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Centro Toscano Edizioni ISSN 1973-3658

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Anno XIX n. 3/2017 Trimestrale € 10,00


Rag. Alessandro Susini Agente procuratore Promotore finanziario

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EDITORIALE

Ai nuovi e vecchi amici

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iamo pronti a ripartire; o meglio, siamo già ripartiti. Il bilancio estivo è stato positivo. Come vi avevamo anticipato a giugno, abbiamo partecipato a numerose serate in giro per i teatri e festival toscani, con un buon risultato: spettacoli ottimi e molta partecipazione di pubblico, in alcuni casi numeri da record. Abbiamo partecipato a feste e anniversari di aziende e consorzi, mostre d'arte, eventi mondani, serate danzanti e serate di beneficenza. La nostra sensazione è che sia ritornata la voglia di stare insieme, di vedersi, di condividere, di confrontarsi come nel passato, quando ci si incontrava nelle piazze per conversare, scherzare e ballare. Oggi, certo, le location sono altre, diverse e più estrose. Io prediligo specialmente le fabbriche e officine, che poche ore dopo la fine del lavoro, diventano spazi per gli eventi, e l’indomani tornano a essere centri di lavoro. Occasionali o deputati al ritrovo che siano i luoghi degli incontri, importante come sempre è stare insieme, dialogare e vivere delle sensazioni dirette, senza filtri. Ciò ormai si verifica nelle generazioni non giovanissime, anche se poi in questi eventi nessuno rinuncia alla voglia di farsi i "selfi", che passano subito sui social, specie se si sta insieme al personaggio famoso: “mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa”: questa malattia colpisce molti. Un selfi, per ora, non ha mai fatto male a nessuno. A meno che non stiate cercando un lavoro, perché in questo caso, il possibile vostro datore non mancherebbe di scorrere tutti i vostri post per capire meglio chi siete, o meglio chi vorreste essere. Allora con i selfi, che non sempre comunicano una buona immagine di noi stessi, qualche rischio si corre. A proposito delle amicizie che possono nascere anche da un incontro occasionale, salvo il più delle volte cadere alla prova del tempo, non posso non dedicare un mio pensiero a un vero amico di lunga data recentemente scomparso dopo un periodo di grande sofferenza: Alberto Pozzolini. Come ricorderete, oltre ad altri pregevoli incarichi, Alberto è stato un nostro direttore, dopo l'altro grande personaggio santacrocese, il giornalista Mario Lepri. Oltretutto è stato anche quello che mi ha portato alla professione di giornalista e quindi di direttore della rivista. Insieme per un certo periodo abbiamo portato avanti questo giornale. Ricordo i pomeriggi passati in redazione a Fucecchio, quando lui programmava i vari articoli e interviste con grande emozione e sensibilità, e mi apriva un mondo nuovo e diverso. Alberto mi dava sicurezza: sapevo che ce l'avrei fatta con il suo supporto, e così è stato. Anche se dopo le nostre strade si sono divise, ho sempre stimato e ammirato il suo sapere. In alcuni casi, forse, avrei affrontato le situazioni in modo diverso dal suo, ma Alberto era fatto così: aveva idee chiare e sapeva affermarle. Non so quanto abbia imparato da Alberto. Di sicuro, la sua personalità e il suo modo di essere mi hanno portato a continuare questo lavoro con volontà e dedizione. Un saluto e un abbraccio a voi tutti, nella memoria di Alberto Pozzolini.

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Photo Archivio CTE Stampa Bandecchi & Vivaldi s.r.l. - Pontedera (PI) ISSN 1973-3658

In copertina: Lorenzo D'Angiolo, Il sole e il grano, 2010 tecnica mista su tela cm 169x120

Reality numero 85 - settembre 2017 Reg. Trl. Pisa n. 21 del 25.10.1998 Responsabile: Margherita Casazza dal 19.11.2007

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SOMMARIO

ARTE MOSTRE letteratura territorio storia 10 20 22 24 26 29 32

In viaggio con D’Angiolo L’universo Bartolini Cinquecento a Firenze Che diamante, il Fiorentino! Il pittore nella tela L’arte in Italia Il fresco a spalla

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Borghi Toscani I tesori di Madame Loire Niccolò Ridolfi Nuovo jazz brasiliano Venezia Quello scatenato giullare toscano Addio Jerry

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La “schiacciata” della Trinità Emanuele Repetti Il pane di Enzo e Titomanlio Elisa Bonaparte George Eliot 55° Premio Campiello Il vocabolario

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SOMMARIO

spettacolo EVENTI economia società COSTUME 59 60 61 62 64 67 68

Signori si nasce, parola di Totò Serie TV mania Catherine Deneuve 11 Lune a Peccioli Estate ardente Parola di donna Verso il tubone

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Signore a quattro ruote Vestirsi di sana leggerezza Quando sfilavano abitini svelti Beauty & wellness Resilienza Nutraceutica e nutrigenomica C’è del tenero

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Tutela di prodotto Il Consorzio Conciatori Chilling out together Il rispetto torna tra i banchi 50 anni di Tennis Club Auto classic Z3mendi

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Nicola Micieli

Nel seguito del mio lavoro mi sono orientato sullo studio del colore come fonte primaria della luce e in questo senso si è sviluppata la mia ricerca pittorica, favorita anche dalla fotografia, che mi ha fatto capire il comportamento della luce che investe un oggetto e ne determina la consistenza fisica e spaziale. Inoltre la fotografia, più d’ogni altro linguaggio artistico, mi ha fatto conoscere il gioco mutevole dei colori investiti da un fascio luminoso. Attraverso questa conoscenza, ho potuto creare su uno spazio bidimensionale un’immagine, apparentemente tridimensionale, evocandone anche la spazialità temporale. Il mio amore per la natura in tutte le sue componenti mi ha consentito, in questi ultimi tempi, di riappropriarmi di una nuova ed essenziale immagine, per riuscire a esprimere la commozione che mi investe ogni qualvolta mi trovo a vivere il silenzio e l’incanto del variare della luce del sole, che filtra tra gli alberi di un bosco, in un divenire continuo che vorrei tanto ritrovare nei miei quadri.

’è uno snodo cruciale nella ricerca visiva di Lorenzo D’Angiolo, intorno al 1985. Dopo un ventennio di pittura, egli incontra la fotografia creativa, e presto se ne appropria per condurla in parallelo all’esercizio della pittura. Tra le due discipline, che praticherà ognuna nella sua autonomia di linguaggio, si verificherà una mutua ricaduta di acquisizioni, relative soprattutto alla luce e alle sue funzioni formatrici, espressive e simboliche. D’Angiolo si orienterà sempre più a concepire la partitura pittorica come “scrittura di luce”, mentre nella fotografia, in fase di ripresa e di sviluppo e stampa, cercherà il dosaggio sapiente, di squisita derivazione pittorica, delle campiture di bianchi e grigi scalati sin quasi al nero, che tuttavia non occlude la leggibilità della forma. Esemplari, in questo senso, le predilette immagini di edifici e muri, ma anche sezioni di terreni, spiagge, dune nelle quali al gioco dei piani si sostituisce il fraseggio dei segni. In queste fotografie, la gradazione dei valori della luce consente di smaterializzare visivamente i muri, il terreno e comunque la materia solida. Si permutano in aeree e soffuse concrezioni di luce elementi strutturali e ponderali altrimenti percepibili come barriere. E si segnalerà inoltre la capacità di restituire, come nella pittura, la percezione di un’ora e di un clima, che si traduce nell’assolutezza della scacchiera di luci e ombre ordinate come componenti architettoniche di un’opera al limite astratta o nella scanalatura d’un declivio di duna mossa dal vento. Nella pittura D’Angiolo aveva proceduto, sino al cruciale 1985, a una progressiva riduzione della partitura a impianti larghi e di una certa arcaicità, giungendo a un sintetismo liminare che lasciava presagire, come ulteriore passo, il deflusso nell’astrazione. L’immagine già appariva un’entità residuale: impronta più che

Lorenzo D'Angiolo

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La luce dell’alba, 2000 tempera vinilica su masonite cm 187x155

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Il prato, 2010 tecnica mista su tela cm 153x120

presenza di corpi o di conformazioni naturali. A un’area di confine parevano appartenere ormai il segno e la materia, elementi morfologici che la luce, nella sua sovranità di sostanza metafisica intrinseca al tessuto pittorico, rendeva aleatori e pressoché intangibili. Imprimevano un senso di eterea liquidità, a una materia già assorbita per la magrezza delle tempere, le predilette tinte chiare variegate su registri rosa violacei, grigi cilestrini, gialli virati di verde, bianchi calcinati. Spogliato del fasto ornamentale, del fluente linearismo, della carica gestuale, ridotto a un tratto esile e raggiante, il segno/ colore appariva filamento serico fittamente intessuto, a mo’ di zigrinatura dall’andamento ondulare, a suggerire con delicata modulazione plastica lo

spiegarsi dei corpi muliebri al contatto della luce. Dico corpi perché per tali potevano ancora riconoscersi le solenni strutture tendenzialmente ripiegate su loro stesse, a costituire un blocco solidale, dalla conformazione talora genericamente biomorfa e di risoluzione pittorica, talaltra decisamente scultorea, per la nitida definizione dei volumi e degli incastri organicamente ordinati in architetture antropomorfe. Ebbene, dopo lo snodo dell’85, quando vedeva dischiudersi la prospettiva seducente della pura declinazione formale, ossia di una pittura disancorata da ogni referente oggettivo, D’Angiolo procede a un ulteriore affinamento del suo linguaggio. Nel senso di una maggiore rarefazione del clima pittorico e di una levità formale che

L'albero bianco, 2010 tecnica mista su tela cm 140x120

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quasi trasfigura l’immagine, permutandola in impronta o traccia visibile di un’entità immateriale che appartiene al dominio della mente. Una sostanziale semplificazione investe anche l’immagine, che chiameremmo più propriamente impianto visivo, poiché il processo di astrazione si fa ormai così avanzato da vanificare ogni eventuale tentativo di desumere, in modo meccanico, un’iconografia tradizionale dalla struttura formale. Tuttavia la partitura pittorica non manca di suggestione figurale, talora esplicitata nei titoli, che nominano la luna, la donna, il grano, l’aquilone; oppure, più genericamente ma con maggior ricaduta poetica, la luce addensata in alto, entità noumenica di cui è sostanziata questa pittura


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Ascensione, 2014 tecnica mista su tela cm 150x180

propriamente assimilabile, come poche altre, a un’epifania. D’Angiolo perviene qui ai radicali, che diremmo depurati e angelicati, del linguaggio pittorico. Attinge a un primario che non discende dalla natura, ma è la proiezione magica di un’intuizione tutta interiore della forma, che nella natura intesa come luogo di fenomeni, può riversarsi, come accade che si riversi, per restituirla spiritualizzata, quale tempio nel quale si rinnova il mistero della vita rivelata dalla luce. Per questo l’immagine vibra di risonanze ispirate al lusso, alla calma, alla voluttà di baudeleriana memoria. Alla determinazione del clima ideale per la comunione dei sensi, certo concorrono la morbida tessitura della materia, le suadenti profilate “figure” intuibili come aspetti morfologici del paesaggio e climatici dei fenomeni che vi si consumano, o anche come intuibili presenze delle creature che lo abitano, e gli andamenti dolci delle loro forme rammemorano la linea biomorfa e sintetista della scultura moderna, da Brancusi ad Arp al nostro Alberto Viani. Rispetto alle figure architettoniche che compaiono nella opere fino all’85, i dipinti della ripresa creativa nella continuità ormai di un trentennio, si configurano come particolari ingigantiti di un insieme che si estende oltre la superficie dipinta. L’amplificazione produce un effetto di straniamento non dissimile da quello dei dipinti di Domenico Gnoli, per quanto D’Angiolo agisca in ambito tendenzialmente astraente. La superficie disponibile risulta totalmente o quasi occupata, sovente bipartita in bande in cui si incastrano strutture vagamente geometriche, simili a quadrilateri, triangoli, semicerchi, settori circolari che ricordano la falce di luna, una nuvola sospesa e riverberante nel cielo sereno, un profilo montano, figure di memoria antropomorfa, evidenze tutte schematizzate in simboli grafici di sapore totemico, che volentieri assegnerei a una sorta di culto della fertilità in cui si risolvono unitariamente, sul piano semantico, le ricorrenti forme allusive a una sessualità umana che coincide con il principio della fecondità della natura. Si avverte in queste opere, insomma, una felicità del fare e una disposizione al colloquio e all’ascolto da cui traspare una rinnovata fiducia nelle capacità evocative ed espressive della pittura, che si dispiega in partiture dalle cadenze ampie e profonde governate dalla sovranità metafisica della luce. Da questa straordinaria poetica della luce che segna ma anche smaterializza i corpi rendendoli essenziali vibrazioni, la pittura di D’Angiolo ha acquistato una rinnovata purezza che vorrei dire originaria. Il colore è divenuto impalpabile qualità della materia; la forma appare come una lieve concrezione visiva di estenuata e soffusa plasticità. L’immagine si è ulteriormente dilatata, perdendo ogni episodico riferimento naturalistico, anche se lo sguardo pare scrutare il mondo fenomenico per coglierne e rappresentarne gli eventi, ma nella loro manifestazione come germinale, quasi da primo giorno della creazione. Perciò un disco solare apparirà come nebulosa irradiazione di luce, per ogni dove, nello spazio: luce che pervade il cielo e la terra, e ne riverbera come un’eco dal profondo. Un corpo di creatura figlia della terra, parteciperà degli umori fisiologici di quella sua appartenenza, e sarà egualmente oggetto e specchio della sua scaturigine dalla luce vitale. La quale ne consumerà lo spessore, il sedimento fisico, per svelarne quasi in radiografia la composizione, il profilo interno. A noi di quelle evidenze sensibili giungeranno nemmeno i simulacri, bensì le riduzioni simboliche. La natura nel suo complesso, e i fenomeni che ne dichiarano l’attività vitale – come la pioggia che attraversa diagonalmente lo specchio dell’immagine e collega il cielo alla terra, o analogamente il fascio della luce/energia solare che investe un campo di grano – diviene teatro di rivelazioni: a un tempo, scena e contenuto drammatico, luogo di apparizioni della luce sotto specie di sottilissima trama della materia pittorica. Segni, tracce, impronte! Scorrendo le immagini di queste pagine, si comprenderà che i dipinti di D’Angiolo sono un

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La tenda, 2000, tecnica mista su tela cm 155x120

Il triangolo giallo, 2002, tempera vinilica su masonite cm 156x108

Magie sul prato, 2008, tecnica mista su tela cm 120x180

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repertorio ricchissimo di segni, di tracce, di impronte. Come lo sono le fotografie scattate nei luoghi del mondo abitati dagli uomini e segnati dalle loro culture. Un crinale arato di collina toscana è un atlante di segni frantumati che fanno controcanto alle Dune di Parjang nel Tibet, incise dal vento in acuminate striature. Non è diverso l’atlante dei segni di una partitura

dipinta, poiché anche l’antropologia di D’Angiolo è questa scienza ineffabile dei segni, questa cartografia della luce che ci consegna una mondo più percorribile e grato di quel che non sia nella realtà effettuale. Un mondo della continuità civile e della comunicazione che trascende i codici e le lingue, perché nella liturgia dei segni trova il codice della lingua universale, in

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quanto forma del sentimento umano riconoscibile sotto tutte le latitudini. Come pittore e come fotografo, vorrei dire infine, comprensivamente, come artista, D’Angiolo si è dedicato con professionalità ineccepibile all’osservazione dei segni, sapendo che non si tratta di mere cifre grafiche, ma di voci luminose destinate agli uomini di buona volontà disposti all’ascolto.

Il monte rosso 2, 2007 tempera vinilica su masonite cm 182x155


La mensa dell'attesa, 2017, tecnica mista su tela cm 180x320

Lorenzo D’Angiolo, pittore e fotografo, è nato a Seravezza nel 1939; ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Carrara, dove ha insegnato discipline pittoriche dal 1965 al 1975. Trasferitosi a Lucca, ha insegnato fino al 1990 al Liceo Artistico. Ha esordito come pittore ai primi anni Sessanta partecipando con lusinghieri riconoscimenti a premi anche internazionali. Nel 1985 avvia la sua ricerca

fotografica. Dal 1971 partecipa a rassegne e tiene mostre personali in varie parti d’Italia e all’estero. Tra le altre: 1995 personale fotografia, Casa Biancalana, Lucca 1996 personale pittura e fotografia, Villa Pacchiani, Santa Croce sull’Arno 1998 mostra fotografica con Enzo Cei alla Hostra University di New York; antologica, Palazzo Mediceo, Seravezza 2000 Ex voto per il millennio,

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Museo della Certosa di Calci; Arte per la vita, ex Monastero delle Benedettine, Pisa, e Ciminiere, Catania 2001 personale galleria Liberi Incisori, Santa Croce sull’Arno 2002 personale Museo Bargellini, Pieve di Cento 2003 L’età delle illusioni mancate 1950-2000. Pittori versiliesi ed emiliani a confronto con i maestri del Novecento, Palazzo Mediceo, Seravezza 2004 Luce vero sole dell’arte,


Museo Bargellini, Pieve di Cento (primo premio) 2006 50° Premio di Pittura “Marina di Ravenna” (primo premio); I diritti negati, Palazzo Ducale, Lucca 2007 Un paese fatato. Giustagna e i suoi artisti, Seravezza 2008 In itinere. Incontri e svelamenti in un luogo storico di Livorno, Bottini dell’Olio; Astrattismo a Viareggio. Dal dopoguerra ad oggi nel panorama dell’arte italiana, Palazzo Paolina

2010 Pescarart 2010, Museo d’Arte Moderna “Vittoria Colonna”, Pescara; personale di pittura, Palazzo Paolina, Viareggio; Premio Internazionale “Limen Arte 2010”, Vibo Valentia 2011 Ricognizione Toscana. Nuove acquisizioni della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea “Raffaele De Grada”, San Gimignano 2012 Ovoquadro 7, Palazzo Ducale, Massa; Questo è il mio fiume, Villa

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Pacchiani, Santa Croce sull’Arno 2013 personale di pittura, Cisterne Romane, Palazzo dei Duchi D’Acquaviva, Atri 2016 L’anima delle cose. 5 artisti a Palazzo Mediceo, Seravezza 2017 Il cammino dell’uomo tra arte e fede, Basilica di San Lorenzo, Firenze; Immaginario robot, Palazzo Lanfranchi, Pisa, nell’ambito del Primo Festival Internazionale della Robotica.


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ARTE

l'universo

Bartolini l'arte contemporanea a Pistoia

Luca Fabiani

Il Pinocchio di Bartolini e il Grillo parlante, xilografia a tre colori (da Le Avventure di Pinocchio, cap. IV). Illustrazione per l'edizione del centenario di Pinocchio, 1983 Sigfrido Bartolini con il suo Pinocchio (per gentile concessione dell'Associazione Sigfrido Bartolini)

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i è venuta in questi giorni un'idea pazza e stupenda: illustrare Pinocchio. Vorrei fare un'edizione monumentale con dentro dagli 80 ai 100 legni. L'idea è bellissima e mi prende il prurito alle mani dalla voglia di cominciare. Dio me la mandi buona. Vorrei fare il Pinocchio che tutti conosciamo, ma ambientato nella mia Toscana, nel mio paesaggio, che poi è il suo. Queste parole, tratte dal diario inedito Una disperata felicità, appartengono ad uno dei grandi protagonisti dell’arte contemporanea in Italia: Sigfrido Bartolini (Pistoia 1932- Firenze 2007).1 È così che comincia la storia di un’opera straordinaria, che ha impegnato Bartolini per ben dodici anni della propria vita. Sì, perché il lavoro di questo raffinato pittore, incisore ed intellettuale del Novecento è legato indissolubilmente al personaggio di Pinocchio: Bartolini illustrò infatti con 309 xilografie in bianco e nero e a colori, la fiaba di Carlo Lorenzini, in occasione dei cento anni dalla prima pubblicazione del romanzo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino del 1883. Per

realizzare questa impresa l’artista dedicò tutto il proprio genio con l’incisione dei legni, che lo avrebbero reso famoso in tutto il mondo. È nei primi anni Ottanta, che si concentra la fase più intensa del lavoro di Sigfrido. Un triennio che però vedrà un drammatico peggioramento della malattia, che si era manifestata ma non individuata nel 1970: una devastante artrite reumatoide che gli rende quasi insopportabile ogni movimento. La malattia non gli impedisce, tuttavia, di portare a termine le proprie idee. E finalmente nel giugno del 1983 il lavoro si conclude con la stampa e l’uscita dei 10.000 esemplari della prima edizione del libro illustrato con le sue xilografie, voluto dalla Fondazione Nazionale Carlo Collodi. Negli anni Novanta, esaurita la prima edizione, sarà edita una seconda edizione di 7.000 copie e in seguito, terminata anche questa, ne nacque una terza in formato ridotto, edita da Polistampa. Insomma fu un successo straordinario. Successo che non si fermò al libro illustrato: le testimonianze del suo lavoro con gli studi preparatori, i disegni, i legni incisi e le prove di stampa si trasformarono in una fortunata mostra itinerante intitolata Dal legno di Geppetto ai legni di Sigfrido Bartolini, che partendo da Collodi nel 1987 ha fatto e continua ancora oggi a fare il giro del mondo. Il nome di Bartolini non è legato soltanto alla sua monumentale opera relativa a Pinocchio. Pittore, incisore, scrittore e critico d’arte, Bartolini ha esposto le proprie opere, in occasione di mostre personali, in Italia (Firenze, Milano, Roma, Torino, Venezia) e all’estero (Francia, Ger-

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mania, Grecia, Spagna, Stati Uniti). Sue opere grafiche sono esposte al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, al Gabinetto Disegni e Stampe della Biblioteca Vaticana, alla Biblioteca Nazionale di Parigi e al Museo Albertina di Vienna. Ma se volete scoprire l’universo di questo importante artista e respirare la stagione culturale in cui Bartolini era immerso, allora la visita della sua Casa-museo a Pistoia nell’anno da capitale della cultura costituisce una tappa fondamentale. Visitare questa residenza equivale ad entrare in un mondo straordinario, in cui è possibile scoprire la figura di Sigfrido a tutto tondo. Accolti dalla moglie dell’artista Pina (splendida guida), abbiamo compiuto un viaggio all’interno dell’arte e della filosofia di vita di Bartolini. La Casa di Sigfrido Bartolini rappresenta lo specchio della sua esistenza di artista a 360 gradi. Appena entriamo nella prima sala, subito dopo l’ingresso, ci accorgiamo della bellezza delle opere, della passione che il maestro nutriva per i classici e del clima culturale, in cui era immerso da protagonista. Nella sua Casa-museo troviamo i calchi in gesso (a grandezza naturale) della Venere di Milo, di Cirene, i Fregi del Partenone, una raccolta di anfore provenienti da tutte le regioni d’Italia. I quadri che adornano le pareti della casa rappresentano poi un percorso interessante e in gran parte inedito, attraverso le opere dell’artista: dai grandi affreschi staccati, agli oli, ai monotipi, alle xilografie. Ma oltre a questo è possibile ammirare anche opere straordinarie di maestri come Costetti, De Chirico, Maccari, Sironi, Soffici e Viani.


Ascoltando Pina parlare di Sigfrido Bartolini ci sentiamo visitatori privilegiati: le conversazioni tra grandi artisti e intellettuali di quella feconda stagione culturale sembrano rivivere lì davanti ai nostri occhi. E questa sensazione è favorita dai racconti di chi l’ha vissuta in prima persona, quella stagione culturale, come la moglie di Sigfrido. Proseguiamo quindi la nostra visita in un emozionante percorso che niente ha a che vedere con le fredde esposizioni di opere d’arte, che a volte si incontrano nei musei tradizionali. All’interno della casa possiamo osservare gli strumenti dell’artista: le sgorbie e i bulini per l’incisione su legno, il banco da lavoro, il modello del burattino, che egli si costruì per poterlo raffigurare. E poi gli oggetti, che ritrasse nel libro per ricreare l’universo favoloso e realissimo della Toscana collodiana, i torchi per la stampa calcografica e per la litografia. E dopo aver visto gli strumenti del mestiere con i quali Sigfrido realizzava le proprie opere, Pina mi mostra, prendendola in mano con grande delicatezza, l’ultima xilografia realizzata dall’artista: l’ape nel libro. Si tratta di un’opera eseguita su una tavoletta di gesso nel 2002 e che è stata scelta come logo dell’Associazione Centro Studi Sigfrido Bartolini, nata nel 2012 per valorizzare il patrimonio materiale ed immateriale lasciato da Sigfrido. Al terzo piano della residenza è presente, invece, la ricca Biblioteca, il fondo di riviste del Novecento, l’archivio, il fondo epistolare di Bartolini stesso che rappresentano lo spaccato e la documentazione di una parte della cultura del Novecento. Sigfrido Bartolini è stato nel corso della vita un attento custode e conservatore della memoria storica, artistica e letteraria, pubblica e privata di personaggi la cui produzione e documentazione riguarda soprattutto la seconda parte del Novecento.

Un testimone d’eccezione anche per i rapporti epistolari intrattenuti con molti dei protagonisti culturali di quel tempo che documentano e ricostruiscono un periodo storico in parte ancora da indagare. L’archivio di Bartolini comprende la corrispondenza, foto, articoli e testi riguardanti l’artista pistoiese, ma anche volumi, riviste e i suoi scritti sull’arte tra cui le monografie sulla grafica di Boldini, Innocenti, Rosai, Sironi, Soffici e altri artisti. E proprio nell’archivio scopriamo una documentazione molto interessante come il fondo del giornalista Barna Occhini (1905-1978), comprendente lettere di Piero Bargellini, Luigi Bartolini, Carlo Carrà, Primo Conti, Giovanni Gentile, Giovanni Michelucci, Mario Missiroli, Aldo Palazzeschi, Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, Salvatore Quasimodo e Giovanni Spadolini. È presente poi il fondo del pittore Giulio Innocenti, con lettere della scrittrice Gianna Manzini che di Innocenti fu fidanzata negli anni pistoiesi e il fondo epistolare dello stesso Bartolini, che costituisce un vero e proprio patrimonio di documentazione per la conoscenza e la ricostruzione del secondo Novecento italiano. Nei prossimi mesi sull’importante archivio ed in particolare sul fondo di Bartolini saranno impegnate le giovani archiviste Elena Gonnelli e Sara Landini con lavori di inventariazione.2 Un’altra passione che Bartolini ha coltivato da sempre è certamente la scrittura. Le sue composizioni poetiche iniziano precocemente, ma si fermano alla fine degli anni Cinquanta. Con una serie di racconti pubblicati e poi raccolti in un volume nel 1967, intitolato Chiesa di Cristo & altri generi, il pubblico comincerà a conoscere il Bartolini prosatore affilato e polemista, ispirato e ironico. Nel 1966 fonda con Barna Occhini il quindicinale "Totalità", erede di "La Voce" e "Lacerba", al quale collabo-

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ra con scritti e xilografie originali. Dagli anni Settanta in poi, l’attività di scrittore sarà indirizzata sulla saggistica, la diaristica e il giornalismo. È in questo periodo che scrive articoli di critica d’arte, di costume e di grafica.3 Bartolini ha illustrato inoltre decine di volumi, tra cui le opere di Bernardo di Clairvaux, Vieira, Petrocchi, Serpieri, Savinio, Cattabiani, Nemi, Beatrice di Pian degli Ontani e, in occasione del Giubileo del 2000, il Vangelo. Ma l’universo di Sigfrido Bartolini non si esaurisce qui. Una sorta di naturale compendio alla visita al museo e all’archivio dell’artista è la vicina chiesa dell’Immacolata dove Sigfrido ha lasciato la sua ultima opera: le quattordici grandi vetrate istoriate, raffiguranti le Sette opere di Misericordia e i sette Sacramenti, inaugurate nel dicembre del 2006. Oggi l’Associazione Centro Studi Sigfrido Bartolini si occupa di valorizzare la sua figura con eventi e iniziative dedicate ad un indiscusso protagonista dell’arte del Novecento. Negli ultimi anni l’associazione si è impegnata molto da questo punto di vista: nell’agosto 2016 l’associazione ha collaborato all’organizzazione della mostra Pinocchio di Sigfrido Bartolini. Come nasce un libro illustrato, che si è svolta presso il Museo dei Bozzetti a Pietrasanta. Tra la fine del 2016 e i primi mesi del 2017 si è svolta un’altra interessante mostra dal titolo Sigfrido Bartolini. Opere su carta a Villa Rospigliosi a Lamporecchio. E il Centro studi Bartolini continuerà nella propria opera di valorizzazione del patrimonio dell’artista, con tutta una serie di iniziative in programma per i prossimi mesi come visite guidate alla Casa-museo e presentazioni di libri, con un’attenzione particolare rivolta alle giovani generazioni. Con la speranza che un giorno anche questi ragazzi possano sviluppare uno spirito critico nei confronti del mondo che li circonda e coltivare “idee pazze e stupende” come quelle che hanno animato la vita di Sigfrido Bartolini.

Sigfrido Bartolini ha avuto da sempre la passione per la scrittura. Il diario inedito (il cui titolo racchiude un poetico ossimoro) rappresenta il pensiero più profondo dell’artista, che ha fermato su carta le proprie idee e la propria filosofia di vita, scrivendo dal 1954 al 2007. Il diario racconta, attraverso pagine autobiografiche, chi sia stato Bartolini, «la sua cifra di uomo e di artista, la sua poetica costantemente ricercata, inseguita e realizzata nella continua tensione fra inadeguatezza e appagamento, fra sperimentazione e mestiere». Cfr. Simonetta Bartolini, Una disperata felicità. Il diario, le opere, i giorni, in AA. VV., Sigfrido Bartolini. Fra luoghi e tempo, la parola e l’immagine, Firenze, Polistampa, 2010, p. 57. Per sapere di più sulla “nascita” del Pinocchio di Bartolini: cfr. Sigfrido Bartolini, Un’idea pazza e stupenda: gli anni del Pinocchio nel Diario inedito, a cura di Simonetta Bartolini, Firenze, Polistampa, 2014. 2 Prossimamente i documenti del fondo Barna Occhini, recentemente inventariato, saranno consultabili online mediante la digitalizzazione delle varie unità documentarie. 3 Bartolini ha collaborato con i quotidiani "’Indipendente", "Il Giornale" e "Libero". Parte dei suoi scritti sull’arte sono stati raccolti nel volume La grande impostura (Polistampa, 2002). 1

Una delle sale più importanti della Casa- museo con opere di Bartolini e altri artisti (per gentile concessione dell'Associazione Sigfrido Bartolini) Piazza D'Armi, monotipo, 1949 (per gentile concessione dell'Associazione Sigfrido Bartolini)


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mostre

Cinquecento a Firenze

Marco Moretti

Michelangelo Buonarroti, Dio fluviale 1526-1527 circa. Modello in argilla, terra, sabbia, fibre vegetali e animali, caseina, su anima di filo di ferro. Firenze, Accademia delle Arti del Disegno (in deposito presso Museo di Casa Buonarroti) Pontormo, Deposizione 1525-1528, tempera su tavola, cm 313 x 192. Firenze, Chiesa di Santa Felicita Michele di Ridolfo del Ghirlandaio (Michele Tosini), La Notte 1555-1565, olio su tavola, cm 135 x 196. Roma, Galleria Colonna,

S

i è aperta a Palazzo Strozzi la mostra Il Cinquecento a Firenze, “maniera moderna” e controriforma, ultimo atto di una trilogia curata dagli storici dell'arte Carlo Falciani e Antonio Natali, massimi esperti del periodo e ideatori del ciclo espositivo varato nel 2010 con una mostra sul Bronzino, seguita quattro anni dopo dalle "divergenti vie della Maniera" di Pontormo e Rosso. Questa grande esposizione che suggella il ciclo sul secondo Cinquecento, oltre che densa di sorprese per inediti confronti fra grandi opere, si rivela assai articolata sia per il numero degli artisti, quarantuno, sia per il resoconto offerto dalle oltre settanta opere, fra dipinti e sculture, oculatamente scelte sui versanti del sacro e del profano (o, per dirla col pensiero dei curatori, tra "lascivia e divozione"). Versanti sui quali gli artisti qui radunati operarono indistintamente, destreggiandosi nel contrasto fra le direttive d'un richiamo all'ordine riguardante la morigeratezza estetica e fedeltà alle Scritture promulgato dalla Controriforma, e le 'licenziose' committenze laiche sia di corte che private. Oltre a ciò, l'inten-

to di questa mostra è anche quello di riproporre l'attenzione su certi artisti che, reputati 'minori', occupano in verità una rispettabilissima quota su quella "catena montuosa" – per dirla con Natali – che dominata dai picchi eccelsi del Rinascimento s'incammina verso il Seicento. Confronti mai tentati prima, i quali grandiosamente s'impongono nella prima sezione dedicata ai Maestri, nella quale il Dio fluviale di Michelangelo, da poco restituito all’antico candore, si fronteggia con la statua marmorea del Mercurio di Baccio Bandinelli proveniente dal museo del Louvre, e il Compianto su Cristo morto, dipinto da Andrea del Sarto nella località mugellana. Nella sala seguente, lo spettacolare vis à vis delle due pale della Deposizione dalla croce del Rosso Fiorentino e del Pontormo, suoi allievi, qui per la prima volta riunite a confronto: l'una proveniente dalla Pinacoteca di Volterra, l'altra godibile per la prima volta

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fuori dalla sua sede di Santa Felicita, che grazie al recente restauro finanziato da Friends of Florence, è tornata luminosa e leggibile nella chiarezza poetica dei suoi colori, trasparenze e velature, così come comparve al perplesso Vasari quando la "turata" delle tavole innalzata dall'ombroso Pontormo venne infin tolta, rivelando un'opera sì stravagante nel groviglio delle figure quanto eterea nei cromatismi, condotta, scrisse Vasari, «senz'ombre e con un colorito chiaro e tanto unito, che appena si conosce il lume dal mezzo ed il mezzo dagli scuri». Restauro che ha pure rivelato l'effettiva materia pittorica del dipinto: tempera – albume e bianco di piombo – anziché a olio come finora creduto. La seconda sezione, dedicata alle opere ante 1550, è rappresentata da quattro opere: un Cristo deposto del Bronzino (proveniente da Besançon collocato in mostra a formare un trittico con le Deposizioni di Rosso e del Pontor-


mo suo maestro), un'Immacolata concezione di Vasari, un'Annunciazione di Francesco Salviati e il marmo Apollo e Giacinto del Cellini. Opere che si raddoppiano nella terza sezione dedicata agli Altari della Controriforma, ovvero le grandi pale dettate dall'ortodossia post conciliare, i cui termini imponevano il rifiuto d'ogni arbitrio concettuale e formale (o, per dirla con Vasari, «stravagante») introdotti dalla "maniera moderna". Provenienti dalle più importanti chiese fiorentine (Carmine, Santo Spirito, San Lorenzo, Santa Croce, Santissima Annunziata e la novecentesca Santa Maria Regina della Pace), vi sono pale di Vasari, Allori, Macchietti, Santi di Tito, Stradano, Bronzino; e, ancora della Santissima Annunziata, un Crocifisso del Giambologna, mentre dalla Pinacoteca di Volterra proviene il Compianto su Cristo morto del fiammingo Pietro Candido. La quarta sezione è dedicata a tredici ritratti eseguiti da Santi di Tito, Poppi, Jacopo da Empoli, Maso da San Friano, Girolamo Macchietti, Mirabello Cavalori e, in marmo, da Vincenzo Danti, Rodolfo Sirigatti e Valerio Cioli. Artisti che, introdotti dal ritratto in piedi di Francesco I dell' Allori (proveniente da Anversa), fan da preambolo alla cospicua sezione suc-

cessiva, Gli stili dello studiolo e oltre, poiché quegli artisti sono parte della numerosa pattuglia riunita nel 1570 da Vasari per decorare in Palazzo Vecchio, con statue e dipinti "profani" eseguiti nello stile della 'maniera' fiamminga, lo Studiolo di Francesco I. La sezione vuol appunto riproporre con i medesimi autori, seppur rappresentati da altre opere, una comparazione creativa con quelle visibili nello "stanzino" del Principe. La presenza di nudi, come Diana e Atteone del Naldini e il Ratto delle sabine di Giambologna, introducono a loro volta la sezione successiva, nella quale i motivi "divozionali" si dileguano davanti alla "lascivia" dei temi "pagani" che irrompe sulle "auree" delle Allegorie e miti: Venere e Amore dell'Allori (proveniente da Montpellier), Porta Virtutis dello Zuccari, Amore e Psiche di Jacopo Zucchi, Venus Fiorenza e Fata Morgana del Giambologna, costituiscono l'esempio tra le dodici opere in sala, di come artisti incanalati nella Controriforma, nutrissero "insane" passioni per le nudità del corpo, dipinte con minuzia fino all'allusività dell'eros. L'ultima sezione, con tre marmi e sette tavole d'altare, apre l'Avvio al Seicento: dalla Visione di San Tommaso di Santi di Tito ai Miracoli di San Fiacre dell'Al-

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Firenze, Palazzo Strozzi 21 settembre 2017 21 gennaio 2018

lori, fino a un suggestivo altorilievo di San Martino che divide il mantello col povero, marmo di Pietro Bernini che virtualmente chiude il secolo, mentre il nuovo si apre con una Annunciazione di Andrea Boscoli e un analogo tema dell' Empoli; quindi un Martirio di San Giacomo e Josia del Cigoli e due marmi raffiguranti Sant'Agnese e Santa Lucia, del Caccini provenienti dalla chiesa di Santa Trinita. Una mostra (aperta fino al 21 gennaio), da visitare e approfondire nei confronti e nei valori che è capace di offrire, la cui scelta delle opere mantiene, per magnificenza bellezza e poesia, un costante livello qualitativo, così da porre in luce, e risarcire, certe personalità artistiche ritenute a torto "minori".

Le Deposizioni di Rosso, Pontormo, Bronzino Alessandro Allori, Venere e Amore 1575-1580 circa, olio su tavola, cm 143 x 226,5. Montpellier, Musée Fabre Jacopo Zucchi, Amore e Psiche 1589, olio su tela, cm 173 x 130. Roma, Galleria Borghese, Santi di Tito, Visione di San Tommaso d’Aquino 1593, olio su tavola, cm 360 x 238. Firenze, Chiesa di San Marco


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gioielli

che diamante

Fiorentino! il

storia e vicende di una gemma scomparsa Costanza Contu

Copia del Diamante Fiorentino Jan Frans van Douven (16581727), Anna Maria d' Medici con l'Elettore Palatino Giovan Guglielmo, Firenze, Galleria degli Uffizi Giusto Suttermans (15971681) Maria Maddalena d'Austria con Cosimo II e il figlio Ferdinando II, Firenze, Galleria degli Uffizi

U

n cassettino quadrilungo d’acciaio di colore violetto, e trovi un gran diamante faccettato da una parte e dall’altra, di peso di Carati Cento Quaranta contornato da un sottile serpente tutto tempestato di piccoli Diamanti, il quale con le sue branchie sostiene per aria il detto diamante. Così era descritto il Fiorentino nell’inventario delle Gioie che la “Ser.ma Elettrice Palatina del Reno Gran Principessa di Toscana” aveva fatto redigere il 10 marzo 1740. L’Elettrice è Anna Maria Ludovica de’ Medici (1667-1743), figlia di

Cosimo III granduca di Toscana e di Marguerite-Louise d’Orleans cugina di Luigi XIV, sua nonna era stata Vittoria della Rovere erede del ducato di Urbino. Nel 1737 con la morte di Gian Gastone de’ Medici, Anna Maria era rimasta l’unica erede dei tesori della famiglia e come tale si era impegnata a redigere il 31 ottobre 1737, la stipula del Patto di Famiglia che regolava i rapporti fra gli ultimi Medici e i nuovi Granduchi, i Lorena. Si legge all’articolo III di tale documento: “La Serenissima Elettrice cede, dà e trasferisce al presente a S.A.R. per lui e i suoi successori Gran Duchi, tutti i mobili, effetti e rarità della successione del Serenissimo Granduca suo fratello, come gallerie, quadri, statue, biblioteche, gioie ed altre cose preziose [...] che S.A.R. s’impegna di conservare a condizione espressa che di quello è per ornamento dello Stato, per utilità del Pubblico, e per attirare la curiosità dei Forestieri, non ne sarà nulla trasportato e levato fuori della Capitale e dello Stato del Gran Duca”. Nonostante ciò il nuovo Granduca aveva cominciato una lunga opera di persuasione che doveva portare alla consegna delle Gioie di Stato da parte di Anna Maria Ludovica de’ Medici la quale si oppose fermamente a tale pressione ribadendo che le gioie di Casa Medici “si destinassero […] per uso et ornamento delle Gran Duchesse quando vi avessero risieduto“. Malgrado le sue volontà subito dopo la morte di Anna Maria, nel 1743, i gioielli della casata furono portati all’estero e disfatti, i più preziosi vennero smontati e le pietre vendute, fra queste anche il prodigioso Fiorentino partito alle volte di Vienna e mai più rientrato in patria!

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Ma andiamo per gradi e ricostruiamo le vicende di questo meraviglioso diamante. È l’11 agosto 1599 e Ferdinando de’ Medici acquista a Roma dal Cardinal del Monte la gemma; la pietra venne stimata dal più importante orafo gravitante alla corte dei Medici in questi anni, Jacques Bylivelt (1550-1603). Le trattative per l’acquisto si conclusero solo nel 1601 al prezzo di trentaquattromila scudi. Il diamante grezzo pesava fra i centotrentotto e i centotrentanove carati ed era di colore giallognolo; a Firenze venne tagliato da Pompeo Studentoli, "diamantaro" veneziano: “S.A volendolo far conciare a faccette, a uso di mandorla convenne con un Gobbo veneziano, Diamantaro, nominato Pompeo Studentoli, di darli Ducati 50 il mese, per fino che questo diamante fosse acconcio, e finito che fosse, S.A.S. li donerebbe Duc. 4000 e lo fece lavorare in Galleria. Oggi sotto 28 ottobre 1615 il detto diamante è finito, et è concio a faccette ad uso di mandorla, di peso di


denari 23, che sono carati 112, essendo stato veduto da molti Gioiellieri, e Signori che se ne intendono è stato stimato ducati dugentomila”.1 Il diamante compare ancora descritto nell’inventario delle Gioie ereditate da Ferdinando II nel 1621 e nel 1623 il Fiorentino appare nell’acconciatura di Maria Maddalena d’Austria (15891631) dipinta da Giusto Suttermans (1597-1681); l’opera facente parte della serie aulica dei ritratti medicei esposti fin dal 1782 sul corridoio di levante della Galleria degli Uffizi ritrae la "Serenissima Arciduchessa" moglie di Cosimo II de’ Medici. Addentrandoci con lo sguardo fra la chioma riccia della donna si scorge imponente e meraviglioso il diamante fiorentino, montato su un "pennino" a decorare il "sopracciuffo" ovvero l’ornamento da testa modellato a raggiera e decorato solitamente di gemme e perle, caratteristico della moda femminile del XVII secolo. Il prezioso diamante è sfoggiato da Maria Maddalena d’Austria anche in altri ritratti come quello conservato alla Galleria degli Uffizi (inv. 1890 n. 2285) in cui si osserva la gemma penzolare dall’acconciatura della Serenissima Arciduchessa. L’esistenza della preziosa

gemma ci è testimoniata anche da una incisione conservata alla Biblioteca Marucelliana di Firenze (Manoscritti, vol. A CCXIII, no. 95) e da un disegno custodito al Victoria and Albert Museum di Londra (n. 7900.41) Sopravvissuto fino al 1740 fra le gioie di Stato della famiglia Medici come ci confermano gli inventari, scomparve dalla Toscana dopo il 1743 quando fu portato a Vienna con altre preziose gemme del Tesoro dei Medici. Il 4 ottobre 1745 il fiorentino figurava sulla corona di Francesco Stefano di Lorena, successivamente, nel 1766, compare come imponente decorazione di un copricapo, poi montato su un fermaglio fino a scomparire per sempre dopo il 1919. In attesa di una improbabile ricomparsa sui mercati antiquari o fra i beni di fortunati privati possiamo godere della vista del Fiorentino solo attraverso alcune copie della gemma come quella conservata a Milano al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica Leonardo da Vinci. 1 Tutti i documenti trascritti sono stati pubblicati in I Gioielli dell’Elettrice palatina al Museo degli Argenti, Firenze, 1988, si veda inoltre I gioielli dei Medici dal vero e in ritratto, Firenze, 2003

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Giusto Suttermans (1597-1681), Maria Maddalena d'Austria, Firenze, Galleria degli Uffizi


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visibile parlare

il pittore nella tela

Roberto Giovannelli

Roberto Giovannelli, 1982, Pittore !, olio su tela, cm 48x204 Alberico Clemente Carlini da Vellano, San Benedetto che risana un fanciullo, settimo decennio del XVIII secolo, olio su tela, cm 240x160, Borgo a Buggiano, chiesa di Santa Marta

N

ella chiesetta di Santa Marta a Borgo a Buggiano in Valdinievole si trova un quadro raffigurante San Benedetto che risana un fanciullo, dipinto da Alberico Clemente Carlini da Vellano (1703-1775), frate minore francescano avviato alle Arti del disegno nella scuola del fiorentino Ottaviano Dandini. Il riferimento all’evento prodigioso è tratteggiato nella Vita di San Benedetto di Luigi Tosti, ove si ricordano alcuni miracoli operati dal santo nel monastero di Montecassino, affioranti dai versi scolpiti in loco su di un’edicola marmorea del secolo XV, fra cui questi in esordio: Mortuus hic puer est. Benedicti voce revixit.1

La scena del nostro quadro è punteggiata da particolari dipinti con penetrante naturalezza. Vedi a sinistra una bambina in sospeso turbamento stringere un lembo di veste della mamma, la quale ha in collo una creaturina candidamente festosa; vedi, più in basso, presso uno scalino, un cagnuolo zampettante, forse un “pumetto” o un volpino, indifferente all’evento portentoso, che punta un boccone ghiotto trattenuto nella mano di quella stessa bambina; vedi, sull’altra banda della tela, un altro cane (parrebbe un segugio italiano), posto in campo quasi fosse un figurante in spaesata mansuetudine presso la propria padrona: una giovane ortolana con fiasca e zappa, recante in capo un cesto ricolmo di verdura fresca: cipolline novelle, rape, cavolo e sedani, raccolti immagino coll’intento di preparare una zuppa per quella monastica comunità sorta sulle rovine di un tempio d’Apollo. In tempi assai lontani sfogliai nella biblioteca comunale di Pescia una raccolta di disegni settecenteschi: schizzi in penna, guazzi, matite rosse e nere, molti dei quali tradizionalmente attribuiti al Carlini, benché in alcuni percepissi come in riverbero la mano di Jnnocenzo Ansaldi suo allievo. Quel fondo solitario costituiva un caso singolare da aggiungere all’appartata e sfortunata storia pittorica della Valdinievole, sulla quale, tra dolorose incurie e dispersioni, incombe (com’è noto) anche la perdita di un paio di opere di Raffaello: La Madonna del Baldacchino, traslata nel 1697 per diecimila scudi dalla cattedrale di Pescia alla collezione di Ferdinando de’ Medici, e la piccola Madonna del velo, che, da una cantina ove si trovava «divisa in tre tavole per uso di tenervi sopra del vino», dopo che

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si ebbe coscienza della sua qualità, nei primi anni dell’Ottocento fu fatta pulire e restaurare da un abilissimo artigiano per andarsene in casa del pittore François-Xavier Fabre a Firenze, e da lì in Francia.2 Alla vicenda artistica di Alberico Carlini da Vellano dedicò nel secolo scorso una particolare attenzione Damiano Neri. Questi descrisse in un breve studio monografico pubblicato nel 1954 l’apprendistato e gli spostamenti del pittore, annotando le fonti e riproducendo alcune fra le opere allora reperibili, da quelle del soggiorno romano sotto la direzione di Stefano Conca, a quelle eseguite per i conventi di Camaiore, Fucecchio, Colleviti presso Pescia. Nel capitoletto relativo appunto alle “Sue pitture a Colleviti”, si apprende che l’artista «morendo lasciò al convento anche molti studi e numerosi disegni a matita rossa, secondo le testimonianze dell’Ansaldi». Il Neri forse non conobbe codesti disegni, che par nominare per via indiretta, disegni che con molta probabilità sono quelli cui ho sopra accennato. Tra questi si trovano numerosi fogli in matita rossa, con soggetti ripresi in preferenza dal Vecchio e dal Nuovo Testamento. Si tratta di disegni minuziosamente eseguiti, la cui definizione grafica parrebbe destinata più a una traduzione in stampa che non allo studio preliminare per opere da realizzare pittoricamente. Qui il tratteggio fitto e diligente s’insinua fin nella più piccola piega con un chiaroscuro impeccabile che stende sulle cose una luce talvolta uggiosa, ma non priva di mistica, inquietante espressività. La mia attenzione si soffermò su aspetti marginali di quell’obliata raccolta: minuzie, frammenti dell’officina dell’artista, annotati su di un libro manoscrit-


to di regole di prospettiva. Fra questi, oltre alla curiosa rappresentazione anamorfica di un orecchio, ricordo un disegno acquarellato raffigurante in proiezione centrale lo studio di un frate pittore, forse la stessa cella del Carlini: una stanzetta disadorna, bagnata da una tenera luce, ove l’artista si ritrae di spalle in atto di dipingere a una

plizio, affinché le scene disegnate o dipinte siano la ricostruzione fedele dei fatti, degli strumenti della violenza e della passione). Per una volta l’artista ha dischiuso uno spiraglio nella scorza che ne avvolge l’appartata personalità, rivelando il suo mite e operoso cantuccio di mondo: un atto vagamente autobiografico che forse ci consegna

grande tela bianca appoggiata incertamente alla parete. Quella tela, senza una traccia, senza l’accenno d’una figura o di un colore, si apre per noi a un rigore squisitamente concettuale. Un giovane avanza da una porta con un vassoio di cibo e bevande mentre due confratelli s’intrattengono con il maestro; s’intuisce un sommesso dialogo, come immerso nel grato odore d’olio di noce e di lino, d’essenze di trementina e di lavanda diffuse nella stanza. Frate Alberico per una volta ha dimenticato il predominio e i rigori della ricerca iconografica, l’agiografia, i martirii (per i quali altrove ha annotato e riprodotto dal Trattato di Antonio Gallonio metodi e strumenti di sup-

il documento più lirico e meno appariscente del suo lavoro. In risonanza con quest’ultima immagine acquarellata dal Carlini, davanti a quella sua tela immacolata aperta come una finestra sui percorsi imprevedibili dell’immaginazione, ritrovo certe inquietudini, certi miei pensieri tradotti in disegno e in tele dipinte, ove esordivo «col rappresentare il quadro nel quadro e con esso addirittura il pittore nell’atto di dipingerlo, e ciò non naturalisticamente ma trasposto su evanescenti sipari irreali»: così, in una Lettera pittorica vergata nel 1988 a introduzione di una mia personale presso la Saletta Gonnelli di Firenze, scriveva Gian Lorenzo Mellini; il quale

in alcune righe precedenti, non senza una turbata visione critica sulla contemporaneità, intercettava i fermenti di una linea poetica che con mie parole non saprei certo dir meglio: «Oggi che la pittura del passato è lingua morta, non nel senso arganiano ma per le ragioni hegeliane, riprenderne le fila, tentare di continuarla, come nulla

fosse, fa correre il rischio dell’autoinganno, perché essa può proseguire solo quale nostalgia o idoleggiamento di se stessa, come certame capitolino, come felibrismo o, al meglio, quale ibrido basilisco. Perché la vita, i tempi, le tecniche, le vicende, le ansie e tutto il resto, cioè il blocco storico del nostro tempo sono antropologicamente tutt’affatto diverse da quelle del passato. E se la pittura una volta era considerata imitazione della natura, oggi, per sopravvivere, potrebbe essere solo imitazione di se stessa». 1 Vedi L. Tosti, Della vita di San Benedetto. Discorso storico, Montecassino, 1892, p. 165. In precedenti pagine l’autore descrive un simile prodigio operato da Benedetto in salvezza di un monachello dello stesso monastero, un certo Severo di età certamente maggiore del bambinello rappresentato nel dipinto del Carlini. Dipinto che, assieme ad alcuni disegni attribuiti al nostro pittore, già descrivevo in Un diporto artistico in Valdinievole, in Montecatini città giardino delle Terme, a cura di M.A. Giusti, Skira, Milano 2001, pp. 156-158 e 188-189, testo al quale con qualche integrazione fa riferimento questa nota. 2 Antoine-Chrysostome Quatremère de Quincy, in Istoria della vita di Raffaello…, Milano, 1829, p. 171, descrive La Madonna di Loreto, intagliata da Desnoyer. Quella tavola parrebbe corrispondere alla stessa Madonna di Raffaello che Niccola Monti ricorda di aver visto intorno al 1802 durante un soggiorno di tre mesi in casa Puccinelli a Pescia e, dopo vari anni, ritrovata in casa del pittore Fabre in Firenze (così in Memorie inutili, Castiglion Fiorentino, 1860, pp. 145-146).

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Roberto Giovannelli, 1980, Un bel soffio, olio su tela, cm 48x204 Roberto Giovannelli, 1983, Pittore e libro di stelle, olio su tela, cm 135x145 Alberico Clemente Carlini da Vellano, rappresentazione di uno studio di pittura, forse quello dello stesso Carlini, databile tra il secondo e terzo decennio del XVIII secolo, disegno acquarellato (particolare), Pescia, già Biblioteca Comunale, ora Museo Civico, Stampe Antiche, S2

Ringrazio Francesco Bertini per la collaborazione concernente le immagini fotografiche


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L’arte in italia

FRANCESCO VERLA

SECESSIONE

IL RINASCIMENTO GIAPPONESE

8 LUGLIO 2017 5 NOVEMBRE 2017

23 settembre 2017 21 gennaio 2018

26 settembre 2017 7 gennaio 2018

Trento

Rovigo

Museo Tridentino

Palazzo Revolella

Firenze

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M

ributo ad un illustre dimenticato nella pittura rinascimentale, la mostra ospita delicati fregi lavorati a grottesca ma, anche, dipinti sacri plasmati da un serafico alone di dolcezza, scenografico apparato paesaggistico, carità cristiana, che trovano in Perugino e Mantegna prolifica fonte d’ispirazione, presenti nelle sale con regali opere messe a confronto con l’operato verlaniano. Apre la mostra Madonna in trono col Bambino tra i santi Antonio Abate e Pietro martire, elaborata scena architettonica inserita nella volta a botte con Maria in trono amorevolmente china verso Gesù. In verità, tutto il tridentino celebra Verla grazie alla prolifica attività artistica del maestro in luoghi storici d'un territorio magnifico, basti menzionare gli affreschi custoditi in San Pantaleone presso Terlago oppure il ciclo pittorico di Casa Wetterstetter a Calliano.

AMBROGIO LORENZETTI

Uffizi

onaco, Vienna, Praga, Roma scrutate attraverso aspetti storico-artistici caratterizzanti il movimento secessionista, uno scambio culturale europeo forgiato da forme espressive affini nella loro diversità: Palazzo Revolella racconta il movimento attraverso testimonianze create in queste grandi capitali culturali. Le opere in esposizione illustrano modernismo monacense, decorativismo viennese, espressionismo visionario praghese, ricerca romana, proponimenti di rifiuto ai canoni accademici tradizionali imperanti in ambito artistico ed espositivo. Molti i nomi altisonanti presenti nelle sale, si va da Franz von Stuck a Ludwig von Hofmann, da Ludwig Hevesi a Gustav Klimt, da Josef Vachal a Frantisek Bilek, sino ad arrivare alla secessione romana legata ai nuovi linguaggi espressivi, che trovano nella esposizione libera e “giovane” fonte prolifica di esternazione.

22 ottobre 2017 - 21 gennaio 2018

SIENA

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mmersione onirica tra la produzione di epoca Muromachi ed Edo, la mostra rende onore all’arte nipponica in età aurea esponendo pitture ritraenti natura e paesaggi nei formati del paramento scorrevole. Un innato estetismo plasma raffinatissime opere, la cui minimalista bellezza evocativa trova linfa musiva in linee essenziali, pittura monocroma, vuoti geometrici, paesaggi simbolici avvolti nella atmosfera rarefatta legata alla cinese filosofia zen. E la produzione autoctona? Un tripudio risplendente nei fondo oro, preziosi corollari contornanti esotici uccelli e fiori stagionali dai colori brillanti creati con la bella tecnica yamatoe. Hasegawa Tōhaku, Kaihō Yūshō, Unkoku Tōgan, Kanō, Tosa rivivono tra preziosi paraventi della mostra, ideati nel Giappone in pieno rinascimento culturale, esprimenti il scintoista legame alla bellezza del mondo animale e vegetale.

Santa Maria della Scala

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egno omaggio al grande maestro senese, genio artistico che sprigionano faconda capacità allegorica, supportata da marcata umanità. La mostra vanta prestiti eccezionali provenienti da musei internazionali ma, soprattutto, racconta il percorso iniziato nel 2015, teso ad approfondire un luminare nell’arte europea del XIV secolo attraverso studi conoscitivi e restauri conservativi su opere presenti nell’esposizione: gli affreschi staccati di San Galgano a Montesiepi e il polittico proveniente dalla chiesa di San Pietro in Castelvecchio, sormontato dal Redentore in cimasa. Il percorso espositivo prosegue nella francescana sala capitolare di Siena, che custodisce affreschi ragguardevoli con la prima rappresentazione europea di una tempesta, e in Sant'Agostino, il cui Capitolo è impreziosito dalle pitture parietali dedicate a Santa Caterina e agli articoli del Credo.

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Carmelo De Luca

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rentacinque dipinti eccezionali festeggiano i nuovi “Incontri con la pittura”. Creazioni dal XV al XVIII secolo ripercorrono l’arte

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dalla vedova del pittore, dopo gran peregrinare in terra granducale, gli affreschi restaurati rappresentano tutt’oggi oggetto di studio per specialisti, ma poco conosciuti al grande pubblico che, grazie a questa iniziativa che celebra Pistoia capitale della cultura, potrà scoprire una tempera muraria plasmata da giovanile estro creativo. In vero, Palazzo dei Vescovi ospita altresì la produzione boldiniana su tela relativa al soggiorno toscano, profondamente segnata dall’autoctono e fecondo movimento macchiaiolo, il cui ossequioso riguardo è facilmente leggibile nei 16 capolavori di quel fortunato periodo, provenienti da importanti istituzioni pubbliche e private. Genere che dona meritato lustro al pittore ferrarese, la ritrattistica ricopre in mostra un ruolo da regina contando su dipinti squisitissimi chiamati Telemaco Signorini, Cristiano Banti, Adelaide Banti in abito bianco, Generale spagnolo, dipinto che consacra Boldini tra i grandi pittori del suo tempo, spalleggiati da una trasposizione a tempera ritraente una Marina e Giovane paggio che gioca con un levriero.

emiliana ed italica, tuffando il visitatore in un onirico viaggio tra creazioni decisamente suggestive. Molti i capolavori in esposizione, che trovano in Lippo di Dalmasio degno rappresentante gotico con la tenera Madonna dell’umiltà, supportata da La Sacra Famiglia con santi su rame, opera riuscitissima di Bartolomeo Cesi impostata sui nascenti canoni della Controriforma. Grande attenzione al classicismo barocco bolognese con un giovane Guido Reni tutto preso dagli studi raffaelleschi, copiandone con delicata maestria tecnica l’Estasi di Santa Cecilia, ora custodita nella Pinacoteca Nazionale bolognese. La scuola reniana è presente folto gruppo, basti segnalare il fiammingo Michele Desubleo con le due tele Sant’Orsola e Madonna della rosa, opere squisitissime coniuganti armonicamente stile classico e riproduzione fedele del reale. Una ricercatezza stilistica consolidata traspare nella energica Testa di giovane donna di Donato Creti, mentre il settecento locale di natura arcadica è rappresentato dall’apprezzato temperista Vincenzo Martinelli.


IL RINASCIMENTO DI MARCELLO FOGOLINO 8 LUGLIO 2017 5 NOVEMBRE 2017 Trento Castello del Buonconsiglio

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iuscito omaggio ad uno squisito maestro rinascimentale, le cui burrascose vicende private ne offuscano grandezza, bravura, creatività nei secoli passati. Attivissimo

ENJOY 23 settembre 2017 25 febbraio 2018 ROMA Chiostro del Bramante

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’altrove, l’altro da sé, il perdersi nei meandri dell’arte e dell’inconscio è ciò che accomuna il gesto di tutti gli artisti presenti in Enjoy, le cui opere guideranno il visitatore in un percorso invisibile ma fortemente tracciato, che prenderà vita in un incessante rapporto interattivo e giocoso, dove le diverse percezioni del “fuori da sé” avranno un ruolo fondamentale. La dimensione del piacere, del

decoratore presso il Magno Palazzo tridentino, Fogolino si distingue per innate doti artistiche, ricevendo stima incondizionata da ben due principi vescovi. Forgiatosi nella vicentina bottega di Bartolomeo Montagna, il maestro crea nel territorio pregevoli opere a carattere sacro e profano aderenti al bel dipingere del Veronese, bagaglio culturale rivisitato in chiave personale distinguibilissima, il cui estro creativo si manifesta nei grandiosi cicli pittorici profani commissionati da Sua Eccellenza Bernardo Cles per l’ala nuova del Buonconsiglio. Il classicismo raffaellesco, imperante in quei tempi, viene superato dall’artista attraverso composizioni ricche in difformità stilistiche e plasmate da tenera evocazione narrativa. A supportare un fine maestro riscoperto, le sale ospitano pregevoli dipinti provenienti da edifici sacri tra Vicenza e Pordenone, opere di riconosciuto spessore artistico, come dimostrano la tenera Madonna col Bambino e santi custodita nel Rijksmuseum, rare incisioni del Museo Statale di Dresda ed altri eccezionali prestiti provenienti da prestigiose istituzioni.

gioco, del divertimento, dell’eccesso – afferma Danilo Eccher, curatore della mostra – sono sempre state componenti centrali dell’Arte; l’Arte sprofonda nel dolore ma si nutre di piaceri ed è sempre una danza di contrasti. L’illusione è una trasparenza che deforma la realtà, un’apparenza sottile dove tutto è possibile, suggerendo ora il dubbio dell’enigma, ora il sorriso della sorpresa”. Ecco allora che in Enjoy, dalle sculture leggere di Alexander Calder, lo spettatore può perdersi nel labirinto infinito di specchi di Leandro Erlich per poi immergersi e riemergere dalle installazioni ludico-concettuali di Martin Creed o nei raffinati giochi di luci illusorie di TeamLab, che prendono forma e mutano solo a contatto con il pubblico, o essere inseguiti dagli occhi indiscreti e inquietanti di Tony Oursler, trovarsi a contatto con i corpi deformati di Erwin Wurm e così via, di artista in artista, di sala in sala: il Chiostro del Bramante diventerà luogo elettivo di una realtà tutta da scoprire, che esiste in ogni installazione (alcune di grandissime dimensioni), a una realtà che, tuttavia, può anche non esserci.

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STORIA

il fresco a spalla

i leggendari uomini della neve apuani

Costantino Paolicchi

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La Pania della Croce è la regina delle Apuane. Tra tutte le montagne della catena non è la più alta ma vista dal mare, dalla pianura pisana e dalla valle del Serchio, appare come la vetta più imponente dell’intero rilievo per la sua conformazione a cime solidali, acuminate e vertiginose. Per questo ha stimolato lungo i secoli la fantasia dei viaggiatori e se questi erano poeti come Dante Alighieri, o prosatori come Giovanni Boccaccio, l’immagine della montagna veniva evocata nei loro versi o nelle loro pagine come meraviglia naturale, insolita visione di grandezza e potenza. La Petra Appuana del De Montibus di Boccaccio divenne iperbolico peso nell’Inferno di Dante, dove il lago di Cocito ha una tale crosta di ghiaccio “… che se Tambernicchi/ vi fosse su caduto, o Pietrapana,/ non avria pur dall’orlo fatto cricchi” (Inferno, Canto 32°). Tambernicchi è per alcuni autori un monte della Schiavonia, in Iugoslavia, mentre Francesco Torraca era convinto debba trattarsi della Tambura, altra vetta delle Apuane, che nei testi antichi è talora denominata Stamberlicche. La Pania della Croce (m. 1854 s.l.m.) ap-

partiene al gruppo calcareo delle Panie visibilmente dominante la pianura litoranea, dal fiume Magra a Livorno, la pianura lucchese e la Garfagnana. Dalla vetta due lunghi contrafforti, sempre a quote superiori ai 1600 metri, corrono verso settentrione e verso levante e si elevano con possenti bastionate rocciose. Il primo si conclude nel vertiginoso Pizzo delle Saette, l’altro si riallaccia con un tratto di maggiore ampiezza alla Pania Secca dopo un caratteristico tratto scistoso: la Cresta dell’Uomo Morto. Un terzo contrafforte, verso mezzogiorno, si collega con la Pania Forata, o Monte Forato. Quasi a dividere i primi due contrafforti disposti a angolo retto – il cui vertice è costituito dalla Pania della Croce – si apre l’orrida Borra di Canala, caratterizzata da un diffuso carsismo esteso anche all’altro vallone che si trova circa a nord est della vetta, denominato Vallone d’Inferno. È proprio qui che sono ubicate delle vaste e profonde cavità, da gran tem-

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po conosciute come “Conserve della neve” poiché, per la loro particolare struttura e collocazione, durante le abbondanti precipitazioni invernali si riempiono di neve che solidifica e si conserva nel corso dei mesi estivi. Per secoli il commercio della neve ha rappresentato una fonte di reddito non trascurabile per l’economia povera di alcune comunità dell’alta Versilia. Da giugno a settembre, fino a circa sessant’anni fa, robusti montanari salivano quasi ogni giorno i fianchi della Pania della Croce per raggiungere le ghiacciaie naturali del Vallone d’Inferno, cavare la neve gelata e trasportarla in spalla fino al piano. Fu a partire dal secolo XVI che questa attività ebbe particolare impulso nel Capitanato di Pietrasanta, “enclave” fiorentina la cui fortuna economica è legata al favore accordato dai Medici ai suoi marmi pregiati. Proprio i Granduchi di Toscana dovettero sollecitare l’interesse per il commercio della neve e si ha notizia di notevoli quantitativi di ghiaccio trasportati fino a Firenze in occasione di importanti feste di corte. Tale commercio andò intensificandosi fino a generare discordie fra popoli e comunità per il possesso delle preziose buche. Durante il Seicento, infatti, furono rivolte ai Granduchi numerose pressanti suppliche da parte delle Comunità di Cardoso, Pruno e Volegno che esercitavano il commercio della neve e che lamentavano le prepotenze della gente di Vagli, allora un villaggio di pastori della Garfagnana appartenente allo Stato di Modena. Il popolo di Vagli rivendicava il possesso delle Conserve sostenendo che queste, essendo ubicate nel versante garfagnino della Pania della Croce, rientravano nei confini dello Stato modenese. Per venirne a capo nel 1678


un perito granducale – Jacopo Benti – rilevò, dopo un’avventurosa ascensione, le piante della montagna e delle buche, rintracciando gli antichi termini di confine recanti l’arme dei Medici e dimostrando inconfutabilmente il possesso fiorentino delle ghiacciaie che davano lavoro e pane ai montanari della Versilia. Finita l’epoca dei granduchi, il commercio sopravvisse a lungo per i mercati locali e per le feste patronali di Santa Maria a Stazzema o di San Lorenzo a Seravezza. Uno degli ultimi “Uomini della Neve” è stato Lorenzo Barsanti, con i più giovani Agostino Bartolucci, Alpino Bartolucci (nipote e figlio del leggendario “Nonno”) e Andrea Pierotti. Lorenzo, ovvero Lorè per tutti gli amici della montagna, quando l’ho conosciuto e frequentato aveva già compiuto novant’anni. Viveva per almeno quattro mesi all’anno nell’alpe di Cardoso dove la moglie Angela, l’Angè, aveva ereditato dai suoi vecchi un po’ di terra e una casetta. Sopra l’architrave della porta c’era un’insegna, una rustica tavola con una scritta dipinta di celeste: “Il cantuccio dell’Angè e di Lorè, regina e re”. E davvero queste due persone d’altri tempi avevano lassù il loro regno ed erano felici nella solitudine della casa di Cima alla Ripa dove non è mai arrivata l’energia elettrica: inutile, del resto, al funzionamento di quel frigorifero naturale che era la loro cantina, stabilmente pervasa da correnti d’aria gelida sotterranea che soffiano all’esterno e fanno indurire il burro anche nella canicola d’agosto. Gli alpigiani le chiamano “ventaiole”. Quando incontrai la prima volta Loré era d’inverno, verso la fine degli anni Settanta, e mi accolse nella casetta dell’Orzale, appena sopra Cardoso. In quell’occasione offrì a me, a mio padre e a quelle altre due o tre persone che mi avevano accompagnato, il vino della sua vigna, leggero e aspro, ma che gradimmo molto perché era il frutto

delle sue fatiche, del suo amore per la terra che anche in età così tarda lo vedeva impegnato ogni giorno durante la buona stagione, magro e curvo e nodoso come un antico olivo. Mi raccontò proprio quella sera la storia del Nonno, il leggendario vecchio delle Panie, e della sua tragica morte avvenuta ai primi di aprile del 1945, quando una pattuglia americana da lui guidata cadde in una imboscata dei repubblichini su all’alpe, in un luogo che – ironia della sorte – si chiamava la “Tomba”. Mi parlò a lungo degli “Uomini della neve”, del loro mestiere duro e pericoloso, delle loro fatiche per noi contemporanei inconcepibili, assurde. Lui era uno degli ultimi ancora in vita e la sua testimonianza assumeva dunque un valore e un significato davvero straordinari. Anche il Nonno, al secolo Angiolo Bartolucci, per sfamare i suoi numerosi figli conobbe la fatica e il tormento degli Uomini della Neve che dagli alpeggi partivano di notte, verso le undici. Si mettevano in spalla i sacchi di pelle e le gerle necessari a trasportare a valle il ghiaccio delle Conserve, attraversavano un bosco appena segnato da un sentie-

percorrere è ancora lungo e faticoso. Bisogna salire tagliando diagonalmente i prati di Valli per andare incontro alle vette. Lassù, dopo un balzo che sembra interminabile, oltre il pendio di pascoli e sfasciumi che in estate avanzata si ricoprono di cardi d’argento, al confine col cielo si apre il passo degli Uomini della Neve, al sommo di una parete rocciosa che appartiene alla cresta est della Pania della Croce. Il passo è uno stretto imbuto da cui si prosegue traversando ripidi canali sui precipizi dominati dalla Pania Secca, in direzione della Focetta del Puntone. Il viaggio si concludeva nel desolato Vallone d’Inferno. Il tempo di riempire di neve il sacco: settanta, a volte ottanta chili e subito, senza fermarsi mai, bisognava tornare indietro con la notte che ancora incombeva sui sentieri e sugli abissi. Occorreva ridiscendere fino ai villaggi di fondovalle, prima che il sole acquistasse vigore e sciogliesse il ghiaccio annullando la fatica. Così ogni notte, per tutte le notti dell’estate, per gran parte della loro vita; gli uomini di Cardoso, dell’Orzale, di Pruno e Volegno legavano in questo modo la pro-

ro che poi prende a salire bruscamente fra radi cespugli e rocce verso il “Pozzo dei Corvi” passando sopra il “Cerraccio” e il “Pitoncino”. Quasi di colpo, per chi vi transita alla luce del sole, la vista si apre sul mare, sulle giogaie della Costa Pulita, sul Monte Procinto. La salita è difficile; pareti di roccia nuda cadono a strapiombo sulle vallate verdi, caverne e anfratti sembrano contendersi la luce nei pomeriggi assolati. Gli Uomini della Neve salivano di notte senza fiaccole o lanterne, sicuri e spediti anche negli stretti callari o nei passaggi più ripidi fino alla foce di Valli, un ampio varco nel contrafforte meridionale della Pania che si distende in un lungo declivio erboso, i “Prati di Valli”, e si apre a ventaglio su ampi canaloni dove si raccolgono le acque che un tempo muovevano i magli delle ferriere di Fornovolasco. Il cammino da

pria esistenza alla montagna delle nevi perenni. Notturni, solitari, misteriosi: personaggi ormai leggendari di un mondo scomparso per sempre.

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storia

la “schiacciata” della Trinità ricordo di una confraternita di Montaione nel Cinquecento Paola Ircani Menichini

La chiesa di San Regolo di Montaione, già chiesa di San Bartolomeo, foto di Paola Ircani Menichini 2017.

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n un fondo speciale dell’Archivio di Stato di Firenze dedicato alle “Compagnie religiose soppresse al tempo del granduca Pietro Leopoldo” sono conservati alcuni manoscritti della compagnia maschile e femminile della SS. Trinità di Montaione. Risultano purtroppo alluvionati, mal rilegati e seminascosti tra le carte di altre confraternite, tanto che si trovano solo per caso. Fitte note di contabilità ne riempiono le pagine e,

al di là di prosaici conti su pagamenti, riscossioni e elemosine della cassettina d’ordinanza, forniscono notizie interessanti per lo studio particolare della stessa compagnia e per quello delle altre numerose e poco note associazioni cattoliche che popolarono i centri della Toscana 1. Prima di leggere le carte, va premessa, per chiarezza, una breve considerazione sul fatto che tali confraternite, nel loro lontano passato, erano composte da un numero limitato di persone distinte per cultura, per beni o per specializzazione nel lavoro. Difatti lo spirito dei tempi richiedeva che esse rappresentassero al meglio il luogo dove risiedevano, che spesso era un Comune situato in un castello fuorimano e tuttavia operoso e amministrato secondo le possibilità di allora. Dette associazioni quindi vanno valutate collegandole ad un mondo solido e compatto che aveva nella terra e nel piccolo artigianato la sua principale fonte di sostentamento e che, nel bene e nel male, a causa della bassa tecnologia e della limitata popolazione, era necessariamente “chiuso”. Per quanto riguarda Montaione, la SS. Trinità si appoggiava a una cittadina governata decorosamente e ad un Comune che pagava un maestro di scuola per l’alfabetizzazione dei suoi ragazzi e un predicatore per le anime di tutti. In più esso aveva l’onore e l’onere di organizzare una nutrita milizia paesana da inviare alle necessità della guerra o della sorveglianza. Allora si diceva “banda”, e quella di Montaione aveva sottoposti tredici caporali e una “bandiera” che era la ventottesima dello stato. I dintorni del castello poi ospitavano una pieve, intitolata a San Regolo, fondata

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prima del Mille e tenuta per questo in considerazione. Pur essendo in rovina, infatti manteneva ancora il titolo e nel 1511 dichiarava il numero di 600 battezzati. Aveva però delegato da tempo le sue funzioni alla chiesa castellana di San Bartolomeo che era formata da uno spazioso edificio e vantava sette altari, oltre a quello maggiore. In particolare l’altare della SS. Annunziata apparteneva alla confraternita della Disciplina della Vergine Maria, la più antica del paese. L’ampio oratorio costruito accanto invece ospitava la compagnia della SS. Trinità che nell’aprile 1509 fu riformata nel suo statuto2. Riguardo a quest’ultima, i registri dell’Archivio di Stato di Firenze hanno come prima data il 1526. Vi leggiamo che a quel tempo era priore Michelangelo di Lioncino e aveva le funzioni di camarlingo (economo) il notaio ser Luca di Giorgio Lambertacci, uno dei primi personaggi del paese, stimato anche a Firenze 3. C’erano poi dei consiglieri non nominati e prete ser Achille di Gabriello che celebrava la messa due domeniche al mese e le feste comandate infrasettimanali con l’elemosina (si diceva così) di sei lire l’anno. Il numero dei confratelli si aggirava sulla ventina, almeno nelle adunanze; e alcuni di loro furono benefattori della compagnia perché vollero assegnarle per testamento dei beni o del denaro. Nel 1513 (scrive l’Angelelli) è ricordato il lascito di domina Betta, nel 1528 (dicono le nostre carte) quello di Giovan Pietro di Giuliano di Antonio Zucchini che legò all’associazione la notevole somma di 50 fiorini “d’oro in oro” per far recitare ad ottobre un ufficio funebre a beneficio della propria anima. L’obbligo fu


assolto nel 1533 dal pievano Bernardino di Francesco Baroncini. D’altronde gli anni tra i Venti e i Trenta del Cinquecento si prospettavano cupi per la Toscana a causa delle guerre per la riconquista di Firenze da parte dei Medici appoggiati dagli imperiali di Carlo V. Le battaglie tra il Ferrucci, capitano dei fiorentini, e gli spagnoli rimasero famose, ma purtroppo si unirono alla peste e devastarono la Toscana, la Valdelsa e Montaione che non si riprese mai del tutto. Possiamo quindi immaginare le tante scorrerie e violenze delle soldataglie e quanto la “signora con la falce” lavorasse. Crediamo infatti che abbiano questa spiegazione il ricco lascito di Giovan Pietro Zucchini e pure il restauro che nel 1534 i confratelli fecero fare a una balestra tramite l’artigiano Francesco da Marcialla. L’arma di certo servì per difendersi dall’alto delle mura del castello contro dei nemici avidi e stranieri. Comunque, dopo la guerra civile lo spopolato Montaione volle iniziare la ripresa e per quanto riguarda la SS. Trinità e le sue carte ci viene incontro alla data del 1547 il ricordo di due artigiani confratelli con un mestiere importante per la zona: Francesco di Michele bicchieraio e Lorenzo del Berretta tessitore. Il 13 gennaio 1559 poi la compagnia si unì con quella penitente della Vergine della Disciplina e ne ottenne la cappella di chiesa e la relativa cappellania (il beneficio ecclesiastico). Quindi prese il doppio nome e continuò a radunarsi nell’oratorio accanto a San Bartolomeo. Fu anche incaricata di nominare un sacerdote che fosse tenuto ad assolvere gli obblighi liturgici di entrambe e a celebrare la festa della SS. Trinità e la festa della SS. Annunziata dell’altra confraternita. In occasione della prima ricorrenza, che non aveva data fissa, il prete doveva dare al camarlingo un capretto da imbandire nella riunione conviviale. Per il 25 marzo, quando cade l’Annunciazione, era obbligato a fare

la “colazione” (il pranzo) a tutto il corpo della compagnia. Andando avanti nella lettura delle carte, la vita paesana e le attività sociali di quel mondo “chiuso”, ricordano nel 1567 altri partecipanti segnalati da un mestiere: Bernardo di Giulio oste e Giovanni di Cristoforo fabbro; nel 1571 invece sono nominati gli speziali Mancino da Empoli e Mauro da Castelfiorentino, fornitori abituali di fiaccole. Sempre nel 1571 una notizia curiosa riguarda il giovedì santo e la colazione da preparare per i confratelli con una “schiacciata” simile al pane di ramerino che oggi si vende a Firenze. Si ricorda nelle uscite di cassa la compera di pepe, garofani, cannella, uva passa, nocciole, farina (ma non del rosmarino che forse abbondava negli orti accanto alle case). Il tutto annaffiato dal vino rosso e dalla vernaccia. Invece per la festa della SS. Trinità quell’anno si acquistarono grano, carne di agnello per 80 libbre, farina, carne secca, sale, aceto, legna e 10 “fastelle di mortella per adornare la chiesa della compagnia”. I cosiddetti festaioli si sarebbero occupati di tale incombenza per tre giorni e come premio avrebbero ricevuto il “merendare”, cioè ricotta, pane e vino. Il giorno della ricorrenza invece sarebbe stato un tripudio delle suddette pietanze e di … uova, baccelli, carciofi, cacio, latte, salsicce per tutti. La compagnia della SS. Trinità di Montaione fu nota anche fuori dei confini della Toscana. Ci dice l’Angelelli che il 10 aprile 1608 venne aggregata alla confraternita omonima dei Pellegrini Convalescenti di Roma. Il decreto ebbe la firma del cardinale Alessandro Peretti, che ai suoi tempi fu un famoso mecenate, collezionista, musicologo e uomo di grande autorità. Era infatti figlio di una nipote di papa Sisto V e fratello di Flavia Peretti, moglie di Virginio Orsini cugino del granduca Cosimo II, e allora riconosciuto come il più gran signore d’Italia4.

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Altre epoche, quelle, che non si ripeterono più né per la SS. Trinità né per Montaione. Nel Settecento, l’insinuarsi di filosofie politiche riformiste diminuì in Toscana l’importanza delle confraternite cattoliche che divennero un peso per i regnanti illuminati. Il granduca Pietro Leopoldo, desideroso di smobilizzare la proprietà terriera e di abolire i piccoli e dispendiosi Comuni di campagna, indebolendone l’identità culturale, le soppresse nel 1785 e ne fece incamerare i beni immobili. I documenti di contabilità e di ricordi presero la via dei pubblici depositi, creando quel fondo vasto e un po’ deteriorato che abbiamo consultato nell’Archivio di Stato di Firenze. Note 1 Archivio di Stato di Firenze, Compagnie religiose soppresse da Pietro Leopoldo, 3000. I registri sono rilegati assieme a quelli del Terz’Ordine francescano di Volterra. Carte consultate: fascicolo II, XXXV, 1r e ss., 24r e ss, 49r, 59v. 2 Le notizie trovate sono state confrontate con Antonio Angelelli, Memorie storiche di Montaione in Valdelsa, Firenze 1875, pp. CXVI, CXVII, CXCIX, CC, CCI, CCV, CCVIII. 3 Ivi, CIX, CXIV: Ser Luca di Giorgio Lambertacci, notaio, il 7 gennaio 1519 fu oratore con Antonio di Lodovico a Firenze per ottenere a nome del Comune di Montaione l’uso delle otto torri del castello. Dal 17 al 19 agosto 1529, durante le guerre del Ferrucci contro gli imperiali, ebbe due figli morti a causa della peste. 4 Alessandro Damasceni Peretti (Montalto delle Marche 1571-Roma 1623), v. http:// www.treccani. it/enciclopedia/alessandro-peretti-damasceni_ (Dizionario-Biografico)/

Panorama di Montaione in una cartolina del Novecento. Madonna con Bambino attribuita a Guido di Graziano, sec. XIII, chiesa di San Bartolomeo di Montaione, foto di P. I. M., 2017.



STORIA

Emanuele Repetti L’erudito scienziato nacque a Carrara nel 1776

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arrara ha dedicato, ormai da tempo, una via e un suo famoso istituto d’istruzione a un concittadino, il quale, con la propria opera intellettuale ha fatto qualcosa d’impensabile. Ma chi si ricorda di lui? Emanuele Repetti, questo è il nome, meriterebbe una più attenta considerazione, non limitandoci solo a consultare le scarne e spesso riduttive, nonché imprecise, notizie riguardanti la sua vita in svogliati profili online. Repetti nacque a Carrara da Giovan Battista, esponente di un’agiata famiglia d’origine ligure, e da Anna Maggini, il 3 ottobre 1776. Fin da bambino venne iniziato agli studi presso vari ordini religiosi del luogo, studi che gli valsero precoci riconoscimenti per le rare doti d’intelligenza e dedizione alla ricerca. Segnalato alla Duchessa di Modena, per le sue virtù intellettive, venne da questa beneficiato di un sussidio con la possibilità di proseguire gli studi a Roma. Nella città eterna, dove rimase tre anni, si perfezionò nelle materie scientifiche mostrando predilezione per le scienze naturali e la chimica. Fu apprendista presso importanti farmacie della città, fin quando le invasioni fran-

cesi e la sua profonda fede religiosa, turbata dalle nuove idee trasmigrate dall’oltralpe, lo convinsero a tornare a Carrara, dove aveva il desiderio di aprire una farmacia, ma non vi riuscì a causa dell’invidia di qualche concittadino e delle devastazioni compiute dall’armata straniera. Per tale ragione prese la decisione di trasferirsi a Firenze, luogo in cui, dopo la prematura scomparsa della prima moglie, Minetta Ghirlanda, si risposò con Giulia de’ Rossi con la quale ebbe una numerosa prole. A Firenze, diventato ben presto proprietario di un’antica farmacia-erboristeria monastica, venne ricercato e stimato dalla classe colta. Repetti, appassionato degli studi in generale iniziò a occuparsi di geologia e altre scienze. Nel 1820 dette alle stampe il trattato Cenni sopra l’Alpe Apuana e i marmi di Carrara, primo di altri importanti lavori sulle scienze naturali che interessarono non poco scienziati ed eruditi. Dedicandosi completamente alla pace onesta ed ordinata delle sue ricerche, divenne saggista e socio di riviste e accademie come l’Antologia, l’Archivio storico italiano, l’Accademia dei Georgofili, la Società di geografia, statistica e storia naturale patria dove collaborò attivamente in discorsi e trattati dotti di carattere umanistico e scientifico. Dal 1829, non potendo conciliare la vita di studioso con quella di farmacista, rivendette l’attività agli stessi Padri dai quali l’aveva acquistata anni prima. Armato di piccozza e taccuino, intraprese sporadiche ricognizioni scientifiche per la Toscana, accompagnato sovente da prestigiosi amici come Antonio Targioni Tozzetti e Giovan Pietro Vieusseux, nel desiderio di approfondire la conoscenza storico-naturalistica di quei territori.

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Sembra che fosse proprio Vieusseux a Pier Tommaso Messeri spronare il Repetti a dare alle stampe i frutti di tali ricerche. Dal 1831, in un arco temporale di due anni, lasciata la moglie alla cura della casa, il Nostro viaggiò per vari periodi in lungo e largo per la sua regione d’indagine, rilevando, scartabellando antiche carte, esplorando archivi, prendendo appunti, comparando notizie. Il frutto di questa fatica fu la pubblicazione, dal 1833 agli anni 40 dell’Ottocento, del famoso Dizionario geografico fisico storico della Toscana, opera monumentale e in più volumi che al settantenne autore, dette onori e fama. Se si contestualizzasse il lavoro nel tempo, nella diversità morfologica del vastissimo territorio preso in esame, considerando gli strumenti disponibili all’epoca, se si considerasse la complessa opera di coordinamento delle notizie ricavate da studi e speculazioni precedenti riportate da diversi autori, l’attenta ricerca storica in vicende spesso confuse dall’assenza di documenti validi, la difficoltà del districarsi in spiegazioni su ordinamenti e tradizioni legate a popoli diversi, si capirebbe la grandezza di un uomo, il quale, con abnegazione riuscì a compilare un’opera di grande importanza, che farà scuola e sarà d’ausilio, da allora in poi, a tutti gli studiosi di “toscanità” e non solo, la cui imitazione risulterebbe difficile anche in epoca attuale, con gli ausili della tecnologia moderna. Uno scienziato appassionato di studi -- da quelli letterari a quelli topografici -- che proseguì alla scrivania della sua biblioteca, nonostante le disgrazie familiari, carico di acciacchi ma sostenuto dalla celebrità, fin quando Il Ponte del Diavolo scavalca il Serchio nella zona di si spense, il 12 ottobre 1852, nella FiBorgo a Mozzano (Lucca) renze che ancora, nella basilica di S. Lorenzo, conserva le sue spoglie. Emanuele Repetti

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memorabilia

il

pane di Enzo

e Titomanlio Vania Di Stefano

I

conflitti planetari continuano, ma oggi, come ieri, l’arte non muore perché è vita. Nel 1916-1918 Titomanlio Manzella (1891-1966), prigioniero nella Grande Guerra, sopravvisse anche grazie ai libri (Reality 79) e nel luglio 1944, durante il secondo conflitto mondiale, un anno dopo il suo trasferimento da Catania a Roma, lesse Caino e altre novelle che l’autore, Ugo Betti (1892-1953), gli aveva dedicato "con alta affettuosa stima". Questo e altri volumi lo distrassero un po’ da una tragica realtà misurabile nel volantino del Comitato delle Associazioni di Guerra Pro-Armi alla Patria (12 maggio). Sempre nel 1944 divise un pane col giovane scultore Enzo Assenza (19151981), un pane... d’argilla fresca, non previsto dalla carta annonaria (Reality 77). A Titomanlio toccò la ricerca di un interiore, virile modello espressi-

vo da inverare nella materia, a Enzo il privilegio dell’atto creativo. Così quel pane divenne un accigliato volto di terracotta. Vi leggo la forza della determinazione a non cedere, vi sento la rabbia reattiva che scaturisce dal dolore, dallo sgomento, dalla paura di un presente che sommava le macerie dei bombardamenti su San Lorenzo a quelle, invisibili, dell’ideologia perdente, strangolata dai propri errori e dall’abbraccio mortale col nazismo (lo confessa in un diario scritto fra il 14 maggio 1944 e il 10 settembre 1945). La scultura sarebbe piaciuta a Marcello Tommasi (1928-2008), indimenticabile artista versiliese, se gliela avessi mostrata assieme ad un sognante volto muliebre marmoreo scolpito nel 1935 dallo

Lo scrittore Ugo Betti Titomanlio Manzella ritratto da Enzo Assenza Enzo Assenza: ritratto muliebre Titomanlio Manzella ritratto da Mario Moschetti

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stesso Assenza e al ritratto in gesso brunito realizzato da Mario Moschetti (1879-1960) per il giovane Titomanlio nel novembre 1923. Conoscitore dell’umanesimo della cultura tedesca e fascista convinto, come l’amico Marinetti, incontrato forse per l’ultima volta a Roma il 20 luglio 1939, il sognatore Titomanlio, frenetico autodidatta, scombinato idealista e personaggio istintivo, orgoglioso, appassionato, generoso, non aveva il senso della storia. Come tanti italiani patì l’amarezza della disillusione e la superò lasciandosi travolgere dalla brama di continuare a scrivere e dalla smania di pubblicare (non parlano d’altro le sue lettere) anche sotto pseudonimi (Reality 84). Il ritratto di Assenza scaldò il mio paesaggio domestico, ma di tutta l’esperienza letale del ventennio e di quel 1944 rivelatore non


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Volantino Pro-Armi alla Patria (1944) Firma sul ritratto: M. Moschetti Data del ritratto graffita (1923) Firma e data del ritratto: E. Assenza 1935 Firma e data del ritratto: E. Assenza 1944

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SOCIETà

Elisa Bonaparte la Granduchessa che amava i profumi

E

lisa Bonaparte Baciocchi fu una donna volitiva e lungimirante, sorella di Napoleone Bonaparte che, con il titolo di Granduchessa di Toscana, le affidò la guida di una importantissima fetta di territorio toscano estesa da Lucca a Piombino. Grazie ad Elisa, Lucca assunse sempre maggiore importanza come centro di attività politiche ed amministrative, ponendosi in competizione con altre grandi città europee. E fu proprio a Lucca che Elisa fece realizzare alcuni significativi interventi urbanistici per creare una piazza in stile francese dove si affacciava il bellissimo palazzo ducale. Vennero sistemate le strade e fu aperta nelle mura la famosa Porta Elisa. Le mura di Lucca, perduta la loro originaria funzione di difesa, assumono la connotazione di parco, dove ancora oggi si può passeggiare e godere di un meraviglioso spettacolo della natura che rende indimenticabile la città. Elisa, inoltre, acquistò Villa Orsetti a spese dello stato e ne fece la residenza dei principi con il nome di Villa Reale di Marlia. Lo splendore architettonico della villa diventava nulla al confronto del parco che venne realizzato,

Piergiorgio Pesci

conservando comunque alcune parti dei bellissimi giardini barocchi preesistenti. Elisa fu una donna dotata di arguta intelligenza e profondamente amante della botanica e di tutto quello che riguardava le piante, i fiori, le loro essenze e i loro profumi. Sempre seguendo la moda del tempo e tra le tante innovazioni, la granduchessa di Toscana favorì l’importazione di alcune varietà di magnolia, glicine, mimosa e camelia. Tutte piante di cui apprezzava il profumo. Di questa passione della Granduchessa sono ancora ben visibili le testimonianza in città. Tanto che proprio le piante e i numerosi giardini che rendevano particolare lo snodarsi della cinta muraria sono diventati protagonisti di un percorso non solo storico ma anche olfattivo che si compone di ben quattordici tappe intitolato “Lucca olfattiva” che aprono altrettante finestre su un paesaggio fatto di verde, di aromi, di preziosi profumi a ritroso nel tempo. Ed è proprio lavorando su questo stimoli e su queste suggestioni “odorose” che Simonetta Giurlani Pardini è riuscita a coniugare il mondo dei profumi e delle essenze con l’ambito

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storico del tempo, creando una fragranza ispirata a Elisa Bonaparte. La storia della Granduchessa e quella di questa moderna e intraprendente signora si incontrano nell’amore per la natura e nella passione per i profumi e le essenze. La signora Giurlani Pardini ha studiato il mondo degli aromi di pari passo alla storia della città Lucca del tempo tanto da dare vita ad una propria linea di profumi. Ed è qui che ritorna protagonista il personaggio di Elisa, al quale si ispira un’essenza. Napoleone definiva la sorella “il migliore dei miei ministri” e questa forza viene rappresentata, dal punto di vista olfattivo, dal sandalo. Nel bouquet non manca il contributo delle note agrumate dei giardini lucchesi tanto amati dalla Bonaparte e neppure gli aromi che riportano al mare della Corsica, sua terra nativa. Dall’opera grandiosa di una artista dei profumi come Simonetta Giurlani Pardini emerge il ritratto di una donna al tempo stesso antica e moderna come Elisa Bonaparte Baciocchi. Due donne che hanno fatto dell’amore per la natura e per le sue fragranze una ragione di vita.

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PERSONAGGI

George

Eliot i soggiorni dell'autrice della fiorentina "Romola" Massimo De Francesco

George Eliot (Mary Ann Evans) Il romanzo Romola ispirò l’omonimo film muto diretto nel 1924 a Firenze da Henry King, interpretato dalla famosa attrice americana Lillian Gish, da Dorothy Gish, William Powell e Ronald Colman.

L

’epoca vittoriana rappresenta un punto di svolta nella società inglese sotto numerosi aspetti: fra questi il susseguirsi di talenti femminili presenti nell’ambito letterario: come George Eliot, nom de plume di Mary Ann Evans (o Marian). Mary Ann nasce ad Arbury Hall, Warwickshire, nel 1819, figlia di Robert Evans (amministratore della proprietà di Sir Roger Newdigate) e Christiana Pearson, seconda moglie del padre. Fervente lettrice sin da bambina, Mary Ann frequenta scuole private fino ai sedici anni, accedendo allo stesso tempo alla biblioteca di Arbury Hall grazie alla posizione di rilievo del padre che investe nell’erudizione della figlia, allora un privilegio per le donne. Nella scuola di Miss Franklin a Coventry cresce in un contesto religioso che sarà la base della sua formazione intellettuale. A seguito della morte della madre, nel 1836, la giovane si trasferisce con il padre a Foleshill, vicino a Coventry, nella contea delle West Midlands. Mary Ann deve lasciare la scuola ma continua a studiare con tutori privati: coltiva l’italiano, il tedesco, il francese, il latino. La vicinanza a Coventry le permette di entrare a far parte dell’entourage dei coniugi Charles e Clara Bray: lui, uomo d’affari, editore e filantropo, è un libero pensatore in questioni religiose e progressista in politica. La sua dimora, Rosehill, è un punto d’incontro fra letterati, uomini e donne, di pensiero politico liberale, da loro denominato “The Rosehill Circle”. Progressivamente Mary Ann “migra” dal provincialismo delle sue origini all’ambiente che presto favorirà la sua indipendenza da ogni pratica religiosa. La scomparsa del padre avvenuta nel

1849 segna un punto di svolta. Mary Ann accetta l’invito dei Bray ad accompagnarli in Svizzera e in Italia. Al suo ritorno in Inghilterra si trasferisce a Londra dove, grazie alle frequentazioni del “Rosehill Circle”, conosce John Chapman, proprietario del «Westminster Review», giornale liberale e radicale con sede nell’elegante strada The Strand. Durante questo periodo di emancipazione professionale e nubilato (condizioni assai anomale per una donna dell’Inghilterra vittoriana) ha una infatuazione sentimentale con il teorico politico Herbert Spencer e con il filosofo George Henry Lewes, brillante giornalista. Nonostante sia sposato e abbia dei figli, dal 1854 inizia a convivere con la Evans. Il compagno la esorta a scrivere e le suggerisce lo pseudonimo con cui diventa nota. Da allora la coppia si considera sposata. Rientrati in Inghilterra dopo un soggiorno in Germania, non frequentano la società letteraria londinese, salvo continuare la collaborazione con la «Westminster Review»; inoltre la Eliot comincia a scrivere romanzi rivelando doti di narratrice seria e riflessiva, firmandoli, definitivamente, con il suo pseudonimo per distinguersi dalle scrittrici di romanzi da lei derisi. Pubblica il primo romanzo nel 1859. Adam Bede ottiene un successo immediato, tale da farle ammettere di essere lei l’autrice del libro: rivelando così, ai suoi molti ammiratori, l’irregolarità della sua vita privata, ma ci volle del tempo, e altri successi letterari, prima che la coppia fosse accettata dalla buona società. Nel 1860, poco dopo aver pubblicato i frammenti della sua fanciullezza con il titolo Il Mulino sulla Floss, la Eliot

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torna in Italia insieme con Lewes, trascorrendo solo quindici giorni a Firenze nell’Hôtel Londres et Suisse in


Via Tornabuoni. Visitano Pisa ammirando «le bellissime file di palazzi lungo entrambe le sponde dell’Arno». Tornati a Firenze nel 1861, soggiornano nell’Hôtel de l’Europe, in Palazzo Spini Feroni, sempre in via Tornabuoni. Poi raggiungono Bologna e un’altra volta Firenze, nel 1861. È durante questo suo soggiorno fiorentino che Mary Ann osserva, ascolta, cerca notizie che riguardino ogni singolo personaggio del libro che la renderà famosa: il romanzo storico

Romola, considerato uno dei testi fondanti del mito di Firenze per gli inglesi e gli americani, per il quale si era preparata al tempo dei due viaggi in Italia, compiuti nel 1860 e nel 1861. Questo romanzo rappresenta la sua maturità letteraria. Narra la storia d’amore fra Romola de’ Bardi e Tito Melema, ricostruendo con dovizia il periodo che và dalla morte di Lorenzo il Magnifico al rogo di Fra Girolamo Savonarola, avendo come protagonisti Piero di Cosimo, il fabbro e fonditore

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Niccolò Grosso detto il Caparra e Niccolò Machiavelli. Oltre ad ammirare dipinti, sculture e architetture, l’autrice studia anche gli scritti di Pasquale Villari e di Jacopo Nardi, lo storico fiorentino seguace del Savonarola, di cui commenta: «Jacopo Nardi (...) uno dei pochi che, intuendo l’elevatezza di Fra Girolamo, scrisse di lui col semplice desiderio d’esser verace». Perciò visita più volte il convento fiorentino di San Marco, per vedere e poi narrare dove il suo “eroe” riformatore, che considerava i Medici dei dittatori, auspicava un governo repubblicano. Nell’inverno del 1869-1870 la Evans torna nel capoluogo toscano, ospite dello scrittore inglese Thomas Adolphus Trollope nella sua villa in via Fortini 31, sulla collina di Ricorboli, che si affaccia sull’odierno quartiere di Gavinana. Firenze la estasia; il suo luogo prediletto per ammirare la città è la basilica di San Miniato al Monte, in quanto «è il punto più vicino alla città e i palazzi si distinguono, mentre da Fiesole Firenze sembra più un dipinto». Varie sono le opere che fanno considerare la Eliot un’ispiratrice del romanzo moderno. Dopo il successo di Adam Bede continua a scrivere romanzi molto apprezzati durante i successivi quindici anni. Il suo capolavoro, Daniel Deronda, lo scrive nel 1876. Compiuta quest’opera la coppia si trasferisce a Whitley, nel Surrey, non lontano da Londra, ma il loro forte sodalizio affettivo termina nel 1878 con la scomparsa di Lewes. Nel maggio 1880 la Eliot trova momentaneo conforto sposando il ricco banchiere John Cross, del quale prende il cognome. Anche questa circostanza suscita polemiche perché il nuovo consorte è più giovane di venti anni. Tutto questo purtroppo ha un precoce epilogo, perché lei soccombe alla sua salute cagionevole. Si spenge a Londra nel dicembre 1880 all’età di 61 anni e viene sepolta nel cimitero di Highgate a Londra. In séguito, il marito curerà la pubblicazione delle lettere e dei diari della moglie.

Griff House, residenza infantile di George Eliot 1960 L’epigrafe ricorda il soggiorno di George Eliot a Firenze, nel 1860, in un albergo (sotto) di via Tornabuoni. (Fotografia di Roberto Mascagni).


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libri

Margherita Casazza

° 55 I

l Premio Campiello, istituito nel 1962 dagli Industriali del Veneto, è promosso e gestito dalla Fondazione Il Campiello, composta dalle Associazioni Industriali del Veneto e dalla loro Federazione regionale. È uno dei pochi casi di successo in Italia di connessione concreta e strategica tra mondo dell’impresa e della cultura, accreditandosi come una delle più importanti competizioni letterarie italiane. Donatella Di Pietrantonio, con il romanzo L’Arminuta (Einaudi), ha vinto la 55° edizione del Premio Campiello annunciato sul palco del teatro La Fenice di Venezia,il 9 settembre, ottenendo133 voti sui 282 inviati dalla Giuria dei Trecento Lettori Anonimi. Al secondo posto si è classificato Stefano Massini, Qualcosa sui Lehman (Mondadori) con 99 voti, al terzo Mauro Covacich, La città interiore (La nave di Teseo) con 25 voti, al quarto Alessandra Sarchi, La notte

ha la mia voce (Einaudi) con 13 voti, al quinto Laura Pugno con La ragazza selvaggia (Marsilio), 12 voti. Una giuria dei Trecento Lettori Anonimi era così composta: 46% donne e 54% maschi, 22 casalinghe, 41 imprenditori, 99 lavoratori dipendenti, 82 liberi professionisti e rappresentanti istituzionali, 27 pensionati, 29 studenti. Queste le parole della vincitrice: «Sono emozionatissima, felicissima. Voglio dedicare il premio alle mie due famiglie: quella che mi ha generato e quella che ho costruito e alle persone che hanno lavorato con amore intorno a questo libro. Ringrazio i lettori che lo hanno amato e le due giurie che lo hanno votato e i librai. Voglio portare questo dono in Abruzzo, nella mia regione che viene fuori da un anno orribile, che ha subito terremoti, valanghe e incendi. Infine voglio dedicarlo a tutte le arminute e tutti gli arminuti, le persone che hanno vissuto nella loro

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vita e sulla propria pelle l'esperienza dell'abbandono”.» Hanno condotto la serata Natasha Stefanenko e Enrico Bertolino. Tra momenti d’intrattenimento e approfondimento culturale, i due conduttori hanno dialogato con i cinque finalisti e seguito con loro le fasi delle votazioni. Durante la cerimonia sono stati premiati anche i vincitori degli altri riconoscimenti previsti dalla Fondazione Il Campiello: il vincitore della 22° edizione del Campiello Giovani, Andrea Zancanaro, l’Opera Prima, assegnata a Manfredi per la raccolta di racconti Un buon posto dove stare (La Nave di Teseo), il Premio Fondazione Il Campiello, il riconoscimento alla carriera attribuito quest’anno a Rosetta Loy. Ha assistito alla serata un parterre di circa mille invitati tra ospiti istituzionali, rappresentanti del mondo imprenditoriale, della cultura e delle case editrici


LIBRI

il vocabolario l'italiano in 75.000 voci e 250.000 definizioni

L

a nuova edizione del famoso vocabolario della lingua italiana Devoto-Oli sta per approdare nelle librerie tra grandi clamori e un’atmosfera di comprensibile curiosità. Anche la versione del 1971 curata da Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, pubblicata da Le Monnier, osservò criteri fortemente innovativi per il tempo. Seguirono validissimi aggiornamenti a cura di studiosi quali Luca Serianni e Maurizio Trifone. Di certo la versione di cui stiamo parlando non sarà da meno e porta con sé una ventata di piacevoli novità con tre utilissime appendici: 1) “Parole minate”che suggerisce l’uso corretto di termini che generalmente conducono in errore l’utente; 2) “Questioni di stile” che indica adeguate modalità espressive per sciogliere nodi di comunicazione rispetto a contesti e situazioni particolari; 3) “Per dirlo in italiano” una bussola che si offre di orientare l’uso dell’italiano per tradurre termini inglesi ormai entrati a far parte del patrimonio di parole usate. Tutto questo per illuminare il panorama della lingua italiana, a volte maltrattata dall’utilizzo dei social, ma di certo non piegata. Molti termini che si trovano sulle bocche di tutti noi, prima si sono affermati come nuovi vocaboli, un po' anche seguendo il flusso della moda, e poi, via via, in seguito ad un concorso di circostanze favorevoli, sono andati ad accrescere il numero delle parole della nostra lingua. Di questi neologismi il nuovo Devoto-Oli arriva a contarne ben 1.500, prendendo spunto dal mondo dei social, dell’economia e dell’attualità. Troveremo l’onnipresente “ciaone”, l’ormai noto “petaloso” riconosciuto anche dall’Accademia

Piergiorgio Pesci

della Crusca, nonché il termine “webete”, coniato da Enrico Mentana per definire chi pubblica sciocchezze via web. Debutteranno tra le pagine di questo atteso dizionario molte parole di uso comune con l’intento di avvicinare la lingua italiana moderna alle persone che la utilizzano nel quotidiano. Inoltre, sono state semplificate alcune voci, rivedendole in chiave più dinamica e contemporanea, allo scopo di entrare in modo diretto nel lessico dei lettori più giovani. Un lavoro di pregevole ricerca mirato ad arricchire una lingua meravigliosa, volto a sviluppare le capacità espressive di un moderno vivere e sentire, capace di adattarsi agli stimoli di un’epoca complicata dal punto di vista della comunicazione. Un lavoro che va a rafforzare le radici della lingua italiana, alla ricerca dell’equilibrio che consente di trovare le parole “giuste” tra tradizione e modernità. La nuova versione del Devoto-Oli pennellerà il paesaggio attuale della nostra lingua proiettata in un mondo

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che conosce continui cambiamenti. Una lingua ancora capace di restare, anche sotto l’incalzare delle contraddizioni di questa epoca, la lingua più bella del mondo. Sempre e comunque.

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Andar per

borghi toscani di Lucard e Ciaca

Certosa di Pontignano

CERTOSA DI PONTIGNANO

Complesso monastico plurisecolare ricchissimo in pertinenze, la cui chiesa dedicata a S. Pietro ne rappresenta degno lignaggio grazie ai numerosi affreschi, coro ligneo e contiguo chiostro risalenti al secolo XVI. Attigui all’edificio sacro troneggiano uno scenografico palazzo con doppio loggiato prospiciente il giardino ingentilito da peschiera, orti ed un secondo grande chiostro porticato.

CASTELLO DEL NERO

900 anni magnificamente portati dal reticolato di edifici coniuganti eleganza rinascimentale e turrita architettura medievale, racchiudenti la Cappella dedicata a S. Michele, leggiadri porticati, scenografici cortili, affreschi di epoca barocca, curato giardino a terrazza. Insomma, Castello del Nero personifica un onirico sogno tutto da scoprire. WINE&FOOD: Lo stellato ristorante La Torre crea sofisticati capolavori stagionali, mentre presso La Taverna dominano, pici con pomodorini e ricette toscane di pasta fresca. L’annessa enoteca custodisce una curatissima carta dei vini.

Castello del Nero

WINE&FOOD: Annesso alla monumentale struttura, il rinomato ristorante sforna prelibati piatti nostrani, accompagnati dai vini rigorosamente made in Chianti, custoditi nella cantina ricavata sotto le fondamenta della Certosa.

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Certosa di Pontignano Località Pontignano 5 53019 Castelnuovo Berandenga (SI) Castello di Spaltenna

CASTELLO DI SPALTENNA

VILLA DI LILLIANO

Seicentesca villa medicea con torricelle laterali, i suoi interni vantano magnifiche sale affrescate, cappella abbellita da sinuosi stucchi, due scenografici scaloni. Intorno un bel giardino con ninfeo e la limonaia costeggiata da aiuole alla toscana dominano sul complesso rurale, che vanta orciaia, cantina, romantiche costruzioni rustiche.

L’antico borgo medievale trova nella millenaria torre campanaria, annessa alla pieve dedicata a S. Maria, il suo architettonico fulcro. Intorno si erge un possente monastero fortificato, trasformato in castello, ed alcuni casali conferenti al complesso architettonico un’aria romantica di grande suggestione storica. WINE&FOOD: Ricette light preparate con prodotti freschi dal ristorante La Terrazza, tradizione ed ingredienti locali trasformati in piatti di haute cuisine presso il ristorante Il Pievano, ottimi vini prodotti nelle tenute del castello tenteranno qualunque palato.

WINE&FOOD: Dopo interessanti lezioni di cucina italica, potrete gustare i vostri capolavori conditi dal blasono extravergine prodotto nella tenuta, accompagnati da gustosi Chianti D.O.C.G. prodotti in loco.

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cartolina

i tesori di Madame Loire Carmelo De Luca

Castello di Blois foto © Daniel Lepissier Castello di Chambord foto © DDarrault Castello di Clos Lucé foto © Gillard & Vincent

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los Lucé è uno di quei posti dove si respira sapienza. Non potrebbe essere altrimenti grazie all’illustrissimo inquilino Leonardo che, nella principesca dimora, delizia l’estasiato Francesco I con memorabili conversazioni culturali. Tra decorazioni, arazzi, mobilio rinascimentale, auguste sale custodiscono riverenti il ricordo di quella limpida razionalità vinciana, estro mai superato nelle artistiche trasfigurazioni paesaggistiche e genio acutissimo negli studi tecnico-scientifici. A poca distanza Amboise riserva visioni oniriche, quasi irreali. Qui, la reggia dei Valois ostenta opulenta bellezza, altezzosa negli arroccati esterni rinascimentali racchiusi tra il fiabesco edificio sacro di S. Hubert in gotico fiammeggiante, massiccia cinta muraria ed un nouvelle jardin ideato sulla Terrasse de

Naples, esperienza condivisa con altre illustri dimore disseminate nella “Loiriana Valle”. In effetti, il verde storico conosce nuovo slancio in Francia, puntando su restauri e ricostruzioni della rigogliosa flora addomesticata che caratterizza la grandeur gallica. Così, Chambord riscopre favolosi parterre voluti da Luigi XIV, perfetta geometria creata da arbusti, rosai, piante delimitanti prati, aiuole, boschetti costeggiati dai grandi bacini d’acqua. Il vasto castello rinascimentale a croce greca presenta maschio centrale ingentilito dal celeberrimo scalone elicoidale e bastioni simmetrici, guardiani delle 426 sale con preziose collezioni d’arte. Procedendo poi verso ovest, appare maestosa Blois, reggia amatissima da re e regina, luogo di intrighi, complotti, assassini ma, soprattutto, ineguagliabile eclettismo architettonico il

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cui apogeo è nella storica Ala Francesco I adorna della celebre scala a chiocciola e loggiati rinascimentali. In epoca classica, l’eccellentissimo principe Gaston d’Orléans aggiunge quel corpo a tre ordini stilistici, prospettico verso una sontuosa scalinata a doppia rampa del grande Mansart. Gli interni ospitano tesori inimmaginabili, strabiliante viaggio tra la secolare arte francese. Nuova vegetazione anche per Chenonceau, prestigiosa scenografia residenziale sul fiume Cher collegata al palazzotto in terraferma, riuscita creazione dal bizzarro tetto adorno di torrini, comignoli, finestroni trionfali. I saloni trovano apice nella maestosa Galleria voluta da Caterina dei Medici, perfetta postazione per ammirare un nobile giardino terrazzato in stile toscano. A pendent, il parterre ideato da Diana di Poitiers vanta prati trian-


golari e sinuose geometrie arboree ossequianti la vasca con possente zampillo. Intorno, siepi labirintiche, viali alberati, Giardino delle Cariatidi cullano il nuovo spazio green ispirato ai disegni inediti del paesaggista Russell Page. Riprendiamo il tour diretti verso Villandry, superbo castello composto da corpo principale ed ali ortogonali custodenti la cour d’honneur, perfetta armonia architettonica ingentilita da galleria arcuata, finestroni a crociera con pilastri, abbaini recanti frontoni scolpiti, tetto spiovente in nerissima ardesia. Intorno, giardini terrazzati gareggiano in bellezza come fossero prime donne, ma giustificate per cotanta vanità! In alto, stile classico floreale arricchito da un bacino e moresche siepi dalla forma stellare, bossi e tassi modellati nel giardino ornamentale mediano, voluttuose geometrie vegetali accostanti perfettamente rose e cavoli, tulipani e peperoncini, begonie e insalata in basso rendono questo eden una ammiratissima gloria di Francia. Lasciamo malvolentieri cotanta bellezza, ma il buon umore torna a Valençay. Impossibile rimanere insensibili ai tre ordini stilistici di pilastri costellanti la costruzione principesca coi bastioni laterali chiusi a semisfera e leggiadro portico all’italiana, degna cornice per sontuosi arredi Luigi XVI ed impero custoditi negli interni. Intorno, percorsi rettilinei costeggiano solenni aiuole disegnate secondo la raffinata tradizione francese, adorne di sculture, vasi, fontane, fiori variopinti. Qui, Noémie Malet ha recentemente creato La Grande Prospettiva, magnifico fasto barocco di aiuole che si rifanno ad originali disegni del 1705.

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Castello di Amboise foto © Gillard & Vincent Castello di Valencay Castello di Chenonceau foto © Gillard & Vincent Castello di Villandry foto © C. Mouton


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dimore

Niccolò

Ridolfi

Conte palatino, Marchese di Montescudajo e discendente di Lorenzo il Magnifico Domenico Savini

Villa La Baronta Marchese Niccolò Ridolfi di Montescudajo D’azzurro al monte a sei cime d’oro alla banda di rosso passante accompagnata dalla corona d’oro contenente due rami di palma decussati dello stesso. Nel 1515 i Ridolfi ottennero da papa Leone X la facoltà di inquartare il proprio stemma con quello medìceo e di porre in capo allo scudo la palla azzurra in mezzo alle lettere L . X

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Firenze, nell’abitazione del marchese Niccolò Ridolfi: “la Baronta”. Mentre lui parla, osservo il circostante anfiteatro delle colline, cui fanno corona quelle di Fiesole, del Pian dei Giullari, di Bellosguardo… Marchese, lei che è l’ultimo discendente in linea diretta ex filia di Lorenzo il Magnifico, come vive nel presente l’eredità di una così antica tradizione famigliare? «Coltivando innanzi tutto l’amore per l’Arte, la Poesia, la Bellezza, ispirandomi a quello che era l’ideale dell’umanesimo secondo Petrarca, ben sintetizzato dal professor Ugo Dotti come: “Elogio dell’operosità umana, le lettere come nutrimento dell’anima, lo studio come fatica incessante e inarrestabile, la cultura come strumento del vivere civile”, cercando di onorare, ponendo questi valori al centro del mio vissuto, la memoria di coloro che mi hanno preceduto. Non a caso l’antico motto della famiglia recita proprio: “Le Bel et Le Bon”». Con ottocento anni di storia alle spalle, quali sono gli aspetti della fiorentinità che considera maggiormente significativi?

«Sicuramente il senso dell’artigianalità, che è poesia allo stato puro, del saper fare attraverso la manualità, la fantasia, e una visione che trascenda le speculazioni della piccola sfera personale, e che vorrei trasmettere alle mie figlie, come nuove generazioni. Apprezzo molto, ad esempio, stilisti come Stefano Ricci, non tanto per la creatività delle sue realizzazioni, quanto per la promozione e la divulgazione di sapienze antiche, merito di una filiera tutta “Made in Florence”, dove i tessuti sono lavorati interamente su telai a mano secondo la nostra più antica tradizione cittadina, passando anche attraverso la sericoltura, arte che un tempo era molto diffusa nelle zone rurali della Toscana, e che nel dopoguerra si era quasi estinta». Siamo purtroppo testimoni di una rarefazione delle attività artigianali. «Parlando con i pochi artigiani sopravvissuti alla globalizzazione per merito della loro eccellenza, è triste purtroppo dover constatare che le

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loro attività sono oramai apprezzate soltanto da una clientela non più locale o italiana, quasi si fosse persa da noi una capacità di guardare più in profondo, di emozionarsi, di ricercare un lusso legato a un benessere che scaturisce dalla contemplazione, dalle sensazioni, dalla consapevolezza, dalle pause di un tempo tagliato fuori dal tempo, in contrapposizione al mondo virtuale e allo stile di vita frenetico contemporaneo». Quale è stato il suo percorso professionale? «Dopo aver studiato a New York alla Parsons School of Design ed essermi specializzato col fotografo William Klein, ho vissuto per qualche anno negli Stati Uniti, a casa della nipote dello scrittore Thomas Mann, dove mi sono dedicato alla fotografia di moda e alla ritrattistica, passione che mi è stata trasmessa dalla grande fotografa, pluricampionessa italiana di tennis, Francesca Gordigiani, nipote del pittore ritrattista Michele Gordigiani, nonché mia zia». Un’attività quindi molto legata al mondo contemporaneo? «In parte sì, dopotutto siamo figli del nostro tempo, anche se il linguaggio fotografico mi lega in realtà, anche geneticamente, al mio bisnonno Giovan Battista che vi si dedicò già alla fine dell’Ottocento con la sua macchina “H.J.H. Mackenstein – Paris”. Conservo tutt’ora il suo banco ottico in legno di ciliegio, numero 13189, con soffietto in pelle e le lastre dei suoi reportage nelle quali immortalava paesaggi, persone della sua vita, e i suoi cani. Immagini fotografate, dunque, e immagini trasformate e sublimate in parole, come nel caso di mio nonno Roberto, lo storico del Rinascimento».


Dunque una tradizione familiare? «Dal bisnonno apprese la passione per la fotografia anche il figlio Luigi (fondatore nel 1926 e primo presidente della A.C. Fiorentina, e del Maggio Musicale), che aveva una collezione di Contax e Leica strepitosa. Fra i tanti cimeli annoverati anche uno speciale obbiettivo, il sonnar 180 mm 2.8, appositamente studiato da Carl Zeiss, su pressione della propaganda tedesca, per i giochi olimpici di Berlino del ’36, dei quali il mio prozio diresse la delegazione olimpica italiana. La mia passione rispecchia anch’essa il bisogno di fermare un presente, che è già passato, per trasmetterlo attraverso le immagini. La tradizione infatti non può mai essere qualcosa di fermo, ma deve sapersi rinnovare e reinventarsi per restare viva, proprio come un linguaggio». Si è dedicato ad altri interessi nel corso della sua vita? «Ho avuto modo di occuparmi per alcuni anni dell’azienda vitivinicola di famiglia, attività attraverso la quale mio padre Cosimo mi ha insegnato l’amore e il rispetto per la terra, per la natura e per il lavoro dell’uomo. Dal legame profondo che univa la mia famiglia agli antichi mezzadri, che ancora lavoravano le nostre terre, ho coltivato fin da ragazzo un amore per il territorio e per la semplicità, autenticità e austerità alla quale l’agricoltura riporta. Attualmente faccio parte delle Commissioni ministeriali di assaggio per l’assegnazione delle

DOC e DOCG dei vini toscani. Un modo per acquisire maggior consapevolezza e apprezzare ancor più il frutto dell’evoluzione delle tecniche produttive che si discostano dalla tradizione per superarla, rinnovandone di volta in volta il messaggio». Fra i suoi parenti ha nominato suo nonno Roberto: lo scrittore, il bibliofilo e il biografo di Savonarola, Machiavelli e Guicciardini, al quale sarà dedicato un convegno a Firenze il prossimo novembre. Ci può dire che rapporto aveva con questa figura così importante nel mondo della cultura dello scorso secolo? «Il nonno era di poche parole, però riusciva a trasmettere calore umano anche con delle semplici pacche sulla testa. Con me giocava molto: a “nascondino al buio” nel suo studio, nonostante fosse diventato quasi cieco, a “boccino” con delle vecchie monete su un grande tavolo che era appartenuto alla famiglia fin dal ‘400, prima che ce lo rubassero; e soprattutto a “filetto”, del quale mi raccontava mio padre essere stato in gioventù un vero e proprio talento!». Suo nonno Roberto era noto per essere un famoso esperto di libri antichi, fra i maggiori collezionisti al mondo di incunaboli e cinquecentine. «Ero l’unico, oltre al suo gatto, che potesse giocare con i suoi libri, dei quali ricordo in particolar modo l’edizione “in folio” della Commedia dantesca commissionata dai Medici, stampata a Firenze presso i torchi di Niccolò di Lorenzo della Magna, commentata da Cristoforo Landino e impreziosita da incisioni su rame ispirate ai disegni di Sandro Botticelli. Il nonno me ne mostrava con orgoglio le preziose illustrazioni recitandomi a

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memoria ogni passo del divino Poeta. La collezione attualmente è custodita nella sede della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, della quale il mio quadrisavolo Cosimo fu il fondatore». Lei, marchese, è da considerare soprattutto ultimo erede del nonno Roberto e custode delle memorie storiche di una famiglia così intimamente legata alla storia di Firenze. «Vivendo nei luoghi che maggiormente ispirarono la sua prosa, sedendomi alla scrivania che fu di Gino Capponi prima, e poi sua, che vide nascere quasi tutti i suoi scritti, la sua memoria è un qualcosa di veramente tangibile, così come gran parte della storia di famiglia, attraverso l’archivio storico e la collezione di fiorini coniati dai miei avi fra il ‘400 e il ‘500, sapientemente ricostruita, nell’arco della sua vita, da mio padre, cultore e rinomato esperto di numismatica. La stessa villa La Baronta, fra l’altro, è oggi sede della Società Letteraria intitolata a Roberto Ridolfi». Può descriverci il suo rapporto con il nonno? «Il nonno lo raccontò anche in un elzeviro, pubblicato nella terza pagina del "Corriere della Sera", che poi raccolse nel volume intitolato: I Palinfraschi. Nutriva per me un grande affetto, anche se avrebbe desiderato che studiassi di più, soprattutto quei percorsi umanistici che gli erano tanto cari, conoscendo molto bene quali porte in noi stessi ci può aprire la cultura, e quanti salvifici misteri essa possa rivelarci, poiché, in effetti, pensandoci bene, quale altra consolazione ci resterebbe se, tolta la trascendenza, ci privassimo dell’Arte?».

Marchese Luigi Ridolfi, appassionato fotografo, e il fratello Roberto, storico del Rinascimento. Da sinistra: Livia Ridolfi tiene la lastra in vetro con l’autoritratto, in negativo, di Giovan Battista, realizzato con il banco ottico a fianco. Livia è seduta sul baule che fu, anch’esso, di Giovan Battista, dottore in Chimica. Il baule conserva ancora le lastre fotosensibili, i manuali con le tecniche dell’epoca per la preparazione degli agenti chimici per lo sviluppo e per il trattamento dell’emulsione, nel caso specifico, detta: “Alla gelatina secca” nella versione con bromuro di argento, oltre alle bacinelle di porcellana, marchiate “Ginori”, per i relativi bagni: rivelatore, di arresto e di fissaggio. A destra, in piedi, Aria Ridolfi, poggiata alla fotocamera “Folding” francese, 8 x 10 pollici. Si può scorgere, invece, in basso alla sua sinistra il treppiede da campo per poggiare gli “chassis” in legno, telaietti sui quali venivano caricate le lastre da impressionare.


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MUSICA

NUOVO JAZZ BRASILIANO Un libro ripercorre i cento anni della bossa nova e del samba Marina Cappitti

Tramonto sulla spiaggia di Copacabana Toquinho e Gildo De Stefano Ballerine di samba

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ei primi anni Sessanta si diffonde l’ascolto della bossa nova, elegante e pudica, figlia di un’élite colta, in contrasto con il rock e le insulsaggini folk dell’epoca. Nel decennio successivo, in diretta da Kingston, s’impone il reggae, proletario e militante, mentre a New York dilaga la salsa, esuberante e gioviale. La musica sudamericana esplose come genere internazionale nel corso degli anni Sessanta. Il samba e la bossa nova si diffusero mentre Bob Marley diventava l’emblema del reggae. Nei quartieri agiati del sud di Rio spunta la bossa nova e nel Brasile della fine degli anni Cinquanta la politica di Juscelino Kubitschek dà il via a una fase di prosperità economica. Questo ed altro viene affrontato con estrema perizia da Gildo De Stefano, noto musicologo partenopeo, nel suo ultimo libro dal titolo Saudade Bossa Nova. Musiche, contaminazioni e ritmi del Brasile, in cui l’autore spiega come a Rio il divario tra quartieri neri e quartieri bianchi si fa via via più profondo. Nelle favelas si predilige ancora l’ardente "samba de morro" (nell’uso gergale designa il baciarsi, la bocca, e quindi un samba caliente a sfondo sessuale) mentre nell’opulenta zona meridionale della città – quella di Copacabana, Ipanema e Leblon, quella delle spiagge e dei locali di lusso – il jazz va ormai per la maggiore. Nelle duecento e passa pagine ci si imbatte nel samba-cançao, reso via via insipido dall’influenza dei varietà americani e del bolero, e che cede allora il posto alla bossa nova.

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Sobria e discreta, con il tipico canto sussurrato (battezzato canto falado, “canto parlato”), la bossa nova attinge vari spunti armonici e una certa forma di sensibilità al cool jazz dell’epoca. Si formano molti gruppi vocali ispirati a quelli degli Stati Uniti e la giovane cantante Nara Leão riunisce nel proprio appartamento dell’Avenida Atlantica alcuni musicisti che diventeranno i protagonisti del nuovo genere. De Stefano, già avvezzo a certa musicologia delle minoranze etniche, racconta come nel 1958 João Gilberto, chitarrista sconosciuto nativo dello stato di Bahia, registra a Rio con la cantante Elizete Car-


doso. Il ritmo con il quale l’accompagna (batida), sfalsato rispetto al canto, sconcerta alcuni ascoltatori che ironizzano sulla sua “chitarra balbuziente”. Pochi mesi dopo Gilberto suona di nuovo la batida su un altro disco (che include la notissima Chega de saudade, Dutra vez, Desafinado e Bim bom) che consacra l’avvento della bossa musica popolare sofisticata, riscuotendo sin da subito un notevole successo nei locali di Rio e di San Paolo. Sempre nel 1958 Vinicius de Moraes e Tom ]obim scrissero alcuni testi per la cantante Elizete Cardoso. La bossa, che in portoghese significa “astuzia”, “modo di fare” e bossa nova potrebbe tradursi con “nuova moda”, “stile nuovo”, attrae molti artisti che imboccano la via del nuovo genere, tra questi i chitarristi Baden Powell, Luis Bonfà e Toquinho, i pianisti João Donato e Sergio Mendes e le cantanti Silva Teles e Maria Creuza. Nel 1962 Jobim, ispirato dal maestoso portamento di una splendida ragazza,

compone Garota di Ipanema, hit mondiale della bossa nova; il 21 novembre dello stesso anno alla Carnegie Hall viene dato un concerto di bossa nova presentato come il “nuovo jazz brasiliano”. In bilico tra saggistica e narrazione De Stefano offre una copiosa ricostruzione storica, una innovativa sistemazione di dati e fatti, interpolati all’interpretazione di vicende umane e stilistiche, capace di scavalcare steccati ideologici, vecchie teorie e schemi vetusti. La scrittura è scorrevole e gradevole anche all’occhio del neofita mentre l’appassionato apprezzerà il certosino elenco delle più rare danze della tradizione musicale brasiliana. Il testo è arricchito da un inedito corredo iconografico e da un aggiornato panorama delle scuole di samba che rappresentano un centro di aggregazione e una fonte d’orgoglio, come pure il carnevale che altro non è che il coronamento degli sforzi di un intero anno, una rivincita eclatan-

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te sulla miseria e sull’anonimato quotidiano. Come afferma il noto critico Billy Bergman: «L’immensa varietà delle musiche popolari dei Caraibi e dell’America latina evoca i rami della mangrovia, l’albero che cresce lungo la costa frastagliata delle regioni tropicali del Nuovo Mondo. Tutti i rami nascono da un tronco e da radici comuni, ma ogni ramo produce nuove radici e, pur rimanendo attaccato al tronco, si sviluppa indipendentemente. Alcuni rami diventano spessi quanto il tronco principale, ma, restano collegati gli uni agli altri per scambiarsi la linfa vitale. Tutti ricevono il flusso vivificante delle radici centrali, a volte fertilizzate da nuovi contributi».

Spettacolo nel Sambodromo di Rio de Janeiro Carmen Miranda, la maggiore interprete del samba divenuta un’icona del Brasile Copertina dell’album The Boss of Bossa Nova di Joao Gilberto


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cinema

Venezia

vince la favola d’amore di Guillermo Del Toro Andrea Cianferoni e Giampaolo Russo

Palazzo del Cinema, Venezia Leone d'Oro a Guillermo Del Toro Charlotte Rampling, Coppa Volpi Robert Redford e Jane Fonda

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he Shape of Water di Guillermo Del Toro vince il Leone d’Oro per il miglior film della Mostra di Venezia 2017. È una favola, firmata dal regista messicano che lavora ad Hollywood, ambientata in piena Guerra Fredda, e racconta dell’amicizia tra un “mostro” marino ed una donna delle pulizie muta, portando con sé un messaggio di grande attualità: solo con l’amore si vince la paura. “Dedico questo Leone d’Oro ai giovani registi latinoamericani, voglio dire loro che l’importante è avere fede in qualsiasi cosa, io ad esempio credo nei mostri”, ha detto il regista messicano. Ma per un errore della traduttrice simultanea “monsters” è stato inteso “mustard” e la traduzione è diventata: “Io credo nella senape”, frase che ha scatenato le risate della Sala Grande del Palazzo del Cinema del Lido, al termine di una lunghissima cerimonia di premiazione. “Credo nella vita, nell’amore e nel cinema”, ha aggiunto Del Toro, lasciando al presidente della Biennale Paolo Baratta il compito di esprimere solidarietà, tanto alle vittime del terremoto in Messico, quando a quelle dell’uragano Irma. L’Italia ha vinto due premi importanti: la Cop-

pa Volpi alla migliore interpretazione femminile grazie alla performance di Charlotte Rampling nel film Hannah del regista trentino Andrea Pallaoro, e il premio per il miglior film della sezione Orizzonti a Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli, un road movie incentrato sugli ultimi anni di vita di una delle più importanti icone pop del novecento - interpretata dall’attrice e cantante danese Tryne Dyrholm - modella dalla bellezza leggendaria negli anni ’60, storica musa di Andy Warhol e cantante dei Velvet Underground. Charlotte Rampling, nel ritirare la Coppa Volpi, da ricordato che l’Italia è la sua “più grande fonte di inspirazione”: “Ho fatto molti film qui, all’inizio della mia carriera: con Gianfranco Mingozzi, poi con Luchino Visconti, Liliana Cavani, Adriano Celentano, e tanti altri. Ed essere premiata qui oggi con il film di Pallaoro, un regista della nuova generazione, mi fa ancora più piacere, perché vuol dire che la mia vita è connessa”. La giuria presieduta da Annette Bening e composta da Ildikó Enyedi, Michel Franco, Rebecca Hall, Anna Mouglalis, David Stratton, Jasmine Trinca, Edgar Wright e Yonfan, ha assegnato il Gran Premio della

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Giuria a Foxtrot dell’israeliano Samuel Maoz, film che riflette sul dolore della guerra, e il Leone d’Argento per la migliore regia a Xavier Legrand per il film Jusqu’a’ la garde, un thriller che è un grido contro la violenza sulle donne. La Coppa Volpi per il migliore attore è andata a Kamel El Basha per The insult del regista libanese Ziad Doueiri: un film sulla giustizia e sulla dignità, in cui si racconta un lungo processo, che mette a confronto palestinesi e libanesi cristiani. Il regista del film, accusato di “collaborazionismo con il nemico israeliano”, è stato trattenuto per un’ora e mezza all’aeroporto di Beirut dal suo ritorno da Venezia. Il Premio Marcello Mastroianni ad un giovane attore emergente è andato a Charlie Plummer, protagonista di Lean on Pete, il film del regista inglese Andrew Haigh. Plummer è considerato un astro nascente del cinema americano ed è già stato scelto anche da Ridley Scott per il ruolo di John Paul Getty III, nel film All the Money in the World. “Sono molto felice di ricevere questo premio. Il Premio Marcello Mastroianni è molto importante proprio per quello che Mastroianni ha rappresentato per il cinema. Io spero di seguire


le sue orme”, ha detto il giovanissimo attore. Per la sezione Orizzonti, dopo il premio per il miglior film a Nico, la giuria, presieduta da Gianni Amelio, ha assegnato il Premio alla Migliore Regia all›iraniano Vahid Jalilvand per il film Bedoune tarikh, bedoune emza, che si è aggiudicato anche il premio al Miglior Attore della sezione Orizzonti con Navid Mohammadzadeh; il Premio Speciale della Giuria Orizzonti a Caniba, il documentario sul ‘cannibale della Sorbona’, il giapponese Issei Sagawa, che nel giugno del 1982, ucci-

se e mangiò a Parigi la sua compagna di studi Renee, firmato dai registi francesi Verena Paravel e Lucien CastaingTaylor. Il Premio Orizzonti per la Migliore Attrice è andato invece a Lyna Khoudri per il film Les Bienheureux di Sofia Djama. Tra le bocciature più clamorose della Mostra Abdellatif Kechiche e il suo inno alla vita Mektoub, My Love: Canto uno. Esce a mani vuote anche Human Flow documentario sulla tragedia di migranti e rifugiati, esordio alla regia dell’artista cinese dissidente Ai Wei Wei. Non hanno convinto

i giurati neanche George Clooney con Suburbicon e Alexander Payne con Downsizing, entrambi con Matt Damon protagonista.

George Clooney e Amal Alamuddin Susan Sarandon e Claudia Cardinale Donald Sutherland e Helen Mirren Micaela Ramazzotti Javier Bardem Claudia Gerini Franca Sozzani Award Matt Damon e Luciana Barroso Jim Carrey

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cinema

quello scatenato giullare toscano Roberto Benigni cittadino onorario di Firenze Roberto Lasciarrea

Troisi e Benigni insegnano a Leonardo (Paolo Bonacelli) come si misura la febbre

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’era una volta un comico toscano. Perché no: potrebbe essere l’inizio di una favola da raccontare ai nostri nipotini. Lui, non parla inglese, solo maccheronico, in compenso ha inventato una nuova lingua: il “benignese”. Questo maledetto toscano, questo Robertaccio, questo piccolo diavolo, questo inarrestabile, questo Chaplin italiano, questo “Pierino”, questo giullare del vecchio Millennio che ci ha condotto nel nuovo. Vide i natali ( e qui senz’altro, se disgraziatamente dovesse leggere questo articolo, ne tirerebbe fuori una delle sue), dicevo, vide i natali nella Valdichiana, a Misericordia, un borgo di Castiglion Fiorentino, in provincia di Arezzo, località così battezzata dalla tradizione popolare, che, in realtà si chiama Manciano. L’anno di nascita 1952. Il mese: ottobre. Il giorno: 27. Vi nacque per rimanerci fino a sei anni, prima di andarsene verso Prato con il babbo Luigi e la mamma Isolina. Della sua infanzia e giovinezza abbiamo imparato qualcosa dopo l’uscita del libro Benigni Roberto di Luigi fu Remigio scritto a sei mani da Carla Nassini, Massimo Martinelli e Fulvio Wetzl.

Partiamo dal 1971. All’Istituto per il commercio Francesco Datini di Prato sta per diplomarsi un alunno presentato nel giudizio di ammissione come un ragazzo dai modi che “talvolta lasciano perplessi. Manifesta una sicurezza che mostra però improvvisi cedimenti di fronte a difficoltà inaspettate. Sensibile e dotato di una notevole capacità espressiva con sfumature popolari.” Conosciamo l’ambiente contadino di quella Toscana piena di bestemmiatori e di beoni e, soprattutto, rossa. Sì, perché nonostante la vis verbale e corporale di tutta la sua opera, Benigni non dimenticherà mai di essere politicamente “schierato”. Al di là di questi aspetti, vogliamo parlare dell’attore. A parte una dimenticata partecipazione da protagonista nel 1972, nello sceneggiato Le sorelle Materassi del poeta e narratore fiorentino Aldo Giurlani, pseudonimo di Aldo Palazzeschi, il personaggio Benigni si è imposto per la prima volta, tramite l’alter ego Mario Cioni, nel programma televisivo “Onda Libera” del 1976, di cui era autore insieme a Giuseppe Bertolucci, Umberto Simonetta e al regista Giuseppe Recchia, nel quale il personaggio di spicco era “Cioni Mario di Gaspare fu Giulia”. Lo studio televisivo: una stalla. Da quella sede, un contadino toscano si collega, all’insaputa di “Mamma RAI”, per mandare in onda le sue battute piratesche, imponendo la sua maschera e la sua comicità antitradizionale, irriverente, sboccata, della emittente Televacca. Nonostante fosse ambientato in una grotta con tanto di mucche, fieno, forconi, paglia era presente anche una valletta, Donatella Valmaggia, peraltro muta e svampita. Per rendere ancora più eclatante la parodia della TV, in apertura del programma appariva

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l’annunciatrice Nicoletta Orsomando, annunciatrice ufficiale dell’azienda di stato, immediatamente zittita da un rumore di “origine partenopea” come avrebbe detto Antonio De Curtis. Apparentemente lontano da Cioni Mario e dai suoi sproloqui parlati, è il personaggio che Benigni interpreta ne “L’altra domenica” di Renzo Arbore, dove il nostro acquista i galloni di critico cinematografico. In questo nuovo ruolo di intellettuale, tenta un linguaggio colto e involuto che lascia spazio, ogni tanto, a ritorni di fiamma del più sboccato linguaggio agreste e dalla consueta vena infantilmente scurrile. Così facendo si è guadagnato il biglietto… del cinema. In televisione apparirà solamente quale ospite straordinario e dirompente di varietà o manifestazioni, come accadde con Raffaella Carrà aggredita “fisicamente” da un Robertaccio scatenato in una descrizione di tutti i sinonimi scandalosi e ridicoli del sesso femminile. Oppure al Festival di Sanremo del 1980 quando inventò il sostantivo, del resto affettuoso, di “Wojtilaccio” o come successe al Festival di Sanremo 2009, dove riuscì a coniugare sarcasmo nei confronti del presidente del Consiglio e la recitazione, a memoria, di una missiva di Oscar Wilde al suo amore, suscitando prima ilarità, poi, appunto con la lettera, una forte commozione. Ecco il primo film: Berlinguer ti voglio bene del 1977 per la regia di Giuseppe Bertolucci, dove interpreta il vecchio personaggio di Cioni Mario, gettandosi “sensualmente” sul segretario del PCI. Nella realtà, lo schivo segretario del partito in questione, per la prima volta sembrò divertirsi sul palco di un comizio dove il toscano prese realmente in braccio l’onorevole il 15 giugno1983. Nel 1980 interpreta un ruolo


importante nel film di Marco Ferreri, Chiedo asilo e, nello stesso anno, Il pap’occhio. Con la regia di Sergio Citti eccolo nel film Il minestrone. Quindi si proietta dietro la cinepresa, per il suo primo film da regista: Tu mi turbi, di cui è anche interprete. Poi B.B. (Bob Benigni) incontra il cinema americano. Più che un incontro, una vera e propria seduzione perpetrata da Benigni nei confronti di Jim Jarmusch, che lo inserisce nella storia di una fuga carceraria: una prova irresistibile anglo-toscana che gli italiani hanno apprezzato, che fu favorevolmente accolta anche negli USA. Nel 1984 il botteghino del cinema italiano ha una riscossa verso gli incassi con Non ci resta che piangere con B.B. in veste di regista e interprete insieme all’altro grande, l’indimenticabile Massimo Troisi, una coppia sullo stile americano formata da Walter Matthau e Jack Lemmon. Nel film Benigni è un maestro di scuola, Saverio, che, sbalzato improvvisamente a Frittole nel 1492, insieme a Troisi, Mario, bidello napoletano della medesima scuola, continua ad essere ossessionato dal suo problema principe: trovare consolazione per la sorella sedotta e abbandonata appunto da un americano. Da qui la necessità di viaggiare verso la Spagna per impedire la partenza di Cristoforo Colombo (“…i fermatori di Cristoforo Colombo…”) asserisce Saverio per la sua spedizione, come ultima ratio, per evitare la scoperta del nuovo mondo e tutte le conseguenze del caso, senza parlare dell’incontro dei nostri due “eroi” con Leonardo Da Vinci. Così, su questa scia, continua ad essere regista e riesce persino a coinvolgere nel film Il piccolo diavolo del 1988, un attore del calibro di Walter Matthau. L’americano in questo film interpreta il ruolo di un sacerdote esorcista, don Maurizio, che vive a Roma nel Collegio Pontificio Nordamericano, impegnandosi a stanare un diavolo, che, entrato nel corpo di una donna, ha voce maschile con spiccato accento toscano. Famosa la sfilata di ”moda del diavolaccio” con il suo “modello Giuditta”. Prima di continuare con le sue regie successive – leggasi Johnny Stecchino e Il mostro, – Benigni recita nella pellicola di Federico Fellini La voce della luna nel 1990 con un altro “mostro” sacro del cinema italiano: Paolo Villaggio, recentemente scomparso. Conforme al profilo di tutti i suoi personaggi pregressi, il comico aretino, naturalizzato pratese, interpreta il ruolo del poeta Salvini, innamorato della luna nella volgare Italia degli anni Ottanta, così oppressa dalla tele-

visione e popolata da una gioventù ignorante e arrogante, esattamente pari al comportamento che viviamo quotidianamente in questi anni. Non contento, affronta una nuova esperienza: la voce narrante nella fiaba musicale di Sergej Prokofiev Pierino e il lupo accompagnato dalla European Chamber Orchestra diretta da Claudio Abbado. In quell’occasione, come capita sempre quando c’è Benigni di mezzo, le testate giornalistiche si scatenarono distribuendo ampi consensi a questa simpaticissima coppia. “Un giullare alla corte del Re della musica”, poi “Eccoli insieme Pierino-Roberto e il lupo Claudio Abbado, che si mangia tutti gli applausi.” Ma Pierino-Roberto disse anche: ”La musica non va spiegata, è un godimento, bisogna prenderla così com’è, fartela buttare addosso. Io nella musica sono rimasto ad Ulisse, a quello che lo attaccavano al palo. Io qui mi sono legato alla poltrona, tornando agli istinti primordiali. Abbado? Ora non posso dirvi tutti i nostri incontri, che sono un pochino scabrosi. Del resto andare in scena con lui è come per un falegname lavorare con San Giuseppe”. L’anno dopo Benigni recita in un doppio ruolo. Johnny Stecchino, (vi ricordate Charlie Stecchino del film A qualcuno piace caldo con Jack Lemmon, Tony Curtis e Marylin Monroe?) boss pentito della mafia e Dante, autista di un pulmino per handicappati che è, senza saperlo, sosia del boss. Dante, innamorato a prima vista della “pupa” del gangster, la segue fino a Palermo, senza accorgersi di essere strumentalizzato dalla donna, la quale gli tende varie trappole che Benigni affronta con tanta innocente noncuranza, da uscirne sempre illeso. Siamo arrivati a Il mostro film, del 1994. La pellicola raccoglie una serie di gag, con inseguimenti da comica finale e molte performance funamboliche. Tutti numeri che evidenziano una grande somiglianza con Totò nella maniera di recitare col corpo e di farsi marionetta di se stesso. La vicenda gira attorno ad un maniaco sessuale, un serial killer, Loris, per il quale l’innocuo protagonista viene scambiato. Per incastrarlo, la poliziotta Jessica si infiltra in casa provocandolo, in ogni modo, anche sensualmente, senza però riuscire a smascherarlo dal momento che il mostro non è lui. In parallelo vengono vissute da Loris le annose vicende condominiali e la caccia al mostro sanguinario. Nel 1998, dirige ed interpreta il film La vita è bella conquistando il Gran

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Premio della Giuria al 51° Festival di Cannes e, l’anno successivo, tre Oscar. In America “gira” due pellicole: Daunbailò (1986) e Taxisti di notte (1992) dello statunitense Jim Jarmusch e Il figlio della pantera rosa vale a dire il figlio segreto dell’ispettore Clouseau, dell’inglese Blake Edwards (1993). Del resto, tornando all’America, lui stesso affermò: “Per sedurre gli Stati Uniti ho impiegato tre mesi, perso tre chili, conquistati tre Oscar.” Sembra abbia aggiunto: ”Mi dispiace per Spielberg”. Senza dimenticarsi del piccolo Giosué, Giorgio Cantarini, che aveva seguito la cerimonia davanti alla televisione a Beverly Hills, Los Angeles. La vita è bella è ambientato in Toscana nella seconda metà degli anni ’30. Guido, un giovane ebreo pieno di allegria e vitalità, abbandona la campagna per cercar fortuna in città. Come accade nelle più belle storie d’amore, Guido incontra la sua “principessa”, Dora, una maestrina fidanzata con un burocrate arrogante e pomposo. Guido si innamora di Dora e la rapisce. Dal loro amore nasce Giosué. La felicità della famiglia viene spezzata dalle leggi razziali contro gli ebrei: il giovane, insieme alla moglie e al bambino, viene deportato in un lager nazista. Per salvare il figlio dall’orrore che li circonda, Guido fa credere al piccolo Giosuè che tutto ciò che vedono è parte di un grande gioco in cui dovranno affrontare prove tremende per vincere il meraviglioso premio finale. Per Guido sarà la morte, per il piccolo Giosué la vita. Nel 2002 ha diretto e interpretato Pinocchio, trasposizione della favola di Carlo Lorenzini, mentre il film La tigre sotto la neve è del 2005. Concludiamo: …Benigni, senza alcuna retorica, è un vero miracolo…


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J cinema

erry addio

uno dei più grandi showman del Novecento

Giorgio Banchi

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ewis, nato nel 1926 a Newark, nel New Jersey, era un figlio d’arte e della cultura ebraica, cresciuto nel baule degli artisti di varietà, dietro le quinte. A 5 anni faceva le imitazioni e cantava con i genitori, Rhea e Danny Lewis, nei night. Fu espulso dal collegio per aver picchiato un insegnante che parlava male degli ebrei, ma sulla sua strada incontrò Dino Crocetti, che per il mondo era Dean Martin, formando con lui una strana ma ferrea coppia comica che durò per 7 lunghi anni, dal 1949 al luglio del 1956, facendo crescere i conti della Paramount, il cui boss Hal Wallis firma per loro un contratto per 5 anni di diecimila dollari alla settimana che diventarono poi 5 milioni di dollari l’anno per ciascuno. Ben spesi se si considera che negli anni Cinquanta furono al top della popolarità e degli incassi. Intanto, Jerry nel 1944 sposa la cantante Patti Palmer con cui avrà quattro figli e poi nel 1983 la ballerina SanDee Pitnick, con una figlia nata

nel 1992. Jerry si fece conoscere e si formò grazie anche alla nascita del duo comico con Dean Martin. I due ragazzi si incrociano per caso al 500 Club di Atlantic City la sera del 26 giugno 1946, e mandano subito in tilt l’America. Il cantante confidenziale all’italiana di That’s amore è continuamente interrotto dal fare scimmiesco del ragazzotto pasticcione. Cabaret, radio, tv, teatro e night, tutto l’arco costituzionale dello spettacolo, infine cinema, dove i due artisti tramandano le gesta dei due amici nemici, dei clown da commedia dell’arte, del bello e del brutto, del furbo e del tonto. Il tutto in una raccolta singolare, stereotipata ma talvolta irresistibile di sedici film spesso anche scritti da Lewis, fra i quali Attente ai marinai! (1952), Morti di paura (1953), Il nipote picchiatello (1955), Artisti e modelle (1955) e Hollywood o morte! (1956). Purtroppo i loro frequenti litigi li portarono alla rottura, siglata ufficialmente il 25 luglio 1956 con uno show al Capocaba-

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na di New York. Martin cresce come attore, di western e melò, con registi come Minnelli e Hawks, arrivando poi al chiacchierato clan Sinatra dei Colpi grossi, Lewis invece rimane fedele alla satira ed esaspera il tipo buffo per 23 film, fino al 1970, doppiato in Italia da Carlo Romano e Oreste Lionello. Lavora spesso e volentieri col prediletto Frank Tashlin da cui impara il mestiere, recita nella pochade Boeing Boeing che gli fa vincere il Golden Globe. Jerry inventò anche una tecnica di lavoro sul set. Dal momento che quasi tutti i suoi sketch erano improvvisati, Lewis-regista aveva bisogno di controllare immediatamente il lavoro fatto. Fu lui dunque a portare sul set la tecnica del video assist, che utilizzava monitor per vedere il girato in tempo reale. Questo metodo è ancora oggi abitualmente usato sul set. Numerose sono state anche le polemiche che lo hanno riguardato. Criticato dalle associazioni dei disabili per le sue parodie nei confronti degli affetti da distrofia muscolare, fece anche scalpore in televisione per i suoi epiteti contro i gay. Jerry Lewis, nonostante i problemi di salute, ha vissuto gli ultimi anni da arzillo vecchietto. Aveva subito l’impianto di quattro bypass coronarici ed era stato operato di cancro. Soffriva anche di diabete e fibrosi polmonare ma a Las Vegas, dove viveva con la seconda moglie, ha tenuto fino all’ultimo spettacoli dal vivo e seminari sul buonumore. Dopo una morte varie volte annunciata come una fake news, "Hollywood Reporter" e "Variety" annunciano che Jerry Lewis, con all’attivo una quarantina di film come attore, una decina da regista, tanta tv, è scomparso davvero a Las Vegas a 91 anni per cause naturali.


intervista

S igsinori nasce

parola di Totò

Signore d'animo e sangue Antonio De Curtis

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odestamente la circolazione ce l’ho nel sangue. E chi meglio di lui era capace di usare simili espressioni? Dunque, il mitico Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comnmeno Porfirogenito Gagliardi DeCurtis di Bisanzio.. in arte Totò, dotato di mascella quadratissima e portamento scattante – balzeggiante e flessuoso –, alla farsa univa magistralmente il dramma e... siccome “Signori si nasce ed io modestamente nacqui!!!” con grande stile si fece esonerare dalla "leva" (della Grande Guerra), accusando furbescamente – una bella epilessia e facendosi dirottare dritto dritto verso il congedo! E che la prima moglie del signor De Curtis, Diana Rogliani Battini, era di Livorno lo sapete? Ed ancora che sto geniaccio partenopeo amava trascorrere le ferie a Viareggio vi suona strano? Eccoci a colloquio con la nipote diretta della grande maschera, in quanto figlia di Liliana de Curtis (quest’ultima buona figliola dell’attore napoletano) a cui somiglia intensamente: Elena Anticoli De Curtis presso il colorato ed originale stand Barbarulo in occasione di “Pitti Uomo 2017”, spiega che quest’anno ricorre il cinquantenario della morte del nonno e che, proprio lei, ha creato l’associazione “Antonio De Curtis in arte Totò”. “Questo per preservare e recuperare ciò che è stato lasciato che poi altro non è che una eredità di grandissimo livello culturale, capace d’avere ottenuto per il magistrale mimo il riconoscimento di grandissimo artista del ‘900. La mostra è itinerante, è stata portata a Napoli a Palazzo Reale, al Maschio Angioino, ed ancora a San Domenico Maggiore. Seguirà Roma, Lugano ed altri luoghi. Con piacere

e vivo orgoglio dico che, oltre ai numerosissimi costumi di scena, esiste un repertorio fotografico notevole con molte poesie e manoscritti di questa grande figura che mi è nel cuore. Lo sa che per L’imperatore di Capri egli aprì gli armadi di mamma e nonna inventandosi quel buffo costume caprese con cappelletto fatto ad uncinetto? Adesso tutto o quasi è stato rieditato nel libro di mammà che altro non è che la biografia del nonno visto attraverso gli occhi della figlia, dove l’uomo si presenta fuori scena. Materiale ne ho, molto, tuttavia amo rispolverare anche presso vecchi collezionisti per... chissà se c’è dell’altro!” Che lei è la sua fotocopia glielo hanno detto? Sorride dolcemente, fa un passo indietro e...”Non l’ho conosciuto, ma mi lega a lui un grandissimo affetto e mi manca molto. I ricordi degli altri mi aprono sensazioni ed emozioni uniche. Vien sempre fuori quella frase ove lui...”io lascio solamente battute e parole che prendono il volo, mentre invece un falegname fa una cosa tangibile che si può toccare”, ma ciò non è assolutamente vero poiché era di una profondità di pensiero unica. Non a caso amo moltissimo Siamo uomini o caporali?, celeberrimo monologo dove l’umiliazione prende il sopravvento mentre lui combatte disperatamente questa lotta invitando a rimanere uomini, degni uomini.” Che reazione ebbe quando seppe d’essere Principe? “Beh... diciamo che nonno fu riconosciuto dal padre a 23 anni e che avevo sofferto non poco d’essere stato considerato figlio di "N.N." . Con tutte le condizioni di povertà vissute e col fatto “di non essere

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nessuno”! Pertanto, quando Giuseppe De Curtis lo riconobbe fu un vero e proprio direi piacevole shoch! Lui che aveva sempre amato le cose belle – teneva molto alla sua eleganza – certamente non nascose pur senza esibirlo il suo status di nobile. Ma lui era nobile "dentro" in quanto generosissimo e dedito alla beneficenza. Pensi che manteneva un canile romano di 220 animali! Però Totò e Antonio De Curtis non potevano dividersi poiché il primo dava da mangiare all’altro, e venivano fuori anche tutte le cose che non aveva avuto da piccolo quali regali ed altro, cose di cui hanno bisogno i piccoli. Lo sa che dove è sepolto – gli portano di tutto ... – i bambini corrono a portargli le caramelle? Il suo spirito è ovunque, Nord... Sud... e la sua incredibilità era quella di unire qualsiasi livello culturale!” Mannaggia, come farebbe comodo adesso...

Carla Cavicchini

Elena Anticoli De Curtis

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televisione

serie

TV

mania

Eleonora Garufi

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on l’estate ormai finita, la mente viaggia già verso i prossimi motivi autunnali. Le giornate sono più corte, la luce è quella inconfondibile di settembre e ormai tutti i ragazzi sono rientrati a scuola. C’è però qualcosa di diverso, una sorta di nuova "mania", che sembra alleggerire l’inizio delle stagioni fredde: le serie TV. Le serie TV hanno ormai spodestato i Reality e molto spesso i film: viaggi temporali, tra intrighi di personaggi,

serial killer, medici che salvano il mondo e se stessi, giovani ricchi di speranza. Le storie di criminali in cerca di fuga e amori tormentati, tengono inchiodati al divano milioni di persone, di ogni generazione. La grande svolta a cui forse si deve il successo di questo formato, è sicuramente il nuovo impianto delle TV: molto spesso infatti si abbandonavano le serie perché si era obbligati alla suspance di un episodio, costretti ad attendere l’appuntamento successivo per sapere che cosa sarebbe successo (qualcuno di voi ha visto Lost?). Oggi tutto ciò non è più necessario, perché se non sei in grado di sopportare l’attesa, o la tua vita non può adattarsi alla programmazione obbligata, puoi comodamente farti una “maratona” di tutte le stagioni disponibili: basti pensare a Sky o alla sempre più richiesta Netflix, con le sue serie tutte inedite. Finito Game of Thrones, le proposte non mancheranno per sistemarsi comodamente sul divano muniti di copertina e pop corn. Tra le serie più attese c’è sicuramente Suburra (l’appuntamento è per il 6 ottobre), la prima serie italiana di Netflix: tratta dall’omonimo romanzo ma ambientato molti anni prima, ha come protagonista Alessandro Borghi.

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Grandi aspettative anche per il debutto di The Deuce (a ottobre su Sky Atlantic), serie incentrata sulla legalizzazione della pornografia nella New York degli anni Settanta, con i bravi Maggie Gyllenhall e James Franco, quest’ultimo nel ruolo doppio di due gemelli. Riflettori puntati anche sul ritorno di Gomorra, la serie italiana più esportata all’estero. La terza stagione dovrebbe andare in onda il 6 novembre su Sky Atlantic. Il 27 ottobre, sempre su Netflix, sbarca la seconda stagione della serie già culto Stranger Things. Il futuro dell’eroina Eleven è ancora incerto, ma prepariamoci a conoscere nuovi personaggi. Nulla si sa di preciso invece sulla data delle messa in onda italiana di Will & Grace, ma per gli Usa il revival della celebre sit-com, che tra il 1998 e il 2006 ha preso in giro gli stereotipi su gay ed ebrei, debutterà il 28 settembre sulla NBC. Infine, chi si interroga su cosa accadrà tra Meredith Grey e Nathan e se Megan tornerà a casa, non dovrà attendere troppo le risposte: la ABC ha finalmente rilasciato la data della première della 14esima stagione di Grey’s Anatomy. Il primo episodio andrà in onda in Usa il 28 settembre e durerà ben due ore. Insomma ce n’è per tutti i gusti.


EVENTO

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ath hta erineDeneuve evueneDenire Jaeger-LeCoultre celebra il mito della diva

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er una notte il suggestivo Arsenale di Venezia si è trasformato in un magnifico teatro iconico set cinematografico. Jaeger-LeCoultre, noto brand di orologeria dal 1833 sinonimo di tecnica e preziosità, ha festeggiato il mito di Catherine Deneuve con il gala dinner a cui hanno partecipato le star presenti al Festival cinematografico di Venezia, tra cui Diane Kruger, Eva Riccobono e Cristiana Capotondi, le modelle Coco Rocha e Soo Joo Park, la regista cinese Vivian Qu. Ad accogliere tutti l’amministratore delegato di JaegerLeCoultre Geoffroy Lefebvre, che ha rinnovato per il 13 anno consecutivo la sponsorship con la Biennale di Venezia. Icona di stile ed eleganza, Catherine Deneuve incarna perfettamente l’ideale di diva che dagli anni ‘ 60 ad oggi non ha mai lasciato il grande schermo e che, ben lontana da quel “viale del tramonto” raccontato dal regista Billy Wilder nel suo capolavoro, è stata e resta un canone di bel-

lezza e la musa immortale di cineasti e stilisti, da Francois Truffault a Yves Saint Laurent. La serata gala è stata dedicata al mondo del cinema e alla sua capacità di suscitare emozioni,

creando momenti destinati a durare nel tempo, il cui emblema sono stati i tre nuovi modelli Rendez-Vous Sonatina. Ognuno disponibile in edizione limitata di 8 esemplari, questi orologi si ispirano alle differenti espressioni del sentimento amoroso: la seduzione, il romanticismo e l’amore. Anche la nota top model Eva Riccobono ha indossato l’orologio Jaeger-LeCoultre Rendez-Vous Sonatina Amour, nella sua versione in azzurro, della trilogia dell’esclusiva serie artistica, in edizione limitata, dell’orologio RendezVous lanciata proprio in occasione di questa edizione della Mostra. Al suo fianco il compagno Matteo Ceccarini, che invece ha indossato un orologio esclusivo: il modello Reverso Classic Large raffigurante il leone di Biennale in lacca rossa. Oltre a loro Alexandre Payne, autore della pellicola Downsizing con la quale la Mostra ha aperto, Filippo La Mantia, con la compagna Chiara Maci, l’attrice libanese Rita Hayek, l’attrice inglese Rebecca Hall.

Giampaolo Russo

Jaeger-LeCoultre Gala Dinner Hikari Mori Catherine Deneuve Ann Hsu Maria Ivakova

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spettacolo

2017



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società

estate ardente Leonardo Taddei

È

stata indubbiamente un'estate di fuoco, questa del 2017, non soltanto per le altissime temperature registrate e per la scarsità di precipitazioni, ma anche, sfortunatamente, per i numerosissimi incendi scoppiati in molte regioni italiane, inclusa la Toscana. L’incendio boschivo, così come definito dalla Legge 21 novembre del 2000, numero 353, articolo 2, è un fuoco che tende ad espandersi su aree boscate, cespugliate o arborate, ed eventualmente su infrastrutture ivi incluse, ma anche su terreni, coltivati o incolti, e pascoli limitrofi a tali aree. L’articolo 11 stabilisce invece la responsabilità penale per chiunque cagioni un incendio su boschi, selve, foreste o vivai forestali destinati al rimboschimento, propri o altrui, prevedendo, come pena, una reclusione da uno a cinque anni, e da quattro a dieci anni se dall'incendio derivano pericoli per edifici o aree protette, oppure danni gravi, estesi e persistenti all'ambiente. Per generare un incendio, oltre al combustibile, rappresentato dalla vegetazione, e al comburente, l’ossigeno presente nell’aria, è necessaria anche una quantità di calore sufficiente per provocare la reazione chimica, caratteristica che limita a rari ed isolati casi le possibilità di autocombustione per cause naturali. Per la maggior parte, se non generati da distrazioni o comportamenti irresponsabili, i roghi sono invece di origine dolosa, appiccati con lo scopo di creare nuovi pascoli, di fertilizzare i campi oppure, soprattutto, per interessi speculativi legati all’edilizia. Negli ultimi anni, però, si sta aggiun-

gendo un’ulteriore causa: la precarietà del lavoro di certi operatori forestali, che appiccano incendi proprio per essere chiamati in servizio ed essere remunerati per spegnerli, come accaduto anche questa estate in Sicilia. Episodi simili erano noti già da anni, tanto che nel 2001 addirittura i servizi segreti del S.I.S.De. avevano denunciato le responsabilità degli operatori stagionali nell’isola, la regione che conta il numero di addetti precari più elevato, con oltre 30.000 su un totale nazionale di 68.000. A seguito dell’anno peggiore per gli incendi in Italia, il 2007, con più di diecimila roghi, una vasta campagna di sensibilizzazione era stata avviata dalla Protezione Civile e da tutte le regioni, nonostante lo strumento più efficace per combattere la deturpazione delle aree boschive rimanesse l’applicazione di leggi atte ad evitare la costruzione edilizia sulle aree colpite e l’istituzione di catasti

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regionali per monitorare in dettaglio le zone incendiate. Purtroppo, però, legiferare non è così semplice, a causa dell’autonomia, in materia di politiche forestali, che consente ad ogni regione di adottare una specifica e differente definizione di bosco, rendendo spesso arduo classificare un incendio come boschivo o meno su scala nazionale, e quindi poi effettivamente poter assicurare i colpevoli alla giustizia. Nel corso di questa rovente e siccitosa estate 2017, numerosissimi incendi sono stati registrati anche in Toscana, nonostante gli sforzi messi in campo dalla regione ed il divieto, lanciato dall'assessore all'agricoltura Marco Remaschi, di accensione di residui vegetali, agricoli e forestali, prorogato fino al 15 settembre per il perdurare del rischio di innesco e propagazione causati dal forte vento e dall’assenza di precipitazioni. Come dichiarato anche dal presidente regionale Enrico Rossi, una


parte non marginale di Toscana è bruciata, soprattutto nei mesi di luglio e agosto, con 472 incendi e 1600 ettari di superficie interessata, su un totale di 775 incendi e 1981 ettari bruciati da inizio anno, dati notevolmente superiori rispetto alla media degli ultimi cinque anni, pari a 321 incendi e 487 ettari. Tali cifre sono comparabili con quelle di altre due stagioni particolarmente difficili per la regione Toscana, le estati del 2003 e del 2012. La giornata più colpita è stata certamente domenica 16 luglio, con ben 33 incendi boschivi e 12 di vegetazione, mentre la zona più delicata è apparsa quella della costa grossetana, nel tratto tra Castiglione della Pescaia e Marina di Grosseto, vessata negli ultimi quattro anni da un altissimo numero di roghi di natura dolosa, con grave rischio sia per le infrastrutture presenti sul territorio che per gli abitanti stessi.

I costi di prevenzione e lotta attiva contro gli incendi coinvolgono, oltretutto, cifre molto elevate già di per sé, che per la sola regione Toscana ammontano a più di 9 milioni e mezzo di euro ogni anno, utilizzati per i 600 mezzi terrestri, i 10 elicotteri, le 400 guardie forestali regionali, i 180 direttori operativi, la formazione di quasi 5000 operatori volontari e la gestione della sala operativa unificata permanente, denominata Soup, aperta 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno. Tali cifre e statistiche non possono far altro che sottolineare la drammatica straordinarietà della situazione attuale e l’eccezionale gravità di una simile piaga, soprattutto considerando che l'A.I.S.F., l’accademia italiana di scienze forestali, ha stimato il costo necessario per spegnere un incendio in circa seimila euro per ogni ettaro bruciato, da aggiungere alle spese per il trasporto del materia-

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le arso, la ripulitura, la regimazione delle acque superficiali e l'eventuale rimboschimento. Inoltre, ingenti sono anche i danni collaterali legati al passaggio del fuoco, soprattutto se i terreni interessati sono in pendenza, come l’aumento dell'azione erosiva dell'acqua ed il rischio idrogeologico di frane e smottamenti nei successivi mesi invernali. A volte, come dichiarato da Legambiente, sono necessari addirittura dai venti ai quaranta anni per poter ristabilire un livello di soprassuolo paragonabile a quello presente prima dell’incendio. Per segnalare ogni eventuale presenza di roghi o incendi, la Soup ha messo a disposizione il numero verde 800.425.425, che è possibile contattare gratuitamente. Foto di Ylvers, Skeeze, S. B. V. Guenter e P. R. Ledda


fatelo con la musica... il rientro dalle vacanze!

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MATERIE PRINCIPALI: Canto lirico, Pianoforte, Chitarra classica, Chitarra moderna, Violino, Viola, Violoncello, Contrabbasso, Fisarmonica, Organo e composizione organistica. MATERIE COMPLEMENTARI: Armonia, Contrappunto e fuga, Pianoforte complementare, Storia della musica, Teoria ritmica e percezione musicale. PROPEDEUTICA MUSICALE: Laboratori di musica d’insieme e individuali 3-6 anni. ESERCITAZIONI CORALI. CORO DI VOCI BIANCHE. MUSICOTERAPIA.

SONO APERTE LE ISCRIZIONI PER L’ANNO ACCADEMICO 2017/2018 Info e iscrizioni: Fondazione Peccioli per, Piazza del Popolo n. 10, 56037 Peccioli (PI) Tel. 0587 672158 - cell. 338 2963108 - accademiamusicaleav@fondarte.peccioli.net

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intervista

parola di donna

dal Medio Oriente i reportage di Lucia Goracci

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onferire a Firenze il premio “Il Genio delle Donne” ad una delle più stimate e preparate giornaliste italiane – ci piace tanto aggiungere toscana, di Orbetello per l’esattezza –, rende onore a lei, Lucia Goracci, inviata di Rai news 24, corrispondente Rai dalla Turchia, che ben si merita tutto questo. Ma anche a noi telespettatori che la seguiamo da molti anni in diretta Tivù in scenari di guerra che... francamente lasciano poco spazio all’immaginazione. E quindi la domanda sulla paura sorge spontanea ricordando pure Oriana Fallaci – anche a lei fegato e coraggio non mancavano proprio quando, a Città del Messico, si accorsero che respirava ancora sopra a un cumulo di cadaveri. “Non lo nascondo! Ho paura e non sono nemmeno troppo brava a nasconderla nei miei servizi. Le guerre... oramai la linea del fronte non è definita... e quindi puoi ritrovarti a mettere piede sul terreno sbagliato senza nemmeno accorgertene! Questo poiché oggigiorno non si parla più di belligeranze schierate, di conseguenza puoi entrare benissimo in un contesto di conflitto urbano ove il silenzio regna indisturbato. E niente è più pericoloso e spaventoso di quest’ultimo, in una città martoriata, in cui non sai proprio da dove arriverà l’attacco. Il rischio c’è, eccome, e più che palese; più d’una volta mi è capitato di rischiare anche assieme a chi era con me... tuttavia qualche ora dopo prevale la voglia di ritornare sul posto e tutto ti scivola addosso. O quasi.” Guardo questa bruna creatura piena di grinta... piena di tutto! Dai lisci capelli scuri pensando che se è cronista pluridecorata vincendo pure il

premio “Maria Grazia Cutuli” e “Ilaria Alpi” un motivo ci sarà. Mentre mi sorge spontanea la domanda... ”ma quando siete sul campo i colleghi uomini come vi considerano?” Lucia Goracci, semplice, solare, preparata, colla sua dizione perfetta, ride e non certamente in maniera isterica osservando: ”Eh... bella domanda! Il nostro è un mestiere da maschio, e lo dico affermando quel pregiudizio che se questo lo fa un uomo è un gran figo!”, la donna invece è una pazza che rischia! Tuttavia oggigiorno ci stiamo affermando... sì, forse anche in virtù del fatto che generazioni precedenti, sessantenni o giù di lì, faticando in questo lavoro da maschi, ci hanno aiutato non poco. A essere sincera esiste meno atteggiamento di sufficienza nei nostri confronti, verificandosi talvolta una signorile attenzione.” E te credo, sta "pepina" mica ci impiega molto a "speditte ar diavolo"! “Mi chiede della solidarietà tra noi? Cattiverie... gelosie? Francamente in questo settore ho molte amicizie che operano più che bene, e quelle che mi hanno preceduta, sono state maestre nel far assimilare doti, capacità e talento. E menziono pure le varie free-lance e fotografe con cui condividiamo molto.” Arriva una televisione estera che avanza per qualche domanda mentre lei, con la consueta naturalezza e dolcezza innate, risponde in perfetto inglese. Nel frattempo non mollo l’osso chiedendo lumi sul panorama odierno nonché sulle varie differenze culturali, sociali e religiose che lei riscontra continuamente. “Beh... la mia professione mi porta anche ad osservare il rapporto uomo-donna.

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A Kobane i curdi combattono contro l’Isis accanto a donne soldato con tanto di kalashinokov al collo... ed ancora, sono stata in società incredibilmente progressiste a dispetto di chi le governava... penso all’Iran dove l’essere femminile ha rispetto dei diritti dimezzati che il codice di diritto privato e diritto di famiglia le infligge... figure straordinarie come quella iraniana a cui è stato conferito il premio Nobel per la pace. Ma è pur vero che, in zone molto remote, non mi si rivolgeva parola, persino i miei autisti preferivano interloquire con i cameramen piuttosto che con me donna! Eppure la voglia di preservare diritti e dignità in questi scenari nelle nuove generazioni sta prendendo sempre più campo.” Come avviene per le curde, onoratissime d’essere sul fronte accanto al sesso "forte". “Con la carta dei diritti fondamentali hanno interiozzato tutta una serie di rivendicazioni dei quali altrove, nel mondo musulmano, non v’è traccia. Parlo di parità, nonché rispetto e tutela delle minoranze, però guai a fermarsi alle apparenze! Quando mi chiedono del velo... negli ultimi 10-12 anni non sono poche le donne velate presenti in luoghi di lavoro ed altrove, pertanto mi sento di dire che il mondo arabo, musulmano, forse ha fatto mezzo passo indietro, ma è pur vero che la massiccia presenza universitaria racconta del cambiamento avvenuto, speranza per una buona costruzione del futuro. E quindi preferisco una donna velata ma emancipata, colta e dotta, ad una donna "svelata" inconsapevole intellettualmente e professionalmente del privilegio di non avere quel velo.”

Carla Cavicchini

premio "Montale fuori di Casa" sezione "Il Genio delle Donne" è stato consegnato da Eugenio Giani presidente del Consiglio Regionale a Lucia Goracci presso il cinema La Compagnia di Via Cavour a Firenze

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ECONOMIA

verso il tubone Aquarno: le nuove e più grandi vasche di stoccaggio

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ntro il primo trimestre 2018 dovrebbe essere operativa nel depuratore Aquarno la nuova volumetria specificamente dedicata all’accumulo delle acque meteoriche in arrivo all’impianto in condizioni piovose estreme: a parlare è Silvia Rigatti, presidente Consorzio Depuratore, ente proprietario dell’impianto di Aquarno. «Si tratta di una nuova grande vasca- spiega il direttore Aquarno Nicola Andreanini- già inserita nel progetto di ampliamento connesso al Tubone e opportunamente strutturata per lo stoccaggio delle acque meteoriche e la gestione dell’impatto dei fenomeni atmosferici più violenti». «Con una capienza di circa 24.000 m³- aggiunge la presidente Rigattidiventerà la più grande del depuratore Aquarno»: 3,5 milioni di euro il costo complessivo della nuova volumetria( realizzazione e messa in opera) cofinanziato nell’Accordo di Programma dal Ministero dell’Am-

biente. Dopo la nuova condotta che dallo scorso febbraio collega ad Aquarno anche il Comune di Santa Maria a Monte, e in attesa che al depuratore siano collegati Montecalvoli e la Valdinievole, la nuova volumetria è l’ulteriore tassello nei lavori di Aquarno per l’avanzamento del Tubone. L’attuazione del Tubone valorizzerà, a vantaggio di un’intera area della Toscana, di 42 Comuni tra Valdinievole, Valdera ed empolese, l’esperienza del distretto conciario di Santa Croce in tema di depurazione: confluiranno ogni anno in Aquarno attraverso più collettori 16, 5 milioni m³ di reflui civili provenienti da Santa Maria a Monte, Valdinievole, Valdera. I lavori dovrebbero essere completati entro i prossimi 4 anni. L’esperienza del comparto conciario per la collettività «L’opera –dice la presidente Rigatti- si inserisce nel contesto delle strategie ecocompatibili sostenute nel distretto, i cui benefici ricadono

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complessivamente sull’intera collettività. Obiettivo delle nostre politiche per la depurazione è anche quello di ottimizzare il trattamento delle acque con la progressiva riduzione delle tariffe per le aziende allacciate al depuratore di Santa Croce».



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economia

tutela di prodotto e diffusione di cultura Alessandro Bruschi

Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale

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asaconcia è la nuova casa del Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale di Ponte a Egola. L’obiettivo è stato quello di creare un nuovo contesto strutturale che potesse rappresentare e veicolare nel mondo la cultura ed il saper fare toscano. Ma la nuova sede non è e non sarà soltanto uno spazio culturale, infatti permetterà al Consorzio di portare avanti le tradizionali attività di promozione e divulgazione, nonché quelle legate alla tutela e alla salvaguardia della pelle conciata al vegetale in Toscana. Una lavorazione ed un prodotto, a loro modo, unici. La concia al vegetale ha origini nella preistoria e ancora oggi utilizza esclusivamente estratti di legno, i tannini, per il processo di concia. I conciatori

toscani sono riusciti a preservare questo antico metodo e a far sì che non venisse dimenticato, tramandandosi di padre in figlio la preziosa tradizione artigianale che oggi, con i dovuti adeguamenti tecnologici, sta alla base di questa lavorazione. In un’era in cui il tempo sembra essere la risorsa più preziosa e rara, c’è dunque ancora un’attività che ha nello scorrere delle ore e dei giorni il più fedele alleato e il più importante fondamento. Come si tutela un’eccellenza italiana? Per preservare e promuovere questa tradizione toscana è nato, più di vent’anni fa, il Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale. Le 22 concerie associate al Consorzio, tutte operanti all’interno del distretto conciario toscano e fortemente de-

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terminate a proteggere un prodotto di nicchia e di alta qualità, sono accomunate da una stessa filosofia produttiva: rinnovarsi nella tradizione ricercando un equilibrio fra innovazione e valorizzazione di conoscenze che non possono essere replicate altrove, poiché intrinsecamente legate ad una comunità ed al suo territorio, la Toscana appunto. Il Consorzio ha creato, tenendo fede al suo obiettivo primario, il marchio di qualità “Pelle Conciata al Vegetale in Toscana”, un marchio che garantisce la qualità di un prodotto ottenuto, come da tradizione, con una lavorazione prevalentemente artigianale e manuale, di un materiale naturale prodotto completamente in Toscana, in impianti a norma, con piena garanzia


della tutela dei lavoratori e con il rispetto per la sostenibilità ambientale. Le concerie associate ed il Consorzio investono inoltre per promuovere le peculiarità della pelle toscana conciata al vegetale in Italia e nel mondo attraverso workshop e visite guidate negli stabilimenti produttivi per scuole e istituti di moda, seminari ad-hoc per la filiera produttiva, ricerche ed eventi. Un Cartellino come sinonimo di garanzia. I mercati, però, sono sempre più esigenti e necessitano di maggiori informazioni e certezze. Da qui nasce l’idea del Cartellino di Garanzia, ovvero un certificato di qualità che permetta di riconoscere e garantire il prodotto. Un elemento, dunque, indispensabile e vitale. Gli articoli prodotti in Pelle Conciata al Vegetale in Toscana possono dunque fregiarsi di un elemento distintivo

che consente al consumatore finale di scegliere la pelletteria di alta qualità. Si tratta di pellami lavorati in conformità di una rigida scheda tecnica che gli associati al Consorzio hanno deciso di adottare per esaltare le caratteristiche di una pelle già apprezzata e riconosciuta in tutto il mondo. Il Cartellino è dunque il biglietto da visita che consente di riconoscere un materiale che va ben oltre il semplice concetto di pelle. Perché questo pellame non è soltanto un prodotto ma una filosofia di vita. È cultura. L’obiettivo del Consorzio è anche far comprendere che questi pellami nascono sul territorio e ad esso sono strettamente legati. Interagiscono con il clima e le stagioni, con i colori e le forme delle campagne, con la forte personalità dei nostri caratteri. La storia e l’uomo hanno rimodellato la Toscana rendendola unica non solo

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per il paesaggio, ma anche come custode di componenti fondamentali del vivere umano, come il cibo, l’arte e la cultura. Il compito del Consorzio, all’interno di questo contesto, è fare cultura. Diffondere la cultura di un prodotto unico e di valore come la pelle al vegetale, dove ogni singola pelle è diversa dall’altra, all’interno di un mondo produttivo che richiede sempre più standardizzazione e modelli predefiniti è sicuramente un compito arduo. Questo perché è più difficile affermare uno stile e una personalità propria che seguire le mode. È più semplice seguire una rotta più veloce e battuta dalla maggioranza dei naviganti piuttosto che riscoprirne una più lenta ma sicuramente più appagante. Ma il Consorzio ci crede ed è determinato a portare avanti questo ambizioso progetto.


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economia

il Consorzio Conciatori di Ponte a Egola festeggia Angelo Errera

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uesto speciale compleanno è stato celebrato con una grande festa nella sede dell’associazione, una celebrazione che ha visto la partecipazione di molti ospiti, dal mondo dell'industria, delle istituzioni e dell'informazione. Un momento di festa, ma anche un momento di celebrazione della passione e degli sforzi che hanno permesso all'associazione di varcare il traguardo del mezzo secolo. Al termine della serata è stato consegnato ai presenti un libro fotografico commemorativo, una storia raccontata per immagini, attraverso i volti di chi ogni giorno porta avanti un lavoro che sa di tradizione. Niente foto d’epoca, insomma, ma tanti scatti per ciascuno dei conciatori di oggi e del domani ambientati nel giardino della sede. Cinquantanni fa iniziava l'avventura dell'associazione Conciatori: mettere insieme le imprese conciarie della sponda sinistra dell'Arno. Per l'esattezza era il 26 settembre del 1966 quando, di fronte al notaio Mario Banti di San Miniato, veniva costituita la Società Cooperativa Consor-

zio Conciatori di Ponte a Egola. Le difficoltà iniziali, unite all'emergenza dell'alluvione, resero l'associazione effettivamente operativa solo dal 1967. Da allora tante cose sono cambiate, così come la sede del Consorzio passata da via Diaz a via Gioberti per poi approdare negli anni '90 nella villa di

foto di zzzzzzzzzzzzzzz zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz zzzzzzzzzzzzzzzzzz

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piazza Spalletti. In mezzo ci sono state evoluzioni importanti: il trasferimento delle concerie lontano dal paese, la costruzione del depuratore, fino ad arrivare alle tante sfide del mercato di oggi. Queste le parole del presidente a conclusione della serata:


«È una grande soddisfazione raggiungere questo traguardo - ha commentato il presidente del Consorzio, Michele Matteoli affermando che attualmente l'associazione, pur ge-

dal deputato pisano Federico Gelli e a seguire la lettera del cardinale Giovanni Angelo Becciu, sostituto per gli affari generali nella segreteria di stato vaticana, dalla quale giungeva la

stendo ancora la depurazione e le zone industriali, è impegnata a fornire assistenza alle aziende nel campo della sostenibilità ambientale, delle certificazioni, della gestione dei rifiuti e delle tante incombenze burocratiche, e la presenza del Consorzio è stato, e sarà fondamentale per il settore rendendolo all'altezza delle sfide di oggi.» Oltre ai messaggi delle istituzioni sono arrivati i calorosi saluti dalle più alte autorità. In primis il messaggio del premier Paolo Gentiloni, letto

benedizione del Santo Padre. Al termine della cena vengono consegnate premi e riconoscimenti: per gli industriali sono stati premiati due conciatori storici come Sandro Seli, Osvaldo Montanelli e i giovani imprenditori Alessio Monti e Matteo Montanelli; un contributo al merito scolastico, con il premio in memoria dell'ex presidente Attilio Gronchi, consegnato dalla vedova Emanuela, conferito al giovanissimo Nicolò Tinghi dell'IT Cattaneo di San Miniato.

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EVENTO

CHILLING OUT TOGETHER N

ella particolare cornice della Manetti Cachemire factory di Montelupo Fiorentino il 28 giugno un appuntamento per una piacevole serata Chilling out together. La Carrozzeria Autostile-Luxurypaint, Bruno Cei per Bang & olosfen, Bruno Manetti Cashimire, Marco Parrini per Banca Fideuram, il ristorante Molo73, gli Arredamenti Chelini organizzatori della serata, hanno incontrato amici e clienti per una serata conviviale e al contempo hanno presentato le proprie attività e prodotti, la serata è stata un vero e proprio luogo d'incontro dove molte persone hanno potuto ritrovarsi e parlare di tutto. Nonostante il maltempo che ha costretto tutti al coperto, la serata si è caratterizzata vivendola all’interno di una fabbrica. Molti i personaggi intervenuti dal distretto empolese e fiorentino sia appartenenti al mondo dello sport che da quello industriale. Alcuni: Francesco Ghelfi, AD Empoli FC; Luciano Spalletti, Inter FC coach; Giovanni Galli ex calciatore del Milan; Mario Cognini, AD Fiorentina ACF e Alessandro Testi per Testi Spa. In attesa del prossimo appuntamento che sarà come sempre ricco di sorprese.

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scuola

il rispetto…

torna tra i banchi di scuola con Gruppo Lapi, Lions Club San Miniato e Azienda usl Toscana centro

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l progetto Rispetto a colori ha lo scopo di far avvicinare i ragazzi delle scuole del Valdarno alla scoperta dell’arte. Attraverso un percorso che li porterà alla conoscenza ed alla riproduzione di un’opera, gli studenti saranno coinvolti in laboratori e attività divertenti e creative con la sperimentazione di diverse tecniche artistiche. Dilvo Lotti e Arturo Checchi sono gli artisti individuati su cui si lavorerà durante questo secondo anno del progetto. Artisti con un forte legame alla Toscana, in rappresentanza della magnificenza del nostro territorio. Oltre all’opportunità di acquisire nuove conoscenze e far emergere le proprie capacità, il lavoro di gruppo farà sviluppare non solo lo spirito di osservazione ma sarà anche lo stimolo per l’apertura al confronto ed al rispetto dei diversi punti di vista e delle diverse forme di espressione. Il concetto di rispetto, ed in particolare il rispetto per l’Arte, è il principio fondamentale su cui si basa il progetto. Gli studenti coinvolti saranno quelli degli Istituti Comprensivi del Valdarno. Quest’anno sarà il turno delle Prime Classi dell’Istituto Montanelli-Petrarca di Fucecchio e Sacchetti di San Miniato. Ad aprire questo progetto, lo scorso anno sono stati ben 233 ragazzi tra l’Istituto Galilei di Montopoli in Val d’Arno e Buonarroti di Ponte a Egola. Il prossimo anno, invece, sarà la volta delle altre due scuole del Valdarno: Banti di Santa Croce sull’Arno e Da Vinci di Castelfranco di Sotto. Il progetto prevede tre incontri per classe di due ore ciascuno, seguiti dalle figure professionali di Comunicarea, centro multidisciplinare con sede in Santa Croce sull’Arno. Durante i primi due incontri, gli stu-

denti osserveranno e riprodurranno con diverse tecniche le opere scelte, mentre nel terzo ne realizzeranno una collettiva che sarà esposta in una mostra allestita appositamente per loro. La mostra sarà l’occasione per i partecipanti di far apprezzare la propria opera d’arte ai genitori, amici e parenti ma darà anche la possibilità a tutti i visitatori di votare la loro opera preferita. Alla fine dell’evento che illustrerà il percorso artistico ed educativo svolto, saranno premiate due classi, una per istituto. I promotori Gruppo Lapi, Lions Club San Miniato e Azienda USL Toscana Centro augurano a studenti, insegnati e genitori un buon anno scolastico!

con il supporto di

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SPORT

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inquanta anni di attività del circolo (nel 1967 la fondazione) e quaranta anni di vita del torneo internazionale juniores ITF, un’occasione unica per ripercorrere, anche grazie alla presentazione dei video, la storia del club tennistico santacrocese - nato su iniziativa di sette appassionati locali guidati dall’indimenticato Mauro Sabatini e costruito in un’area alla periferia della cittadina del cuoio dove prima sorgeva un acquitrino - divenuto col tempo una struttura all’avanguardia per servizi nonché un punto di riferimento essenziale del panorama regionale e nazionale. Santa Croce e il tennis hanno rappresentato dal 1967 un connubio fortissimo, e l’eccellenza della scuola tennistica biancorossa è riuscita in cinquanta lunghi anni a lanciare nel mondo professionistico i talenti del proprio vivaio. L’attenzione per i giovani si è coniugata, a partire dal 1979, con l’organizzazione di quello che rimane una delle manifestazioni tennistiche giovanili più importanti al Mondo, il torneo internazionale juniores ITF che in 39 edizioni ha visto la partecipazione di oltre 4600 giovani: tra questi 12 futuri numeri 1 ATP e WTA ponendosi come modello organizzativo ma anche come strumento di forte integrazione sociale ed educativa.

Durante la serata dedicata alle “nozze d’oro” del TC Santa Croce e alla sua prestigiosa manifestazione giovanile internazionale, e impreziosita dal concerto dei Bags (la cover band di Claudio Baglioni), hanno trovato spazio gli interventi e le testimonianze di alcuni dei principali protagonisti di “questa eccezionale favola santacrocese”, come l’ha definita il sindaco di Santa Croce Giulia Deidda. Nella sua storia la dirigenza santacrocese ha avuto il merito di portare avanti un modello vincente di altissimo livello anche in provincia, laddove non sembrava possibile. Grazie a Mauro Sabatini, che ha splendidamente guidato il circolo per tanti anni, e alla nuova dirigenza che ha saputo raccoglierne splendidamente

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l’eredità”. Ovviamente nella serata celebrativa non poteva mancare il ricordo di Mauro Sabatini, ideatore del torneo juniores ITF e scomparso nel 2009 ma la cui immagine resta ancora oggi vivida. Un gruppo dirigenziale che attualmente presiede il Tennis Club Santa Croce e ha fortemente voluto celebrare i cinquant’anni di storia del circolo, dai presidenti Simone Martini e Mario Banti, al direttore Francesco Maffei, ai maestri Bruno Del Soldato e Ettore Rossetti: quest’ultimo tornato alla base nel 2016 come insegnante dopo essere nato e cresciuto come giocatore sui campi del Cerri, segno che il filo sottile di tradizione e innovazione da queste parti è il legame invisibile e imprescindibile per una storia di grandi successi.


motorI

auto classic D

omenica 24 settembre ha avuto luogo il primo “Santa Croce Auto Classic”, evento organizzato dai due appassionati delle quattro ruote Filippo Frangioni e Gianmarco Pinori. Sono intervenuti amici e grandi affezionati delle auto d'epoca di tutto il comprensorio. La manifestazione naturalmente si è svolta con il patrocinio del Comune e relativo taglio del nastro. La partenza da piazza Matteotti e il pranzo a San Gimignano, località Sovereto. Una mattinata piacevole con un pubblico molto interessato, curioso di vedere le auto del passato. Circa una quarantina gli equipaggi intervenuti; numerose le categorie di auto da strada e da corsa. Complimenti agli organizzatori per aver riportato a Santa Croce una manifestazione così importante, che fa rivivere il passato portando in piazza mitiche auto.

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SOLIDARIETà

Z3MENDI 28° RADUNO NAZIONALE Angelo Errera

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l 22-23-24 settembre, in collaborazione con Esercito Italiano Brigata Folgore e col patrocinio di Regione Toscana, Provincia e comune di Livorno, Autorità Portuale e Porto 2000, ha avuto luogo il 28° Raduno Nazionale del Club intitolato “Folgore”con 110 equipaggi provenienti da tutta l’Italia. Nel 2008 nasce

il progetto “CUORE Z3MENDO” fortemente voluto da tutto il club per coronare la volontà di tanti di trasformare un evento di puro divertimento in un evento unico. Grazie al contributo dei sostenitori, simpatizzanti e soci del club destinano il ricavato del raduno all’acquisto di attrezzature, strumenti medicali, suppellettili da

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donare ad enti, associazioni, ospedali radicati nel territorio (e non solo) che ospita di volta in volta il raduno. Gli obbiettivi di quest’anno sono rivolti ai paesi terremotati di Loro Piceno e Amatrice, alla Misericordia di Bientina e all’A.P.A.N. e alla popolazione del territorio livornese colpito dalla recentissima alluvione.


MOTORI

signore

a

a quattro ruote

70 Coppa d'oro delle Dolomiti. Competizione e glamour

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olanti in legno, cinture ferma cofano in pelle, ruote con i raggi, freni a tamburo da non surriscaldare perché in discesa la velocità aumenta vertiginosamente proprio prima di un tornante, ma anche cocktail lounge al Grand Hotel, parties con pochette nel taschino e road map nella tasca interna della giacca. Insomma, gentlemen drivers impeccabili: di giorno al volante di auto d'antan con la polo bianca e gli occhialoni da pilota e, al tramonto, con cravatta di seta accanto alla consorte in abito lungo. Double face: adrenalina e glamour insieme, proprio come sett'antanni fa, nel '47 a Cortina d'Ampezzo, per la prima edizione della Coppa d'oro delle Dolomiti, oggi una gara “di regolarità” per auto d'epoca, come la Mille Miglia per intenderci, ma nel passato una competizione di velocità su strade polverose di montagna, come l'edizione del '52 quando le Ferrari guidate dai fratelli Marzotto occuparono quattro dei primi sette posti della classifica finale. Eh sì, a Cortina quest'anno la festa è stata doppia, perché anche la casa del cavallino rampante, simbolo del made in Italy, festeggia il 70° anniversario e i tornanti delle Dolomiti si sono illuminati per due giorni, a fine luglio, di un rosso dorato e glamour. Ma la Coppa d'oro 2017 non è stata una gara per soli equipaggi vip – certo c'erano anche loro, eccome (gli eredi della casata imprenditoriale Marzotto, il figlio del designer Giorgetto Giugiaro, Fabrizio, solo per fare qualche nome, come la presenza di Tonino Lamborghini, all'arrivo cortinese della seconda tappa) – è diventata anche un appuntamento per amanti dei motori a carburatore e per collezionisti veri. Centouno gli equipaggi iscritti in gara (21 stranieri, provenienti da 15

nazioni), che hanno portato all'ombra delle Tofane anche 40 auto costruite negli anni '20-'40 (la più antica era una Bentley 3 litre speed del 1925) e 7 pezzi unici al mondo. Tutte insieme sul passo Pordoi, sul Falzarego, sul Rolle, proprio come negli anni Cinquanta, per oltre 500 km di tornanti, imitando le doppiette e i tacco-punta di piloti come Fangio, Ascari e Moss. Tanto divertimento per i piloti, perché le auto storiche vanno “guidate all'antica” come si faceva prima dell'avvento del servosterzo e dei freni a disco, e tanto spettacolo. Anche solo a vederle parcheggiate a Belluno queste “signore a quattro ruote” sono proprio affascinanti: Lancia Aprilia del '38 e Lambda del '29, Fiat Zagato 509 del '29, Ferrari, Bugatti, Alfa Romeo, De Tomaso ma anche Porsche, Bristol (un modello 400 del '49, roadster carrozzata Pininfarina in soli 2 esemplari, arrivata da Londra sulle proprie ruote!), Jaguar, Lagonda, Aston Martin, Mercedes-Benz, Allard, Triumph, Volvo: marchi automobilistici che persistono, come miti del passato proiettati nel futuro, o che sono scomparsi, ma che continuano a sfidarsi sulle strade del mondo grazie a gare come la Coppa d'oro (una manifestazione del calendario internazionale dei “grandi eventi di regolarità classica” Aci Sport/Fia). E, per citare Malaparte, c'erano anche i “maledetti toscani” e ben rappresentati: Pier Luigi Fontana, pisano, con il co-driver lucchese Giulio Bertolli (l'erede dell'omonima blasonata marca dell'olio extra-vergine) che guidavano la n° 92, una inglese AC modello Aceca, che per i puristi si pronuncia “A-see-Ka”, stupenda berlinetta del 1960, e il senese Alessandro Gallo, navigatore dell'equipaggio anglo-

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italiano n° 43, con una Jaguar 120 del 1950, che in quegli anni era addirittura la vettura di serie più veloce al mondo, guidata sulle Dolomiti da Rob Pinchbeck. Ad aggiudicarsi la Coppa d'oro è stato l’equpaggio formato da Andrea Belometti e Doriano Vavassori su Fiat 508 Spider Sport del 1932, seguito da Gianmaria Aghem e Rossella Conti su Bmw 328 Roadster del 1938 e da Alessandro Gamberini e Arturo Cavalli su Fiat 508 C del 1937. Non ci resta che concludere ricordando che a questa 70° edizione della Coppa d'oro delle Dolomiti l'importante era esserci.

Franco De Rossi

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MODA

vestirsi di sana leggerezza

autunno-inverno 2017-2018: tutto e il suo contrario? Federica Farini

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iktat moda per la stagione autunno inverno 2017-2018? Divertimento. L’eccentricosofisticato lascia il passo a stili dalle esigenze più scanzonate, imprevedibili, ibride. Capi, colori e fantasie si mescolano in caroselli futuristici e spiritosi: se non è la moda a regalarci il vestito della leggerezza, chi potrebbe farlo al suo posto? Largo a pause ironiche, distratte, anticonformiste: il mood per affrontare qualsiasi scenario, apocalittico o tradizionale che sia. Linee classiche e tradizionali e look sportivi convivono in abbinamenti dal sapore asessuato, dove spesso il bon-ton si sposa a meraviglia con scenari spaziali. Un anticipo di terzo millennio? PER LEI TESSUTI… Jeans: Il denim vive la sua fama sulla cresta dell’onda, dallo street-stile elegante di Diesel e Calvin Klein, ai luxury tailleurs griffati di Max Mara (denim in pura lana merino in collaborazione con Woolmark, che unisce la delicatezza della lana alla resistenza della tela jeans trattata nel

rispetto ecologico), a Dior nei capi da indossare in total-look di Maria Grazia Chiuri, che nel colore “blu” declina il suo universo di tonalità dal notte all’indaco scuro per workwear, pantaloni palazzo, tute e bluse. Pelle nera: Intramontabile total black per Louis Vuitton, Bottega Veneta, Jil Sander e DSquared2. Velluto liscio: Sportivo si intreccia con elegante, “notturno” per Antonio Marras ed Elisabetta Franchi. Genny e Alberta Ferretti propongono mantelle lunghe e tute; pantaloni palazzo per Max Mara. Pantaloni jeans abbinati a giacche in velluto nella grintosa tendenza di Roberto Cavalli, total-look dalla testa ai piedi per Alberta Ferretti. Abiti longuette e stivali per Prada, Etro e Costume National. A ognuno il suo. Vinile trasparente: per abiti e gonne, pantaloni attillati, ma anche per la giacca classica (Chloé). Calvin Klein propone calzature a tema. Cappotto pcv per Miu Miu. Voile: La seduzione non lascia spazio all’immaginazione grazie ai tocchi artistici di vedo non vedo di Alberta Ferretti, Genny, Mc Queen, Chanel, Dior, Gucci, Yves Saint Laurent, Zadig & Voltaire. Luccicante: Brillare è un dovere e un piacere da abbinare a qualsiasi tessuto, da “tempeste” di cristalli a riflessi metal (Angelo Marani, Emilio Pucci, Custo Barcelona, Blumarine, Ralph Lauren, Paco Rabanne, Mugler). STILI E CAPI… Oversize: Dalle giacche a spalle larghe anni Ottanta, al trend XXL (Moschino e Prada), i pantaloni si fanno sgargianti e molto più che ampi e lunghi… comodissimi. Gli anni Settanta impazzano: il ritor-

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no del montone in colori accesi che si accostano a contrasti psichedelici (Prada, Etro, Versace), fino a spingersi ai confini del retro gym-fitness nello street-style “parlante” di t-shirt con scritte (Dior). Maniche importanti e a palloncino: mega, a sbuffo sulle spalle e a balze (Paul Smith, Lanvin) per abiti, maglie e maglioni. Da averne almeno uno. Maglione di lana: coloratissimo, spiritoso e da esibire anche la sera (Tod’s, Desigual). Vince il dolcevita su giacche o maglie sportive (Ermenegildo Zegna). Completo: dal total-look in velluto all’abbinamento da ufficio pantaloni e camicia (Calvin Klein e Dondup). Pelliccia: il nuovo stile chic-eclettico è eco e patchwork. Di moda finti visoni a righe colorate, rasati e maculati (Blugirl e Patrizia Pepe). Dal finto mongolia di Marni, alla pop-art di Iceberg. Nuovi cult. Trench: evergreen a trecentosessan-


ta gradi, dai modelli over a quelli opposti slim-attillati (Balenciaga e Céline). Cappe: il cappotto rivisitato per Chloe, Gucci, Mulberry, Carolina Herrera. Gioielli: Preziosi e indossati anche su tessuti da “battaglia”: serpenti dalle forme egizie per bracciali, orecchini e bigiotteria di lusso. Rettili per Tiffany, Bulgari, Chopard, Damiani, Mattioli. Gli occhiali da sole si fanno spaziali con lenti maxi e futuristiche (Dior). Basco: di pelle per Dior, Kenzo, Céline, da abbinare a tacchi vertiginosi o comodi stivali, onnipresente per la stagiona A/I 2017-2018. Tracolla decorata: da indossare sul retro della schiena. Nero il cavallo di battaglia (modello Gabrielle di Chanel, (l’intramontabile preferita delle trendsetter della rete), Etro e Dior. Con fibbia-gioiello per Miu Miu; tradizionale nei modelli Valentino e itbag Bamboo di Gucci. Raffinata da viaggio per Alviero Martini. Sneakers: Non solo comode: indispensabili! Gli abbinamenti si sbizzarriscono tra azzardi e nuovi classici: con tute eleganti e pantaloni a palazzo, sotto calzettoni a vista, completi maschili e abiti maxi. Anfibi: Sulla scia di un accenno Nineties, gli stivaletti stringati si abbinano (neri) agli abiti più eleganti (Salvatore Ferragamo e Giorgio Armani). Stivali: Il must è solo uno: che stivale sia. Se lo stivaletto con tacco basso o medio è diventato il nuovo evergreen, via libera a quelli alti al ginocchio (Marant), così come texani, biker (Ermanno Scervino) e cavallerizza. I più trendy? Con cuissardes di Balenciaga, rossi per Fendi, stampati per Moschino, con punta e tacco ma morbidi sul polpaccio per Saint Laurent. In generale un tripudio: dal velluto al floreale, dalle borchie al pizzo, anni Settanta e a forma di mocassino (Marc Jacobs). FANTASIE E COLORI… Fiori: l’allure è romantic-rock, con la predominanza di toni neutri su base base grigia, aranciata e blu (il nuovo nero). Disegni: per Givenchy, Dolce & Gabbana, Sportmax, Moschino e Miu Miu i cartoni animati spopolano in nuvole di fumetti. Che siano graffiti o slogan, da esibire sulle t-shirt, impossibile non comunicare. Anche il decostruzionismo si arricchisce di accessori a loro volta decorati (fantasie floreali) per un tripudio di fantasie mixate: ridondante. Pois: Micro o maxi, puntini, bolle o palle: la tendenza all’ultimo grido per l’autunno-inverno 2017-2018 (Marras, Blugirl, Balenciaga, Saint Laurent, Dolce & Gabbana, Emporio

Armani). Per gli abiti da sera ed eleganti vince la tendenza della dimensione maxi a tinte bianco e nero. Arlecchino: tripudio di toni accesi e strong per: Fendi, Emporio Armani, Simonetta Ravizza, Byblos, Louis Vuitton. Giallo: canarino, limone, zafferano (Alberta Ferretti, Dolce&Gabbana, Bottega Veneta, Paco Rabanne, Marras). Rosso: deciso o corallo, da abbinare al nocciola (pelle, velluto, maglieria di Max Mara) o al bianco (Cavalli,

do quella disinvoltura da sfoggiare con qualsiasi stile. Spesso da total-look i quadretti (Missoni, Marni) e le righe (Givenchy, Paul Smith e Lanvin). Scritte: per gli accessori parlanti di Fendi, stile fantastico-orientaleggiante per Etro, Neil Barrett, Dirk Bikkembergs. Doppiopetto: per Emporio Armani, cappotti extra lunghi e larghi per Balenciaga e Dsquared2, a tutto bomber per Versace, tailleur anni Settanta per Prada.

Burberry, Laura Biagiotti ed Ermanno Scervino), romantico nelle balze di principesse contemporanee (Chanel, Max Mara, Fendi). Tradizionale con il nero di Fendi, McQueen e Narciso Rodriguez. Rosa: 24/7 per Alberta Ferretti, Valentino, Gucci, Nina Ricci, Rochas, Mila Schoen: sognare è dolce.

Dolcevita e/o anfibi: da indossare a tutto tondo, con giacche eleganti o maglie sportive (Ermenegildo Zegna e Giorgio Armani). Jeans delavè: e denim, sport-streetwear e montagna, a gogo, soprattutto per maglioni oversize (Dolce & Gabbana, Etro). Marsupio: (Louis Vuitton e Dior) e zaino: dal casual al formale, la classe del nuovo comodo. Velluto: un must come per lei: Ferragamo. Colori: rosso (Paul Smith), ma anche cammello, blu e grigio (Dirk Bikkembregs, Versace).

PER LUI I look maschili contagiano quelli femminili e viceversa: dal dandy al futurista, l’uomo dell’autunno-inverno 2017-2018 è determinato, elegante ma anche selvatico, ostentan-

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MODA

quando sfilavano

“abitini svelti” 1956: in pieno inverno abiti per la primavera Roberto Mascagni Cristina Giorgetti

Spilla di artigianato fiorentino in alpacca (argentone) con pietre dure. (Metà anni ‘50. Collezione privata). Silvia Mira, Samia - Un abito per tutte le donne. (Per gentile concessione di DeBalena Editore).

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ome si vestiranno le donne nella primavera-estate 1956? Quali colori saranno di moda e quali tessuti? Gli abiti saranno larghi o stretti? Le risposte sono date dal pomeriggio di lunedì 23 gennaio, quando nella Sala Bianca di Palazzo Pitti inizia l’undicesima edizione dell’Alta Moda Italiana, voluta, organizzata e sapientemente diretta da Giovanni Battista Giorgini: anche quest’anno invitato a New York per presentare alla televisione la nostra Moda. Il programma ha un’anteprima la mattina nella sede del Grand Hôtel (l’odierno The St. Regis Florence), in piazza Ognissanti: il “Millinery Show” (presenta la modisteria) è sponsorizzato dal cappellificio “La Familiare” di Montevarchi, la cui produzione assicura cappelli di alta qualità. Le “firme” presenti sono quelle del fiorentino Biancalani, Cartoni, Cerrato, Export Zacco, Leonella, Marucelli, Schuberth, Veneziani e, fra i “giovani disegnatori”, Sarli (Napoli), Giuliano (Milano), Umba (Roma) e ESVAM (disegnato da Umba). La sera del 24 ballo di gala per gli ospiti (compratori e giornalisti) offerto da Giovanni Battista Giorgini nel saloni della sua abitazione in via dei Serragli 144, dove è ospite d’onore la celebre attrice di Hollywood Gloria Swanson, venuta a Firenze per assistere alle sfilate del giovane e applauditissimo Fabrizio Capucci. Gloria ha un suo progetto: produrre per tutte le ragazze italiane abiti in serie, modelli firmati da vendersi a prezzi accessibili. Lo ha già fatto negli Stati Uniti. I “Gloria Swanson Fashion” in USA si vendono a milioni di capi l’anno. (Nel 1955 la collezione proposta dalla celebre attrice si

chiamava “Viva Italy” e gli abiti erano presentati come modelli di “ispirazione italiana”). Le donne straniere vogliono le paglie di Firenze, le sete di Como, le borse e le scarpe italiane, le camicette fiorentine. Agli oltre 400 “buyers” puntualmente presenti, che rappresentano i più raffinati acquirenti internazionali dei nostri modelli, si è aggiunto, quest’anno, Marcus, della Neiman Marcus: una catena della grande distribuzione, con varie e lussuose sedi negli Stati Uniti, nota anche per un premio che assegna ogni anno a uno stilista, equivalente al premio Oscar della Moda. L’afflusso dei compratori e dei giornalisti ha costretto gli organizzatori a ridurre la lunghezza della pedana della Sala Bianca per aggiungere posti a sedere. Oltre 200 giornalisti rappresentano la stampa internazionale; al gran completo quelli italiani. Fra i “media” la prestigiosa NBC Television di New York, la nostra RAI, il cinegiornale “Settimana INCOM”; addirittura la televisione greca dell’Istituto Nazionale della Radiodiffusione Ellenica. Negli Stati Uniti la rivista "Town and Country" ha dedicato sei entusiastiche pagine alla manifestazione fiorentina, mentre il "Detroit News" scrive: «La coraggiosa iniziativa di Giorgini ha portato alle stelle la Moda Italiana. Il Centro di Firenze compete oggi con Parigi». Non poteva passare inosservata la presenza di Betty Bullock, “Fashion Editor” della NBC (National Broad Casting Company) per il programma To-Day che ha raggiunto Firenze per scegliere i modelli che saranno presentati in televisione il 22 febbraio prossimo da sette nobili gentildonne

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di altrettante famiglie storiche italiane, che, a cura del Centro di Firenze per la Moda Italiana e la Società di Navigazione “Italia”, raggiungeranno gli Stati Uniti. Le “Sette Bellezze” (le chiamavano le “Otto contesse Otto”, ma ce ne sarà una di meno) partiranno da Genova l’11 febbraio sul transatlantico Cristoforo Colombo. Queste nostre “indossatrici” appariranno sugli schermi americani per presentare un’antologia dell’eleganza italiana stabilita fra Milano, Firenze e Roma, compresi gli accessori, anche quelli realizzati in altre città. La manifestazione è dedicata a Giovanni Battista Giorgini. Questa iniziativa suscita un enorme interesse negli Stati Uniti e i più importanti organi di stampa americani quali "Harper’s Bazar", "Vogue", "Life", "Town & Country", "Look", "Mademoiselle", "New York Times", "Herald Tribune" ecc., hanno richiesto informazioni e fotografie per diffonderle per mezzo di 99 stazioni televisive della NBC. Anche quest’anno gli uomini hanno avuto il loro quarto d’ora di notorietà (sempre poco…), quando, nella Sala Bianca, due indossatori (non uno di più!) hanno presentato giacche sportive (belle, per quanto sorprendenti quelle intitolate “Cortina” in tweed giallo spento) e abiti di società. E poi: eccitazione e mormorii per uno spettacolare frack bianco. Sempre in questo anno 1956, a bordo di un transatlantico dell’Italian Liners, sulla rotta Napoli-New York, sarà organizzata una sfilata delle creazioni di Gaetano Savini Brioni. Ma il suo primo fashion show è avvenuto a New York nel 1954 e da allora i suoi “indossatori” non smetteranno di sfilare sulle passerelle americane e internazionali. Risale


a quegli anni l’uso del neologismo “indossatore”, peraltro allora appena utilizzato dai giornali e dalle riviste specializzate. Un discorso a parte merita la presentazione dei cappelli. In questo campo, all’inizio, non aspiravamo a un vero successo, specialmente nel “settore” modelli, perché Parigi regnava indiscussa, ma solo apparentemente, poiché i modellisti erano in realtà, all’origine, tutti italiani, come a esempio Rossi di Montevarchi. Ci siamo, invece, dovuti ricredere, constatando che più di 50 case straniere sono regolarmente presenti a Firenze per assistere alle sole sfilate dei cappelli e per acquistare, oltre ai nostri pregiati feltri, anche i nostri modelli, perché la signora elegante non può essere veramente tale senza questo accessorio. Il 27 gennaio, giorno di chiusura della manifestazione, si potrà infine assistere a una sfilata di abiti confezionati in serie, ma disegnati da grandi firme, per sperimentare un nuovo, originale tentativo per valorizzare, all’estero, i tessuti italiani. Commentano i giornali: «L’abbigliamento in serie è destinato ad avere, in un prossimo avvenire, un grande sviluppo», come è avvenuto già in Germania ormai all’avanguardia di questa specializzazione. E si capisce il perché. L’Alta Moda consuma per le sue creazioni centinaia di metri di tessuti, mentre la confezione in serie, che nella quantità trova la ragione principale del suo ragionevole costo, ne utilizza addirittura diecine di chilometri. Inoltre, si ritiene che questo tipo di confezioni servano soprattutto alla diffusione del nostro buon gusto e a dimostrare l’esecuzione accurata dei particolari. Oggi questo tipo di confezioni permettono a qualsiasi donna di essere “alla moda” con una spesa ragionevole. Anche chi può spendere, acquisterà 5 o 6 “abitini svelti” (così li hanno definiti i giornalisti) invece di un unico lussuoso modello. Roberto Mascagni

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el gennaio del 1956, nel corso delle sfilate fiorentine per la primavera-estate, la stampa di qualità inquadra per la prima volta una tipologia per quei tempi singolare di vestiario: “l’abito svelto”. Un abito pronto, indossabile da tutte le donne che vogliono cambiare la propria mise giornaliera senza stare ad attendere i tempi della sartoria sia quella di boutique, più modesta e esigua, che quella d’Alta Moda, unica, più consistente, per la quale era necessario persino "prenotare" in tempo le maestranze dell'atelier. L’idea di abito subito indossabile non era nuova, Giovanni Battista Giorgini stesso l’aveva preconizzata individuando quel genere che sarebbe diventato molti anni dopo prêt-à-porter e concependone la sede delle sfilate in quella Milano che si sarebbe rivelata alla fine degli anni ’70 mèta e centro ideale. Ancora nel 1956 l’idea di prêt-à-porter come genere non sfiora l’essenza del mondo della Moda, ma tutti registrano un fenomeno: la Moda non è più retaggio di una élite la “vogliono” in tanti, a prezzi diversi, e, possibilmente, senza attese e prove in sartoria. Ciò ha la sua motivazione nelle mutate condizioni economiche di classi sociali più basse che possono ora guardare a beni non indispensabili; ha un’altra motivazione nel programma di acculturamento d’un’Italia rurale, programma già iniziato nel periodo fascista, che scopre con la riconquistata democrazia l’incentivazione all’istruzione e alla lettura e alla visione delle bellezze di cui è latrice. È un processo sociale che stabilisce nuovi canoni di bon-ton, di saper vivere e di essere quindi adeguati alle nuove realtà, compreso l’inurbamento di tante famiglie contadine che si trasformano in operaie nelle grandi

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realtà manifatturiere del Paese. Dal confronto quotidiano con persone diverse, cosa che nelle campagne non capitava, nascono come sempre nuove esigenze. La Moda, derma sensibile del vivere quotidiano, lo registra e come business guarda a queste classi per espandere il proprio fatturato nazionale e internazionale, perché in America questo fenomeno, quello dei “fast clothes” (gli abiti “veloci”) è un fenomeno già conclamato da quasi un secolo. Abiti pronti a cui al massimo si modificano gli orli, grazie a quel fenomeno culturale di antropometria scaturito dai concetti illuministici e fatto proprio dai rivoluzionari americani nel post Guerra d’Indipendenza, dato che a sua volta condizionò l’evolversi estetico della Rivoluzione Francese. Nasce così il “fenomeno” delle taglie, misure standard, registrate sul “medio” della popolazione, che permettono di costruire abiti interamente preconfezionati destinati a sconosciuti che sceglieranno entro una gamma di colori e modelli. Agli albori del XIX secolo ciò soddisfaceva sia gli ex "sanculotti" francesi che per contro gli eredi di quei Pilgrim Fathers (Padri Pellegrini) americani, con lo spirito di dare a tutti decoro, ma in fondo anche di “controllare” il vestiario delle persone. Gli “abiti svelti” degli anni ’50 rientrano così in un sistema di controllo delle masse, che vengono educate e indirizzate a vestirsi secondo canoni di gusto, decoro e decenza preordinati. E ciò si ricollega a un sistema antico per cui, quando classi sociali diverse si confrontano per contiguità, giocoforza quelle superiori, avvezze a un’educazione diversa, devono istruire coloro con cui avranno a che fare quotidianamente, e di questo n’è un esempio il galateo di Monsignor della Casa, Galateo ovvero de’ costumi, pubblicato postumo nel 1558 e rivolto proprio a coloro che “non sanno”. Il fenomeno s’incrementò in Italia dopo l’Unità, così i galatei «ebbero sia la funzione di smussare le differenze di censo sia quella di supporto per la creazione di un’immagine unitaria del popolo italiano», ad esempio il celeberrimo La gente perbene (1877) della Marchesa Colombi, omaggio alle lettrici de «Il giornale delle donne». Da quella immagine comportamentale ed estetica unitaria sarebbe nato lo “spirito” di quel popolo italiano che avrebbe pian piano reclamato l’indipendenza dagli stilemi vestimentari d’oltralpe, fenomeno inaugurato ai primi del Novecento da Rosa Geno-

Negli anni ’50 Gaetano Savini Brioni, meravigliando tutti, ideò una moda maschile impensabile all’epoca in cui dominava in tutta Europa lo stile British. Giacca da golf, senza collo, in mohair tramato con lino e bordo soprapposto nello stesso tessuto, colore bianco, a tre bottoni, con mostra esterna ribattuta da impuntura, con spacchi sul dietro e tre tasche a pattina. (Creazione di Gaetano Savini Brioni)


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moda

1895-1925 LA GIORNATA DI UNA SIGNORA Abiti della collezione di Roberto Devalle Torino Museo di Arti Decorative Accorsi-Ometto 19 ottobre 2017 7 gennaio 2018 La Fondazione AccorsiOmetto ospita, nelle sale dell’omonimo museo, una serie di abiti provenienti dalla Collezione Roberto Devalle, risalenti al periodo 1895-1925. L’esposizione è curata da Silvia Mira, storica della Moda.

www.fondazioneaccorsi-ometto.it

Arrivo dei giornalisti a Torino per il SAMIA, novembre 1956 (Cat. uff. 15-21 novembre 1956, p. 16). Per gentile concessione di DiBalena Editore.

ni e proseguito, con altri intenti e per altre motivazioni di politica internazionale, dal fascismo e poi dalle Sanzioni e dalla Marca Oro. Il galateo viene riscritto in base alle esigenze del potere, sempre, e così ecco anche i galatei della fine degli anni ’30 dettare persino la taglia delle donne, e sancirne l’ideale vestimentario, perlopiù “senza fronzoli”, come suggerito nel 1931 da Lidia Morelli, firma nota della stampa femminile, che scelse il significativo titolo de L’arte più difficile: saper vivere con il prossimo. Quei fronzoli che poco si addicono alla donna italiana che bada alla sostanza. L’idea sarà così forte che detterà la caratteristica dei primi abiti d’Alta Moda e boutique lanciati da Giorgini. La donna italiana detta uno stile concepito sulla “pratica eleganza”, perché la donna italiana fruitrice dell’Alta Moda è la moglie dell’industriale, è colei che in qualche modo è “nel mondo” di chi lavora, esattamente come le donne americane che decreteranno la fortuna del made in Italy. Di contro c’è una Italia che dev’essere gestita, una nazione che in sviluppo chiede prodotti che non siano mèra confezione ma che abbiano contenuti estetici variabili stagionalmente. Ecco quindi gli “abiti svelti” dedicati anche alle più abbienti per ovviare alle attese dell’Alta Moda e cambiarsi tutti i giorni. Per coloro che giungono all’agognato benessere negli anni ’50, sulle riviste si moltiplicano le rubriche dei “consigli” sul vestire per qualsiasi momento della giornata, alcuni elargiti anche per posta diretta fra lettori e coloro che tengono una rubrica specifica, come ad esempio quella di bon-ton di Colette Rosselli (Donna Letizia), sul settimanale "Grazia". Tuttavia simili “consigli” dilagano, e rispondono a quesiti del tipo “Come mi vesto per andare al lavoro? Faccio la segretaria”, come a quelli “Cosa indossare al matrimonio di un’amica, sono bruna e piccola?”, simili richieste irrompono in modo tale da far scaturire una nuova ondata di galatei pubblicati da vari editori e in genere a opera, come sempre, di autrici donne, poiché è conclamato dai galatei ottocenteschi che l’educazione al buon gusto è responsabilità della madre di famiglia. Ecco quindi giornaliste, nobildonne ed esponenti della cultura in genere cimentarsi nell’arduo compito di educare proprio a vestire, sull’esempio, molte, dell’intramontabile Saper vivere di Matilde

Serao (1926), o Come presentarmi in società di Erminia Vescovi, in stampa nel 1952. Insomma, è chiaro che il fenomeno è vasto e ben spiegato nell’opera compendiosa di Luisa Tasca nell’introduzione del suo Galatei (Firenze, Le Lettere, 2004), ma quel che va notato è un altro libro che getta luce su un fenomeno di cui pochi addetti al settore parlano a “ragion studiata”: il volume di Silvia Mira SAMIA - un abito per tutte le donne, fresco di stampa (Torino, novembre 2016). Ecco quindi uscire un ritratto tutto italiano del controcanto alle manifestazioni di Giorgini: il SAMIA di Torino, ovvero il “Salone mercato internazionale dell’abbigliamento” di Torino, manifestazione varata nel 1955 (24-30 novembre) e conclusasi nel 1978, quan-

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do ormai il prêt-à-porter coi suoi fasti aveva reso vano “l’abito svelto”, “l’abito pronto”. A sancire invece il successo di questo genere negli anni ’50 certo contribuì il progresso tecnologico nel campo delle taglie, benché il Gft si fosse già orientato in tal senso dal 1887 in concomitanza con i Lanifici Rivetti, ma fu proprio nel 1954 che la nuova generazione dei fratelli Rivetti cedette la propria parte dei lanifici per rilevare il Gft mettendo in atto su esperienze europee e americane la celebre “rivoluzione delle taglie”. Cristina Giorgetti ° Cristina Giorgetti è ordinario di Storia del Costume e Costume per lo Spettacolo all’Accademia di Belle Arti di Firenze.


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design

beauty wellness tutto ciò che ci fa stare bene ci rende più belli

Annunziata Forte Cristina Di Marzio

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ittorino Andreoli ha definito in pieno agosto le vacanze estive un bisogno primario, ponendole quindi al pari del bere e del mangiare; con questa dichiarazione sono stati legittimamente cancellati tutti i sensi di colpa per quanto lasciato in sospeso sulla scrivania! Dopo le vacanze, il rientro è stressante per svariati motivi: o si è stati talmente bene che il ritorno alla realtà non può che farci male, oppure le aspettative erano talmente alte che la nostra vacanza non è stata all’altezza di esse e si rientra già sfiniti e logorati! Terminati i giorni dell’ozio, noi vi consigliamo di ritagliare assolutamente un po’ di tempo per la cura della persona e per il vostro benessere, prima di rientrare nei soliti meccanismi. Sarà un investimento preziosissimo e vi assicuriamo che non sarete soli, quindi prenotate subito! È infatti un dato consolidato lo spostamento dei

consumi dall’acquisto di beni materiali verso tutto ciò che gratifichi il corpo e la mente. Se volete seguirci, noi, prima di tornare a pieno ritmo, ci concediamo “Un giorno di SPA” e vogliamo condividere con voi il nostro percorso benessere all’insegna innanzitutto del relax. Ci rechiamo con una amica nella SPA di un bellissimo albergo cinque stelle che apre in periodi particolari dell’anno anche agli esterni. Entriamo in questa splendida struttura e ci accomodiamo nell’area living dove è ubicata la reception, per chiarirci un po’ di idee e farci consigliare sul percorso più adatto a noi. L’atmosfera è accogliente e al contempo sofisticata e lo spazio che ci circonda è curato in ogni minimo dettaglio: abbiamo fatto benissimo ad approfittare di questa occasione! Stiamo abbandonando i nostri pensieri legati alla realtà esterna e non ci rimane che concentrarci su noi stesse. Accomo-

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date su morbide sedute sorseggiamo la tisana offertaci dal personale e ci prendiamo un po’ di tempo prima di iniziare la nostra giornata. Sulla zona reception affaccia il centro estetico e forse vale la pena di approfittarne prima di accedere all’area benessere vera e propria. Se voi volete andare in coppia a rilassarvi, questo centro mette a disposizione delle suite di coppia, collocate in una zona estremamente riservata e silenziosa, dove usufruire di un percorso benessere con bagno di vapore, sauna e vasca per due persone. Queste suite sono dotate anche di un accogliente e verdeggiante spazio all’aperto in cui sostare prima e dopo i trattamenti e consumare anche un piacevole pasto, scegliendo tra i menù consigliati dalla nutrizionista. Tra di voi ci sarà anche qualcuno per il quale il benessere è strettamente connesso con l’attività sportiva: costoro possono iniziare la


giornata dedicata a se stessi dall’area fitness, usufruendo delle attrezzature in modo individuale, oppure svolgendo attività di gruppo. Dopo il momento di decantazione nella zona living, ci dirigiamo nell’area umida: la nostra amica procede verso la piscina coperta e, dopo una nuotata e un idromassaggio, decide di rilassarsi sui lettini a bordo vasca che guardano il magnifico panorama; noi scegliamo l’hammam e ci immergiamo in un bagno di vapore. Ci concediamo poi sul pancone riscaldato il savonage, il rituale berbero che ha lo scopo di purificare corpo e anima. Terminato il trattamento, mangiamo della frutta e beviamo una tisana rinfrescante nella zona relax arredata da comodi divani, con al centro una vasca d’acqua. Le luci soffuse e le candele creano una atmosfera di grande suggestione. Decidiamo di continuare il nostro relax e scegliamo, una la zona del silenzio panoramica dalla quale ammirare i monti che circondano la struttura e gli splendidi oliveti sottostanti, l’altra opta per una zona relax ancora più appartata. Nel frattempo la nostra amica dopo la piscina, segue un percorso relax “più asciutto” e finalmente decide tra le varie saune proposte: si reca così nella sauna finlandese panoramica. Terminata la sauna, si concede anche un trattamento nella stanza massaggi adiacente; non le rimane che continuare a rilassarsi nello spazio relax, anch’esso con una vista spettacolare, che la immerge nella natura circostante. Ci ritroviamo di nuovo tutte insieme al bar all’aperto, allestito a bordo vasca della piscina esterna. Lì guardiamo il tramonto e il curatissimo verde esterno, dove magnifici cespugli dalle diverse fioriture offrono una composizione di colori ed un bouquet di odori; sullo sfondo la vista delle Alpi. Decidiamo di concludere la serata al ristorante gourmet dell’albergo, in cucina c’è un bravissimo chef stellato e siamo sicure che la cena sarà la degna conclusione della giornata. Scegliete con cura anche voi la struttura in cui concedervi queste coccole e a tutti buon lavoro!

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psicologia

resilienza chi era costei? I

l termine resilienza deriva dal latino resilio, che vuol dire “rimbalzare”. In ambito psicologico indica la capacità dell’individuo di trasformare un’esperienza dolorosa in apprendimento, acquisendo competenze utili al miglioramento della qualità di vita, dell’organizzazione del proprio percorso personale, della relazione con il contesto di riferimento. La resilienza è quindi la capacità di

riadattarsi a fronte di una difficoltà che altrimenti porterebbe ad effetti negativi, come ad esempio alcuni eventi di vita improvvisi e imprevedibili. Quindi riguarda non solo la resistenza, ma anche il superamento del problema. I fattori che possono determinare la forza della resilienza sono: organici, ovvero influenze genetiche; incidenti di vita, infatti avvenimenti traumatici nella prima infanzia possono influire negativamente su come l’individuo gestirà le difficoltà future; qualità delle relazioni con le figure significative, poiché percepire il sostegno dalle persone vicine aiuta a superare più facilmente il problema. Da numerosi studi emerge che le persone resilienti hanno una valu-

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tazione positiva di sé, sono capaci di pianificare le scelte importanti e progettare il futuro. La resilienza non è però una caratteristica immutabile nel tempo, o che rende “immuni” alle difficoltà. Infatti, situazioni problematiche persistenti possono comunque portare a disagi psicofisici anche i soggetti più resilienti. La resilienza è inoltre una capacità a cui si può essere educati, che può essere coltivata e sviluppata. Alcune strategie utili a questo fine sono: concentrarsi più sulla soluzione che sul problema; cercare il supporto delle persone più prossime; avere obiettivi realistici; porsi in un modo attivo e non passivo di fronte alla situazione; avere cura di se stessi.

Costanza Cino

per info: Dott.ssa Costanza Cino Psicologa Mediatrice Familiare e Civile www.psicostanza.it

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alimentazione

nutraceutica e nutrigenomica verso le nuove frontiere dell'alimentazione? Paola Baggiani

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’intuizione della medicina ippocratica che l’alimentazione svolge un ruolo essenziale sullo stato di salute ha trovato conferma e certezza soltanto in anni recenti, con gli studi epidemiologici, con l’avvento delle moderne tecnologie e della medicina molecolare. Anche le antiche medicine orientali da millenni sostengono la correlazione tra cibo e salute: ad esempio nella macrobiotica non esistono farmaci se non i cibi stessi, i quali vengono utilizzati come rimedi per le comuni malattie. La Nutrigenomica è una scienza che studia come il cibo sia in grado di intervenire sul nostro DNA; è deputata a studiare le interazioni tra geni specifici e nutrienti. Le scelte nutrizionali sono infatti in grado di influenzare l’evoluzione del nostro codice genetico; la nutrigenomica descrive i cambiamenti dell’espressione genica che vi possono essere in seguito ad un intervento nutrizionale mirato. Con il termine di Nutrigenetica si intende l’individuazione di eventuali variazioni genetiche che si traducono

in una risposta anomala, diversa cioè dalla popolazione generale, dell’organismo rispetto all’introduzione di particolari alimenti. Secondo la nutrigenomica attraverso la mappatura dei geni è possibile identificare gli alimenti che possono avere effetti positivi o negativi sulla nostra salute, aiutandoci a proteggere l’organismo. Con il termine di Nutraceutica, parola nata dal connubio tra nutrizione e farmaceutica, viene definita una classe di alimenti che hanno una funzione benefica sulla salute dell’uomo. Un nutraceutico è un alimento che associa alle sue caratteristiche nutrizionali, delle proprietà funzionali di alcuni suoi componenti che interagiscono in modo positivo sulla salute, come fossero un farmaco ma del tutto naturale e privo di effetti collaterali. Il trattamento di patologie con nutraceutici non va però inteso come sostitutivo del farmaco, ma l’associazione del nutraceutico alla terapia farmacologica può risultare un'ottima strategia. L’analisi degli alimenti, limitata in passato solo al loro valore nutrizio-

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nale, con questa nuova scienza mette in evidenza che altri fattori degli alimenti stessi possono svolgere un ruolo fondamentale sulla salute. Gli alimenti funzionali o nutraceutici sono numerosi, esaminiamo alcuni dei più importanti: frutta secca, noci, olio di semi di lino e pesci, sono ricchi di omega-3 che abbassano i livelli plasmatici dei trigliceridi; e gli omega-6 presenti in frutta secca e olio di soia riducono i livelli del colesterolo. Appartiene al gruppo degli omega-6 l’acido linoleico presente in tutti gli oli vegetali e in alcuni grassi di origine animale, importante per la prevenzione e il trattamento di malattie come infarto, diabete e cancro. Gli steroli vegetali che abbassano i livelli del colesterolo LDL (“cattivo”) possono essere assunti attraverso il consumo di olio d’oliva, di soia, di riso. Gli isoflavoni reperibili in alimenti come semi di soia, cereali integrali, fagioli, ceci e lenticchie, sono composti che contrastano il colesterolo, l’osteoporosi, e partecipano alla protezione di alcune forme cancerose come il tumore del seno sostituendosi agli estrogeni. L’acido ascorbico o vitamina C presente in frutta e verdura fresca (agrumi, frutti di bosco, fragole, kiwi, verdure a foglia verde) ha elevate proprietà antiossidanti, combatte i radicali liberi, sintetizza aminoacidi, collagene e ormoni. I polifenoli sono un gruppo eterogeneo di sostanze naturali che abbondano sopratutto nella frutta e nella verdura, ma anche nel tè, nel cacao e nel vino (in quest’ultimo, particolarmente nel vino rosso è presente il resvertrolo con elevate proprietà antiossidanti, e funzioni protettive nei confronti delle malattie cardiovasco-


lari). Le proprietà dei polifenoli possono essere riassunte in: antiinfiammatorie, antibatteriche, antiossidanti e antiaterogene. Il licopene presente in particolare nel pomodoro è un anti-age naturale con forte azione antiossidante e antitumorale. Altri nutraceutici sono le antocianine, i carotenoidi, presenti nella frutta e nella verdura che hanno un forte potere antiossidante. La fibra alimentare pur non essendo un nutriente esercita effetti di tipo funzionale e metabolico migliorando la funzionalità intestinale e i disturbi ad essa associati come stipsi e diverticolosi; riduce il rischio d’insorgenza dei tumori del colon. Malattie come diabete, ipercolesterolemia, ipertensione, obesità e molte altre patologie sono da ricercare in una cattiva alimentazione, associata ad uno stile di vita sedentario; possono essere prevenute e combattute con un'alimentazione ricca di cibi funzionali e abbondonando il Junk Food. Molte patologie degenerative sono correlate negativamente o positivamente all’alimentazione e l’interazione fra l’organismo e i nutrienti potrebbe definire nell’arco della vita,

l’equilibrio tra salute e malattia. I progressi della Nutrigenomica ci faranno comprendere sempre meglio in che modo un alimento o meglio un particolare stile alimentare interferisce sul funzionamento dell’organismo a livello molecolare; conoscenze già acquisite ci permettono ad esempio di affermare che la Dieta Mediterranea influenza la risposta dei geni responsabili del rischio cardiovascolare, apportando così un vantaggio alla nostra salute. La Nutraceutica deve porsi in un'ottica di prevenzione, educando a conoscere le potenzialità che il cibo può avere nella prevenzione e nel trattamento (anche con l’aiuto delle terapie convenzionali) di molte patologie. Una corretta e mirata nutrizione rientra nella linea guida per la prevenzione di un vasto numero di patologie come le malattie metaboliche, le malattie neurodegenerative, le malattie neoplastiche e tutti i danni prodotti da stress ossidativo-invecchiamento. La Nutraceutica può dunque migliorare lo stato di salute dell’uomo in tutti i suoi aspetti. www.baggianinutrizione.it

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medicina

c'è del tenero tra sepsi e marijuana

Fernando Prattichizzo

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n una risoluzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, pubblicata sul New England Journal of Medicine del 28 giugno 2017, la sepsi è riconosciuta come una priorità sanitaria mondiale, onde si rende necessario sviluppare delle linee-guida sia sul versante della prevenzione, che su quello della terapia. Il termine “sepsi” fu coniato ai tempi di Ippocrate, che la considerava il processo attraverso il quale la carne marcisce e le ferite suppurano. Nei tempi moderni, la sepsi è stata definita come una disfunzione organica minacciosa per la vita, risultante da un’infezione. Dal punto di vista della prevenzione, un aspetto verosimilmente sottovalutato è costituito dall’uso di stupefacenti, anche quando non vengono assunti per via endovenosa. L’epidemiologia riporta che 27 milioni di persone nel

mondo sono consumatori problematici di stupefacenti. Lo studio condotto per quattro volte dall’Agenzia Regionale della Sanità, intitolato EDIT (Epidemiologia Determinanti Infortunistica stradale in Toscana), ha mostrato nel 2015 che il 40% dei giovani intervistati ha bevuto alcool in eccesso o assunto stupefacenti prima di mettersi alla guida, almeno una volta nell’anno precedente l’intervista. La sostanza maggiormente adoperata si conferma essere la cannabis. Crescente è anche la tendenza delle donne a fumare cannabis per combattere la nausea gravidica. Per quanto riguarda gli effetti della marijuana e la validità degli studi sulle conseguenze del suo uso, occorre sottolineare che il contenuto di tetraidrocannabinolo, attestante la sua potenza, è costantemente aumentato dal 3% degli anni ’80 al

12% del 2012, per cui le conseguenze del suo uso possono essere ben maggiori che in passato. È ampiamente dimostrato che il fumo di marijuana ha un effetto inibitorio sul sistema immunitario. In un articolo del 2014 su Clinical Reviews in Allergy and Immunology, Owen K.P. ed altri indicano che i cannabinoidi riducono il numero di linfociti, l’attività antimicrobica dei macrofagi in conseguenza della ridotta produzione di nitrossido, la produzione di Tumor Necrosis Factor alfa da parte dei linfociti natural killer e – infine – la produzione di citokine, soprattutto dell’interleukina 2, che ha una funzione chiave sia nell’immunità, che nella tolleranza. Da tutto ciò emerge l’assoluta necessità che le politiche sanitarie di prevenzione della sepsi mettano in conto una seria lotta all’uso dei cannabinoidi.


Rag. Alessandro Susini Agente procuratore Promotore finanziario

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771973 365809

20173

Anno XIX n. 3/2017 Trimestrale € 10,00


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