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Anno XIX n. 4/2017 Trimestrale € 10,00 20174 ISSN 1973-3658

POSTE ITALIANE S.P.A. – SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE – D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N.46) ART. 1,COMMA 1 C1/FI/4010

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EDITORIALE

Buon Natale

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iamo arrivati a fine anno, fra poco sarà Natale, le città sono più belle, piene di luci e di colori. I negozi splendenti offrono di tutto e di più, a prezzi che occhieggiano dicendosi vantaggiosi. Par che suggeriscano: coraggio, i denari ce l'hai e tutto si può comprare! Ognuno si orienterà secondo i propri gusti nel prosperoso mercato natalizio. Alcuni sceglieranno capi d'abbigliamento, libri, materiali tecnologici HI TEC, gioielli. Ad altri piacerà regalare, e regalarsi, un viaggio o una settimana in montagna. Tutti, naturalmente, penseranno agli addobbi natalizi: albero, presepe, ghirlande, festoni di luci e vere e proprie luminarie, quando lo permettano le disponibilità economiche e la portata degli spazi esterni utilizzabili. Girovagando per le strade, lo scorso anno, ricordo che per eccesso di "addobbi", in un piccolo giardino aveva addirittura sostato una slitta a grandezza naturale trainata da due renne e con alla guida un maestoso babbo natale. Pensando forse che quella apparecchiatura non fosse sufficiente ad animare il piccolo giardino, gli autori dell'installazione avevano provveduto ad addobbare ad albero di natale un'altissima mimosa. Il tutto rifinito da una diffusa illuminazione di tubi a led... Che spettacolo! Oggi non importa girare per le strade per vedere simili allestimenti. Basta che accendiate lo smartphone e vi collegate ai vari social - Facebook, Twitter, Instagram - per scoprire immagini spettacolari nei profili di qualche vostro amico delle immagini. Certo, mi viene da pensare che nella quotidianità come nel tempo della festa, ormai è sempre più un ricordo lontano la dimensione dell'intimità. Io appartengo a una generazione cresciuta con un senso della riservatezza forse anche portato fino al timore. Oggi, nonostante da ogni parte si invochi ad alta voce la privacy, noi stessi non rispettiamo la nostra. Ognuno ha un proprio concetto di privacy, una propria idea del limite che deve distinguere il privato e il pubblico. Qualcuno, leggendomi, mi penserà come una vecchia bacchettona. Posso anche comprenderlo. Se però non si pone un freno al permissivismo degli atteggiamenti e dei comportamenti, del dire e del fare ogni cosa come se non esistesse quel limite, credo che navigheremo alla deriva verso non si sa quale approdo. Noi/voi - certamente siamo/siate liberi di dire e di pubblicare tutto quel che ci/vi aggrada, ma è bene ricordare che chi ci ascolta o ci legge è altrettanto libero di commentare in ogni modo e anche di giudicare. Il senso dell'intimità e della riservatezza sarebbe un salutare moderatore per i vari personaggi pubblici che usano affidare ai social tutto ciò che pensano e fanno nel corso della giornata, e non mancano di incappare in ridicole, mortificanti "paparazzate". Le persone comuni come noi mantengano il senso di intimità e di riservatezza che è una qualità dello spirito. Diceva un grande filosofo che l'interesse verso una persona finisce quando finisce il suo mistero. Un augurio a tutti di buon Natale e felice anno nuovo.

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Photo Archivio CTE Stampa Bandecchi & Vivaldi s.r.l. - Pontedera (PI) ISSN 1973-3658

In copertina: Tonino Caputo Skyline and Manhattan Bridge, 2017 olio su tela 100x80 cm

Reality numero 86 - dicembre 2017 Reg. Trl. Pisa n. 21 del 25.10.1998 Responsabile: Margherita Casazza dal 19.11.2007 Reg. ROC numero 30365

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SOMMARIO

ARTE MOSTRE letteratura territorio storia 10 20 22 24 26 28 30 32

In viaggio con Caputo Progetto Casaconcia Uno stendardo come pittura Stille. La concia è arte Officine Garibaldi Le tre donne di Dilvo Un Magnificat bianco latteo a Pistoia Arte contemporanea a Tel Aviv

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50 52 54 56 58 59 61 62

Che problema la palla di Firenze! Walter Savage Landor Dostoevskij a Firenze Orso, Fianco di Ferro e Tamaris Souvenir di Maurizio de Giovanni Una vita oltre NovitĂ Editoriali JL. Imagine

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Pennini, sopracciuffi, alamari Sognare Cennino L'arte in Italia Il divino Cinquale Una Terra Nuova lucchese Cristoforo, che folla! Mio padre aviatore

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SOMMARIO

spettacolo EVENTI economia società COSTUME Gara di racconto 63 Andar per borghi toscani 65 Noël en Champagne 66 Piante e fiori 68 70 Gonne di paglia e tacchi di cristallo XXXV° Borotalco 72 Musica contemporanea 74

75 76 78 80 82 83 85 86

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Clemente Zileri Dal Verme Un mondo da scalare Natale 2017 Non è vero Benefico calcio Vaccinarsi, perché? Come sarà il 2018

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Jazz, una passione Non solo Giacomo Puccini Come cane e gatto Un treno lungo 60 anni Garage Italia opening Concita De Gregorio Amaretto, che dolcezza! Il Gruppo Lapi per i giovani

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artista

La rosa, 1967 olio su tela 71x81 cm Senza titolo I, 1957 tecnica mista su carta 50x35 cm

in

viaggio con

Caputo

Nicola Micieli

Dopo l’informale degli anni Cinquanta e il figurativo barocco del decennio successivo, negli anni Settanta ho conosciuto una ricerca sullo spazio geometrico, prospettico, che prelude a tutto il mio lavoro più recente. Quando arrivai in America non andai lì per dipingere all’americana, portai invece il mio modo di dipingere che era il frutto del nostro Rinascimento. C’era un aspetto maniacale nel comporre le prospettive, un’ossessione nata grazie sopratutto alla “Flagellazione” di Pietro della Francesca. Non fu una cosa da poco sradicarmi dalla cultura barocca per andare a fare una linea retta. Coniugavo spazi illusori, paradossali, con evanescenti figure umane che più tardi scompariranno del tutto. Non mi interessa la bella prospettiva in cui c’è un ordine preciso e modulato di spazi vuoti e pieni. Con la mia pittura degli anni Settanta gli assi prospettici significavano una possibilità di incontro verso il punto di fuga che non doveva verificarsi per forza in quel momento. Sono linee e volumi che si incontreranno coerentemente in un futuro, non so quando, ma si incontreranno.

U

n importante pittore di vedute urbane. Così passa per essere, omologato da voci diverse della critica, Tonino Caputo della stagione matura, e non si può negare che tale appaia a uno sguardo d’insieme. Volendo stare alla generica definizione, che riguarda, invero, la ricorrenza dei soggetti, aggiungerei almeno gli attributi della rarità e della singolarità, e a un livello più approfondito dell’analisi, la proprietà meta-reale dell’immagine, quali tratti distintivi del “vedutismo” (a questo punto virgolettato) dell’artista leccese naturalizzato romano. La cui storia, per almeno un quarantennio, si è svolta in interfaccia critica, di compresenza e discontinuità con esponenti di punta – in primis, Piero Manzoni – della ricerca e dei movimenti romani, in particolare il gruppo di ascendenza pop: dagli anni Cinquanta del suo esordio informale ai Sessanta del recupero figurativo di ispirazione mediterranea, nella chiave stilistica d’un sontuoso barocchismo dalle forme sinuose trascorrenti l’una nell’altra e come in metamorfosi, e una scrittura grafo-pittorica quasi rabescata. Lo spazio d’estrema animazione, in esterno e in interno, che chiamo fluido, e le evidenze del paesaggio, le presenze figurali, gli oggetti che dello spazio nel quale si manifestano sono organica parte costitutiva, trovavano poi, con gli anni Settanta, un loro assetto strutturale e visivo governato dalla geometria, che per Caputo è il principio ordinatore delle forme e dei piani oggettivati sotto specie di impianto scenico in prospettiva virtuale.

Tonino Caputo

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Come offerte rinnovate I 1985 olio su tela 70x90 cm Charter per il futuro, 1982 olio su tela 60x50 cm

Nelle versioni in interno/esterno di quelle complesse, perfino artificiose apparecchiature sceniche, allo scorcio degli anni Settanta Caputo introduceva, mirandoli dalle vetrages delle sue stanze delle meraviglie geometriche, i primi motivi architettonici e ambientali del vedutismo urbano che andava ormai profilandosi come sviluppo del suo lavoro. Erano stanze delle meraviglie, quei suoi interni/esterni dipinti come una sorta di immaginario studio/laboratorio d’un ispirato Architetto, nel quale la presenza umana in situazione, è data da effigi evanescenti, simulacri pressoché incorporei più che figure chiamate a interpretare un ruolo. Erano teatri metafisici popolati da riduzioni degli oggetti quotidiani, che assumono un valore simbolico e perfino esoterico in senso pitagorico, nelle forme solide della geometria e piane della segnaletica, e nella simulazione prospettica degli spazi che quegli oggetti abitano immersi nel silenzio, si traduce la virtù edificatrice dell’Architetto. Su quelle straordinarie stanze delle meraviglie, ancora un’annotazione che mi sembra sfug-

gita alla critica, riguarda la struttura multi-planare e poli-prospettica dell’immagine, composta per inserti di immagini che variamente si intersecano, sovrappongono, incastrano, secondo una logica sincretica propria al movimento europeo di Nuova Figurazione, della quale in perfetta corrispondenza cronologica, Tonino Caputo si può dire abbia interpretato uno degli aspetti, di tangenza neometafisica. Visitatore e pittore di luoghi urbani, direi viaggiatore iconografo non da diporto o pittoresco in versione post moderna, nemmeno esotico nello spirito del turista attrezzato, in effetti Caputo lo è stato, e con una certa assiduità, negli ultimi decenni. Non ho difficoltà a riconoscere che da novello Canaletto sconfinante nel ventunesimo secolo, con la “camera ottica” del proprio sguardo egli ha inquadrato spaccati urbani e skyline di mezzo mondo, prediligendo quelli della Grande Mela, simbolo per eccellenza della vita moderna quale si specchia nel volto labirintico degli agglomerati metropolitani.

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Penso però che l’appartenenza di Caputo, quella trascorsa e l’attuale, al genere pittorico della veduta, che oggi suona per lo meno desueto, deve essere accolta con non pochi distinguo e precisazioni, alcuni impliciti nelle istanze che seguono. Li richiedono le qualità formali e le matrici formative della pittura di Caputo quale si è svolta dagli anni Settanta, che “per li rami” di Novecento e della Metafisica, risalgono a quel Paolo Uccello così preso nello studio di linee e cerchi e fughe della “dolce prospettiva”, da estraniarsi dal mondo; e alle limpide partiture di Piero della Francesca, pittore dell’assoluto nella sua misura spaziale. A quei modelli – tra gli altri che contrassegnano il primo Novecento italiano, attingendo peraltro ai medesimi exempla – idealmente rimanda il visibile parlare di Caputo, per dirla con la “parlata” del libro di Carlo Carrà che retrodatava a Giotto l’avvio del processo d’astrazione formale dello spazio rappresentativo, un percorso portante nella storia dell’arte occidentale. Li vogliono i portati culturali e sociali,


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Probabile casa museo di Gilles del Rais detto Barbabló 1974 olio su tela 60x50 cm Studio per il cortile, 1985 olio su tela 60x60 cm Time Square, 2011 olio su tela 100x80 cm

fuor di perorazione, delle sue vedute di aspetti anche monumentali della città, che testimoniano modelli di civiltà, sistemi produttivi e stili di vita, e relative implicazioni culturali e sociali, appunto; e ancora i rimandi concettuali, e il simbolismo della geometria e della prospettiva, e l’esercizio significante delle “quadrature” ovvero delle finte architetture e prospettive artificiose che praticavano i pittori manieristi di ambienti e luoghi edificati, per dirla con Fortunato Bellonzi che per primo segnalava il “gioco pensoso” (1985) del Quadraturismo di Caputo, che è poi, in sostanza, la concezione dello spazio rappresentato come “forma simbolica” (Panofsky). Li comportano, infine, il codice e la semantica della comunicazione urbana, della “Pubbli-Città” (1974), come dal titolo di uno studio del poeta visivo e semiologo Lamberto Pignotti, ossia della città quale supporto di cartelli stradali, insegne commerciali, icone pubblicitarie, “graffiti” invasivi (parietali e non, prodotti per caso o con intenzione), infrastrutture e oggetti di servizio e altre installazioni stabili o effimere. Sono superfetazioni segnaletiche, queste, molto importanti nell’immagine della città di Caputo, dove compaiono debitamente selezionate ed evidenziate per due ragioni. Dal punto di vista formale le utilizza quali marcature visive e timbriche della partitura pittorica, con una strategia spaziale e cromatica specialmente efficace nelle ampie vedute metropolitane. Sul piano semantico, l’inserto segnaletico, altrimenti leggibile in chiave di citazione pop, assume un valore simbolico, in ogni caso alludendo ad attività, situazioni, storie di vita che nel luogo urbano si svolgono e si consumano. I segni stanno per l’uomo, ecco, e la sezione di città di volta in volta inquadrata è nel suo insieme un segno polisemico: sono specole e sintomi delle sue imprese, della sua routine, dei suoi affanni, in una scena pittorica che egli abita senza mai comparire in effige, nella quale recita la sua parte senza mai mostrarsi anche solo come maschera, se non nella propria riconoscibile identità. Anche nel “fermo immagine”, che so, di Time square o d’altra arteria della city intensamente trafficata, nella piena luce meridiana, mai si vedono autisti o passeggeri attraverso i vetri trasparenti delle vetture e degli autobus. Non un pedone calpesta mai un marciapiede, una banchisa, una passerella, non un manovratore mette mano alle grandi macchine dei cantieri o avvia il motore d’un barcone all’attracco in un canale. Nessuna persona in qualche modo rivela d’esserci, nella città sospesa di Caputo, nelle cui vene scorre silenzioso il fiume diramato della vita attiva e produttiva. Do per certo che le ribalte e gli scenari nelle quali Caputo espunge l’uomo, quelle città dei servizi senza utenti, per dirla con un termine proprio alla civiltà tecnologicamente avanzata, non siano da leggere in termini d’alienazione metropolitana. Del resto, non meno deserte sono le città storiche monumentali, da Roma a Lucca a Firenze, a Venezia e ancora Venezia, ai numerosi altri luoghi del Museo diffuso Italia, come a Parigi a Londra e insomma nel mondo. Non hanno niente da spartire, perché risalgono ad altra concezione e visione,

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Manufatto industriale 1989 olio su tela 80x80 cm Tower Bridge, 2009 olio su tela 136x146 cm Omaggio a Mantegna 2008 olio su tela 90x160 cm

ad altra cultura dello spazio urbano rappresentato, con le immagini congelate, ad alta definizione fotografica che intorno alla metà degli anni Settanta gli iperrealisti americani ci consegnavano come vetrine specchianti dell’impersonalità della vita metropolitana. Mi sembra allora decisivo rilevare che insieme alla meraviglia puro-

visiva per la complessa “architettura” dell’immagine, le vedute urbane di Caputo, specie quelle ravvicinate sul soggetto, investono la sensibilità del riguardante, che si sofferma ad osservare le scacchiere cubiste in alzato, tagliate a tutto campo; che idealmente reagisce all’impatto visivo dei possenti aggregati edilizi e architettonici di soprelevate, mura-

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glioni, opifici, capannoni e torri, composti in sequenza di piani e prospettive cieche, che lasciano allo sguardo appena una via di fuga nell’alto, uno spiraglio di cielo non sufficiente a liberare lo sguardo nel volo. Il riguardante, ancora, che avverte il sentimento del tempo e del vissuto, nel palinsesto composto dai depositi fuligginosi e le usure dei paramenti


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murari, sui quali spesso, in aggiunta di segnali eloquenti, si combina e stratifica l’opera graffitata del tempo, della sciatteria umana e dei writers. In chi, insomma, si lasci prendere dagli aspetti meno appariscenti delle vedute urbane e metropolitane di Caputo, specie le newyorchesi dall’artista maggiormente frequentate, non sarà improbabile che si insinui un senso certamente di spleen, un vago avvertimento esistenziale. Lecito sospettare, quindi, che quella percezione dello scorrere sommerso del tempo e della vita, Caputo l’abbia raccolta e comunicata in figura “climatica” del paesaggio urbano, nel suo girovagare di esploratore nel mondo, alla ricerca di luoghi edificati da scoprire perché per lui inediti, o da riscoprire in quanto contesti urbani noti e anche storici, comunque testimoni di civiltà. Ogni luogo lo ha dipinto come in posa per un ritratto, se così si può dire nel caso di una veduta. Vuol dire che lo ha interrogato e interpretato – per inciso ricordo che Caputo si prende la libertà di comporre il soggetto manipolandolo – più che riprodurlo con gli strumenti analitici della pittura, anziché con la macchina fotografica. Per la stessa ragione, della ricca iconoteca messa su in tanti anni di ricognizione urbana, più che di reportage pittorico da viaggiatore colto, si parlerà come d’un atlante o teatro dell’immaginario architettonico e urbanistico per lo più moderno, esemplato sul vero ma assunto al filtro della sensibilità e restituito nell’ottica visionaria della mente.

Going to Sydney, 2010 olio su tela 110x120 cm Holland Tunnel, 2010 olio su tela 70x90 cm

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Rio di Cannaregio, 1998 olio su tela 60x60 cm


Tonino Caputo nasce a Lecce nel 1933.
 Completati gli studi nel locale liceo scientifico, si trasferisce a Roma nel 1952, dove si iscrive alla facoltà di architettura; già da quegli anni si delinea il suo interesse primario per la pittura.
 Nel 1956, sorretto da poeti come Vittorio Pagano e Rina Durante, partecipa ad una prima collettiva con disegni figurativi. Nello stesso anno, conosce a Roma Gastone Novelli e inizia una ricerca nel campo dell’informale, cammino che durerà cinque anni. Nel 1958, partecipa a Roma ad una mostra di pittura assieme a grandi artisti quali: Twombly, Rotella, Accardi, Cagli, Gnoli, Novelli. Nello stesso tempo, collabora con disegni e scritti d’arte a numerosi periodici nazionali.
 Dal 1963 al 1965 vive prevalentemente a Parigi, senza però perdere i contatti con Roma, dove inizia un rapporto di amicizia e collaborazione con l’attore Carmelo Bene, conosciuto anni prima. Questo rapporto si intensificherà nel 1967, quando Caputo esegue tutte le locandine degli spettacoli di Carmelo Bene, nonché le pitture di scena.

Questa esperienza prosegue con le altre pitture di scena del film Capricci, girato in parte nel suo studio romano in via Montoro. In questa produzione filmica Carmelo Bene gli riserva anche un ruolo come attore. Il film verrà presentato a Cannes nell’ambito della rassegna Quindicina degli Autori. 
Dal 1970 al 1973, Tonino Caputo compie una serie di viaggi nei paesi dell’Est europeo.
 Nel 1972 partecipa alla Biennale di Venezia (sezione teatro) con le scenografie per il dramma Egloga di Franco Cuomo e Marica Boggio, pièce che verrà rappresentata nel teatro di palazzo Grassi. 
Dal 1982 l’artista apre uno studio a New York e da quel momento in poi, per molti anni, passa parte dell’anno a Manhattan. Si tengono in quegli stessi anni numerose mostre itineranti di grafica organizzate dalla Quadriennale d’Arte di Roma, in collaborazione con il ministero degli esteri. 
Nel 1992 la rivista inglese “Art & Design”, in una ricerca dello storico Ken Griffith, inserisce Tonino Caputo tra i 50 artisti più significativi della seconda metà del secolo in Italia. Verso la fine

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degli anni Novanta, su commissione del sindaco Helsinborg, Caputo stampa due litografie: una sulla Town Hall, che verrà distribuita nelle pinacoteche di molte città consorelle (tra cui Amburgo, Pechino, Stoccolma e Copenaghen), l’altra sulla cattedrale di San Basilio a Mosca, che verrà poi messa in vendita per aiutare i giovani disadattati della Russia democratica.
 Nel 1999, su commissione della società Nokia e delle Ferrovie Laziali, esegue un mosaico che viene installato nella stazione di Bracciano. Nel 2005 festeggia i suoi 50 anni di pittura con una mostra antologica all’Archivio di Stato di Roma, in Sant’Ivo alla Sapienza, quindi all’Archivio di Stato di Torino nel Palazzo Juvarriano. Nel 2006 vince la XXXII Rassegna d’Arte Contemporanea “Premio Sulmona”. Le ultime tre mostre personali le tiene nel 2009 al Museo Castromediano di Lecce, nel 2011 nel Castello di Lecce e nel 2013 alla Galery “Rayko Alexiev” di Sofia, in Bulgaria, sponsorizzata dall’Istituto Italiano di Cultura di Sofia.


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casaconcia

progetto

c a s a cpresente o n ecfuturo ia la mostra del pittore Luca Macchi chiude il primo anno di attività Alessandro Bruschi

Vittorio Gabbanini, sindaco di San Miniato, Luca Macchi e Simone Remi, presidente del Consorzio Pelle al Vegetale

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rte Anima Mondo, dell’artista sanminiatese Luca Macchi, chiude il programma del primo anno di attività di casaconcia, lo spazio espositivo realizzato dal Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale. Una serata inaugurale, quella del 4 novembre scorso, che ha visto la partecipazione di un pubblico numeroso, tra cui il Sindaco di San Miniato Vittorio Gabbanini, il presidente del Consiglio comunale Vittorio Gasparri, l’assessore al Bilancio Gianluca Bertini e l’assessore alle Politiche socio-sanitarie David Spalletti. Insieme a loro anche il Sindaco di Castelfranco di Sotto Gabriele Toti e l’assessore alla cultura del comune di Certaldo Francesca Pinochi. Un chiaro segnale di come le attività culturali portate avanti nei nuovi spazi del Consorzio stanno suscitando interesse e voglia di condivisione anche nelle istituzioni pubbliche locali. La mostra “Arte Anima Mondo” e la pittura di Macchi. Un viaggio introspettivo e rigoglioso nei pensieri, nelle sensazioni e nell’anima dell’artista ma che non dimentica mai di mettere

al centro la propria toscanità attraverso la rappresentazione di paesaggi e scenari tipici. Il nome dell’esposizione, secondo le parole dello stesso artista, è dovuto ad una volontà specifica ovvero quella di «esprimere anche a parole un certo contenuto dei lavori. Ma anche perché credo che sia proprio questo il senso profondo di ciò che ogni artista cerca. L’Arte come Anima del Mondo. L’Arte come motore del mondo. La continua ricerca del bello che, come sappiamo, è la vera salvezza». Una pittura, quella di Macchi, che Giuliano Scabia, noto poeta e drammaturgo, ha voluto definire in questo modo: «Santa pittura. Lavora alla maniera antica Luca, con acrilici matite legni incollamenti di scritture e foglia d’oro. Foglia d’oro. Da Bisanzio a Orfeo a Venezia a Rubliev. Chi è il mito della foglia d’oro? Bisogna andare prima di Cimabue per ritrovarla. Nell’oro che Luca usa con delicatezza c’è il filo (pittorico) del suo dialogare col mito – il viaggio della zattera,

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la testa di Orfeo, il muro, l’uomo albero, i cipressi (magici), il gemmare, le aperture di luce. L’oro e l’azzurro – deposti vicini con gentilezza e silenzio – sembrano stare in dialogo segreto, a suggerire una salita, un’ascesa e ascesi. Ascesa e ascesi che viene dall’intensità delle vie e dei colli e crinali e pendii intorno – dall’anima paesaggio. Pittura intrisa di ascolto e sguardo.» Il progetto tra mostre e altri eventi. Ma il progetto culturale di casaconcia prosegue spedito verso il nuovo anno. In programma ci sono già cinque mostre: ad aprire il 2018, precisamente il 20 gennaio, sarà Karl Heinz Hartmann-Oels, artista tedesco trapiantato a San Miniato da oltre quarant’anni che per la prima volta realizzerà un’esposizione personale. La seconda esposizione avrà come protagonista il pittore e incisore santacrocese Giuseppe Lambertucci, che nel mese di marzo porterà in mostra la sua arte di trasformare in racconto momenti e suscitazioni interiori


in una pittura che va a declinarsi nel campo del fantastico. A maggio invece sarà la volta di Riccardo Luchini, artista versiliese la cui pittura riporta in scena spazi urbani andando ad indagare più a fondo la vita misteriosa delle cose. Settembre sarà il mese dedicato ad Antonio Bobò, pittore e incisore che reinterpreterà in chiave contemporanea alcuni schemi dell’arte classica e tradizionale. A chiudere l’anno ci sarà la mostra di Cesare Borsacchi, artista conosciuto a livello internazionale per la tecnica dell’acquaforte e della litografia, oltre che per la sua attività pittorica. Non solo esposizioni, infatti lo spazio culturale vivrà anche di altri eventi e serate, di altri momenti di condivisio-

ne, di conoscenza ma anche di promozione: teatro, musica, letteratura, incontri con i personaggi del mondo del vino, della cucina. E proprio in questo filone di eventi andranno ad inserirsi le serate dedicate all’Associazione Italiana Sommelier e agli Amici del Toscano, così come l’evento Storie di Brunello in cui il conte Andrea Costanti, dell’azienda agricola Conti Costanti, racconterà come il Brunello è diventato volano di un intero territorio. Avremo poi la serata Glocal con Giovanni Gozzini, docente di Storia Contemporanea e Storia del Giornalismo alla Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Siena, sugli effetti della globalizzazione sui mer-

cati esteri e l’evento Creatività con la designer Camilla Fucili che racconterà i vari modi di utilizzare la pelle nel design e nell’arredo. Lavorare sul territorio però significa anche portare avanti progetti concreti nel campo dell’istruzione, al fine di lasciare un segno tangibile anche nei più giovani. Proprio in questo settore verrà sviluppata la seconda edizione del progetto di avviamento alla lettura in collaborazione con l’Istituto Comprensivo M. Buonarroti ed il Teatro Quaranthana di Corrazzano. Un progetto che vedrà la rilettura di alcuni classici in chiave teatrale e che permetterà ai ragazzi della scuola elementare di avvicinarsi al piacere di leggere e al teatro.

calendario mostre 2018

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Karl Heinz Hartmann-Oels

20 gennaio 10 febbraio

Giuseppe Lambertucci

10 marzo 14 aprile

Riccardo Luchini

5 maggio 9 giugno

Antonio Bobò

15 settembre 13 ottobre

Cesare Borsacchi

3 novembre 1 dicembre


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ARTE

uno

stendardo

come pittura Franco Mulas con un'antologia e il "palio" ad Ascoli Piceno Nicola Micieli

Franco Mulas Stendardo Quintana

L

o scorso agosto Franco Mulas è “sceso in campo” ad Ascoli Piceno con un’ampia e articolata mostra antologica, allestita nel palazzo dei Capitani, e una singolare tela dipinta sotto specie di vessillo o labaro o stendardo che dir si voglia. L’antologica la intitolava Defrag, un termine che nel linguaggio informatico indica l’operazione del de-frammentare i file in memoria, per velocizzarne la ricerca. Utilizzandolo per designare gli ultimi decenni della propria pittura, penso che Mulas abbia inteso significare la riduzione dell’intervallo tra i segni, i morfemi, i brani figurali che egli ha progressivamente operato dagli anni Cinquanta agli inoltrati anni Novanta. Ricordo che per tale operazione egli ha fatto perno su una suite di opere realizzate tra il ’79 e l’80 sul tema dell’Albero rosso di Mondrian (1979-80). Pochi dipinti, però emblematici del mutamento in atto nello sguardo e nel linguaggio che in quel torno maturava nella ricerca di Mulas. Quel piccolo nucleo di opere, vero e proprio “esercizio di stile” condotto sul testo sacro del padre del neoplasticismo, si collocava dunque al giro di boa, all’ardito snodo tra la figurazione criticoesistenziale degli anni Sessanta e Settanta, e il deflusso o l’approdo degli Ottanta in un’area neo-simbolista che vorrei dire visionaria. Cambiavano radicalmente, difatti, i referenti culturali e poetici e la stessa topografia della pittura di Mulas. Da un ambiente urbano nel quale lo spazio pubblico inglobava e alterava quello privato, sicché la cronaca della deprivazione privata si faceva defatigante materia della

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storia, ad una dimensione dell’immaginario nella quale i relitti della storia si depositavano sotto specie di reperti archeologici, di simulacri dell’arte, di fantasmi della letteratura. Il passo successivo furono i dipinti del ciclo Birg Burg avviato nel 1990, sorta di monumenti totemici a un paesaggio del tutto particolare, composto sovrapponendo come in un sandwich fette o “pellicce” di prato permutate in sezioni visionarie di luoghi fantastici, in molti casi rievocativi della pittura simbolista di Pont Aven e del Monet delle Ninfee. In ultimo, e fino al presente, una ricognizione ravvicinata nel fervido laboratorio vitale della natura, tra forre boschive e recessi acquei inquadrati come microuniversi dai prospetti vertiginosi, come i cieli rapinosi che incombono sulle terre e sui mari dei quali partecipano la plastica animazione. Ed è appunto nelle serrate tessiture pittoriche, nella scattante dinamica di quelle terre e acque e cieli che Mulas opera la de-frammentazione di cui si diceva in apertura. La medesima de-frammentazione dei segni e morfemi e frammenti figurali che verifichiamo nella singolare tela dipinta in forma di stendardo, che Mulas ha realizzato quale momento integrante del suo appuntamento espositivo ascolano. Integrante propriamente come pittura, intendo dire. Tanto che pareva lo avessero staccato da una parete della mostra antologica, gli ascolani che lo hanno portato, come una venerabile icona processionale, dal cuore antico della città al Campo dei Giochi. L’ambito drappo dipinto su velluto, il “palio” (da pallium, velo, coperta) che dà il nome al torneo cavalleresco di cui è il trofeo – i senesi lo chiamano fami-

liarmente “cencio”, e lo dipingono su seta – ad Ascoli lo conquista il Sestiere vincitore della celebre Giostra della Quintana che si corre il sei agosto. Mulas ha eseguito il suo stendardo senza nulla concedere al simbolismo araldico che solitamente caratterizza l’iconografia dei palii. Se si esclude il tempietto ottagonale (la chiesa di Sant’Emidio?) che la mano inguantata del santo protettore o d’un offerente tiene al centro del dipinto, la scena aerea ove si svolge la tenzone cavalleresca è tutta un’animata scomposizione pittorica e figurale

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dello spazio che come una cupola ovoidale, magnetizza lo sguardo catturandolo nel vortice dei cavalieri armati di picche che si materializzano come visioni generate dalle nubi, in una scena in definitiva cosmografica al cui culmine Mulas ha posto, citandola come angelo dell’annuncio, una Amalassunta di Osvaldo Licini.

Paesaggio, 2011 N.11- Ciclo Finzioni Incontro tra Battista Sforza e Federico di Montefeltro, 1980 Rupe a Vitorchiano, 1994


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mostra

A.C.

Scrivente 2017 cuoio nabuccato tinto in botte, ferro verniciato, ceramica e lustro Paolina 2017 ceramica smaltata, acqua e piante acquatiche, ferro ossidato Inerti 2017 granulare sinterizzato (KEU 2001), cemento, acciaio inox

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la concia è arte

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n successo reale con tanti cittadini presenti visibilmente incuriositi ed emozionati dalla sensibilità degli artisti, capaci di trasformare in originali creazioni, materiali e oggetti che fanno parte della quotidianità di chi vive questo distretto conciario, come pelli, strumenti da lavoro e acqua»: Silvia Rigatti, presidente Consorzio Depuratore, partner della mostra Stille, sintetizza così l’inaugurazione dell’evento, che ha visto sabato 18 novembre Villa Pacchiani gremita, con centinaia di cittadini presenti per vedere le creazioni del duo Or-

naghi e Prestinari, ispirate al tema dell’industria conciaria. «Un riscontro prezioso da parte del pubblico-dice Giulia Deidda, sindaco di Santa Croce sull’Arno − che premia il lavoro di tutti quanti hanno

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contribuito alla realizzazione di questa mostra, riuscita nell’intento di raccontare attraverso una originale prospettiva del distretto conciario, la sua comunità, la sua storia e il suo territorio». Pitture multicolore, cera-


miche, sculture fatte usando materiali da lavoro in grado di replicare oggetti di uso industriale, sono alcune delle opere presentate dai due artisti: tutto sullo sfondo del tema dell’economia circolare e dell’impegno per la sostenibilità ambientale, sempre più il vero marchio in grado di identificare il distretto conciario di Santa Croce sull’Arno, con i suoi impianti all’avanguardia, e le sue concerie che sanno coniugare artigianalità e modernità. Numerosi i rappresentanti delle istituzioni presenti all’evento, insieme a imprenditori e tecnici degli impianti visitati nei mesi scorsi dagli artisti, come il depuratore Aquarno, il Consorzio Recupero Cromo, il POTECO e l’Ecoespanso, oltre

all’Associazione Conciatori. Tra gli altri, hanno partecipato all’inaugurazione di Stille i consiglieri regionali Andrea Pieroni e Alessandra Nardini, con i sindaci di Castelfranco di Sotto Gabriele Toti e di Santa Maria a Monte Ilaria Parrella, insieme all’assessore alla cultura del Comune di Santa Croce sull’Arno Mariangela Bucci. Veduta della mostra: Ornaghi & Prestinari Reti 2017 ferro verniciato Prima di tornare fiume 2017 pelle conciata wet-blue, plastica, legno, alluminio, ceramica Rincasare 2017 tubi in ferro zincato, rubinetto, pompa, fili elettrici, legno foto OKNO studio

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arte

Officine Garibaldi Pisa: uno spazio creativo accessibile a tutti

Manuela Arrighi

Taglio del nastro e momenti dell'inaugurazione

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n edificio trasparente, ideato dall'Architetto Salvatore Re, di proprietà della Provincia di Pisa, in grado di riscoprire le antiche mura e dare nuova vita ed impulso ad un importante pezzo di città, che si estende per quasi cinque mila metri quadrati. Un involucro altamente performante ed accessibile a tutti, dove acustica, luminosità ed energia rappresentano i temi su cui confrontarsi con atteggiamento etico e responsabile: alla base dell’idea della struttura c’è la sostenibilità ambientale, che si percepisce già dalle sue immense vetrate, che incorporano pannelli solari nel rispetto del valore antropologico. Un luogo del lavoro e della creatività, di laboratorio e di “bottega”, un pezzo di città che si trasforma in un’officina culturale, ma non solo, un luogo di incontro, di scambio di saperi e di esperienze, di elaborazione di idee, di espressione delle novità che contribuisce a regalare al quartiere un nuovo spazio creativo. Uno spazio per tutti quei giovani che

hanno idee imprenditoriali e progettuali per il loro futuro dove trovare il supporto di una rete per realizzare i propri sogni. Le Officine Garibaldi sono la risposta ad un serio problema attuale,

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ovvero il calo della frequentazione di biblioteche e musei, la difficoltà a coinvolgere nella lettura e nella frequentazione dei luoghi culturali e non virtuali, fasce di popolazione sempre più ampie.


La finalità della struttura è proprio quella di investire in cultura, in luoghi dove far convivere persone portatrici di esperienze di vita e di culture diverse, considerando che una società eterogenea come la nostra ha sempre più difficoltà ad affrontare problemi sociali, a far convivere persone che trovano difficile capirsi. Il nuovo spazio ospiterà istituzioni culturali solo apparentemente diverse, puntando sulla sinergia che potrà derivare dal mettere insieme diversi servizi che si alimenteranno e valorizzeranno a vicenda. Nello stesso tempo sarà anche un luogo di partecipazione attiva, di anticipazione e integrazione dei cambiamenti, dove sentirsi meno soli perché si incontreranno persone e storie. Un centro intergenerazionale ed interculturale, dove si mescoleranno piccoli e grandi, nonni e nipoti, studenti e mamme, cittadini italiani e stranieri in un centro servizi mol-

teplice, dove vedere spettacoli cinematografici, ascoltare musica, leggere insieme un libro, cercare informazioni generali e sul territorio, conoscere lo sport, frequentare corsi di formazione, usufruire dello sportello di ascolto e orientamento, avvalersi dei mezzi di comunicazione di web tv e radio e, soprattutto, comunicare con il mondo. Le Officine saranno anche la nuova sede della ex Biblioteca Provinciale: un luogo gratuito di studio e di ricerca, ma anche di incontro e di socialità. All’interno delle Officine Garibaldi è in fase di creazione uno studio televisivo con annessa regia, strumento di comunicazione immediato, dove convivranno due nuove realtà comunicative: la TV web e la Radio web. In questa innovativa struttura saranno organizzate mostre temporanee e permanenti, convegni e congressi, workshop, eventi culturali ed artistici anche all’interno dell’auditorium “sospeso”.

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I gestori delle Officine Garibaldi sono Paim Cooperativa Sociale, Artide & Antartide ed Hispanico. La struttura è stata inaugurata con grande successo sabato 4 novembre 2017.

Spazi interni


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Arte

3 le

di

donne

Dilvo

Lotti. Giuseppina, la Pittura, San Miniato

Marco Moretti

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apita a volte di tornare in un luogo e scoprire che, seppure in nulla mutato, non lo si avverta più intimamente come quando altre volte andavamo per incontrare una persona o un ambiente ora scomparsi, il cui carisma finiva per conferire identità al luogo stesso. A chi scrive è successo, risalendo dopo qualche anno a San Miniato, ‘città’ che fino agli anni della guerra si portava dietro l’identificazione “al Tedesco” per via della rocca voluta da Federico II al sommo del colle, punto strategico tra Firenze e Pisa. Ma non è per cotanto imperatore, già “stupor mundi”, che San Miniato riveste un suo carisma, quanto per un motivo artistico e letterario molto più vicino a noi che lassù s’incarnava in Dilvo Lotti, pittore e scrittore del secolo passato ma sempre attivissimo nei primi nove anni di questo. Dilvo Lotti, memoria storica di quell’alacre fucina artistica che a Firen-

ze fu l’Istituto d’Arte di Porta Romana tra le due guerre. Nei suoi novantacinque anni, vissuti fino in fondo con grande lucidità, in forza delle sue tante cose per il luogo, Lotti era diventato il paese e il paese era diventato lui. San Miniato è stato per Dilvo un grande amore, paragonabile solo a quello nutrito per la mamma Giulia e per Giuseppina moglie. Ma sarebbe giusto dire che sono questi tre amori ad avere nutrito lui, costruendone la realizzazione affettiva e creativa. Quando agli inizi degli anni Quaranta il suo nome cominciava a circolare sulle gazzette artistiche di tutta Italia, e gente come Soffici, Papini, Vergani, Ojetti gli davan largo credito, a Lotti non passò mai per la testa di lasciare il suo cocuzzolo samminiatese per gli interessi che avrebbe potuto coltivare più proficuamente in città come Firenze, Milano o Roma. Da ricordare la meraviglia di Carlo Argan nel sentir rifiutare

Dilvo Lotti e le sue donne, 1959 Fuga in Egitto, 1965 Cristo deriso, 1935

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l’offerta fatta al giovane artista d’una cattedra per “chiara fama” a Velletri, e poi un’altra all’Istituto d’Arte della più vicina Cascina. No: a lui bastava l’incarico, certo meno in vista, d’insegnare alla scuola media di San Miniato. Da questo sviscerato amore nacque nel 1981 il libro San Miniato, vita di un’antica città; pubblicazione ricca di storia e di arte, di curiosità e di aneddoti, di registrazioni anche minime di particolari che di quartiere in quartiere narravano vicende d’antiche famiglie, di usi e costumi, di risvolti sociali che, rifacendosi idealmente a una dimensione ancora umanamente viva del luogo, finivan per rispecchiare le caratteristiche medesime dello stesso autore: ovvero quel vivo interesse per la partecipazione alla vita della città che, appunto grazie a Lotti, si arricchì d’iniziative come il Carnevale dei bambini e la Festa degli Aquiloni, grande sagra questa evocante l’idea medesima dell’aria e dello spazio re-


spirabili sul pratone della Rocca edificata dal tedesco e sette secoli dopo dal tedesco distrutta. “San minato dal tedesco” ebbe a commentare Giovanni Papini quando, invitato da Lotti, visitò nel primo dopoguerra la città devastata, le cui ferite materiali erano ancora sulla strada, mentre altre, interiori, laceravano ancor di più gli animi nel ricordo dell’eccidio in duomo di cinquantacinque persone. Una strage attribuita ai nazisti (con la complicità del vescovo si disse), e solo tempo dopo accertata come causa d’un bombardamento americano. Ma tuttavia, per le distruzioni subite, i samminiatesi vollero cassare dal nome del loro paese il riferimento “al Tedesco”. In quel luglio 1944 Lotti, tenente di fanteria, si trovava lontano dalla sua città. Al ritorno la ritrovò devastata, con il peso delle morti che aveva diviso i vivi. Nel clima tragico del dopoguerra, prese corpo l’idea di una riflessione sul senso sacrale della vita; istanze che attraverso il teatro dettero vita all’Istituto del Dramma Popolare di San Miniato di cui Lotti fu cofondatore e autore, anche, col suo ex maestro Pietro Parigi, di manifesti straordinari e inconfondibili, veri e propri capolavori d’incisione che nell’asciuttezza del bianco e nero riportavano lo spirito del Dramma. Ma al di sopra degli impegni culturali per la sua città, Lotti era artista di caratura nazionale. Pittore, con spiccata predilezione per la grafica incisa appresa in quella grande bottega che fu la scuola d’arte di Porta Romana, era cresciuto sotto gli occhi attenti di Francesco Chiappelli e del suo assistente Pietro Parigi, galantuomini entrambi quanto grandi incisori, che poi saranno anche i suoi testimoni di nozze. Il ragazzo, già forte disegnatore, aveva il dono di un segno personalissimo, tormentato e aggressivo. Una forza che si accentuava nel taglio chiaroscurale della xilografia e che in pittura si espandeva in effetti luministici

rammemoranti accensioni crude di El Greco. Parigi ne aveva assecondato l’orientamento espressionista facendogli conoscere gli artisti della Brüke e il visionario Ensor, Goya e Daumier - sul quale il giovane dette la tesi di licenza - fino ai contemporanei Viani e Rosai. Ensor lo ispirerà nel ‘35 per un confronto a distanza col suo Cristo deriso tra maschere, impostato dal giovane su una grande tela affollata da dieci figure attorno al Redentore, disposte in un assetto piramidale e illuminate da una luce atemporale, oscura e tragica. Un’opera dominata da un forte espressionismo che rimanda ad afflati nordici e goyeschi, le cui espressività non solo contrastavano con l’ordine di “Novecento”, ma si ponevano anche fuori dall’espressionismo populista di Viani e di Rosai, come pure da quello romano di Mafai e di Scipione. Al di là di tali sentimenti, la vena del giovane vibrava per creazioni ironiche, come la xilografia de Il campo stregato dove una sgangherata processione con la statua d’un santo portata a spalle e preceduta da un frate, sfila sul terreno di gioco per esorcizzare la lunga serie di sconfitte della squadra di casa. Una tendenza ironica che accompagnerà l’artista per tutta la vita, al punto che la sua ferrea fede di credente, testimoniata come uomo e come artista nelle innumerevoli composizioni d’arte sacra, non gl’impedirà di dipingere, immaginando l’evento ai tempi d’oggi, la Fuga in Egitto della Sacra Famiglia a bordo di uno scooter. Negli anni precedenti il conflitto, Lotti costituì un esempio assai singolare tra gli artisti della generazione, aggiudicandosi nel ‘40 a Firenze il premio Panerai. La sua pittura aveva suscitato, seppure con iniziali riserve, l’interesse di Soffici, il quale poi determinò coi suoi giudizi il lancio dell’artista in campo nazionale, tanto che la sua partecipazione con quindici dipinti alla biennale veneziana del

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‘42 registrò il tutto venduto. Dopo la guerra la pittura di Lotti non si aggregò alle nuove tendenze informali ed astratte ma rimase se stessa, asciugandosi dai precedenti luminismi grechiani per lasciar posto a una pennellata di più asciutta sostanza. Così fino al 2009, quando l’artista, dopo i lunghi decenni spesi per l’arte e le tante iniziative, si spegnerà ancora intatto nella sua vivacità creativa, seguito quattro anni dopo dalla cara Giuseppina che per oltre sessantacinque anni era stata la paziente interfaccia tra il suo mondo d’artista e le cose pratiche del quotidiano. Con Giuseppina, si spense l’ultima fiammella che teneva vivo il ricordo di Dilvo nella casa-studio di via Maioli, così apparentemente piccola da fuori quanto ridondante di memorie dentro. La sua struttura di antica torre scapitozzata, cui l’artista aveva impresso la sua impronta pitturandone le pareti e incastonando dentro e fuori piccoli manufatti e bizzarri capolavori, è ammutolita per sempre, consegnata agli interrogativi d’una storia ancora tutta da scrivere. Le presenze dei personaggi che vi circolarono vivono oggi attraverso le loro opere in biblioteche e musei: dai “babbi” Chiappelli e Parigi a Papini e Savinio; Lisi e Betocchi, Scheiwiller e Spadolini, fino ai coetanei di Dilvo, Luzi e Parronchi. Un elenco che potrebbe chissà quanto continuare se potessimo sfogliare come un tempo quei registri di memorie che Dilvo e Giuseppina porgevano, per un pensiero scritto o disegnato, agli ospiti in visita allo studio o alla fine di allegri conviviali: non per vanagloria, ma per la contentezza sincera di trattenere sulla carta momenti condivisi tra anime speciali.

San Miniato, 1967 Giuseppina e Dilvo Lotti consegnano a Margherita Casazza, direttrice della rivista, il quadro per la copertina Reality 47 del marzo 2008 Il campo stregato, 1935, xilografia


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ARTE

un Magnificat

bianco latteo a Pistoia in San Leone la restaurata Visitazione di Luca della Robbia Luca Fabiani

Restauratore al lavoro nella chiesa di San Leone - foto di Nicolò Begliomini (Giorgio Tesi Editrice) La Visitazione di Luca della Robbia

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un capolavoro dell’arte rinascimentale e da alcuni mesi è tornato dagli Stati Uniti nella città capitale italiana della cultura 2017, da dove era partito. Stiamo parlando della Visitazione, la straordinaria scultura di Luca della Robbia (1399-1482) visitabile fino al 7 gennaio 2018 nella chiesa di San Leone a Pistoia.1 Il gruppo scultoreo è stato uno dei protagonisti della rassegna Della Robbia: sculpting with color in Renaissance Florence tenutasi nelle prestigiose sedi del Museum of Fine Arts di Boston e della National Gallery of Art di Washington. L’opera fu realizzata da Luca della Robbia intorno al 1445 per l’altare della Compagnia della Visitazione nella chiesa di San Giovanni Fuorcivitas di Pistoia ed è una delle prime opere in terracotta invetriata, tecnica di cui Luca è considerato l’inventore. L’artista per primo applicò alla scultura in terracotta una copertura in smalto stannifero che rendeva la superficie lucida e resistente, iniziando così una produzione di grande successo, che fu poi portata avanti da alcuni discendenti della sua famiglia come il nipote Andrea e suo figlio Giovanni. Collocata abitualmente in San Giovanni Fuorcivitas − dove tornerà al termine dell’esposizione − la Visitazione di Della Robbia è stata pienamente recuperata nel suo candore, dopo il restauro a cura di Laura Speranza, Shirin Afra, Mattia Mercante e Filippo Tattini dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze.2 Il gruppo raffigura l’incontro tra Maria (a sinistra) ed Elisabetta (a destra), come è narrato nel Vangelo di Luca (Lc 1, 39-45). Maria, dopo aver ricevuto dall’angelo Gabriele l’annuncio del concepimento di Gesù, va a trovare la

cugina Elisabetta che, nonostante l’infertilità e l’età avanzata, è al sesto mese di gravidanza. Appena Elisabetta sente il saluto di Maria, il bambino che ha in grembo (Giovanni il Battista), sussulta di gioia. Maria risponde innalzando a Dio un canto di lode, il Magnificat. Appena si entra nella chiesa di San Leone il visitatore resta affascinato da quell’abbraccio tra Maria ed Elisabetta e dal messaggio pieno di dolcezza e di speranza, che si sprigiona da una scultura “senza tempo”. Così il vescovo di Pistoia mons. Fausto Tardelli, nella presentazione inserita nel catalogo della mostra, descrive la scultura: «La Visitazione è un incanto di bellezza e

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profondità teologica per la bellezza dell’opera d’arte, per la poesia di quei volti che il bianco latteo della ceramica invetriata fa risaltare in modo incredibile, per la meraviglia dell’incontro tra queste due donne che celano nel grembo l’esultanza di un segreto pieno di vita, per la gioia dell’incontro di corpi e di anime che si sfiorano e fanno trasparire l’incanto di una amicizia piena di dolcezza e attenzione». Il tutto circondato dalla meraviglia di una chiesa, che risale al sec. XIV ma deve il suo aspetto attuale agli interventi realizzati nel sec. XVII e soprattutto nel secolo successivo, che l’hanno trasformata in uno degli edifici più


importanti del Settecento pistoiese. Pareti, soffitto e catino absidale sono rivestiti di una decorazione pittorica dove si sono succedute le realizzazioni dei più importanti artisti della cultura figurativa del Settecento. All’interno della chiesa di San Leone − già chiesa dello Spirito Santo e uno degli esempi più importanti di arte barocca a Pistoia − vi lavorò tra il 1753 e il 1764 il pittore Vincenzo Meucci (1694-1766), protagonista indiscusso della pittura fiorentina del Settecento, affiancato dai quadraturisti Giuseppe Del Moro (1718-1781) e Mauro Antonio Tesi (1730-1766), il quale decorò la parte centrale della volta. Sulla parete di fondo dietro alla Visitazione, Meucci raffigura la Pentecoste, con lo Spirito Santo che discende sulla comunità dei primi cristiani da un cielo affollato di angeli con al centro la Madonna. Bellissima anche la cupola, dove Meucci dipinse la Gloria di Santi al cospetto della Santissima Trinità mentre nei pennacchi l’artista rappresenta quattro profeti: Ezechiele, Geremia, Isaia e Daniele. Ciascuno di essi regge una lapide con i versetti dei loro testi profetici. La volta dell’aula è decorata inoltre con pannelli in monocromo raffiguranti il Battesimo di Gesù e l’Annunciazione, che racchiudono al centro la Gloria di San Pietro. Le quadrature alle pareti laterali di Giuseppe Del Moro creano l’illusione di un profondo loggiato, chiuso da balaustre su cui sono poste due statue: Mosè a destra e Aronne a sinistra. Infine la decorazione prospettica del presbiterio e della volta è di Mauro Antonio Tesi, il quale introdusse intonazioni classiciste. La condizione appartata della chiesa e lo scarso apprezzamento dell’arte barocca che si è protratto per gran parte del secolo scorso avevano relegato

quasi all’abbandono questa splendida chiesa, tanto che a causa delle copiose infiltrazioni di acqua dal tetto le bellissime pitture si presentavano in condizioni drammatiche, addirittura con porzioni cadute o prossime alla loro perdita. Per questo proprio da febbraio a giugno 2017 sono stati eseguiti i restauri al ciclo pittorico grazie all’efficace sinergia tra Cattedrale, Diocesi di Pistoia e Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per le province di Firenze, Prato e Pistoia, a cui va aggiunto l’importante contributo della Fondazione della Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia e di Conad del Tirreno. In particolare sono stati effettuati lavori di pulitura, la fermatura delle pellicole pittoriche con applicazione a pennello di consolidanti, iniezioni con malte e resine acriliche a tergo degli intonaci, la ripresa di porzioni di intonaco cadute o molto danneggiate, lo stacco di brani pittorici e la loro ricollocazione con barre in vetroresina, le reintegrazioni degli elementi ornamentali e decorativi e la chiusura di lacune presenti sulle decorazioni attraverso neutri cromatici ad acquerello. Tutto ciò ha reso possibile il suggestivo allestimento, curato da Maria Cristina Masdea, Valerio

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Tesi, Simone Martini e Lucia Cecchi, visitabile appunto fino al 7 gennaio 2018, dove oltre alla Visitazione e alle bellissime decorazioni, anche della musica sacra in sottofondo contribuisce a dare la giusta solennità all’esposizione. La seconda fase del recupero del patrimonio della chiesa di San Leone sarà avviata dopo le operazioni di smontaggio della mostra e consentirà il completamento del restauro delle decorazioni pittoriche poste nelle prime campate dell’aula e la realizzazione degli interventi di finitura e di dettaglio precedentemente non completati, come ci spiega la dott.ssa Maria Cristina Masdea della Soprintendenza Archeologia, Belle arti e Paesaggio per le province di Firenze, Prato e Pistoia: «Con la chiusura della mostra sulla Visitazione di Luca della Robbia e il ritorno del gruppo nella chiesa di San Giovanni Fuorcivitas, è in programma l’inizio del secondo lotto di lavori che interesserà gli aspetti lasciati indietro nel precedente intervento: restauro degli altari, della cantoria e della mostra d’organo, del dipinto raffigurante l’Ascensione di Giovanni Stefano Maruscelli e del loggiato esterno. Poiché è importante che sia definito un utilizzo della chiesa a servizio della città − ha sottolineato Masdea − sarebbe bello che fosse recuperata la sua vocazione all’arte musicale. Molta musica sacra fu scritta tra le sue mura e qui vi è sepolto Lodovico Giustini, il primo autore a pubblicare opere per pianoforte. Sarebbe dunque molto utile recuperare alcuni locali di servizio per questo utilizzo, anche con interventi su quanto resta dell’organo originale». Insomma il restauro della chiesa di San Leone che sarà concluso nel 2018 e la riscoperta di un capolavoro come la Visitazione di Luca della Robbia rappresentano un’eccezionale opera di valorizzazione che Pistoia ha saputo realizzare magistralmente, recuperando un importante patrimonio culturale sconosciuto a molti degli stessi pistoiesi. Successo testimoniato anche dal numero di persone che hanno ammirato la scultura con una media che tra luglio, agosto e settembre si è attestata ad oltre trecento accessi al giorno.

Chiesa di San Leone e Visitazione Particolari degli affreschi restaurati nella chiesa di San Leone - foto di Nicolò Begliomini (Giorgio Tesi Editrice)

NOTE 1 Maria Cristina Masdea, La Visitazione. Luca della Robbia, catalogo della mostra (Pistoia, 8 luglio 1 ottobre 2017), Giorgio Tesi Editrice, 2017. 2 Il restauro, durato circa sei mesi, si è svolto in quattro diverse fasi: pulitura, consolidamento, integrazione plastica e ritocco pittorico. Inoltre, per assicurare la corretta distribuzione del peso fra la parte alta e la parte bassa del gruppo scultoreo, si è proceduto alla realizzazione di una sorta di cuscino in resina utilizzando la scansione 3D.


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ARTE

arte contemporanea a Tel Aviv Gordon Gallery (Jaffa)

Giovanni Ismael Telawe*

Sommer Gallery (Tel Aviv)

T

el Aviv, che in ebraico significa Collina della Primavera, è adagiata davanti al mare. È cosmopolita, accattivante, ultramoderna e intèrseca la sua aria mediterranea e i profumi dell’Oriente con la vita ipertecnologica di cui è regina. Accogliente, ridondante di giovani e di spirito d’iniziativa, ti avvolge con la sua voglia di fare e ti contagia con il suo frizzante entusiasmo per ogni attività intrapresa. Viene chiamato “Lo Stato di Tel Aviv”: in effetti chiamarla città è riduttivo, perché rappresenta un’oasi, un luogo a sé, in una terra attraente. Gerusalemme, la Città Santa multireligiosa, distante pochi chilometri, sembra lontana anni luce. A Tel Aviv, succede sempre qualcosa di nuovo, e ogni novità appena sopraggiunta, è già cosa vecchia. Così questa città ogni giorno si risveglia in crescita, come un’aria musicale col “Da capo”. L’arte mi ha aiutato e mi aiuta a scoprire bellezze, storie e posti celati, che

Tel Aviv Museum of Art

altrimenti mi rimarrebbero sconosciuti. Tel Aviv pullula di musicisti, di artisti di ogni genere e di Gallerie d’arte. Per non perdermi in questo mare magno, oltre ai miei genitori, mi è stato di ausilio prezioso il mio amico Amnon Barzel, architetto e critico d’arte, autore di numerosi saggi sull’Arte Contemporanea israeliana, noto in Italia per essere stato fra i primi curatori del Museo Pecci di Prato. Le Gallerie d’arte sono sparse ovunque: a Neve Zedek, sul Boulevard Rothschild, a Jaffa, nella centrale Rehov Gordon e nel quartiere Hypster “Florentine”: la denominazione è riferita a Firenze. Nella narrazione del mio “Wanderer Reise” artistico (viaggio di escursionista), mi soffermerò su alcuni luoghi che hanno particolarmente toccato le mie corde. Comincio con il quartiere di Neve Zedek. Un tempo periferia indigente dell’amena Jaffa, è ormai diventato uno dei più lussuosi quartieri residenziali (qui, pare abbiano le loro dimore fra gli altri l’attrice Gal Gadot e il patron del Chelsea Roman Abramovich) e accanto allo Shuk a-Carmel, ha sede il C.C.A., Center for Contemporary

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Art, un’organizzazione no-profit che si dice abbia rivoluzionato l’arte contemporanea in Israele. Fondato nel 1998, oltre ad aver ospitato per primo artisti come Marina Abramovic, Rosa Barba, Christian Jankowski, ha presentato, in prima assoluta, le esposizioni di artisti israeliani quali Nir Evron, Yael Bartana, Nira Pereg e molti altri ancora. Ora il Centro, che dal 2005 è situato nella Galleria di Rachel e Israel Pollack, è focalizzato sulla promozione di artisti locali e fa delle loro sperimentazioni un baluardo. Nel foyer e nelle sale adiacenti, vengono presentati oltre alle mostre, eventi audio-visivi, installazioni e performances. Rimanendo nei paraggi, sul Boulevard Rothschild, insieme con mia madre, Giuliana, cantante e musicologa (lei ama definirsi “consumatrice d’arte”), abbiamo visitato la rinomata Sommer Contemporary Art Gallery: qui ad accoglierci troviamo un’esposizione di artisti riuniti, fra cui Michal Helfon, Jakob Kolding, Guy Zagursky e Tal R, tutti esponenti della Nuova Arte Israeliana. In una via limitrofa, proseguo il mio itinerario nella Noga Gallery of Art, dove è stata allestita una personale del pit-


Jaffa, la perla del Medio Oriente. Hana Koman mi racconta che al ritorno degli ebrei diasporici dopo la Shoà, questo, come altri edifici circostanti, vennero dati dalla Municipalità di Tel Aviv e da questa assegnati a quanti volevano intraprendere un’attività e ricominciare una nuova esistenza: qui c’era una fabbrica di tacchi per scarpe. Hana Koman ha scelto questo luogo,

Tel Aviv Museum of Art

tore Michael Halak, nato a Fassuta, un villaggio arabo del Nord d’Israele: la sua pittura è intrisa di simbolismi con richiami a Giorgio De Chirico. Ovviamente, una tappa obbligata per avere un’idea ampia dell’universo artistico di questo posto, è il Museo d’Arte di Tel Aviv, sul Boulevard Saul a –Amelek, accanto alla New Israeli Opera. Oltre a trovare i capolavori di Picasso, Pizarro, Renoir, Cezanne, Van Gogh, Pollock, Picabia, e altri famosi pittori, omaggio di facoltosi collezionisti privati, visito i padiglioni dedicati alle esposizioni permanenti di arte contemporanea israeliana e le mostre temporanee ospitate nel grandioso Museo.

In questo periodo ho potuto vedere le personali di Robin Rhode e di Louise Bourgeois: quest’ultima l’ho ritrovata anche nella sede distaccata della Galleria Gordon a Jaffa, insieme con una personale di Michael Gitlin. Infine, visito la Galleria Zadyk, nel cuore di Jaffa, vicino al Shuk a Pishpishim, il Mercato delle Pulci, a un passo dalla famosa Piazza dell’Orologio, e dal mare. La proprietaria è Hana Koman, già docente di cinematografia nell’Università di Tel Aviv. La Galleria è situata nel salone con le volte “a vela” di un’antica casa araba; l’atmosfera è magica: sa di antico e risveglia i leggendari fasti di

Gordon Gallery (Jaffa) Tel Aviv Museum of Art

denso di significati e sentimenti, per educare l’occhio delle nuove generazioni alla visione artistica (“In Italia, mi dice, siete fortunati. Il vostro sguardo è abituato al Bello, ma qui, non abbiamo riferimenti estetici del vostro livello, con l’esclusione dell’antichissima Gerusalemme”) e per dare spazio ad artisti israeliani non troppo conosciuti, ma ricchi di talento, per esempio Zohar Cohen, Rinat Podissouk-Reisner, Michael Goldman e altri ancora. A Jaffa, porto leggendario che è stato testimone dello splendore di questa terra, melange meraviglioso di religioni e di misteri, crocevia di scambi e differenti identità, respiro la vera essenza di questi luoghi. Qui vedo che la bellezza ha trasformato le tensioni. In tutte le Gallerie visitate si capisce che la Nuova Arte vuole voltare pagina, e se appare controcorrente, lascia comunque spazio alla speranza. Mi allontano dalla Galleria Zadyk, quando nella sala cominciano le prove di un Coro amatoriale: e sul ricamo della polifonia rinascimentale di Belle qui tient ma vie di Arbeau (un musicologo francese del XVI secolo) sciolgo i miei pensieri, “sognando” che i problemi di questa terra straordinaria possano fondersi e trovare finalmente pace, come evocano le voci del coro.

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(Fotografia di Moreno Vassallo)

*Giovanni Ismael Telawe è nato a Piombino nel 2000. Il padre Akram è attore/regista di teatro, opera e cinema. La madre Giuliana è cantante lirica e musicologa. Si è trasferito con la famiglia a Tel Aviv, dove i genitori lavorano. In questa città studia nella Scuola Internazionale Scozzese “Tabeetha”, a Jaffa. Giovanni parla correntemente oltre l’italiano, l’inglese, l’arabo e il francese. Ora studia anche l’ebraico. Ha viaggiato molto per seguire nel loro lavoro i genitori. Questa opportunità gli ha permesso di sviluppare, e coltivare, una grande passione per il teatro, la musica e l’arte classica e contemporanea.


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gioielli

pennini sopracciuffi alamari

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i gioielli dei Medici da Ferdinando I all'Elettrice Palatina Costanza Contu

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ra XVI e XVII secolo i cambiamenti della moda si riflettono sui gioielli. La cinta subisce modifiche nella forma e nelle dimensioni e solo pochi ritratti della prima metà del secolo XVII registrano la pre-

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senza di questo gioiello. Anche nelle fonti d’archivio coeve si trovano solo sporadiche descrizioni di questo tipo di accessorio. Nel ritratto di Claudia di Ferdinando I (1604-1648) dipinto da Giusto Suttermans (1597- 1681) si nota che la cintura indossata dalla donna è molto sottile, è meno sfarzosa e non ci sono più le perle; si osserva un progressivo accorciamento della lunghezza del prezioso che non si prolunga più sul fianco ma cinge il busto della donna e poggia morbido sul ventre. Negli inventari delle gioie portate in dote da Claudia in occasione dei suoi due matrimoni, il primo con Federico della Rovere e il secondo con Leopoldo V del Tirolo, le cinture realizzate con smalti e gemme preziose vengono definite anche ‘collane’ perché indossate anche come lunghi vezzi. La cintura non compare più in alcuni ritratti di Maria Maddalena d’Austria (1589- 1631) e nell’inventario delle Gioie ereditate da Ferdinando II (1610- 1670), alla morte del padre nel 1621, si leggono solamente descrizioni di collane e collari. Vittoria della Rovere (1622-1694), consorte di Ferdinando II non sfoggia cinture nei suoi ritratti, e così neppure Marguerite Louise d’Orléans (1645-1721) e Violante Beatrice di Baviera (1673-1731). Di gran moda alla fine del XVI e nella prima metà del secolo successivo è invece il Collare. Splendidi collari di gemme preziose scintillano sulle vesti delle signore Medici e le fonti d’archivio ne descrivono in grande quantità. Maria de’ Medici (1573-1642), regina di Francia, ne possedeva diversi realizzati principalmente in oro e diamanti; Maria Maddalena d’Austria indossa un collare assai prezioso nel suo ritratto conservato a Siena molto simile al collare commissionato da Ferdinan-

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do I all’orafo Leonardo Zaerles, noto come il Collare Ferdinando o il Collarone; nel gioiello erano montati cinquemila diamanti e diverse perle in dodici compassi foggiati a rosette e a giglio. Era stato commissionato da Ferdinando nel 1605 al gioielliere fiammingo Leonardo Zaerles che consegnò il collare al Granduca l’11 gennaio 1609. Ferdinando morì lo stesso anno e il Collarone insieme agli altri gioielli del Tesoro passò prima al figlio Cosimo II (1590-1621) e poi fra le gioie di Ferdinando II (1610-1670). Il prestigioso gioiello che era passato attraverso tre generazioni senza mai essere modificato, fu smontato nel 1688 in occasione del matrimonio del Gran Principe Ferdinando, figlio di Cosimo III (1642-1723), con Violante Beatrice di Baviera: le pietre, l’oro, alcuni castoni e diamanti del collare vennero utilizzati per la realizzazione di nuovi gioielli creati per la futura sposa di Ferdinando. La creazione dei nuovi preziosi fu opera di due grandi orafi che lavora-


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vano per la Corte Medicea: Giovanni Comparini, orafo prediletto di Vittoria della Rovere e artefice anche dell’ultimo restauro sulla Corona Granducale realizzata da Bylivelt, e Giuseppe Vanni. Dai documenti della Guardaroba medicea possiamo infine conoscere la triste sorte del gioiello che il 20 luglio 1688 venne portato alla ‘Zecca’ per essere fuso. La fusione dell’oro dei gioielli e il riutilizzo delle gemme, che hanno determinato la scomparsa di gioielli importanti come il Collarone non erano un fatto isolato e il motivo era quasi sempre l’esigenza di poter disporre di preziosi sempre più alla moda e moderni. Il gusto raffinato dei committenti e la bravura degli orafi italiani e stranieri che gravitavano alla corte medicea, contribuivano al frenetico rinnovamento dei monili. Non passano mai di moda invece le perle che nel secolo XVII riscuoteranno un successo straordinario. I fili di perle si moltiplicano come mostra già il ritratto di Maria de’ Medici di Frans Pourbus (1569 ca.- 1622): sotto una grande borchia di diamanti si uniscono almeno sei fili di perle di perfetta forma e colore. Un gioiello di questo tipo è sfoggiato anche da Caterina de’ Medici (1593-1629) nel ritratto di Tiberio Titi. Gioielli simili ma con un numero meno elevato di perle sono indossati in alcuni ritratti delle gallerie fiorentine da Claudia de’ Medici o da Maria Maddalena d’Austria che ha legato uno dei due fili con un fiocco rosso. Non è facile rintracciare una tale dovizia di perle nei ritratti del settecento: pur non scomparendo nella moda femminile, l’uso che se ne fa è più contenuto, un solo vezzo di perle impreziosisce il collo o risulta cucito con preziose spille alle vesti. Una novità nella gioielleria medicea della fine del XVI e della prima metà del XVII secolo è l’invenzione di un ornamento da testa chiamato pennino: un gioiello costituito da un elemento verticale che veniva inserito fra i capelli come una spilla, solitamente

realizzato in oro e vari tipi di gemme e quasi sempre arricchito con perle. Aveva generalmente l’aspetto di un ramo di foglie e fiori e spesso era accompagnato da altri elementi naturalistici, come piccoli animali. I ritratti mostrano una serie di preziosi ed eleganti pennini, come quello sfoggiato da Cristina di Lorena nel suo ritratto di Scipione Pulzone, quello indossato da Maria Cristiana (1609-1632) o quello che porta fra i capelli la giovane Anna, figlia di Cosimo II (1616-1676). Uno dei più estrosi gioielli creati a Firenze fu il pennino di diamanti destinato come regalo di nozze alla Regina Margherita di Spagna, moglie di Filippo III: sul carro del sole Apollo suonava la lira, da cui emanava una melodia che un meccanismo a carica riusciva a far durare per diverse ore mentre le ruote del carro giravano producendo bagliori di luce tanto che «l’occhio dè riguardanti non poteva resistere allo splendore di quei diamanti non altrimenti che se stato fosse il vero sole». Ancora straordinari pennini compaiono fra le gioie di Ferdinando II: un pennino d’oro «contornato di una serpe et in mezzo una fenice anzi un angelo smaltato di bianco con punte grandi e piccole tutte coperte di diamanti piccoli” e un “pennino fatto in forma di un ramo tutto pieno di diamanti con sei pendenti de diamanti tra quali tre grandi, et minori dell’altri diamanti, che pendono intorno piccoli». Anche se le fogge più originali e stravaganti appartengono al seicento, la moda del pennino è documentata fino a tutta la prima metà del settecento: lo conferma la lettura dell’inventario delle gioie dell’Elettrice Palatina (16671743) che conta ben trentuno pennini di diamanti, rubini, zaffiri e perle. Il Sopracciuffo era insieme al pennino l’ornamento da sfoggiare per essere alla moda nel secolo XVII. Era questo un gioiello di forma semicircolare, molto più evidente e decorato della grillanda, realizzato solitamente in oro, pietre preziose e perle. Le gemme e le perle venivano montate sul cerchio in posizione verticale, quasi a formare una raggiera da cui si innalzava spesso un elemento verticale piuttosto vistoso, caratterizzato da gemme di particolare bellezza e preziosità. Maria Maddalena d’Austria, nel suo ritratto col figlio sfoggia il sopracciuffo sull’acconciatura eccezionalmente arricchito con il grande diamante comprato da Ferdinando I, noto come il Fiorentino. Questo gioiello è tipicamente seicentesco e non verrà mai utilizzato nel XVIII secolo. Fra le novità alla moda alla fine del XVII secolo e nella prima metà del XVIII erano l’alamaro e le fermezze

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da abito. L’alamaro era sfoggiato dalle signore sul corpetto della veste ed univa tenendoli chiusi, due lembi di tessuto; era solitamente realizzato con una grossa gemma centrale e alcune piccole intorno. La fermezza era invece uno spillo che serviva per tenere le increspature delle preziose vesti. Anna Maria Luisa sfoggia questi due tipi di gioielli nel ritratto realizzato da Anton Domenico Gabbiani. La grande pietra ottagonale, posta al centro dell’alamaro ricorda il grosso topazio orientale montato in un gioiello da portare al petto descritto fra le gioie della casata medicea nell’inventario del 1741. Sul braccio sinistro si ammira la fermezza che tiene l’increspatura della veste. Sia le fermezze che gli alamari compaiono descritti nell’inventario delle gioie dell’Elettrice Palatina e vengono sfoggiati in grande quantità nei suoi ritratti1. L’inventario del 1743 insieme a quello del 1741 che Anna Maria Luisa fece compilare elencandovi le gioie della casata medicea, menzionano gioielli montati principalmente con diamanti. L’apertura delle miniere diamantifere brasiliane nel 1725 comportò una maggiore disponibilità della gemma sui mercati e quindi un maggior utilizzo di questa pietra nell’oreficeria, inoltre "lo spirito della società Rococò era particolarmente sensibile allo scintillio della pietra valorizzata dal nuovo taglio a ‘brillante’, e attratta da una gemma che da sola risplendeva tutti i colori". 5

1. Giusto Suttermans (Anversa 1597- Firenze 1681) Claudia de Medici (1604-1648) 1621, Firenze, Villa della Petraia 2. Anton Domenico Gabbiani (Firenze 1652-1726) Anna Maria Luisa de Medici, Elettrice Palatina (1667-1743) 1685 ca., Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti 3. Niccolò Cassana Violante Beatrice di Baviera (1673-1731) 1690, Firenze, Museo Stibbert 4. Maria Maddalena d'Austria (1589-1631) Palazzo Reale, Siena 5. Marguerite Louise d'Orléans (1645-1721) Firenze, Galleria degli Uffizi

NOTA 1 Tutti i documenti

citati sono pubblicati in I Gioielli dei Medici dal vero e in ritratto, Firenze, 2003.


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visibile parlare

sognare

Cennino piccolo elogio della Fantasia Roberto Giovannelli

Roberto Giovannelli, 2017, Cennino e il color giallo della Grotta misteriosa, capriccio a buon fresco, su tabella in terra cotta, cm 43x34 Roberto Giovannelli, 2007, Come un viso di donna, taglio laser su lamiera, cm 150x100 C. Collodi, Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, ristampa s.d. dell'edizione di Firenze, Felice Paggi Libraio Editore, 1883

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ra i volumi d’affezione allineati in un palchetto della mia libreria, torno spesso a sfogliare il Libro dell’arte di Cennino Cennini (Colle Val d’Elsa, 1370 - Firenze, 1427), attratto dallo stile della narrazione in cui si estende, capitolo dopo capitolo, la prodigiosa tessitura precettistica raccolta a fondamento dell’officina e delle alchimie di un antico pittore. Alcune volte, lasciando da parte gli alti principi del disegno e gli artifici del colore, e quasi passando furtivamente presso le impalcature erette in quelle pagine intorno alla teoria e alla pratica della pittura del Trecento toscano, radicata e ger-

minante dal linguaggio «moderno» di Giotto e dalla irrinunciabile guida della natura, mi lascio invischiare da certi particolari minori che quella scrittura ci porge. Una scrittura che ha l’apparente semplicità di una favola e la grata sonorità di una lingua venata di cadenze toscane e idiotismi padani, fluente in uno schietto gergo di laboratorio, talvolta un po’ crudo, altra volta ingentilito in parolette come acquarella, agugiella, bolluzza, busetto, e altre di un lessico che riverbererà sparsamente nel Vocabolario toscano delle arti del Disegno del Baldinucci (1681). Forse non a caso il libretto che sfoglio è quello ormai raro, recante la dotta introduzione di Licisco Magagnato, edito a Vicenza da Neri Pozza nel 19711, il cui formato in quarto e la coperta azzurrina, hanno una veste simile a quella del volume delle Avventure di Pinocchio, nell’edizione di Felice Poggi, stampata a Firenze nel 1883. L’accostamento tra un libro di “tecniche pittoriche” e una storia d’invenzione, apparirà forse surrealistico e bizzarro, però qualche spunto in tema di struttura e teoria della rappresentazione credo di trovarlo pure nella Storia di un burattino; narrazione riconducibile nell’aura della favola di Pigmalione, qui reincarnato in Geppetto, appassionato quanto povero intagliatore in legno. Egli lavora in una stanzetta ove entro un caminetto, una pentola ribolle presso un fuoco crepitante, ma pentola e fiamme, in codesto caminetto sono solo illusionisticamente dipinte nel fondo del muro. Confortato dal tepore di quelle fiamme e nella speranza di un pasto caldo cavato dalla pentola dipinta, l’artefice scolpì il suo burattino: «fece subito i capelli,

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poi la fronte, poi gli occhi»; e qualcosa di molto particolare avvenne nel corso del suo lavoro. Qualcosa che mi ricorda l’esoterica allegoria del poeta profondamente calato nella sostanza della sua creatura: ... chi pinge figura se non può esser lei, non la può porre. Infatti gli occhi del burattino, appena intagliati, si mossero e guardarono il maestro, quasi egli si trovasse paradossalmente davanti alla sua stessa interiorità, e forse al concepibile rovescio della propria esistenza, come restituita da un magico specchio. Così pure la bocca della sua creazione si mosse subito per canzonarlo. Passo a passo, dal mento, al collo, alle spalle, allo stomaco, alle braccia, si arrivò a intagliar le mani, mobili anch’esse e dispettose; così


come lo furono le gambe e i piedi, subito pronti a dar calci. In quel frangente l’autore si era dimenticato di scolpir gli orecchi ai lati della testa matta di quella scultura. Poi al burattino s’incenerirono i piedi che egli aveva imprudentemente appoggiato su un caldano e l’intagliatore tornò a rimodellarli su due pezzetti di legno stagionati, «e in

meno d’un ora, i piedi erano bell’e fatti; due piedini svelti, asciutti e nervosi, come se fossero modellati da un artista di genio». E quasi mi sembra di ritrovare negli eleganti piedini descritti, la mano maestra del contemporaneo Giovanni Duprè. Quel Duprè che, bambino di sette anni o poco più, si trovò a modellare in legno per un certo Canini, doratore pistoiese, quasi tutti i personaggi di un tetro di burattini. Ma non perdiamo tempo, che «la nottata è fresca e la strada è lunga», e dobbiamo felicemente arrivare nel Paese dei balocchi, ove il burattino Pinocchio prenderà i sembianti di uno strano centaurino, piccolo ma forse parente carnale dello sventurato Chirone o del Centauro Borghese, fino a quando non si convertirà tutto intero in un ciuchino parlante. Questa digressione intorno al burattino di legno e al suo artefice, ci riconduce al tema dell’invenzione e dell’indipendenza che l’artista può manifestare nel render visibile il suo pensiero; le stesse facoltà che permettono a Cennino di ricordare come una sapiente mano unita a immaginazione e gentilezza d’animo possano dimostrare «quello che non è, sia», e che

del suo pensiero, che si estende alle speculazioni sul «disegno», gorgogliante nella propria testa e condotto fino a un sottile e inedito concetto di rilievo, di ombra e di sfumato, che parrebbe anticipare e voler passar la mano a Leonardo. A queste suggestioni concettuali segue una dovizia d’indicazioni di laboratorio, come quelle concernenti la pittura a fresco e la composizione dei cangianti: rosa in verde; cinerino in giallo e violetto; lacca in rosa, giallo e violaceo..., e così via. Ma fra quelle pagine, il capitolo 45°, ove si parla Della natura di un color giallo ch’è chiamato ocria, è quello dove più che in altri mi sono addentrato con stupita meraviglia. Vi sono ogni volta attratto come in una dimensione onirica, nel seguire e assecondare Cennino quando ci dipinge un episodio che si direbbe di fervida invenzione, benché assai circostanziato in quanto all’indicazione del teatro dell’avvenimento. Cennino racconta infatti di aver trovato quel particolare color giallo, una volta che fu condotto da suo padre, forse anch’esso pittore, ... per lo terreno di Colle di Valdessa, presso a’ confini di Casole, nel principio della selva del comune di Colle, di sopra a una villa che si chiama Dometaia. E pervegnendo in uno vallicello, in una grotta molto selvatica, raschiando la gropta con una zappa io vidi vene di più ragioni colori: cioè ocria, sinopia scura e chiara, azzurro e bianco, che ‘l tenni il maggior miracolo del mondo, che bianco possa esser di vena terrigna; ricordandoti ch’io ne faci la pruova di questo bianco, e trova’lo grasso, che non è da incarnazione. Ancora in nel detto luogo era vena di color negro. E dimostravansi i ‘mpredetti colori per questo terreno, sì come si dimostra una margine nel viso d’uno uomo, o di donna. Probabilmente l’artista si riferisce al misterioso interno di una tomba

... al dipintore dato è libertà potere comporre una figura ritta, a sedere, mezzo uomo mezzo cavallo, sì come gli piace, secondo sua fantasia. L’esempio del centauro, ricavato dall’antichità classica, posto da Cennino in esordio al Libro dell’arte, illumina un’importante vena teorica

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etrusca, fra le tante disseminate in quel territorio, o ai resti di qualche particolare opificio. In ogni modo, le figure dei due pittori introdottisi all’interno di quella «grotta», sbalorditi alla vista della conformazione delle venature di colore stratificate nella parete scabrosa, forse rischiarata dalla balenante fiamma di un torcetto, che mi figuro contrastata dalle loro ombre variamente mosse e dilatate all’intorno, mi chiamano a partecipare al singolare evento. Una scena ove alla fine prende campo l’immagine enimmatica di una «margine», ovvero una sorta di strana cicatrice, o di macchia, o di “voglia”, come suggellata nella pelle di un volto umano affiorante dalla superfice terrigna. All’interno di quel selvatico antro aleggia lo spirito di una figura davvero inesplicabile e foriera di fascinose interpretazioni. Si avverte nella sceneggiatura ideata da Cennino, ancora l’impulso dell’esempio rappresentato all’inizio del Libro dalla figura antropomorfica del centauro, e ancora la conferma delle sterminate possibilità generate dalla fantasia artistica e dalla concezione di un «disegno» nascente entro la propria testa. Un disegno che per estensione può trovare anche in una macchia «varie invenzioni di ciò che l’om vole cercare in quella, cioè teste d’omini, diversi animali, battaglie, scogli, mari, nuvoli e boschi et altri simili cose», come scriverà in seguito Leonardo. Un Disegno interno, generato da un primo concetto che sfavilla e accende l’esca dell’immaginazione, che ritroveremo anche nell’Idea di Federico Zuccari.

NOTE 1 Edizione preceduta da due penetranti saggi di G.L. Mellini, Rileggendo Cennini. Chiaroscuro e gusto materico, in «Critica d’Arte», n. 62, 1964, pp. 43-47, e Studi su Cennino Cennini, 2, ibidem, 1965, n. 75, pp. 48-64.

Roberto Giovannelli, 2017, Cennino abbraccia i colori della Grotta misteriosa, 2017, capriccio a buon fresco, su tabella in terra cotta, cm 43x34 Roberto Giovannelli, 2017, Cennino e Andrea Cennini nella Grotta misteriosa, 2017, capriccio a buon fresco, su tabella in terra cotta, cm 43x34 Roberto Giovannelli, 1997, Le bugie degli occhi (sognare Cennino), olio su tela, cm 71x61 Ringrazio Francesco Bertini per la collaborazione concernente le immagini fotografiche


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Museo degli Argenti

Fondazione Cosso

Casa dei Tre Oci

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el quattrocentenario dalla nascita, Leopoldo de’ Medici rivive nella mostra presso Palazzo Pitti, omaggio a uno squisito collezionista nutritosi di arte e cultura enciclopedica. Attraverso emissari specialisti, raccolse tesori immensi annoveranti dipinti, sculture, oggetti preziosi, pietre dure, monete, medaglie, avori, libri, rarità. Grazie alla lungimirante sensibilità di Cosimo III, suo erede, questi tesori sono in buona parte visibili per essere stati destinati alle già prolifiche collezioni private granducali. Palazzo Pitti celebra questo personaggio svelandone l’innata sensibilità verso quanto palesemente bello per opera umana o naturale, prolifica dote che ha permesso di rendere unici i palazzi medicei grazie ai capolavori da esso acquisiti e la mostra fiorentina ne ostenta esempi significativi, degnissimo tributo al poliedrico conoscitore del gusto.

ODISSEE

iuscita antologica dedicata a Fausto Melotti, la mostra raffronta arti figurative e musica attraverso una eclettica produzione fatta di pittura, scultura, ceramica, poesia e, naturalmente, note del pentagramma! In effetti, uno stile inconfondibile plasma il suo operato intrinso da ritmo e tenera poetica. Ben 80 opere raccontano un artista poliedrico di grande spessore, con la speciale sezione dedicata a nomi apprezzati o amici del maestro, chiamati Arturo Martini, Fortunato Depero, Paul Klee, Vassili Kandinskij, Alexander Calder, Lucio Fontana, Osvaldo Licini, Atanasio Soldati. E la musica? Il percorso espositivo vanta una installazione sonora, dedicata alle partiture ideate dall’artista. Supporti multimediali e creazione in loco di manufatti ispirati alle opere in esposizione completano l’offerta didattica rivolta a studenti di ogni età e famiglie.

16 novembre 2017 - 19 febbraio 2018

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na vita professionale racchiusa in 250 magnifici scatti, appassionante viaggio tra luoghi reconditi immortalati da Bishof per l’arcinota Agenzia Mugnum. Piccoli capolavori raccontano un professionista che ha trasformato in arte il suo mestiere, girovagando dal Cile al Perù, dall’India al Giappone. Lettere, pubblicazioni, documenti supportano il percorso espositivo per comprendere totalmente questo grande maestro, forte di 20 foto inedite e neorealiste dedicate all’Italia. L’antologica vanta opere in gran parte vintage, interessanti reportage ai tempi aulici del fotogiornalismo. Realtà diversificate catapultano il visitatore dall’Europa post bellica alla povertà indiana, dall’orrenda guerra in Corea allo sviluppo metropolitano statunitense, sorprendenti scatti in cui leggere dualismi tra sviluppo e miseria, affari e spiritualità, modernità e tradizione.

Palazzo Madama

’esposizione, ideata dal direttore di Palazzo Madama Guido Curto e curata insieme agli storici dell’arte del museo, racconta il cammino dell’Umanità sul pianeta Terra nel corso di una Storia plurimillenaria. In mostra un centinaio di opere provenienti dalle raccolte di Palazzo Madama e da vari musei del territorio e nazionali: dipinti, sculture, ceramiche antiche, reperti etnografici e archeologici, oreficerie longobarde e gote, metalli ageminati e miniature indiane, armi e armature, avori, libri antichi, strumenti scientifici e musicali, carte geografiche, vetri, argenti ebraici e tessuti. Accompagna la mostra un fitto calendario di iniziative per il pubblico: conferenze con specialisti storici dell’arte, antropologi, archeologi, storici e laboratori.

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opo oltre un secolo, torna in Italia la robbiana Resurrezione invetriata, probabilmente commissionata a Giovanni dal nobile

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altomedievali rendono decisamente interessante questa mostra ricchissima per documentazione inedita, supportata da oltre 300 artistici reperti, 58 corredi funerari, 3 cripte pavesine, supporti multimediali, opulento catalogo di Skira. Lo stesso MANN vanta in esposizione prestiti eccezionali, testimonianze del legame tra un popolo sensibile alle relazioni culturali, politiche, religiose e il nostro meridione, documentato attraverso opere squisite, delle quali epigrafi e magnifici manoscritti rappresentano meritato lignaggio. In effetti, presso i monasteri di Montecassino e San Vincenzo al Volturno trova linfa la cosiddetta scrittura longobarda antitetica a quella rotonda carolingia di respiro europeo, così il celeberrimo Codice delle Omelie, presente in mostra, ostenta meritato fascino. Il percorso espositivo trova degna conclusione nella decadenza longobarda in epoca carolingia, rilevante tuttavia continuità tra Benevento, Capua, Salerno, come sfoggiano orgogliosamente in mostra la squisita Stele con l’Arcangelo, Disco Aureo con Cristo e gli Angeli, Lastra con grifoni.

Tommaso Antinori in commovente postura orante sul fianco di Cristo risorto. Opera monumentale che in passato abbelliva Villa delle Rose, l’avita lunetta sfoggia una rigogliosa cromia decorativa ideata attraverso certosina perizia tecnica ed artistica. Il riuscito restauro avvenuto nel Museo di Brooklyn, sua dimora dal 1898, ha trovato sensibile mecenate nell’aristocratico casato fiorentino, che ne ha consentito il temporaneo ritorno presso Firenze insieme al ritratto di Aaron Augustus Healy, suo estasiato compratore. Voluta dai discendenti Antinori, le sale espositive del Bargello ospitano anche l’originale rilettura contemporanea del capolavoro robbiano ad opera del maestro Stefano Aurienti, che ne scompone i principali elementi compositivi, donando indipendenza tridimensionale, narrativa, identitaria alla complessità scenica dell’opera, insomma un indovinato dialogo culturale tra classicismo rinascimentale e contemporaneità creativa. Da sensibili signori dell’art-wine, gli Antinori arricchiscono l’arcinota Cantina presso San Casciano Val di Pesa con un altro gioiello by Arienti, denominato Rilievo, ingrandendo la già opulenta collezione familiare.


L’ULTIMA GLORIA DI VENEZIA 29 settembre 2017 2 aprile 2018 Venezia Gallerie dell’Accademia

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ributo alla prestigiosa Istituzione veneziana, che festeggia ben due secoli di prolifica attività culturale, la mostra ne ripercorre un fecondo cammino culturale voluto dal

DIVINA CREATURA 15 ottobre 2017 28 gennaio 2018 Rancate (Mendrisio) Pinacoteca Cantonale Giovanni Züst

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maggio al costume femmininle europeo, che nel secondo ottocento conosce nuovo fulgore, testimoniato in mostra attraverso dipinti, sculture, abiti raffinati, preziosi ventagli dipinti a mano, selezionati presso prestigiose istituzioni. Ed è l’Haute

conte Leopoldo Cicognara, Antonio Canova, Francesco Hayez, sensibili ideatori del nuovo Museo, riscatto culturale alle spoliazioni napoleoniche, ammirato forziere per l’ancora immenso patrimonio cittadino e la prolifica arte contemporanea. Divisa in sezioni tematiche, l’esposizione vanta opere squisite così, per la prima volta riuniti, le sale ospitano raffinati opere canoviane chiamate Omaggio delle Province Venete e Musa Polimnia, ma anche vasi in marmo, dipinti, un raffinato tavolo in bronzo e legno, meraviglia dell’ebanisteria veneta in epoca neoclassica, esternazioni al fecondo rilancio artistico-culturale vissuto a Venezia sul finire del diciottesimo secolo. Delle opere presenti in mostra, sono stati privilegiati i capolavori ritornati a casa da Parigi, non a caso i bronzei Cavalli di San Marco col cammeo Giove Egiaco ostentano autentica bellezza insieme ai disegni realizzati da Leonardo e Raffaello, pregiatissimi capolavori acquisiti da Canova e Cicognara per ingrandire un già prolifico patrimonio per le nascenti Gallerie dell’Accademia. La mostra è corredata dal catalogo edito da Marsilio Editori/Electa ricco in immagini, fonti storiche, recensioni autorevoli.

Couture parigina a dettare imperativi rivoluzionari tra donne di ogni estrazione sociale, valorizzate con il diffondersi della fotografia, riviste specializzate, Grand Magasins. Questa nuova consapevolezza femminile travalica i confini domestici, rendendo queste combattive creature sinceramente consapevoli del loro nuovo ruolo sociale, veicolato dal culto dell’immagine. Una siffatta rivoluzione culturale non passa inosservata tra Giovanni Segantini, Gaetano Previati, Giuseppe De Nittis, Pompeo Mariani, che firmano modelli di eleganti creazioni sartoriali, ma è la ritrattistica comportamentale a superare lo status, ormai, demodé del gentil sesso, soprattutto nella classe aristocratica. Così, attraverso Giovanni Boldini, Paul Troubetzkoy, Vincenzo Vela, Vittorio Corcos, Adolfo Feragutti Visconti, in mostra si racconta lo stile al femminile nobiliare, affiancato dalla pittura di genere nel quotidiano, ritraente minuziosamente mutazioni in senso estetico del pianeta donna, impegnata tra attività domestiche e svago.

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Val di Lama

La Pinacoteca di Lucia 16 dicembre 2017 11 gennaio 2018 La spezia Galleria Il Gabbiano

di Antonio Bobò

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I MONOVARIETALI L’azienda agricola, nel suo frantoio aziendale estrae da ogni tipo delle proprie olive appena raccolte, il suo olio, ottenendone così vari tipi, ognuno dal sapore e dal profumo diverso. I BLEND Alla fine di ogni raccolta alcuni tipi d’olio vengono miscelati nelle dovute percentuali per ottenere un Blend dove si sommano sapori e gusti equilibrati e armoniosi. Il tipo di frangitura è a due fasi secondo i più recenti canoni di estrazione ed è in ciclo continuo a freddo; la temperatura è monitorata e mantenuta costante, da 24 a 26 gradi su tutto il ciclo; l’olio appena estratto viene filtrato e liberato dalle microparticelle solide e liquide. L’olio così pulito e trasparente, mantiene molto più a lungo nel tempo la fragranza di quello appena estratto senza che si attivino processi ossidanti e degenerativi. L’amaro e il piccante dell’olio contengono un elevato numero di polifenoli antinfiammatori contro diverse malattie come quelle cardiovascolari, del fegato, etc. Si consiglia quindi un uso costante del vero olio extravergine.

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el mio operare, subito dopo le osservazioni e gli studi anatomici della figura umana, ho avvertito l’esigenza di allontanarmi dal modello. Questo fin dagli anni ’70. Ubbidendo alle mie esigenze formali e narrative, volevo impedirmi tutti i suggerimenti naturalistici che sarebbero andati a condizionare gli imparentamenti dei vari elementi atti alle composizioni, soprattutto architettoniche, degli impianti. Abolendo le luci e le ombre, moderando i chiaroscuri e le terze dimensioni e di fatto riducendo i piani prospettici a delle semplicissime quinte teatrali, ho potuto mettere sullo stesso livello pittorico il “modello” e tutti gli altri elementi scenografici. In particolar modo la figura femminile, nella sua nudità, secondo il mio punto di vista, andava a rispettare l’affascinante prerogativa dell’inganno pittorico divenendo al tempo stesso la cifra stilistica più vicina al mio intendere. In questo ultimo periodo ho avvertito una diversa esigenza e viste le mie tante curiosità sulle ulteriori possibilità espressive, non mi sono certo sottratto alle opportunità che la grafica computerizzata poteva offrirmi. Ho fotografato la mia Lucia come prima l’avevo dipinta, ora reinventata e nuda per le esigenze appena dette. Sono foto recenti (2012) ma

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sono andato anche a recuperare vecchie immagini dagli album dei ricordi, indietro fino agli anni ’70 e una di lei bambina per una particolare tavola. Il gioco dell’elaborazione digitale si è impossessato di me e con una febbre senza fine, sono andato a catturare per il mio progettato piano di lavoro le immagini dei grandi maestri, di quelli meno conosciuti e di qualche ignorato dal tempo. Ci sono le storie mitologiche, le testimoni del loro tempo, delle scuole, delle correnti. Le opere surrealiste e delle ultime tendenze contemporanee. Dipinti sottilmente e sfacciatamente erotici. I nudi fascinosi nella loro consapevole bellezza. La vanità, il vizio, la lussuria, la morte. Dipinti e sculture alle spalle di lei: Lucia. La sua, da me apparecchiata, “Pinacoteca”. Un sottilissimo e devoto omaggio alla mia compagna di vita. Le intenzioni, sostenute anche da una dichiarata ludicità, mi hanno portato ad una sorta di rivisitazione, ad una minima integrazione formale e di interpretazione, facendo attenzione ai rapporti estetici e a quelli più finemente metaforici. Gli oggetti, gli strumenti: i pugnali, le maschere, le ali, le cornici e i gioielli, le stoffe, i veli, i nastri e le trine, i corpetti, le calze e i tutù, le piume. Elementi da sempre rappresentati nella mia pittura e in questo caso reali. In questo mio allestimento giunge una suite ridotta di tavole ma rappresentativa di quest’ultima avventura. Sono opere composite che pur lasciando lo spazio all’immagine, la vera protagonista, hanno sentito l’esigenza di piccoli segnali informativi, didascalici, elementi concreti a collage e di intervenuta grafica, poi ripetuti in tutte le composizioni.


Marino Marini, dal colore alla forma 25 novembre 2017 15 febbraio 2018 LIVORNO Galleria Guastalla Centro Arte

di Silvia Pierini

"I

l rapporto – sottolinea Marini – tra la mia pittura e la mia scultura: non comincerei mai una scultura senza passare attraverso il colore. Non si può spiegare come nasce un’opera d’arte, perché è molto difficile e noi stessi non lo sappiamo. Ma – continua – ad un certo momento ci viene addosso un’emozione, che a certi artisti arriva in forma descrittiva e a certi altri in un mondo di colore. Nel caso mio arriva il colore e, per esempio, ho un colore che mi tormenta. Ho sempre visto tutta la scultura, la più grande scultura, la più viva, la più reale, la più immensa, che era tutta dipinta: gli Egizi, gli Etruschi, i Greci, i Romani, gli arcaici, c’era sempre del colore sopra. Perché non dovrei farlo io?” . Il catalogo dell'esposizione si apre con le immagini delle quattro monumentali sculture in rilievo eseguite in gesso nel 1938 per il concorso di idee per la decorazione dell’Arengario a Milano: queste rappresentano un’importante testimonianza della grandezza artistica di Marino, come con competenza critica scrive, in un saggio a queste dedicato, Maria Teresa Tosi, direttrice della Fondazione Marino Marini di Pistoia. Le due sculture in bronzo Piccolo miracolo del 1955 e Piccola

composizione del 1956, sono esempi di opere del periodo maturo, così come le tecniche miste Gentiluomo a cavallo del 1944 e Composizione del 1947, rappresentano l’evoluzione dell’artista nel dopoguerra con una compiuta sicurezza nel combinare le sue idee e forme, mentre i Giocolieri, i Cavalli, i Cavalli e Cavalieri degli anni ’50 rappresentano il suo periodo più noto con la conquista dello spazio in cui si muovono le forme. Opere come Composizione del 1960 o Ribaltamento del 1972 e Circo del 1978 stanno a dimostrare la continua evoluzione di Marini verso forme innovative, più libere e meno figurative. La mostra prosegue con una cospicua serie di opere grafiche originali, disciplina, questa, molto seguita da Marino, che lo colloca fra i più importanti incisori del ‘900: è raro trovare nel panorama artistico del Novecento un artista che si esprime con la stessa libertà e autenticità nella scultura, nella pittura, nel disegno, nell’incisione e nella litografia. L’album Personnages du Sacre du Printemps con 8 litografie originali a colori tirate nel celebre atelier Mourlot di Parigi per le edizioni XX Siècle, viene pubblicato nel 1974 riprendendo la scenografia e i costumi realizzati per l’opera di Strawinskij su richiesta del soprintendente della Scala Paolo Grassi. Gli album From color to form del 1969, Chevaux et cavaliers del 1972; le litografie tirate a Livorno sui torchi dell’atelier Graphis Arte, Il grande teatro delle maschere, Magia, Immaginazione di colore, Orfeo, Orizzonte ed altre; le incisioni della serie Imagines, Adamo ed Eva, Geometria, dimostrano la grande maestria di Marino anche in queste tecniche.

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storia

il divino cinquale Dalle suggestive solitudini a località turistica di gran moda Costantino Paolicchi

Cinquale, anni Venti Forte dei Marmi, il forte di Pietro Leopoldo, inizi 900

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hi oggi visita il Cinquale scopre un luogo ameno, turistico, con alberghi e pensioni, uno Sporting Club nautico con piccola darsena riservata proprio alla foce del fiume. La foce stessa un poco più a monte è stata ampliata e attrezzata per l’ormeggio di imbarcazioni da diporto. L’aeroporto, per piccoli aerei da turismo, dista poche centinaia di metri. Il Cinquale è diviso a metà tra il Comune di Forte dei Marmi e quello di Montignoso: verso Viareggio è territorio fortemarmino e verso Massa è montignosino. In effetti fin dall’antichità la foce del Cinquale segnava il confine tra l’enclave lucchese di Montignoso, già feudo della potente famiglia longobarda degli Aghinolfi, che edificarono l’omonimo castello, e l’enclave fiorentina di Pietrasanta, sede di Capitanato. Un tempo il Cinquale era l’emissario del lago di Perotto, o di Porta Beltrame, di cui resta soltanto un’area umida protetta. Oggi raccoglie le acque del torrente

Versilia, che Cosimo I dei Medici fece deviare intorno alla metà del Cinquecento in direzione del lago, per iniziare la bonifica delle aree paludose del piano di Pietrasanta, dove imperversava la malaria. E la malaria continuò a infierire sulla cittadina e su tutta la fascia costiera fino a Ottocento inoltrato, fino a quando cioè furono costruite – alla foce del Motrone, del fosso Fiumetto e del Cinquale – le cataratte a bilico che impedivano il riflusso delle acque salse durante le mareggiate, causa dei ristagni dove la zanzara anofele proliferava. La lunga spiaggia di rena fine, che il vento accumulava a formare una fascia di dune oltre la quale si estendeva una fitta boscaglia di lecci e querce, fino ai primi decenni dell’Ottocento era pressoché deserta, se si esclude il castello di Motrone a guardia del piccolo ma importante porto alla foce del fiume, che allora si gettava in mare nell’altro lembo estremo di Versilia, a confine con Camaiore; e

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la torre di guardia del Cinquale, che Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, Granduca di Toscana, trasformò dopo il 1770 in un forte simile a quello che fece costruire al “Magazzino” (questo era il vecchio nome del Forte dei Marmi, dal magazzino del ferro edificato nel 1623) che darà poi il nome al paese che si sviluppò tutto intorno. Il Cinquale e Motrone delimitavano i confini costieri della Versilia. Il forte di Motrone lo fecero saltare in aria gli inglesi nel 1813, quello del Cinquale fu raso al suolo dai tedeschi nel 1944. L’unico che si è salvato è quello di Forte dei Marmi. Dalla foce del Cinquale si poteva risalire l’emissario con piccole barche fino a raggiungere il lago di Perotto e la località conosciuta come “Porta Beltrame”, dove a ridosso delle rupi calcaree in una sorta di strettoia naturale, passava la via Francigena romea. Era confine doganale, che i Medici munirono con una solida torre di mattoni, armata e fornita di guarnigione: ancora oggi si erge pur con tutti i danni inferti dalle cannonate durante la seconda guerra mondiale. Questo posto, dove sorgeva anche una piccola chiesa nota come Santa Maria di Porta, era conosciuto popolarmente come il “Salto della Cervia”. Il Cinquale era un luogo suggestivo, con il fiume che scorreva fra due sponde verdi e sfociava in un punto davvero magnifico della sterminata spiaggia che ai primi del Novecento incantò D’Annunzio. Un’intricata macchia mediterranea si estendeva di qua e di là dal fiume. Oltre la macchia e i pochi campi strappati agli acquitrini con le opere di bonifica, c’erano il lago e sullo sfondo le colline punteggiate di case, il castello di Aghinolfo al sommo di uno sperone


roccioso e infine le cime tormentate e azzurre delle Apuane. Le foto dei primi del Novecento mostrano ancora l’indicibile bellezza della marina deserta, per il tratto che dal Forte va «…verso Massa, di là da quel divino Cinquale dove nelle notti di luna vanno a dissetarsi le sirene». Così scriveva l’Immaginifico.1 Era parte integrante, il Cinquale, di quella Versilia-Eden che in molti avevano scoperto nel loro vagare alla ricerca di un luogo ancora innocente dove lenire il “male di vivere”: D’Annunzio, che affermava di essere rinato in Versilia «…a vita vigorosa e pura»; Eleonora Duncan che vi cercò conforto e pace dopo un grande dolore; il protagonista del romanzo di Riccardo Bacchelli, il giovane e disperato Ruben Brederus, che era riuscito a placare per poco i suoi tormenti sulla spiaggia di un paese appena nato, Forte dei Marmi. «Era uno di quei luoghi – ha scritto Bacchelli – dove la natura sembra intesa a creare in esplicita e formale fantasia di bellezza…»2. Al Forte, ormai cittadina balneare rinomata, con il Grand Hotel, le ville e i ritrovi alla moda, giunse nel 1926 Carlo Carrà. Da allora in poi il Forte divenne la sua dimora estiva abituale. Era attratto dalla natura dei luoghi: le pinete, la spiaggia con i capanni di falasco, le montagne, un paesaggio nuovo che lo ispira e con il quale si confronta nelle sue tele: «Anche il Cinquale mi occupò a lungo e riuscii alfine a realizzare i primi esempi suggeritimi da questo fiume (…). Ma sebbene la realizzazione mi riuscisse faticosa, fui (…) persuaso di aver trovato gli incanti e le magie di un paesaggio che si confaceva con il mio intimo sentimento»3. Quel mondo gli divenne ben presto familiare e insostituibile e da quell’intenso rapporto scaturì il celebre dipinto Il Cinquale della Collezione della Lanterna, il quadro dei “Cavalli” che si trova ora nella Galleria d’Arte Moderna di Roma, e altri ancora degli anni tra le due guerre. Carlo Carrà vi era stato condotto, per

la prima volta, dallo scultore Arturo Dazzi che era nato a Carrara e conosceva bene il luogo. Restò soggiogato dal Cinquale al punto da volerlo trasformare in un fiume «celebre in tutto il mondo». Anche Dazzi, che aveva vissuto lungamente a Roma, nel 1926 aveva deciso di stabilirsi a Forte dei Marmi «… in questa limpida e dolce Versilia che mi fece diventare pittore», dove «… ogni scultore dovrebbe dipingere e ogni pittore scolpire». Fu un ritorno alle origini, felice, fortunato: «Questa terra chiara, serena, il mare, le mie Apuane, mi rinnovarono spiritualmente»4. E anche per lui il Cinquale fu fonte di ispirazione e di riflessione per una ricerca pittorica orientata verso una espressione libera da ogni schema intellettuale. Nel 1932 Dazzi si presentava come pittore alla Biennale di Venezia, esponendo 22 opere che avevano per soggetto i paesaggi della Versilia, il fiume Cinquale, e poi pesci, animali, fiori, figure femminili. Si ricordano in particolare Mezzogiorno, Cinquale, Barca al Cinquale e Sul fiume Versilia, dove il fiume la spiaggia e la natura avevano sollecitato in lui nuove libertà espressive, ribadite nella presentazione della sua mostra personale alla Quadriennale romana del 1935.

La guerra mondiale, la seconda, ha imperversato anche al Cinquale: non ha spazzato via soltanto il forte di Pietro Leopoldo e il curioso ponte sorretto da due archi di cemento armato, costruito sul Versilia dal regime, e il cantiere navale alla foce e i capannelli sulla spiaggia. Negli anni del dopoguerra Enrico Pea osservava, in una notte di tempesta, che «… a tratti, quelle che furono le ricche ville del Cinquale, le colonie marine confortevoli, apparivano edifici scoperchiati, ruderi sventrati da bagliori spettrali. (…) E in qua e in là, invece, a nutrire la speranza, ricostruite villette moderne, davano sotto il glaciale bagliore dei fulmini, spicco di forme nuove, di colori bellissimi»5. Il fiume pigro era ancora ricco di pesce e grandi reti a bilancia, sollevate da lunghi pali infissi specularmente sulle due sponde, caratterizzavano l’ultimo tratto verso la foce. Oggi sono scomparse anche quelle, insieme ai grandi silenzi e alle vaste solitudini amate da Carrà. Ma qualcosa sopravvive dell’antica bellezza: lo scoprirete passeggiando lungo gli argini del fiume, risalendolo fino all’area dell’ex Lago di Porta in Comune di Montignoso e al campo da golf in Comune di Forte dei Marmi.

Note 1 G. D’Annunzio, Solus ad Solam, Firenze 1939, p. 307. 2 R. Bacchelli, Il fiore della Mirabilis, Milano 1942. 3 C. Carrà, La mia vita, Roma 1943, pp. 361-363. 4 G. Matthiae, Dazzi, Roma 1979. 5 E. Pea, Fragole e fulmini, in Corriere d’Informazione, 23 agosto 1952.

Cinquale 1915 La torre del Cinquale, il lago di Porta Beltrame, o di Perotto, in una carta del secolo XVII (Archivio Storico Pietrasanta) Cinquale, le cateratte 1917

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storia

una Terra Nuova lucchese Ada Neri

Valerio Vallini, Massimo Tosi, Eugenio Giani Presidente Consiglio Regione Toscana, Assessore Carla Zucchi e Alberto Malvolti

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ella Sala Consiliare di Santa Croce sull'Arno, sabato 18 novembre è stata presentata Una Terra Nuova Lucchese la ricerca storica di Valerio Vallini accompagnata dalle tavole grafiche di Massimo Tosi. Questa cartella, composta di una nota storica e da due tavole, permette di definire in maniera più approfondita la storia della nostra cittadina, individuando le mura, le torri, il monastero di Santa Cristiana, la chiesetta trecentesca, l’antico porto fluviale, le contrade, insomma la struttura medievale e cinquecentesca del castello di Santa Croce, mentre la parte iconografica del progetto è costituita da acquerelli che ben rappresentano l’antico castello e fissano scorci e paesaggi di un tessu-

to urbano completamente diverso da quello che viviamo oggi. È stata una sfida raccontare la nascita

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di Santa Croce. Fra '200 e '300 tutte le potenze della Toscana si impegnano per costruire delle terre nuove con l'obiettivo di consolidare il territorio. Queste terre nuove sono dei rettangoli o dei quadrati organizzati su base razionale: città progettate anche da personalità importanti. A metà del '200 Lucca costruisce quattro città nuove: Pietrasanta e Camaiore in Versilia, Castelfranco e Santa Croce nel Valdarno". Una ricerca durata oltre un anno tra antichi documenti dell'archivio di Firenze, decifrando e confrontando fra loro documenti alla ricerca di conferme sulla nascita del castello. Massimo Tosi, ha dato forma e colore, realizzando due tavole: una a volo d'uccello nella quale si vede tutta la sponda destra Valdarno Inferiore, con il padule di Fucecchio e quello di Bientina ai lati, i boschi delle Cerbaie al centro e in basso la pianura con i due centri di Castelfranco e Santa Croce. L'altra tavola è la ricostruzione di Santa Croce in base alle ricerche di Valerio Vallini. Un progetto che ha avuto il sostegno dell'Amministrazione Comunale, della Pro Loco e di alcuni sponsor che hanno permesso la realizzazione di questa cartella.


curiosità

Cristoforo, che folla! scoprì l’America o arrivò duemila anni anni dopo?

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uell’anno, all’incirca il 531 avanti Cristo, lungo la costa del Brasile, una imbarcazione lunga circa 30 metri risaliva la foce del fiume Paraibo do Sul. La comandava un esperto comandante, che guidava undici marinai, tutti lupi di mare, e tre donne animose e di avventurosa reputazione. Il comandante sedeva a poppa, era un uomo con la barba, il torso nudo da lupo di mare, nel caldo tropicale – come racconta Thomas Fleming – il resto del corpo coperto da una stoffa multicolore. Con lui in coperta 11 uomini e 3 donne si avviavano verso la conclusione del loro viaggio. Con autorità il capo della nave ordinò allo scrivano di bordo di incidere un messaggio su una pietra e di sistemarla in riva al fiume. «Siamo Cananei, veniamo da Sidone, la città del Re Mercante. Fummo trasportati su questa isola lontana, terra di montagne. Sacrificammo un giovane agli Dei e alle Dee celesti nel XIX anno del nostro potente Re Hiram e ci imbarcammo da EzionGeber nel mar Rosso. Viaggiammo con dieci navi e navigammo insieme

per due anni intorno all’Africa.Poi la mano di Baal ci separò e non fummo più con i nostri compagni. Così arrivammo qui, 12 uomini e 3 donne nella Isola del Ferro. Sono io, il comandante, uomo da abbandonare l’impresa? Mai! Che gli dei e le dee ci siano propizi!». Questa storia di navigatori salpati dalla città mediterranea di Sidone e sbarcati nel Sud America 2023 anni prima di Cristoforo Colombo non è fantascienza ma un fatto scientifico. Non sappiamo cosa sia accaduto al comandante e al suo equipaggio, ma successivamente la pietra con l’incisione fu trovata da un gruppo di operai, e una copia del messaggio fu inviata all’Istituto storico del Brasile per essere tradotta. L’Istituto a sua volta inviò parte del messaggio al più autorevole studioso di lingue semitiche allora esistente, il francese Ernest Renan, che lo ritenne un falso. In seguito però si venne a sapere che Renon aveva interpretato erroneamente il testo ricevuto. Del messaggio non si seppe più niente, finché nel 1967 attirò l’attenzione di Cyrus Gordon, capo del dipartimento di studi del Mediterraneo. Il quale nel suo libro Before Columbus (prima di Colombo) spiega come recenti espressioni semitiche gli permisero di decifrare il messaggio ritrovato dopo tanto tempo e di stabilirne l’autenticità. E pure la testa che fu scolpita dai Maya nella prima parte del periodo classico (300-600 dopo Cristo). Tra gli altri ritrovamenti nell’America Centrale ci sono sculture di teste di negri, prova evidente dei traffici tra l’Africa e il Nuovo Mondo esistenti centinaia di anni prima dello storico viaggio di Cristoforo Colombo.

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A quanto pare nemmeno l’immenso Luciano Gianfranceschi Oceano Pacifico riuscì a impedire i viaggi di audaci marinai provenienti dalla Cina e dal Giappone. Gli archeologi hanno trovato nell’Ecuador ceramiche giapponesi risalenti a 5000 anni fa. Studiosi di letteratura cinese hanno tradotto il racconto di un monaco buddista di nome Hoeishin, che sosteneva di aver navigato verso la Cina nel 449 d.C. da una terra dell’est distante 20.000 miglia cinesi. Nel suo racconto, Hoei descrive con precisione molte consuetudini delle civiltà messicane e dell’America Centrale, in particolare quelle della tribù di maya, conosciuti, come gli itzas. Gli archeologi hanno riscontrato che le piramidi degli itsas e i templi della Le tre caravelle di Cambogia presentano similarità che Cristoforo Colombo non lasciano adito a dubbi. In tanti erano arrivati prima di Cristoforo Quadro che ritrae Cristoforo Colombo al Colombo. momento dello sbarco nelle Americhe

Porto di Sidone

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memorabilia

mio padre aviatore Vania Di Stefano

Volo di addestramento Simulazione di volo Vania in braccio al padre

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arrando la prigionia austroungarica di Titomanlio Manzella (1891-1966) e dei suoi libri salvifici (Reality 79), constatavo ancora una volta che passato remoto e passato prossimo sono due tempi a diversa temperatura: gelido l’uno, perché non c’è più nessun corpo cui far domande, caldo ancora l’altro per il respiro di testimoni capaci d’infiammarti, evocando ricordi veri o immaginari. Cercare la verità fra un silenzio eterno e la voce dei superstiti è un bisogno, un dovere, una smania, una sfida, talvolta dolorosa, che però forse ti spiega chi sei e ti rivela il principale paradosso della Storia: la vita − dono

felice, se la godi come tale, pur soffrendo l’altrui malvagità o indifferenza − è il frutto compensativo delle peggiori atrocità di umani contro umani (la Natura è sempre innocente). Senza la rivoluzione sovietica Elfride Neuscheler (Mosca 1890 - Catania 1932) non sarebbe fuggìta dalla Russia nel 1917 e nel 1922 non avrebbe sposato a Catania Titomanlio e partorito nel 1924 mia madre Myriam, che poi mi concepì a Roma nel vortice della seconda guerra mondiale. Quando il mio avo morì, confrontando lontani racconti con le sue carte personali, coi libri, i ritagli, le foto, constatai d’essere nato in una normale famiglia di fede fascista. Di lì a poco, preparando una tesina d’esame su D’Annunzio sociale e politico discussa il 3 aprile 1967 con lo storico Nino Valeri (1897-1978), cominciai a riflettere sul panorama domestico anteguerra. Vi spiccavano i bei ricordi di mia madre e dei suoi fratelli Igor (1922-2009) e Mirko (1927-1996), tutti legati ai ritmi dell’organizzazione atletica giovanile, dove il consenso verso il regime era tangibile, sincero e Mussolini era venerato come l’artefice del riscatto d’una penisola travagliata da secoli di divisioni, ingiustizie, miseria. Un sogno naufragato nel cieco abbraccio mortale col nazismo, nelle folli leggi razziali, nella guerra, nel fratricidio, un sogno di riscatto collettivo mai più vissuto se non degradato a promessa elettorale puntualmente tradita. Attorno alla figura immaginaria del Dux vissero, oltre mia madre, anche due suoi cugini, figli del futurista Gesualdo Manzella Frontini (18851965): Ardengo (1921-1942), morto nel sottomarino Corallo, e suo fratello Francesco (1916-1992) che, cattura-

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to dagli inglesi dopo la battaglia di Giarabub, fu deportato in India, infine Carlo il mio giovane padre, aviatore nella Repubblica Sociale Italiana, morto troppo presto (1952). Io non c’ero e non posso né voglio giudicarli per ciò in cui credettero, pagando di persona l’illusione ventennale di un’Italia ritrovata, rinnovata, orgogliosa, indipendente, autorevole, rispettata. Illusione perduta e assaporata solo idealmente nelle parole della Costituzione, presto ridotta a un pezzo di carta buono per mediocri gargarismi di retorica televisiva. Con questa duplice riflessione ho, come si dice, fatto i conti con la Storia e superato in forma autonoma e serena gli effetti del paradosso che ho descritto. Stanno in questa umana contraddizione il dolore e la gioia e se l’uno partorisce l’altra c’è forse un disegno divino, a suo modo consolatore, capace di temperare i frutti del libero arbitrio, sempre oscillante tra inferno e paradiso, ma dai tempi delle caverne più incline al primo che al secondo.


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curiosità

che problema la palla di Firenze

una sfera e un cerchio enigmatico in Piazza Duomo Roberto Lasciarrea

Lanterna sulla Cupola del Duomo Cerchio in piazza Duomo

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ino al 1995 la Cattedrale di Santa Maria del Fiore, a Firenze, era, per estensione, fra le prime dieci del mondo. Poi, negli anni a seguire, altri edifici sacri l’hanno “superata”, in questa sorta di “competizione”, nella quale i fiorentini si sentivano orgogliosi per la loro superiorità. Poi, ecco il sorgere di altre basiliche, evidentemente di più recente costruzione. Quella del Brunelleschi è, a ragione, ritenuta il massimo esempio di architettura rinascimentale. La costruzione iniziata sulle antiche fondazioni della chiesa di Santa Reparata nel 1296 da Arnolfo di Cambio, fu continuata da Giotto a partire dal 1334 fino alla sua morte avvenuta nel 1337. Francesco Talenti e Giovanni di Lapo Ghini la continuarono nel 1357. Nel 1412 la nuova cattedrale fu dedicata a Santa Maria del Fiore, per essere consacrata il 25 marzo 1436, al termine dei lavori della

cupola, da papa Eugenio IV. Precedentemente, l’anno 1421, aveva segnato il confine con le ultime opere portando a compimento le tribune e il tamburo. Restava solo la cupola. In realtà nella cattedrale era rimasta una grande cavità larga 43 metri all’impostare del tamburo, ad un’altezza di circa 60 metri (per dovere di cronaca i lati dell’ottagono misurano dai 17,60 ai 16,98 metri). Nessuno però sembrava porsi il problema di trovare una soluzione concreta relativamente alla “chiusura” del grande “vuoto”. Eppure, per tutta la metà del Trecento, si erano susseguiti dibattiti su dibattiti. Nel 1418 fu indetto un concorso pubblico per la progettazione della cupola o anche solo di macchine atte al sollevamento di pesi relativamente ad altezze mai raggiunte prima da una costruzione a volta. Tra i numerosi concorrenti si distinsero due artisti emergenti: Filippo Brunelleschi e Lorenzo Ghiberti. Brunelleschi predispose un modello e fece una prova generale per la costruzione della cupola senza centina nella chiesa di San Jacopo Soprarno. Si stabilì dunque che si procedesse con la costruzione fino all’altezza di trenta braccia per decidere, successivamente, di continuare in conseguenza al “comportamento delle murature”. La cupola ha uno spessore enorme, continuo, dall’impostare fino alla lanterna: 4 metri. La disposizione dei mattoni a spina di pesce serviva a creare un appiglio per le file dei successivi, in modo da impedirne lo scivolamento fino alla presa della malta. La cupola terminata nel 1436 con l’ultimazione della “maestosa costruzione”, è formata da 8 vele e si innalza, compresa la palla dorata, fino a 161,81 metri. A questo punto fu realizzata la lanter-

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na, un edificio nell’edificio, circa 17 metri di altezza. Progettista ancora una volta Brunelleschi, con progetto basato sulla forma ottagonale che si ricollega con le colonne e gli archi alle linee dei costoloni bianchi della cupola sul lato esterno. La costruzione della lanterna ebbe inizio nel 1446, poco prima della scomparsa dell’architetto, avvenuta il 15 aprile 1446. Fu terminata da Michelozzo nel 1461. In cima alla copertura a cono fu deciso di collocare una sfera di rame. Nei documenti conservati nel prezioso archivio dell’Opera del Duomo, si legge che la commissione affidò a Giovanni di Bartolomeo e Bartolomeo di Fruosino il compito di progettare la “sfera”. I due autori avevano “disegnato” un particolare accorgimento chiamato “bottone”, in questo caso elemento di supporto costruito per appoggiarvi la “sfera”. Fu un fallimento. Così la “palla” fu affidata al maestro orafo, nonché valente artista Andrea del Verrocchio. Questi utilizzò fogli di rame saldati, messi in forma e dorati. Era il 27 maggio 1471. I fiorentini orgogliosi, non potevano che vantarsi di quel capolavoro che si vedeva da chilometri e chilometri di distanza. L’entusiasmo aveva raggiunto il “settimo cielo”. Certamente 4368 libbre di rame non potevano non creare incertezze, anche se ricoperte d’oro. Era un vero “catchthunderbolt”, “acchiappa fulmini”. L’opera, posizionata sulla sommità della lucerna del Duomo, divenne subito orgoglio e vanto dei fiorentini, con i suoi 2,50 metri di diametro e le 20 tonnellate di peso, mentre la Croce venne applicata tre anni dopo. Eppure, sin dagli esordi, il suo destino non sembrò promettere per il meglio,


dato che il 5 aprile 1492, appena una ventina di anni dopo il suo “esordio”, un primo fulmine fece rovinare un terzo della lanterna e crollare la cupola in ben cinque punti. La prima nel 1492 e la seconda durante una tempesta la notte del 17 gennaio 1600 (altre testimonianze parlano della notte fra il 26 e il 27 gennaio). Queste notizie, più dettagliate, ci sono riportate da Fernando Leopoldo del Migliore, il quale racconta che un fulmine cadde alla quinta ora di notte con grandissimo rumore e danno corrispondente. Narra che vennero giù non solo la palla con la croce, ma anche infiniti pezzi di marmo, scheggiati con tale veemenza dalla forza degli elementi che ne arrivarono frammenti fino a Via de’ Servi. A suo dire le persone abitanti nei dintorni ne ritrassero tale spavento che parve loro arrivata la fine del mondo e che ad una voce il popolo non faceva che chiedere misericordia. Due anni più tardi fu deciso di sostituire la “palla” originale, con una più grande. Alla sfera si accede da una scaletta ricavata all’interno di una delle colonne che si trovano in cima alla cupola, all’inizio del cono, che consente l’accesso alla “palla” dove si può salire e dove qualche fortunato (anche chi vi scrive) è arrivato con un’emozione inenarrabile. La ricostruzione della sfera fu molto veloce grazie al provvido e sollecito intervento del granduca Ferdinando II, come testimoniato dalla fitta corrispondenza con l’Opera del Duomo. Francesco Bocchi ricorda in una sua lettera come il volere del Granduca che tutto appuntino si ricostruisse a norma dell’antico modello fu adempiuto. Solamente si tenne la palla un poco più grande; e nella palla, per consiglio del Buontalenti, fu praticata una finestrella, che dà luce a chi vi è dentro, e serve per uscita più sicura a chi, per lavori o per accendere i panelli in occasione di luminarie, è obbligato a salir sulla croce. Nella stessa lettera il Bocchi rammenta che il nodo, ch’è sotto la palla, pesò libbre’ 1290: l’armatura della palla libbre 3094; e con la palla, 5030: la croce andò a 1080. La doratura della croce valse 120 scudi. Nel 1602, in data 21 ottobre, la palla veniva nuovamente riposizionata e nel maggio 1603 vennero collocate all’interno della croce alcune reliquie, dato che all’epoca non si conoscevano ancora mezzi migliori di difesa contro i fulmini se non che raccomandarsi ai santi. Della croce e della palla originali, della cui rovina Matteo Nigetti fece un disegno andato purtroppo disperso,

furono tratte ben tre libbre d’oro, ma non sembra ne residuasse niente in quelle reinstallate. Nonostante le alterne vicende anche successive all’installazione del parafulmine, l’enorme sfera dorata è oggi ancora la stessa forgiata nel 1602 dall’orefice Manetti e vanta quindi 415 anni. Per il restauro dell’opera del Verrocchio furono convocati a Firenze i più valenti orefici dell’epoca e la commessa fu affidata, infine, all’artista-orafo Matteo, il quale, per il fatto di essere stato onorato a compiere questo prestigioso lavoro, non chiese alcun compenso. Il lavoro di restauro fu concluso il 18 settembre 1802, dopo appena un mese di lavoro e, per l’eccezionale perizia dimostrata, l’artista fu insignito del titolo di “Orefice dell’Opera del Duomo”. Veniamo, dopo questa avvincente storia della sfera, al meno noto, oserei dire sconosciuto, “disco di marmo bianco”, posto sulla pavimentazione di fianco al Duomo. Lo si calpesta ogni volta che camminiamo sulla grigia pavimentazione attorno a Santa Maria del Fiore, magari scansandolo per rispetto, senza peraltro, sapere che quel “tondo” altro non è che la testimonianza di quell’evento temporalesco che fece cadere la nostra preziosa palla, esattamente in quel punto. Per chi desidera ammirare le vestigia di quell’evento, il tondo bianco che lo rammenta è collocato sul retro di Piaz-

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za del Duomo, davanti all’ingresso del Museo dell’Opera del Duomo, nella parte posteriore destra della Cattedrale (guardando la facciata), ossia nello slargo in cui sfociano via del Proconsolo e via dell’Oriolo, già Canto de’ Bischeri. Basta infatti individuare l’unico lato “completato” con la galleria in marmo bianco di cui Michelangiolo ebbe a dire che sembrava una gabbia per i grilli, che alla base di quel lato, ad una ventina di metri, si trova il segno che commemora la caduta della palla. Onestamente non capisco, come a distanza di decenni (eufemismo), nessuno degli amministratori abbia pensato di incidere la motivazione per la quale il cerchio di marmo si trovi proprio lì. Evidentemente i vecchi fiorentini conoscono per filo e per segno il perché di quel “cerchio”, ma i più, specialmente gli stranieri, non ne capiscono il significato. Isolata in mezzo ai classici blocchi di pietra grigia che compongono l’intera pavimentazione della piazza dedicata, la sua collocazione salta all’occhio all’osservatore attento, non solo perché completamente “fuori contesto” rispetto al resto del lastricato, ma anche perché la sua peculiare posizione non lascia indovinare in nessun modo la sua funzione e, d’altra parte, la lastra circolare è completamente liscia e, come dicevo poc’anzi, senza iscrizioni esplicative che aiutino il visitatore a capirci qualcosa.


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Personaggi

Walter Savage Landor Massimo De Francesco

San Domenico di Fiesole: Villa La Torraccia. (Fotografia di Moreno Vassallo).

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alter Savage Landor nasce a Warwick, nel Warwickshire, il 30 gennaio 1775, da Walter Landor, medico ed erede di una vasta tenuta nello Staffordshire, e da Elizabeth Savage, seconda moglie del padre. Studia nella prestigiosa Rugby School (luogo che ha visto nascere l’omonimo sport) dove si distingue per il suo talento nello scrivere versi in latino e per… l’indisciplina. Il latinista Samuel Parr lo affianca come suo mèntore non ufficiale, seguendolo negli studi. Landor e Parr rimarranno amici sino alla morte di quest’ultimo (1825). Landor è noto per la sua irascibilità. Questa inclinazione all’ira lo caratterizzerà per tutta la vita e gli costa l’espulsione dalla Rugby School. Nel

1792 si iscrive al Trinity College di Oxford da cui viene espulso per aver sparato un colpo di arma da fuoco contro le finestre di un esponente del movimento politico conservatore. Nel prestigioso ateneo Walter è ricordato da Robert Southey, suo futuro corrispondente, con il soprannome di “Folle Giacobino”. Dopo una lite col padre e lasciata la famiglia, nel 1795 pubblica, a Londra, il primo volume di poesie con il titolo The Poems of Walter Savage Landor. Nel 1802 raggiunge Parigi, dove si rafforza nelle sue idee rivoluzionarie e pubblica Poems by the Author of Gebir, ispirato dal suo precedente poema epico, Gebir. L’impulsività lo costringerà, nel 1808, a partire alla volta della Spagna per

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arruolarsi nella Guerra Peninsulare contro l’invasione napoleonica, ma rientra in Inghilterra dopo pochi mesi, deluso per non aver potuto combattere; tuttavia riceve il grado onorifico di colonnello, titolo al quale rinuncerà poco dopo. Il soggiorno in Spagna gli suggerisce la tragedia in versi Count Julian. Nel maggio 1811 sposa Julia Thuillier, figlia di un banchiere svizzero fallito, dalla quale avrà quattro figli. Nel 1815 partono per la Francia dove rimangono fino all’ottobre dello stesso anno. A Como, da poco raggiunta, vede la luce il primogenito Arnold. Qui scrive versi contro il poeta Vincenzo Monti in risposta a un suo sonetto anglofobo. Il poeta minaccia il magistrato cui Monti si era rivolto; la coppia viene allontana dalla Lombardia. La mèta successiva è Albàro (Genova). Da qui decidono di fermarsi a Pisa che Landor trova «infestata dagli inglesi, dagli irlandesi e dalle zanzare». Nella città toscana nasce la secondogenita Julia, e compone Idyllia Heroica Decem, una raccolta di poesie in latino che pubblicherà nel 1820. Durante un breve soggiorno a Pistoia, raggiunta nel 1819 per fuggire, illudendosi, al caldo estivo di Pisa, ancora una volta l'irruenza lo trascina in un diverbio con il rappresentante del Buon Governo (il Commissario di Polizia). Per questo motivo, la famiglia rientra a Pisa. Nel 1821 si stabiliscono a Firenze. Fra quest’anno e il 1827 abitano in via della Scala, dove Landor affronta un contenzioso con il proprietario dell’appartamento, il quale si rivolge al Commissario di polizia. La famiglia continua a traslocare. Nel primo soggiorno fiorentino, Lan-


dor inizia a scrivere la sua opera più celebre Conversazioni immaginarie (Imaginary Conversations of Literary Men and Statesmen), raccolte in cinque volumi. Il poeta immagina una serie di dialoghi fra personaggi storici illustri, pubblicati intorno al 1824-’29. In questo quinquennio gli nascono i figli Walter e Charles, e nel 1828-’29 la famiglia occupa un appartamento nello storico palazzo Giugni, opera dell’Ammannati, in via degli Alfani 48. (Landor scrive: «I fiorentini sono allegri e rumorosi come le cavallette»). Molte le residenze prese in affitto dal poeta, soprattutto nelle campagne circostanti Firenze, per evitare la calura estiva della città. Per questa esigenza nelle estati del 1822 e del 1823 alloggia fra il Poggio Imperiale e le colline di Arcetri, a Villa Curonia. Sempre dall’Autorità di Polizia, nell’aprile 1829 viene temporaneamente “esiliato” a Bagni di Lucca,

ma rientra a Firenze nel giugno del medesimo anno. Acquista Villa Gherardesca a San Domenico di Fiesole, dove, nel 1833, riceve il filosofo bostoniano Ralph Waldo Emerson (la villa, detta La Torraccia, dal 1974 è la sede storica della Scuola di Musica di Fiesole). Firenze conta numerosi residenti inglesi, ma lo spigoloso carattere di Landor non lo propizia per socializzare con i conterranei e nemmeno con i vicini di casa. «Sono l’unico inglese, a Firenze, a non aver mai frequentato la sua corte [del Granduca] e non l’ho mai salutato». Tuttavia ama la città, e conferma di aver qui trovato «la miglior acqua, aria e olio del mondo». I continui diverbi con la moglie sono la causa della loro separazione. Nel 1835 lascia Firenze. Torna in Inghilterra per dimorare a Bath, dove trascorre i successivi venti anni componendo numerose opere: fra queste Pericles and Aspasia (1836), il Pen-

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tameron and pentalogia (1837), una serie di colloqui impossibili fra Boccaccio e Petrarca nei quali i due poeti disquisiscono con Dante. Ancora in patria scrive Poemata et inscriptiones (1847), la sua opera latina più importante. Pubblica altri lavori; incontra le più diverse personalità della letteratura vittoriana: fra queste il poeta Alfred Tennyson e il celebre romanziere Charles Dickens. Nel 1858 rischia una querela per diffamazione, e una considerevole condanna pecuniaria lo costringe a tornare in Italia, dove prosegue a litigare coi familiari. La ex moglie lo allontana energicamente. Tuttavia, per avere donato tutti i suoi beni ai figli, si riduce alla miseria. La salute è malferma. Aiutano l’ultraottantenne letterato gli amici Robert Browning e sua moglie Elizabeth Barret Browning, la celebre poetessa, dal 1845 residenti a Firenze nella vicina piazza San Felice 8. Elizabeth Wilson Romagnoli, ex domestica dei Browning, si occupa di Landor durante la maggior parte di questa ultima fase della sua vita, assistendolo nella modesta abitazione di via della Nunziatina, l’odierna via della Chiesa nel quartiere di San Frediano, dove passeggia stancamente con il suo cane. Qui si spegne in povertà il 17 settembre 1864. È sepolto nel Cimitero detto degli Inglesi, nel piazzale Donatello.

L'abitazione fiorentina in via della Chiesa 83, dove il poeta Walter Savage Landor visse e morì. (Fotografia di Moreno Vassallo). Palazzo Giugni, opera di Bartolommeo Ammannati. (Fotografia di Moreno Vassallo).


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intervista

Dostoevskij a Firenze lo scrittore vi soggiornò nel 1862 e tornò nel 1868 Roberto Mascagni

Valentina Supino (Fotografia di Niccolò Ridolfi di Montescudajo).

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ono nel giardino di Valentina Supino; di fronte a noi si distende, come una scenografia teatrale, il panorama delle colline fiorentine. Vediamo Pian dei Giullari dove visse Galileo e, a ponente, Bellosguardo, soggiorno di Ugo Foscolo. Più lontano ecco il profilo della montagna pistoiese e quello delle Apuane. Quale è il suo legame con Firenze? «È un legame familiare poiché già mio nonno, Igino Benvenuto Supino, storico dell’arte, fu il primo direttore del Museo del Bargello dal 1896 al 1906. Anche mio padre Giulio, titolare della cattedra di ingegneria idraulica al Politecnico di Bologna, città nella quale sono nata, fu per molti anni presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Firenze, e dopo l’alluvione del 1966 fu anche presidente della Commissione

per la regimazione dell’Arno». Lei vive a Firenze? «No, vivo a Parigi per la maggior parte dell’anno, perché là mi sono sposata e ho esercitato la professione di psichiatra e psicoanalista: sia come primario ospedaliero che come consulente, per trenta anni, alla Salpêtrière». Oltre a una cinquantina di articoli su riviste specialistiche, Valentina Supino ha scritto, in francese, due saggi: L’enfant mal-aimée (Parigi, Flammarion, 1999, tradotto in spagnolo e portoghese) e Habiter sa maison intérieure (Parigi, Fayard, 2004). Inoltre I soggiorni di Dostoevskij in Europa e la loro influenza sulla sua opera (Edizioni LoGisma, 2017). Altri due articoli dedicati a Dostoevskij sono stati pubblicati nel 2010 e nel 2016 nella rivista «Antologia Vieusseux». Perché si è tanto occupata di Dostoevskij? «Il mio interesse per Dostoevskij è una lunga storia a puntate che risale all’adolescenza quando trovai nella biblioteca di mio padre I fratelli Karamazov e ne rimasi così colpita che iniziai subito a leggere tutta la sua opera». Quando Dostoevskij si reca a Firenze per la prima volta? «Vi trascorse una settimana nell’agosto 1862 dopo aver scontato dieci anni di esilio in Siberia, ivi condannato per motivi politici. Era il suo primo viaggio nell’Europa Occidentale, quando visitò Berlino, Dresda, Francoforte, Heidelberg e Colonia. Ma anche Wieisbaden, Baden-Baden, Parigi, Londra e Ginevra, dove lo raggiunse il filosofo Strachov. Passando per Lucerna, Torino, Genova e Livorno arrivò finalmente a Firenze dove alloggiò, insieme con l’amico, nella

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Pension Suisse, in via Tornabuoni, all’angolo con via della Vigna Nuova. Dostoevskij occupò la camera n. 20». Come Dostoevskij trascorre le giornate a Firenze? «Passeggia per le strade, osserva la gente e, davanti a una ragazza, a una donna che allatta o a un vecchio che si appoggia a un bastone fantastica sulla loro vita. Non visita i musei né le opere d’arte che allora non lo interessavano. Legge I miserabili di Victor Hugo, appena pubblicato e si iscrive al Gabinetto Vieusseux dove trova la stampa straniera e i giornali russi». Ci sono noti altri soggiorni fiorentini di Dostoevskij? «Sì, lo scrittore vi abitò dalla fine del novembre 1868 al 22 luglio 1869, soggiorno a cui si riferisce una lapide posta sopra il portone di piazza Pitti 22: In questi pressi / fra il 1868 e il 1869 / Fedor Mihailovic Dostoievskij / compì il romanzo L’Idiota. L’epigrafe è piuttosto anomala e mi fece capire che la casa dove lui abitò non era quella. Era stata apposta nel 1953 e, non conoscendo allora il suo alloggio ci si era basati sul diario della seconda moglie, Anna, dove si legge: “A Firenze, abitavamo nei pressi di Piazza Pitti”». Dove ha vissuto veramente lo scrittore durante gli otto mesi trascorsi a Firenze? «Uno studioso russo Nikolaj Prošogin, nel 1981, ha scoperto nei registri dei soci del Gabinetto Vieusseux, che Dostoevskij si era iscritto il 16 dicembre 1868, e aveva dato come indirizzo: Via Guicciardini 8, secondo piano. Negli archivi parrocchiali di Santa Felicita, ho scoperto che viveva lì una certa Contessa Succhini un’affittacamere ed è dunque sicuramente da lei che lo scrittore alloggiò».


Come è noto, quasi tutta via Guicciardini, e le strade adiacenti al Ponte Vecchio, furono distrutte dalle mine delle armate germaniche in ritirata. Le esplosioni avvennero nella notte fra il 3 e il 4 agosto 1944, per non distruggere il ponte ma tuttavia per impedirne l’accesso. Se confrontiamo le foto scattate dopo la distruzione degli edifici con alcune immagini eseguite probabilmente nei primi anni del Novecento, ci accorgiamo che, miracolosamente, solo la facciata del numero 8 e parte di quella del numero 10 rimasero in piedi e, nel dopoguerra, con l’apertura di via Barbadori, furono fusionate e oggi portano il numero 2. Durante il soggiorno in via Guicciardini lo scrittore termina L’Idiota, forse il romanzo più autobiografico. Attribuisce al principe Myškin, suo alter-ego, molti dettagli della propria

vita? Qual è la trama del romanzo? «La storia inizia con un viaggio di ritorno in Russia del protagonista, viaggio che lo scrittore stesso desidera ardentemente poiché ha molta nostalgia della patria lontana. Il principe Myškin che soffre di epilessia somiglia all’autore, e proprio come Dostoevskij, è un bravo calligrafo. C’è, in questo romanzo, la descrizione della sua condanna a morte e della grazia concessagli all’ultimo momento dall’Imperatore; poi lunghe pagine sull’impressione provata, alla Pinacoteca di Basilea, davanti al quadro di Holbein, Il Cristo morto, all’origine di una lunga riflessione sulla fede e sulla morte». Continua Valentina Supino: «Rilevare questa maniera di proiettare i fatti della sua vita immediatamente nella storia che sta scrivendo mi ha permesso di intuire che il prestito del volume di Mme Bovary di Flaubert che attribuisce alla protagonista Nastas’ja, era in realtà lui stesso che lo aveva preso in prestito alla Biblioteca Vieusseux il 4 gennaio 1869, proprio nel momento in cui scriveva quelle pagine». Come si svolge questo secondo soggiorno? «A differenza della sua prima visita, questa volta Dostoevskij si appassiona all’arte e va a visitare monumenti e musei. Il Duomo e il Battistero lo affascinano, soprattutto la porta di levante, quella del Ghiberti, che Michelangelo definì “degna del Paradiso”. Rimane colpito dalla Madonna della seggiola e dal San Giovanni nel deserto di Raffaello, poi dalla Venere dei Medici agli Uffizi e da “tante altre meraviglie”. Inoltre, Firenze è for-

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se l’unica città visitata durante il suo esilio (era fuggito dalla Russia perché condannato alla prigione per debiti), della quale Dostoevskij fa gli elogi. “Quando splende il sole, è quasi il paradiso”, scrive all’amico, il poeta Majkov». «Ma lo scrittore – spiega Valentina Supino – non rimane sempre in via Guicciardini. Nel febbraio-marzo 1869, sperando di trovare presto il denaro per poter tornare in Russia, cerca un altro alloggio. Dai registri parrocchiali di Santa Felicita apprendiamo che «per alcuno mese», ha abitato presso il principe Antonio Bonaparte in via dei Bardi 31, così come appare che abbia chiesto una messa al parroco che gliela rifiuta poiché lui è ortodosso. Verso la primavera inol-

trata, ma non sappiamo esattamente la data, si trasferisce al numero 1 di piazza del Mercato Nuovo, in una stanzetta al terzo piano, da dove ammira la loggia rinascimentale, ma soffre della calura estiva. Qui rimane fino al 22 luglio 1869 quando parte per Dresda. E dagli archivi parrocchiali della chiesa dei SS. Apostoli e S. Biagio, apprendiamo che ha chiesto una benedizione al parroco». Sono importanti queste nuove conoscenze? «Certo, hanno fornito particolari interessanti sul soggiorno fiorentino dello scrittore, ma molte cose restano ancora da scoprire: sulle date esatte delle sue abitazioni, sui suoi mal documentati legami col principe Antonio Bonaparte, sulle sue frequentazioni in città e sui suoi rapporti così ambivalenti con la chiesa cattolica».

Le abitazioni di Dostoevskij a Firenze: in alto a sinistra in via Guicciardini; in piazza del Mercato Nuovo 1; e, davanti all’Arno, in via dei Bardi 31. Il palazzo era di proprietà del principe Antonio Bonaparte.


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storia

Orso Fianco di Ferro e Tamaris

leggende e racconti sulla distruzione di Luni dell’859 Paola Ircani Menichini

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lier Costa di ferro ed Astecche / venner di Divismari e Luna sfenno …”. I gradevoli versi fanno parte di una ballata ricordata nelle Croniche di Giovanni Sercambi, speziale e scrittore vissuto a Lucca tra Tre e Quattrocento. Si riferiscono all’impresa perpetrata nell’859 d.C. contro Luni di Val di Magra da un principe vichingo di nome Bjoern, cioè Orso, detto Jerside ovvero Fianco di Ferro (che non poteva essere perforato), appellativo che già di per sé manifestava tutto un programma. Era il figlio del leggendario re di Danimarca Ragner detto Lothbrock (Brache pelose). Astecche invece era Hasting o Hadding, l’intelligente ma scellerato consigliere di Bjoern durante le spedizioni marittime che i vichinghi danesi compivano di frequente nel IX secolo, spadroneggiando su terre e isole d’Europa, compresa l’Inghilter-

ra. Di conquista in conquista, la loro ambizione era diventata sempre più sfrenata tanto da prendere di mira il mar Mediterraneo. L’impresa iniziò nell’857. I danesi compirono i consueti sacrifici umani al dio Thor e s’imbarcarono sui loro veloci vascelli. Dapprima gettarono le ancore in un porto del Vermandois in Francia. Quindi percorsero le valli della Somme, della Senna e dell’Escaut. Senza pietà uccisero chi osava fare loro resistenza; trucidarono poi donne, anziani e bambini, bruciarono case, devastarono campi di grano, misero a sacco conventi, atterrarono chiese, solo per il gusto di farlo. Non si accontentarono della Francia. Il successo della spedizione indusse Hasting a coltivare nella mente l’audace pensiero di conquistare Roma e di incoronarvi Bjoern come re. Così nell’anno 859 fecero vela per il golfo di Guascogna, la penisola di Spagna

L’attore Alexander Ludwig che dal 2014 interpreta Bjorn Ironside (Orso Fianco di Ferro) nella serie televisiva canadese Vikings trasmessa su History Channel. Sito archeologico di Luni a Ortonovo di Sarzana, foto tratta da: https://www. localidautore.it/paesi/luniortonovo-2270.

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e risalirono il Mediterraneo. Arrivati di fronte a Luni, presero un abbaglio e, vedendola ben fortificata e di bell’aspetto, la scambiarono per Roma. I vichinghi d’altronde non conoscevano l’Italia ed erano stanchi di navigare senza profitto. Per questo Hasting non pose tempo in mezzo e progettò un piano raffinato e feroce. Dapprima, tramite ambasciatori, si propose umilmente ai cittadini come un pacifico navigatore che una tempesta aveva costretto alla fame e a chiedere aiuto per sé e i suoi uomini malati. Poi domandò il battesimo per il suo signore moribondo. È vero, era uno straniero, ma soggiornando in Francia “intellexit de mundo iam transiturus”, aveva capito che da questo mondo era di passaggio. Narra la storia come, piuttosto ingenuamente, Guidone vescovo della città, si lasciasse convincere e non rifiutasse il soccorso ai naviganti e l’offerta dell’anima pagana, anche se volle che l’iniziazione cristiana si compisse nel battistero. Hasting accettò e lui stesso si fece condurre nel luogo e battezzare al posto del re. Ritornato alla nave, il giorno dopo mandò gli ambasciatori ad annunciare che il sovrano era morto e che aveva lasciato un cospicuo tesoro alla cattedrale, chiedendo la grazia del suffragio e della sepoltura. Non sospettando il nuovo inganno, il vescovo ordinò che i prelati, i cavalieri, le fanciulle e le matrone andassero incontro al cadavere del defunto e lo ricevessero presso il mare. La cattedrale presto fu gremita dalle autorità e dai cittadini desiderosi di commentare lo straordinario avvenimento. Hasting stava sdraiato come esanime sul feretro d’oro splendente. Ma, finito l’ufficio funebre, ci fu la sorpresa: inaspettatamente il defun-


to “risorse” con la spada in mano e i danesi, non più malati, presero a loro volta le armi e si scagliarono contro i presenti. Non ebbero pietà. Decapitarono il conte e il vescovo e uccisero tutti quelli, sia uomini che donne, presenti nell’edificio. Quindi si insediarono in città, incoronarono Orso come re e fecero una gran festa sulle rovine della presunta Roma. I giorni seguenti ammazzarono e derubarono gli abitanti dei dintorni, portando sulle navi un gran tesoro, quasi increduli che la Città Eterna e i suoi combattenti si fossero arresi così facilmente. Allorché seppero la verità e che mai avrebbero potuto abbattere la Roma reale, si accontentarono di quanto razziato e ripresero la rotta verso in nord. In prossimità dell’Inghilterra una tempesta sconquassò le navi e impedì loro di sbarcare. Ebbero anche la notizia della morte del fratello di Bjoern che tornò in Danimarca per farsi incoronare 1. La storia di Orso e delle imprese dei vichinghi appartiene ad alcune leggende diffusesi attraverso l’Islanda e la Norvegia fino in Inghilterra, in Francia, in Spagna e in Italia, dove però ne giunsero solo gli echi, almeno nel Medioevo. Su Luni infatti ebbe una certa fortuna una variante popolare e forse più consona agli uomini del tempo. Giovanni Sercambi la riportò nel suo Novelliere, in un racconto incompiuto, il n. 156, intitolato De pauco sentimento domini della città di Luni: fue distrutta per una femina. La trama narra del re di Danimarca Astech e della regina sua sposa Tamaris che con «bella compagnia» e tante galee intrapresero un viaggio nelle città d’Europa. Giunsero a Luni che subito piacque loro «per lo bello sito». Si sistemarono quindi in un albergo, dove trascorsero il mese di giugno nella reciproca contentezza. L’albergatore, che era un giovane ricco di nome Martino Bonvete, però

si innamorò della regina e la indusse in tentazione. Tamaris pure si invaghì di lui e, non potendolo avere, cadde nella malinconia fino ad ammalarsi. Più il tempo passava e meno aveva pace. Non potendone più, insieme a Martino, progettò e attuò un piano crudele (come Hasting nel secolo IX). Si finse morta grazie a un “beverone” speciale e l’amore del re fece il resto. Vedendola esanime, Astech la compianse con ogni sua lacrima, la fece seppellire in un «monimento nuovo» (una tomba di pietra dove poteva respirare) e ripartì per la patria. Quando le navi furono oltre l’orizzonte, Tamaris uscì dal sepolcro e liberamente si unì a Martino. Il re però fu informato dell’inganno e l’anno dopo tornò a Luni con Alier. Ovviamente i due principi disfecero la città incolpevole 2. Due brevi commenti alla vicenda. La memoria della distruzione di Luni si mantenne viva per secoli e questo fu dovuto allo stupore dei contemporanei, quasi al limite dell’incredulità. Era infatti una progredita e non mediocre civitas del nobile impero di Roma, rinnovato e diventato sacro con Carlo Magno nell’800, sotto il cui ambito e diritto i suoi abitanti giudicavano di vivere felici e onorati. Ospitava una contea e una diocesi. Le sue mura di difesa erano imponenti. Lavoratori e commercianti beneficiavano del mare e delle vie oltremontane che favorivano gli scambi e apportavano benessere. Mai qualcuno nel mondo medievale avrebbe potuto pensare alla sua repentina rovina ad opera di predatori stranieri. Tuttavia «l’impossibile» accadde grazie all’inganno non nuovo del “cavallo di Troia”, secondo le leggende nordiche. La fine di Luni divenne un insegnamento e un monito. Nella Divina Commedia Dante la propose ad esempio dell’inesorabile transitorietà delle cose terrene e dello sterile orgoglio delle schiatte. “Se tu riguardi Luni ed Urbisaglia / Come son ite,

e come se ne vanno … non ti parrà nuova cosa né forte / poscia che le cittadi termine ànno”, suonano i celebri versi in bocca a Cacciaguida nel canto XVI del Paradiso. In alcune terzine precedenti l’avo del Poeta aveva biasimato la vanagloria degli uomini che si autocelebrano come eredi della nobiltà del passato. Usando una metafora l’aveva paragonata ad un mantello che presto si accorcia, se non viene di giorno in giorno allungato con l’aggiunta di altra stoffa … (cioè, se non sono virtuosi anche i discendenti degli uomini illustri)3. Note 1 Un libro accurato nelle fonti e nella cronologia è La distruzione di Luni nella leggenda e nella storia. Ricerche di Giovanni Sforza, Torino 1920. Nell’849 Luni aveva subito un’incursione dei Saraceni ma non era stata distrutta. 2 Giovanni Sercambi (1348-1424), Il Novelliere, CLVI, anche in https://www.liberliber. it/mediateca/libri/s/sercambi/novelle/pdf/ novell_p.pdf; “Croniche”, Roma 1892. 3 Paradiso XVI, 7-9: «Ben se’ tu manto che tosto raccorce: /sì che, se non s’appon di dì in die, / lo tempo va dintorno con le force»; 73-78: «Se tu riguardi Luni ed Urbisaglia …» eccetera.

Disegno di una nave vichinga, tratto da: https://it.pinterest.com/ pin/479774166543824300/ Elmo vichingo, senza le caratteristiche corna (in realtà solo dell’Età del Bronzo), che erano impraticabili in battaglia. Il mito delle corna vichinghe nacque nel XIX secolo. https://www.dr.dk/ nyheder/kultur/historie/ her-er-vikingernes-femfavoritvaaben Gioielli vichinghi, Museo Nazionale Danese di Copenaghen.

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LIBRO

S o u venir

di Maurizio de Giovanni I bastardi di Pizzofalcone indagano a Sorrento Irene Barbensi

Peccioli, giugno 2016 Maurizio de Giovanni

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aurizio de Giovanni con il suo ultimo romanzo Souvenir per i Bastardi di Pizzofalcone, pubblicato da Einaudi Stile Libero, racconta con abile fluidità una storia noir tra colpi di scena e rimpianti, in una malinconica atmosfera di ottobre. Il lettore viene condotto in un viaggio nei ricordi che non manca di scavare nei conflitti tra generazioni e che restituisce la storia di un amore che dal 1962 arriva intatto ai giorni nostri. Una storia in bilico tra ieri e oggi, tra Hollywood e Sorrento, tra genitori e figli. L’indagine porterà per la prima volta la squadra investigativa fuori da Napoli, sul Golfo di Sorrento, tratteggiato con struggente malinconia. Ed è questo lo scenario della storia di Charlotte Wood, diva holliwodiana ormai anziana, e Mimì, “l’amore di una notte” sulla spiaggia

incantata. Un uomo che non rivedrà più, ma che lei non dimenticherà mai. Il corpo del figlio dell’anziana attrice verrà ritrovato privo di sensi dopo brutali percosse e la vicenda scorrerà con un impianto narrativo ineccepibile, ben strutturato come l’epilogo. Non mancano spunti di riflessione sui legami familiari, né de Giovanni manca di mostrarci spaccati delle vite dei suoi personaggi seriali. Ci sono notti che durano per sempre e, semplicemente, de Giovanni ce ne racconta una. Una notte dove la luna si fa largo tra ricordi e pensieri, illuminando una esistenza intera… anzi, non solo una. “E ottobre scorre piano, tra promesse e disillusioni, tra passato e futuro. Niente come ottobre, per riproporre un antico souvenir. Nessun souvenir vale un ottobre. Perché è ottobre stesso, un souvenir. Tic. Tac.”

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LIBRO

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Franco Luciana

GENTILINI

una vita oltre C

osì recita l'incipit della nota in quarta di copertina di Una vita oltre (Silvana Editoriale, 2017). Ruolo non facile, la vedovanza. Tanto più se il pittore in questione lascia l’eredità materiale e spirituale d’un nome e di un’opera importanti. Bisogna imparare alla svelta come funziona e da chi è popolato il mondo dell’arte. Occorre grande oculatezza e intelligenza di scelte e intraprese, nel sistema dell’arte, se si vuole sottrarsi alle trappole dei molti “operatori” interessati – non sempre attivi nella trasparenza dei comportamenti e delle proposte – e ulteriormente promuovere e rappresentare i valori ereditati dalla novella vedova, spesso sprovveduta. Assediata da proponenti e postulanti subito dopo la scomparsa del marito, il “mestiere” di vedova è stata costretta a impararlo presto e bene Luciana (Giuntoli) Gentilini,

l’autrice di Una vita oltre, e metto tra parentesi il patronimico perché mai compare nelle pagine del libro. Che è, in fondo, un’autobiografia il cui fil rouge, fin dalla prima giovinezza dell’incantata Luciana, è stato l’artista al quale le circostanze della vita dovevano destinarla come sposa. Invero, nelle poche pagine d’apertura nelle quali si presenta al lettore, Luciana Gentilini dice l’essenziale di sé, della propria personalità, della propria storia di donna. Significativo il fatto che molta parte di quel che lei considera fondamentale per tracciare il proprio profilo e definire lo svolgimento e il senso della propria vita, riguarda il suo rapporto intimo e quotidiano, simbiotico e identitario con Franco Gentilini, per cui questo libro è in ogni sua parte evocativo della sua presenza, dunque una testimonianza d’amore, in vita e in morte, e “oltre” nella durata della memoria e della sua proiezione nel futuro. Diffusa presenza, poi, nei trentuno capitoletti che intitolati “Gli amici”, costituiscono il corpo del libro. Si tratta di immagini e annotazioni relativi ad incontri dei Gentilini con letterati e artisti di primo piano, italiani e stranieri, che hanno costellato l’universo culturale e relazionale del pittore e costituito per Luciana un'importante palestra formativa. Quelle annotazioni che oggi per la prima volta vengono pubblicate, Luciana Gentilini a suo tempo le affidava, fresche di impressioni sensazioni riflessioni vissute a ogni incontro, alle pagine d’un diario che ha tenuto dal 1971 al 1981, l’anno nel quale divenne la vedova, appunto, di Franco Gentilini. Le suggerì di scriverle, intuendone

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l’interesse anche documentario che avrebbero avuto nel seguito degli anni, Augusto Augustinci, direttore della galleria parigina Rive Gauche dove Gentilini aveva ripetutamente esposto. Gentilini non seppe mai del diario di Luciana, composto di tanti siparietti su Ungaretti, Sinisgalli, Petroni, Manzini, Chiara, de Chirico, Gualtieri di San Lazzaro, de Mandiargues, Waldberg, Music, per dire di alcune delle tante assidue frequentazioni d’un pittore particolarmente sensibile ai valori della letteratura e della poesia.

Margherita Casazza

Autoritratto, 1981 Galleria degli Uffizi Gentilini, Milena Milani e Ungaretti alla XXXIII Biennale di Venezia, 1966

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NOVITà EDITORIALI

N

el paese di Polpet vive una giovane cuoca di nome Adelina, che lavora in una locanda insieme alla sua amica Genesia. Il paese è attraversato da un antico sentiero che porta a San Ramingo, protettore delle anime perdute. Adelina cucina per i pellegrini – di nascosto dai proprietari della locanda – una polpetta speciale, che non finisce mai. Una sera alla locanda arriva Elido, signore di Rocca Minata, conosciuto da tutti per essere un poco di buono. Sorprendentemente, anchc'egli intende recarsi a San Ramingo, e si presenta da Adelina. Ma non cerca la polpetta speciale, cerca proprio la cuoca. Da quel momento la protagonista vivrà una serie di magiche avventure, tenere e dolorose, che la porteranno lontano. Troverà l'amore e se stessa?

PINCIPESSA DE NADA Y EL MALO

Lucamaria Bacchereti Porto Seguro

RACCONTO

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a guida completa per allenarsi in casa utilizzando solamente il divano. Con la prefazione di Piero Chiambretti: Prova, mal che vada ti sdrai e dormi. Obiettivo: convincere anche i più pigri a muoversi, eliminando tutte le scuse più comuni e utilizzate per non fare sport. Con questo libro crollano tutte le scuse, perché gli autori propongono una serie di esercizi da poter praticare in qualsiasi momento della giornata con l’ausilio del solo divano. È una pratica guida illustrata in cui gli autori, gli esperti di scienze motorie Luciano e Stefano Gemello, hanno racchiuso in poco più di 150 pagine gli esercizi più efficaci che permettono di muovere i 654 muscoli scheletrici.

La ginnastica da divano di Luciano e Stefano Gemello Edizioni Lswr

società

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n’opera ricchissima di testo e immagini inedite che condurranno i lettori in un viaggio dentro la testa di Jovanotti. Un lungo diario di lavorazione del disco nuovo di Lorenzo. 80 pagine di avventure ai confini della realtà. Il libro è pubblicato in concomitanza con Oh, vita!, il disco di Jovanotti prodotto da Rick Rubin (uno dei più grandi produttori musicali di tutto il mondo). Un nuovo progetto editoriale, fortemente voluto da Jovanotti per accompagnare armoniosamente la sua nuova musica. Un’opera unica per scoprire attraverso le sue parole e il suo mondo le ispirazioni dell’artista più innovativo del nostro tempo. Sbam! è anche il titolo di un pezzo del nuovo album Oh, vita!, grande avventura umana e musicale. Sbam! è l'improvviso convergere di infinite linee in un nuovo big bang, un po' più big e un po' più bang. Sbam! è questo libro, che è anche una raccolta di racconti e visioni di autori di diversi mondi.

SBAM! Il diaro di viaggio di Jovanotti MONDADORI

MUSICA

I

l pediatra Alberto Ferrando fornisce anche consigli utili per i capricci a tavola, per i disturbi alimentari, per un’alimentazione biologica e adatta all’attività fisica. Il manuale, scritto con linguaggio semplice da uno specialista che da quarant’anni è a contatto con le aspettative e i timori dei genitori legati all’alimentazione, è dedicato anche ai nonni, alle baby sitter e agli insegnanti. A chi, quindi, è interessato al tema della nutrizione del bambino. ’autore risponde ai dubbi più frequenti su allattamento, svezzamento, fabbisogno nutrizionale e si concentra sui primi 1000 giorni di vita dei bambini, periodo fondamentale, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, per formare corretti stili di vita alimentari e per prevenire malattie nell’età adulta.

MEDICINA

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COME NUTRIRE MIO FIGLIO di Alberto Ferrando

Edizioni Lswr

Angelo Errera

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LIBRI

J L m

a gine

Quando una canzone diventa un libro per ragazzi

Giorgio Banchi

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magine è la canzone più rappresentativa di John Lennon solista e viene considerata uno dei più grandi capolavori della musica pop di tutto il mondo. Il celebre pezzo, un vero e proprio inno alla pace e alla solidarietà tra gli uomini, diventa un coloratissimo libro per ragazzi. Il testo è illustrato da Jean Jullien con la traduzione di Altan e la prefazione di Yoko Ono, moglie altrettanto famosa del compianto John, e pubblicato da Gallucci Editore. Una parte dei proventi delle vendite sarà devoluto ad Amnesty International, organizzazione da sempre impegnata a livello internazionale nella difesa dei diritti umani. Il libro, come la famosa canzone entrata di diritto nell’immaginario musicale di ognuno di noi, porta un messaggio

di pace ed è un invito alla tolleranza ed al rispetto tra i popoli. I bambini di oggi saranno gli adulti di domani e il volume si snoda in una serie di bellissime illustrazioni dove il protagonista , così come si può vedere già in copertina, è un uccellino che vola portando nel becco il simbolo della fraternità. I colori contribuiscono al forte impatto emotivo e rendono, se possibile, ancora più potente la lirica intensa e pro-

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fonda della canzone originaria, ricolma di una grande speranza nel futuro. La pubblicazione uscirà contemporaneamente in Gran Bretagna, Stati Uniti, Olanda, Germania, Italia, Spagna, Francia, Argentina e Messico Ognuno di noi può contribuire a rendere migliore il mondo. John Lennon con la sua Imagine, prima canzone e adesso libro, continua con dolce fermezza a ricordarcelo.


racconto

gara di racconto L

a Signora Hess, maestra di quinta elementare, ebbe l’ispirazione di sottoporre la sua classe a una gara del racconto. Avevamo una settimana per scriverne uno. La giuria era lei. Il premio era che vincevi tu. Le lezioni di inglese e di storia si trasformarono nelle ore in cui si scriveva il racconto. Signora Hess intanto si occupava delle sue cose. Non era timida. Si rifaceva il trucco come se la cattedra fosse il suo bagno privato. Si spandeva per aria l’odore oleoso del suo rossetto. Sbirciavamo un viso pagliaccioso che si guardava allo specchietto mentre scarabocchiavamo o facevamo finta di pensare alle cose che dovevamo inventare. A scuola ero notorio per raccontare balle. Risate, quando veniva fuori la verità: mio padre non era un domatore di leoni al circo; mia madre non era in carcere per omicidio premeditato. “Ah, non gli manca di fantasia,” dicevano i maestri. Non importa cosa dicessi. Oppure, “Ma è vero ciò che dici, oppure è un’altra delle tue fandonie?” Perlomeno la gara del racconto credevo di averla già vinta. La premiazione era venerdì. Signora Hess ci controllò calligrafia, grammatica, ortografia. Dovemmo mostrarle le bozze, con correzioni in inchiostro rosso. Sentire leggere ragazzi di quinta elementare è una pena. Si accorgono che il loro materiale è spazzatura solo quando è troppo tardi. Mary la rossa, che per giunta era grassa, ci urlò di stare zitti prima di scoppiare in lacrime e rifiutarsi di leggere oltre. Il suo racconto trattava di come le era morta la madre, ma ridemmo comunque. Le storie per la gara dovevano essere di finzione, ma Maria la rossa non riusciva a scrivere altro, perché sua madre era

morta davvero. Quelli che lessero dopo Mary non riuscirono a far ridere, neanche se volevano. Toccò al ragazzo biondo. Aveva stile. Sapeva vestirsi, anche in quinta elementare. Ravviò dagli occhi celesti una ciocca di capelli color paglia e incominciò. Aveva persino una bella voce. Un uomo camminava nella giungla. Lo vedevo. Portava pantaloni corti, e un buffo cappello da esploratore. Avanzava cauto, scostando fronde di palma e liane. Vide un leopardo. Un raggio di sole colpì una pelliccia maculata. Un leopardo dagli occhi verdi stava afflosciato tra i rami di una magnolia in fiore. Il leopardo ringhiò piano, un sussurro di mistero e pericolo. L’uomo sparò al leopardo. E certo che gli sparò. Che altro c’è da fare nella giungla, oltre sparare agli animali? Il tipo col cappello era un cacciatore. Con la pelliccia del leopardo fece un paio di guanti. Proprio lì, nel mezzo della giungla soffocante, il cacciatore posa a terra il fucile e si mette a cucire, con al dito un ditale. Il punto forte del racconto del ragazzo biondo era che l’uomo che spara ai predatori indifesi per confezionare accessori riesce a vendere i guanti di leopardo. Torna spedito nella giungla per accopparne un altro. Crack! Pùmmete! Un leopardo morto equivaleva un paio di guanti, nell’economia precisa e perfetta del racconto. Il cacciatore fa costruire una fabbrica. Da un lato della struttura entrano carogne, dall’altro escono guanti di pelliccia maculata che diventano l’ultimo grido della moda. Felini pericolosi e misteriosi muoiono senza spargimento di sangue né bu-

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della. Esistono affinché un tipo con in testa un berretto da colono possa arricchire. Il mio racconto trattava di un ragazzo che non aveva amici. Va a giocare da solo in una casa abbandonata. Vede un fantasma. Sa che dovrebbe avere paura e scappare, ma, visto che non ha amici, decide di frequentare il fantasma. Nonostante il cartello Vietato Entrare torna nella casa pericolante e buia. Il fantasma, un ex-ragazzo morto non si sa come, insegna al ragazzo vivo come spaventare la gente e scomparire nel nulla. Avrei potuto scrivere che l’invisibilità permette di rapinare banche senza essere arrestati. Avrei dovuto scrivere che il fantasma fornisce al ragazzo solitario, che era anche povero, i numeri vincenti della lotteria. Ma ai soldi non ci avevo nemmeno pensato. Per quanto riguardava la gara del racconto ero morto. I miei effetti sonori di fantasma non spaventarono nessuno. Nessuno voleva credere che una persona vivente possa svanire. Maestra Hess mi accusò di aver copiato dai fumetti, e forse aveva ragione. Ma la cosa peggiore era che anch’io preferivo il racconto del ragazzo biondo. Da grande diventò architetto. Progetta case. La gente le compra, e ci vive dentro.

Matthew Licht

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Andar per

borghi toscani di Lucard & Ciaca

Castello di Velona

CASTELLO DI VELONA

CASTELLO DI VICARELLO

Plurisecolare maniero senese sulla Val d’Orcia, la possente struttura presenta paramento murario con torri angolari. Attraverso due accessi coperti, si scopre una bella corte ingentilita dalla cappella, cisterna, storiche abitazioni addossate alle mura perimetrali, creanti un unicum architettonico decisamente suggestivo.

Struttura difensiva voluta dai senesi nel XII secolo, il Castello vanta due torri quadrangolari e superstiti cortine murarie in pietra. Il borghetto si sviluppa intorno al caratteristico cortile preceduto da una porta ad arco. Nelle vicinanze, l’antica pieve sconsacrata si riconosce dal caratteristico campanile a vela.

WINE&FOOD: Vini pregiati, erbe aromatiche, olio extravergine della tenuta rivivono nelle gustose pietanze regional-méditerranése che coniugano qualità, ricerca, stagionalità, da scoprire presso i ristoranti Il Brunello e Settimo Senso.

WINE&FOOD: Guidata da Aurora Baccheschi Berti, la secolare cucina sfodera prelibatezze stagionali raccolte nell’orto castellare, ma anche carni e pesce rigorosamente locali, naturalmente accompagnati da vini selezionatissimi.

PERNOTTAMENTO: Decisamente lussuose, camere e suite si trovano nel resort ricavato nel castello, riuscito connubio tra storia, tradizione, confort made in Tuscany, ma lasciatevi anche sollazzare dal confortevole centro benessere.

PERNOTTAMENTO: Sottoposto ad attento restauro conservativo, il Castello ha eleganti suite e camere di antiquariato e moderno design. Intorno regnano giardini ed ulivi secolari.

Castello di Veolona Località La Velona 53024 Castelnuovo dell’Abate (SI)

Castello di Vicarello

Castello di Vicarello 58044 Poggi del Sasso Cinigiano (GR)

Villa Campestri

FATTORIA DI MAIANO

VILLA CAMPESTRI

Con vista mozzafiato su Firenze, la quattrocentesca fattoria vanta costruzioni rustiche della arcinota tradizione toscana. A metà ottocento, Sir Jhon Temple Leader ingrandisce l’antico convento in loco con annessi neogotici. Nelle vicinanze progetta il Parco della Regina, romantica location con laghetto ed edifici di sogno.

Circondato da un parco secolare con piscina, il borgo rurale trova apice nella quattrocentesca villa padronale, ingrandita in epoca barocca, la cui facciata vanta un elegante fregio dipinto da Michelozzo Michelozzi e vetrate liberty delle borghigiane Manifatture Chini. Risalente al XIII secolo, il pozzo artesiano rammenta origini fortilizie medievali dell’abitato. WINE&FOOD: Il ristorante L’Olivaia predilige una cucina all’extravergine, inebriante gustosi piatti slow, accompagnati dai buoni vini made in Mugello.

Fattoria di Maiano

WINE&FOOD: Il ristorante Lo Spaccio sforna piatti appetitosi, una goduria di ricette locali chiamate fagioli all’olio, cavolo con le fette, tortelli artigianali al ragù del Chianti, maialino croccante, bistecca alla fiorentina, conditi con ottimo olio della casa ed accompagnati da vino nostrano.

PERNOTTAMENTO: Trasformata in Luxury Olive Oil Resort, villa e dependance possiedono camere, suite, appartamenti decisamente raffinati nell’arredo ed accessori.

PERNOTTAMENTO: Nelle antiche coloniche, convento, torre sono stati ricavati confortevoli appartamenti ed una lussuosa suite, con area relax ed attività varie.

Villa Campestri Via Campestri 19/22 Vicchio di Mugello (FI)

Fattoria di Maiano Via Benedetto da Maiano, 11 50014 Fiesole (FI)

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cartoline

NOËL EN CHAMPAGNE Krug

Carmelo De Luca

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rmonica unità stilistica, la Cattedrale di Reims ostenta quel raffinato merletto architettonico scelto dai sovrani francesi quale augusto luogo consono alle incoronazioni. Rilievi, decorazioni a fogliame, statue ornano pilastri, pinnacoli, portali, i cui gotici interni trovano rischiaro nelle sontuose vetrate affollate da toccanti scene bibliche. Ad esso attiguo, Palazzo del Tau sfoggia elegante architettura barocca ospitante il tesoro ecclesiale, ricchissimo in aurea oreficeria sacra. Intorno, ruota una architettura variegata in vestigia gallo-romane, facciate decò, edifici sacri che trovano nella gotica Abbazia di San Remi compiuta bellezza artistica ed i cui interni custodiscono gelosamente le reliquie del Santo. Mon Dieu, ma Reims e dintorni vantano nelle viscere un patrimonio vocato alle arcinote bollicine, come non averci pensato! Assorte in religioso silenzio, vetuste cave di gesso sorvegliano gelosamente Ruinart Blanc de Blancs, champagne dalla vigorosa forza aromatica generato in purezza

dal vitigno Chardonnay. Premier Cru marcatamente fruttato, il prezioso vino emana profumi iniziali spazianti dagli agrumi alle note esotiche, completando la scala piramidale con note floreali e frutta polposa. Il gusto goloso della Maison trova apice nel Rosé, perfetto melange tra Chardonnay e Pinot Nero elegantemente sensuale, i cui sentori di olezzi alla ciliegia, frutti rossi, spezie, note floreali ne esaltano al naso l’unicità. G.H. Mumm protegge “acquolinosi gioielli” tra un labirinto lungo 25 km ed il turrito Mulino a grandi pale di Verzenay, immerso nei vigneti del miglior Pinot Nero francese, mascolini elogi alla vita effigiati della storica fascia rossa, insomma uno storico brand coniugante stile, equilibrio, freschezza estremamente personalizzati. Sempre in città e nelle amene colline della Champagne, complessi architettonici dal fascino incomparabile ospitano altri nobili Cuvée, come ben sa l’elisabettiano Domaine Pommery, regno di preziose bottiglie contraddistinte da elegante finezza e allegra

GH Mumm

Pommery

leggerezza. Ebbene sì, neogotico british plasma scenografici edifici circondati da rigogliosi vigneti Grand Cru, ma il sancta sanctorum della Maison si trova nella sotterranea cattedrale di 120 cave collegate da gallerie custodenti celebri champagne dal carattere elitario, importanti mostre d’arte contemporanea, monumentali bassorilievi di Navlet. Pater patriae dello champagne, Dom Ruinart

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Moët&Chandon

Pérignon personifica il lusso impresso ai Cuvée de Prestige millesimati, creati da annate eccezionali di uve Chadonnay e Pinot Noir, capaci di generare bollicine in disarmonico equilibrio, perspicace segreto della dinamica energia racchiusa negli eredi dell’inventore Pierre Pérignon, abate in Saint-Pierre d’Hautvillers. Assolutamente da visitare, la celebre abbazia benedettina vanta pregevole chiostro, contrafforti arcuati, campanile ingentilito da bifore. Naturalmente, pensando ai Dom Perignom, ci sovviene il blasonato Moët & Chandon dal carattere pieno e generoso, gusto fruttato, accattivante al palato, insomma un inno alla gioia e allegria, protetto nelle scenografiche gallerie dalle gigantesche pareti in gesso di Epernay. Ne testimonia il lustro l’imponente Napoleon Vault. “Usciti a riveder le stelle”, un curato giardino alla francese con parterre d’eau precede la bellissima Orangerie in perfetto stile Re Sole, aperta per le occasioni che contano. Ma ora dove si va? Che domanda, da Veuve Clicquot! Signora superba, la Casa Vinicola ostenta Cuvée di Pinot Nero, piaceri raffinati, unici per essere audaci, creativi, originali. Degustare siffatte prelibatezze si può nelle cave sotterranee, patrimonio Unesco, scavate sotto al Butte Saint-Nicaise di Reims, alcune delle quali con volte medievali, ricchissime in targhe commemora-

tive, graffiti, incisioni di dipendenti e maestri cantinieri. Estasiati, si fa una capatina da Krug, essenza del puro piacere che si materializza attraverso selezionate riserve Cuvée de Prestige dalla ricercata eccellenza eterna, uno champagne ricco, raffinato, distinto, qualità ricreate annualmente costi quel che costi! A mo’ di galleria, le cave Krug ci catapultano nella perfezione contenuta nelle bottiglie a riposo dai sei ai dieci anni per i millesimati. Ed è nuovamente Epernay a tenere banco con Perrier-Jouët, sinonimo di qualità senza compromessi, champagne floreale, finissimo, prelibato, caratteriale grazie al preponderante Chadonnay. Caratteristiche colombarie custodiscono bollicine erudite: E sì, il bel palazzotto della tenuta ospita una superba collezione art nouveau, così Rodin, Gallé, Toulouse-Lautrec, Guimard rendono merito ad uno champagne fine, vivace, equilibrato. Concludiamo la visita nei meandri di Boizel, storica azienda marcatamente familiare da ben sei generazioni, caratteristica che dona alle sue coccolate bottiglie carattere, emozione, piacere, derivante da uve selezionate, tali da sviluppare uno champagne fine, eccellente, distinguibile. Allora signori, vista l’imminenza del Santo Natale, quale migliore occasione per recarsi in queste nobili terre? E buone bollicine a tutti voi!

Boizel

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Dom Perignon

Perrier-Jouët

Veuve Clicquot


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paesaggio

piante e fiori Saverio Lastrucci

Fotografia dell'Archivio Fotografico Fondazione Pachi Monumentali Bardini e Peyron (Firenze). Canale del Drago. (Archivio Fotografico Fondazione Parchi Monumentali Bardini e Peyron (Firenze).

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a storia dei giardini ha visto nei secoli una continua evoluzione e adattamento allo stile di vita della società e, a partire dagli anni ‘20 del XIX secolo, nei giardini inglesi si sviluppò lo stile di progettazione detto “Gardenesque”. Una evoluzione dallo stile “pittoresco” (detto anche stile “Mixed”) di Humphrey Repton, in particolare grazie alla promozione che ne fece J. C. Loudon, inventore del termine. Con l’espandersi della botanica come un’adeguata occupazione per gli intellettuali, il “Gardenesque” enfatizza le curiosità botaniche e l’approccio del collezionista: ogni albero, ogni cespuglio, ogni pianta viene posizionata e curata in modo da enfatizzarne le potenzialità. Nuove specie, che sarebbero sembrate bizzarre e aliene nei giardini precedenti, svincolandosi dai formalismi stilistici, vi trovano invece posto: ad esempio l’erba della Pampa

argentina, sentieri tortuosi punteggiati ai lati da cespugli scenografici sparsi, ecc. L’approccio “Gardenesque” porta così alla creazione di paesaggi a piccola scala, ognuno accuratamente elaborato e presentato per scorci e visioni specifiche. Questo permette di promuovere il concetto di bellezza nella stranezza, nella ricerca del singolo dettaglio o nell’apprezzamento della varietà. Anche in Italia, dal secolo XIX, la ricerca botanica si diffuse sempre più dagli orti botanici verso le accademie, e dalle Accademie all’esterno per mezzo di un vivaismo impegnato nella ricerca e nel miglioramento che coinvolse un numero sempre maggiore di tecnici e cultori dei giardini. Questi intrapresero collezioni, più o meno tematizzate, di specie rare o inconsuete, “attingendo” alle flore esotiche, a volte anche a quella spontanea, oppure selezionando nuove cultivar e ibridi.

La Toscana fu molto interessata a tale fenomeno con quasi 200 collezionisti. Si ricorda il nobile russo Nikolaj, italianizzato come “Nicola” Demidoff, che fece erigere, nel parco della sua villa fiorentina nella pianura di Novoli, grandiose serre per la sua collezione di piante “da stufa” e chiamò, per realizzarle, famosi giardinieri come de Hügel, Marnock, Goode, Steffatscheck e Pigal. Si può inoltre citare il fiorentino conte Alessio Pandolfini, che si dilettava di

le collezioni botaniche del Giardino Bardini raccogliere piante sia rare che comuni specie selvatiche, come Campanula persicifolia L., diffusa in molti boschi italiani, o ancora il barone Bettino Ricasoli collezionista di conifere e di rose. Tutto ciò coinvolse anche l’antiquario Stefano Bardini, col suo ampio giardino nei pressi del centro storico di Firenze e punto focale della nuova capitale d’Italia. Tuttavia Bardini andò oltre le semplici mode collezionistiche botaniche anticipando le attuali forme commerciali, perché volle ornare lo spazio esterno ai suoi immobili con scenari spettacolari, e con l’introduzione di piante particolari reclamizzò il suo “negozio” all’aperto: un primo esempio di progettazione integrata alla promozione commerciale ponendo oggetti d’antiquariato in contesti allestiti per mostrarli ai propri clienti in una sorta di “vetrina” esplicativa.

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LE COLLEZIONI BOTANICHE Fino agli anni Sessanta del secolo scorso, l’importanza botanica del Giardino Bardini era principalmente concentrata nella ricchissima collezione di azalee. Nel corso del restauro, sulle indicazioni della Soprintendenza, l’obiettivo fu quindi mirato a far tornare l’interesse botanico nel giardino. La collezione di azalee - Nelle foto degli anni Sessanta il giardino Bardini appare letteralmente ricoperto dalle fioriture delle azalee in centinaia di vasi distribuiti in ogni dove, tanto che il luogo era ricordato a Firenze come “il giardino delle azalee”. Nella nuova collezione ricostituita sono presenti esemplari di rododendro, di azalee e di azalea spogliante (Azalea mollis). Gran parte di questa collezione è sistemata nel prato del Canale del Drago e davanti al Belvedere. La collezione di ortensie − Sotto il nuovo pergolato di glicini, in diverse varietà, si trovano una sessantina di ortensie di varia specie. Si tratta in gran parte di Hydrangea macrophyl-

la e Hydrangea serrata e nella parte inferiore del pergolato le Hydrangea petiolaris rampicanti insieme allo Schizophragma hydrangeoides. La collezione di rose − Nel corso dei restauri furono ritrovati nella Scalinata i supporti metallici delle rose a cordone orizzontale che decoravano i muri trasversali, in una forma di allevamento tipica nell’epoca vittoriana. Sono perciò state reintrodotte numerose varietà di rose Bourbon (R. x borboniana), con le varietà M.me Pierre Oger, M.me Isaac Pereire, Souvenir de la Malmaison, Reine Victoria. Nel Belvedere e lungo il muro che porta al Rondò sono state piantate rose Noisettiane rifiorenti dai colori sfumati: dal bianco al rosa chiaro, dal crema al giallo ambrato come Blush noisette (1825), Alister Stella Gray (1894), Lamarque (1830). All’ingresso del giardino sulla Costa San Giorgio era presente una grande siepe di rose Bengalensis che è stata spostata nell’oliveta per poter effettuare il restauro della villa. La collezione di viburni - Intesa a

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evidenziare la bellezza di queste piante oltre al Viburnum tinus, detto Lentaggine (o Laurotino) in Toscana. È molto diffuso nel sottobosco e in tante siepi dei giardini medìcei. Si trovano molte specie originarie della Cina come il Viburnum plicatum, il Viburnum davidii, il Viburnum propinquum, il Viburnum rhytidophyllum, e del Giappone come il Viburno sieboldi, il Viburnum suspensum. La collezione di camelie - Nella zona ombrosa, lungo le mura urbane, fra i grandi contrafforti è sistemata la collezione di camelie con alcune varietà tipiche dei giardini toscani dell’Ottocento. La collezione di frutti antichi - La “fruttiera”, com’era indicata nei documenti dei giardini toscani, costituiva una parte centrale quale linea di confine tra la parte produttiva e la parte ornamentale, collocandosi così fra produzione e diletto. Per questo motivo venne introdotta una collezione di piante da frutto antiche, tipiche dei giardini toscani, allevate in quattro diverse forme: a spalliera, a cordone, a pieno vento e nanizzate. Si possono così ammirare le mele Francesca, Annurca, Diacciola, Mela rosa, Zucchina e le pere Bella di giugno, la Madernassa, Campana, Butirro hardy, insieme con altre varietà di susine e pesche. Le bordure di erbacee e gli iris - Le bordure di erbacee sono state realizzate sui lati del Canale del Drago, dove si possono ammirare felci ed erbacee da ombra. Nel Giardino dei fiori, nella parte bassa della scalinata, giochi cromatici e di forme sono ottenuti anche con l’uso di graminacee. Lungo la parte centrale della scalinata sono stati piantati iris rifiorenti, varietà moderne caratterizzate dal bellissimo fiore profumato e dalla rifiorenza durante tutto l’anno sino a novembre.

Il viale in curva. (Fotografia di Moreno Vassallo). Le altre immagini sono dell'Archivio Fotografico Fondazione Parchi Monumentali Bardini e Peyron (Firenze).


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MODA

Gonne di paglia e tacchi di cristallo raffinata e coerente la moda italiana 1957

Roberto Mascagni

Fodera interna di una giacca da uomo Brioni, ove compare l'etichetta cucita con il particolare e peculiare sistema del punto a croce, realizzato a mano, in genere con filo rosso di seta.

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l termine della Dodicesima sfilata di Alta Moda Italiana nella Sala Bianca di Palazzo Pitti, è stato chiesto a un giornalista di definire in sintesi come saranno gli abiti delle donne nel prossimo autunnoinverno secondo i modelli visti a Palazzo Pitti. Risposta: «Non vi è dubbio: saranno sconcertanti». È una risposta a effetto, un po’ esagerata forse, perché nella Sala Bianca sono stati tali e tanti i modelli presentati (da splendide indossatrici) che le

signore e le signorine potranno ampiamente scegliere secondo i loro gusti e i loro “capricci”. Le “stranezze” sono piaciute specialmente ai compratori d’oltre Oceano. Fra queste bisogna elencare le gonne di paglia e le elegantissime scarpette con alti tacchi di cristallo di Murano (7/8 cm.). La Dodicesima Mostra di Alta Moda Italiana è iniziata il 21 luglio 1956 con l’esposizione, nelle sale del Grand Hotel (l’odierno The St. Regis Hotel) in piazza Ognissanti, di quanto e di meglio possono offrire i nostri creatori: oggetti di paglia, borse, scarpe, cinture, sciarpe e gioielli presentati da oltre cinquanta ditte. «I compratori stranieri − riferisce la stampa specializzata − adorano le “piccole cose” italiane che solamente i nostri creatori hanno il gusto di saper cucire, i nostri accessori eleganti, i nostri allegri ricami, ogni ornamento applicato a ogni modello “boutique”». Ovviamente non sono mancati i modelli dalla linea semplice, elegante e segnata: tanto negli abiti di alto livello, come nei modelli per la “boutique”. I modelli più “commerciali”, sono i più comprati. Nel prossimo inverno prevale il tipo “a tuta”, cioè l’abito molto stretto e aderente, con le spalle spioventi, l’abito tutto lungo e liscio fino ai polpacci, senza cintura alla vita, aderente ai fianchi, ma non troppo, e molto stretto ai ginocchi. Per gli abiti da passeggio trionfa sempre il tailleur, con gonne che arrivano al massimo ai polpacci e molto strette. La sera prevalgono le gonne ampie a corolla di fiore rovesciato, i soprabiti leggermente debordanti, le scollature meno ampie.

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Nel pomeriggio del giorno inaugurale sono stati presentati i cappelli realizzati con feltri prodotti dal cappellificio La Familiare di Montevarchi. Nell’insieme rappresentano un miglioramento di quelli proposti nella passata stagione: completano l’eleganza femminile, dando equilibrio alla linea dei vestiti, tendenzialmente diritta. I modisti sono Pina Cerrato, il fiorentino Biancalani, Fontana, Leonella, Canessa, Venturi, Cartoni. Nel pomeriggio sfilano le Giovani Firme: Giuliano di Milano, Likis (le milanesi sorelle Steiner) e Sarli di Napoli: quest’ultimo è stato un po’ la rivelazione della passata edizione. I protagonisti dell’Alta Moda sono ormai nomi famosi: Luisa Spagnoli, Bertoli, Capucci (invitato a presentare la sua collezione negli Stati Uniti), Marucelli, Mirsa (che ci fa vedere la maglieria più bella), Avolio, Carosa, Antonelli, Emilio di Firenze, Veneziani, Schuberth e Cesare Guidi. Cesare Guidi di Firenze è un creatore che in pochi anni si è affermato per la costruzione perfetta e il taglio impeccabile dei suoi mantelli e dei suoi tailleurs. Quest’anno la sua linea, pur mantenendosi classica e non perdendo nessuno dei requisiti tecnici che lo distinguono - informano i giornalisti - è molto più fantasiosa. Alcuni suoi motivi nuovi, apparentemente “azzardati”, sono veramente un’idea. La linea di Guidi si chiama “Temeraria”: un movimento avvolgente, come quello di una spirale allungata, che appare nei mantelli e nei vestiti. Sempre di Guidi è una serie di impeccabili tailleurs di Shetland e di Tweed, completati da mantelli di linea svasata verso l’orlo e sorprendenti per la squisita semplicità. Tuttavia impiegati con gusto e fantasia.


Sempre nella Sala Bianca, il 25 luglio del 1956, la sfilata si è aperta con i modelli di Antonelli; come al solito sono apparse alcune creazioni maschili di Gaetano Savini Brioni. La coppia è formata da lei in abito di broccatello e da “lui”, impersonato da Angelo Vittucci, in smoking di Brioni realizzato in seta rosso-nera, senza panciotto con alta cintura di raso nero a pieghe (approvata a pieni voti dagli esperti di moda maschile). Ormai l’uomo è parte integrante della rappresentazione benché la scena avrebbe dovuto essere solo delle indossatrici che propongono a turno le creazioni. Il loro apparire ha dato allo spettacolo una certa vivacità. Dopo aver visto sfilare per ore e ore solo belle ragazze, quei quattro o cinque uomini che hanno affrontato la pedana hanno suscitato molto interesse. «I modelli presentati sono stati giudicati un po’ eccentrici ma, tanto per dare un’idea anche agli uomini, li informiamo che per il prossimo inverno essi potranno portare camicie vistose di stoffe a grosse righe multicolori, oppure con un rigato stile Impero, con stampati cavallini, invece delle solite roselline». È in questo periodo “storico” che Gaetano Savini intuì che era giunto il momento di proporre agli uomini un “indumento” completamente nuovo sia nel taglio dell’abito che nella scelta dei tessuti e dei relativi colori mai pensati per loro come il viola, il rosso lucifero, il verde malachite. In quell’epoca, l’idea della moda maschile era solo all’inizio e la stampa specializzata si dedicava esclusivamente a quella femminile le cui sartorie di Alta Moda proponevano due volte l’anno le nuove tendenze relative a stile, tessuti e colori. Partendo da questa realtà Gaetano Savini Brioni ha applicato lo stesso percorso della moda femminile a quello maschile. Tuttavia, con le prime partecipazioni alle sfilate, non fu tutto semplice per Mister Brioni, come fu definito da B. Altman & Co. di New York nel 1952, perché l’idea della vanità maschile trovava ancora resistenza presso la stampa e il pubblico. Ma una parte della stampa intuì questo atto di coraggio di Gaetano Savini premiandolo con articoli redazionali che lo convinsero a proseguire, e in pochi anni da ogni parte del mondo innumerevoli furono i riconoscimenti attribuiti al “marchio” Brioni dalla stampa internazionale e dal pubblico.

Cesare Guidi Giovanni Guidi nacque a Bagno di Romagna il 23 agosto del 1908 e fu sempre chiamato col suo secondo nome, Cesare, perché così si chiamava il nonno materno. Nel 1911, a seguito di un disastroso terremoto che distrusse tutti i loro beni, tutti i componenti della famiglia, madre e sette figli, si trasferirono a Firenze. Cesare, fin da bambino, manifestò interessi artistici soprattutto orientati verso il disegno e la pittura che, appena gli fu possibile, approfondì studiando disegno e nudo sotto la guida del maestro Landi. In seguito, interessatosi al teatro, frequentò un corso di sartoria teatrale in via Laura e negli anni precedenti la Prima guerra mondiale, collaborò con Gino Sensani alla realizzazione dei costumi per diversi spettacoli. In questo periodo collaborò anche, trasferitosi per un periodo a Roma, alla costumistica a Cinecittà. A Firenze Cesare aveva già imparato tutte le tecniche sartoriali facendosi le ossa nel laboratorio del fratello maggiore che, fatto prigioniero dagli Austriaci durante la Prima guerra mondiale, era stato adibito alla confezione delle divise militari e che, tornato in Italia, aveva aperto una sartoria da uomo in piazza Santa Maria Novella. Verso la metà degli anni Trenta Guidi era un figurinista già molto apprezzato e collaborava con case di tessuti e sartorie, in particolare con la casa di mode Italia Bernardini. Va detto che all’epoca le case di moda si occupavano principalmente di copiare i modelli francesi e solo in seguito, per merito di creatori locali, nascerà la Moda italiana. Nel 1940 Guidi apre in proprio una piccola sartoria in Borgo Ognissanti che subito avrà successo: gli anni della guerra, impedendo gli scambi con la Francia, favoriranno il nascere di uno stile tutto italiano di cui Guidi insieme con altri fu precursore. Va notato che egli fu uno dei pochi creatori totali, visto che partecipava ad ogni fase della creazione e della realizzazione dei suoi modelli. All’inizio degli anni ’50, già molto conosciuto, trasferisce la sede dell’atelier in via Tornabuoni nel palazzo Spini Feroni e partecipa alle sfilate della nascente Moda italiana, voluta e creata dal grande Giovanni Battista Giorgini, sulla pedana della Sala Bianca di palazzo Pitti, di cui sarà protagonista in tutte le sue edizioni.

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Nel 1960 è con Simonetta, Fabiani, Schuberth, Antonelli, Marucelli e Veneziani fra i fondatori della Camera Sindacale della Moda Italiana, organizzazione promossa da Giorgini per la necessità di tutelare i modelli italiani dallo spionaggio dei copisti sia italiani che stranieri. Nel 1970 la Regione Toscana lo chiama a tenere un corso di taglio per sarti e questo perché Guidi non rimase mai prigioniero di uno stile, ma ebbe sempre l’estro e il coraggio di cercare un gusto nuovo e al passo con i tempi. Negli ultimi anni della sua attività, continuando a sperimentare nuove tecniche e soluzioni, si dedicherà anche alla moda in pelle collaborando con delle concerie di Santa Croce sull’Arno. Nei primi anni 70, a causa di gravi problemi di salute, si ritirerà dalle varie sfilate e manifestazioni e nel 1975 lascerà l’atelier di Palazzo Spini Feroni per dedicarsi, nel suo studio di via Tornabuoni 5, esclusivamente alla pittura.

Creazione da gran sera di Cesare Guidi, metà anni ’50, composta da corpetto e gonna ampia e lunga fino a terra in raso a motivi floreali, una fascia passante sul corpetto scende lungo un fianco, creando un gran fiocco decorativo. Completano l’insieme guanti lunghi con colore a contrasto.


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CINEMA

XXXV°

Borotalco Alla festa del cinema di Roma il film restaurato di Verdone

Andrea Cianferoni

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ppuntamenti stellari alla Festa del cinema di Roma: David Lynch, Nanni Moretti, Fiorello, Jake Gyllenhaal, Ian McKellen, Gigi Proietti, Vanessa Redgrave, Christoph Waltz, il compositore Michael Nyman, lo scrittore Chuck Palahniuk. Sono solo alcuni dei nomi che hanno sfilato sul red carper dell’auditorum Renzo Piano per la dodicesima edizione della rassegna cinematografica capitolina che ha visto aumentare le vendite dei biglietti del 13 per cento e la presenza dei media del 20 per cento. Gli “incontri ravvicinati” si sono confermati come il momento più interessante della rassegna diretta da Antonio Monda (riconfermato per altri tre anni), che parla di “qualità e varietà” per una selezione ufficiale che ormai è, da alcuni anni, volutamente senza concorso. Per il presidente della Fondazione Piera Detassis «la Festa deve continuare a insistere nell’uscire dalla Cittadella, nelle periferie certo ma non solo per

rimettere in moto certe sinergie per portare nella città la coesione e l’aria di festa. Noi amiamo il tappeto rosso − ha chiarito Detassis − ma quando le stelle non sono comete ma pianeti pieni, perché senza il ponte tra industria e cultura la Festa sarebbe solo un party». Tra le stelle “nostrane” c’è stato il ritorno, dopo ben 35 anni, della “coppia” cinematografica per eccellenza, Carlo Verdone ed Eleonora Giorgi, per la presentazione della copia restaurata, curata da Infinity, di Borotalco, un film che ha consegnato alla storia alcune battute indimenticabili e di iconici personaggi (dal suocero manesco Mario Brega all’inquieta Eleonora Giorgi, fino ad una giovanissima Moana Pozzi), ma anche perché fotografava l’Italia dei primi anni Ottanta. Al centro del film un giovane venditore di enciclopedie fidanzato con una brava ragazza il cui padre commerciante è un rozzo e violento, l’iconico Mario Brega. Il protagonista si invaghisce della collega

Addio Fottuti Musi Verdi sul Red Carpet Carlo Verdone e Eleonora Orlando Bloom

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Eleonora Giorgi e per fare colpo su di lei si finge “quel gran figlio di puttana” − per dirla con le stesse parole degli Stadio − di Manuel Fantoni, un cialtrone del sottobosco romano che viene arrestato in casa e gli lascia le chiavi dell’appartamento. Tra le battute rimaste nella storia «mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana». Eleonora Giorgi si può dire che sia stata lanciata da quel film: «Quel personaggio che mi fece fare Carlo rappresentava le ragazzine di quel momento, perché siamo state la prima generazione che ‘ao’, anch’io ho diritto alla mia dimensione...». Altro incontro ravvicinato del festival è stato quello con Beppe Fiorello, che ha commentato i suoi film preferiti, cantando, ballando, imitando. In sala, durante l’incontro con il pubblico, arriva una scena di E Dio disse a Caino…, lui ci parla sopra, fa fermare la sequenza con un Klaus Kinski in primissimo piano, «non è un primo piano ma una visita oculistica»,


scherza, poi riproduce i suoni dei film western, a partire dai colpi di pistola. «Sono stato in armeria a provare una colt, sono rimasto deluso, la sonorizzazione era tutta un’altra cosa». Segue una scena di Cinque dita di violenza, “amici come vedete ho una cultura cinematografica pazzesca − commenta − questo è il primo film in assoluto arrivato in Italia sulle arti marziali. Era vietato ai minori di 14 anni ma in Sicilia facevi la voce grossa e entravi ugualmente”. Certo Fiorello non è tipo da cinema d’autore… «Lelouch, Truffaut... Che differenza c’è? Una volta un mio amico aveva preso la cassetta di Un uomo e una

donna e io, con quel titolo, pensavo chissà che sarà? Invece due palle… A Venezia vincono solo autori dai nomi impronunciabili. Mi hanno chiesto "vieni alla Festa del cinema"? Ma io non c’entro nulla con il cinema da festival, non sono di quelli che vedono i film coreani. Una volta sono stato a Venezia con Dario Fo per un cartone animato, ma è stata un’eccezione». Del film Il talento di Mr Ripley con Jude Law e Matt Damon ricorda la gentilezza di Minghella «diceva buon lavoro dal primo all’ultimo sul set» ma anche «le scene fatte anche 36 volte, le nove macchine da presa e io avevo persino una controfigura

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che mandavano a fare la prova luci. Minghella aveva scritto la scena di Tu vuo’ fa’ l’americano proprio per me, dopo che mi aveva visto cantarla in un locale a Ischia. Sono anche andato alla serata degli Oscar, tutti mi dicevano "rimani con noi", ero pappa e ciccia con Meryl Streep ma io volevo solo tornare a casa. Otto ore di volo tutte col Tavor!». Poi Fiorello racconta della sua esperienza con l’ex produttore americano Harvey Weinstein finito nella bufera per la storia degli abusi sessuali: «Avevo già la griglia accesa per Ferragosto. Mi volevano sul set di Nine di Rob Marshall, ma capii che per una posa avrei perso una settimana di vacanza, me ne stavo in Sardegna, gli ho detto di no. Harvey Weinstein mi ha scritto che non avrei mai più lavorato a Hollywood. Ma chi voleva lavorarci? L’aereo, il Tavor... »

Please Stand By Red Carpet Trouble No More Red Carpet Piera deTassis Jake Gyllenhaal NYsferatu Red Carpet Sandrine Bonnaire David Lynch e Paolo Sorrentino In Blue Red Carpet Vanessa Redgrave


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musica

musica contemporanea Ilaria Baldacci pianista

Arduino Gottardo

Momenti scenici, Scuola di Danza Fuori centro (foto di Camillo Massa)

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l CD edito dalla EMA Records di Vinci per la collana SIAE Classici di Oggi (EMA Vinci records 700782017), giunta ormai al volume V, ci presenta un panorama di quattro compositori italiani del recente passato, che viene definito, nel determinare un’area geografica ed operativa dei musicisti inseriti, già nel titolo della pubblicazione: “Intorno a Firenze nel secondo ‘900”. I compositori interessati, con brani esclusivamente pianistici, sono Giuseppe Bonamici (1936- 1978) con Quando il vento racconta sulle antiche pietre; Carlo Prosperi (1921-1990) con Intervalli e Sonatina profana; Gaetano Giani Luporini (1936) con Nove Mantram; Piero Luigi Zangelmi (!927-2004) con Blu 4. Le composizioni presentate dalla giovane e brava pianista Ilaria Baldaccini, pur nella loro complessità, sono affrontate sempre con una estrema consapevolezza delle intenzioni degli autori e con una tecnica esecutiva, interpretativa ed espressiva che ha abbracciato “come atto d’amore” (citazione più che appropriata dalla presentazione di Renzo Cresti al CD) proprio gli autori proposti attraverso le loro composizioni. Il suono della Baldaccini si manifesta così intenso e comunicativo, sempre frutto di uno scavo interiore, con una sua interna tensione, una sua pulsazione che viene riportata alla superficie e all’ascolto con prospettive nuove e timbricamente interessanti. Come già indicato nella presentazione di Renzo Cresti, l’opera di scavo e di recupero del materiale storico dei compositori che hanno gravitato nell’area fiorentina, a cura della Baldaccini, è meritoria e preziosa perchè ritrova attraverso i fili della memoria

storica, anche recente, questi autori che, sebbene operanti in un territorio circoscritto, hanno avuto e tutt’ora hanno una loro collocazione in ambito nazionale ed internazionale. Il progetto culturale di ri-scoperta degli autori che hanno gravitato nell’area fiorentina e toscana negli anni subito dopo il 1945 è un terreno ricco di individualità creative, di nomi che hanno fatto, e tutt’ora fanno, la storia della musica italiana, nomi che a ben vedere stanno alla pari di molti personaggi europei celebrati come capisaldi indiscussi della musica contemporanea e, per citarne solo alcuni,

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dopo uno dei più importanti musicisti italiani come Dallapiccola, i nomi di Lupi, Bussotti, Benvenuti, Bartolozzi, Bucchi, Chiari, Prosperi, Giani Luporini, Company, Lombardi, Cardini, Renosto, Berio, ed altri, non sfigurano certamente nel confronto con qualunque compositore europeo. Auspichiamo quindi che Ilaria Baldaccini, appassionata interprete e musicista sensibile, prosegua nel suo sforzo culturale con l’affettività e la bravura che ha dimostrato nell’affrontare queste composizioni che meritano assolutamente di essere ascoltate, conosciute ed amate.


musica

Junaazz passione

Simone Graziano e il suo album

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l tuo precedente album aveva un legame molto stretto con la città di Firenze. Ce ne vuoi parlare? Trentacinque, il secondo album del mio quintetto Frontal, inidicava la mia età anagrafica al tempo in cui ho registrato il disco. Trentacinque erano però anche gli anni che mi hanno legato alla città di Firenze, in cui sono nato e cresciuto e in cui ho mosso i primi passi verso la musica e l’arte in generale. Firenze, l’ho sempre amata. Tale amore lo devo a mia zia Loretta Caponi che mi fece scoprire, in età adolescenziale, il genio di Vasco Pratolini. Attraverso libri quali Il quartiere, Le ragazze di San Frediano, Metello, imparai a conoscere i quartieri di Firenze, le loro storie e i colori diversi che li abitano. Poco prima della pubblicazione del disco trovai una poesia di Pratolini, appunto, che si chiama, La città ha i miei trentanni. Decisi di pubblicarla nel booklet, in quanto inno all’arte, alla spensieratezza della giovinezza e, ovviamente, a Firenze. Ricopri anche il ruolo di direttore artistico del Musicus Concentus. Cosa pensi dell’attuale scena jazz musicale in Toscana? Io mi reputo molto fortunato dato che sono cresciuto in un ambiente musicale colmo di talenti: Lanzoni, Tamborrino, Evangelista, Guerra, Parrini, Baldacci, Scardino, tanto per nominarne alcuni della mia generazione (più o meno...). Il jazz in Italia e in Toscana, in particolare, è cresciuto tantissimo negli ultimi dieci anni, ne è riprova il fatto che tutti i musicisti che ho nominato suonano in giro per l’Europa con svariati gruppi. Il Musicus Concentus in questo senso ha contribuito fortemente, nel corso degli ultimi trent’anni, a creare una generazione di musicisti “informati” su ciò che avviene nel presente. Io mi sento molto grato a questa isitiuzione per

avermi fatto scoprire, negli anni della mia formazione, musicisti quali Bill Frisell, Dave Douglas, Tim Berne, Craig Taborn. Il tuo ultimo album, Snailspace, è un elogio alla lentezza. Come hai scoperto questo valore? Domanda ardua... Il motivo per cui faccio musica è per capire un po’ meglio chi sono e ciò può accadere solo se le dedico tanto tempo. Nella lentezza del processo creativo c’è lo spazio per la conoscenza e lo sviluppo del sé. Nella fretta c’è solo l’ansia del fare che sembra colmare i vuoti, ma in realtà li crea. Sempre in Snailspace si ritrovano diversi rimandi a libri e autori contemporanei. Quanta importanza ha la letteratura nella tua musica e nella tua vita? Vorrei avere molto più tempo per leggere e studiare. Nei momenti di vacanza cerco di approfondire le numerose lacune che ho. L’estate scorsa l’ho trascorsa a studiare il rapporto tra Oriente e Occidente per capire qualcosa sulla religione islamica. Tra i libri che leggevo ce n’era uno in particolare che ho amato, Gli anni del terrore di Lawrence Wright, uno straordinario saggio sulla nascita e l’evoluzione del terrorismo globale ma con un solo difetto, la copertina: una gigantografia del volto di Osama Bin Laden. Ogni volta che scendevo in spiaggia con quel libro avevo la sensazione che i vicini si sentissero a disagio. Prova ne è che nessuno mi ha rivolto la parola. Per me la letteratura e l’arte in generale sono fonti di ispirazione. Fino alla fine del Settecento i musicisti pregavano per averla. Non godendo del privilegio della fede, devo trovare altre soluzioni. A volte basta anche un quadro, una statua, una frase. Tra le altre cose, sei anche docente a Siena Jazz e vicepresidente del MIDJ,

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l’Associazione Italiana Musicisti di Jazz. Come riesci a conciliare tutti questi impegni con la tua professione di musicista? Semplice: purtroppo ad un certo punto la musica non è più una passione ma una vera e propria necessità. Se non suono sto male. Ogni momento in cui posso, studio, ascolto musica o penso alla musica. Chiunque fa il musicista sa riconoscere bene lo sguardo perso nel vuoto alla ricerca di una melodia che si insegue da giorni o di un ritmo che non si trova. Al tempo stesso sia il lavoro di docente che quello di vicepresidente di MIDJ arricchiscono il mio modo di pensare la musica potendola osservare da numerose angolature. Sei papà da pochi mesi, se un domani tua figlia volesse intraprendere la carriera musicale, che consigli le daresti? Studia ciò che ami e non chiederti dove ciò ti condurrà.

Angelo Errera

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musica

non solo Giacomo Puccini Lucca e il Camaiorese patria di musicisti Roberto Mascagni

Giacomo Puccini Pietro Nardini Marco Santucci

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arliamo di Giacomo Puccini e dell’ambiente musicale di Lucca e del Camaiorese. Lucca e la Lucchesia furono un centro musicalmente ricchissimo, e di questi valori pregressi il famoso compositore fece tesoro. Il quadro familiare dei Puccini fu particolarmente fertile. Gli antenati provenivano da Celle, una frazione del comune di Pescaglia, dal 1971 denominata Celle dei Puccini. Il paese si trova a venti chilometri sulla montagna a nord di Lucca. Si ritiene che la famiglia abitasse lassù da molto tempo e che avesse contatti con la realtà musicale di Lucca. Ma fu soltanto un Giacomo, nato nel 1712, che lasciò il suo paese verso gli anni 30 di quel secolo, per studiare musica a Bologna. Rientrato a Lucca, fu nominato direttore dell’orchestra locale e organista della Cattedrale.

Suoi discendenti furono il figlio Antonio, il nipote Domenico e il bisnipote Michele, padre del celebre Giacomo (nato nel 1858). Tutti si distinsero come compositori, soprattutto di musica sacra. «Il primo Giacomo − spiega il musicologo Marcello de Angelis − conosceva il ben noto didatta bolognese Padre Martini, con il quale scambiò rapporti epistolari. Antonio e Domenico ebbero contatti con Mozart. Antonio inoltre fu apprezzato da Paganini. Domenico studiò a Napoli con Paisiello e Michele con Saverio Mercadante». Fin qui la famiglia dei Puccini, e prima di loro? La musica che in Europa fiorì nel XVIII secolo, raggiungendo vette altissime, fu quella strumentale, con èsiti di assoluta bellezza per originalità di idee, stile e sentimento. Nel Settecento, il contributo della Toscana in questo settore fu esemplare. Troviamo infatti notevoli autori di opere e lavori di buona qualità per gli archi. Oltre al folto numero dei fiorentini, si distinse un’altra autorevole presenza: quella del lucchese Francesco Saverio Geminiani (1687-1762), allievo di Arcangelo Corelli, di scuola romana, e del napoletano Domenico Scarlatti. Geminiani venne influenzato dalle novità apprese da Corelli, dal quale imparò l’arte di suonare il violino e le regole della composizione. Trasferitosi in Inghilterra fissò i princìpi basilari dell’interpretazione, elaborando inoltre il primo metodo per violino che si conosca, da lui pubblicato a Londra con il titolo The Art and playing the violino. Fama superiore alla sua la conseguì un altro toscano: Pietro Nardini, nato a Livorno nel 1722, allievo prediletto

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del geniale Giuseppe Tartini (16921770), autore del celeberrimo brano definito Trillo del Diavolo per le sue ardite soluzioni tecniche, non a caso preso a modello da Niccolò Paganini. Dopo essersi esibito nelle corti dei sovrani europei, Nardini si stabilì a Firenze come musico di corte del Granduca Pietro Leopoldo, e nel capoluogo toscano trascorse tutta la vita istituendo una eccellente classe dalla quale uscirono, fra gli altri, il lucchese Filippo Manfredi (1729-1777) e il pisano Giulio Maria Lucchesi. Meritano di essere ricordati anche altri due livornesi: Giuseppe Moriani e Giovan Francesco Giuliani (17601820): entrambi interpreti di rango. Bisogna sottolineare che Giuliani sarà maestro del fiorentino Ferdinando Giorgetti (1796-1867). Eccellente didatta, fu capostipite della moderna impostazione dell’arco. Ma il massimo livello di notorietà lo raggiunse un altro lucchese: Luigi Boccherini, che in Spagna meritò fama europea. Insieme con lui dobbiamo citare nuo-


vamente la figura di Geminiani, violinista e autore, fra l’altro, di un lavoro che ebbe grande successo strumentale: La foresta incantata. Potremo continuare indicando altre personalità di rilievo. Ci limitiamo a ricordare due prestigiosi musicisti: Francesco Gasparini (1661-1727) e Marco Santucci (1762-1847) entrambi di Camaiore. Santucci insegnò a Michele Puccini. Numerosi furono i loro discepoli, estendendosi su un raggio vastissimo di stima e di popolarità fino a lambire la Vienna di Gluck e di Haydn. L’apertura verso Parigi e l’Europa non meravigli se si pensa che, per esempio, Domenico Puccini aveva stabilito un rapporto epistolare con Haydn e Mozart; in seguito, il nipote Michele corrisponderà con Wagner. Grazie a tali dinamiche, proprio a Firenze nacque il melodramma con l’Euridice di Jacopo Peri e di Giulio Caccini, rappresentato il 6 ottobre 1600 a Palazzo Pitti. Non deve tuttavia sorprendere se la Toscana, ancorché priva di illustri operisti, ebbe fino ad allora l’unica eccezione nel fiorentino Luigi Cherubini, autore di Medea, che avrebbe avuto in Maria Callas un’interprete a tutt’oggi insuperata. Avere lasciato in secondo piano il melodramma, non costituisce un demerito culturale. «L’esempio di apertura internazionale − precisa il musicologo Marcello de Angelis − lo abbiamo con il

“Quartetto toscano”: composto dai lucchesi Luigi Boccherini (1743-1805) al violoncello e Filippo Manfredi (1729-1777) alla viola, e dai livornesi Giovanni Giuseppe Cambini (17461825) al violino e, sempre al violino, Pietro Nardini (1722-1793). Nella seconda metà del ’700 misero insieme la prima formazione quartettistica di cui si abbia notizia. Si esibirono nelle maggiori Corti e nei salotti privati riscuotendo uno straordinario successo. Cambini stesso ci narra in un articolo pubblicato nel 1804 nella «Allgemeine Musikalische Zeitung», a proposito del Quartetto formatosi a Firenze nel 1767, dei «sei mesi felici» nei quali si posero le basi per il primo, e precoce, quartettismo italiano. Marcello de Angelis assegnò una tesi di laurea a Maria Petrelli sull’origine del “Quartetto toscano”, ma nemmeno a Parigi, malgrado abbia compiuto ricerche accuratissime, non scoprì altri documenti. Bisogna perciò affidarsi a quanto riferisce Cambini. Per concludere: e il genere sacro? Le personalità nominate appartenevano al cosiddetto movimento “ceciliano”. «Il progetto dei “ceciliani” − aggiunge Marcello de Angelis − era così definito perché rifiutava i toni esasperati del melodramma verista fra Ottocento e Novecento, auspicando un ritorno alla tradizione liturgica polifonica del Medioevo, basata sul canto gregoriano. La denominazione deriva da Santa Cecilia, eletta

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a protezione della musica e dei musicisti». Tornando alla fine del Settecento, incontriamo una vera e propria catena di artisti lucchesi. Ma questa catena non si interromperà fra i due secoli, perché la Lucchesia produrrà altri compositori di valore, dei quali ci occuperemo in seguito.

Francescp Saverio Geminiani Luigi Boccherini Francesco Gasparini

foto di zzzzzzzzzzzzzzz zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz zzzzzzzzzzzzzzzzzz


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MUSICA

COME CANE E GATTO JUNIOR EUROVISION SONG CONTEST 2017

Leonardo Taddei

Il palcoscenico del Junior Eurovision Song Contest 2017 illuminato con i colori della bandiera italiana La cantante Helena Meraai in rappresentanza della Bielorussia, il paese che ospiterà la manifestazione nel 2018 La boy band olandese dei Fource, giunti primi nel voto online e quarti assoluti

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a XV edizione della competizione canora Junior Eurovision Song Contest, rivolta a giovanissimi cantanti dai 9 ai 14 anni d’età, si è svolta in Georgia domenica 26 novembre 2017, presso l’Olympic Palace di Tbilisi. Ben 16 gli stati in gara, rappresentati con brani inediti della durata massima di tre minuti, interpretati dal vivo su base musicale. Nonostante i ritiri di Israele e Bulgaria, nazione ospitante dell’edizione 2015, si sono però registrati sia la conferma dell’Australia, paese extra europeo ammesso a partecipare fin dal 2015, sia il ritorno alla competizione, con Mariana Venâncio e la sua Youtuber, del Portogallo, paese in cui, a maggio 2018, si svolgerà invece l’edizione senior del concorso, il ben più noto Eurovision Song Contest. La valutazione dei brani era affidata al cinquanta per cento alle giurie nazionali, dislocate ciascuna in ogni nazione in gara e composte per metà da bambini e per metà da addetti ai lavori, e,

per il restante cinquanta per cento, non più al televoto, come nelle edizioni passate, ma al voto online sulla piattaforma web ufficiale della manifestazione. Ciò ha comportato, come novità assoluta, la possibilità di esprimere le proprie preferenze, da tre a cinque per ogni utente, anche per la nazione di appartenenza, eventualità assolutamente vietata dal regolamento in precedenza. Inoltre, le votazioni sono state aperte, per la prima volta nella storia del concorso, già nei due giorni antecedenti alla competizione, ed è stata anche mantenuta la consueta finestra di votazione durante la diretta, dopo la conclusione dell’ultima esibizione. La manifestazione, trasmessa anche quest’anno in diretta su Rai Gulp, è stata commentata nella versione italiana da Laura Carusino e Mario Acampa, ed ha visto il rinnovarsi del sodalizio artistico con la produzione dell’Antoniano di Bologna, a seguito dell’ottimo risultato ottenuto lo scorso anno con la canzone interpretata da Fiamma Boccia, classificatasi al terzo posto. Il testo della canzone di quest’anno è stato

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scritto da Stefano Rigamonti, Fabrizio Palaferri e Maria Iside Fiore, mentre la musica è opera di Stefano Rigamonti e Marco Iardella. La tredicenne Maria Iside, cantante, ballerina e musicista con il sogno di diventare un affermato chirurgo, è originaria di Carrara, ma spezzina di adozione, e prima di essere selezionata dalla Rai per rappresentare l’Italia al Junior Eurovision Song Contest, era già stata finalista al Cantagiro nel 2016. La sua canzone Scelgo - My choice, caratterizzata da una bella melodia e da un testo molto profondo sulle incertezze del futuro, non è però stata premiata dalle giurie, che l’hanno relegata ad un undicesimo posto finale, nonostante fosse stata accreditata come una delle favorite della vigilia, insieme ai brani Don’t stop, dell’ucraina Anastasiya Baginska, e I am the one, interpretata da Helena Meraai per la Bielorussia, nazione che ospiterà la manifestazione nel 2018. Sorprendenti sono stati anche i risultati del maltese di origine italiana Gianluca Cilia, giudicato secondo dagli utenti


web, ma solo nono nella classifica finale, e della boy band olandese Fource, che, con un vero e proprio exploit, si è aggiudicata il voto online ed è giunta quarta assoluta, subito dietro all’australiana Isabella Clarke con il brano Speak up. Il duello per la vittoria ha visto andare in scena un appassionante testa a testa tra la Georgia, rappresentata da Grigol Kipshidze con la canzone Voice of the heart, la favorita dalle giurie tecniche, e la Russia, la cui cantante Polina Bogusevich, con il brano Wings, è riuscita a prevalere, anche se di soli tre punti. Il risultato è apparso come una vera e propria beffa per i tanti spettatori georgiani presenti in sala e per quelli collegati da casa in diretta tv, non soltanto perché il loro paese è stato superato di un soffio, ma soprattutto perché ha sconfiggerli è stata la Russia, una potenza per loro ancora troppo ingombrante e dalla quale non sono mai riusciti ad affrancarsi definitivamente dal punto di vista sia economico che politico. Se è infatti acclarato, da una canto, che la Georgia sia una repubblica indipendente volta sempre più verso un imminente ingresso in Europa, è altresì vero, d’altro canto, che le relazioni diplomatiche con la Russia sono tuttora molto tese, a causa della guerra russogeorgiana del 2008 e della contesa dei territori di Abkhazia e Ossezia del sud. La stessa Russia non vede di buon occhio un possibile sbilanciamento politico del paese caucasico verso ovest, insieme ad Ucraina e Moldavia, poiché questo garantirebbe alla NATO la possibilità di installare basi militari nelle suddette nazioni, facendo venir meno l’attuale effetto di stati-cuscinetto che per il Cremlino questi paesi rappresentano. Tale clima di tensione, che niente ha da invidiare alle cupe atmosfere da guerra fredda, non è cosa nuova, ed è anzi ben noto da anni anche all’EBU, European Broadcasting Union, l’ente preposto all’organizzazione della ma-

nifestazione, la quale, dal canto suo, si mantiene costantemente neutrale e vieta espressamente che le questioni di carattere politico permeino il concorso, trattandosi di una gara canora, e, per di più, di bambini. Nonostante ciò, questo continuo proibizionismo – gli screzi tra nazioni sono molteplici, e per molteplici motivi, non soltanto tra Russia e Georgia, ma anche, ad esempio, tra Armenia ed Azerbaijan, Grecia e Macedonia, Turchia e paesi che sostengono i diritti delle persone LGBTQI – non fa altro che trascurare i sentimenti delle popolazioni dei vari stati coinvolti, che partecipano attivamente alla manifestazione o che ne sono spettatori in remoto, finendo poi per acuire tali dissapori e facendo perdere, invece, l’occasione di sfruttare la grandissima visibilità di un evento di questa portata per tentare, se non una pacificazione, almeno un abbozzo di dialogo. Oltretutto, la delegazione russa ha ammesso, nella conferenza stampa dopo la vittoria, di essere stata già contattata da alcuni vertici dell’EBU per discutere di un’eventuale organizzazione della manifestazione per il 2019, decisione molto criticata dai fans e dagli addetti ai lavori delle altre nazioni a causa delle forti azioni repressive adottate da Putin nei confronti della popolazione gay, di cui molti sostenitori del concorso fanno parte. In ogni caso, è già stato stabilito che, nel 2018, la manifestazione si terrà a

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Minsk, in Bielorussia, peraltro ulteriore stato-cuscinetto tra la Russia ed i paesi NATO, e allora ci sarà ancora un intero anno in cui poter fare le prove generali con la popolazione eurovisiva, camuffare la bestia a tre teste, ritoccare gli ultimi dettagli del make-up mediatico in modo tale da convincere anche i più scettici che il mostro non fa poi così paura e che in fondo, sotto sotto, si tratta di un gigante buono, anche se grande e possente, di un cane che abbaia ma non morde, almeno fin quando non lo si stuzzica. Già, ma qui gatta ci cova. Si mena il can per l’aia per non svegliare il can che dorme, che è una gattamorta, tanto al buio tutti i gatti sono bigi e quando il gatto non c’è, i topi ballano. Ma attenzione: tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino, e alla fine, comunque vada, sarà una bella gatta da pelare.

La rappresentante italiana Maria Iside Fiore si esibisce in gara con il brano Scelgo My choice L'armeno Misha con il suo mini Segway, il monopattino elettrico autobilanciato, a forma di boomerang Polina Bogusevich, mentre la vincitrice interpreta con passione canzone Wings La cantante italiana Maria Iside Fiore durante la sua performance


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anniversario

un

treno

lungo 60 anni

un bel traguardo per la conceria Settebello Margherita Casazza

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essantesimo dalla propria fondazione, la conceria Settebello ha invitato collaboratori, clienti, fornitori e amici a festeggiarlo in un luogo caro ai Santacrocesi: il teatro Verdi che è nato nei primi anni del Novecento per volontà degli industriali locali amanti della musica. Presentata da Daniel Buralli, la serata è trascorsa piacevolmente, fra risate ed emozioni. Raul Cremona, l’eclettico volto noto della Tv e del teatro, l’ha allietata con uno spettacolo brillante, intrattenendo il pubblico con i suoi migliori colpi di magia conditi da originali spunti comici. Incontro all’insegna del divertimento, dunque, ma anche momento di riflessione e di solidarietà, essendo stata invitata a partecipare una delegazione del Comune di Amatrice, al quale Marco e Antonella Brogi, i titolari della conceria Settebello, hanno devoluto una somma da destinare ai lavori per la ricostruzione post-terremoto.

Il sindaco di Santacroce Giulia Deidda e il presidente dell’Associazione Conciatori Alessandro Francioni, si sono congratulati con l’azienda per il traguardo raggiunto sottolineando l’im-

Raul Cremona sul palco del Teatro Verdi Esterno Conceria Settebello

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pegno e l’importanza di questa conceria per il Polo Conciario Santacrocese. Fondata nel 1957, la Conceria Settebello Spa produce pellame al cromo per calzature e pelletteria. Il nome,


mantenuto con orgoglio negli anni, è quello del treno che i fondatori Silvano e Lido Brogi prendevano nei loro primi viaggi d’affari verso Napoli. Oggi alla guida dell’azienda sono Marco e Antonella Brogi, che hanno voluto mantenere la tradizione simbolicamente conservando sia il nome che il logo del famoso treno. «L’importante traguardo del Sessantesimo anno di attività – dice Marco Brogi – abbiamo voluto condividerlo con tutti coloro che fanno e hanno fatto parte della storia di questa azienda, in un abbraccio virtuale con il territorio e con l’intero distretto conciario di Santa Croce sull’Arno, al quale siamo indissolubilmente legati. Ogni investimento fatto e ogni traguardo raggiunto è un impegno e un successo da condividere con tutti loro». «Lavorare in Settebello – continua Bro-

gi – significa condividere una mentalità e un metodo alla cui base ci sono la disponibilità, la collaborazione e il rispetto degli altri e dell’ambiente che ci circonda. Il nostro team composto da 40 persone, ad un pool di 10 dipendenti quadri, motore dell’azienda, si aggiunge la preziosa dedizione di una forza lavoro estremamente professionale. Diverse nazionalità e religioni si integrano tra loro costituendo gli ingredienti principe di una squadra che gioca unita, puntando verso lo stesso obiettivo: creare pellami di qualità rispettando l'ambiente. Un percorso che dietro le pelli di prima qualità prodotte, continua a segnare

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importanti risultati: dalle certificazioni ottenute per il rispetto dei massimi standard aziendali, come la “UNI EN ISO 9001”, la “Social Accountability”, la “ISO 14001”, la EMAS e la “OHSAS 18001”, fino all’utilizzo di impianti innovativi per il risparmio energetico e alla sperimentazione di nuovi progetti per l’ecocompatibilità, come il progetto Acqua 360 in cui la Settebello è attualmente impegnata. Un altro fronte in cui l’azienda crede fermamente è quello della formazione, già da 4 anni - portiamo avanti una collaborazione con diversi istituti tecnici del Comprensorio, con i quali organizziamo stage formativi all’interno dell’azienda con lo scopo di inserire continuamente figure giovani all’interno del ns. staff.» Cala il sipario sul teatro Verdi e il Sessantesimo compleanno della Settebello si chiude così, in un clima di festa, con un lungo applauso del pubblico e con l’augurio di nuovi successi all’azienda, oggi come ieri, sempre forte e veloce, come quel treno che continua a brillare fiammante nel marchio della conceria e a tenere vivo il ricordo dei suoi fondatori, in un viaggio ambizioso tra passato e futuro, portando così anche il nome di Santa Croce sull'Arno nel mondo.

Interno del Teatro Verdi Antonella e Marco Brogi, Sergio Serafini delegato del Comune di Amatrice, Raul Cremona e il presentatore Daniel Buralli Marco Brogi e il sindaco Giulia Deidda Marco Brogi e Sergio Serafini Interno dell'azienda


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EVENTO

Garage Italia opening Giampaolo Russo

Interno Garage Italia Milano Lapo Elkann

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apo Elkann apre le porte della nuova sede di Garage Italia in Piazzale Accursio a Milano, nella ex-stazione Agip Supercortemaggiore restaurata dall’architetto Michele De Lucchi. Commissionata nel 1952 da Enrico Mattei, la stazione Agip fu completata nel 1953 e diventò immediatamente un tempio dell’automobile, frequentato assiduamente dai tanti automobilisti che, nel weekend, si spostavano sulla Milano-Laghi. La stazione ospitava, oltre al piazzale esterno per il rifornimento di carburante, un ampio spazio commerciale al piano terra dove erano presenti un bar, gli uffici, un’area di attesa e un’officina per il lavaggio e la manutenzione delle automobili.

Attiva fino alla metà degli anni Ottanta e parzialmente negli anni Novanta, la stazione testimonia una fase importante dello sviluppo economico e sociale del dopoguerra in cui l’attenzione architettonica era rivolta anche agli edifici industriali e di servizio. Per molti anni questa bellissima architettura è rimasta abbandonata, al suo destino di incompresa decadenza. “Milano ha l’onere e l’onore di rappresentare l’ammiraglia del rinascimento italiano nel panorama globale, relazionandosi attivamente con gli altri centri culturali e imprenditoriali nel mondo. Ed è per questo motivo che ho voluto realizzare uno spazio per condividere, creare e assaporare il meglio del nostro paese, riunendo sotto lo stesso tetto le eccellenze italiane nel settore della creatività, del design, del motion e del food” afferma Lapo Elkann. Aperta ogni giorno dalle 9:30 alle 2:00 di notte, la sede di Garage Italia accoglierà gli amanti dello stile e della bellezza in ogni sua forma, in tutti i momenti della giornata, dalla colazione al dopocena, portando nuova linfa vitale e sociale al quartiere Portello. All’interno i suoi 1.700 mq si distribuiscono verticalmente su due piani fuori terra e un piano interrato dedicato ai servizi e ai locali per lo staff. L’intervento di restauro, sotto la guida di Michele De Lucchi, ha rispettato l’identità storica e architettonica dello spazio, proiettandolo nella contemporaneità. Un’area dedicata è stata allestita per tutti gli appassionati di auto e i piloti professionisti, che avranno la possibilità di “guidare in pista” una Ferrari, grazie al simulatore professionale e iperrealistico di Allinsports, azienda partner tecnico della Driving Academy di Ferrari, e al supporto di

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un istruttore personale. Il simulatore è infatti lo stesso utilizzato per formare i piloti che corrono nel campionato GT e riproduce il comportamento di una vettura da competizione. La scocca proviene da un telaio originale Ferrari e l’abitacolo è perfettamente riprodotto in ogni singolo dettaglio. La simulazione ha un modello di fisica in tempo reale che può essere personalizzato per emulare ogni caratteristica del veicolo, restituendo le sensazioni di guida sportiva su un vero circuito. Salendo al piano superiore si raggiunge il ristorante Garage Italia Milano, che occupa un’unica grande sala a forma trapezoidale affacciata su piazzale Accursio. Al centro dello spazio la carrozzeria di una Ferrari 250 GTO è stata trasformata in una funzionale cocktail station. Per l’arredo sono state scelte 50 sedie 298 (design De Lucchi per Cassina) personalizzate con grafiche racing. Nove sedili Ferrari Daytona e due sedili della Ferrari 599 sono diventati delle poltrone e infine il divano è stato creato ispirandosi alla storica Ferrari di Gianni Agnelli, con rivestimento in pelle Frau bicolore e prese USB “nascoste” nei braccioli. Con l’apertura del nuovo headquarter, in Piazzale Accursio a Milano, Garage Italia vuole spingersi oltre e si propone come piattaforma creativa in grado di sviluppare progetti, prodotti ed esperienze uniche personalizzate per Brand, Aziende e clienti privati. La contaminazione di stili e linguaggi, il superamento delle barriere tra il mondo del fashion, del design e dell’arte sono alla base della nuova strategia del Brand, creato e diretto da Lapo Elkann, che si pone l’obiettivo di ridisegnare lo stesso concetto di “su misura”.


intervista

Concita De Gregorio

a Firenze per Lievito madre. Ragazze del secolo scorso

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arà anche un "corto".. ma è un "corto" che rapisce quando lo guardi identificandoti nello schermo e pensando che Lievito madre è meraviglioso poiché non secca mai, grazie alla cura ed esperienza che la donna mette nell’impastarlo. La giornalista Concita De Gregorio ha un po’ fretta poiché a breve lo proiettano al Teatro della Compagnia, a Firenze, « ... mi farebbe piacere lo vedesse anche lei ... », un po’ mi scruta domandando a chi le sta intorno chi è questa tizia che desidera intervistarla. La De Gregorio sorride poco, però è proprio una bella figura con quella maglia avvitata a "V", il rossetto più rosato che rosso, la bocca armoniosa. E poi quegli occhiali da fumetti, dal design bizzarro con tutte quelle “svolte ed angoli appuntiti” che fanno cornice. Racconta che anche lei è toscana, ha studiato a Pisa, cresciuta a Livorno, lavorato poi a Lucca, Pistoia e pertanto conosce bene la zona. «Firenze? Ho sposato un fiorentino, i miei suoceri sono di qua e i miei figli son cresciuti sempre qui, pertanto questo è un luogo naturale per me. Quanto al locale che proietta il filmato, è stato un cinema d’essai e trovarmi qui alla sua rinascita mi dà molta allegria.» Non capisco perché dice "allegria"... personalmente avrei usato tenerezza, ma non mi va di sfidare questo generale. Prosegue, osservando che Lievito madre. Ragazze del secolo scorso, vorrebbe che fosse proiettato varie volte, specie nelle festività e, mentre termina, la incalzo notando che avere quattro figli è un bell’impegno e che l’orgoglio le viene dal fatto – come del resto affermò in Tv – che le energie si moltiplicano.

«E lo ripeto; non ho nessun aiuto e il tema della conciliazione non mi appassiona. Tutte debbono fare la loro parte in quanto il lavoro di cura non è appannaggio della sola madre; ognuno ha i propri ruoli.» Mi guarda così... pertanto il mio istinto di strega mi sussurra d’essere più profonda. Beh... ci stavo arrivando poiché le domando di quando al timone de l’Unità dette un taglio innovativo, più piacevole a leggersi. La Concita non fa una piega rispondendo che la mandarono via, visto che la sua direzione era molto libera, che non aveva né referenti né tessere di partito e nemmeno obblighi, quindi arrivò il nuovo segretario più in linea coi suoi dettati. «Non rispondevo più a quella logica, pertanto chiesi di venir sostituita. Mentre non è stato normale lasciarmi i debiti dell’azienda. Non ne parlo volentieri, è un problema risolto, la causa l’ho vinta e anche se non sarò risarcita dei molti milioni che mi hanno lasciato in debito ingiustamente, la giustizia mi ha dato ragione.» E le ha dato ragione anche Pane quotidiano, "striscia" Rai 3, con il suo occuparsi di cultura, storie, libri che cambiano il nostro Paese. «La politica è quella che accade nella città, non quella di cui se ne parla a Roma e nei salotti televisivi. È una cosa che riguarda tutti, a volte anche impressionante, e riuscire a raccontarla facendone una storia... non a caso ha avuto varie stagioni televisive». Finito il cortometraggio, veramente ben fatto col retrò di chi si confessa apparendo piccoletta, adolescente, un poco più adulta. Roba del bianconero coi "tempi" veloci. Vien fuori che il tempo livella tutto e che i rap-

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porti con mammy e papy erano d’amore, contraddizione e dannazione. Sandra Bonsanti sorridente, seduta nel parterre delle relatrici, osserva che Benedetta Barzini, ex splendida top-model di Vogue, oggi è rugosa eppur fresca! Perché la maturità dà identità e libertà. Sempre la Bonsanti ridacchia sarcastica quando spiega che agli esami si stupirono della sua tesi sulla mafia. «E perché non sulla moda?» Nel frattempo la De Gregorio dice di aver «provato sulla sua pelle» che in una redazione importante cercavano una donna la cui competenza poteva essere benissimo un optional, mentre la figurina regalava più immagine! «E per favore, l’otto marzo è tutto l’anno; e non fateci esser femministe!» Applaude il pubblico mentre i meno timidi osservano che la bruttezza rivaluta la bellezza poiché nell’immaginario collettivo “bella è stupida”! Ancora dalla galleria vien fuori che adesso è il tempo della fantasia e dell’arte. E che le donne sono il lievito madre dell’umanità. Mi ci ritrovo. Decisamente.

Carla Cavicchini

Concita de Gregorio

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insieme

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EVENTO

Amaretto che dolcezza! XXV Edizione al Museo del Cuoio e della Conceria

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na suggestiva location ha ospitato l'evento per l'intera giornata dell'8 dicembre. I cinque artigiani dell'amaretto: i forni Freschi e Fornaretto, il bar Giannini, le pasticcerie Loriana Betti e Vacchetta, che portano avanti la tradizione santacrocese iniziata tanti anni fa, nel Monastero di Santa Cristiana. Una giornata ricca di appuntamenti fra laboratori e letture per i più piccoli, idee per l'acquisto dei regali di Natale e, per finire, un aperitivo itinerante fra gli stand. La consueta sfida tra gli amarettai per aggiudicarsi l'Amaretto d’Oro 2017, è stata vinta dalla Pasticceria Loriana Betti. Ciascun amarettaio ha la propria ricetta. C’è chi aggiunge scorza di arancia e chi alle mandorle pelate ne unisce alcune con la buccia; chi monta le chiare a neve e chi usa solo i tuorli; chi fa coni (la forma tipica) più o meno pronunciati e chi dà una botta di calore per colorare un po’ di più la superficie. Insomma, non ne esiste uno uguale all’altro e i suoi cultori prediligono un tipo o l'altro (e la mano che lo ha preparato) seguendo il gusto personale. Ogni anno una giuria elegge il

più buono: il vincitore conserverà nel proprio negozio l’ambito trofeo realizzato dall’Oreficeria Baroni sino alla successiva edizione. Accanto ai classici sacchettini trasparenti contenenti i piccoli “dolcetti” (ottimi con un calice di champagne o un buon whisky), molti produttori ormai realizzano anche ricette alternative. Curiosità storiche dell'amaretto Fu proprio l'8 dicembre che Cristiana, la santa prottricie di Santa Croce, andata in pellegrinaggio ad Assisi sette secoli prima di Lourdes e Fatima, ebbe la visione della Vergine Maria. Tutta la storia di questo dolcetto ruota infatti attorno al Monastero di Santa Cristiana, dove nasce la stessa ricetta. A quel luogo sacro i Santacrocesi sono particolarmente devoti. Era usanza, per le suore di clausura locali, donare ai benefattori del luogo il dolcetto a base di mandorle, uova e zucchero. La ricetta viene fatta risalire alla fine dell’Ottocento, anche se la leggenda la vuole antecedente, data l’antichità del monastero le cui fondamenta furono gettate addirittura nel 1286, quando Oringa Cristiana Menabuoi fondò una piccola casa religiosa

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basata su regole agostiniane. Negli anni Cinquanta poi, la ricetta dell’Amaretto che era rimasta segretissima fino ad allora, venne regalata dalle suore alle proprietarie di un piccolo bar che si trovava di fronte a loro. Le due donne, fervide religiose, facevano da ponte fra la clausura e il mondo esterno, assolvendo anche ad importanti incombenze per la comunità. Fu quindi un segno di ringraziamento, come è sempre stata la missione di questo biscottino povero ma gustoso, per molti anni simbolo appunto di devozione e di gratitudine espresse nel periodo natalizio. Essendo diventato un prodotto della tradizione locale, è possibile trovarlo tutto l’anno in vendita nei panifici e nelle pasticcerie che ancora portano avanti la sua storia in nome di Santa Cristiana.

Ada Neri

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scuola

il Gruppo Lapi

per i giovani chimici del Cattaneo

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nche quest’anno gli studenti delle prime classi dell’indirizzo chimico dell’Istituto Cattaneo hanno ricevuto in regalo il loro camice da laboratorio. A renderlo possibile Toscolapi Srl, sponsor dell’iniziativa. Nella mattinata di lunedì 9 ottobre presso l’auditorium della scuola, si è svolto l’incontro con le classi durante il quale Francesco Lapi, responsabile del polo chimico del Gruppo Lapi, Paola Nacci e Sara Cerri, in rappresentanza dell’Azienda, hanno consegnato il camice ad ogni studente, alla presenza del Dirigente Scolastico Alessandro Frosini e dei docenti delle classi.

Questo è il quarto anno che un’Azienda del Gruppo Lapi fa da sponsor a questa iniziativa. La sponsorizzazione ha coinvolto negli anni passati anche Figli di Guido Lapi SpA, Finikem Srl e FGL International SpA, e proseguirà anche il prossimo anno con Conceria GI-Elle-Emme SpA. L’incontro per la consegna ufficiale dei camici di fatto è soltanto una delle diverse iniziative che rendono vivo e stretto il rapporto di collaborazione esistente tra l’Istituto Cattaneo ed il Gruppo Lapi. Altrettanto significativo è il Progetto “Mario e Mario per i giovani” che il Gruppo Lapi ha realizzato in collaborazione con la Fondazione Mario Marianelli

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e che ha l’obiettivo di introdurre i ragazzi al mondo del lavoro attraverso un’esperienza di stage all’interno delle Aziende del Gruppo e tirocinio formativo in Concerie del comprensorio, per gli studenti che risultano particolarmente capaci e meritevoli. Di non minore importanza “Fabbriche Aperte”, che permette ai ragazzi del Cattaneo di effettuare una visita guidata all’interno delle aziende del Gruppo. Questi progetti sono il segno tangibile dell’interesse che il Gruppo Lapi, importante realtà imprenditoriale del territorio, ha nei confronti del mondo della scuola e del Cattaneo in particolare.


intervista

Clemente Zileri Dal Verme

studente universitario e rugbysta

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on so niente di rugby, ma sono pronto e curioso di saperne di più. Per questa “didattica” mi sono rivolto a Clemente Zileri Dal Verme. Di storica famiglia, ventunenne, rugbysta fiorentino e studente al terzo anno di economia aziendale nell’Università di Firenze. Clemente, quando hai “scoperto” il rugby? Ho iniziato a giocare a rugby quando avevo 11 anni. Me lo consigliò un amico di famiglia. Questo sport mi piaceva fin da quando ero piccolo e da allora non ho mai smesso di seguirlo. Superasti una valutazione per farti ammettere? Non ho dovuto superare nessun particolare esame, nonostante fossi poco più di un bambino. C’erano due squadre per la nostra età e dopo un tirocinio di alcuni mesi entrai nella prima squadra, partecipando a molti tornei in giro per l’Italia. In quale squadra hai “debuttato”? La squadra dove ho iniziato era il Firenze Rugby 1931 e sono cresciuto nel vivaio delle giovanili: da allora a oggi che gioco in prima squadra nella nuova società che si chiama Medìcei Rugby Club che milita nel campionato di Eccellenza ovvero la massima serie nazionale che annovera le migliori 10 squadre d’Italia. Inoltre la mia squadra dispone di altre due squadre seniores: la seconda milita in serie B e la terza in C2. Quando hai giocato la tua prima partita di campionato? Ho esordito in prima squadra a 17 anni e 10 mesi nell’ottobre 2014, campionato di serie A. Le categorie nazionali sono in questo ordine: Eccellenza, Serie A, Serie B, Serie C1 e Serie C2.

ecc… In prima squadra i fiorentini sono pochi, tuttavia sentiamo di essere una grande famiglia in qualunque circostanza. Nel rugby non puoi non avere fiducia nel tuo compagno. Dentro e fuori dal campo, è molto importante il Team Building.

In quale ruolo? Pilone sinistro. Quale è il risultato più recente dei Medìcei? Nella stagione 2016/2017, vincendo il campionato nazionale di serie A abbiamo conquistato la promozione in Eccellenza, dove viene ammessa una squadra all’anno sulle 26 presenti nel campionato. È stato uno dei giorni più belli della mia vita legati al rugby; una stagione incredibile e un ricordo che porterò sempre con me. Come si svolge la tua giornata di studente e di atleta? Sono al terzo anno di economia aziendale e da quando sono professionista è veramente difficile conciliare lo sport con lo studio perché sono due attività molto impegnative. Mi alleno tutti i giorni e due volte la settimana abbiamo doppio allenamento. Ogni allenamento ci impegna per circa 2 ore e il sabato giochiamo la partita. Come sono i tuoi rapporti con i compagni di squadra? Con i miei compagni di squadra mi trovo benissimo. Siamo una rosa di circa 35 giocatori provenienti da tutta Italia, altri, invece, provengono dal Sud Africa, Francia, Scozia, Argentina

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Il Rugby Club I Medìcei Società Sportiva Dilettantistica, un club fiorentino di rugby a 15, si è formato nel 2015 per unione delle prime squadre della dismessa formazione I Cavalieri di Prato e del Firenze 1931, già CUS Firenze, ultima squadra del capoluogo toscano a militare in prima divisione, in serie A 1983-84. Nella stagione sportiva 2017-18 I Medìcei militano in Eccellenza, massimo campionato italiano, dopo aver vinto nel 2016-17 il titolo di campione d'Italia di serie A, la seconda divisione nazionale, e guadagnato così la promozione alla categoria superiore. La squadra, i cui colori sociali sono il bianco e il rosso, disputa i propri incontri interni allo stadio Mario Lodigiani, un complesso sportivo situato nel Campo di Marte vicino allo stadio Artemio Franchi. L'allenatore per la stagione di Eccellenza 2017-18 è il confermato ex rugbysta Pasquale Presutti.

Domenico Savini

Clemente Zileri Dal Verme. (Fotografia di Moreno Vassallo). Clemente Zileri Dal Verme durante un’azione contro le Fiamme Oro (campionato di gioco 2016/2017). I Medìcei festeggiano la promozione in Eccellenza, vincendo il campionato nazionale in serie A.

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design

unmondo Annunziata Forte Cristina Di Marzio

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scalare

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osì cantava Loretta Goggi agli inizi degli anni '70 e noi, da architetti, chiosiamo: facciamole belle! Scale e scalinate sono state protagoniste della storia dell'architettura in tutte le epoche, pensiamo ai Ziggurat, monumentali templi della Mesopotamia, caratterizzati dalle imponenti scalinate che dovevano avvicinare l'uomo il più possibile alle divinità ed erano simbolo di ascensione e di passaggio tra questo mondo e il mondo dello spirito. Pensando alla nostra storia dell'architettura, come non far andare la mente al perenne

movimento delle scale barocche, caratterizzate dalla magnificenza e dalla grandiosità? Vi ricordiamo la splendida e monumentale scalinata della Reggia di Caserta, gli scaloni del Borromini nei palazzi della Roma barocca, Palazzo Pamphili, Palazzo di Spagna e Palazzo Barberini; e infine non possiamo non menzionare la scalinata di Trinità dei Monti in Piazza di Spagna, recentemente restaurata. Non dobbiamo fare però una lectio magistralis sulle scale, bensì una chiacchierata. Contaminiamo quindi i nostri pensieri e la mente recupera le immagini delle lussuosissime scalinate nei film americani degli anni '40: onde perfette tra i capelli e corpi fasciati da impeccabili vestiti lunghi di seta, scendevano maestose scalinate di marmo bianco con sinuosi corrimano di ottone lucidissimo. Ci ha pensato Wanda Osiris a portare le scale hollywoodiane nei teatri del varietà. Ma noi, comuni mortali, cosa possiamo chiedere alle scale di casa nostra da cui scenderemo e saliremo affannati e di corsa, con le buste della spesa e gli zainetti della scuola? Noi sosteniamo che la scala, seppure collocata in una dimensione familiare, debba "fare scena", essere scenografica. È questo il diktat che ci deve guidare mentre procediamo nell'impresa di disegnare e realizzare la nostra scala. Sia che si debba scendere in taverna, sia che si debba arrivare in mansarda, passando per la zona notte, la prima cosa da fare è decidere la posizione del corpo scala. Essa deve mettere in comunicazione correttamente gli ambienti ai vari livelli, ma, soprattutto al piano terra deve diventare protagonista dello spazio, sia che si trovi all'ingresso e a maggior ragione quando è nel soggiorno. Dobbiamo poi decidere se ci orientia-

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mo verso una scala realizzata in opera, oppure optiamo per una prefabbricata. Possiamo dire tranquillamente che il livello estetico raggiunto oggi dalle scale prefabbricate e la possibilità di averle su misura e personalizzate nei dettagli e nelle finiture, rendono questa scelta valida soprattutto quando non siamo sicuri delle capacità delle maestranze a disposizione. Con l'aiuto dell'architetto, potremo districarci tra le moltissime soluzioni proposte dal mercato e scegliere con lui quella più adatta, da un punto di vista sia tecnico che estetico, al nostro ambiente. Le scale in muratura sono belle, rivestite di legno o di marmo; la qualità dei materiali, la ricercatezza del dettaglio e lo studio delle finiture sono fondamentali per dare vita ad un vero e proprio elemento di arredo. Concludiamo queste poche righe suggerendovi un corrimano luminoso proposto da Viabizzuno: appena caleranno le prime ombre della sera, l'effetto scenografico è assicurato.


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natale

Natale 2017

Eleonora Garufi

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ai come quest’anno l'atmosfera del Natale sembra aver preso piede prima del tempo, non tanto per la città, in TV o alla radio, ma nelle case. Sembra infatti che la tendenza di quest’anno sia di non aspettare il classico 8 dicembre per fare albero e gli addobbi in casa, ma di iniziare con largo anticipo. Secondo studi scientifici e sociali, sembra che questa anticipazione casalinga del clima natalizio dia ampi benefici all’umore e allo stato d’animo delle persone. Steve McKeown, psicologo e fondatore della McKeown Clinic, ha infatti spiegato che questa “anticipazione ossessiva dell’addobbo”, sia dovuta a una ricerca di sicurezza nel passato. Un tentativo di resuscitare la magia del Natale, di recuperare il bambino che eravamo, permette di fermarsi

dallo stress quotidiano e ridimensionare e apprezzare la sfera familiare fondamentale di questo periodo. Ecco quindi che anche nella ricerca di addobbi si torna alla tradizione prediligendo i classici colori di rosso, verde e bianco, in uno stile country ricco di fiocchi e pupazzi, per la gioia dei bambini. Legno e fiori di anice stellato per profumare ambienti con aromi di arancia e legno scoppiettante nei camini. L’immagine del Natale sotto la neve, in famiglia, nel tepore delle nostre case con i nostri familiari sembra, quest’anno più che mai, essere oltremodo rassicurante. Ma una delle polemiche più ridondanti di questo periodo pre-natalizio sembra essere un “Grinch” molto ingombrante che vuole sabotare lo spirito benefico del Natale che, anche se in modo un po’ illusorio, sembra arrestare ostilità, attriti e problemi (che poi si ripresentano puntualmente, appena passato il 6 gennaio con cinismo e prepotenza).

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I più grandi store e centri commerciali infatti, allineandosi ad una politica di Iper consumismo che già affligge molti paesi e aziende,decidono di rimanere aperti il 26 dicembre e il primo gennaio. A questo punto noi ci chiediamo: in che modo la vita familiare e la ricerca della tradizione possono conciliarsi con un business irrefrenabile che non perde un giorno dell’anno per arrotondare il proprio guadagno? Chi è alla base di queste scelte commerciali è forse solo al mondo da non aver nessuno con cui passare le feste, senza considerare che questa scelta grava su i poveri operai del sistema? Ma se le persone decidono davvero di passare il Natale in un centro commerciale, che senso ha poi ricercarne lo spirito in un albero decorato? Con l’invito a preservare quel poco che resta del sincero spirito natalizio, e a vivere questi giorni con le persone che amate cercando di farvi pervadere dai buoni propositi, vi auguriamo un sincero e tradizionale Buon Natale.


intervista

è NON

VERO

che chi dorme non piglia pesci!

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eramente piacevole ed interessante l'incontro sul tema: Come la qualità del sonno può migliorare la qualità della vita a cura della dottoressa Rosaria Sommariva esperta in medicina del sonno. La relatrice, professionista tenace ed appassionata con laurea in odontoiatria, viene spesso invitata nel ruolo di esperta in convegni nazionali ed internazionali, per l'alta competenza che contraddistingue il suo operato. «La mia equipe, voluta per il Centro del Sonno, è composta dal cardiologo, pneumologo, neurologo, andrologo ed altri specialisti ancora e collabora con molte università e ospedali per un buon team multidisciplinare. Parliamo delle apnee, quando si ha l'interruzione del respiro e questo può portare a gravi conseguenze, mettendo in pericolo tutto l'organismo. Basilare recepire i campanelli d'allarme... il russamento abituale e persistente, pause respiratorie riferite dal partner, senso di soffocamento, accentuano i così detti problemi notturni. Ricordiamo che il fumo contribuisce all'insorgenza delle apnee ed infiammazione dei tessuti. Tutto questo porta a dormire male, con tutte quelle conseguenze − oserei dire quasi nefaste − quali cali di memoria, sonnolenze diurne, disturbi cognitivi, riduzione della libido, senso di spossatezza. Non solo: avere il disturbo respiratorio notturno, può portare a problematiche cardiovascolari, ipertensione, ictus cerebrale, aritmie, all'invecchiamento cutaneo e cerebrale, al reflusso gastroesofageo. Pertanto risolvere il problema respiratorio notturno ca-

ratterizzato dalle apnee può cambiare la qualità della vita.» Parole sagge quelle che ascoltavamo. Nel frattempo "Morfeo" − seduto tra il folto pubblico − sorrideva alle persone presenti, invitandole a prendersi cura di sé, facendole scivolare “nelle sue calde e possenti braccia” poiché, insisteva la bionda – pure bella – dottoressa Rosaria Sommariva «Dormire bene aiuta a vincere in ogni campo». Proseguiva poi la relatrice osservando che: «tali patologie interessano anche i bambini e l'iperattività che spesso si osserva nel piccolo può essere legata ad una cattiva respirazione notturna. Il bambino che respira con la bocca ed ha disturbi respiratori, presenta un sonno molto agitato con sudorazione eccessiva. Durante il giorno perde facilmente la concentrazione ed è sempre in stato di agitazione, quindi prima di pensare subito allo psicologo, sarebbe opportuno accertare che non abbia un problema durante il corso della notte». Immancabili le domande: “Le ore di sonno... beh... è relativo, molti statisti dormivano e dormono poche ore a notte, tuttavia le nostre belle otto "orette", sarebbe necessario farle, meglio ancora se posizionati “di lato”. Quanto all'insorgenza della menopausa, le tempeste ormonali 'regalano' insonnia e modi di dormire frammentari. Il consiglio pertanto è d'alzarsi, leggere, oppure fare il bucato poiché aspettare nel letto è inutile e serve solo ad innervosirsi. La melatonina? Non male, in questi casi aiuta, consiglio poi di togliere vivamente quella luce blu dei telefonini che agisce negativamen-

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te sul buon rilassamento.» “VIA”pertanto la luminosità allo schermo già prima delle ore 20 e, sappiate che anche la Tv costantemente accesa non concilia il sonno. «La sera – concludeva la Sommariva – è bene staccarsi dal computer, dormire in locali climatizzati, senza fonti di luce, perseguendo la regolarità degli orari.»

Carla Cavicchini

Rosaria Sommariva

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medicina

benefico calcio Fernando Prattichizzo

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l calcio è il quinto elemento più abbondante del corpo umano e il più abbondante metallo. Gli ioni di calcio svolgono un ruolo vitale nella biochimica e nella fisiologia dell’organismo come elettroliti. Il calcio è un componente importante di una dieta equilibrata, giacchè nel nostro organismo possediamo circa 1 kg di calcio, di cui il 99% è fissato alle ossa e l’1% circola libero nel sangue. Lo ione calcio rappresenta un cofattore indispensabile per numerosi processi metabolici cellulari, per cui la sua carenza va a menomare acutamente e/o cronicamente la funzione di tutti gli organi e tessuti. Un’ipocalcemia, spesso accompagnata da ipomagnesemia e da alcalosi respiratoria, determina la tetania, cioè una contrattura muscolare, prevalentemente distale, per l’aumentata eccitabilità neuromuscolare, che fu dettagliatamente studiata nel 1912 dal fisiologo tedesco Jacques Loeb. Nella sua seconda formula, un’autentica legge universale dell’equilibrio minerale, l’eccitabilità neuromuscolare risultò essere direttamente proporzionale alla concentrazione degli ioni sodio e potassio, ma inversamente proporzionale alla concentrazione degli ioni idrogeno, calcio e magnesio. Da molto tempo è noto che il calcio rappresenta un potente moderatore del sistema nervoso e oggi sappiamo che il 32% dei casi di ipocalcemia da ridotta funzione delle ghiandole paratiroidi esordisce con un attacco convulsivo. Un secolo fa il calcio veniva propagandato come «tonico equilibratore del sistema nervoso; attivatore delle funzioni emopoietiche, fagocitarie e del ricambio; remineralizzante; stimolante delle sintesi biologiche», indicato nel «rachitismo, stati pretubercolari e tubercolari, emottisi, ematurie, pleuriti e peritoniti essudati-

ve, edemi nefritici, ecc.». Anche oggi il calcio è ampiamente prescritto per la terapia dell’osteoporosi e per prevenire l’iperparatiroidismo secondario nell’insufficienza renale cronica. Si è persa, invece, la sua utilizzazione nelle emorragie. Lo ione calcio è un elemento, considerato come il fattore IV della coagulazione, che è effettivamente coinvolto in più di una reazione della cascata coagulativa e che è riconosciuto come indispensabile alla via finale. I due esami di laboratorio attualmente e universalmente impiegati per la valutazione della coagulazione, cioè il tempo di protrombina e il tempo di tromboplastina parziale attivata, sono effettuati su un campione di sangue in provetta contenente citrato di sodio, che agisce come anticoagulante, in quanto legante gli ioni calcio presenti nel campione. In laboratorio viene aggiunto un eccesso di calcio per annullare l’effetto anticoagulante del citrato, per cui questi esami non sono in grado di valutare la reale situazione coagulativa, come determinata dai livelli di calcio ione effettivamente presenti nell’organismo. Fino ad alcuni decenni fa usava determinare il tempo di emorragia, che veniva per lo più effettuato con la tecnica di Duke, tramite una puntura al lobo dell’orecchio e l’assorbimento ogni 15 secondi della goccia di sangue su carta bibula. Questo esame, valutando anche le cause vascolari, le riduzioni e le funzioni piastriniche, costituiva indubbiamente il test più completo per valutare la capacità coagulativa del soggetto. Come a tutti noto, la moderna Medicina Basata sulle Evidenze attende però i risultati degli studi randomizzati e controllati per fornire delle raccomandazioni cliniche. Con uno studio apparso su Stroke nel 2013 Inoue Y. e altri hanno dimostrato che tra i ricove-

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rati per emorragia intracerebrale bassi livelli di calcemia all’ingresso erano associati a un maggior volume dell’ematoma e ad una maggiore gravità clinica. La mortalità a 30 giorni dell’emorragia cerebrale è del 50% ed il fattore che ne contribuisce maggiormente è l’espansione dell’ematoma, che si verifica nel 40% di essi. Nel 2016 sul Journal of the American Medical Association Morotti A. e altri hanno pubblicato un ben disegnato studio prospettico in cui l’ipocalcemia era correlata con l’espansione dell’ematoma. Gli ioni calcio rappresentano un cofattore essenziale della cascata coagulativa e giocano un ruolo importante nella conversione della protrombina in trombina. Nei modelli animali dei roditori è stata dimostrata da tempo l’associazione tra ipocalcemia e tendenza alle emorragie. Nonostante tutto ciò, le linee guida italiane sull’ictus cerebrale, stilate da ben 50 associazioni scientifiche, non accennano neanche alla terapia con calcio nell’emorragia cerebrale e le linee guida della Toscana per la profilassi del tromboembolismo venoso reputano essenziali ma sufficienti per la stima del rischio emorragico l’emocromo, il tempo di protrombina, il tempo di tromboplastina parziale attivata e la fibrinogenemia. Finanche il raccomandato punteggio di stima del rischio emorragico derivante dall’IMPROVE non comprende tra i fattori la valutazione della calcemia. I dati pubblicati a ottobre 2017 nei Mayo Clinic Proceedings evidenziano che in una popolazione a rischio coronarico un ridotto livello di calcemia, anche all’interno dell’intervallo di normalità, aumenta il rischio di morte cardiaca improvvisa. Quindi, parrebbero esserci tutti gli elementi per una rinnovata valorizzazione del calcio in diagnostica e in terapia.


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vaccinarsi, perché? L

e vaccinazioni vanno considerate uno degli interventi più sicuri ed efficaci di prevenzione nella storia della medicina e della sanità pubblica. Dalla prima vaccinazione contro il vaiolo effettuata in Inghilterra nel 1798, fino ad oggi, grazie all'introduzione di questa forma di prevenzione, l'incidenza di malattie gravissime come il vaiolo, il tetano, la poliomelite, la difterite e molte altre, è fortemente diminuita. L'obiettivo dei programmi di prevenzione vaccinale è quello di conferire uno stato di protezione ai soggetti sani che per determinate condizioni epidemiologiche, occupazionali, di salute sono esposti al pericolo di contrarre determinate infezioni; e di ottenere l'eradicazione o almeno la riduzione di malattie che causano gravi complicanze o per le quali non esiste terapia. I vaccini per poter essere efficaci nella popolazione devono raggiungere una adeguata copertura vaccinale, cioè se la percentuale delle persone vaccinate è molto alta, l'agente infettivo non riesce più a propagarsi, (la cosidetta immunità di gregge), garantendo così anche la protezione indiretta di coloro che per motivi di salute non possono essere vaccinati. Purtroppo però c'è un calo della copertura vaccinale, fenomeno diffuso su tutto il territorio nazionale. Storicamente in Italia la copertura vaccinale per le vaccinazioni obbligatorie si è sempre collocata intorno al 90-95%, gli ultimi dati pubblicati dal Ministero della Salute mostrano una discesa al di sotto della soglia considerata di sicurezza dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, del 95%. Il diffuso atteggiamento di scetticismo, di esitazione e addirittura di rifiuto delle vaccinazioni deriva spesso da disinformazione e da

dati ingannevoli: emblematico è il caso del legame tra vaccini, in particolare quello del morbillo e autismo, poi rivelatosi una frode scientifica dettata da interessi economici. Lo scetticismo verso i vaccini è sostenuto da informazioni contrastanti che circolano sopratutto su Internet; nell'ambito dell'offerta ampia di informazioni è fondamentale conoscere le fonti autorevoli e verificarne l'affidabilità. I vaccini hanno subito e subiscono critiche pesanti da una parte esigua della comunità scientifica e dell'opinione pubblica che ha paura degli effetti collaterali; che crede in realtà che i vaccini siano più pericolosi delle malattie che prevengono; che crede non tutti i vaccini siano necessari. In realtà la gravità di alcune malattie è spesso sottovalutata, un esempio emblematico il morbillo: la scomparsa dell'obbligo vaccinale in Italia con conseguente riduzione della copertura, ha portato alla comparsa di alcuni cluster epidemici di morbillo con pericolo di epidemie più vaste e di aumento delle gravi complicanze della malattia come quelle broncopolmonari e più di rado di un encefalopatia grave ch che porta ad esiti neurologici permanenti gravissimi. Il Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale con la legge 119 dei 31 luglio 2017 prevede che le vaccinazioni obbligatorie passino da quattro a dieci. Per i minori di età compresa da 0 a 16 anni e per tutti i minori stranieri non accompagnati, sono obbligatorie e gratuite le seguenti vaccinazioni: antipoliomelitica, antidifterica, antitetanica, antiepatite virale B (già obbligatorie), antipneumococcica e antimeningococcica C, antimorbillo-parotite-rosolia, anti Haemophilus influenzale, anti varicella e anti papilloma virus. In caso di mancata osservanza dell'ob-

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bligo vaccinale, è prevista un sanzione amministrativa pecunaria da 100 a 500 euro; per la mancata presentazione dei documenti di vaccinazione previsti, i bambini da 0 a 6 anni non potranno essere ammessi a frequentare le scuole d'infanzia pubbliche e private. La necessità di imporre l'atto medico delle vaccinazioni attraverso una legge, fa pensare ad una sconfitta dell'informazione sui problemi di salute; è importante fornire una corretta informazione da parte di tutti gli operatori sanitari e valutare le fonti d'informazione specialmente in rete, (il numero di persone che accedono alla rete per informarsi sui problemi di salute è dell'80%) che sono spesso sbilanciate verso una propaganda contraria alle vaccinazioni. Pur con perplessità per tutta l'agitazione e l'ansia di questi ultimi mesi per effettuare tutti i vaccini in tempi brevi, dopo anni in cui questo argomento era stato”dimenticato”, l'attuazione dell'obbligo vaccinale non va visto come una imposizione ma come un'opportunità per difenderci da malattie pericolose e sempre presenti . www.baggianinutrizione.it

Paola Baggiani


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oroscopo

FEDERICA FARINI

come sarà il

2018

2018 ricco di sfumature, in bilico tra sentimento, praticità e coraggio: è ora di abbandonare i protagonismi e accogliere sfide più interiori. Forte il transito di Plutone e Saturno - congiunti nel Capricorno - signore del dovere e delle prove, a favore di decisioni costruttive e taglio dei rami secchi per importanti cambiamenti personali e collettivi. Nettuno, Urano e Marte regaleranno intuizioni e sorprese, traghettandoci fino a novembre, quando un tocco di passione verrà aggiunta da Giove, il 9 novembre in ingresso nel suo domicilio Sagittario, in ricongiunzione con Urano nuovamente in Ariete: pronti ad evolvere, felici e fortificati dagli errori passati. ARIETE. pilastri. Meglio tardi che mai. Meno incasinati e più focalizzati, con lo sguardo sempre vigile ed entusiasta verso il nuovo (questa volta senza fretta), regalo di Urano nel vostro segno, il 2018 fortificherà ciò che avete già cambiato. Con Saturno e Plutone nel segno del Capricorno, dalla decima casa (legata alle ambizioni), vi accingerete metaforicamente alla conquista di ciò che resta ancora da esplorare. Avanzamento, crescita, autonomia e affermazione saranno pertanto in primo piano, da maggio in poi con Urano nel segno del Toro, vostra seconda casa, punterete su aumenti di finanze e a successo materiale per sentirvi appagati come dopo un acquisto da Tiffany. L’amore sorride agli Arieti single e in coppia, riscaldando i cuori, da gennaio ad aprile in tono caliente: con Venere e Marte leggeri e divertenti, più di un palpito vi abbraccerà, e forse proprio in marzo, per festeggiare il vostro compleanno, i fiori d’arancio potrebbero essere un degno happy-end. TORO. scoprire. Al cuor non si comanda. Nel 2018, con Giove opposto dallo Scorpione, ormoni e neuroni vivranno in gran subbuglio, mentre cercherete una Signorina Rottermeier che vi aiuti a riportare l’ordine smarrito. Abituati a non avere fretta, per voi Tori sarà il momento della corsa per andare a prendere (o riprendersi) ciò che vi appartiene, lasciando il comodo divano. A inizio anno la forma fisica non sarà alle stelle, motivo in più per risvegliare i vostri muscoli. Con Urano nel vostro segno, dalla metà di maggio all’8 di novembre, Saturno costantemente a favore dal Capricorno e i passaggi di Marte in Acquario, fare orecchie da mercante ingigantirebbe solo i conflitti. Avventuratevi per cogliere un’occasione speciale. Autunno con amori improvvisi e inaspettati complice Cupido, che non lascerà spazio ai rapporti stanchi: lifting anche per le storie salde di vecchia data, che vivranno una seconda giovinezza. Gratificazioni e non solo ramanzine anche nel lavoro. Trasformazione da baco a farfalla, solo se lo vorrete davvero! GEMELLI. saggezza. Quando si chiude una porta, si apre un portone. Nel 2018 ottimi saranno i passaggi di Giove in Scorpione e di altri numerosi pianeti (tra cui Saturno non più contro) a intonare un gradevole ritornello: guadagni e risultati. Le promozioni lavorative non mancheranno nella prima parte dell’anno, sospinti da Marte-energia Duracell geneticamente modificato. Ancora Urano vi spingerà forte dall’Ariete da gennaio a metà maggio e poi dall’8 novembre a fine anno, infilando palle strike in tutti i settori. Dall’8 novembre in poi Giove si opporrà in Sagittario, richiedendo una revisione delle relazioni e dei rapporti d’amore: non dovrete necessariamente armarvi di wedding-planner o di strizzacervelli, ma mettere regole precise. Meno superficialità, ragione per cui per molti Gemelli sarà ora di chiudere un ciclo (per alcuni anche storie lunghe) e cercare nuovi nidi, L’anno vi vedrà a tratti molto differenti dal passato, maturi e forti come mai. CANCRO. intensità. Chiodo scaccia chiodo. Nel 2018 per crescere occorrerà lasciare qualcosa di vecchio e acquisire qualcosa di nuovo. Con Saturno per tutto l’anno in opposizione dal Capricorno, nuovi saranno i vostri obiettivi, le strategie, i campi lavorativi e le relazioni. Per le carriere avviate, meglio proseguire senza cambiamenti: attendete la maturazione, non saltate nel vuoto, lasciate in stand-by il mood da cicala. Fino a novembre avrete un asso nella manica chiamato Giove in Scorpione, che nella vostra quinta casa e insieme a Nettuno dai Pesci, assicurerà divertimento, fortuna e leggerezza. Fidanzamenti dopo anni di buio? Amanti sommati che si presenteranno al campanello di casa? Zuffe alla sceneggiata napoletana e garbugli da telenovela? A marzo con Venere e Urano quadrati in Ariete l’alcova più che un letto potrebbe trasformarsi in ring. Da maggio a settembre sarete più rilassati: meglio un giorno da leone o cento da pecora?

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LEONE. carpe diem. Chi fa da sé fa per tre. Da inizio anno a maggio Marte e Venere si divertiranno ad accendere di gelosia i cuori dei nati sotto il segno zodiacale del Leone, Otello incalliti: benvenuto all’eros odi et amo e alti e bassi in amore! Giove, barbino fino all’8 di novembre, darà qualche grattacapo a casa (come proprietà) o in famiglia. Tutti vi cercano, tutti vi vogliono, altro che Mary Poppins. Sarà tra maggio e novembre che il pianeta Urano si sposterà dall’Ariete al Toro: revisione della carriera e delle ambizioni. Cosa volete diventare da grandi senza commettere (ulteriori) sradicamenti distruttivi? Giugno e luglio profumeranno di relax e amore light, con i passaggi di una scanzonata Venere in Gemelli e, a sorpresa, un amore speciale potrà diventare qualcosa di più di una semplice storia. Da settembre in poi, con picco a novembre, con il ritorno di Urano in Ariete, molti Leoni potrebbero virare per momentanei spostamenti di casa o lavoro, ma soprattutto verso… un amore così grande.

VERGINE. libertà. Una rondine fa primavera. Finiti i mal di pancia di Saturno, i nati sotto il segno della Vergine entreranno nel 2018 tonici e allenati: già da gennaio con una strepitosa danza di Venere nel segno del Capricorno, in tripletta con Saturno e Plutone, l’appeal sarà al top, tirato a lucido da Marte e Giove amici nello Scorpione. Il vostro charme farà capitombolare le alte sfere e amore farà rima con potere e occasioni mondane, Un po’ di maretta a marzo: abbandonatevi al piacere, ricordando che le mareggiate fanno parte della vita. La tenacia sarà di gran moda nel campo dell’eros: Saturno dall’amico Capricorno nella vostra quinta casa ristrutturerà relazioni nuove e vecchie. Aprile, luglio e settembre “all you need is love”. È da metà maggio al 7 novembre che si avrà il climax dello show: con Urano in trigono dal Toro, impossibile essere ancora single, ma soprattutto sulla stessa poltrona d’ufficio. Carriera: e quando mai voi virginiani avete lasciato qualcosa a metà? Assumete un avatar per godervi tutto!

BILANCIA. ordine. A buon intenditor, poche parole. 2018 anno della chiarezza. L’arrivo di Saturno in quadratura in quarta casa vi proporrà una revisione delle relazioni famigliari e dei doveri ad esse collegate per compiere quel salto di indipendenza in programma da anni. Siate come Forrest Gump, la vostra vita sarà davvero come una scatola di cioccolatini. Donate ai poveri la coperta di Linus: se non lo farete, i pianeti si divertiranno a farvi dispetti. Sarà ora di aprire il cuore, se ancora non lo avrete fatto, e da gennaio a marzo con uno sfavillante Marte in Sagittario il postino potrebbe assomigliare a Brad Pitt o a una seducente Charlize Theron. Anche se l’amore non sarà quello definitivo, potrete appoggiarvi a un solido bastone della vecchiaia. Stabilizzarsi significherà anche trovare una sistemazione che diventi il vostro castello. Tra maggio e novembre Urano bonificherà una seconda chance, spostandosi dalla gravosa opposizione in Ariete, concedendovi respiro dopo anni di corsa ad ostacoli che nemmeno un canguro avrebbe potuto. Dal 9 novembre l’ingresso di Giove in Sagittario come il Genio della Lampada materializzerà il risultato: siete arrivati alla fine e non ci vedete più dalla fame?

SCORPIONE. emozione. Agente 007 - Si vive solo due volte. 2018: tutto potrete sperimentare tranne che la noia, con mente aperta e cuore più recettivo che gli ultrasuoni di un pipistrello. Nettuno vi avvolgerà nel suo bozzolo di fantasia e passione, Plutone e Saturno positivi in Capricorno trasformeranno per voi molte situazioni in oro, come Re Mida, e solo chi tra voi sprecherà gli ottimi influssi di questa potente coppia finirà per trasformare l’oro in… rileggetevi la storia. Love da alti e bassi in primavera, con lasciate e fughe e successivi ritorni sui propri passi. Tra maggio a novembre, con Urano in opposizione ci sarà la resa dei conti per le coppie vacillanti di vecchia data: non è tempo di stare in casa ad ammuffire. Non vi farete mancare nulla, nemmeno ritorni di ex formato mummia da un passato più che giurassico: un cuore intasato come un semaforo della Big Apple all’ora di punta. Fondamentale non navigare a vista, sia nelle relazioni che nel lavoro: meglio sempre avere una mappa a portata di mano (e anche fingere di avere un piano credibile)! Come James Bond, tutto sarà bene ciò che finirà bene… pronti per nuova adrenalina.

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SAGITTARIO. semplicità. Rosso di sera, buon tempo si avvera. 2018 is… “The Beach”: rilassati e calmi, con un Giove in Scorpione fino all’8 novembre che vi rimpinzerà il portafogli, la formica laboriosa (voi) è ormai diventata imprenditrice da franchising e guarderà dall’alto al basso la cicala scansafatiche in liquidazione. Fino a metà maggio e dopo il 7 novembre Urano sarà ancora in Ariete ad infuocare il vostro cuore e i divertimenti, come medicina miracolosa che agirà meglio di un personal coach. Promozioni di carriera e avanzamenti con Saturno, Marte e Plutone in transito nella vostra seconda casa solare (Capricorno) e possibili acquisti di beni materiali/investimenti e aumenti di stipendio che vi renderanno papabili soci di Kardashian. La grinta non vi mancherà in ogni settore, con Marte in quinta: desiderio di frequentare ambienti nuovi anche per hobby e tempo libero, con totale apertura alle conoscenze in ambienti multietnici. Irretirete cuori al ritmo di un tormentone perfetto: un cuore matto che ti segue ancora. E giorno e notte pensa solo a te! Dall’8 di novembre il vostro pianeta guida Giove tornerà nel vostro segno, sancendo l’inizio di una nuova era della vostra vita: dai galà ai tramonti, che non sarete soli a contemplare, ma in dolcissima, melassosa compagnia!

CAPRICORNO. comodità. Chi la dura la vince. “Anno nuovo, vita nuova” non solo un augurio, ma una fiammante realtà: Saturno e Plutone nel segno, Giove in Scorpione in casa undici per una rete di contatti meglio di Chiara Ferragni e Urano ciliegina sulla torta vi renderanno appetitosi come un buffet di matrimonio dopo mesi di dieta da Kaori-Philadelphia. Se il vostro girovagare e combattere vi ha resi stoici, per voi che detestate gli improvvisi imprevisti della vita (anche se siete tra i migliori a saperli gestire lucidamente), sappiate che nel 2018 per tutto l’anno avrete modo di portare a termine imprese, saghe ed epopee. Se non siete imprenditori, sarà proprio l’ora di cominciare! Da metà maggio al 7 novembre Urano nel segno amico del Toro apporterà grandi rivoluzioni: coronamenti d’amore di vasta gamma e forma, “finchè morte non vi separi”, così felici delle vostre scelte da dimenticare ogni dubbio. In aprile Venere in Toro proporrà magici momenti per amare senza regole né fissa dimora. Il cuore vivrà il Tempo delle Mele da metà ottobre a fine dell’anno, a ricordarvi quanto è speciale sentirsi amati, realizzati e di aiuto anche al mondo intero.

ACQUARIO. ristrutturare. Le vie del Signore sono infinite. Se è pur vero che nessuno meglio degli Acquari sa essere trasformista e veloce, occorre anche sottolineare da quanti anni vi adoperate perché le vostre migliori abilità vengano affinate: con Giove in quadratura fino all’8 di novembre, le questioni lavorative saranno (ancora) all’ordine del giorno. Si tratterà di rivisitare il business-plan, ridurre spese e sprechi. L’anno inizierà con l’amore in poppa: se la vita vi darà prove, voi apparirete tonici e corteggiati. Fino al 15 maggio e dall’8 novembre in poi Urano vi assisterà ancora dall’Ariete: mollo tutto e vado al massimo (oppure in Messico?). Dal 16 maggio all’8 di novembre, con Urano in quadratura dal Toro avrete paura, o solo dubbi? Voi rivoluzionari? Rimandate il Roxy Bar a tempi più fortunati. Marte e Venere vi confonderanno: ci vorrà proprio una fuga sentimentale, o un mutuo trentennale, qualcosa di forte per voi libertini, altro che vodka. Aprile e giugno critici con Venere in quadratura proporranno caos. Meglio rimandare le spese dall’8 di novembre in poi con l’uscita di Urano pazzo e l’ingresso di Giove nel parente Sagittario: potreste decidere di convolare a nozze inaspettate e milionarie, ottenendo anche un impiego che tanto inseguivate. Ma la vostra testa sarà già oltre!

PESCI. leggerezza. L'appetito vien mangiando. Nella buona, ma soprattutto nella cattiva sorte, qualcuno è stato e sarà costantemente vicino ai nati sotto il segno dei Pesci: Nettuno, il vostro pianeta guida, che nel 2018 vi regalerà intuito, creatività, successo. Giove, Saturno, Urano e Plutone saranno i pianeti più santificati nella vostra recitazione del rosario: un cielo pacato e sereno. Giove e Saturno/Plutone a favore nelle case nove e undici rafforzeranno la sensazione di toccare con mano sogni nemmeno poi così lontani, nei percorsi lavorativi che coinvolgeranno persone e relazioni, con una sana dose di meritato piacere. Il cuore riprenderà a battere, pronto a nuova felicità, e come Clark Gable sarete pronti a mandare a remare la vostra Rossella O’Hara di turno. Che si arrangino tutti senza di voi. Sarà l’estate a riaccendere gli ultimi cuori solitari; l’autunno si farà infuocato come le ultime estati italiane. Marte da metà novembre nel vostro segno vi farà da regista, sommato a Giove di passaggio in Sagittario che molto vi farà rischiare sul tavolo della passione (e del lavoro), per una fine da commedia rosa, spinti dal vento dell’amore e della fortuna.

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