi anni dopo vi figurerà egli stesso come insegnante. Nel ’90/91 si alterna tra Firenze, dove si perfeziona nella fotoincisione con Luis Camnitzer, l’artista uruguayano dal forte impegno civile; New York, dove raccoglie la più ampia documentazione fotografica sulle icone della violenza del nostro mondo, quelle immagini dell’orrore sull’innocente e l’inconsapevole destinate a formare il nucleo del suo lavoro sulla “Pietà”, e il lago di Como, dove tiene corsi di specializzazione e workshop per artisti. A questo si aggiungono, i workshop sull’incisione a colori e la fotoincisione che terrà a Firenze, presso Il Bisonte. Dal ’95 al ’97 lavora soprattutto negli USA, dove organizza numerose mostre a Miami. Le sue opere, nel frattempo, vengono esposte dalle Americhe al Giappone. Nel ’98, una sua mostra in Colombia ottiene ampi onori di cronaca, pur ospitando solo due esemplari di una medesima incisione: i guerriglieri hanno infatti fatto esplodere il camion che trasportava le opere a Bogotà; si salvano solo i due lavori che l’artista ha con sé in aereo. Da questo vortice di vita e di esperienze inizia però a delinearsi una spirale centripeta, una ricerca di interiorizzazione, di concentrazione, che lo porta, nel 2003, a trasferire definitivamente tra i boschi della Toscana casa e laboratorio, da cui porta ancora e sempre avanti la sua ricerca etica e artistica, sui temi ossessionanti dell’ideale e della pietà. Nel 2018 vince il Premio Arco di Traiano di Benevento.

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eclettiche armonie Gabriele de Santis Vittoria Pepi

Palazzo Giustiniani, soffitto affrescato della Sala Zuccari, sede della mostra Betto Lotti, Le mondine, 1952, olio su tela, cm. 57x69 Pablo Picasso, Piccola figura, 1906, tecnica mista su carta, mm. 157x60

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otto il patrocinio del Senato della Repubblica e del Museo Soffici di Poggio a Caiano, è stata inaugurata a Roma in Palazzo Giustiniani la mostra Eclettiche armonie, percorsi figurativi tra rinnovamenti inizio secolo e le nuove frontiere del realismo al tempo della Costituzione. Ideata e curata da Marco Moretti con interventi in catalogo di Emanuele Bardazzi, Costanza Contu e con l’organizzazione della LottiArt di Como, la mostra ripercorre con 40 dipinti, venti opere grafiche tra xilografie, acqueforti e disegni, i primi sei decenni del secolo passato, dalla nascita del dibattito culturale a Firenze con le riviste d’idee “Leonardo” di Giovanni Papini e “La Voce” di Giuseppe Prezzolini, al successivo percorso figurativo tra le due guerre e al realismo sociale degli anni Cinquanta rappresentato in mostra da tematiche del lavoro, omaggio al 70° anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione. Il titolo è stato scelto nella consapevolezza di suggerire i ruoli molteplici svolti da artisti e operatori culturali nel

periodo esaminato, così come intende rispecchiare i compositi stili con i quali, nel corso tumultuoso del ‘900, si è guardato al dato figurativo. Visioni estetiche non disgiunte da istanze etiche, che fino dall’alba del secolo si affacciarono attraverso riviste di dibattito e di pensiero che tracceranno il percorso inquieto della modernità. Oltre ad esporre opere di celebrati maestri, l’evento dà visibilità a pittori meno conosciuti, le cui opere valgono a testimoniare con le loro qualità, la ricchezza nascosta del nostro Novecento. La prima sezione, dedicata alla “Nascita della modernità”, documenta con la rivista “Leonardo” il pensiero di giovani che si affacciavano al secolo con nuove istanze in opposizione alla cultura positivista. Rivista graficamente arricchita dall’opera incisa di Adolfo De Carolis, Armando Spadini, Giovanni Costetti (in mostra il suo famoso dipinto Gianfalco, 1902, ovvero il ritratto di Giovanni Papini), che accolse tra le sue pagine anche legni incisi di Ardengo Soffici, ancora a Parigi dove si era recato nel novembre 1900. L'artista, intendendo il clima di rinnovamento culturale in atto a Firenze, tornerà nel 1907 stabilmente in Italia, entrando nell’entourage de “La Voce” fondata nell’anno successivo da Prezzolini, per la quale l’artista disegnerà il marchio e i caratteri della testata. La mostra espone un disegno acquerellato di Picasso, uno dei tre che l’artista spagnolo donò a Soffici omaggio che sta a significare lo stretto legame di questi con il clima artistico della capitale francese, dove il giovane toscano aveva vissuto per quasi sette anni, prima di stabilirsi nella campagna di Poggio a Caiano nella quale maturerà la disposizione alla pittura di paesaggio. Primo importante risultato in tal senso sarà La raccolta del-

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le olive, 1908, dove si evidenzia come Soffici innesti sulla lezione toscana di Fattori l’apporto luministico e cromatico di Cézanne. La seconda sezione della mostra, che beneficia in catalogo di un approfondito saggio di Emanuele Bardazzi, documenta attraverso venti tra xilografie e acqueforti la scuola d’incisione diretta da Celestino Celestini all’Accademia di Belle Arti di Firenze, nella quale prese


impulso vitale, moderno, la grafica incisa. Risultati che vennero presentati nella Prima Mostra di Bianco e Nero tenuta nell’estate del 1913 a Pistoia in una folta rassegna di acqueforti e xilografie, eterogenee per contenuti, forme ed espressioni, dalle quali si evidenziavano le specifiche personalità di allievi quali Betto Lotti, Francesco Chiappelli, Ferruccio Pasqui e Ottone Rosai, le cui opere figuravano assieme a quelle di maestri come Romeo e Giovanni Costetti, Adolfo De Carolis e dello stesso Celestini. La sezione comprende anche opere coeve come il ritratto di Dino Campana eseguito da Costetti nello stesso 1913, poeta che irruppe nell’ambiente culturale fiorentino coi suoi Canti Orfici, la cui prima edizione1914, censita ad oggi in soli cento undici esemplari (di cui uno in mostra), è pressoché introvabile. Assai interessante è il riavvicinamento tra due opere, L’organista di Betto Lotti e I miei amici della notte di Rosai, tornate a raffronto dopo centoquattro anni dalla mostra fiorentina che i due giovani artisti tennero fra il novembre e il dicembre 1913 in via Cavour, visitata anche dai pittori futuristi che esponevano nella stessa strada. Sopravvenne la guerra, sanguinosa esperienza dalla quale nessuno tornò com’era partito. Rosai ne condenserà i ricordi ne Il libro di un teppista e quindi nelle più amare riflessioni di Dentro la guerra, che malgrado scritte da un pluridecorato e tra i fondatori dei fasci di combattimento, saranno censurate dal regime. Soffici darà alle stampe Kobilek e la Ritirata del Friuli, ammettendo al di là della “giusta causa”, di esserne «uscito un altro uomo», in modo così totale da implicare la revisione dell’arte medesima, non più sostenibile con gli artifici teorici delle avanguardie ma attraverso i fondamentali valori spirituali che si erano rivelati nella promiscuità della trincea e ripensati artisticamente nel cospetto semplice ed eterno della natura. Pensiero condiviso dalla quasi totalità degli artisti non solo italiani,

i quali seppur per vie diverse, opteranno per un ritorno ai "valori plastici", vero e proprio ritorno al mestiere, come invocava de Chirico. Tema su cui s’incentra la terza sezione della mostra, analizzata da un saggio di Marco Moretti che verte sull’arte negli anni Venti e Trenta avente ancora come punto di riferimento Firenze, città scelta quale residenza da artisti di molte parti d’Italia: dal piemontese Felice Carena nominato per chiara fama insegnante di pittura all’Accademia di Belle Arti e poi direttore della stessa, all’anagnino Giovanni Colacicchi; dagli emiliani Costetti e Lega, al lombardo Pietro Annigoni, e tanti altri. A Firenze erano residenti anche molti poeti e scrittori, tra i quali Montale, direttore del Gabinetto Vieusseux, che gravitavano attorno alla casa editrice Vallecchi, ricca d’iniziative editoriali. Una stagione proficua, in cui Firenze rinnovava il ruolo già detenuto dai primi anni del secolo di baricentro culturale tra Milano e Roma, poli che in mostra sono rappresentati da opere di Sironi quali riferimento al movimento Novecento di Margherita Sarfatti, e da un prezioso dipinto di Mario Mafai, ritratto della moglie Antonietta Raphaël, nella cui abitazione di via Cavour nacque il primo sodalizio della cosiddetta Scuola romana. Tra gli artisti di questa sezione, Felice Carena, Ardengo Soffici, Ottone Rosai, Betto Lotti, Lorenzo Viani, Achille Lega, Gianni Vagnetti, Giovanni Colacicchi. La quarta sezione, titolata L’arte della Costituzione: le poetiche del lavoro e le nuove frontiere del realismo, documenta attraverso dodici opere e con un saggio in catalogo di Costanza Contu, le nuove istanze figurative entrate nel dopoguerra in Italia attraverso la libera circolazione delle idee che orientarono molti artisti, perlopiù giovani, verso nuove interpretazioni figurative in parte derivate dal cosiddetto neo cubismo picassiano. Le quali, scomponendo e sovvertendo linee e volumi, dettero nuove dinamicità agli assunti figurativi. Espressività

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che documentando le nascenti istanze sociali si concretizzò nel termine neorealismo. In tale assunto si riconobbero i giovani artisti di sinistra del “Fronte nuovo delle arti”, che sollecitati dai programmi di partito celebravano in tal modo la rinascita del lavoro. Attraverso la loro opera, la sezione documenta con dipinti di Guttuso, Leomporri, Farulli, Cartei, Lotti, Borgonzoni, Pizzinato, Tettamanti ed altri, lo sforzo corale di uomini e donne per restituire a se stessi e al paese la dignità materiale e morale umiliate dalla guerra. Opere qui convenute quale omaggio al primo articolo della Costituzione che pone il lavoro come elemento fondante di diritto e di dignità individuale.

Ottone Rosai, Strada con le case, 1953, olio su tavola, cm. 70x50

Palazzo Giustiniani, Roma, fino al 16 marzo 2018. Chiuso sabato e domenica.

Ardengo Soffici, Casa dell'Alderighi, 1942, olio su tavola, cm. 66,9x48,5

Renato Guttuso, La Magona di Piombino, 1950, olio su tela, cm. 75x100


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in Germania con

Karl-Heinz

Hartmann Oels

da Rotdorn str. n.8 in Berlino a via Corniano n.1 in San Miniato Carlo Frongia

Frongia e Karl-Heinz a Corniano di San Miniato

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lcuni giorni fa, io e Karl, all’improvviso, siamo partiti, col “California” di Federico (Un comodo pulmino della Wolswagen). Allegri, euforici, senza gatti e con una cassetta di buone e ricche leccornie. Il motore? perfetto; e noi? Giù a cantare, a parlare fitto fitto, soprattutto Karl, a descrivermi il paesaggio, tutto, e dal Brennero in su, con millimetrica precisione. Abbiamo visto la neve, tanta, e cenato, noi in disordine, in un elegante e ordinatissimo ristorante austriaco. Cibo abbondante, otti-

mo, ben impiantato, e fresco il boccale di birra. Poi a Monaco, al buio, nel cuore freddo della Baviera, qualcuno infuriato batte/bussa, percuote deciso le lamiere del “California” e ci sveglia. C’è ghiaccio, c’è nebbia, fa freddo ed è scuro. La notte è fonda. Ci fanno uscire all’addiaccio e – spettacolo! – Karl-Heinz si mostra con cinque giacconi e quattro coperte, uno zucchetto, un passamontagna e, sul tutto, un vissuto Borsalino. Ed io? lasciamo stare... È la polizia: controllo antiterrorismo, dicono. Dopo 30 minuti lun-

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ghissimi e siberiani, vista l’età e la situazione di karl-Heinz, ormai rigido e violaceo, ci lasciano andare e noi... noi, disperati, ormai stoccafissati, festeggiamo finendo al freddo – l’acqua, naturalmente, congelata – tutte le nostre provviste... So che così usano fare i ghiri alle tre del mattino. In breve ci ricomponiamo, sistemiamo alla meglio il “California” e via, di nuovo sulle autostrade tedesche, che sono sempre trafficate, ma gratuite. Sempre per in su, verso Berlino, e sempre felici. Il nord si fa più vicino. Muta il


paesaggio e, noto, muta anche il mio compagno Karl. Lui si anima, si arrizza, si attizza, si raddrizza! Cresce anche in statura. Insomma, è più alto di almeno una ventina di centimetri! Entrati poi in Berlino, Karl-Heinz Hartmann Oels si trasfigura, come Cristo sul monte Tabor. Si illumina, i suoi occhi già blu diventano elettrici; la voce si arrotonda e si fa sferica, un rombo ricco di seducenti tinte e toni bassi. Ecce Homo! Ecce l’artista senza età, senza tempo, con la sola grandezza che gli viene dal sentirsi un creatore, un dio. Ed io? Abituato con lui a tante confidenze e anche a qualche discussione più animata, mi scopro affascinato e mi adopero, convinto ma in automatico, senza fare alcuna riflessione, per rendergli tutto più bello e più facile. Ascolto i suoi racconti senza tradire stanchezza, come invece mi capita da noi, a casa in San Miniato. Mi uniformo ai suoi “tempi”, mi dichiaro disposto a depennare tutti i miei impegni – mai mi sono visto così disponibile, gentile e generoso – per essere a sua completa disposizione e trasportarlo ovunque desideri. Eccoci arrivati in Rotdorn str. Riesco a parcheggiare il lungo “California” proprio sotto casa, sede per oltre 70 anni del suo mitico studio/atelier frequentato da grandi spiriti, anche Bertold Brecht tra i tanti. Saliamo scale eleganti, primo tratto addirittura con reed carpet, illuminate e ben curate, per cinque interminabili piani. Circa 122 scalini. Fresco, atletico, allegro, Karl apre, gira la chiave, spinge il portoncino e... emozione grande: quadri, incisioni, abiti anche importanti e libri e dischi e nastri, vinili: una collezione di pizze registrate, di musica nuova, per intenderci, quella difficile e incomprensibile per i più, ma di cui lui è grande conoscitore e direi un ghiotto fruitore. A sera, gli amici berlinesi, quelli rimasti, lo vengono a cercare, lo omaggiano. Si sente, hanno per lui una particolare venerazione. Alcuni sono figli di amici suoi scomparsi da tempo, poeti pittori teatranti scrittori, che riconoscono Karl dai racconti e dagli scritti dei loro genitori, da qualche rara foto. Tutto

ciò mi emoziona, ma il picco della commozione lo raggiungo quando il mio amico decide di fare visita al cimitero del quartiere di Fraidenau. Ecco! Tra i vialetti ben curati e “pettinati” si affollano molti dei suoi compagni antichi. Non è per niente facile, ma Karl, noncurante della mia evidente insofferenza, li scova uno ad uno, uno ad uno li saluta e di ognuno mi disegna e mi regala un tratto, per ognuno ha un pensiero intenso, silente e raccolto, lui laico. Tra le siepi e tra i morti ci commuoviamo. I becchini/giardinieri ci osservano, immobili, appoggiati a rastrelli e pale strane, di fabbricazione tedesca. Sono partecipi, hanno guidato attivamente la nostra ricerca. C’è anche l’empolese Ferruccio Busoni, musicista, con stele monumentale in via di restauro. Anche per lui un fiore, un pensiero. Salute e saluti a tutti voi che qui riposate, amici di Karl, ragazzi, artisti! Noi, cantando Lili Marlen, ripreso il “California“, usciamo da Berlino per tornare a casa. Karl non dorme, accanto a me continua a raccontare: ha cominciato a raccontare un difficilissimo suo compendio sull’ecologia, sull’esplosione del metano, pertanto sulla fine del pianeta. Seguo con attenzione, del resto non mi è consentito chiudere gli occhi. In breve, eccoci di nuovo a Cor-

niano. È ancora buio, ma la solita colonia di gatti odorosi, in formazione sparsa ci vengono incontro: è rientrato il re, e ci miagolano festanti. Karl, il tedesco, si riprende e si restituisce al Karl sanminiatese. In un baleno!

Lo studio di Berlino

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ARTISTI DI

casaconcia Ponte a Egola

Casaconcia di Ponte a Egola si è tenuta, a cura di Carlo Frongia, la mostra personale di Karl-Heinz Hartmann Oels, artista tedesco da anni residente in Corniano di San Miniato. «Il pensiero di Karl-Heinz Hartmann Oels – scrive Frongia – rimanda a fatti e luoghi lontani, che si dilatano nella sua memoria e nella sua vicenda anche drammatica, a tratti “feroce”. Emozioni raccontate con precisione, temi appena accennati o scarnificati fino a vederne uscire il sangue. La sua narrazione si impasta nel clima crepuscolare, livido, dissonante dell’ultimo tragico dopoguerra a Berlino, dove un’attonita depressione lottava con la “voglia di volare”, superare recinti e abbattere i muri, poi, invece, costruiti. Nelle sue tavole Hartmann Oels raggiunge un equilibro, precario e pur definitivo, di forme e colori; si diverte a rimescolare gli addendi, a mutare gli scenari che possono favorire soluzioni nuove, insperate. Il suo orecchio, assetato, si spalanca per ascoltare sciamani e oracoli sussurranti, incrociati lontano, lungo il cammino e tra le ingarbugliate processioni della sua vasta vita di viaggi.» Ai convenuti all’inaugurazione Hartmann ha detto: «siete venuti per vedere i miei lavori, non per “farvi vedere”. Di questo vi sono grato. Siete spiriti motivati e spinti, o beata rarità, dall’amore per l’arte. Quell’arte che ha animato, determinato, colorato tutta la mia vita. Io sono stato una vittima dell’arte. Da anni non esponevo i miei dipinti, le mie “anime”. Da più di 25 anni, credo, mi sono ritirato; anzi, ci siamo ritirati in buon ordine, io e Rosemarie: una scelta claustrale, dolce e ben protetta tra le zolle delle campagne di San Miniato. Abbiamo continuato a sperimentare, sempre a lavorare, sì, ma lei per me ed io per lei. Ci alternavamo alla guida del pesante torchio, producendo chilogrammi di idee e pensieri, senza mai disperderli nell’ambiente: risme di disegni e incisio-

ni, le mie e quelle di Rosemarie, ancora adesso serenamente assopite, rispettate anche dai gatti, accatastate in bell’ordine (uniche anime a godere di

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un certo ordine nell’eterno caos del mio laboratorio). Abbiamo resistito alle numerose, a volte anche intriganti sirene che il signor Mercato ci presentava. Insomma, siamo entrati in sciopero, per opporci con convinzione a tutte le degenerazioni, visibili ed invisibili, che hanno incartato e condizionano il mondo dell’arte. A Mantova, anni fa, ad un signore proposi un test, per gioco: avremmo dovuto indicare l’opera più bella esposta in quella sala. Egli si disse incompetente, quindi indeciso a scegliere. Lo invitai a non indugiare e ad affidarsi al suo spirito... Fu felice oltremisura quando seppe che l’opera da lui indicata risultò essere proprio quella preferita anche da me “presumibilmente esperto”. Così deve succedere: l’arte è emozione, è stupore. Non può venire inscatolata e mercificata, non ubbidisce a regolamenti e norme delle camere di commercio, non ricerca competenze né verità assolute; regala invece, sempre, emozioni, dubbi e interrogativi.»



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Pietre figurate

e altre minime storie

Roberto Giovannelli

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a tavola prospettica della Villa di Bellavista, incisa da un raffinato disegno di Giuseppe Zocchi, impressa a Firenze nel 1744 da Giuseppe Allegrini per la serie delle Vedute delle ville e d’altri luoghi della Toscana, replicata nell’edizione di Bollchard nel 1757, ci offre una nitida visione di quella che fu la dimora dei marchesi Feroni, edificata tra Sei e Settecento nel cuore della Valdinievole presso Borgo a Buggiano su progetto di Anton Maria Ferri. In una luminosa ora di mezzo mattino una carrozza a “bateau” o calèche da gala a sei cavalli sta per lasciare l’ingresso del superbo palazzo, ove contrapposte su alti plinti, giganteggiano le statue in travertino di Cerere e di Pomona, per immettersi nella strada maestra in direzione del monastero di Santa Maria in Selva e del vicino paese. Nell’aureo cocchio un’elegante dama, affiancata a un giovane signore, dispiega leggiadramente un ventaglio, mentre a cassetta il guidatore dalla schioccante frusta è assistito al passag-

gio da palafrenieri in livrea, e scorta di lacchè. Presso le lapidee, prosperose dive, protettrici dell’Agricoltura e della vita campestre, ai piedi delle quali gorgoglianti fontane riversano, in pile e nicchie, l’acqua del torrentello di Capofico, varie figure s’intrattengono come non curanti della coreografica uscita. A sinistra, seguita da un cagnolino, vedi un’ortolana recante in capo un ricolmo cesto di frutta, mentre due bambine giocano in compagnia di due giovinette adagiate sul prato, intente a scegliere i pomi e i fiori tratti da un vicino canestro. Sull’altro lato un uomo si toglie il cappello in deferente saluto verso l’illustre carovana (ed è l’unica figura in scena che sembra porvi attenzione), invece un suo compagno, indifferente all’evento, si china girando le spalle per bere alla fontana lì appresso.1 In codesta virtuale terra d’Arcadia sembrano risuonare dai poderi vicini (45 ne contava la villa), dalle vigne e dal

mulino, le voci dei coloni all’opre, e nell’aria credi di ritrovare i volti di coloro che il satirico Paolo Francesco Carli da Monsummano,2 ospite dei Feroni a Bellavista, ove trascorse «gran parte della sua vita» tra facezie e ameni studi di lingua toscana, chiamò a raccolta nella Svinatura. Egli compose quel ditirambo sotto il nome di “Barbugi Mezzabarba” in burla al supponente prete Giovan Paolo Lucardesi, locale maestro di Belle Lettere, che in un suo Sonetto aveva bizzarramente coniato un «Cristo crocefisso e trino», guadagnandosi in virtù di quell’eroica uscita il soprannome di “Bietolone”. Cantava quindi il Carli in rusticale poesia, di un certo «Compar Menghino Gran Contadino», che usava far feste e simposi ai quali, pur non chiamato, in mezzo ad allegre, notturne brigate, s’introduceva il saccente prete al tempo della svinatura per tracannare a sbafo «il buon liquor di Bacco» e divorare intingoli e stufati. E poi (come avvenne una volta memorabile) passar da sguaiato zimbello, novello Dioniso in giaccone verde e turchino in groppa a un asino, fino a cacciarsi brillo a capofitto in un pagliaio da cui, fra burle e lazzi, fu tratto dai festaioli, suoi involontari compagni: Venner poi Lello, Drea, Meo, Gosto, e Nencio, Nanni con Bobbi, Mon, Nardo e Batino, Maso, Pippo, e Ciapino, E Bista, e Goro, e Betto, e Geppe, e Cencio, Insieme con molt’altri Veloci arditi e scaltri: E sopragiunser pur la Cia, la Sandra, La Lena, la Cassandra, La Menica, La Piera, La Crezia, la Catera,

Giuseppe Zocchi, 1757, veduta della Villa di Bellavista presso Borgo a Buggiano, incisione calcografica, collezione M. Lucarelli, Pistoia Roberto Giovannelli, 2018, Chimera, studio per concio figurato, gesso misturato su marmo nuvolato, cm 60x60

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E delle donne infin tutta la mandra. Chi pigliò Bietolon per una coscia, Chi per un braccio, e chi per una spalla, Chi per un fianco, insomma ognun facea Quel più, che far potea... E Bietolone: Se non mi date ber sto per morire. Però quella fu una terra solo apparentemente gioiosa o d’Arcadia, che vide molti dei suoi fruttiferi poderi dai nomi singolari come Rotaccia, Gentile, Giglio, Sega, Pantera, Falcone, Ragnaja, Giardino, Albinatico…, rimanere incolti o, in gran parte, inondati a causa delle insidiose acque del Padule.3 Il corteo che sfila nella nostra stampa è ancora assai lontano dall’avvertire il vento rivoluzionario che spirerà dalla Francia, e lontano è il giacobinismo dei borghigiani, foriero d’incerto subbuglio popolare, e soprattutto d’inconfessabili invidie, delazioni e vendette private, come s’intuì quando, all’alba del 2 ottobre 1796, una manina anonima attaccò alla loggia del Mercato paesano una scritta, composta con lettere ritagliate da varie stampe incollate su un foglio, che diceva: O ricchi Borghigiani guardatevi no da francesi ma da’ paesani perché perché. E poi non tutti considereranno salutare il liberatore vento d’Oltralpe, un vento che certo non piacque a quel giovane valdinievolino, ricordato come “il monco della Puccia”, che con un colpo d’accetta si tagliò una mano per non servire sotto le bandiere francesi. Alle statue di Cerere e di Pomona seguono, in fuga verso la semicurva facciata della villa, intercalate da grandi vasi in terra cotta con riccioli e sirene bicaudate in rilievo (vicine ai disegni e Capricci di Stefano della Bella), altre statue raffiguranti le quattro stagioni (La Primavera, ultima a sinistra, sostituita in un tempo imprecisato con La

Giustizia), scolpite tutte da Gioacchino Fortini nei primi anni del Settecento. Passeggiando intorno alla villa, noto come i quattro padiglioni dalle frastagliate pietre angolari, raccordate nel giro dell’aggettante ballatoio all’altezza del piano nobile, conferiscano all’edificio un sembiante di castello o d’ingentilita fortezza. Un carattere il cui fascino è accentuato da alcuni inserti figurati, sbalzati qua e là nelle conce d’arenaria, come fossero scolpiti, forse furtivamente o per gioco, da un estroso lapicida che lasciò liberi l’occhio e la mano di correr dietro le similitudini di cose e forme animali via via suggerite dalle rudezze e dai chiaroscuri della nascente sbozzatura. Un picchiapietre forse non immemore dei repertori di simboli e di esseri fantastici che ornano le pareti esterne della vicina pieve di San Gennaro o della chiesa di Castelvecchio in Valleriana, autore di un gioco che potrebbe farsi anche più sottile, quale segno di una gergale emblematica, evocativa della natura, degli umori e forse dei misteri dell’ambiente circostante. Nel primo ordine di pietrame, incastrato negli angoli dei padiglioni del palazzo, vedi alcune conce sbozzate con motivi di nuvole affastellate, altre simili a una ruvida scorza di pino o a squame cerulee di draghi o d’altri fantastici animali. In un concio della torre a destra della facciata, indovini le forme di una ruota a stella, congiunta a una sorta di falce o a una rovescia lama di vomere. Un bozzo più sotto puoi trovare una freccia massicciamente squadrata, contrapposta a un adunco becco aquilino. Più spiccate sono le figure ricavate nel padiglione di ponente ove, un accigliato mascherone dalle gote rigonfie, come fosse una nuvola gravida di grandine e di tempesta, ci schernisce dall’alto con una linguaccia. Due bugne più in basso un luccio enorme addenta un govonchiello di padule, mentre, più in basso ancora, una solitaria anguilla s’inviluppa nel limaccio. Ma puoi cercare in altri conci del castello anche foglie di vite o di felce, e petali pietrificati di fiori; e

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ancora trovare uno snodato saettone, una solitaria testuggine, o, come fosse un “grillo” o demone o un embrione di Chimera sfuggito a un repertorio gotico, un pesce con gambe e testa d’uccello.

Concio figurato, “Luccio”, Villa di Bellavista presso Borgo a Buggiano

Questa nota è in parte apparsa in R. Giovannelli, Piccolo viaggio al centro della Toscana, Pistoia, 2004. Ringrazio Francesco Bertini per la collaborazione concernente le immagini fotografiche.

Roberto Giovannelli, 2018, Chimera, studio per concio figurato, grafite e pigmento rosso cadmio su carta, cm 50x35

Concio figurato, “Testuggine”, Villa di Bellavista presso Borgo a Buggiano

Concio figurato, “Ruota e vomere”, Villa di Bellavista presso Borgo a Buggiano

(Endnotes) 1 In una precedente, rara versione, anche l’uomo che qui si toglie il cappello è, come il suo compare, effigiato di spalle. 2 Il Carli, tradizionalmente creduto nativo di Montecarlo in Valdinievole, dove egli aveva fondato l’Accademia dei Rassicurati, nacque a Monsummano il 10 novembre 1652, e vi morì il 7 maggio 1725. 3 Vedi Osservazioni intorno alla palude di Fucecchio, Lucca, per Sebastiano Domenico Cappari, 1721.


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Museo di Doccia da collezione aziendale a bene pubblico

Domenico Savini

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Sesto Fiorentino, nelle sale del Museo di Doccia, sono esposti gli esemplari delle porcellane più antiche databili ai primissimi anni di attività della manifattura, cioè dal 1737-1740, fino ai pezzi più recenti prodotti nel Novecento, quando fu direttore artistico l’architetto e designer Gio Ponti. Fra le opere più importanti della collezione citiamo senz’altro la replica in scala al vero della Venere de’ Medici, il celebre marmo degli Uffizi. È alta 130 cm, dimensioni eccezionali per la porcellana, una vera follia dal punto di vista tecnico. Solo Meissen produsse statue di

grandezza paragonabile. Preziosa anche una coppia di imponenti orci in maiolica disegnati da Gio Ponti per l’Esposizione di Arti Decorative di Parigi del 1925. Sono interamente rivestiti con architetture e figure di ispirazione antica, decori raffinatissimi e al tempo stesso ironici, che Ponti ha intitolato La conversazione classica e La casa degli efebi. Due pezzi unici che qualsiasi grande museo sarebbe orgoglioso di avere nella propria collezione. «Amo molto — spiega Oliva Rucellai, storica dell’arte e vicepresidente degli Amici di Doccia — anche una

Gio Ponti per Società Ceramica Richard-Ginori, Vasi Funérailles de Thais, Fantini, Nautica, 1925-1930 Museo Richard-Ginori della Manifattura di Doccia, Sesto Fiorentino

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serie di prototipi realizzati nel 1990 su disegno di nove grandi nomi del design italiano. Il mio preferito è il servizio da tè di Enzo Mari, per il modo in cui rivela la traslucentezza della porcellana. Peccato che non sia mai entrato in produzione». Sia la collezione che l’edificio del Museo sono sottoposti a vincolo da parte del Ministero dei Beni Culturali perché considerati di eccezionale interesse storico e artistico. In virtù della notifica ministeriale la collezione può essere alienata solo come insieme indivisibile ed è vincolata all’edificio che la ospita: non può, cioè, essere spostata dalla sua sede se non per esposizioni temporanee. Gli Amici di Doccia (www.amicididoccia.it) piccola associazione nata nel 2003 per promuovere e diffondere la conoscenza della storia della manifattura, si è mossa nella convinzione che l’attuale crisi del Museo, chiuso dal 2014 in seguito al fallimento dell’azienda, possa essere un’opportunità per voltare pagina e rifondare un’istituzione che, anche prima della chiusura, reclamava un profondo rinnovamento e soffriva per l’instabilità della proprietà. Promuovendo il dialogo fra istituzioni e soggetti privati, gli Amici di Doccia hanno lavorato per individuare una soluzione concreta per il nuovo assetto del Museo. In parallelo, per preservare le raccolte più esposte al deterioramento, l’Archivio storico del Museo è stato trasferito presso l’Archivio di Stato di Firenze, mentre un nucleo di 80 modelli in cera (che rischiava di andare perduto per sempre) ha trovato temporanea sistemazione in un


ambiente climatizzato all’interno dello stabilimento Richard-Ginori. L’acquisizione da parte dello Stato, ufficialmente avvenuta nel dicembre del 2017, è un passaggio cruciale perché, conferendo al Museo lo stato giuridico di bene culturale pubblico, permetterà a chi in futuro ne sosterrà l’attività di godere dei be-

nefici fiscali dell’Art Bonus. Concluso l’accordo di valorizzazione fra MiBACT, Regione Toscana e Comune di Sesto Fiorentino, la sua gestione sarà affidata a una fondazione mista pubblico-privata. Il sostegno di enti pubblici e privati, così come di singoli cittadini, diverrà più che mai essenziale per la sua esistenza. Per questo Giorgiana Corsini e Neri Torrigiani, organizzatori di Artigianato e Palazzo, hanno pensato di dedicare l’edizione 2018 della loro seguitissima manifestazione al sostegno del Museo. Non solo il ricavato degli ingressi sarà devoluto all’Associazione Amici di Doccia che lo destinerà al Museo, ma chi lo vorrà potrà contribuire con ulteriori versamenti attraverso uno sportello digitale installato nel giardino Corsini nei giorni della mostra (17-20 maggio). Donazioni potranno essere raccolte fin dal 3 aprile anche nei punti vendita Unicoop Firenze in cambio di un biglietto per accedere ad Artigianato e Palazzo. Infine, durante la mostra, saranno messi in vendita 20 pezzi unici in porcellana

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e cemento realizzati per l’occasione dal designer fiorentino Duccio Maria Gambi. Nota biografica Oliva Rucellai Nata a Milano dove è cresciuta e ha studiato, si trasferisce a Firenze per motivi di ricerca e si appassiona alla storia della ceramica. Dopo alcune esperienze nel Regno Unito torna a Firenze e nel 2002 comincia a lavorare come conservatrice del Museo Richard-Ginori della Manifattura di Doccia di Sesto Fiorentino fino alla chiusura avvenuta nel maggio 2014. Da allora svolge attività di ricercatrice freelance e si occupa dell'Associazione Amici di Doccia.

Manifattura Ginori, Vasi da pot-pourri, 1790-1810 Società Ceramica RichardGinori, Vaso con iris, 1902 circa


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Domenico Difilippo Pagine e Memorie di un Racconto Intimo

Michele Fuoco

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na contaminazione tra arte e vita avverano i recenti lavori che Domenico Difilippo nutre di oggetti sottratti al buio, ai luoghi dell’oblìo, recuperando storie e memorie. È l’artista a testimoniare la loro importanza all’interno di racconti fatti di cose raccolte in tempi e luoghi diversi e custoditi, quasi come “reliquie”, in cantina e in granaio. Sulle pagine bianche (circa 70) non scritture ma fiori di ficus, di papiro, foglie di noci, di magnolie, di pannocchie di granoturco, di alberi tropicali o di zone marine, conchiglie e altri reperti del mare, ma anche chiodi, catenacci, il lucchetto del nonno, una lima del padre falegname, pezzi di ceramica, di legni che si offrono come segni decisivi di distinzione per raccontare il cammino temporale dell’artista in una trama di ricordi, di gioie del vissuto, nella riscoperta del privato e del mondo semplice degli affetti. È come fondere le esigenze dell’arte con la propria esi-

stenza, con un bisogno conoscitivo che dà significato alle piccole cose, ricomposte con un operare esperto e consapevole, invitandoci allo spettacolo di ciò di meraviglioso e

Presso la Galleria Arianna Sartori Arte & Object Design si è tenuta la personale di Domenico Difilippo, caposcuola e fondatore della corrente artistica “Astrattismo Magico”, lanciato con apposito manifesto e mostra personale in Germania, a Brema il 10 maggio del 1991. La stessa, dopo la sede tedesca è stata riproposta in anteprima per l’Italia a Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Mentre nella personale alla Galleria d’Arte & Object Design, sono state presentate opere inedite recenti di piccolo formato, ma intensamente intrise di grande forza espressiva, come fossero pagine di un diario interiore dal titolo: “Pagine e Memorie di un Racconto Intimo” realizzate tra il 2015 e 2016.

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di strano ogni frammento custodisce. Presenze elementari di natura e “objets trouvés” dialogano spesso con una icona particolare a forma di mandorla, di petalo, di canoa, dai


colori vegetali, che ha costituito la cifra dominante in molti suoi codici e manoscritti. Stabiliscono un sistema di rapporti, con possibili incontri e seduzioni, con brandelli di realtà, nobilitati da foglie d’oro e d’argento, e pure con cristalli spesso azzurri, per istituire una diversa armonia e recuperare l’idea di purezza, di elevazione estetica e persino spirituale. La struttura compositiva, sempre rigorosa, ci parla di un particolare legame dell’artista con quegli oggetti che diventano incarnazioni di esperienze che l’opera sa mantenere ancora in vita. Alla poca distanza sul piano visivo che Domenico stabilisce sul foglio tra le cose materiche per organizzare l’immagine, corrisponde una lunga distanza temporale di memorie che le stesse cose trattengono in una diversa e intrigante dimensione di rivelazione. Nell’assunzione di un linguaggio essenziale, di minuziosa elaborazione formale, si configura un sistema di componenti polimaterici, con continue variazioni di immagini, di azzardo incomparabile, che mantengono

la valenza di disincantata visione della realtà. C’è qualcosa di nuovo e inatteso in questi candidi fogli che costituiscono lo spazio libero in cui i frammenti trovano articolazioni, di continua variazione, in una trama di ricordi, di echi, di allusioni e rimandi. Così la ricerca di Difilippo muove in direzione di una singolare forma di reinvenzione della pagina, dove la narrazione non avviene con la parola, il modello verbale, ma attraverso particolari di forza plastica e di pienezza sensoriale che consentono l’incontro tra pensiero e immaginazione, sostenendo la creazione dell’opera come campo di tutte le possibili analisi, di tutti i recuperi anche affettivi e culturali, capace di accogliere ciò che echeggia in tono misterioso persino in elementi di terre lontane (Sardegna, Trentino, Abruzzo, Sicilia, Spagna, Messico...). Difilippo lavora su frammenti anche di sensi arcani e di significati simbolici che non danno vita a forme chiuse ma ad un sistema di relazioni, di corrispondenze con la sua storia di artista.

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“C’è qualcosa che va oltre a un lavoro eseguito a regola d’arte... ci sono la dedizione al risultato e il piacere del compimento...”


L’arte in italia

I MERCANTI, L’IMPERATORE E GLI ARTISTI 17 novembre 2017 31 ottobre 2018 BOLZANO Museo Mercantile

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viluppo artistico, economico, sociale di Bolzano setacciato attraverso una bella mostra allestita nello scenografico Museo Mercantile. Il settecento illuminato diffonde idee avveniristiche nel nascente centralismo nazionalistico europeo, così Maria Teresa d’Austria ed il figlio Giuseppe II diventano artefici di riforme coinvolgenti la stessa politica doganale, che porta comunque all’inasprimento daziale delle fiere bolzanine. Una serratissima trattativa del Magistrato Mercantile con gli Asburgo ne interrompe fortunatamente l’attuazione. In omaggio al vittorioso risultato, vengono commissionate pregevoli opere artistiche, sentito ringraziamento all’imperatore ma anche a quanti resero possibile l’importante risultato. Nel percorso espositivo primeggiano documenti coevi, un disco da bersaglio, incisioni, ritratti, pregevoli dipinti allegorici di Carl Henrici.

IL RINASCIMENTO DI GAUDENZIO FERRARI 23 marzo 2018 1 luglio 2018

Teodoro Wolf Ferrari La modernità del paesaggio 2 febbraio 2018 24 giugno 2018

Varallo Sesia, Pinacoteca e Sacro Monte Vercelli, l’Arca Novara, Castello

Conegliano Palazzo Sarcinelli

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nnoverato dai contemporanei quale luminare nell’arte cinquecentesca, la mostra ne decanta meritata nomea coinvolgendo città, chiese, edifici piemontesi abbelliti dal maestro. Le sue opere trasudano immediatezza narrativa, conoscenza compositiva, armoniche cromie, scenografie maestose. Supportato dal valido catalogo, ricco in documentazione, il riuscitissimo percorso espositivo racconta, con dovizia cronologica ed informativa, la crescita artistica dagli esordi presso Varallo alla conversione manierista in età matura che trova supporto nei pittori formati sulla lezione gaudenziana e fonti ispirative, grazie a capolavori chiamati Sposalizio mistico di Santa Caterina, Annunciazione e Madonna del latte, Madonna col Bambino, Sant'Anna, angeli musicanti e i donatori.

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ributo al poeta del paesaggio, la mostra coneglianese incanta il visitatore grazie alle oniriche vedute collinari tra Asolo e Conegliano sino a sconfinare sul Grappa. Dipinti, acquerelli, vetrate, pannelli decorati, cartoline raccontano un grandissimo amore col territorio veneto, esternato attraverso sperimentazioni e tecniche avanguardiste dall’evidente spessore culturale. Come i pittori impressionisti, immortala questi luoghi in condizioni climatiche ed angolari variegate, quasi a dimostrarne l’artistica mutevolezza. E sono i colori caldi, talvolta freddi, stesi con precisione oppure pennellati di tocco a rendere scenografici quei paesaggi tanto amati da Wolf Ferrari nell’età matura. Infatti la sua pittura diviene pacata, emotiva, intima, ma sempre energica nelle nuances, catapultando il suo operato paesaggistico nella dimensione animistica della memoria.

I COSTUMI DI UNA REGINA DA OSCAR 11 febbraio - 28 maggio 2018

PRATO

Museo del Tessuto

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ophia Coppola col celebre film Marie Antoinette invitato gradito al museo pratese, che ne ospita alcuni sontuosi costumi realizzati dal Premio Oscar Milena Canonero. Unanimamente riconosciuti dalla critica internazionale quale migliore reinterpretazione cinematografica dell’abbigliamento settecentesco, i favolosi costumi trovano dimora nella sala Mostre Temporanee, progetto realizzato grazie al supporto della sartoria cinematografica romana The One. Esposte su una voluminosa pedana, venti scenografiche toilette raccontano la moda a Versailles attraverso il gusto di una regina che, dell’abbigliamento, fece il suo segno distintivo. Supportata da Estra, holding toscana specializzata in vendita di energia, la mostra trova completamento ne Il Capriccio e la Ragione, già in essere con creazioni autentiche, narranti come si sono evoluti stile e moda nel Settecento.

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Carmelo De Luca

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DA CORREGGIO A GUERCINO 17 febbraio 2018 13 maggio 2018 MODENA Galleria Estense SUED Srl - Tel 0571 38831 - Fax 0571 34166 - www.sued.it - info@sued.it Via Marco Polo, 11 - SANTA CROCE SULL’ARNO (Pisa) - ARZIGNANO - SOLOFRA

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affinate meraviglie su carta, i disegni di Correggio, Lelio Orsi, Ludovico, Annibale e Agostino Carracci, Scarsellino, Guido Reni, Guercino risplendono in bellezza artistica presso l’arcinota Galleria

RAFFAELLO E L’ECO DEL MITO 27 gennaio 2018 6 MAGGIO 2018

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Bergamo Accademia Carrara

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apolavoro giovanile mirabilissimo, San Sebastiano rappresenta il fulcro attrattivo della mostra bergamasca, improntata su tale

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Estense. Figurazioni preparatorie e studi di fantasia raccontano una delicata bellezza compositiva, la cui meritata nomea creativa raggiunta dalla scuola emiliana trova lustro nel museo anche attraverso dipinti squisitissimi, dando modo al visitatore di carpire stili, misteri, metodi compositivi nella pittura manierista e barocca del territorio. Una secolare passione per il bello artistico contraddistingue gli arcinoti duchi; ne sono prova delicate opere grafiche già presenti presso il medievale castello ferrarese. Nel Seicento, grazie ad Alfonso IV, l’architettonico palazzo ducale si arricchisce in dipinti, sculture, antichità e, soprattutto, disegni dalla fattura eccezionale: gli inventari ne stimano ben 2840. Come la storia insegna, molti capolavori prenderanno residenza in Francia a causa delle spoliazioni napoleoniche ma, fortunatamente, altri tesori sono tuttora custoditi nei depositi estensi che, per la mostra, presentano eleganti disegni dei celebri maestri emiliani. Guida, iniziative didattiche ed un bel catalogo completano il percorso espositivo. tematica iconografica con sfondo paesaggistico, raccontante formazione, attività, successo del grande Raffaello. Nel bel dipinto, il dolore della freccia assurge a pace assoluta, bypassando ogni pena umana attraverso la comunione con Gesù. Provenienti da importanti istituzioni museali, oltre venti capolavori conversano idealmente con illustri artisti coevi e non solo, riuscita ricostruzione culturale di quel mito urbinate senza tempo, non a caso le sale espositive rammentano il prolifico ambiente formativo e di crescita culturale legato a Perugino, Pintoricchio, Signorelli, Memling, Berruguete, con riuscito salto temporale nell’arte raffaellita d’après tra XIX e XXI secolo. Se l’Ottocento ha plasmato artisti ammaliati dal Sanzio, prova ne sono in mostra i dipinti ispirati alla celebre Fornarina, in prestito dal romano Palazzo Barberini, Giorgio De Chirico e la sua onirica magia classica, figurazioni celebrative tanto amate da Carlo Maria Mariani, interiorità plenaria di Ettore Spalletti, Giulio Paolini con un inedito San Sebastiano raccontano una personale crescita artistica forgiatasi sull’operato creativo di un artista universale.


NASCITA DI UNA NAZIONE 16 marzo 2018 22 luglio 2018 FIRENZE Palazzo Strozzi

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cavallo tra anni Cinquanta e contestazione sessantottina, l’arte italica prolifica in fermento culturale cimentandosi nell’emblematico Informalismo, che velocissimamente

la trottola e il robot 11 novembre 2017 22 aprile 2018 PONTEDERA Palazzo Pretorio

di Silvia Pierini

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’esposizione nasce intorno ad una prestigiosa collezione di giocattoli d’epoca di proprietà del Comune di Roma, presentando insieme agli antichi balocchi circa 110 opere di artisti italiani attivi tra il 1860 e il 1980. Tra i grandi capolavori: Balla, De Chirico, Savinio, Cambellotti, Lloyd, Levi, Zandomeneghi, , Casorati, Mafai. Altri artisti quali Muzzioli, Corcos, Boccioni, Müller, Erba, Magri, Sartorio,

coinvolge Pop Art, Arte Povera, Concettualismo. Renato Guttuso, Lucio Fontana, Alberto Burri, Emilio Vedova, Enrico Castellani, Piero Manzoni, Mario Schifano, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto personificano questa magnifica meteora intellettuale presente in mostra con opere selezionate, narrazione entusiasmante dell’Italia repubblicana scrutata da grandi maestri che, in un certo senso, assoggettano l’arte all’impegno politico nella ritrovata identità nazionale dopo la funesta esperienza fascista, forza innovatrice in un paese proiettato nel miracolo economico. Un ventennio prolifico produce linguaggi nuovi, materie, forme che trovano nella cronaca quotidiana materia fonte d’ispirazione, così l’arte italiana si amalgama con lo sviluppo italiano facendo assurgere cambiamenti sociali, politica, costume a fonte di ispirazione. La mostra trova degna apertura nel dialogo tra videoproiezioni ricostruenti la storia nazionale sino al 68 e Renato Guttuso, politico ortodosso nel dominante neorealismo propagandistico, con La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio, per concludersi negli anni 70 dominati dalla polemica politica degenerata in lotta armata.

Capogrossi, Gentilini, Depero, Casorati, Natali e altri grandi nomi. La trottola e il robot mette infatti a confronto due aspetti della creatività legati all’infanzia: quello che si traduce negli oggetti concreti, i giocattoli, creati un tempo dagli artigiani e poi dall’industria e quello che rappresenta e interpreta il gioco infantile nelle arti figurative e plastiche italiane, dalla fine del XIX secolo alla seconda metà del XX. Del resto, parliamo di due universi separati, che hanno trovato modo di rispecchiarsi gli uni (i giocattoli) nelle altre (le opere d’arte) e il lungo racconto di figure ed oggetti che si snoda nelle sale espositive di Palazzo Pretorio. La mostra offre inoltre differenti o integrati punti di vista un osservatorio inedito e suggestivo sui mutamenti della società italiana nel corso dei decenni. Le opere degli artisti italiani che hanno prediletto il tema dell’infanzia, dialogano intorno ad alcuni temi chiave, con nuclei di oggetti ludici, scelti di volta in volta per la loro valenza sociale, didattica, ma anche più latamente simbolica e onirica. E di questi sono messi in evidenza il mutamento formale, l’avvicendarsi dei materiali in uso, il loro attingere ai mutamenti tecnologici in atto.

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eality SOTTOSCRIZIONE ABBONAMENTO

ROMANO MASONI SEgnASTORIE 10 febbraio 8 marzo 2018

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el(...) Su questi scenari, dove un bottone, un carattere scritto, una galla, una piccola freccia, un fumo, una pelle, un nido... sono i suoi pretesti endoscopici, ciascuno con un suono, un doppler reclamante un ruolo, la presenza dell’attore totale, spessissimo si manifesta in una sorta di convocazione a tutte le mutazioni esperibili ed applicabili all’io di Romano che si offre nelle sembianze stesse del suo bestiario. Un bestiario diverso da tutti gli altri, dove il fantastico è il reale senza bisogno di ammiccanti fantasie. Non si può dare del “fratello” a chi non ti somiglia almeno un poco; e il “Rospo” in questi anni è cresciuto applicandosi in questo: Ma non solo lui. Le “Falene”, le “Api”, le “Farfalle” e le “Mosche”, il “Topo” il “Maiale”: un bestiario on the road. Animali tanto collaboranti, che sembra troppo facile dire che Romano è il Rospo o il Maiale che dipinge, più interessante e curioso sarebbe sapere quanto il Rospo e il Maiale si dipingano di nascosto con le intenzioni, di Romano. Come si vede è sempre il gioco dei contrari. Sono qui, no, sono lì. Conosco Romano in questo non sbaglia un’ubicazione. A questo punto abbiamo scenari e attori. La storia che va a rappresentarsi è la parabola della vita, le parabole e tutti i suoi rimbalzi. Alla farfalla il suo cacciatore, al maiale il suo macellatore, al topo la sua trappola, alle mosche le carte appiccicose, a loro,

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a noi, uno destino scritto. Ma non si tratta di un destino definitivo, finale, ma una sorta di morte e resurrezione continua, un’affrancatura simbolica. Tutto sembra previsto, perfino quello che sembra l’inevitabile ultimo appuntamento e che invece ancora nel gioco dei ribaltamenti fa diventare inverso il percorso (il “Monumento morto” rivive...). Insomma avanti e indietro, il replay della vita, scarnificato fotogramma su fotogramma (pellicola su pellicola), un ciclo che si ripete, immutabile nella sostanza, ma non negli atteggiamenti. Quando la storia apparecchiata da Romano sta in pausa, l’ora sarà la stessa che nel mondo reale. Difficilissimo, ma Romano mi sembra orologiaio eccellente. I “cammei”, Romano li affida ora a Rimbaud e la sua gamba, ora a Van Gogh e il suo ombrello, a Gericault e la sua zattera, a Beuys e la sua utopia della cultura democratica: “Importante è che il concetto venga compreso”, a Geronimo, Bunuel, Matisse, Campana..., e poi tutti quei personaggi pasoliniani, che il poeta aveva previsto per questo fine millennio. Sono tutti presenti, rappresentati dalle loro metafore. (...) Sarà difficile concludere. Lo dicevo con i labirinti. Romano dichiara il suo essere “mutante”, aggiungerei, con Jean Améry, filosofo plurisuicida, “morente”; mutante e morente fin dalla nascita, come tutti noi. I due concetti si sposano e si sublimano uno nella conseguenza dell’altro, lasciando però, dell’avventura masoniana, aperta la pagina delle riapparizioni, dove Romano inserisce la rinascita indispensabile alla circolarità degli eventi, che ci consentiranno almeno altri passaggi, un vivere pieno, a più orbite, per contare sulle riprove alle nostre insicurezze, dubbi, elezioni, scelte.


Gianfranco tognarelli incisioni 1970-2017 15 febbraio 2018 16 MARZO 2018 Firenze Fondazione il Bisonte

di Ilario Luperini

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e incisioni di Tognarelli fino a oggi non sono state oggetto della dovuta attenzione, forse perché lui stesso le ha confinate nei cassetti del suo studio, eppur così dovizioso di lastre che rarissimamente hanno visto una qualche tiratura. Questa esposizione, invece, è giustamente a loro dedicata. Bene ha fatto Nicola Micieli, con la consueta sensibilità e competenza, a organizzare l’evento. I temi che Tognarelli affronta sono quelli della consuetudine, ma assai personale è il modo in cui li sviluppa. Innanzi tutto il segno: lieve e insieme profondo, parco e, allo stesso tempo, ricco di evoluti cromatismi, in continua modulazione di varianti. Nei suoi lavori, di piccole o più grandi dimensioni, trascorre una profonda umanità. Tognarelli entra in totale simbiosi con la lastra su cui, con amorevole scrupolo, compone il segno. E, nelle scene che rappresenta, siano esse vedute paesaggistiche o tratti fisiognomici o altro, proietta tutto se stesso, senza riserve o remore. Lo fa con un innato senso dell’equilibrio, alla ricerca di un armonia che è, prima di tutto, interiore.

Osservando le sue prove, sembra di vederlo all’opera: concentrato e attento ai particolari, con la mente e l’anima protese verso i risultati, pronto a variare tempi, morsure, profondità, se il primo tentativo di stampa non lo convince. Nel panorama degli incisori viciniori, si distingue proprio per questo condurre il segno con parsimonia e coerenza stilistica; un segno che già nei primi momenti della creatività nasce carico di equilibrio e di forza costruttiva. Non gli interessa di essere troppo bravo – sono parole sue – ma lo rapisce il desiderio di provare, di sperimentare, di indagare le sottigliezze del lavorio interiore, in cui manualità e intellettualità si integrano a perfezione. Perizia tecnica e spunti creativi sono in perenne relazione, trovando, ogni volta, reciproci arricchimenti. Nelle tavole esposte, si coglie un percorso interno che Micieli ben coglie; non tanto in senso evolutivo, perché l’intensità espressiva è sempre assai alta, quanto nell’ambito di un progressivo processo di analisi e di sintesi che di volta in volta si arricchisce di articolazioni raffinate e convincenti. Proprio per questo, gli esiti formali variano dai toni scuri, in cui la forma prende corpo quasi in bassorilievo, fino a delicatissime e sottili trame in cui predomina l’elegante chiarore della luce. In conclusione, possiamo affermare che in Tognarelli si scopre la rispondenza tra un linguaggio grafico nitido ed essenziale, ma nello stesso tempo allusivo ad ariose e sensibili mutazioni liriche dell’immagine, con un sentimento della realtà fatto di un amore che cresce con la più lucida attenzione analitica.

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Sotto tigli d Berlino tra Sette e Ottocento

musicisti e pittori italiani in Prussia e a Firenze Paola Ircani Menichini La Palazzina dei Servi o Osmond di via G. Capponi, Firenze, foto tratta da: “La Palazzina dei Servi dell’Annunziata. Un restauro dell’Ateneo fiorentino”, Pisa, 2014. Unter den Linden in due epoche. 1) Nell’anno 1820: nel mezzo della stampa la casa n. 17/18. 2) Oggi. Al suo posto si trova un palazzo di appartamenti, con sale appartenenti alla Komischen Opera di Berlino. Le foto sono prese da Das Haus VeronaBlesson, www.luise-berlin.de/ bms/bmstx01/0105deta.htm.

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nter den Linden (Sotto i tigli) è il nome di un bel viale di Berlino ricco di memorie storiche. Come dice il nome, è ornato da queste grosse piante (Linden in tedesco), per molti anni disposte su più file a seconda dei gusti e delle mode, e ora in parte abbattute. Era esteso dal castello fino alla porta della città e dovette la sua decorazione a Federico Guglielmo I di Brandeburgo che desiderava cavalcare sontuosamente fino al parco di caccia del Tiergarten (1647). Fu poi ampliato sotto Federico I e divenne uno dei più importanti assi stradali est-ovest cittadini. Nell’Ottocento presentò eleganti dimore

di artisti, di generali e di diplomatici, rappresentanti di quell’élite tedesca e europea attirata dal mecenatismo e dall’atmosfera culturale che si respirava nella “Atene sulla Sprea”, cioè nella capitale prussiana. Qualche nome per comprenderne il valore: Goethe, che alloggiò al numero 23, Mozart, Beethoven, Schiller, Heine, Bettina von Arnim ammiratrice di Goethe, che visse al numero 25, Schelling al numero 71 … 1. Abitò ed ebbe fortuna a Sotto i Tigli anche un certo numero di artisti italiani, le cui case di proprietà o in affitto furono eleganti e famose, anche se oggi, dopo le vicende belliche della Germania del Novecento, risultano pesantemente trasformate. Al n. 17/18 (l’odierno 43) dimorò il pittore piemontese Bartolomeo Verona

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(1744-1813), che decorò il Königlichen Nationaltheater e fece parte dell’Accademia delle Arti berlinese. Ha oggi una modesta notorietà in Italia e condivide la sorte con altri connazionali qui emigrati, come per esempio lo zio pittore Bernardo Galliari (1707-1794) e Giuseppe Merci Pinetti di Orbetello (1750-1799), prestigiatore e matematico, deceduto in Russia dopo aver servito alla corte dello zar. Fu affittuario dei Verona dal 1794 il musicista – tenore, chitarrista, violonista e compositore – Natale Mussini nato a Bergamo nel 1756 da famiglia benestante di origine modenese e diplomato nel Conservatorio di Napoli. Giunse a Sotto i Tigli dopo aver vissuto in modo avventuroso in Francia (17891792), dove fu in pericolo a causa della Rivoluzione, e a Londra, città nella


quale si esibì per poco tempo come cantante. Trasferitosi poi a Dresda, Kassel e Amburgo, trovò definitiva sistemazione in Prussia grazie a Federico Guglielmo II che lo prese al suo servizio, in qualità di sovrintendente ai regi teatri e maestro di cappella. Morto il re nel 1797, fu nominato maestro di cappella della regina vedova Friederike. Rimase nel regno poco più di una decina di anni. Dal 1808 al 1812 divenne consigliere culturale dello zar Alessandro I in Russia. Dopo l’invasione di Napoleone e dell’Armata francese, ritornò a Berlino. Nei primi anni dell’Ottocento la sua posizione sociale fu confermata da un matrimonio ben riuscito. Il 7 maggio 1802 sposò Giuliana, figlia maggiore del faentino Giuseppe de Sarti (17291802), già direttore di cappella musicale presso il re di Danimarca, il Duomo di Milano e la zarina Caterina II che lo aveva innalzato alla prima nobiltà di Russia. De Sarti fu anche membro dell’Accademia delle Scienze di Pietroburgo. Nell’aprile 1802, al colmo degli onori e della gloria, lasciò la nazione per motivi di salute e progettò di ritornare in Italia. Fece tappa a Berlino e dimorò a Sotto i Tigli al numero 16 ma, ammalatosi gravemente, ebbe appena il tempo di vedere il matrimonio della figlia. Morì il 28 luglio e fu sepolto nei sotterranei della cattedrale cattolica di San Edvige, in una bella tomba ornata di un busto di marmo e di una iscrizione, distrutta dalle bombe degli Alleati nel marzo 1944 assieme a quella della vedova Camilla Pasi e dello stesso Bartolomeo Verona. I coniugi Mussini ebbero otto figli, tutti nati a Berlino. I loro nomi: Elena (1803), Cesare (1804), Camillo (1805), Celeste (1806), Giulia (1809), Giuseppe (1810), Luigi (1813) e Adele (1817). I ragazzi crebbero nel culto delle arti e particolarmente della musica. Nel 1818 Natale ottenne una pensione e decise di tornare in Italia, su consiglio del medico. Si stabilì a Firenze nella cosiddetta Palazzina Osmond o “dei Servi” presa in locazione dai Padri della SS. Annunziata e situata in via San Sebastiano al numero 6080. Era un quartiere allora considerato elegante: dirimpetto all’edificio si trovava il palazzo di una famiglia tra le prime in Toscana, quella del marchese, storico e politico Gino Capponi (17921876), il cui nome in seguitò battezzò la via stessa. In poco tempo, grazie all’intelligenza di Natale, casa Mussini divenne un centro culturale-artistico, ritrovo di maestri e di politici amici delle Arti. I fi-

gli Cesare e Luigi ebbero la possibilità di intraprendere una brillante carriera di pittori, dopo aver studiato sotto la guida di Pietro Benvenuti e di Giuseppe Bezzuoli. Notevoli sono i loro dipinti per i colori intensi e duraturi, la finezza del disegno, la minuzia descrittiva. In particolare, per la miscela delle tinte a olio, Cesare mise a punto una formula poi venduta all’imprenditore Van den Moblen e quindi alla Ditta Schmincke-Horadam che ancora oggi la commercializza in tubetto con il nome di “Mussini”. Ebbe l’opportunità anche di tornare a Berlino per qualche tempo. Il 15 luglio 1840 sposò Elise, figlia di un vecchio amico di Natale a Sotto i Tigli, Ludwig Blesson, che nel 1815 si era unito in seconde nozze a Karoline Verona e aveva accorpato le due casate. In quanto a Luigi Mussini, fu uno dei principali esponenti del Purismo in pittura, corrente che intendeva rifarsi agli artisti primitivi italiani. Dal 1840 al 1844 fece un memorabile soggiorno a Roma, come pensionato dell’Accademia fiorentina, e incontrò Jean-Auguste Dominique Ingres, figura tra le più rappresentative della pittura neoclassica e allora direttore dell’Accademia di Francia a Villa Medici.

Di questi avvenimenti Natale però non ebbe il tempo di rallegrarsi. Morì a Firenze il 20 luglio 1837 e fu sepolto nel chiostro Grande della SS. Annunziata. La sua tomba è tutt’ora visibile, ornata da una bella lapide a bassorilievo di autore ignoto. Nel marmo è scolpito il suo volto, quello di uno degli uomini più belli e aristocratici dei suoi tempi. Giuliana morì il 15 novembre 1842 e fu sepolta vicino alla lapide del marito, in una tomba più modesta nel pavimento 2.

Note 1 Sulla casa dei Verona-Blesson a Unter den Linden, v. Guy Leclerc (medico di Blois), Das Haus Verona-Blesson www.luise-berlin.de/ bms/bmstx01/0105deta.htm. Costanza, figlia di Cesare Mussini e di Elise von Blesson, sposò l’avvocato Giovanni Verzani di Barga. Ebbero tre figli tra i quali il nonno di Genéviève, moglie di Leclerc, e una discendenza di Vanzi giornalisti. 2 Fu sepolta nel chiostro della SS. Annunziata anche Giulia, figlia di Natale e di Giuliana, maestra di musica e pianista, moglie del dottore viennese Nepomuceno Huber, deceduta nel 1845.

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Un tubetto di colori ad olio “Mussini” della ditta tedesca Schmincke, da https://www. dickblick.com/products/ schmincke-mussini-oilcolors/. La lapide funebre e particolare del volto di Natale Mussini nel chiostro Grande della SS. Annunziata di Firenze, foto di Paola Ircani Menichini.


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Nadezhda

De Santis e altre

testimonianze fiorentine contro la schiavitù Massimo De Francesco

Il camposanto protestante detto "degli Inglesi" si elèva nel fiorentino Piazzale Donatello. (Fotografia di Moreno Vassallo).

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l diciannovesimo secolo è testimone di storiche trasformazioni sociali ed economiche. Mentre il sole comincia a tramontare sull’impero spagnolo e quello napoleonico, inizia un periodo di pace seguìto al Congresso di Vienna. L’impero britannico si afferma dal 1815 al 1914. Ancora pochi anni dopo la morte della Regina Vittoria (1901), gli Stati Uniti d’America e gli imperi francese, russo e giapponese, controllano le sorti del mondo. Ma i fenomeni di maturazione economico-industriale sono adombrati dal fenomeno della schiavitù: soprattutto nell’impero britannico e negli Stati Uniti d’America. L’abolizione di questa piaga sociale è un traguardo doloroso che si raggiunge in più fasi fra la prima e la seconda metà dell’Ottocento (in Gran Bretagna nel 1833, negli Stati Uniti nel 1865), processo durante il quale numerosi tentativi vengono intrapresi al fine di arrestare la più brutale forma di privazione della libertà. Il fenomeno è ampiamente diffuso e coinvolge milioni di africani, fra questi gli schiavi nelle piantagioni di cotone negli Stati Uniti d’America sud orientali. Li vediamo raffigurati nelle stampe dell’epoca, mentre, dopo la faticosa raccolta del cotone dalla pianta, lavorano alla “sgranatrice”: un meccanismo che serve per separare rapidamente i bianchi fiocchi del cotone dal resto della pianta. Questo lavoro in passato veniva fatto a mano. Uomini e donne nati schiavi, solo per mezzo della ribellione, o della fortuna, riescono a emanciparsi. Dei

loro vari tentativi di rivolta, famosa è quella denominata “ribellione di Nat Turner”, schiavo nero nella Southampton County in Virginia, avvenuta il 21 agosto 1831, la quale apre la strada all’abolizione di questa iniqua violenza che si realizza al termine della sanguinosa Guerra Civile o di Secessione americana (18611865). Un altro protagonista fu Ignatius Sancho, nato nel 1729 su una nave di schiavi, si emancipò grazie alle sue innate doti intellettuali. Conosciamo il suo volto perché ci è stato tramandato da una stampa realizzata dal famoso incisore Francesco Bartolozzi (Firenze, 1728 - Lisbona, 1815). Nel 1773 Ignatius Sancho aprì un negozio di alimentari a Westminster, in Inghilterra, dove abitava con la moglie. Il luogo divenne quasi subito un punto d’incontro fra scrittori, artisti e politici e grazie alla loro frequentazione Sancho poté partecipare alle elezioni parlamentari nel 1774. Scriveva poesie e componeva musica. Gli scritti sulla schiavitù di Richard Hildreth, scrittore e giornalista americano, della poetessa inglese Elizabeth Barrett Browning e del predicatore bostoniano Theodore Parker (1810-1860) − le loro spoglie si trovano sepolte nel fiorentino cimitero protestante detto “degli Inglesi” − (www.florin.ms) suscitano l’ammirazione e la gratitudine di Frederick Douglass, scrittore, giornalista e riformista nero già schiavo, il quale raggiunge Firenze nel 1887 per rendere omaggio alle loro tombe. Firenze è crocevia di uomini e donne che hanno combattuto per l’eman-

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cipazione delle minoranze, come spiega Julia Bolton Holloway, già docente all’Università del Colorado, autrice di numerosi libri, oggi custode di questo Cimitero di religione protestante e della Biblioteca “Fioretta Mazzei” conservata nel piccolo edificio che introduce all’interno del cimitero (www.piazzaledonatello. blogspot.com). Come è noto, il cimitero “degli Inglesi”, si erge nel mezzo dell’ampia ellisse denominata Piazzale Donatello, lungo il percorso dei viali di circonvallazione di Firenze. Julia (come desidera essere chiamata) parla della schiavitù e delle storie dell’emancipazione umana, come quella di Nadezhda De Santis, schiava nera della Nubia che giunge quattordicenne a Firenze condotta dal pisano Ippolito Rosellini (1800-1843), padre dell’egittologia in Italia, e fedele suddito del Granduca Leopoldo II di Toscana, il cui Governo sovvenzionò la spedizione in Egitto affiancata a quella francese di Jean-François Champollion, il celebre decifratore dei geroglifici conosciuto da Rosellini a Firenze. A séguito di una loro spedizione in Egitto e in Nubia nel 1827, incontrano la giovane nubiana che Rosellini conduce in Toscana. Poco sappiamo di Nadezhda (nata con il nome di Kalinna), la quale viene adottata e battezzata nella chiesa russo-ortodossa di Firenze, battesimo registrato in séguito a San Pietroburgo. Nadezhda (che in russo significa “Speranza”) muore “signora” il 27 agosto del 1851. È sepolta nel cimitero “degli Inglesi” sotto l’unica croce ortodossa presente nel famedio.


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FUCECCHIO UMBERTINA I

l recente ritorno in Italia delle spoglie del re Vittorio Emanuele III ha riacceso animate discussioni tra fautori e denigratori della famiglia reale dei Savoia, facendomi ricordare la lapide apposta sulla facciata della millenaria abbazia di San Salvatore a Fucecchio, in ricordo del regicidio di Umberto I: La R. Ven. Arciconfraternita di Misericordia dopo l’orrendo parricidio che percosse il mondo e straziò l’Italia nostra volle qui scolpito il nome del più augusto, del più generoso fratello UMBERTO I RE D’ITALIA capo-guardia onorario che fra gli splendori del trono e nel turbinio della politica memore dei divini insegnamenti e degli alti esempi degli avi suoi l’esercizio della potestà regale tradusse in civile apostolato d’amore che sublimò col martirio. 29 luglio 1901 Il monarca viene positivamente ricordato da alcuni e perciò soprannominato “Re Buono” per essersi prodigato personalmente nei soccorsi durante l’epidemia di colera a Napoli del 1884 e per aver promulgato il codice Zanardelli, che aboliva la pena di morte, ma fu anche aspramente avversato e perciò denominato “Re Mitraglia” per il conservatorismo, il coinvolgimento nello scandalo della Banca Romana e soprattutto per l’ordine di reprimere i moti popolari del 1898, che

gli costarono tre attentati nell’arco di 22 anni, fino a quello fatale a Monza del 29 luglio 1900 ad opera dell’anarchico Gaetano Bresci, originario di Prato. La sua effigie trovò larga diffusione sulle medaglie commemorative delle campagne d’Africa. Umberto I concesse l’Alto Patronato alla Misericordia e visitò il 20 settembre 1882 la sede della Misericordia di Firenze, cui donò il 20 gennaio 1885 un ostensorio d’argento, del cui evento fece coniare anche una medaglia commemorativa. A Fucecchio il 30 luglio 1900 l’assessore Soldaini rese pubblica al paese la notizia del regicidio. Il popoplo dimostrò il proprio sbigottimento, esponendo le bandiere abbrunate e chiudendo in segno di lutto tutti i negozi. Trovandosi senza Sindaco, il Pro-sindaco telegrafò alla Regina Margherita i sensi d’indignazione di tutto il popolo fucecchiese. I filo-monarchici e i cattolici di Fucecchio non solo eressero la lapide rammentata, ma nel 1904 costruirono e intestarono alla sua memoria un “Ricovero di Mendicità” nella Piazza Principe Amedeo (attuale Piazza Spartaco Lavagnini), corrispondendogli 1500 lire annue, grazie ad un comitato popolare presieduto dal Cav. Giuseppe Montanelli. Infine, sotto l’impulso di un altro comitato, presieduto dallo stesso Montanelli e onorariamente dal Sindaco Emilio Bassi, nonchè dal deputato Conte Francesco Guicciardini, sotto l’Alto Patronato di S.A.R. Luigi Amedeo Duca degli Abruzzi, fu commissionato all’artista Prof. Attilio Formilli l’esecuzione di un busto di bronzo a ricordo di Um-

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berto I, che, posto sopra un basa- Fernando Prattichizzo mento costruito da Oreste Sandrini e Mario Lupi e regolarmente recintato, fu collocato al centro della Piazza Principe Amedeo. Alla cerimonia d’inaugurazione del 2 ottobre 1904 parteciparono alte cariche dello stato, come Ferdinando Martini (governatore dell’Eritrea), Gismondo Morelli Gualtierotti (sottosegretario alle Poste), Antonio Baldissera (comandante dell’VIII Corpo d’Armata), Francesco Guicciardini (deputato del collegio), Antonio Quartarone (prefetto di Firenze), nonché altre autorità e una folta cittadinanza. Il monumento consisteva in una gradinata di pietra a tre gradini, sull’ultimo dei quali poggiava la base in travertino, terminata da una cassa in granito di Baveno, sulla quale era collocato il busto del Re in tenuta da Generale, a capo scoperto. Sulla base nel lato guardante il paese era collocata una targa-ricordo in marmo nero. Sopravvenute esigenze urbanistiche e mutamenti politici condussero nel 1972 alla rimozione del complesso monumentale dalla Piazza dell’Ospedale. In quel periodo il sindaco Ivano Pellegrini, eletto per la lista del Partito Comunista Italiano, già segretario della Camera del Lavoro e misteriosamente deceduto nel 2005 con ferite alla testa, approvò l’operazione. Pochissimi Fucecchiesi ricordano ancora la piazza col monumento a Umberto I e chi voglia vedere il busto dovrà rivolgersi al Direttore del Museo Civico di Fucecchio Prof. Andrea Vanni Desideri, perché attualmente il busto è collocato in un locale tecnico del Palazzo Corsini, non aperto al pubblico.

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Leonardo una vita con

ricordo del grande studioso Carlo Pedretti

Roberto Lasciarrea

Carlo Pedretti con alle spalle un disegno che raffigura l’Uomo Vitruviano di Leonardo.

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alone dei Dugento. Palazzo Vecchio. Firenze. 4 ottobre 2010. Fra i tanti ordini del giorno ce n’è uno molto importante. Il conferimento della cittadinanza onoraria a Carlo Pedretti. Con l’ingresso nel famoso ambiente del Professor Pedretti, tutti i presenti si alzano in piedi. Le chiarine suonano l’Inno Fiorentino. Il dottor Eugenio Giani, presidente del Consiglio Comunale, fa gli onori di casa. Viene letta la motivazione che conferisce la cittadinanza onoraria al professor emerito di Storia dell’Arte Italiana e massimo esperto mondiale di Leonardo Da Vinci. Il Presidente del Consiglio Comunale, ribadisce la volontà di aprire un museo dedicato completamente a Leonardo Da Vinci, forse ricavato nel complesso monumentale di Santa Maria Novella, dove oggi si trova la Scuola dei Marescialli dei Carabinieri, in attesa dell’ultimazione dei lavori a Castello di Sesto Fiorentino. Ecco l’inizio del momento magico. L’intervento del professore. Questi comincia ringraziando la città di Firenze (Carlo Pedretti era nato a Casalecchio di Reno di Bologna, il 6 gennaio 1928) e dichiarando che mai si sarebbe aspettato di ricevere la cittadinanza dalla più importante città del mondo. «Firenze mi ha regalato dei momenti indimenticabili della mia vita. Nel dopoguerra, quando tornavo dagli Stati Uniti, durante il periodo estivo, venivo qui, per i miei studi e le mie pubblicazioni. Il 15 settembre 1957 mi sono sposato con mia moglie Rossana, che è qui, accanto a me, alla quale dedicai un volume scrivendo: solo per te le mie ore sono generate?»

Un gioco di parole in apparenza, in realtà una nota di Leonardo con la quale la Meridiana si rivolge al Sole. «Pensate - ha detto - ebbi come testimone di nozze un altro grande studioso di Leonardo, Heyreich, il quale rischiò la vita per salvare lo studioso ebreo lituano Berendson. Sapete, fu proprio Heyreich che mi fece conoscere Renato Giunti, l’editore. Questo il secondo importante episodio della mia vita. Era il 1962 o 1963, scusate, non ricordo molto bene! Finita la guerra, mi trasferii nel 1959 a Los Angeles, all’University of California, dove ero titolare della cattedra di studi su Leonardo, nonché professore di storia dell’Arte Italiana, dirigendo, inoltre, il Centro Hammer di studi Vinciani con sede in Urbino. A chi mi chiedeva se fossi italiano, rispondevo no, sono fiorentino. Nel 1968 lessi le prime lettere del Codice di Madrid.» Viene richiesto allo Storico cosa ne pensi delle operazioni cinematogra-

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fiche e letterarie del momento, (il riferimento è al Codice Da Vinci di Dan Brown). A questo punto Pedretti ha rincarato la dose. «Essendomi stata chiesta una consulenza sul libro in merito, ho cercato di proteggere Leonardo da operazioni di dubbia validità in modo che non si degenerasse in spregio». Giani, da grande padrone di casa qual è, invita il professor Pedretti insieme a giornalisti, cineoperatori, simpatizzanti, verso l’ingresso del Salone dei Cinquecento, il “salone” buono di Palazzo Vecchio, immediatamente sotto l’affresco dipinto da Giorgio Vasari. Lì iniziano le interviste, da parte delle varie testate giornalistiche. Gli viene domandato se pensa che la Battaglia di Anghiari, la grande pittura murale commissionata a Leonardo Da Vinci (databile 1503-1506), nella “Sala del Gran Consiglio” (Salone dei Cinquecento), per celebrare la vittoria dei fiorentini sui


milanesi nel 1440, si trovi sulla parete Est del salone. Il professore risponde: «La leggenda vuole che, a causa dell'inadeguatezza della tecnica il dipinto subì dei danni e non si sa se i suoi resti fossero stati lasciati in loco, incompiuti e mutili; circa sessant'anni dopo la decorazione del salone venne rifatta da Giorgio Vasari; non si sa se all'epoca fossero ancora presenti i frammenti leonardiani e se l'architetto aretino li avesse distrutti. Alcuni sostengono che li abbia nascosti sotto un nuovo intonaco o una nuova parete: ricerche e ”saggi” finora condotti non hanno sciolto il mistero. «Successivamente a Vasari fu commissionato di “coprirlo” con un suo affresco rappresentante “La battaglia di Marciano in Valdichiana». A Pedretti si chiede ancora se questo grande affresco, coprendo quello di Leonardo, sia stato rispettoso nei confronti del vinciano. «Ne sono pienamente convinto. Del resto Vasari non ha mai distrutto; ne sono testimonianze la

scoperta di due importantissimi affreschi. Uno di Masaccio, in Santa Maria Novella, scoperto per pura casusalità a metà dell’800, tirando giù tutti i tavolati di un grande altare costruito dallo stesso Vasari, senza toccare la pittura murale, né, tanto meno, praticando “buchi”. Lo stesso trattamento lo ha riservato nei confronti di Giotto, nella Cappella Peruzzi, in Santa Croce. Sì, la domanda è lecita», ha risposto al collega, con quel suo sorriso ironico, «ma perché avrebbe dovuto distruggere quel grande affresco della battaglia di Leonardo?» Cercare di scoprire se realmente l’affresco di Leonardo Da Vinci sia sotto l’affresco di Vasari è una questione che si prolunga da ben trentacinque anni ed è l’oggetto di un’appassionata e difficilissima ricerca (quanto meno da un punto di vista burocratico) che ha visto sempre protagonista anche l’ingegner Maurizio Seracini a

cui, tanti anni fa, lo stesso Pedretti passò moralmente il testimone per proseguire l’annosa pratica burocratica. Alla fine della festosa cerimonia, Maurizio Seracini, affermava che nei primi mesi del 2011 sarebbero iniziati i lavori di ricerca sull’affresco perduto di Leonardo, avendo risolto tutti i problemi dal punto di vista tecnico e metodologico. «Cerchiamo, fondi all’estero, dal momento che nel nostro Paese non è così sentito come interesse». Sono trascorsi otto anni. Non ho più avuto il piacere e l’onore di incontrare il professor Pedretti, anche se nessuno cancellerà mai dalla mia mente l’emozione che mi regalò quando riuscii a porgergli il libro scritto dal sottoscritto. Nel testo si legge la dedica, piena di simpatica ironia, che volle farmi. Inoltre mi disse: «Si ricordi Lasciarrea che quando nomina Leonardo il suo cognome dovrà sempre riportare quel Da con la “d” maiuscola, perché si chiamava Leonardo Da Vinci. Mi ha fatto piacere conoscerla». Mi sentii soddisfatto e protetto quando, guardandomi intorno, incrociai il sorriso compiaciuto del professor Alessandro Vezzosi. Carlo Pedretti ci ha lasciato, esattamente il 5 gennaio u.s., un giorno prima del suo novantesimo compleanno. Concludo con un elenco che potrà sembrare arido, ma che trovo doveroso riportare per una questione di riconoscimento e rispetto, nei confronti di una figura quale è stata quella del professor Carlo Pedretti. Ha pubblicato qualcosa come oltre sessanta libri e oltre cinquecento fra saggi, articoli (in varie lingue) sui molteplici aspetti della sua specializzazione. È stato membro della commissione ministeriale per l’Edizione Nazionale dei Manoscritti e dei Disegni di Leonardo Da Vinci. Per ciò che riguarda le onorificenze conferitegli in Italia e all’Estero, si ricordano la Medaglia d’Oro alla Cultura del Presidente della Repubblica Italiana nel 1972, mentre nello stesso anno gli venne conferito il massimo riconoscimento da parte del governo degli Stati Uniti d’America: la Congressional Citation. Si aggiunga la cittadinanza onoraria della città di Arezzo (2001) e la Laurea Honoris Causa dall’Università di Ferrara (1991), Urbino (1998), Milano (1999) e Caen (dipartimento del Calvados in Normandia, Francia, nel 2002). Anche Vinci, (come poteva mancare!) gli conferì la Cittadinanza Onoraria (2008). Membro onorario dell’Antica Accademia degli Euteleti di San Miniato al Tedesco (Pisa), recentemente era stato nominato Membro Onorario dell’Accademia Nazionale di

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Scienze, Lettere ed Arti di Modena. Ora, come dicono gli inglesi “Last but not least”, orrei riportate il discorso che ha fatto colui che è stato al fianco di Carlo Pedretti dal 1975, il professor Alessandro Vezzosi, direttore del Museo Ideale Leonardo Da Vinci, durante la cerimonia funebre nella chiesa di Santa Croce a Vinci: «…Vincendo l’emozione è bello ricordare come, ancora nei suoi ultimi giorni, Carlo lavorasse sull’attualità e la riscoperta di Leonardo: dall’Adorazione dei magi alla Battaglia di Anghiari. E come la medicina più efficace fosse per lui parlare di Leonardo. Poco fa, prima di entrare in chiesa, qualcuno chiedeva: “Qual è l’opera più importante di Carlo Pedretti?”. Io credo sia la sua stessa vita, e i suoi 74 anni di ricerche e pubblicazioni, fondamentali per gli specialisti e affascinanti per il grande pubblico. Strumenti incomparabili, edizioni raffinate e spettacolari, sistematicamente omnicomprensive e originalissime. «Carlo è stato definito il più grande leonardista al mondo, ma aggiungerei di tutti i tempi, perché ha rivoluzionato il metodo degli studi leonardiani in senso interdisciplinare e nella più ampia complessità. È stato un grande maestro tra Europa e America, tra Lamporecchio e Vinci, geniale e insostituibile». Se − come diceva Einstein, ammiratore di Leonardo − vuoi una vita felice devi dedicarla a un grande obiettivo. Carlo ha vissuto intensamente tutti i suoi anni dedicandosi ogni giorno a Leonardo, che intorno al 1487, scriveva: «La vita bene spesa lunga è» e ancora: «Sì come una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire». «Carlo ha speso la sua vita nel modo migliore, con il suo Leonardo, con sua moglie Rossana, e con innumerevoli amici che ancora possono far tesoro della sua lezione di umanità, di vita e di studio. Ciao Carlo, riposa lieto! La tua vita per natura finisce, ma la tua opera resterà eterna».

Ritratto Leonardo Da Vinci Alessandro Vezzosi, direttore del Museo Ideale Leonardo Da Vinci,


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il ritorno di

Ardengo ricordo d'una guardiamarina che giace in fondo al mare Vania Di Stefano

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otto le dita che passarono ancora tra i capelli di mio figlio, sensibilmente sentivo il calore del suo capo nella carezza. Così mi svegliai e nella palme è rimasta viva la sensazione morbida dei capelli biondi. Con queste parole Gesualdo Manzella (1885-1965) nella terza pagina del Momento sera, il 4 novembre 1954, concludeva stupendamente il racconto su Il ritorno del figlio nel sogno. Il ventunenne guardiamarina Ardengo, nato a Cassino il 18 gennaio 1921, dal dicembre 1942 era, e resta ancora oggi, in fondo al mare Mediterraneo, prigioniero con altri commilitoni nello scafo del sottomarino Corallo speronato dalla cannoniera inglese Enchartress a largo di Béjaïa in Algeria. Il 6 settembre 1940 scrivendo al cugino Manlio Gor (1922-2009) dalla Regia Accademia Navale, dichiarava: "la mia vita qui è bella, dura, invidiabile e sfiancante ma rende abbastanza forti e dà delle soddisfazioni”. Un

anno dopo, il 3 dicembre 1941, da Pola aveva spedito "Per i Manzella di via P. Carrera 19 Cibali di Catania” una splendida cartolina con il testo di una preghiera, librata sopra due

Ardengo in divisa Cartolina con sottomarini italiani

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battelli, annotando di pugno: "Dopo la prima vera missione sul (Ssss...) Ardengo sommergibilista”. Lo spirito d’avventura, l’entusiasmo, l’amor patrio, il senso dell’onore e del do-


vere si consumarono in pochi istanti con la sua giovinezza durante la peggiore guerra italiana del XX secolo (non esistono guerre "migliori"), le cui conseguenze paghiamo tuttora come popolo smemorato di consumatori, in feroce lotta per una buffonesca comparsata televisiva. Nella mia infanzia ho ascoltato in silenzio i racconti sul bell’Ardengo, guardando ora il volto della foto che lo ritrae in divisa, ora il volto di chi narrava, ma l’emozione più forte l’ho avuta dalla recente scoperta d’una sua lettera, forse l’ultima, "verificata per censura”, scritta l’11 ottobre 1942 a mia madre Myriam (1924-2017), sua cugina, da un eremo, "una specie di sanatorio” - così lo definisce - della Marina in Erice. Vi era stato inviato per 12 giorni con cinque commilitoni al fine di curare un "esaurimento nervoso”, le cui cause possiamo immaginare. Non sapremo mai con quale stato d’animo si imbarcò nuovamente a Trapani e cosa gli fosse rimasto nella mente e nel cuore di quell’ottimistica visione del conflitto mondiale illustrata

da una cartolina satirica di propaganda, edita nel 1939 per il Collegio Navale di Brindisi: vi si vede il corpo dell’americano Popeye the Sailor (Braccio di ferro) usato come una passarella da un cadetto italiano che sale da conquistatore su un battello della Royal Australian Navy. Sul retro della foto che lo ritrae in divisa e che donò a Myriam scrisse, ispirato da Puccini: "Un bel dì vedremo!... Ardengo che non sa proprio cosa dare perché è un povero di spirito”. Nessuno vide più all’orizzonte la sua nave; dette la vita che gli abitava in corpo, ma il suo spirito luminoso sopravvive libero e immortale. Presso l’Istituto Tecnico Nautico Statale Luigi Rizzo (Catania) il dirigente scolastico Giuseppe Distefano e il direttore del corso Primo soccorso sanitario a bordo di navi mercantili hanno intitolato la IX edizione (7 dicembre 2010 - 1 marzo 2011) a nome di Ardengo, insignito anche di una laurea alla memoria in Scienze Politiche. Caro valoroso, giovane Ardengo, come gli antichi ti dico: vivas cum tuis in Deo feliciter!

Annotazione manoscritta su retro della foto in divisa Cartolina satirica di propaganda bellica Prime righe della lettera a Myriam: "Vincere! 8-10XX. Marussia cara, sei davvero una cuginetta invidiabile. Malgrado le scorribande attraverso il continente... trovi il tempo di ricordarti del lontano (ormai da 16 mesi) cugino”. Targa commemorativa del corso intitolato ad Ardengo Retro della cartolina

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D’Annunzio e la musica

trascorsi 80 anni dalla sua scomparsa Roberto Mascagni

Italo Montemezzi, La nave, libretto, Milano, Ricordi, 1918. Copertina. (Chigiana, Vol. XLVII), D'Annunzio musico imaginifico, Atti del Convegno Internazionale di Studi. (Siena, 14-16 luglio 2005).

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ualche anno fa Alberto Cesare Ambesi (Il Borghese, marzo 2012, n. 3, pp. 68-70), avvertiva nell’articolo L’anima e le forme della musica dannunziana, che «una delle più significative ideazioni musicali italiane, dall’inizio del secolo ventesimo alla pienezza degli anni Trenta, potrebbe e dovrebbe riconsiderarsi come “dannunziana”». Limitandoci al melodramma italiano del primo Novecento, bisogna indicare l’esordio di Italo Montemezzi (1875-1952) con le musiche di scena per l’ode dannunziana La Nave (all’Argentina di Roma, nel 1908), e nel 1913 musicò l’intero soggetto rappresentato nel 1918 a La Scala, su libretto di Tito Ricordi. Lo stesso testo fu utilizzato anche da Ildebrando Pizzetti, con le musiche di scena e i magnifici cori (1907). Negli stessi anni Pietro Mascagni attendeva a La Parisina (La Scala, 1913) e Pizzetti a La Pisanella (Parigi, 1913).

Contemporaneamente, Pizzetti metteva mano al suo più impegnativo lavoro: la raffinata intelaiatura del crudo dramma di Fedra. A causa di molte traversìe, l’opera impegnò a fondo il compositore di Parma, tant’è vero che per arrivare al suo debutto a La Scala (direttore Gino Marinuzzi), bisognerà aspettare il 1915, l’anno fatale dello scoppio della Prima Guerra Mondiale. (“La Nazione“, per seguire queste importanti “prime” inviò il proprio critico musicale Giannotto Bastianelli). Per l’eleganza della partitura e la finezza del canto recitato, Fedra si ricollega al gusto impressionista della Parigi di Claude Debussy con il Pelléas et Mélisande (1902). Con Pelléas si apriva di fatto una nuova strada per l’opera lirica. L’atmosfera di incanto, nelle arti figurative viene indicata con l’espressione “realismo magico” di cui ne sarà, forse il maggiore esponente in campo internazionale, Giorgio De Chirico. Bisogna dire che la novità rappresentata da Fedra, coincideva con gli anni ancora duramente intessuti non solo di “verismo” e di simboli che ricordavano, esautorandoli, i classici episodi della “romanità”. Tornando a D’Annunzio, sottolineiamo che sopra la prua della nave Puglia, radiata dalla Marina Militare e a lui donata nel 1923, il Poeta, dopo averla fatta installare al centro del Parco del Vittoriale, l’eccentrica villa che si affaccia sul lago di Garda, si svolgevano i concerti cameristici tenuti dal Trio Italiano formato da Alfredo Casella (pianoforte), Arturo Bonucci (violoncello) e Alberto Poltronieri (violino), organizzati con passione autentica dall’autorevole

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padrone di casa. In questo contesto emerge il forte incentivo dato dal Poeta alla musica contemporanea da una parte, e dall’altra a quella barocca. Di qui l’avvio alla prima edizione critica dell’opera omnia di Claudio Monteverdi, il celebre madrigalista e operista di Cremona, che dopo L’Euridice fiorentina di Jacopo Peri e Giulio Caccini da lui ascoltata il 6 ottobre 1600 in Palazzo Pitti a Firenze, produsse, nel 1607, l’Orfeo. La novità de L’Euridice, primo melodramma della storia, proietterà Monteverdi nel futuro della lirica mondiale. Interessante è l’accostamento della musica contemporanea con quella rinascimentale e barocca, perché affini al gusto indagatore di D’Annunzio. La fervente attività di sostenitore lo farà diventare uno dei punti di forza dell’associazione definita “Corporazione delle nuove musiche”. Venne invitato a farne parte dal veneziano Gian Francesco Malipiero (18821973) e dal torinese Alfredo Casella (1883-1947): vale a dire fra i musicisti che avevano mantenuto un contatto amichevole con la Francia di Debussy. Il quale accettò di lavorare con D’Annunzio, autore del testo poetico in francese medioevale Le martyre di Saint Sébastien (Parigi, 1911) interpretato dalla mitica danzatrice Ida Rubinstein. Ecco che stiamo scoprendo un volto del Poeta per alcuni versi inedito: da belligerante a eroe di guerra pluridecorato e mutilato, a fervente patrocinatore di edizioni ed esecuzioni che ebbero nei giovani interpreti e nei compositori una forte promozione. Incontriamo poi altri titoli tratti dallo sconfinato catalogo dannunziano: la Francesca da Rimini, musicata da


Riccardo Zandonai e rappresentata al Regio di Torino nel 1914. La figlia di Jorio, interessò anche il veneziano Alberto Franchetti. Questa “tragedia pastorale” porterà in séguito una nuova firma: quella di Ildebrando Pizzetti, chiamato da D’Annunzio Ildebrando da Parma. Esordì nel Teatro San Carlo di Napoli il 4 dicembre 1954, diretta da Gianandrea Gavazzeni. Pizzetti stava per concludere il suo lungo ciclo operistico riprendendo, appunto, La figlia di Jorio e, infine, L’assassinio nella cattedrale, con il testo tratto dall’omonimo dramma teatrale di Thomas S. Eliot. L’infaticabile attività di D’Annunzio in campo editoriale, dopo la pubblicazione della citata opera omnia monteverdiana, non si fermò qui. Nel 1919, infatti, aveva continuato con il progetto della serie i “Classici della Musica Italiana”, che comprendevano composizioni per lo più inedite tolte dalla polvere degli scaffali da molti giovani sotto la guida di Casella e Malipiero, per essere pubblicate nella citata collana. Tale intelligente e pionieristica operazione favorì la rifioritura e la valorizzazione della nostra cultura strumentale, sospesa fra tradizione e contemporaneità. Ne dà testimonianza questa poderosa raccolta che prevedeva ben 36 volumi di brevi lavori vocali e strumentali (dal

Rinascimento al Settecento). L’iniziativa contribuirà in modo determinante alla loro diffusione mondiale. Per concludere e ritornando ai giudizi di Ambesi, si parla giustamente di “molecole dannunziane”, di cui erano sorprendentemente forniti i musicisti del Gruppo futurista: il romagnolo nato a Lugo Francesco Balilla Pratella (1880-1955) e il veneto di Portogruaro Luigi Russolo (1885-1947). Sembra un paradosso che in tanta varietà di titoli dannunziani si sia sviluppato un movimento talmente fluido da comprendere perfino Marinetti: l’autore del Manifesto dei Futuristi, pubblicato, coraggiosamente, sul quotidiano parigino Le Figaro, nel 1909. I futuristi, come sappiamo, furono ostili o totalmente estranei alla corrente dannunziana. In tale contesto internazionale, il Poeta ebbe il ruolo di starter ufficiale di eventi culturali che si proietteranno oltre i limiti dettati dal proprio tempo. La critica contemporanea non fu del tutto tenera verso queste nuove produzioni. Indicando uno dei giovani più attenti alle novità musicali, ricordiamo la citata e autorevole presenza di Giannotto Bastianelli (San Domenico di Fiesole, 1883 - Tunisi, 1927) “cresciuto” sulle pagine de La Voce di Prezzolini. Bastianelli si può dire non avesse molta simpatia per alcuni musicisti

contemporanei. Riferiamo, a esempio, il severo giudizio espresso nei confronti de La Nave di Montemezzi, riportato nell’opera postuma e inedita Il nuovo Dio della musica (Einaudi, 1978), scoperto dallo storico Marcello de Angelis. Il parere di Bastianelli sulle musiche di scena per La Nave, non fu proprio benevolo: vedi “La Nazione“, 23 dicembre 1918. Infine rammentiamo l’amico e conterraneo Francesco Paolo Tosti, autore di numerose e celebri romanze da salotto, che musicò la dannunziana lirica ’A vucchella (1907), sempre presente nei repertori dei maggiori cantanti di ogni tempo e timbro di voce: dai tenori (Tito Schipa) a un soprano come Renata Tebaldi. E nel campo della lirica da camera, bisogna sottolineare la felice ispirazione di Ildebrando Pizzetti provocata dalla lettura della suggestiva poesia I Pastori (compresa nella raccolta Alcyone) che D’Annunzio scrisse in un momento di acuta nostalgìa per la propria terra d’Abruzzo. Pietro Stroppa, Corte nelle case dei Polentani. Bozzetto di scena per il primo atto di Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai. Teatro Regio di Torino, 1915. (Chigiana, Vol. XLVII), D'Annunzio musico imaginifico, Atti del Convegno Internazionale di Studi. (Siena, 14-16 luglio 2005). Antonio Rovescalli, Una camera adorna. Bozzetto di scena per il terzo atto di Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, Teatro Regio di Torino, 1915. (Chigiana, Vol. XLVII), D'Annunzio musico imaginifico, Atti del Convegno Internazionale di Studi. (Siena, 14-16 luglio 2005). Luigi Sapelli detto Caramba, figurini per i costumi di Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, Torino, Teatro Regio, 1915. (Chigiana, Vol. XLVII), Atti del Convegno Internazionale di Studi, D'Annunzio musico imaginifico (Siena, 14-16 luglio 2005). Foto per gentile concessione della Casa Editrice Leo S. Olschki, Firenze, 2008. cui si deve la pubblicazione degli Atti del convegno senese.

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mito quella voce il famoso baritono Rolando Panerai si racconta Riccardo de Angelis Tommasi

Rolando Panerai interpreta Gianni Schicchi Panerai con l'abito di scena di La Traviata

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el Teatro Carlo Felice di Genova il baritono Rolando Panerai ha interpretato nel 2012 tre applaudite repliche del pucciniano Gianni Schicchi e in tempi più recenti è stato regista di Rigoletto. Avendo debuttato nel 1946, ha alle spalle ben settant’anni di carriera. Sui palcoscenici di tutto il mondo si è distinto per una straordinaria presenza scenica, tale da permettergli di affrontare ruoli che comprendevano l’opera dell’Ottocento e del Novecento, con personaggi bizzarri ed estrosi come il Gianni Schicchi, di cui è stato insuperabile interprete. Il suo timbro vocale era in grado di compiere questo difficile passaggio di ruoli e di temperamento, perché in possesso di una straordinaria tecnica. A vederlo sul palcoscenico Panerai era in perfetta sintonia con l’azione instaurando una fusione tra la partitu-

ra e il palcoscenico. Soltanto un musicista-cantante è in grado di cogliere queste dimensioni teatrali. Rolando Panerai appartiene infatti a quella rara categoria di voci che affonda le radici nel pensiero stesso del compositore. Non gli è sfuggita nemmeno una certa musica del Novecento, laddove il timbro vocale esalta il carattere dei personaggi. La bellezza della sua impostazione consiste inoltre in una perfetta dizione e nella fluidità del fraseggio melodico. Non è un caso che nella sua lunga carriera possiamo ancora ammirarlo come regista. Quale è il suo luogo di nascita? Sono nato a Campi Bisenzio, ma all’età di cinque anni la famiglia si trasferì a Firenze. Quando ha capito la sua natura di cantante? Verso i sedici anni fui incoraggiato a proseguire da una insegnante di canto. Lei mi presentò a Raoul Frazzi, fratello del noto compositore Vito. Non ho mai frequentato il conservatorio. Come è proseguita la sua formazione artistica? Iscrivendomi al “Centro di avviamento lirico” allora esistente al Teatro Comunale di Firenze, da cui erano usciti Fedora Barbieri e Gino Bechi. Noi allievi del corso, il 6 marzo 1947 ci esibimmo nel Teatro Comunale con il Werther di Massenet in forma di oratorio nonostante che il bombardamento del 1° maggio 1944, avesse distrutto il palcoscenico. Dirigeva l’orchestra Luigi Toffolo, Rodolfo Moraro era l’interprete principale, a me era stato affidato il ruolo di Alberto. Carlotta era la bravissima Nora De Rosa. Trascorsi due anni dalla Seconda Guerra Mondiale, la città era an-

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cora sconvolta. Con questa edizione facemmo una breve tournée in Romagna. In seguito ho ripreso il Werther più volte, con l’incomparabile tenore Alfredo Kraus e il mezzosoprano Valentini Terrani, diretti da George Prêtre al Comunale di Firenze. Quanti titoli comprende il suo repertorio? Ben centocinquanta. Verso quali opere si sente maggiormente attratto? Nei primi trent’anni di carriera ho preferito cantare ruoli brillanti come Figaro nel Barbiere di Siviglia o il Sargente ne L’elisir d’amore. In seguito ho vestito i panni del verdiano Sir John Falstaff. Andavo dietro all’età dei vari personaggi. Ho interpretato anche opere moderne: per esempio al Festival di Musica Contemporanea a Venezia, L’angelo di fuoco di Prokofiev, rappresentato in “prima” mondiale nel 1955. Per me ogni novità era una sfida, non ho mai avuto timore di studiare titoli nuovi. Non volevo solo percorrere il repertorio più frequentato e richiesto. La messa a punto dell’Angelo di fuoco richiese numerose prove: l’orchestra era diretta da Nino Sonzogno. Pur di esibirmi rinunciai a una quindicina di recite. Posso citare un altro caso: preferii a un Trovatore, o ad altre opere di repertorio, un lavoro di Renzo Rossellini, fratello del regista Roberto, intitolato Il linguaggio dei fiori del 1963. La première fu allestita alla Piccola Scala. Posso vantare un’altra prima mondiale: L’ombra dell’asino, lavoro postumo di Richard Strauss mancato nel 1949, rappresentata nel Teatro di Corte di Napoli. Con quale opera debuttò? Con Lucia di Lammemoor nel Tea-


tro Dante di Campi Bisenzio, con il soprano Orlandina Orlandi protagonista, Edgardo fu interpretato da un altro campigiano: Gino Fratesi, un tenore che fece una bella carriera, soprattutto negli Stati Uniti. Ricorda il suo primo contratto? Vinsi il primo concorso lirico organizzato a Spoleto, e questo riconoscimento mi procurò un’audizione a Napoli, dove fui scritturato per il Mosè di Rossini. Protagonista era il celebre basso Tancredi Pasero. Questo debutto mi procurò otto opere nella stessa stagione: al San Carlo Rigoletto, Traviata, Barbiere, Bohème e altre nel teatro che considero il più bello del mondo. Questo esordio mi mise subito in prima fila. Insistendo sul suo repertorio del Novecento, quali altri titoli ricorda? Il calzare d’argento e Fra’ Gherardo di Ildebrando Pizzetti, a La Scala. Mi sono cimentato anche ne L’amore dei tre re, di Italo Montemezzi, noto per avere musicato La Nave, su testo di D’Annunzio. Con Magda László ho cantato Era proibito, libretto di Dino Buzzati e musica di Luciano Chailly, sudando un mese di prove. Inoltre, di Franco Alfano, Il Vesuvius, dato in prima mondiale alla RAI di Roma e, sempre di Alfano, Cyrano di Bergerac, a La Scala. Di Benjamin Britten Sogno di una notte di mezza estate, al Comunale di Firenze. Di altre mie interpretazioni del Novecento ricordo, di Giancarlo Menotti, Amelia al ballo, a La Scala; di Virgilio Mortari La scuola delle mogli, alla Piccola Scala e di Respighi La fiamma sempre alla Piccola Scala. Di Zandonai Francesca da Rimini a Cagliari. A Ginevra cantai I quattro rusteghi di Wolf-Ferrari e sempre di lui Le donne curiose al San Carlo di Napoli. Inoltre, di Kurt Weill, Ascesa e caduta della città di Mahagonny.

Se devo parlare del lavoro più stravagante al quale ho preso parte, ricordo La partita a pugni di Vieri Tosatti. La prima assoluta fu rappresentata nel 1953 alla Fenice di Venezia, messa in scena sopra a un vero e proprio ring pugilistico. Con quali altri cantanti ha collaborato? Maria Callas, Renata Tebaldi, Renata Scotto, Raina Kabaivanska, Mirella Freni, Mafalda Favero, con il livornese Galliano Masini ho cantato Carmen. Inoltre con Giacomo Lauri Volpi. E con Joan Sutherland e Biörling? Con lei e Jussi Biörling Bohème a San Francisco e nel 1989 con Carlo Bergonzi in un concerto al Bolshoi di Mosca. Con lui ho inciso alcune opere: mi è particolarmente cara Giovanna d’Arco di Verdi. Eravamo trentenni: Tebaldi, Bergonzi, Panerai. Ha cantato con Mirto Picchi? Sì, l’ho conosciuto molto bene. Era di San Mauro a Signa. Abbiamo studiato insieme al “Centro di avviamento lirico” del Comunale di Firenze. Era incline al repertorio contemporaneo e meno a quello romantico per la sua particolare qualità vocale. Con Fedora Barbieri avevo una profonda amicizia. Un suo ricordo di Elisabeth Schawarzhopf? Ricordo con ammirazione l’affascinante soprano dalla voce limpida, incontrata ai miei esordi. Insieme con lei ho affrontato I Trionfi di Afrodite di Carl Orff. Herbert von Karajan, alla guida dell’orchestra, mi chiese di sostituire un collega ammalato. Era una piccola parte in falsetto e accettai. Elisabeth mi notò e parlò della mia voce a suo marito, un alto dirigente della casa discografica “La voce del padrone” a Londra. Quindici giorni dopo firmai un prestigioso contratto per incidere I Puritani con la Callas e Giuseppe Di Stefano, il mio amico Pippo. Grazie a quelle tre note in falsetto mi si aprì una meravigliosa strada. Veniamo alla Callas Era una persona gentilissima con quanti lo erano con lei, viceversa, reagiva in modo brusco se l’interlocutore aveva un comportamento irriguardoso. Insomma, io la definisco una personalità camaleontica. Rispondeva con lo stesso tono a chi la criticava magari per provocarla. Io non sono mai sceso in polemica con i colleghi. Ho sempre rispettato tutti. Il mio rapporto con la Callas era di estrema cordialità: come fratello e sorella. Era di una simpatia unica… volendo. Arrivava sempre per prima alle prove. La conobbi nel 1950. Con lei ho cantato Bohème, Cavalleria

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rusticana, Alceste di Gluck. Insieme abbiamo inciso Parsifal e altre opere. E la Tebaldi? Io la definirei una “ragazzona” molto semplice, ma elegante nel portamento. La sua voce era una cosa enorme. Conobbi Renata durante la stagione lirica 1948/49 al San Carlo di Napoli. Abbiamo cantato Traviata, Bohème, Guglielmo Tell. La bellezza della sua voce è stata insuperabile. Quanti direttori ha conosciuto sul podio? Oltre duecento. Fra questi Antonino Votto, Victor De Sabata, Tullio Serafin. Von Karajan, Muti, George Prêtre, Leonard Bernstein, Sawallisch, Karl Böhm. Con Von Karajan eravamo molto in sintonia, ed era particolarmente incline a dirigere anche il Melodramma. Inoltre, era formidabile nelle regìe che io definisco “musicali” perché andavano di pari passo con la musica senza alterarne i contorni. In quali teatri ha lavorato? In Europa in tutti i maggiori; in America a New York, a San Francisco dove nel 1958 cantai Bohème, Barbiere e Nozze di Figaro. Poi a Los Angeles, Chicago, Buenos Aires e Rio de Janeiro. Non ho mai lavorato in Asia. Mi sono esibito sempre nella nostra lingua. Per esempio in Austria e Germania ho rifiutato di cantare in tedesco, preferivo cantare in un italiano corretto. Ha qualche rimpianto? Solo due: non avere avuto come collega quello che è stato, a mio avviso, il più grande cantante di tutti i tempi, ovvero Beniamino Gigli, e non essere mai andato da Titta Ruffo: «Mi venga a trovare», mi disse quando lo conobbi.

Rolando Panerai interprete del verdiano Falstaff. In una pausa delle prove di Lucia di Lammermoor al San Carlo di Napoli, nel 1956, vediamo, da sinistra il basso Antonio Zerbini, al centro Maria Callas e, dopo di lei, al suo fianco, il baritono Rolando Panerai. Insieme con loro alcuni collaboratori.

Riccardo de Angelis Tommasi è nato a Fiesole (Firenze) nel 1995. Si è laureato in Lingua e Cultura Cinese con indirizzo artistico, nell’Università Ca’ Foscari di Venezia e nella Fudan University di Shanghai, avendo vinto la borsa di studio dell’Istituto Confucio di Venezia. Attualmente lavora presso la galleria d’arte Etra Studio Tommasi a Firenze e Pietrasanta. Ha coltivato i suoi interessi musicali ispirato da suo padre Marcello de Angelis, docente di Storia Della Musica all’Università di Firenze. Ha studiato pianoforte.


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2018 GRAMMY AWARDS

Leonardo Taddei

La cantante Lady Gaga mentre posa sul red carpet Rihanna sul red carpet della 60esima edizione dei Grammy Awards Bruno Mars, premiato con ben sei Grammys - III

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a sessantesima edizione dei Grammy Awards, trasmessa in diretta dalla rete americana CBS, si è svolta il 28 gennaio presso il Madison Square Garden di New York City, scelta, per la prima volta dal 2003, come sede alternativa allo Staples Center di Los Angeles. La cerimonia ha lo scopo di premiare i migliori cantanti, composizioni musicali e registrazioni, precedentemente segnalati tramite nominations, per questa edizione annunciate il 28 novembre 2017, relativamente al periodo di eleggibilità, compreso tra il 1 ottobre di due anni prima ed il 30 settembre dell’anno antecedente alla competizione. La parte denominata Premiere ceremony, trasmessa separatamente, si è tenuta lo stesso giorno della manifestazione principale, ed ha visto esibirsi, tra gli altri, India Arie e Taj Mahal Keb’ Mo’, mentre tra gli artisti intervenuti alla cerimonia in diretta TV hanno cantato stelle del calibro di Kendrik Lamar, Bono, Lady Gaga,

Sam Smith, Luis Fonsi, Childish Gambino, Pink, Bruno Mars, Sting, Rihanna, Kesha, Camila Cabello, Cyndi Lauper, Elton John, Miley Cyrus, Patti LuPone, Alessia Cara e Chris Stapleton. A farla da padrone è stato senza dubbio Bruno Mars, con un en plein da sei grammys su sei candidature, sia nella sezione generale che nelle categorie differenziate per genere musicale. Con il brano That’s what I like ha ottenuto i premi di canzone dell’anno, miglior performance R&B e miglior canzone R&B, mentre con 24K Magic quelli per la registrazione dell’anno, l’album dell’anno ed il miglior album R&B, nonché quello per il miglior lavoro di ingegneria audio su un album, grammy assegnato ai tecnici Tom Coyne, Serban Ghenea, John Hanes e Charles Moniz. Tra gli altri premi, da sottolineare la vittoria di Alessia Cara come miglior nuovo artista, il riconoscimento a Tony Bennett Celebrates 90 come

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miglior album vocale pop tradizionale, e la doppietta di Ed Sheeran con Shape of you, miglior performance solista pop, e ÷, miglior album vocale pop. Childish Gambino è stato invece premiato per la miglior performance R&B tradizionale con Redbone, e The Weeknd per il miglior album urban contemporaneo con Starboy. Nella categoria rock, il premio per la migliore performance è stato assegnato a Leonard Cohen per You want it darker, mentre quello per la miglior performance metal ai Mastodon con Sultan’s curse. Run dei Foo Fighters è stata invece valutata la miglior canzone rock, A Deeper Understanding dei The War on Drugs il miglior album rock, ed il riconoscimento come miglior album di musica alternativa è andato a Sleep well beast di The National. La categoria Rap è stata appannaggio di Kendrick Lamar, impostosi con il brano Humble come migliore performance e miglior canzone, con


Loyalty come miglior performance di rap cantato, in collaborazione con Rihanna, e con Damn come miglior album. Anche grazie al brano Love, proprio di Kendrick Lamar e Zacari, Greg Kurstin ha ottenuto il premio al produttore di musica non classica dell’anno. Chris Stapleton ha invece dominato la categoria country, con Either Way premiata come miglior performance solista, Broken halos come miglior canzone e From a room: volume 1 come miglior album. Nella categoria miglior album new age, non l’hanno spuntata né Brian Eno con Reflection, né India Arie con SongVersation: medicine, entrambi battuti da Dancing on Water di Peter Kater. CeCe Winans ha ricevuto, invece, ben tre grammys nella categoria gospel, per la miglior performance di musica cristiana contemporanea con Never have to be alone, per la miglior canzone di musica cristiana contemporanea con What a beautiful name, e per il miglior album gospel con Let them fall in love. Shakira ha ottenuto, con il suo El dorado, il premio come miglior album pop latino, mentre è stato beffato Luis Fonsi, candidato, con il tormentone Despacito, nelle più ardue categorie generali di miglior registrazione dell’anno e miglior canzone dell’anno, e nella sezione pop per la miglior performance di gruppo, ma non in quella riservata alla musica latina. Da notare anche il riconoscimento postumo all’attrice Carrie Fisher, nota per aver interpretato il famosissimo ruolo della principessa Leila nella saga di Star Wars (Guerre stellari), con il premio al miglior album parlato proprio per The Princess diarist, mentre i Rolling Stones hanno conquistato il grammy per il miglior album blues tradizionale con Blue & lonesome. Per la sezione cinema, tv e teatro, il

premio per il miglior album di un musical è stato attribuito alla registrazione di Dear Evan Hansen, quello per la miglior compilation di una colonna sonora per i media visuali a Marius de Vries e Justin Hurwitz per il pluripremiato La La Land, ed ancora quella per la miglior partitura di una colonna sonora per i media visuali sempre a Justin Hurwitz per La La Land, mentre How far I’ll go di Lin-Manuel Miranda, tratto dal cartone animato Moana (Oceania), è stata giudicata la miglior canzone scritta per i media visuali. A partire da questa edizione, alcune modifiche sono state apportate al regolamento della manifestazione. Per quanto riguarda il processo di valutazione, i giurati hanno potuto votare online, vedendosi garantita una maggiore flessibilità in caso di tournée e la garanzia dell’assenza di voti non validi. Per la prima volta, inoltre, anche i cantautori hanno potuto ricevere un grammy nella categoria miglior album dell’anno, insieme a produttori ed ingegneri audio, a patto che fosse loro attribuito almeno il 33 percento del tempo totale di riproduzione, e tale premio è stato esteso anche alle sezioni rap, strumentale contempora-

neo e new age. Oltretutto, è adesso consentito far concorrere l’edizione cinematografica di una traccia nella categoria di miglior canzone scritta per i media visuali, ed anche ulteriori versioni in altre categorie, mentre nella sezione miglior compilation di una colonna sonora per i media visuali è stata introdotta la norma che prevede un minimo del 51% di musica inedita anche per colonne sonore di documentari e film biografici. Con i suddetti cambiamenti, l’organizzazione auspicava la possibilità di ampliare il ventaglio delle canzoni e degli artisti nominati, in modo tale da attrarre un pubblico più ampio ed allargare così il bacino di utenza dei telespettatori della manifestazione. Lo spettacolo, inoltre, generalmente previsto in febbraio, è stato anticipato, come già nel 2010 e nel 2014, per evitare la sovrapposizione con le Olimpiadi invernali di Pyeongchang, in Corea del Sud. Purtroppo, nonostante gli stratagemmi, la risposta del pubblico non è stata delle migliori, con l’audience calato del 24% rispetto all’anno precedente ed uno dei più bassi di sempre nella storia della manifestazione.

Il britannico Sam Smith canta sul palco dei Grammy Awards 2018 La cantante Pink durante la sua performance Elton John e Miley Cyrus si esibiscono in duetto Lady Gaga durante la sua performance

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Luca Guadagnino r e g i s t a d a O s c a r

Andrea Cianferoni

Claire Foy, Clare Stewart, Andy Serkis, Andrew Garfield Luca Guadagnino Colin Farrell Nicole Kidma

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e prime grandi soddisfazioni erano arrivate a Los Angeles dai Golden Globe. Chiamami con il tuo nome di Luca Guadagnino aveva infatti ottenuto tre candidature: miglior film drammatico e migliore interprete protagonista, Timothée Chalamet, e migliore attore non protagonista Armie Hammer. Anche gli altri film italiani hanno riscosso grande consenso: Ella & John − The Leasure seeker di Paolo Virzì è valso una candidatura a Helen Mirren migliore attrice protagonista. Call me by your name, presentato alla Berlinale 2017, nelle sale italiane dal 25 gennaio, adesso riceve un ulteriore riconoscimento internazionale. Ben quattro sono infatti le nomination agli Oscar: miglior film, miglior attore protagonista, Timothée Chalamet, miglior sceneggiatura non originale (adattata da James Ivory) e miglior canzone

originale (Sufjan Stevens − Mistery of love). Presentato in anteprima mondiale al Sundance e poi a febbraio 2017 alla Berlinale, Call me by your name è stato accolto come autentico trionfo tanto dal pubblico quanto dalla critica internazionale anche all’ultimo festival del cinema di Londra. Luca Guadagnino è un talentuoso regista e produttore di origini palermitane, purtroppo poco conosciuto ed apprezzato in Italia. Nel corso della sua carriera ha realizzato cinque lungometraggi (The Protagonists, Melissa P., Io sono l’amore, A Bigger Splash e Call Me by Your Name), a cui si aggiungono diversi documentari (tra questi Inconscio italiano e Bertolucci on Bertolucci). Probabilmente il suo film più rappresentativo, che gli è valso l’appellativo di regista viscontiano, è Io sono l’amore con Tilda Swinton, Alba Rohrwacher, Marisa Berenson e Pippo Delbono, presentato nel 2009 alla Mostra del Cinema di Venezia. Call me by your name (Chiamami col tuo nome), tratto dal

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romanzo di André Aciman, racconta l’età dell’adolescenza, i conflitti familiari, i desideri, la scoperta dell’omosessualità, in una piccola città della campagna Lombarda vicino Crema. Il film è ambientato in un’estate italiana degli anni 80 (lo si intuisce dalle citazioni su Bettino Craxi) durante la quale il giovane Elio, interpretato da Timothée Chalamet, vive le prime esperienze sentimentali dopo l’incontro con uno studente americano, Oliver (Armie Hammer), invitato nella bella casa di campagna dai genitori, intellettuali e cosmopoliti. È infatti abitudine dei padroni di casa, il professor Perlman (Michael Stuhlbarg) e sua moglie Annella (Amira Casar), di invitare ogni anno per uno scambio culturale, un ricercatore universitario; una usanza del mondo anglosassone molto sentita, ma che porterà “scompiglio” nella vita del giovane Elio, che pian piano scoprirà la propria natura e i suoi sentimenti. L’approccio estre-


mamente naturale ed elegante del regista non fa mai scadere il film nella volgarità, probabilmente anche perché Guadagnino in fase di sceneggiatura ha eliminato quasi tutte le scene di nudo che inizialmente erano previste da James Ivory. Ed è forse proprio qui la forza del film, nel desiderio di non ricercare lo scandalo, la provocazione, bensì trasmettere dolcezza e rassicurazione. Un film su una storia d’amore, senza distinzioni tra sessi e ruoli, in un contesto borghese fatto di ville, piscine, giardini, gite in bicicletta, che certamente si ispira alla cinematografia e alle storie raccontate da Bernardo Bertolucci in Novecento, e in Io ballo da sola. Chiamami con il tuo nome, nonostante sia un progetto nato dieci anni fa e passato attraverso una produzione lunga e travagliata, diverse mani prima di Guadagnino (tra gli sceneggiatori compare James Ivory che stava per anche dirigerlo), sembra il sequel spirituale di Io sono l’amore, storie e personaggi diversi, ma stesso gusto estetico. La Sony Pictures Classics ha acquistato i diritti per la distribuzione statunitense del film per 6 milioni di dollari. Successivamente è stato presentato nella sezione “Panora-

ma” alla 67ª edizione del Festival di Berlino e al Toronto International Film Festival, dove ha ottenuto il terzo posto nel premio del pubblico. Prima della distribuzione nelle sale, il film è stato proiettato in molti festival cinematografici internazionali, tra cui New York Film Festival, BFI London Film Festival, Festival internazionale del cinema di San Sebastián, Festival internazionale del cinema di Rio de Janeiro e molti altri. In Italia è distribuito nelle sale da Warner Bros. Entertainment Italia.

Lisa Hoffman e Dustin Hoffman Heather Watson Emma Thompson Joan Collins Charlie Plummer Armie Hammer, Timothee Chalamet, Esther Garrel, Luca Guadagnino alla Premiere di Call Me By Your Name Mary J. Blig Terry Gilliam e Michael Palin

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75°golden globe awards Leonardo Taddei

Nicole Kidman, vincitrice del premio per la miglior attrice in un serie drammatica Il presentatore della manifestazione Seth Meyer Oprah Winfrey Soarse Roanan, con in mano il globo d'oro per la miglior attrice in un film commedia o musicale Meryl Streep, nominata per il film ''The post'' come miglior attrice in un film drammatico Laura Dern, Nicole Kidman, Zoë Kravitz, Reese Witherspoon e Shailene Woodley (da sinistra a destra, rispettivamente) celebrano la vittoria di ''Big little lies' Angelina Jolie Il regista del film ''Call me by your name'', l'italiano Luca Guadagnino (sinistra), in compagnia dell'attrice Alicia Vikander (destra)

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l 7 gennaio 2018, in diretta dal Beverly Hilton di Beverly Hills, in California, si è svolto la 75° edizione dei Golden Globe Awards, la cerimonia di assegnazione dei Globi d’Oro per onorare i più meritevoli prodotti del cinema e della televisione americana. L’evento, trasmesso dal canale statunitense NBC, è stato organizzto da Dick Clark Productions, in associazione con HFPA, la Hollywood Foreign Press Association, ovvero l’organizzazione no-profit dei giornalisti e fotografi che si occupano di attività di intrattenimento negli Stati Uniti per testate e media stranieri. L’HFPA è composta da circa 90 membri provenienti da 55 paesi, e, tradizionalmente, ogni gennaio, si occupa di selezionare e premiare i candidati distintisi durante l’anno appena trascorso. Il presentatore della serata è stato, per la prima volta, il conduttore del talk show Late Night Seth Meyers, che ha avuto l’onore, tra gli altri, di consegnare alla celeberrima collega Oprah Winfrey il premio alla carriera, intitolato al

regista Cecil B. DeMille, primo vincitore nel 1952, per l’eccezionale contributo al mondo dell’intrattenimento. Winfrey è l’unica donna afro-americana nella storia della manifestazione ad essere stata insignita del prestigioso riconoscimento, e, per l’occasione, ha deciso di dedicare il discorso di accettazione alla causa di #MeToo, l’hashtag usato sui social media per sostenere la campagna contro tutte le aggressioni, le violenze sessuali e le molestie, soprattutto sul posto di lavoro, nata a seguito delle accuse contro il produttore Harvey Weinstein, e poi estesasi a molti altri registi, produttori e, purtroppo, anche a professionisti in settori differenti dall’intrattenimento, negli Stati Uniti e nel resto del mondo, Italia inclusa. Le nominations erano state annunciate l’11 dicembre 2017 da Sharon Stone, Alfre Woodard, Kristen Bell e Garrett Hedlund, ed avevano visto primeggiare, con ben sei candidature, la serie televisiva della HBO Big Little Lies (Piccole grandi bugie), tratta dall’omonimo romanzo di Liane Moriarty e premiata dalla giuria con ben quattro globi, quelli di miglior miniserie o film per la televisione, miglior attrice in una mini-serie o film per la televisione, assegnato a Nicole Kidman, miglior attore non protagonista in una serie, miniserie o film per la televisione, andato ad Alexander Skarsgård, e migliore attrice non protagonista in una serie, mini-serie o film per la televisione, attribuito a Laura Dern. Three billboards outside Ebbing, Missouri (Tre manifesti a Ebbing, Missouri) ha ottenuto, invece, il maggior numero di premi nella sezione cinema, anche in questo caso quattro su sei candidature, tra cui miglior film drammatico, migliore sceneggiatura

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per Martin McDonagh, miglior attore non protagonista per Sam Rockwell e, soprattutto, migliore attrice in un film drammatico per Frances McDormand, riconoscimento che la proietta come una delle favorite per la vittoria nella categoria di miglior attrice protagonista anche agli Academy Awards, i Premi Oscar che si svolgeranno al Dolby Theatre di Los Angeles nella notte del 4 marzo, mentre l’Italia sarà alle prese con la difficile interpretazione dei risultati elettorali. Altri due film che si sono particolarmente distinti sono stati The Shape of Water (La forma dell’acqua), il film fantasy di Guillermo del Toro, già premiato col Leone d’Oro al Festival di Venezia nel 2017, e la commedia adolescenziale Lady bird (Ragazza uccello). Entrambi si sono aggiudicati due premi ciascuno, rispettivamente quelli di miglior regista, attribuito a Guillermo del Toro, e di migliore colonna sonora originale, assegnato ad Alexandre Desplat, per The shape of water, e quelli di miglior film commedia o musicale e di migliore attrice in un film commedia o musicale, andato a Saoirse Ronan, per Lady bird. Un altro spettacolo televisivo molto apprezzato dalla giuria, e premiato con i riconoscimenti per la miglior serie commedia o musicale e per l’attrice Rachel Brosnahan, giudicata la migliore in una serie commedia o musicale, è stato The Marvelous Mrs. Maisel (La meravigliosa signora Maisel), la serie ambientata alla fine degli anni ’50 e creata da Amy Sherman-Palladino e Daniel Palladino, già produttori di shows di successo come Gilmore Girls (Una mamma per amica), ma anche The handmaid’s tale (Il racconto dell’ancella), la serie web televisiva tratta dall’omonimo romanzo disto-


pico del 1985 dell’autrice femminista Margaret Atwood, ha ricevuto due globi d’oro, quelli per la miglior serie drammatica e per la miglior attrice in una serie drammatica, attribuito ad Elisabeth Moss. Degni di nota i premi per il migliore attore in un film drammatico, andato a Gary Oldman per l’eccezionale interpretazione del Primo Ministro britannico Winston Churchill agli inizi della seconda guerra mondiale in Darkest hour (L’ora più buia), ed il riconoscimento al migliore attore in un film commedia o musicale, assegnato a James Franco per The disaster artist (L’artista disastro), tributo alla travagliata amicizia tra l’attore Greg Sestero ed il regista e attore Tommy Wiseau, artefici del film cult del 2003 The Room (La stanza), considerato uno tra i peggiori mai realizzati nella storia del cinema. Il miglior film di animazione è risultato essere il cartone Coco, distribuito da Walt Disney Pictures e prodotto da Pixar Animation Studios, mentre curiosa è apparsa la sorte di Aus dem Nichts (Oltre la notte). L’intenso film tedesco di Fatih Akin, con protagonista l’eccezionale Diane Kruger, già premiata per questo ruolo con il Prix d’interprétation féminine al Festival di Cannes 2017, si è infatti aggiudicato il riconoscimento per il miglior film straniero, superando i rivali Una mujer fantástica (Una donna fantastica), in rappresentanza del Cile, Loveless

(Senza amore), in gara per la Russia, e The Square (La piazza), in concorso per la Svezia, ma ha fallito la candidatura ai Premi Oscars, obiettivo realizzato, invece, dagli altri tre concorrenti. La presenza italiana è stata garantita dal film Call me by your name (Chiamami col tuo nome), del regista palermitano Luca Guadagnino, che ha ricevuto tre candidature, quella per il miglior film drammatico, e quelle a Timothée Chalamet, per il miglior attore in un film drammatico, e ad Armie Hammer, per il miglior attore non protagonista, senza però riuscire a conquistare nessun premio. Una bella storia a lieto fine, comunque, quella del regista siciliano di origine algerina, che era entrato a far parte del progetto, inizialmente, solo come consulente di location, spostata nella sceneggiatura di James Ivory dalla riviera ligure alle zone del Cremasco, ed alla fine, invece, promosso addirittura a regista, dopo che i produttori americani Peter Spears e Howard Rosenman, avendo acquistato i diritti per il grande schermo dell’omonimo romanzo di André Aciman prima ancora della pubblicazione, si erano trovati in difficoltà a causa delle rinunce di molti altri registi, tra cui Gabriele Muccino, Ferzan Özpetek e Sam Taylor-Johnson. Guadagnino potrà, in ogni caso, tentare di rifarsi agli Academy Awards, dove il suo film è stato candidato a ben quattro premi, l’Oscar per il mi-

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glior film, per la miglior sceneggiatura non originale, per la miglior canzone, con Mystery of love di Sufjan Stevens, e per il miglior attore protagonista.


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Ombra Diva storie di donne in cornice

Margherita Casazza

Antonietta Rembado nella Silvia von Harden Viola Dressino in Cecilia Gallerani Elena Tura nella Battista Sforza Franco Bonfanti nella parte del Professore dal Café des Artistes Carla Spinola in Jeanne Hébuterne Adele Vizzini nella Meniña di Velasquez Laura Inglima nella Madonna di Munch

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mbra Diva che, ad opera degli "Amici di Babouche", va in scena nei teatri di Savona, Finale Ligure e Pietra Ligure, è lo spettacolo che continua la sperimentazione della Drammaturgia Visiva di Gloria Bardi e Stefano Stacchini in un contesto di Show Art. Gli autori hanno dato corpo e voce alle ombre di varie donne messe in cornice nel corso della Storia dell'Arte, divinizzate da pittori e committenti e destinate a un'immortalità a dispetto della vita reale, sempre mortale e sempre imperfetta. Le donne sono sottratte al divenire e al contesto, che certo sciuperebbe molto della loro bellezza fittizia fatta di astrazione, sottrazione, inganno. Preziosa la collaborazione di Marco Segrini in qualità di coach degli attori. Cecilia Gallerani (1473-1533) aveva 16 anni quando il duca di Milano, cavaliere dall'ordine dell'ermellino, la scelse come favorita, portandosela a palazzo e facendone immortalare le sembianze da Leonardo da Vinci. Dopo le nozze con Beatrice d'Este, Cecilia, gravida, venne allontanata in cambio di un matrimonio dignitoso, tenute e beni. Nei propri palazzi, Cecilia divenne donna di cultura e mecenate. In una lettera a Isabella

d'Este, che l'aveva in passato protetta e che vorrebbe esporre il quadro a Mantova, dichiarò di detestare quel suo ritratto giovanile, che l'ha fissata in un'età distante ed 'imperfecta”. Il quadro scomparve per molto tempo, per poi riapparire in Polonia nelle stanze del Terzo Reich, uno dei quadri trafugati dai nazisti. Jeanne Hébuterne (1898-1820) fu la compagna e la principale musa di Modigliani, che seguì a dispetto della contrarietà della famiglia, condividendone abusi, rovina e malattia. Si ritrovarono a vivere in miseria nell'atelier messo a disposizione di un amico, che raccontò di averli trovati nella trasandatezza tra scatole di sardine aperte, assieme alla figlia Jeanne. Madre e figlia avevano lo stesso nome. Alla morte di Modì, Jeanne, incinta, ritornò dai suoi genitori ma non resse e si suicidò, incinta, gettandosi dalla finestra. Margherita Teresa d’Asburgo (16511673), figlia di Filippo IV di Spagna e di Marianna d'Asburgo, consanguinei, era stata promessa dalla nascita a Leopoldo I, imperatore del Sacro Romano impero, suo zio materno. Velasquez e gli altri pittori di corte vennero incaricati di ritrarla via via che cresceva, perché in Austria potessero verificarne l'aspetto. I matrimoni tra consanguinei rendevano difficile la sopravvivenza e la salute dei figli e, nel timore che il gracile figlio maschio morisse, il re di Spagna ostacolava la partenza per l'Austria della primogenita, erede di riserva. Alla morte del padre, Margherita, di ormai 15 anni, partì per Vienna, dove morirà ventitreenne senza aver dato l'erede all'Imperatore malgrado sei gravidanze, quattro parti e solo una figlia femmina sopravvissuta.

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Madonna di Munch Edward Munch tra il 1894 e il 1895 dedicò al soggetto cinque diversi quadri a olio, svariati disegni e molte litografie, dove la madonna è vista in accezione espressionista e dissacratoria. In una non è presente il piccolo embrione, che invece compare nella cornice delle altre versioni, assieme agli spermatozoi e che preannuncia il protagonista de L'urlo. Nella figura femminile si riflette il senso del macabro introiettato da Munch a seguito della morte della madre, quando lui aveva cinque anni, e della sorella maggiore, Sophie, per tisi, quando lui ne aveva 12. Nel 2004 uno dei quadri venne rubato, assieme all'urlo, per essere entrambi ritrovati nel 2006. Sylvia von Harden (1894-1963) la poetessa-giornalista fissata nella parodia di una libertà priva di naturalezza ed entusiasmo, riferì in uno scritto del 1959 il colloquio che ebbe con Otto Dix, quando costui volle dipingerla per farne l'emblema di un'epoca, quella tra le due guerre mondiali, in via di grottesca deformazione. Dix era reduce dal primo conflitto intrapreso con entusiasmo ma concluso all'insegna dell'orrore di guerra, che, diventato pacifista, dipinse in quadri che i musei respinsero giudicandoli antipatriottici. All'ascesa del nazismo, l'espressionismo venne bollato come arte degenerata e nel 1937 molti capolavori furono esposti in Berlino al pubblico ludibrio. Il quadro si trova a Parigi, nel Centre Pompidou. Battista Sforza (1446-1472) Piero della Francesca venne incaricato di dipingere il ritratto della duchessa di Urbino, nel 1472, dopo che lei era morta. Nel 1465, infatti, il duca si era fatto ritrarre da solo, mostrando il profilo sinistro, per nascondere la fe-


rita che gli aveva reso cieco l'occhio destro, inducendolo a farsi segare il naso per poter riguadagnare campo visivo. Figlio illegittimo, era diventato duca grazie a congiure, delitti e legami politici. Si comportò a Urbino da mecenate e attirò artisti come Paolo Uccello e Piero della Francesca. Sposò in seconde nozze Battista Sforza, che prima di morire dispose di venir seppellita nel convento delle monache, vestita con un semplice saio, anziché a Palazzo con le effigi ducali. Il luogo della sua sepoltura risulta sconosciuto. Daniela Piazza scrittrice e docente di Storia dell'Arte, Ombra Diva dà voce alle di Donne di Altri: la Cecilia Gallerani di Ludovico il Moro), la Jeanne di Modigliani, la Meniña di Velasquez, la Madonna di Munch, la Sylvia von Harden di Otto Dix, la Battista Sforza di Federico da Montefeltro o di Piero della Francesca: donne che sono sempre state DI QUALCUNO e che ora ci raccontano invece le loro emozioni e, spesso, il loro dolore, nascosti dietro a quel possesso. Da semplici oggetto di ritratti immobili queste donne riacquistano un corpo e una vita, e soprattutto una storia che ci impongono con forza.

Carlo Daniele Architetto e docente di Storia dell’Arte, in Ombra Diva sottolinea il rapporto tra i soggetti femminili tra i più iconici incontrati nella storia dell'arte, e il loro derivato oggetto, il ritratto; ovvero il rapporto tra il concreto prodotto, interpretato, ridotto, fissato, e l'astratta complessità e mutevolezza dell'ombra. Alfonso Gargano Artista e Preside del liceo Classico e Artistico Chiabrera-Martini di Savona pone l’attenzione sulla Pittura ad Arte smascherata in”Ombra Diva. … paradossalmente i soggetti originali, in carne ed ossa, potrebbero non assomigliare ai loro ritratti, se è intervenuta una manipolazione tesa ad esaltare il ruolo ricoperto dal personaggio o la condizione sociale a cui appartiene. Roberto Trovato Docente di Drammaturgia all'Università di Genova evidenzia nel Professore la maggiore forza satirica dell’autrice. In scena vediamo spesso il personaggio di un disincantato professore che dalla terrazza del Café des Artistes fa alcune riflessioni in cui esprime le idee generate sul finire dell'Ottocento dalla protesta straziata di Poe, Baudelaire e Wilde, sulla mercificazione della vita e quindi anche dell’arte.

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A l i c e senza tempo 120 anni fa moriva Lewis Carroll Giorgio Banchi

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ewis Carroll è lo pseudonimo di Charles Lutwidge Dodgson, matematico e scrittore inglese nato nel 1832 e morto nel 1898. Moriva centoventi anni fa, ma il suo enigmatico capolavoro è più vivo che mai e continua a ispirare film, danza e teatro. Lo pseudonimo è un gioco di parole fra i suoi due nomi di battesimo: Charles (Carolus in latino) è diventato Carroll; Lutwidge (Ludovicus in latino) è diventato Lewis. È molto probabile che Lewis Carroll soffrisse di un particolare disturbo neurologico che causava allucinazioni e distorsioni nella forma degli oggetti, facendoli sembrare molto più piccoli o molto più grandi (un tema ricorrente, nel libro). Lewis Carroll scrisse Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie nel 1865. Secondo la tradizione, la storia sarebbe stata inventata durante una gita in barca. La complessità del testo originale, ricco di giochi di parole, filastrocche, poemetti riferimenti letterari mascherati difficilmente traducibili in un’altra lingua, nessun libro per l’infanzia ha così tante possibilità di letture diverse. L’autore, essendo un matematico, nasconde tra le righe molti giochi ed enigmi nu-

merici, che si sommano ai numerosi indovinelli che costellano la avventure fantastiche della protagonista. Alice, ispirata idealmente dalla piccola Alice Liddell, amica del reverendo Carroll, possiede alcune particolarità caratteriali studiate in funzione del messaggio che l’autore vuol trasmettere. La protagonista infatti è molto ragionevole ed educata, ma non per questo è meno curiosa. Queste sue caratteristiche, che movimentano la scena e i dialoghi, raramente la mettono in serio pericolo; in ogni caso, da ogni situazione la bambina se ne tira fuori nel modo più razionale possibile, senza nulla togliere al gusto dell’avventura e allo svolgimento ironico o assurdo della storia. Il Coniglio Bianco (o Bianconiglio) è il più famoso personaggio incontrato da Alice nel suo viaggio: è proprio per cercare di seguirlo nella sua tana che Alice arriva nel Paese delle Meraviglie, alle porte del quale abita il coniglio con una cameriera di nome Marianna.

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Il Bianconiglio è una sorta di portavoce della Regina di Cuori, non si mostra mai troppo interessato ad Alice, ed è particolarmente famoso per ripetere spesso l’espressione «È tardi, è tardi!». Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie è un libro ricco di dialoghi e di frasi incisive, che col tempo sono diventate molto famose.“Tagliatele la testa!” è la frase che meglio rappresenta il personaggio della Regina di Cuori. Ogni volta che la sentiamo non possiamo fare a meno di pensare al suo volto rosso di rabbia. Un giorno Alice arrivò a un bivio su una strada e vide lo Stregatto sull’albero, «Che strada devo prendere?» chiese Alice. La risposta fu una domanda: «Dove vuoi andare?» «Non lo so», rispose Alice. «Allora, – disse lo Stregatto – non ha importanza.» È uno dei dialoghi più famosi del libro, quello tra Alice e lo Stregatto, un personaggio molto rappresentativo dell’ambiguità del testo: è enigmatico e sempre al di sopra delle parti, mai a favore o mai contro nessuno. Anche nel film di animazione della Disney lo Stregatto è rimasto uno dei personaggi più buffi e ambigui di tutta la vicenda. «Non posso tornare a ieri perché ero una persona diversa allora» dice Alice, riferendosi ai continui mutamenti del suo corpo nel Paese delle Meraviglie. Col tempo questa frase è diventata il simbolo della costante mutabilità della natura umana. Alice, quindi, rappresenta l’infanzia come dovrebbe essere secondo l’autore: libera e spensierata ma non per questo sciocca, capace di rapportarsi con il mondo ma non di perdere (come invece gli adulti) la dote preziosissima della fantasia sognatrice. Una storia, quella di Alice, senza tempo.


NOVITà EDITORIALI

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’attesa è un romanzo al femminile senza essere necessariamente di genere, in cui tutto ruota attorno alla protagonista Arianna e al tempo che, come in ogni romanzo che si rispetti, può diventare per lei il peggiore nemico l'alleato più importante. L’autrice, viareggina di nascita e formazione, decreta a location ideale propria la sua città, rendendola tra le pagine del suo romanzo e la cornice ideale di una Viareggio festaiola e malinconica, dove far scorrere la vita e le vicende della giovane protagonista. Una giovane donna che non si riconosce e non si adatta al mondo che la circonda. Non ama le stesse cose che amano e su cui si struggono le sue amiche, deve fare perennemente i conti con una madre accentratrice che la vorrebbe bambina per sempre e, come se non bastasse, deve vivere anche con il fidanzato di quest’ultima, in una famiglia dove anche se non ci sono problemi esistenziali effettivi, tutti sembrano non accorgersi dei desideri e dei bisogni degli altri. Ma un giorno Arianna incontra Teseo, un anziano attore, e tra i due è subito intesa. L’uomo desidera ritrovare la felicità perduta e la giovane donna vuole trovare la sua strada e il suo destino. Il fato, però, a volte è ben lungi dall’essere benevolo e Arianna e Teseo si ritrovano imprigionati entrambi in un epilogo che non si aspettavano. Legati insieme da un filo che ognuno di loro porta come un marchio di fabbrica nel proprio nome.

L'attesa

di Martina Benedetti

Eclettica Edizioni

ROMANZO

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o mi libro è una raccolta di 500 frasi umoristiche catturate durante i nostri piccoli e grandi avvenimenti quotidiani, che mettono alla luce le peculiarità delle nostre consuetudini, in chiave sarcastica. Ogni nostra azione, atteggiamento o comportamento si può prestare a diverse sfaccettature emblematiche. Nel contesto di quest'opera, l'autore ha cercato di cogliere gli aspetti più imbarazzanti e comici che possono scaturire durante il lavoro, nel tempo libero, e più in generale durante ogni situazione paradossale che ognuno di noi, anche a propria insaputa, può all'improvviso affrontare: momenti generati dal "teatro dell'assurdo" o da presunte coincidenze derivate dall'ambiguità d'una parola, o dal fraintendimento di una frase.

Io mi libro di Alessandro Pagani 96, Rue De La Fontaine

UMORISMO Aurora nel buio è il thriller di Barbara Baraldi che racconta di Aurora, una poliziotta che indaga e agisce fuori dalle regole per salvare la piccola Aprile ed evitare nuovi omicidi. Aurora Scalviati era la migliore, fino al giorno di quel conflitto a fuoco, quando un proiettile ha raggiunto la sua testa. Da allora, la più brava profiler della polizia italiana soffre di un disturbo bipolare che cerca di dominare attraverso i farmaci e le sedute clandestine di una terapia da molti considerata barbara: l'elettroshock. Quando per motivi disciplinari Aurora viene trasferita in una tranquilla cittadina dell'Emilia, si trova di fronte a uno scenario diverso da come lo immaginava. Proprio la notte del suo arrivo, una donna viene uccisa. Il marito è scomparso e l'assassino ha rapito la loro bambina, Aprile, di nove anni. Su una parete della casa, una scritta tracciata col sangue della vittima: ''Tu non farai alcun male''. Aurora è certa che si tratti dell'opera di un killer che ha già ucciso in passato e che quella scritta sia un indizio che può condurre alla bimba, una specie di ultimatum... Ma nessuno la ascolta. Presto Aurora capirà di dover agire al di fuori delle regole, perché solo fidandosi del proprio intuito potrà dissipare la coltre di nebbia che avvolge ogni cosa. Solo affrontando i demoni della propria mente potrà salvare la piccola Aprile ed evitare nuove morti...

GIALLO

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Aurora nel buio di Barbara Araldi Giunti editore

Angelo Errera

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c arnevale d‘ autore

novanta candeline per Santa Croce in maschera Ada Neri

1939 Gruppo La Luna Gli Allegri Eroi 1949 Gruppo Il Saladino Pinocchio 1948 Gruppo La Luna I Promessi Sposi

Il volume è stato realizzato dal Comitato Comunale con il contributo del Comune di Santa Croce sull'Arno. Margherita Casazza, della casa editrice Centro Toscano Edizioni, ha provveduto alla ricerca del materiale fotografico e alla cura editoriale. Ylenia Di Blasi, consigliere del comitato, ha redatto i testi riguardanti la storia e le testimonianze dei carnevalai. Il libro è accompagnato da un CD con la riedizione di tutte le canzoni che Don Backy ha dedicato al carnevale.

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n viaggio lungo novant’anni nella storia del carnevale, fra immagini e canzoni che di fatto ne hanno scandito le tappe e la quotidianità in tutti questi anni, a Santa Croce sull’Arno. Nelle foto si possono riconoscere tante maschere che hanno fatto la storia del nostro carnevale e ancora oggi, sempre in piazza, a ballare e sfilare per amore del carnevale ci sono i figli e nipoti per continuare la loro passione e a loro volta tramandare alle generazioni future la tradizione carnevalesca. Per il Carnevale sono stati anni di successi e soddisfazioni che hanno consolidato il rapporto della manifestazione con il paese, dando la possibilità di ritrovarsi in modo continuativo, di stringere nuove amicizie, coltivare rapporti sociali e personali, ma la cosa più importante comunque è sempre stato divertirsi insieme. Così si racconta come nacque il carnevale a Santa Croce sull’Arno. Il duro lavoro della concia faceva ricercare momenti di svago predisponendosi alle trasgressioni e a quel ribaltamento delle gerarchie sociali

che è tipico dello spirito carnevalesco. Già dalla seconda metà alla fine dell'Ottocento, era emersa un’anima anarchica. Si fondò una "Società dei ghiotti” e fu la musica, prima di tutto con La Banda, che affondava le radici nella seconda metà dell'Ottocento e con l'inaugurazione del Teatro Verdi nel 1902, diventò godimento di interi nuclei familiari. Fu poi la Società degli Spensierati, che formò una nuova banda e pose le premesse perché nascesse e si sviluppasse lo spirito carna-

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scialesco. È dei primi del Novecento l’Inno degli Spensierati con parole di Nazzino Nazzi, musica di Gino Gufoni e arrangiamento di Pilade Riccioni: «Muore amici, il carnevale,/ Ci vogliamo divertir:/ Si va in tasca allo speziale, / festeggiando questo dì.» La concia rompeva le ossa, c’era l’agguato dell’infezione carbonchiosa, i luoghi di lavoro erano chiusi ed oscuri: putridi. Il Carnevale fu voglia di uscire all’aria aperta, nel cielo freddo e limpido di febbraio dove le cose si staccano


nitide dentro la luce che le investe. Nel 1928 vennero i primi carri e molte maschere, dalla volontà e dalla passione di due figure santacrocesi: Pilade di Pattona e Cesarino (costruttore di carri fin dal 1905); fu la “Nascita del carnevale” con l’orchestra di Adolfo Mechetti e poi “Pinocchio” di Pilade Riccioni. Era un carnevale povero dove si fondevano i motivi e i materiali di una vita contadina con la nuova cultura industriale moderna. Nel 1935 fu creato un comitato cittadino e fu perfezionata l’organizzazione. Altri animatori, accanto a Cesarino Pacchiani, furono Virgilio Pagni e Idilio Lippi. Sorsero allora i primi gruppi carnevaleschi collegati ai vari Bar: Il Gatto, per il Bar di Fio, il Saladino, per il Commercio, La Luna per Bar Uccello. Più tardi, nel 1938, si aggiunse Nuovo Astro del Bar Italia. I grandi carri trainati da buoi, le maschere di cartape-

sta risentivano dell’influsso viareggino per la presenza e la personalità di artisti come D’Arliano, Santini e altri. Negli anni ’30 i temi ricorrenti si legarono alla scienza (vista dalla fantasia popolare nell’aspetto grottesco e ingannatore “Lo scacciavecchiaia, prof. Voronov”), al mito di “Carnera”, ad avvenimenti internazionali come il carro del “Negus” del 1937 dove Ailè Selassie troneggiava sopra un somaro dalle grandi orecchie. Apparve la fantascienza con i titoli “Viaggio sulla luna” del 1935, e “Ritorno dalla luna” nel 1937. Si rappresentarono episodi di vita quotidiana e familiare conditi con un pizzico di erotismo. A questi si intrecciavano motivi esotici: la misteriosa Africa nel carro “Il cacciatore”. Apparvero i fumetti di Walt Disney e altre fiabe come “ Il Saladino” e “Biancaneve e i sette nani”. E la storia continua...

Gruppo Gli Spensierati

Gruppo La Nuova Luna

Gruppo La Lupa

61 Gruppo Il Nuovo Astro


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la tsantsa che ride Matthew Licht

foto di Michael Reeve

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a prima impressione che ebbi della giungla amazzonica era che non mi piaceva. Impressione confermata quando l’avvocato disse che ci eravamo persi. Tutte le sue chiacchiere, vestitino safari e gingilli GPS non ci avrebbero tirati fuori da lì. L’unica cosa da fare, disse, era battere su un albero. Ci mettemmo a martellare sul fusto di una magnolia con i lati non taglienti dei nostri machete. “Ecco, dovrebbe bastare così,” disse l’avvocato. “Ora aspettiamo.” “Di morire?” Deglutì forte. “Aspettiamo gli indios.” Non ci misero molto ad arrivare. Erano poderosi dèi della foresta, dalla pelle scura e lucente, i capelli neri tagliati a ciotola. Bracciali di fibra gonfiavano i loro bicipiti. L’avvocato tese il suo machete, tenendolo per la lama, offrendoglielo in un gesto di pace. L’indio più alto e forzuto lo prese e gli mozzò la testa con un colpo solo. Il sangue schizzò dappertutto. Il corpo senza testa cadde piano, come un albero spruzzante sangue. Non

appena toccò la terra spugnosa, gli fu addosso uno sciame di formiconi rossi e scorpioni. L’indio mozzatore di teste mi guardò. “Lui, l’avevamo già visto, da queste parti,” disse. “Era un avvocato. Lavorava per le multinazionali. Loro ci abbattono gli alberi, e fanno costruire supermercati. Tu sei uno di loro?” “Io? Per nulla. Scrivo racconti buffi.” “Ciò non è come essere avvocato, vero?” “Decisamente no.” Uno degli indios raccattò la testa grondante dell’avvocato e la mise in una sporta tessuta da liane. “Siete Jívaros? Yanomami?” chiesi al mozzatore di teste. “Siamo Bororos. Io sono il Capo UaiUai.” “Siete voi che credete che noi esseri umani non siamo individui, ma solo parti di una coscienza collettiva, interamente dipendenti da ciò che ci circonda per la nostra identità?” “Proprio noi. In questo momento, per esempio, tu esisti perché non ti abbiamo tagliato la testa… non ancora. Andiamo.” Quei Bororos camminavano spediti. Passare attraverso la giungla fitta e soffocante era, per loro, come fare due passi su Broadway. Il loro villaggio era una radura piena di capannoni di vimini. Gli abitanti, accovacciati nudi, mi fissarono come se non avessero mai visto prima un uomo bianco calvo. Le damigelle Bororo sembravano amichevoli. Una di loro mi salutò, scuotendosi tutta. Capo Uai-Uai mi afferrò per l’orecchio e mi trascinò dentro un capannone. Mi trovai in un ambiente di soli uomini: vecchi che sembravano pipistrelloni rasati, guerrieri pieni di muscoli e machetes. C’era un fuoco

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acceso, nonostante facesse così caldo fuori. Cominiciai a sudare freddo. “OK, comico venuto della grande città... facci ridere.” “Ehi, aspettate. Non sono mica una specie cantastorie tribale. Ho bisogno di un microfono, un certo abbigliamento, luci colorate. Il mio umorismo è sottile e sofisticato. Le mie battute si basano su riferimenti culturali intraducibili.” “Noi rifiutiamo la cultura e la civilizzazione. Qual è il problema? Sei stanco di vivere?” Non risposi. Ciò che avevo da dire sulla vita li avrebbe solo spazientiti. Iniziai con banali aneddoti di carabinieri, venditori ambulanti. Niente. Provai a tirare fuori il dottor Johnny Wong, un nanerottolo asiatico, proctologo. Faceva sempre morire dal ridere, a Las Vegas. Presero a battere le dita sui loro machete. Ero spacciato. Sono afflitto da una condizione nervosa. Quando ho paura, non riesco a trattenere il gas intestinale. Il mio medico a Hollywood mi assicura che questo malanno non è letale, anzi. Mi sfuggì una scoreggia simile a un fischio d’uccello. Fu un colpo di genio. Li feci schiantare, quei Bororos. Risero come pazzi. Forse non mi avrebbero decapitato e mangiato. Scoreggiai dalla gioia. I Bororos si misero a rotolare per terra. Mi pregarono di fermarmi un attimo, per far venire ad ascoltare anche le donne. Le risate, per i Bororos, sono un diritto universale. Avevano solo voluto assicurarsi che non raccontassi storie buffe ma oscene, offensive. Cercai di alzare il tono, fischiai l’inno nazionale del mio grande paese. Le


Bororos ridevano delicatamente, coprendosi le bocche con le loro mani ornate di polline di magnolia. Mi sembrava di sentire il coro di tutti gli uccelli e le scimmie della giungla. Dopo qualche ora, ero uno zeppelin forato. Si era fatta notte. Chiesi a Capo Uai-Uai se potevo fare una pausa, magari bermi una scodella di chicha. “Ancora una,” disse lui. “Dacci la gloriosa finale.” Feci del mio meglio per imitare il canto delle balene. A cena mangiammo scimmia arrostita. Almeno speravo che fosse scimmia. Ripetuti cocktails di chicha fecero effetto. Capo Uai-Uai spinse verso di me una donna alta, dal sorriso solare. Era la mia nuova moglie, Miao. Come vuole la tradizione Bororo, mi imboccò con le dita affusolate il loro dolce preferito, cioè crema di formiche di fuoco. Una pappa ributtante, ma non dissi niente. Sentii borbottare l’intestino. Lo spettacolo di mezzanotte fu un successo senza precedenti. La mia posizione nella vita tribale era alquanto privilegiata. Non ero tenuto a partecipare alla caccia, o alla guerra, o alla ricerca di teste da mozzare e rimpicciolire, se non me la sentivo. Al Capo Uai-Uai spettava la prima scelta sulla roba da mangiare, poi allo stregone, poi ad un fustacchione che ammazzava giaguari a mani nude, poi a me. Ogni tanto ero di scena per la Serata del gas intestinale. I Bororos non si stancavano di sentire barzellette ad aria compressa. Miao imparò presto a farmi da valletta. La musica faceva schifo—tamburi attutiti e flauti lunghi due metri—ma il sindacato dei musicisti Bororos minacciarono una rivolta a suon di machetes quando proposi dei cambiamenti al loro repertorio. In breve tempo i guerrieri smisero di partire per le battute di caccia. Una spedizione punitiva contro una tribù rivale fu annullata. La produzione del manioc si bloccò del tutto. Avevano imparato tutti il linguaggio universale della comicità. I feroci, temutissimi Bororos erano diventati la tribù più buffa del bacino amazzonico. Capo Uai-Uai voleva recidere a dritta e a manca delle teste per mantenere la disciplina, ma era distratto dal suo dovere perché la rabbia gli faceva lo stesso effetto che il terrore di essere ucciso tra mille torture suscita in me. Scoreggiava più forte del tuono. Ma ora faceva solo ridere a crepapelle la sua tribù. Lo sciamano avrebbe potuto accu-

sarmi di essere uno spirito maligno. Sarebbe bastata una sua parola per farmi finire fritto nell’olio di palma per un’orgia cannibale. Ma anche il vecchio stregone era ossessionato dalla comicità. La sua dieta era a base di erbe magiche che lo facevano scoreggiare in modo gracchiante, come le racchie del villaggio. Si sentiva ridicolo, ma faceva delirare le vecchie. Si ritrovò pieno di nuove fidanzate sdentate. I Bororos erano ridotti ad un branco di scimpanzé, babuini, iene e tutti gli altri animali capaci di ridere, ed era tutta colpa mia. La coscienza mi diceva che me ne sarei dovuto andare dal loro villaggio, ma tra me e la civiltà corrotta c’era la giungla impenetrabile. Sapevo che da solo non ce l’avrei mai fatta. “Senti, Miao,” dissi. “Sono un uomo cattivo.” “No che non lo sei, paparino. Mi fai ridere così tanto.” “Ne sono felice, bambola. Ma non sono buono per la tua tribù. Voi Bororos per natura dovreste essere dei fieri, feroci guerrieri cacciatori di teste, ma siete diventati dei subnormali scoreggioni. Non fate che ridere e emettere metano.” “Tu ci hai insegnato che ridere insieme è meglio che fare la guerra,” disse lei. “La comicità non è una cosa violenta e/o primitiva.” “Sì, ma… devo andarmene comunque. Voglio tornare alla mia tribù.” Pianse, ma capì. Disse che mi avrebbe accompagnato. Sapeva che nella

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giungla mi sarei solo perso. I giaguari e i caimani avrebbero fatto di me spezzatino. Partimmo poco prima dell’alba. Capo Uai-Uai ci stava aspettando. Spuntò da dietro un banyan, con in mano il machete. Non aveva l’aria di voler scherzare. Spinsi di lato la piccola Miao. “Avanti, Uai-Uai, amico mio. Fa’ di me un esempio di ciò che succede ai comici inutili alla società e nemici del progresso.” Mi strinse al petto in un ultimo abbraccio fraterno, spremendomi una scoreggia che sembrava un trombone che fa stecca su Si bemolle. “Ci siamo divertiti un casino,” disse. “Ma ora sparisci, viscido.” Come regalo d’addio mi diede la testa del mio ex-amico avvocato, rimpicciolita fino alle dimensioni di un pugno. Ne ero estasiato: per qualche motivo, avevo sempre desiderato una tsantsa. Miao mi portò al confine della foresta pluviale e mi indicò la spiaggia di Copacabana. Eravamo arrivati in tempo per il tramonto. Ballammo una nostalgica lambada tra gli alberi sgocciolanti e pieni di uccelli e scimmie che ridevano. Poi scomparve dietro il sipario di liane e erba elefante. La testa rimpicciolita dell’avvocato pende dal codino sopra il televisore. I Bororos lo hanno modificato. Se tiro la cordicella che gli esce dall’orrenda ferita ricucita del collo, l’avvocato mi fa una sonora pernacchia, mi sputa addosso e ride maniacalmente.


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BORGO SANTO PIETRO

Ricovero duecentesco per viaggiatori in pellegrinaggio verso Roma, la villa del Borgo conserva quel fascino di residenza campagnola in pietra, circondata da bellissimi giardini all’italiana annoveranti un profumato roseto ed il viale di cipressi. Intorno, costruzioni rurali completano un quadro architettonico decisamente bucolico.

Borgo Santo Pietro

WINE&FOOD: Lo stellato ristorante Meo Modo sforna prelibati piatti italici serviti con la cura richiesta dalla etichetta intenazionale, con prodotti biologici coltivati nella tenuta e, naturalmente, accompagnati da vini pregiati. PERNOTTAMENTO: Elegantemente arredate in uno stile barocco delicatissimo, camere e suite rendono unica la magia della villa, da assaporare dopo una rilassante capatina nella wellness Spa. Borgo Santo Pietro Loc. Palazzetto 53012 Chiusdino (SI)

MONSIGNOR DELLA CASA

Monsignor della Casa

Antico borgo dall’architettura tipicamente toscana, Monsignor della Casa emana quel fascino senza tempo delle costruzioni in pietra. Il vasto parco circostante ospita La Casa, splendida e squadrata villa rinascimentale dove nacque Giovanni, il Monsignore, autore del famoso Galateo dedicato al bon ton. WINE&FOOD: L’Enoteca del Monsignore sforna prelibate pietanze a base di pasta fresca, cacciagione, tartufo, prodotti stagionali, da accompagnare con una variegata offerta di vini rispettabilissimi. PERNOTTAMENTO: Ospitati nei secolari casali sapientemente ristrutturati, appartamenti, camere, ville in stile rustico toscano, allietano il soggiorno nel resort, sollazzati da artistici letti in ferro battuto e dalla rilassante wellness & spa. Monsignor della Casa Via di Mucciano 7 50032 Borgo San Lorenzo (FI)

CASTELLO BANFI

Castello Banfi

Superbo maniero quattrocentesco con tanto di torre merlata e cortina muraria, la sua possente architettura si sviluppa intorno al cortile rinascimentale ingentilito da archi poggianti su pilastri ottagonali, stemma mediceo, lunotti decorati. I suoi interni ospitano il Museo del Vino e del Vetro. WINE&FOOD: La Taverna e Sala dei Grappoli personificano la buona tradizione culinaria toscana, accompagnata dai prestigiosi vini di Casa Banfi spazianti dai montalcinesi Brunello e Moscadello ai rinomati Chianti Classico. PERNOTTAMENTO: Dominato dal castello, l’onirico borgo contadino ospita lussuose camere e suite, immerso tra splendidi giardini. A disposizione degli ospiti sofisticati prodotti di vino-terapia. Castello Banfi Loc. Castello di Poggio alle Mura snc 53024 Montalcino (SI)

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meraviglie toscane Alex Paladini

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’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), è composta da una serie di istituzioni intergovernative, ognuna delle quali ha un proprio specifico campo d’interesse. Una di queste istituzioni specializzate è l’UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization), ossia Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura. La sua creazione è avvenuta il 4 novembre 1946, a Parigi, dopo che una ventina di Stati aveva accettato l’Atto Costitutivo, redatto un anno prima (16 novembre 1945) a Londra, durante una conferenza organizzata per invito dei governi della Gran Bretagna e della Francia e alla quale avevano partecipato i rappresentanti di 44 Paesi. Il motto dell’UNESCO è “building peace in the minds of men and women”, cioè “costruire la pace nelle menti degli uomini e delle donne”. L’UNESCO, infatti, è nato avendo come sua missione quella di contribuire al mantenimento della

pace, del rispetto dei diritti umani e dell’uguaglianza dei popoli, attraverso i canali dell’educazione, della scienza, della cultura e della comunicazione. La Toscana vanta sette luoghi che a partire dal 1982, sono stati inseriti nella lista dei siti dichiarati Patrimonio dell’Umanità da parte dell’Unesco. Firenze con il suo centro storico, fulcro

dell’identità culturale toscana, culla del Rinascimento, capoluogo regionale e città natale della fiorente arte rinascimentale, che ha dato vita ad uno dei centri storici più affascinanti e ricchi di arte, storia e cultura al mondo, è stato il primo dei siti toscani ad esser inserito nella lista dell’Unesco. Siamo di fronte a una sorta di museo

a cielo aperto, una galleria continua di opere d’arte in perfetta simbiosi con l’architettura paesaggistica ed urbanistica che ne caratterizza il tessuto sociale: l’identità culturale di questa città dalle infinite meraviglie risiede proprio nella sua anima artistica, che nel corso dei secoli ha forgiato la città che noi tutti oggi conosciamo. La maestosità della città viene data dalla grandiosità di opere come la Cattedrale di Santa Maria del Fiore, la Chiesa di Santa Croce, il Palazzo degli Uffizi, opere di artisti come Giotto, Brunelleschi, Botticelli e Michelangelo. Pisa. Una gemma protetta da possenti mura medievali e Piazza Duomo rappresenta la perfezione architettonica dello stile Romanico Pisano, un abbinamento di motivi classici, paleo-

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cristiani, lombardi ed orientali. I monumenti che qui si affacciano, il Duomo, la Torre Campanaria, il Battistero ed il Camposanto, sono di una bellezza che lasciano gli spettatori senza fiato. Nonostante sia la singolare pendenza della Torre (dovuta a un cedimento del terreno riscontrato già ai tempi della sua costruzione, iniziata nel 1277) ad attrarre e incuriosire milioni di visitatori, questa piazza dal candido splendore, suscita da secoli ormai uno stupore ed un’ammirazione tale da meritarsi l’appellativo di Piazza dei Miracoli, coniato da Gabriele d’Annunzio. Siena con il suo centro storico è un esempio di architettura gotica e medievale italiana. La città, con i suoi monumenti è la testimonianza più grande delle altissime modalità espressive raggiunte dai suoi artisti. A partire dalla celebre Piazza del Campo con la sua forma a conchiglia su cui svettano la Torre del Mangia e Palazzo Pubblico, dove si possono ammirare capolavori come la Maestà di Simone Martini e gli Effetti del Buono e del Cattivo Governo di Ambrogio Lorenzetti. E ancora il Duomo, con opere d’arte di Michelangelo, Nicola Pisano, Donatello, e Santa Maria della Scala, il più antico ospedale al mondo nato sull’antica Via Francigena. San Gimignano con il suo centro storico è patrimonio Unesco dal 1990. Il borgo con le sue torri, elegante e raffinato, è chiamato la Manhattan del Medioevo. Un tempo qui si contavano ben 72 torri: oggi ne rimangono 13, che conferiscono alla cittadina nel cuore delle Crete senesi un profilo davvero unico. Splendido il Duomo, con i capolavori di Benozzo Gozzoli, Ghirlandaio e Jacopo della Quercia, ma anche la Pinacoteca, che raccoglie le opere di artisti del calibro di Pinturicchio e Filippino Lippi. Pienza con il suo centro storico, si trova incastonata tra le colline della Toscana, patrimonio mondiale UNESCO dal 1996, rappresenta il primo

esempio di città ideale rinascimentale. Le prospettive geometriche, le impressionanti volumetrie della Cattedrale e del palazzo Piccolomini, l’accurato riempimento degli spazi al centro del vecchio borgo medievale sono testimonianza del genio architettonico dell’epoca. Fu proprio qui che presero vita i primi progetti di architettura rinascimentale italiani, tra cui, appunto, il bellissimo Palazzo Piccolomini costruito nel 1459 come residenza estiva del Papa; ma è il suo centro storico a renderla un vero e proprio labirinto di fascino e mistero, dove perdersi per scoprirne i lati più nascosti è un’avventura a dir poco emozionante. Il paesaggio della Val d’Orcia, in provincia di Siena, nel 2004 ha ricevuto il riconoscimento dell’UNESCO per la bellezza dei suoi paesaggi e dei suoi panorami in grado di originare altissime ispirazioni agli artisti durante il Medioevo... Il territorio, costituito principalmente da un paesaggio collinare con forme dolci ed incisioni vallive poco accentuate, denominate crete, comprende località e monumenti di importanza storica e artistica come la Rocca di Tintinnano a Castiglione d’Orcia, la Fortezza di Montalcino, la Fortezza di Radicofani, le terme di Bagno Vignoni e Bagni di San Filippo e vari musei, tra cui spiccano il Museo Civico e Diocesano d’Arte Sacra, il Museo del Brunello ed il Museo del Vetro a Montalcino, il Museo Diocesano a Pienza.

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Ville e Giardini medicei In ordine cronologico le ville e i giardini medicei presenti in Toscana rappresentano l’ultima assegnazione che l’UNESCO ha riservato alla Toscana nel 2013. Le ville medicee sono dei complessi architettonici rurali venuti in possesso in vari modi alla famiglia Medici tra il XV ed il XVII secolo nei dintorni di Firenze. Oltre che luoghi di piacere e svago, le ville rappresentava-

no la “reggia” periferica sul territorio amministrato dai Medici, oltre al centro delle attività economiche agricole dell’area in cui si trovavano. In totale sono 14 siti, tra ville e giardini, ad essere stati dichiarati patrimonio Unesco: Villa di Careggi, Villa di Castello, Villa di Poggio Imperiale e Villa La Petraia a Firenze, Giardino di Boboli a Firenze e Giardino di Pratolino a Vaglia, Villa medicea di Fiesole, Villa di Cafaggiolo a Barberino di Mugello, Villa di Poggio a Caiano, e ancora la Villa del Trebbio a Scarperia e San Piero, Villa di Cerreto Guidi, Palazzo di Seravezza, Villa La Magia a Quarrata e Villa di Artimino a Carmignano. Dedicheremo nel prossimo numero un articolo dettagliato sulle varie ville appartenute alla famiglia Dei Medici.


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GALLIA MEDITERRANEA Carmelo De Luca

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’occitana Nîmes incanta per essere architettonicamente vicina alla Caput Mundi ed il magnifico anfiteatro ne rappresenta dorica armonia stilistica, ricca in ritmate arcate ingentilite da semicolonne. Dal prossimo giugno, uno scrigno strutturale drappeggiato da onde vitree proteggerà 25000 reperti archeologici, tra cui primeggiano in bellezza mosaici raffinatissimi, mentre in autunno Carré d’Art presenta “Picasso politico”, promettente mostra dedicata all’impegno pubblico dell’artista spagnolo. Attraverso la Route Antique si prosegue poi per Pont du Gard, maestosa struttura idraulica costruita in epoca augustea, la cui doppia sovrapposizione d’archi tra versanti calcarei conferisce all’insieme charme teatrale. Avanzando verso nord-ovest, una visione onirica incanta persino animi duri: si chiama Carcassone ed ha fascino medievale da vendere. 52 torri costellano una cinta muraria proteggente la Basilica dedicata a Saint Nazaire, riuscito esempio romanico-gotico ricco in

vetrate, l’austero Maniero Comitale, stradine tortuose costellate da monumentali memorie storiche. In luglio, musica, danza, opera, teatro animano l’intera città grazie al collaudato Festival. Giù in pianura, si attraversa il secolare Canal du Midi tra meraviglie paesaggistiche preannun-

Montpellier Tolosa Nimes

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cianti Tolosa. Qui, edifici in mattone rosso ostentano bellezza disarmante, come sa bene la medievale Chiesa dei Giacobini dalle costolature in volta irradiantisi verso un unico pilastro a mo’ di palma. Intorno, altri edifici religiosi rivaleggiano con l’architettura civile, che trova compiutezza nel


barocco Campidoglio ricco in lesene corinzie sovrastate da balaustra con statue. Nei dintorni, sontuosi palazzi rinascimentali si misurano col trecentesco Monastero degli Agostiniani, il cui chiostro gotico costeggia gallerie, poggianti su colonnine binate. Qui, dal prossimo 17 marzo, una mostra racconterà il florido rinascimento tolosano, ricco in rilevanze artistiche e spessore umanistico. La vocazione gourmet cittadina trova lustro nel n. 5 Win Bar, mecca enogastronomica dichiarata migliore enoteca mondiale. Puntiamo verso sud-est, diretti nella erudita Montpellier. Lussuosi Hôtels Particuliers costellano un centro storico ben conservato, trionfo del barocco mercantile dai timpani impressionanti, i cui sontuosi cortili nascondono spettacolari scale a chiocciola con ringhiere decorate, basti visitare Palazzo de Varennes o quelli abbellenti Place de la Canourgue, ingentilita da fontana in marmo. Nel Giardino Botanico prolificano varietà vegetali indescrivibili, monumento nazionale per essere il più antico di Francia, assolutamente da visitare insieme al Museo Fabre dove, in giugno, Picasso impererà con opere iconiche di

rottura nella sua crescita creativa, appartenenti al periodo blu, rosa, nero, cubista. Nel vicino Luberon, una terrazzata Gordes lascia basiti per essere irresistibilmente charmant. Sorvegliato dall’imponente maniero in stile rinascimentale con tanto di vetuste torri, garitte, camminamento, l’onirico villaggio è un balcone sulla Provenza, disordinata armonia in pietra che, altresì, vanta la romanica Chiesa di San Firmino. Intorno è tutto uno scendere tra caratteristiche viuzze lastricate, archi, edifici plasmati dalla storia, come ben sa l’Abbazia Cistercense di Sénanque, perfezione architettonica romanica distante pochi Km dal borgo. Ai lovers of Bacco si consiglia la Strada dei Vini: 5 sentieri disseminati tra Fontinelle, Castello La Verrerie a Puget, Tenute della Garelle raccontano viti, vitigni, vini amorevolmente cresciuti nella valle del Rodano. Estasiati da cotanta magnificenza, si va a Eze, scenograficamente dominante sul mare caraibico chiamato Costa Azzurra. La trecentesca Postierla conduce al cammino di ronda, proteggente stradine scoscese ed il fiabesco arredo urbano chiamato Maison Riquier,

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ricco in ornamenti, Château de la Chèvre d'Or, Château Èze, Cappella dei Penitenti Bianchi, Nostra Signora dell’Assunzione. Nell’aria, inebrianti profumi mediterranei preannunciano l’arcinoto Giardino esotico con vista strabiliante sulla leggendaria costiera. Stanchi? Al pernottamento in salsa luxury ci pensa l’Hotel Majestic Barrière della mondanissima Cannes. Tra Restaurant Le Fuoquets, piscina, casinò, discoteca, centro benessere, camere e suite elegantissime, spiaggia privata, vivrete il comodo riposo del nababbo!

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C ra f t T h e L eat h er

un workshop

per progettare il futuro giovani designers alla scoperta della pelle conciata al vegetale Alessandro Bruschi

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ieci talenti da prestigiose scuole di moda e design internazionali interpretano la Pelle Conciata al Vegetale in Toscana attraverso la lente dell’arte contemporanea, della creatività manuale e dell’innovazione. Questo è Craft The Leather, il progetto organizzato dal Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale, che si avvia alla conclusione della sua sesta edizione e che ha visto la partecipazione, negli anni, di alcuni designer che oggi stanno ottenendo grandi successi e soddisfazioni. Il progetto. Craft The Leather si divide in tre fasi ben distinte. La prima prevede un workshop formativo della durata di una settimana che si svolge nel mese di maggio di ogni anno nel cuore della Toscana, in una delle zone più famose per la sua lunga tradizione nella concia e nella manifattura della pelle. I designer, durante questa settimana, scoprono ogni aspetto della concia al vegetale e fanno esperienze con i vari tipi di pelle e le diverse tecniche di lavorazione. Inoltre, grazie alla presenza di relatori qualificati, scoprono nel dettaglio il processo produttivo, dalle pelli grez-

ze alle fasi di concia, visitando le concerie facenti parte del Consorzio e gli impianti di depurazione delle acque. Le visite proseguono anche presso botteghe artigiane toscane e musei fiorentini del costume dedicati all’eccellenza della tradizione toscana della pelle. Nella seconda fase del progetto il Consorzio consegna ai giovani designer una fornitura di pelle conciata al vegetale naturale. I partecipanti, grazie alle conoscenze acquisite durante la settimana toscana di workshop e

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alla loro innata creatività, dovranno elaborare un concetto e sviluppare un tema intorno al quale creare una linea di accessori in Pelle Conciata al Vegetale in Toscana. I designer devono realizzare personalmente la collezione di prototipi per dimostrare anche la loro capacità manuale. Il progetto Craft The Leather si conclude ogni anno in concomitanza con l’edizione di febbraio di Lineapelle, dove i prototipi creati vengono esposti in uno stand dedicato all’interno della fiera internazionale. Una corni-


ce, dunque, di tutto rispetto per dei giovani studenti alle loro prime armi. Le scuole partecipanti. Alla sesta edizione hanno partecipato alcune delle più importanti scuole di moda e design a livello internazionale. Da Tokyo sono arrivati il Bunka Fashion College, precursore dell’istruzione nel settore moda in Giappone, e Hiko Mizuno, il primo college tecnico riconosciuto come istituto educativo nell’ambito della gioielleria. Dal Regno Unito invece sono giunte le delegazioni dell’istituto Central Saint Martins, facente parte della University of the Arts London (UAL) e riconosciuto a livello internazionale per la creatività dei suoi studenti nel campo della gioielleria, della ceramica e dell’arredamento, e del Royal College of Art, istituto dedito completamente alla formazione post-laurea nel settore dell’arte e del design. Dagli Stati Uniti sono arrivati i designer del Fashion Institute of Technology, uno dei college più rinomati a livello globale per quanto riguarda la fashion industry, e del Rhode Islands School of Design, il college più importante di belle arti nell’intero territorio statunitense. Tornando al territorio europeo, hanno partecipato a Craft The Leather la Design School Kolding, istituto danese le cui ricerche spaziano dall’area del fashion, a quella dell’accessory design per arrivare fino all’industrial design, la Hochschule Für Künste Bremen, accademia tedesca di eccellenza nel campo del design ma anche dell’arte, della musica e della scienza,

Ied Madrid, Istituto Europeo di Design che opera nel campo della formazione e della ricerca nelle discipline del Design, della Moda, delle Arti Visive e della Comunicazione, ed infine la scuola belga SASK Sint Niklaas, i cui corsi coprono tutte le discipline delle arti visive, dalle arti libere alle arti applicate agli oggetti d’arte. La proclamazione. Il vincitore della manifestazione viene proclamato sommando i voti ricevuti in tre diverse votazioni. La prima derivante da una giuria tecnica altamente specializzata che giudica e valuta le collezioni secondo cinque criteri: l’attinenza del concetto creativo alle qualità intrinseche della concia al vegetale, l’uso innovativo del materiale, l’eccellenza estetica, la capacità manuale nella realizzazione del prodotto e la coerenza e armonia della collezione. La seconda votazione si svolge online, sulla pagina Facebook Ufficiale del Consorzio, in cui gli utenti esprimono la loro preferenza mettendo semplicemente il “mi piace” alla foto della collezione prescelta. La terza votazione invece avviene direttamente allo stand di Craft The Leather a Lineapelle, dove i visitatori ricevono una scheda voto ed eleggono la collezione preferita. In attesa di conoscere il vincitore della sesta edizione di Craft The Leather, che verrà reso noto il 23 Febbraio 2018, il Consorzio è già al lavoro per organizzare la settima edizione. Craft The Leather 2018 partirà ufficialmente il 6 Maggio 2018. Un progetto culturale. Craft The Leather non è un semplice concorso o

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una sfida a chi conquista per primo un premio o una medaglia. Certo, il vincitore riceve una borsa di studio messa a disposizione dal Consorzio per proseguire la propria formazione professionale ma Craft The Leather è qualcosa di più, è un’immersione totale in un contesto economico, sociale e produttivo. È la scoperta di un materiale che racconta una storia e che al tempo stesso è l’espressione di un territorio particolare, di una cultura e di una tradizione centenaria. È il racconto di un saper fare, di conoscenze tramandate di generazione in generazione che solo grazie alla combinazione con la creatività e la spensieratezza dei più giovani può elevare questo pellame unico e di valore. Ed è questo l’obiettivo del Consorzio Vera Pelle: diffondere la cultura di un prodotto tradizionale a chi, giovane e determinato, si presenta sulla scena della moda e del design.


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PELLE DESIGN

Annunziata Forte Cristina Di Marzio

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Vanity poltrona Frau Barcelona Van Der Rohe Poltrona 932 Cassina

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anta Croce sull'Arno, a due passi da Firenze, è un distretto del cuoio e della pelle lavorati con processi produttivi di concia vegetale altamente raffinati. Santa Croce insieme a Solofra, che produce pregiatissime nappe, va a soddisfare la domanda sempre più esigente del mondo della moda. Arzignano nel vicentino è invece il distretto che lavora le pelli più grandi con un processo di concia al cromo che sono destinate al mercato automobilistico e all'arredamento, ed è proprio in quest'ultimo settore che è presente il forte e solido legame tra pelle e design. Tanti oggetti iconici della storia dell'arredamento e del design non sarebbero immaginabili se non nella loro versione in pelle ed in questo materiale hanno attraversato l'immaginario collettivo: pelle nera per la sedia Barcelona di Mies Van Der Rohe, pelle rossa nel caso della Vanity e ancora visualizziamo in pelle nera il divano LC2e la poltroncina LC1 di Le Corbusier. Accanto ai nomi dei modelli e dei designer dobbiamo inserire quello dei grandi marchi che hanno fatto la storia del design italiano, Frau per la Vanity, Cassina per la Barcellona e i modelli di Le Cobusier . Nel caso di Frau l'identificazione con l'oggetto di design legato alla pelle è immediato e quasi obbligato: la Vanity, in catalogo dal 1930, è diventata l'archetipo per eccellenza della poltrona moderna con la sua forma bombata e l'uso del colore rosso. Se Le Corbusier con i modelli LC1 e Lc2 sancisce la separazione tra struttura metallica e cuscini, secondo una logica di produzione industriale, Mario Bellini negli anni 60 con il modello

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932, sempre prodotto da Cassina, opera un salto molto ardito e riuscito: trasforma l'imbottitura della poltrona tradizionale in un elemento di arredo composto da quattro cuscini indipendenti, tenuti insieme da una cintura passante. Per i 90 anni del marchio, sotto la direzione artistica di Patricia Urquiola, questo modello è stato riportato a vita nuova con le incredibili varianti di pelle colorata dalle nuance particolarissime. La pelle nell'arredamento viene oggi lavorata e trattata come fosse un tessuto, con una ricerca continua di tonalità e finiture. Pelle come sinonimo di design, ma anche di lusso, è il caso della collezione Objects Nomades protagoni-


sti della mostra presentata a Palazzo Bocconi da Luis Vuitton nel corso del Fuori Salone di Milano dello scorso aprile. La pelle quindi come materiale per realizzare oggetti di lusso, nomadi, flessibili, trasportabili e soprattutto contemporanei; ne citiamo uno per tutti la seduta di Atelier Oi con cinghie di pelle. Vi assicuriamo che non solo è "super cute", ma anche comodissima, pratica e leggera. Da Luis Vuitton passiamo ad Hermes, altro marchio della moda che, grazie alla collaborazione con Viabizzuno, ci

ha regalato una delle lampade più poetiche del panorama illuminotecnico dove tecnologia, materiali preziosi, sensazioni, trovano un connubio perfetto. Chiudiamo questa chiacchierata su pelle e design parlando di una nostra piccola innovazione; se è vero che la pelle ha conquistato anche la decorazione di interni,noi abbiamo da tempo trasposto nell'arredamento le tecniche legate alla lavorazione dei capi di abbigliamento. È così che sono nati i complementi di arredo da noi disegnati che vedono in primo

piano la pelle laserata con una estrema attenzione per il dettaglio. La pelle ha infine conquistato l'oggetto d'uso per eccellenza di questo ultimo decennio, il cellulare. Custodie di lusso vedono naturalmente la pelle protagonista. Ci siamo cimentate in questo settore, offrendo la nostra consulenza ad una azienda toscana produttrice di cover di pelle, selezionando materiali e finiture per proporre sul mercato un prodotto estremamente ricercato in tutti i particolari. La custodia diventa un accessorio di moda, caratterizzata da lavorazioni altamente tecnologiche con un altissimo valore aggiunto.

Atelier Oi per Luis Vitton Mobile in pelle Laserata su nostro disegno Lampada di Hermes Cover in pelle per Smarth Phone Lc1 Le Corbusier

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abitare sempre più interattivo social collettivo

Federica Farini

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na collezione di domande − 999 − che vengono poste ai fruitori degli spazi abitativi, così soggetti a continue trasformazioni sociali, economiche e tecnologiche. La mostra in Triennale a Milano 999. Una collezione di domande sull’abitare contemporaneo, da gennaio ad aprile 2018 e a cura di Stefano Mirti (dal 2014 responsabile social media di Expo Milano 2015), propone una dinamica analisi sulla sostenibilità dei nuovi stili di vita contemporanei. I moderni scenari non riguardano più solo l’abitazione (sempre meno ad uso privato), ma trascinano in maniera profonda anche lo spazio ad essa collegato, gli oggetti, i quartieri/la città, fino al bacino territoriale o culturale di riferimento (le etnie e le culture che si integrano nell’abitare). Workshop, conferenze, performance come un grande racconto – storytelling: per tutta la sua durata la mostra diviene e accoglie installazioni fisiche ed eventi digitali e social. Aziende, scuole, associazioni, istituzioni, progettisti, ricercatori uniti nell’intento di allestire una superficie polifunzionale. Gli spazi della mostra si articolano tra luci, ponteggi e acustica (suoni: storie da ascoltare attraverso citofoni appesi a una parete, o nelle Lullabies di Baur e Fink, ninnananne da ogni parte del mondo). Gli ambienti espongono contenuti fissi o temporanei, in una modularità divisa da pannelli che ospitano rappresentazioni della casa con i suoi ambienti, situazioni, attività e relazioni. La casa si apre alle altre case e persone, a volte muta in luogo per accogliere l’altro, ridefinendo le regole di usi e costumi (richiamo ad Airbnb: la casa diventa “pub-

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blica”). Per aumentare l’interesse, arricchire contenuti e informazioni, lanciare un messaggio e innescare idee inaspettate la mostra diventa anche social: ogni giorno su Instagram e Facebook vengono pubblicate nuove domande, per completare le 999, ed il pubblico è libero di interagire e chiedere a sua volta. Casa e lavoro – tra le 999 domande della mostra, la casa può diventare ufficio e viceversa? – per Print Club Torino/Quattrolinee l’alloggio si adatta alla stamperia domestica da testare onsite, mentre Impact Hub propone il tavolo Lago ispirato al concetto di community-coworking, dove i talenti si possono incontrare e scambiare idee nella convivialità. Il concetto di gioco vive nel progetto di Studiolabo nella Sandbox, installazione che riproduce una stanza dei giochi senza pareti e disposta sulla sabbia. L’apertura dell’abitare verso


mondi distanti − come le megalopoli asiatiche e africane – indaga la visione del futuro dell’abitare in ottica di integrazione razziale. Il concetto di lontano si incontra in “All(zone)” House of the invisible, declinato sul tema degli spiriti: nella cultura asiatica è molto importante che le case siano ospitali anche per gli spiriti dei nostri antenati. Uno spazio della mostra allestisce un laboratorio dei Lari (spiriti dei defunti tenuti in casa come protezione) rappresentati in chiave contemporanea. Quando l’abitare non si sceglie in base a una casa, ma ad uno stile di vita o quartiere? Ecco Bangkok nel progetto di Antonio Bernacchi e Alicia Lazzaroni sui gusti domestici, in collaborazione con un team di studenti locali - si può comporre uno stile di vita? - La risposta in un moderno murale, denso di colori e dettagli che raccontano i trend e le icone della città, le abitudini e i gusti, visibili e ingrandibili nei dettagli del disegno attraverso il sito web. La casa e il concetto di cibo: SAPERLAB, ABC e Politecnico di Milano contribuiscono al tema “come ci nutriremo in futuro”, proponendo mobili componibili che divengono giardino, per accogliere una natura strutturata e adattata allo spazio domestico. Robonica e Peia immaginano una pianta come coinquilino, nel suo ecosistema di crescita trasparente e sostenibile in forma automatica e intelligente (abitare con il cibo). Single is an attitude – l’abitare diventa minimo, dinamico, open, anche a causa del contenimento dei costi: mobili versatili, divani leggeri e componibili (Manerba collection e l’ambiente Presso). Gli animali possono rappresentare il legame affettivo anche per chi è solo: #101mascotas per

dedicare foto e contributi social dei propri pets. Riciclo per Base Milano: il collettivo artistico di Apparatus 22 diviene in performance e interazioni sugli spazi domestici ispirati alla condivisione dei contadini romeni. Il futuro? La simulazione 3d di Synapse, dove il visitatore può percorrere uno spazio virtuale attraverso un paio di occhiali. La mostra 999 indaga anche il lato sociale degli stili abitativi: cosa accade se la casa viene a mancare? Risponde BBMDS con una collezione di mini-casette soprammobili in marmo, in vendita, il cui ricavato sostiene le vittime del terremoto in Abruzzo. Nelle fotostorie di “hotel Africa”, ex magazzino in zona Tiburtina a Roma, si narra l’adattamento degli spazi privati che divengono pubblici. Insider Milano racconta le periferie come luoghi densi di cultura, colori e narrazioni, stimolando un processo di osservazione della vita quotidiana attraverso fotografie e scritti: appunti di viaggio di tessuti sociali vivi, dinamici, carichi di significati. Farm Cultural Park, Laps Architecture, A14 Hub e Politecnico di Milano propongono nuove forme abitative in spazi metropolitani dove spesso le persone condividono stanze per ragioni economiche. Cosa significa abitare il pianeta? Il concetto di agricoltura sostenibile per AOUMM vive nell’istallazione di una fattoria basata sul modello ecosistemico della permacoltura, promuovendo uno sviluppo armonico, sia sociale che abitativo. Presso 999 il viaggio dell’abitare non finisce mai: il visitatore si muove attraverso passato, presente e futuro, e grazie ai cinque sensi, “toccando” con mano la casa che non è più solo un luogo ma un’esperienza. Il comunicato stampa

stesso della mostra è indefinito, perché essa va scoperta e non raccontata. La via di uscita propone ancora domande, perché l’abitare, in fondo, non finisce mai.

foto di zzzzzzzzzzzzzzz zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz zzzzzzzzzzzzzzzzzz

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Traguardi raggiunti

L’agenzia di Alessandro Susini “Allianz di Santa Croce sull’Arno” celebra presso il Four Season di Firenze. Un anno da incorniciare per i brillanti risultati 2017 a livello nazionale: terzo posto nel ramo vita e ottavo posto nei rami elementari, oltre a due viaggi premio vinti. I vertici della Compagnia hanno individuato il modello di questa agenzia come "best performer" da replicare in altre realtà Italiane.

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stile ed eleganza

150 anni per IWC Schaffhausen

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WC Schaffhausen ha festeggiato il suo 150 ° compleanno e il lancio della sua collezione Jubilee con una serata di gala al Salon International de la Haute Horlogerie (SIHH) di Ginevra. Oltre 800 ospiti hanno partecipato all'evento, tra cui gli ambasciatori del marchio IWC e le star mondiali Cate Blanchett, Bradley Cooper e James Marsden, personaggi dello sport quali Valtteri Bottas e David Coulthard. Per celebrare il suo anniversario, IWC ha presentato una spettacolare collezione Jubilee comprendente un totale di 27 orologi in edizione limitata delle collezioni Portugieser, Portofino, Pilot's Watches e Da Vinci. Nel corso della serata le esibizioni di Aloe Blacc, il batterista jazz Eric Harland e il cantante Ronan Keating. Strepitoso successo per Paloma Faith, la cantante inglese che nel 2015 ha vinto il Brit Award come "Best British Female Solo Artist" e che è arrivata al primo posto nella classifica ufficiale dei 100 migliori in Inghilterra

con il suo album The Architect. Tra gli ospiti che hanno calcato il tappeto rosso c'erano Cate Blanchett, Bradley Cooper, James Marsden, Dev Patel e Ralf Moeller, personalità dello sport come Valtteri Bottas, Fabian Cancellara, David Coulthard, Jochen Mass e Jan Frodeno, le top model Adriana Lima e Karolína Kurková. Gli ospiti hanno anche visitato il salone dell’Alta Orologeria di Ginevra all'inizio della giornata e hanno avuto l'opportunità di ammirare la collezione Jubilee allo stand IWC, che ricreava una gi-

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gantesca macchina del tempo con dischi display digitali ispirati a orologi come un orologio Pallweber. Con una chiara attenzione alla tecnologia e allo sviluppo, il marchio svizzero IWC Schaffhausen produce orologi dal 1868. L'azienda ha acquisito una reputazione internazionale basata sulla passione per le soluzioni innovative e l'ingegno tecnico. Uno dei marchi leader a livello mondiale nel segmento degli orologi di lusso, IWC crea i capolavori di Alta Orologeria al loro meglio, combinando la massima precisione con un design esclusivo. In qualità di azienda ecologicamente e socialmente responsabile, IWC è impegnata nella produzione sostenibile, con organizzazioni dedicate alla protezione dell'ambiente.

Giampaolo Russo

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ACQUA 360 il tubone è già una realtà

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epurare e affinare acque reflue civili, per poi farle usare dalle concerie nel loro processo di lavorazione: è l’attività che sta realizzando il progetto ACQUA 360, che dall’ultimo trimestre del 2016 e per tutto il 2018 sta sperimentando quello che sarà uno dei risultati più eclatanti del cosiddetto TUBONE, il nuovo sistema di riassetto idrico di ben 42 Comuni della Toscana, che avrà il suo fulcro nel depuratore Aquarno di Santa Croce sull’Arno e che sarà a pieno regime entro i prossimi 4 anni. Proprio il depuratore Aquarno è tra i partner del progetto ACQUA 360, insieme a POTECO, Laboratori Archa, DeltAcque, Conceria San Lorenzo, Conceria Settebello e Conceria Victoria, per un monitoraggio completo dell’attività di riuso dei reflui civili nel processo conciario, che seppur ancora sperimentale ed estesa alle sole concerie coinvolte nel progetto, sta dando già indicazioni importanti. Come spiega il direttore Aquarno Nicola An-

dreanini che sui risultati di ACQUA 360 dice: «il riscontro più significativo sarà quello delle aziende produttive, che sono i nostri partner in questa iniziativa, come anche il feedback del POTECO e riguarderà la bontà commerciale del prodotto finito. L’acqua di recupero dovrà infatti essere in grado di sostituire, senza alcun pregiudizio dell’articolistica aziendale, le acque attualmente emunte dal sottosuolo». Tutte le concerie interessate possono chiedere di testare ACQUA 360. Fondamentali le indicazioni che si stanno ricavando da ACQUA 360 rispetto a quella che sarà la fase di completa operatività del TUBONE: «Le indicazioni che deriveranno da ACQUA 360 - continua Andreanini - saranno sicuramente di grande aiuto in quanto il progetto attuale replica, seppure con qualche lieve integrazione, quanto fu testato su piccola scala qualche anno indietro. Come quella prima prova è stata utile per definire le modifiche da implementare in questa fase, allo stesso tempo

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tutto quanto scaturirà da ACQUA 360 sarà utilizzato per confermare o per ottimizzare la configurazione finale della futura impiantistica». Nell’ambito del progetto, finanziato nel quadro del POR FESR Toscana 20142020, è stato realizzato un impianto pilota (impianto ACQUA 360) di depurazione e affinamento delle acque reflue civili, con l’obiettivo di produrre una quantità sufficiente di acqua di processo che viene fornita alle 3 concerie coinvolte nel progetto. Grazie ai test delle concerie si sta procedendo a validare il processo depurativo dell’acqua e la fattibilità del riutilizzo. Sulla possibilità di coinvolgere altre aziende conciarie, Andreanini aggiunge: «l’impianto in funzione riesce a produrre fino a 100 m3/giorno di acqua “affinata”. Questo quantitativo è ampiamente sufficiente sia per le aziende che volessero iniziare a sviluppare le prime prove, sia per chi volesse replicare prove già effettuate negli anni scorsi o organizzarsi per qualche test su scala più ampia».


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CIARADA

un’opera per i 40 anni di attività dell'azienda

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uale miglior modo di festeggiare un traguardo importante come i 40 anni di storia della propria azienda. Se non quello di condividerlo con la comunità con un ricordo che possa migliorare l’immagine del proprio paese. Per questa ragione la famiglia Castellani, alla guida della Sciarada,

L’opera, alta complessivamente 6 metri, posta su un basamento in cemento armato, è stata collocata nell’area verde adottata già da molti anni da Sciarada. Oltre alla realizzazione e installazione della scultura, l’azienda si è occupata di una serie di opere accessorie di miglioria dell’area: illuminazione, cartellonistica e

ha deciso di investire in un’opera per abbellire l’area verde adiacente la propria sede e, di rimando, contribuire alla riqualificazione della zona industriale di Castelfranco di Sotto. L’azienda ha finanziato la scultura in acciaio inox dell’artista Marco Puccinelli dal titolo “S” , un regalo che ha la forma e lo spirito dell’azienda, con una grande S in acciaio, leggera ma al tempo stesso robusta, da cui partono delle frecce puntate verso il cielo.

segnaletica stradale e sistema di irrigazione. All’evento inaugurale erano presenti il sindaco di Castelfranco, Gabriele Toti, il presidente del Consiglio Regionale della Toscana Eugenio Giani, il consigliere regionale Andrea Pieroni, il direttore di Unic (Unione Nazionale Industria Conciaria) Fulvia Bacchi, i sindaci di Santa Croce sull’Arno, Giulia Deidda e di Fucecchio, Alessio Spinelli e, ovviamente, i titolari della Sciarada, insieme ad

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altre autorità civili, militari e religiose. «Un esempio che spero possa essere seguito da altri, ma che è già indicativo della mentalità dei nostri imprenditori. La nostra zona industriale da oggi è più bella. E questo non è solo un elemento accessorio per un distretto conciario che lavora ogni giorno con le griffe del lusso ed è frequentato da clienti provenienti da ogni parte del mondo. Le aziende della filiera pelle sono il tessuto del nostro territorio. Occasioni come questa arricchiscono quel rapporto di dialogo e preziosa collaborazione tra istituzioni e imprese». Queste sono state le parole del sindaco Gabriele Toti.

Angelo Errera


NOI INSIEME! PER I GIOVANI 9 anni d’impegno per il territorio Lo stile e la filosofia del Gruppo Lapi richiamano ai più tradizionali valori etici. Serietà ed impegno non soltanto orientano le scelte e le decisioni nelle diverse aree di business delle aziende ma, sono anche i presupposti di un'attiva di promozione di progetti socialmente utili soprattutto a sostegno dei giovani. L'attività del Gruppo è profondamente radicata nel territorio, legata alla vocazione del Comprensorio del Cuoio, da qui la decisione di investire risorse nella formazione e nell’educazione delle generazioni future. Diverse le iniziative che il Gruppo Lapi ha racchiuso in un programma denominato "Progetto Giovani", un progetto a fianco di enti e istituzioni locali, che ha l'obiettivo di veicolare un messaggio positivo di unione, collaborazione e rispetto che parte dall’ambito scolastico fino a contesti di gioco e sport con l’aspirazione di essere estesi alla vita di tutti giorni, nella famiglia e nella società.

2010 - 2012

BACCO, TABACCO E... CENERE. Il progetto “Bacco, tabacco e... cenere”, un’iniziativa che ha coinvolto 35 classi, quasi 850 ragazzi delle scuole medie del Comprensorio del Cuoio Toscano con l’obiettivo di far capire come il fumo e l’alcol siano i principali fattori di rischio per la salute per lo più dei giovani, costituendo così la prima causa evitabile di malattia e di morte.

2011 ad oggi

FABBRICHE APERTE Un’iniziativa patrocinata da Federchimica divenuta un appuntamento ricorrente nel programma di attività che il Gruppo Lapi dedica ai ragazzi del Comprensorio. Ogni anno circa 100 ragazzi delle scuole superiori, ad indirizzo chimico, sono invitati ad una visita guidata all’interno delle aziende del Gruppo. Un’esperienza coinvolgente per mostrare come la chimica studiata tra i banchi di scuola viene applicata ai processi industriali.

2013 - 2015

RISPETTO... A CHI? (la vita in classe) “Rispetto… a Chi?” un progetto ludico educativo rivolto a tutte le 36 prime classi delle scuole medie del Comprensorio, con lo scopo di accrescere la qualità delle relazioni grazie ad un sviluppo delle “abilità utili alla vita”. 819 ragazzi sono stati coinvolti in situazioni che hanno potuto gestire solo attraverso un alto livello di cooperazione e collaborazione tra partecipanti, alunni e professori.

2013 ad oggi

2013 ad oggi

2014 ad oggi 2016 - 2018

2018….

CODICE ETICO PER LO SPORT Progetto nato con l’obiettivo di diffondere, attraverso le società sportive giovanili, un messaggio positivo per vivere lo sport in modo leale, sano e collaborativo. 10 regole di comportamento che racchiudono semplici principi, tutti basati sul RISPETTO, presupposto fondamentale alla base di ciascuna relazione. Alla Società Sportiva viene richiesto l’impegno di riconoscersi nel codice etico e di farlo condividere e rispettare. Ad oggi i ragazzi coinvolti sono oltre 2.000. MARIO E MARIO PER I GIOVANI Realizzato in collaborazione con la Fondazione Mario Marianelli, il progetto ha lo scopo di favorire la crescita professionale e l’avviamento al lavoro, offrendo a studenti capaci e meritevoli dell’IT Cattaneo di San Miniato, l’opportunità di fare uno stage presso le aziende del Gruppo Lapi o un tirocinio retribuito in concerie del Comprensorio. CAMICI DA LABORATORIO Rivolto agli studenti delle Prime degli indirizzi chimici dell’Istituto IT Cattaneo, i quali sono omaggiati ogni anno del loro camice da laboratorio. Ad oggi sono stati distribuiti circa 430 camici. RISPETTO... A COLORI. Pitturiamo la Vita! Questo progetto, che nell’arco del triennio coinvolge oltre 950 ragazzi, è dedicato a tutte le 40 prime classi delle scuole medie del Comprensorio. Attraverso coinvolgenti “laboratori d’ARTE” e attività divertenti e creative, ha l’obiettivo di far sprigionare la creatività, la fantasia, facilitare la libertà di espressione dei ragazzi facendo comprendere che l’ARTE è un patrimonio di tutti, un tesoro da scoprire, preservare e rispettare. Ogni anno viene allestita una mostra pubblica dedicata alle opere realizzate dai ragazzi al termine della quale sarà eletta la classe vincitrice La MOSTRA si terrà il 20 e 21 APRILE presso CASA CONCIA a Ponte a Egola. Vi aspettiamo per ammirare con i vostri occhi i capolavori realizzati!!!

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Business con gli occhi a mandorla

Irene Pivetti accompagna all'estero "Only Italia"

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upportare le piccole e medie imprese italiane nell’attività di esportazione all’estero? Si può! “Only Italia” è nata quale piattaforma commerciale e di investimenti prendendo vita nel 2011 da una logica costruzione mentale da parte di Irene Pivetti. Il marchio, registrato in Italia ed all’estero, ne rappresenta anche il cuore commerciale e culturale con tanto di formazione e promozione del patrimonio artisticoculturale italiano. Questo per rafforzare la cooperazione tra l’Italia e i paesi esteri. L’ex Presidente della Camera:... «fu un grande orgoglio servire lo stato facendolo in qualsiasi condizione di vita; da istituzione e da privato cittadino, è basilare, anche se oggi dobbiamo recuperare il senso dello Stato che merita di essere servito per il bene comune». Nel ruolo di “Ceo“ − amministratore delegato − della “Only Italia”, Irene Pivetti oggi accompagna le aziende italiane a fare business in Cina e non solo. Di fronte ad un folto pubblico, durante l’incontro organizzato dall’Aidda sull’imprenditoria femminile e le nuove leggi, racconta che nella città dantesca – dove sono immancabili i cambiamenti – ci sono stati investimenti nella piccola e media impresa. Prosegue osservando che durante la prima Repubblica le cose non andavano poi male, mentre più tardi, nonostante il nostro fregio del lusso, l'artigianalità, si è avuto la crisi economica. Non dobbiamo quindi cullarci sul made in Italy ma per bisogna avere successo nel mercato, avere umiltà e intelligenza poiché un buon prodotto deve essere portato sul mercato nei modi giusti, con le giuste strutture commerciali che purtroppo man-

cano, infrastrutture comprese. «Chi vuole entrare in ‘rete’ − prosegue – sappia che la Toscana investe molto, da qui le varie società, però la nostra burocrazia non aiuta, manca una analisi originaria e un buon modello di business. Pertanto questa carenza di pensiero strategico sopravvive con la logica aggregante e del net-working. Determinante sarà l’incontro con i vari interlocutori e ben vengano le persone in Europa che ci supportano, poiché la logica giusta è quella del partner-ship. Concludo spiegando che è indispensabile condividere delle “star-up” per una buona intelligenza collettiva, osservando che le istituzioni, il governo, deve venirci incontro, più che con i soldi, con leggi ad hoc. In cambio, offriremo la nostra professionalità!» Che tipetto la “Pivettina“ coi suoi corti, cortissimi capelli argento che le valorizzano l’ovale, la parlata a “mille all’ora”, e l’energia prorompente! Prende la parola Eugenio Giani, Presidente del Consiglio Regionale, evidenziando la stima che nutriva nei suoi confronti quando era alla Camera nonché l’alta vivacità ed il suo bel ruolo di brava imprenditrice odierna. «In Italia bisogna ripensare il ruolo di stato ed istituzione vicino alle imprese, poiché l’economia e le istituzioni devono essere maggiormente unite! Il nostro “Belpaese“ nel 1990 fu la quinta potenza industriale; che la “chiave“’ di prima era il “Made in Italy” e la logica dei marchi; il nostro “Chianti” è tutelato, pertanto è indispensabile che le nostre eccellenze vadano perseguite. Le istituzioni sono determinanti e bisogna cooperare per proseguire! Spero pertanto che con le Regioni si attui un maggior

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dialogo senza troppa burocrazia, accanto ad una bella “trasparenza“ di cammino intelligente. Quanto alla associazione Aidda e alle donne, va loro riconosciuto il ruolo di marcia in più e grazie al “sistema traino” contribuiscono al rilancio dell’economia italiana, pertanto ben venga l'Aidda! Provo a fare qualche domanda al volo anche se l’ora della cena non invita molto − me lo dicono i vari sguardi... Politica, giornalismo, televisione, persino il ballo e adesso manager nel mondo degli occhi a mandorla, ma gli italiani hanno buona elasticità mentale per lavorare in un mercato così vasto? «Gli italiani sono un popolo elastico, creativi nella struttura delle relazioni interpersonali − da qui il successo che se ne può ricavare − ma la Cina è un paese molto complesso e le carenze, come ho detto prima, esistono. Personalmente mi prendo il carico del successo dell’impresa nonché del successo della piattaforma che servirà sempre più crescente in questo numero d’impresa.» Figli, vita privata, quest’impegno lavorativo non certamente indifferente, eppoi... «Ah... ancora?» Ce lo dice il suo piatto preferito toscano e meneghino? «Dunque alla domanda di prima, ho familiari molto pazienti, quanto ai piatti qui la “costata fiorentina” e ”su” il risotto.» Nella vita bisogna essere integerrimi, fare ”buoni” fioretti o talvolta uscire dalle convenzioni? Ride, poi sorride e, afferrando la borsetta: «In questo momento essere ottimi cittadini!»

Carla Cavicchini

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v i t a senza una

pelliccia

la scomparsa di Marina Ripa di Meana Carla Cavicchini

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entitre anni mi separano da quell'intervista che feci a Marina Lante Della Rovere, divenuta poi in seconde nozze Marina Ripa di Meana, la lady indiscussa della vita mondana della capitale. Strepitosa, piena di vita e di verve, effervescente più d'una aspirina, altezzosa, distaccata, stridula nelle sue arrabbiature, di lei tutto si può dire, ma non certamente che non avesse una grande personalità. A Lucca presentava un suo libro, e mi colpì particolarmente la copertina dove lei – protagonista indiscussa – con aria maliarda, veniva circondata da uno stuolo di “belloni“ dai bicipiti ben scolpiti. E proprio in quel bel salone lucchese dagli

ampi specchi con tanto di stucchi e rococò, parlò a ruota libera dell'amatissima Roma, della passione che nutriva nei confronti della moda e quindi del suo essere stilista, della sua bellezza – più esteriore che l’interiore – delle amicizie che aveva coltivato coi grandi intellettuali quali Pasolini, Moravia, Goffredo Parise quanto alla punzecchiatura di quella nota scrittrice... Tutta qui la grande Marina? Beh... in quel momento avrei voluto strozzarla, strapparle i capelli, dopo invece diventammo buone amiche. Non mancò di parlare di Craxi e della sua personalità abbastanza complessa. «Bettino era così, impassibile, distante, freddo..., eppoi cordiale, ospitale e solidale. Chissà... forse le sue radici meridionali che via via si affacciavano. Litigavamo, eccome se litigavamo! Anche se io non ero certamente “tipo“ da dirgliele dietro!» Mi avvicinai a questa dea di grande avvenenza (confesso che era bellissima) notando l'altezza e l'estrema gestualità delle sinuose mani, con le unghie pitturate d'un bel rosso brillante e splendidi anelli dal “sapore“ etnico che, via via, facevano capolino dall'indice e dal medio. In compagnia degli amatissimi “carlini“, mentre il cameriere avanzava porgendole i cioccolatini. Regina del jet-set ma anche coinvolta in cause umane e sociali quali la difesa e tutela dell'ambiente, il suo essere “animalista“, ed altro ancora. Tutto questo è conciliabile con Marina Ripa di Meana? «Francamente io sono così, non sono mai cambiata, non capisco, io promuovo quello che ritengo giusto portando avanti i miei principi.

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Tutto qui.» La trasgressione è dentro di me. «E rimane tuttavia il mio essere trasgressivo. Lo sono e lo rimarrò in Eterno!» A cinquant'anni e giù di li, con le nipotine avute dalla figlia Lucrezia come si sente? «Una nonna sexy!» E qui ricordo bene che scoppiò a ridere. D'altronde da una che a mò di provocazione aveva gettato in pasto a tutti i media le proprie grazie “vestita“ di sola peluria pubica con scritto: “l'unica pelliccia che ho è questa!” Proseguii domandandole se era una donna di scrupoli, della sua rivista “Elitè“, nonché delle paure nell'avere menzionato Craxi e Martelli difronte ai giudici nel periodo “caldo“ dei due politici. «Cara lei, io non mi sono mai posta problemi di niente, sono così e vivo così, quanto ad “Elitè“, finì come molti altri giornali nella carta straccia, in quanto gli editori volevano fare a modo loro. A Roma si dice una sorta di “pizze e fichi”, pertanto... e qui concludo dicendo che non conosco la parola paura. Sono una persona leale, vivo in un modo che forse può essere criticabile ma, ripeto, sono sincera ed ho detto delle verità in merito.»” Poco, pochissimo tempo prima di morire di tumore, dettò le sue ultime volontà. In particolare, essere sedata coscientemente per soffrire meno e poi cremata facendo spargere le ceneri nelle acque dell'Argentario, luogo da lei amato particolarmente. La legge vieta questo. Stupirsi? Non sarebbe stata Marina Ripa di Meana.


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donne come

aiuole

primavera 1957 nella Sala Bianca trionfano i colori e la fantasia

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l periodico “Woman’s Wear Daily“, a conclusione della XIII sfilata dell’Alta Moda Italiana nella Sala Bianca di Palazzo Pitti (dal 22 al 26 gennaio 1957), riferisce una sintesi degli acquisti dei modelli scelti dai buyers americani. La maggior quantità delle creazioni, spiega il giornale, riguarda la produzione dei modelli di “boutiques”, che hanno raggiunto un vero primato. Notevole è stato anche il volume degli affari conclusi dai più noti department stores nel settore degli abiti di Alta Moda, acquistando i diritti di riproduzione delle collezioni presentate. Nelle preferenze statunitensi progrediscono anche i prodotti della calzatura. Complessivamente, gli ospiti hanno visionato 1120 capi di vestiario, e per garantire ai 562 ospiti un posto a sedere, sono state aggiunte due file di poltrone e di sedie riducendo l’ampiezza della pedana nella Sala Bianca. I buyers presenti sono stati 372, in rappresentanza di 122 ditte. In aumento anche i corrispondenti registrati della stampa quotidiana e periodica (137), di cui 57 italiani; inoltre la RAI, per garantire i servizi radiofonici e televisivi. L’autorevole “Times“ di Londra, in una corrispondenza del 28 gennaio, ha dedicato alle sfilate fiorentine un servizio giornalistico di ben quattro colonne. Questo tredicesimo appuntamento con l’Alta Moda Italiana è stato inaugurato da donna Carla Gronchi, consorte del Presidente della Repubblica, alla quale è stato fatto omaggio di una spilla d’oro riproducente il Giglio di Firenze. Le giornate fiorentine dedicate alla nostra Alta Moda sono iniziate, il 22, con l’apertura delle sale del Grand Hotel (l’odierno The St. Regis Hotel Florence), in piazza Ognissanti, dove i buyers hanno potuto esaminare le creazioni dei nostri artigiani: biancheria,

boutique, bigiotterie (particolarmente ammirate quelle di Cascio, di Sandra Bartolommei e di Luciano), argenteria, maglierie, paglia, scarpe, ombrelli, confezioni, camicette, tessuti realizzati a mano, maglierie sportive e ceramiche. Accanto alle cinture (quelle create da Marcella Olschki si sono distinte per l’originalità della creazione) ben figurano le borse di Ebe e quelle di Rigù. Come nelle precedenti edizioni, la modisteria è elegantemente rappresentata e realizzata con i feltri de La Familiare di Montevarchi. Hanno stupito le calze. “Meravigliose”, commentano i visitatori. Sono impalpabili, indistruttibili, tessute su 75 aghi. Hanno colori i ndefinibili: fra cui quello sfumato delle nuvole e il rosato. I modelli dell’Alta Moda sono stati presentati da Marucelli, Antonelli, Schuberth, Veneziani, Giuliano, Enzo, Zoen, Sarli, Clara Centinaro, Gregoriana (Silvana Cerza). Emilio Pucci, insieme con l’altro fiorentino Cesare Guidi, «tengono alti da anni e con onore a Palazzo Pitti i colori della città del fiore». Gli uomini che accompagnano le indossatrici sulla pedana, sono apparsi dinamici e sportivi. Brioni ha proposto ammirati modelli da cerimonia con giacche a coda di rondine, lunghe, di lana blu, a un petto, colletto di velluto in tinta, bottoni dorati. Lo sposo, con lei in abito corto, ha lo smoking di lana grigio-ferro, con profilo a spighette e mantello dello stesso tessuto, ma con risvolti alle maniche e colletto di raso nero. Un’altra creazione di Brioni sono le scarpe di mocassino gialle abbinate a un completo verdone e, sopra, un impermeabile verdognolo. La boutique Mirsa (Olga di Gresy) di Galliate ha proposto una collezione maschile piuttosto vivace per tutte le ore della giornata: camiciotti a righe,

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maglioni per la pesca, completi da canottaggio, giacche da pranzo in blu scuro e bottoni dorati. Concluse le sfilate, le contrattazioni per l’acquisto dei modelli sono proseguite nelle sale di Palazzo Strozzi, allestite con gli arredi della fiorentina Galleria antiquaria Bellini, che per l’occasione ha prestato arazzi, mobili cinquecenteschi, dipinti e altri preziosi complementi di arredo. Giovanni Battista Giorgini, il geniale e infaticabile organizzatore di queste sfilate, ha avuto il merito di far superare ai nostri sarti la soggezione alla Moda Francese (Dior all’apogeo della sua gloria, Fath giovanissimo, e trionfante, Balenciaga e Balmain agguerriti e raffinatissimi), attirando l’attenzione sulla nostra grande industria tessile, esortando i maggiori produttori a impegnarsi, affidando ai nostri creatori i loro tessuti. Infine, anche l’interesse del Governo si è rivolto alla nostra giovane Moda, rendendosi finalmente conto che l’Alta Moda, convenientemente protetta e sorretta, migliorerà consistentemente le sorti della bilancia commerciale italiana.

Roberto Mascagni

Tailleur di linea affusolata con giacca corta con maniche a 3/4 e chiusura a 3 bottoni laterale. Completa la mise un'acconciatura tipo Fashinator in seta. (Archivio fotografico New Press Photo - Firenze). Fin dai suoi albori, 1954 (e fu subito Mike Bongiorno), la RAI dedicò alla Moda Italiana numerosi servizi televisivi.

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mercato iti ner ante Eleonora Garufi

Foto di gruppo Chiara Ripoli e Allegra Fregosi

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na delle cose che in ogni stagione si può trovare in giro, sono i mercati locali che mettono in risalto il lavoro artigianale, in luoghi accattivanti, con musica di tendenza, arte visiva e cibo sano per ogni tipo di intolleranza. Uno dei mercati itineranti sulla cresta dell’onda in Italia, è salpato da Livorno il 21 dicembre del 2013, e giustappunto si chiama Il Mercantile. Allegra e Chiara, le organizzatrici, sono partite da un semplice mercatino del baratto organizzato tra amici, con un aperitivo e un po’ di musica, per arrivare a creare il “main event stagionale” dei mercati nella costa Toscana, dimostrando grande professionalità e qualità. La loro capacità di creare un’atmosfera rilassante, divertente, e familiare, curata nei minimi dettagli in merito alle tendenze e alle attrattive del momento, ha caratterizzato da subito Il Mercantile come uno degli eventi artigianali toscani, più ricettivi a livello nazionale. Dalla prima edizione seguono il mercato itinerante artisti che con esso sono cresciuti, diventandone

cavallo di battaglia. Tra questi: Wind little bags, Django Nokes, Artefatto, Studionat, Pesci che volano. «La nostra idea è quella di promuovere sempre più la cultura, il design e l'artigianato di qualità e offrire visibilità a chi ha un‘idea interessante. Il nostro progetto futuro è quello di crescere e migliorare ad ogni edizione in maniera tale da far diventare Il Mercantile sempre più grande e strutturato. Insomma, un evento che riesca a ospitare artisti di prestigio e che dia spazio ai migliori creativi 2.0 nazionali ed internazionali». Uno degli aspetti fondamentali del-

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la costante crescita di questo progetto, è lo stimolo alla curiosità del suo pubblico, inserendosi in luoghi non scontati (una serra, una sala da concerto l’impenetrabile Fortezza Medicea di Livorno e la Villa Mimbelli) e la cura per le attività, le performance artistiche e il food and beverage service. L’evento, alla sua prossima 23a edizione, attraverso un crowdfunding sulla piattaforma Eppela, ha consacrato un diffuso interesse riuscendo ad attuare importanti cambiamenti, a partire dall’ultima Christmas Edition 2017, dislocata in maniera molto sportiva, alla Stazione Leopolda di Pisa, in cui si è investito molto di piu nelle performance artistiche, nella comunicazione e nel food. Attraverso i social e la dimensione del web 2.0, Il Mercantile continua il suo progetto all’insegna dell’amore per la cultura in tutte le sue forme, dell’artigianato e del design, credendo in un consumo consapevole e in una via alternativa dove regnano collaborazione e interattività, inserendosi con stile tra la tradizione e l’innovazione.


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invecchiare

??????? Paola Baggiani

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'invecchiamento è un processo complesso che coinvolge l'intero organismo e comporta un declino fisiologico e funzionale, che espone ad un aumentato rischio di eventi avversi per la salute. È dovuto alle azioni lesive sulle strutture cellulari da parte dei radicali liberi dell'ossigeno prodotti dal normale metabolismo. Curare il processo d'invecchiamento con farmaci o integratori è un approccio parziale e superficiale, se non utopico: una corretta alimentazione, che assicuri un adeguato apporto di energia e nutrienti, e un adeguato stile di vita con una costante attività fisica, rappresentano i pilastri cardine che possono rallentare il processo di invecchiamento. Numerose indagini sullo stato nutrizionale effettuate in soggetti in età avanzata, hanno rilevato che spesso l'anziano non si alimenta in maniera adeguata per problemi di varia origine. Organici: alterazione della capacità digestiva, ridotto assorbimento inte-

stinale, scarsa metabolizzazione dei nutrienti, problemi odontoiatrici, inappetenza malattie neurologiche che riducono l'autonomia funzionale come il morbo di Alzheimer e di Parkinson. Problemi sociali, come le scarse risorse economiche e la solitudine; problemi psicologici come la depressione. La prevalenza della malnutrizione calorico-proteica aumenta in funzione dell'età in entrambi i sessi, sopratutto nelle case di riposo o di lungo degenza e nei pazienti ospedalizzati. L'anziano è particolarmente vulnerabile sopratutto a malnutrizione per carenze proteiche e di micronutrienti. I cosidetti anziani “fragili”, per una spiccata riduzione della massa e della forza muscolare, definita sarcopenia, possono andare incontro a gravi disabilità; spesso si associa un ridotto apporto di calcio con la dieta che può compromettere anche l'integrità dell'osso. Dopo i 30 anni la massa magra del corpo si riduce per perdita di massa muscolare; nel maschio giovane costituisce il 30% del peso corporeo, superando il grasso (20%) e l'osso (10%). A 75 anni i muscoli calano fino al 15%, mentre il grasso raddoppia al 40% e l'osso si riduce all'8%. In definitiva c'è un incremento della massa grassa a scapito della massa magra; una riduzione della mineralizzazione ossea e riduzione dell'idratazione complessiva. Questi cambiamenti necessitano di un adeguato supporto alimentare: è necessario l'introito di proteine a più alto valore biologico contenenti aminoacidi essenziali, presenti sia nelle fonti animali che in quelle vegetali, preferendo queste ultime perché più povere di grassi; l'apporto proteico raccomandato dai LARN è pari a 0,90 g/kg/die che può arrivare fino a 1,5g/ kg/die nei soggetti malnutriti o a ri-

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schio malnutrizione. L'anziano è a rischio carenziale di alcuni micronutrienti, in particolare vitamine del gruppo B, la vitamina D, il calcio, il magnesio, il selenio, per cui è importante favorire il consumo di verdure e frutta fresca; i livelli di acidi grassi essenziali devono rientrare nel fabbisogno minimo. L'apporto dei glucidi deve essere circa il 60% delle calorie complessive con prevalenza marcata dei carboidrati complessi (75%) rispetto ai carboidrati semplici. L'acqua, nutriente essenziale per l'organismo umano e per il mantenimento di un adeguato equilibrio idrico, deve essere consumata in quantità pari a 2L/die per gli uomini e 2,5L/die nelle donne. Promuovere il consumo di acqua è particolarmente importante poichè negli anziani il ricambio dell'acqua può essere compromesso da una minore efficienza del meccanismo della sete, o da alterazioni del rene, con maggior rischio di disidratazione. Insieme ad una corretta alimentazione è fondamentale l'attività fisica nella prevenzione del declino funzionale e nella terapia delle patologie cronicodegenerative. L'esercizio fisico di tipo aerobico ha effetti nel migliorare la fitness cardio-respiratoria; per contrastare la sarcopenia sono necessari esercizi di forza o contro resistenza, che consistono nell'esecuzione di movimenti con utilizzo di pesi, elastici e macchine isotoniche. Mantenersi attivi in tutte le fasce d'età e in particolare in età avanzata contribuisce, come sottolineano numerosi dati di letteratura, ad una riduzione del declino cognitivo e a migliorare lo stato dell'umore e le funzioni cognitive; più recentemente è stata dimostrata una significativa correlazione tra attività fisica e aspettativa di vita. www.baggianinutrizione.it


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Anno XX n. 1/2018 Trimestrale € 10,00 20181 ISSN 1973-3658

POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N.46) ART. 1,COMMA 1 C1/FI/4010

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