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Centro Toscano Edizioni ISSN 1973-3658

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771973 365809

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Anno XIX n. 2/2017 Trimestrale € 10,00


Rag. Alessandro Susini Agente procuratore Promotore finanziario

Via Brunelli 13/17 56029 Santa Croce sull’Arno (Pisa) Tel. uff. 0571 366072 - 360787 Fax 0571 384291

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Progetto grafico Fondazione Peccioliper - Foto di Luca Passerotti

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Una produzione di

CAVALLERIA RUSTICANA Opera in un atto di PIETRO MASCAGNI su libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti GIOVEDÌ 13 LUGLIO 21,30 PECCIOLI - ANFITEATRO FONTE MAZZOLA Santuzza LISA HOUBEN Turiddu GIANNI LECCESE Lucia CHIARA MANESE Alfio FRANCESCO BAIOCCHI Lola DANIELA BANASOVA

ORCHESTRA LIRICO-SINFONICA DEL TEATRO DELL’OPERA DI VOLTERRA CORALE VALDERA Peccioli Scene e costumi Waste Recycling by SCART Maestro di Palcoscenico LUCIANO NESI Direttore Musicale del Palcoscenico ANDREA LUCCHESI Maestro Collaboratore ANDREA TOBIA

Regia GIANMARIA ROMAGNOLI Direttore e Maestro Concertatore SIMONE VALERI

w w w . f o n d a r t e . p e c c i o l i . n e t


EDITORIALE

Nulla si crea nulla si distrugge tutto si trasforma

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randi aspettative per queste vacanze. Sicuramente gireremo per la Toscana visitando i vari festival. Ci sono, a nostro giudizio, diversi appuntamenti interessanti: teatro, musica, danza e satira. “Di tutto di più”, direbbe la Rai. Questo il menù delle iniziative sempre interessanti che naturalmente vi proponiamo in questo numero di Reality. Nel frattempo, ieri, mettendo un po’ d’ordine in ufficio, curiosavo tra gli scatoloni dell'archivio. Ho trovato pubblicazioni di vent’anni fa, quando nasceva la nostra versione di Reality. Seguitando a scartabellare e frugare, mi è venuta per le mani una lampada. Di quelle, sapete, che andavano un tempo: grande esagerata, da tavolo, così qualificata non perché destinata a stare su un tavolo, ma perché ci voleva un tavolo per sostenerla. Aveva il paralume di lino color avorio e la grossa base in ceramica. Il “cappello” era naturalmente scolorito e qua e là strappato; il “piedestallo” altrettanto naturalmente mostrava vistose rotture che qualcuno (tendo a escludere che sia stata io stessa) aveva incollato malamente. Ricordo che qualche anno fa quella lampada già disastrata l’avevo ripresa in mano. La tentazione di disfarmene m’era venuta, ma l'avevo graziata. Questa volta – ho pensato l’altro giorno – non avrà scampo: merita il sacchetto grigio dell'indifferenziato! Mi do dunque da fare per ridurla a dimensioni insaccabili. Così la smonto: portalampada, filo, lampadina, paralume, e base. Alzo gli occhi su quei reperti, e mi accorgo di aver posato la base a capo all’ingiù. Oddio, è stato come rileggerlo scoprendo: in alto, la parte bassa grossa e tondeggiante con apertura; in basso, quella alta stretta e chiusa. Improvvisamente si accende una lampadina nella mia mente: potrei farci un bel vaso, e visto che amo le piante grasse, mettercene una. Ottima idea, cara lampada. Ancora una volta sei stata graziata. Direte voi: sì, ci fa piacere. Ma a noi...? Tranquilli, lo so bene! L'importante non è la mia vecchia lampada, ma la nascita del nuovo vaso per piante. Oggi il riciclo non è e non dovrebbe essere solo un piacevole e creativo bricolage in crescita di seguaci. Dovremmo certo riflettere, partendo dalle piccole cose, sulla necessità di riciclare un po’ tutto per il benessere del pianeta, e certo non ci auguriamo che il riciclo diventi un’esigenza vitale a causa delle difficoltà economiche globali. Sarebbe importante, ecco, che ognuno sviluppasse una cultura del riciclo creativo partendo dalle piccole cose. Il pianeta e noi ci guadagneremmo. Da tempo, qua e là nel mondo – dalle grandi metropoli come New York o Londra a città come Milano e Roma o Firenze – si trovano negozi e bancarelle vintage o usato di pregio. In un piccolo negozio versiliese, ad esempio, vecchi capi usati vengono rimessi a modello o addirittura modificati facendone dei nuovi alla moda. Per non parlare di tutto quel che viene usato nel campo dell'arredamento. Ripeto, oggi l'arte del riciclo fa molto scic, e in certi casi rende anche un po' snob. Se si pensa a tutte le cose che gettiamo perché non ci servono più, se cercassimo di rigenerarle rendendole necessarie per altri, se non per noi, ridurremmo l'impatto ambientale del nostro vivere in questo mondo. Riciclare potrebbe essere uno dei modi di sciogliere i nodi che si prospettano nel nostro futuro: una questione non più solo economica, ma etica e di stile di vita.

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Photo Archivio CTE Stampa Bandecchi & Vivaldi s.r.l. - Pontedera (PI) ISSN 1973-3658

In copertina: Gesine Arps, Mostro quotidiano, 2014 tecnica mista su tela, 50x50 cm

Reality numero 84 - giugno 2017 Reg. Trl. Pisa n. 21 del 25.10.1998 Responsabile: Margherita Casazza dal 19.11.2007

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SOMMARIO

ARTE MOSTRE letteratura territorio storia 10 20 22 24 26 28 30 32 34

In viaggio con Arps Atelier Bagnoli 1 nastro x Indro Arte & poesia a ruota libera Omaggio a Marino Marini Art in Cina Rosai Tatik e Papik L'arte in Italia

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Villa Bardini "... stromenti diversi ..." Non tentare l'eremita Street art Fasti barocchi della Cechia Cannes 70candeline70 Toni Servillo 007. Il suo nome era James Bond

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Secolar disfida Dissolvenza Girovagando Un intrepido uomo nel pallone Francis Boott L'assassinio della bella Elvira Mano al piccone Lazzaro Papi Andar per borghi toscani

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SOMMARIO

spettacolo EVENTI economia società COSTUME 65 66 67 68 70 71 72 74

LXXI Festa del Teatro 11 Lune a Peccioli 63° Festival Puccini 38° Festival La Versiliana Il Caffè de La Versiliana Estate al Forte. Villa Bertelli La musica del cuore Fiato alle canne

Tennis. La meglio gioventù 75 O Six for Art 76 Ancora un traguardo 78 Rispetto a colori 80 AssoConciatori 81 Casaconcia 82 Banca Popolare di Lajatico 84 85 Giovani imprenditori. Una risorsa A walk through Florence 86

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Carmen Lasorella I lampadari degli Albizzi Moda autunno-inverno 1955 Monte Carlo fashion week Asgardia Il cibo nella spazzatura #è l'estate Caloroso legno

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artista

Cattedrale di carta, 2014 tecnica mista su tela cm 150x120

in

viaggio con

Arps N

Nicola Micieli

Gioia che invade il mio corpo di luce che diventa luce / lui stesso nella luce colori dell’arcobaleno / come una balena oceani in totale libertà gioia tu commuovi / nel punto più punto abbraccio il mondo / gioia mi sento grande stringo il mondo / al mio colore gioia tu la più difficile da nominare gioia dove 6 tu / finisce il confine delle parole sparita la sofferenza / sparito il rancore solo le lacrime hai in comune / con il dolore lacrime di gioia ti assalgono con fuoco come una pentola a pressione che strilla che balla si libera, esplode / nel tutto tutto e tutto come occhi diamanti che si perdono uno nell’altro al limite della sopportazione lacrime di gioia solo tu puoi curare / 6 tu l’ultima verità impazzisco di gioia / ballo ballo gioia dove 6 tu finisce la parola e comincia la musica divina. Gesine Arps 10

on è facile rendere un’idea del teatro di visione di Gesine Arps e del processo linguistico e mitopoietico che lo alimentano di sempre nuovi e diversi quadri, o sipari e siparietti che dir si voglia. Intendo non facile nella brevità d’una definizione e nella sintesi nominale d’un titolo che, in qualche modo, suggeriscano una possibile lettura di queste opere quanto mai capziose, nel senso di insidiose per l’avventurata navigazione del riguardante. Certo, non ammettono soluzioni semplificate i dipinti e le correlate pitto-sculture di Arps, che pur sembrano di semplice scioglimento, mentre sono luoghi della complessità, ognuna, a suo modo, un microcosmo fatto a somiglianza scalare del macrocosmo. Dunque parte unitaria del tutto, e le chiamo partiture per la ricchezza delle variazioni ritmiche, dei contrappunti, delle coloriture timbriche delle quali acutamente risuonano, sicuri indizi di andanti musicali. Non a caso mi suggeriscono, per sinestesia, gragnole e fraseggi di note dal simbolismo “impressionista” di Debussy. Sono, l’una per l’altra, scene epifaniche: manifestazioni o rivelazioni alla luce d’un reale reso


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Sogno con San Marco 2016 tecnica mista su tela trittico cm 80x300 Guardate l’amore è quaggiù, 2013 tecnica mista su tela cm 120x150

dimensione altra, e sorprendente, dalla capacità dello sguardo di Arps di osservarlo come junghiana imago. È, l’imago, una modalità immaginaria della percezione propria della prima infanzia, fondata sulla proiezione di prototipi inconsci o figure primarie delle cose e delle relazioni tra le cose. Arps ha mantenuto quella forma parasurreale di riconoscimento e di rappresentazione del mondo attraverso prototipi proiettivi, a un livello avanzato di elaborazione culturale e di governo dei meccanismi associativi e analogici che li precisano e li correlano, anche nello sviluppo intuitivo d’un racconto. Specie avvertibile, questo, negli estesi oblunghi dipinti a dittico e trittico – sorta di carrellata filmica o di srotolato percorso cinese nel paesaggio – dei cammini e delle navigazioni terrestri, marine e astrali che presuppongono un’intenzione progettuale e un tema/guida. Come in Sogno con San Marco, in Trittico del viaggio, in Mare di Sardegna, opere nelle quali, peraltro, l’uso dominante dell’oro, che sta tra l’astrazione dei fondi medievali e dei paramenti musivi bizantini e la sontuosità klimtiana, indica la qualità squisitamente intra-vagante ovvero mentale e vorrei dire iniziatica del viaggio. A proposito di iniziazione, si osserverà per inciso che molti aspetti dell’opera di Gesine Arps, talora specifiche opere, come nel caso del Ballo tantrico, offrono chiavi interpretative risalenti all’esoterismo, alla teosofia, alla cabala e alla mistica dei

numeri. Implicano dunque un livello di conoscenza spirituale della realtà, ma direi meglio dell’essere nella sua totalità, cui presiedono arcani principi vitali e che non si dà se non nella disciplina del corpo e del pensiero, nella compartecipazione dal profondo, che vuol dire conoscenza e identificazione di sé quale filamento vibrante del tutto. Come artista e come donna, Gesine Arps ha una visione della vita sostanzialmente positiva, direi ispirata a panica vitalità. L’atto del dipingere è per lei un investimento evidentemente gioioso di energie. Non c’è macerazione della materia né nodo residuo da districare nella sue tele, la cui entità fisica è di per sé defaticante. Se non vogliamo parlare della concentrazione e dell’impegno richiesti dalla ricerca di soluzioni formali semplici, e d’apparenza naturale, alle illuminazioni poetiche e alla bellezza della realtà, esterna e interiorizzata. Per lo sguardo di Gesine Arps sono un continuum di meravigliose rivelazioni gli splendori del paesaggio e delle opere d’arte e dell’ingegno umano, non meno direi della quotidianità nel mondo animale, in natura e nelle prossimità della casa dell’uomo; quindi la vita relazionale dell’uomo con e nei suoi istituti, in estensione domestica e territoriale. Per queste ragioni, assegnerei le sue opere alla categoria estetica dei Mirabilia, per essere in ogni loro aspetto, discendente che sia dalla natura o prodotto ad arte

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dall’uomo, una fonte inesauribile di stupefazione dello sguardo. Al primo incrociare gli schermi mirabolanti, appunto, delle estese tele, paiono sorgive le scene che si schiudono al nostro sguardo, e inducono la sensazione di parteciparle empaticamente, se non di immergersi nel fluire e comunque sommuoversi e trascorrere di masse, linee, forme e loro frammenti nelle animate partiture. Non a caso Arps le dipinge stese a terra, le sue opere, per meglio agire sulla materia con la massima estensione del gesto tracciante o altrimenti portato sulla tela, partecipe corporalmente del farsi e scomporsi della forma pittorica che si fa figura molteplice e ibridata del reale immaginario. Scene come raccolte al loro sgorgare, se non proprio impulsive nel senso dell’automatismo psico-dinamico, che in effetti è la modalità surrealista del primo riconoscere e delineare o agglutinare possibili conformazioni visive nell’informe della materia pittorica stesa come a preparazione dei fondi. In certo senso, dunque, il dipingere è come una maieutica, un far venire alla luce forme e figure sommerse, ma per ciò stesso preesistenti, incluse nella materia. E in questa nozione dell’immagine inclusa da liberare, se vogliamo, è da scorgere un ulteriore processo proiettivo dell’imago, della quale si diceva essere come l’etimo del linguaggio pittorico di Arps, capace di generare una ricca e anche coltissima


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Madre e figlio in viaggio 2015 tecnica mista su tela cm 150x150 La madre dea visita la città, 2017 tecnica mista su tela cm 150x290 La cena della Mancha dea visita la città, 2016 tecnica mista su tela cm 100x120

morfologia lessicale. Scene che Gesine Arps compone e scompone con logica paratattica, a diversi livelli di saturazione dello spazio visualizzato, e come colonizzato, da forme e figure a loro volta invase da più o meno fitte costellazioni di grafemi e morfemi, che determinano la mutagena tessitura della materia pittorica. Motore di perenne metamorfosi del paramento pittorico è difatti la proliferazione gemmante di grumi materici e rari oggetti inclusi, di segni vibratili e tocchi di colore, di cifre numeriche e simboli segnaletici, di filamenti e aerei impalcati. Dai quali si generano irreali ambienti popolati da alberi, monti, vertiginosi edifici, oggetti come personificati,

ipertrofiche figure umane e animali terrestri e marini, e più spesso ircocervi ovvero capricci e ibridazioni di ambienti oggetti esseri viventi. Ma anche significativi assemblaggi di composite e bizzarre figure fitto/zoo/ antropomorfe – anch’esse monstra nel senso di inusuali evidenze degne di comparire, di essere mostrate nelle teche delle meraviglie – le cui diverse ed eteronome parti sono funzionalmente connesse da relazioni concettuali. Basti l’esempio della madre il cui capo è l’immagine del figlio, avendo come madre sempre in testa il pensiero del figlio. Quanto allo spazio della visione, bisogna dire che Gesine Arps tende a ridurlo al piano, in genere non dan-

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dosi distinzione tra figura e fondo né soluzione prospettica che non sia intuitiva o di valore, per gradazione del colore, per disposizione dei piani a registri sovrapposti, per gerarchia dimensionale e dislocazione degli elementi formali e figurali dal primo piano ai successivi. Che non hanno comunque profondità, nel senso che tutto è poi ribaltato al piano superficie, come si evince chiaramente dalla apparecchiata mensa ricca di cibi e bevande, e annessi convitati astanti, per la festa che si celebra ne’ La cena della Mancha, opera peraltro citabile anche come esempio di ispirazione filtrata a modelli artistici antichi, e basti pensare agli affreschi dell’Abbazia di Pomposa ai quali attingeva


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La barca astrale, trittico, 2016 tecnica mista cm 100x360 Il gufo, 2015 tecnica mista su tela cm 100x100

già Franco Gentilini, o Le nozze di Cana nella Basilica di San Nicola da Tolentino. Salvo nel caso dei dipinti “aerei” a sfondo di cieli, delle navigazioni marine in acque popolate da miriadi di presenze e loro scie, e delle navigazioni astrali nell’infinitudine dello spazio costellato da mondi remoti, quale che sia la tipologia prospettica non lineare di volta in volta utilizzata per collocare o far agire le sue figure, Gesine Arps tende a occupare sin quasi a saturarlo lo specchio visualizzato, lasciando filtrare solo tra forma e forma lo spazio ulteriore. Ciò accade non già per un qualche claustrofobico horror vacui, ma in ragione della natura totalizzante del suo mondo visionario, nel quale ogni cosa chiede di manifestarsi direi in flagranza corporale e simultaneamente, per cui nel bergsoniano flusso del tempo che è durata interiore, la scena è come un’istantanea, un fermo/ immagine del divenire perenne delle cose. Luogo dunque della complessità e della stretta corre-

lazione tra le parti che lo compongono, costellazione dove tutto si tiene al modo delle tessere d’una tarsia colorata, questo mondo che a prima vista appare sorgivo e destrutturato, non esaurisce i propri livelli semantici alla monovalenza d’una chiave interpretativa, anche se appare leggibile con intuitiva immediatezza. La medesima con la quale, senza mediazioni culturali, si colgono in uno, nel paramento alare d’una farfalla, il lussuoso décor screziato, la leggerezza impalpabile, l’artificio mimetico indotto dal meccanismi della selezione naturale, l’infiorescenza della natura. L’arte di Gesine si dispiega come pittura sul piano, felicemente gemmando nuclei e scie figurali, riduzioni simboliche di forme e figure del reale che, riconoscibili ma non referenziali, paiono agglutinarsi sulla tela come fossero animule. La tela funge da fittissima impercettibile rete, che filtra e trattiene una minima percepibile concrezione di quelle entità vaganti. E se la loro origine è da un immaginario contiguo al sogno, per il quale non hanno senso le coordinate spazio-temporali, dunque la congruità o la logica conseguente del loro relazionarsi, il loro approdo temporaneo, trattandosi di figure del flusso, si configura come teatro visionario di apparizioni fantasmatiche.

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Lo attestano la compresenza e l’interazione sincrona delle scie e dei nuclei figurali di eterogenea provenienza e appartenenza. Lo dice la loro proliferazione invasiva dell’intero campo visivo, e tendenzialmente dello spazio esteso oltre i confini della tela, per ulteriore gemmazione ed espansione. Una delle quali si verifica nella concretezza degli oggetti di recupero assemblati in pittosculture, invero riduzioni tridimensionali di figure come discese dalla tela; e soprattutto si celebra nelle installazioni da Gesine Arps realizzate proprio per rendere percepibili qui e ora, concretamente collocati nello spazio agibile, i segni e le forme, le figure fantastiche e le icone, o i frammenti di icone, dello sterminato repertorio dell’arte che fervidamente visita il suo immaginario. Quelle visioni che sembrano defluire come in un sogno a occhi aperti, sono tuttavia sapientemente guidate dalla mano aerea e all’occorrenza puntuale dell’artista. Mano educata e raffinatissima, per quanto risolta nel senso di quella naturalezza e apparente semplicità quasi infantile del linguaggio che è dono e virtù dello spirito sensibile. Parlando di icone e frammenti di immagini d’arte, si osserverà che l’apparecchiata ribalta fantastica di Gesine è luogo davvero proliferante di sincreti-


smi. Ossia incroci e risoluzioni di incremento creativo tra segni, cifre grafiche, simboli, figure e relativi depositi memoriali e semantici, evidentemente provenienti da tempi e culture le piĂš diverse. Quei segni che al loro primo incontro e riconoscimento per Gesine sono stati occasioni suggestive di conoscenza anche poetica, hanno poi sempre alimentato il suo laboratorio interiore, alchemicamente permutate nelle astrazioni simboliche cosĂŹ felicemente tradotte in gemmazioni visive. Non meraviglia, dunque, la straordinaria ricchezza dei referenti culturali avvertibili, non sempre e non solo sottotraccia, nelle sue partiture. Essi spaziano dalle insorgenze senesi della grazia lineare e del colore alle dichiarate ascendenze rinascimentali e urbinati, dai depositi della tradizione espressionista e postimpressionista alle piĂš varie espressioni rituali e decorative delle arti primitive nei diversi continenti, incluso il primitivismo brut dei moderni da Dubuffet ai graffitisti metropolitani. Tutto affluisce alla vivida intelligenza creativa di Gesine Arps. Tutto proiettivamente defluisce, evidentemente metabolizzato e morfologicamente connotato, sullo schermo delle sue visioni, per farsi festa dello sguardo e parola fiorita nel linguaggio della visibile poesia.

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L’angelo del cane da tartufo, 2016, tecnica mista su tela cm 100x100

Ballo tantrico, 2013, tecnica mista su tela cm 100x100 Giardiniera giapponese, 2016, tecnica mista su tela cm 120x120

Gesine Arps nasce ad Hannover, in Germania, il 3 novembre 1964. Inizia ad esporre giovanissima nella sua città natale in diverse collettive e, nel 1985, organizza la sua prima mostra presso la Galerie am Bahnhof, sempre ad Hannover. A ventidue anni lascia la terra natia per trasferirsi ad Urbino, dove termina gli studi artistici alla sezione ceramica dell’Accademia Raffaello con il professor Paolo Sgarzini. Nel 1990 incontra lo stilista Piero Guidi, per il quale inventa il disegno della serie “Magic Circus”. Durante il soggiorno italiano non mancano però le occasioni espositive anche all’estero mentre si susseguono, a ritmo incalzante, gli appuntamenti artistici italiani tra i quali nel 1991 alla Galleria Comunale dell’Immagine di Rimini. Dal 1994 l’artista amplia la sua ricerca linguistica non più solo dedicata alla pittura; sperimenta differenti mezzi e forme espressive e interviene anche con installazioni realizzate con i materiali più inconsueti. Ha quindi inizio una serie di esposizioni in Italia e all’estero che accrescono, col passare degli anni, il bagaglio culturale dell’artista e la sua considerazione da parte della critica. Stabile rimane il rapporto con la Germania, suo paese di origine, dove l’artista viene sempre più spesso invitata ad esporre in musei ed enti pubblici. Una lunga serie di esposizioni la vede ultimamente protagonista di performance ed eventi tra Francia, Olanda, Germania e l’Italia, dove ormai da tempo si è definitivamente stabilita. Dal 2010 lavora con la galleria Selective Art / Mizen Fine Art di Parigi ed espone in tutto il mondo. Le sue opere fanno parte di numerose collezioni pubbliche e private.

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Gesine Arps presenta una sua ampia scelta di opere recenti nella mostra Mirabilia, curata da Nicola Micieli, che si tiene a Firenze all'Accademia delle Arti del Disegno (3-30 giugno 2017). La mostra sarĂ quindi presentata a Fano, a Palazzo Bracci Pagani, dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Fano, dal 3 dicembre 2017 al 13 gennaio 2018. Nell'ampio catalogo della mostra edito da Mizen Fine Art edizioni di Parigi, oltre al saggio Mirabilia come pittura del curatore, compaiono testimonianze critiche di Cristina Acidini, presidente dell'Accademia delle Arti e del Disegno, di Alberto Berardi della direzione artistica di Palazzo Bracci Pagani, e dei critici d'arte Mika Obata e Marisa Zattini.

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ARTE

ATELIER BaGNOLI

un’arte da meditazione

Rossana Ragionieri

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e opere di Marco Bagnoli, esposte nel suo nuovo studio inaugurato lo scorso 5 maggio a Montelupo, sono legate da un forte impatto concettuale e da un sincretismo generale ed è, perciò, un’arte da meditare, da assorbire lentamente, profondamente, da lasciar scorrere libera, come lo è questo artista che, e per fortuna, non sottostà ai consueti cliché. Opere da ammirare in silenzio, in meditazione. Anche la nuova struttura, realizzata dall’artista in collaborazione con l’architetto Toti Semeraro, firmatario del progetto, va apprezzata con gli occhi e vissuta con il cuore. Non si tratta, infatti, di una struttura contenitore, ma di un edificio che è, a sua volta, un’opera d’arte. I volumi e gli spazi pluriarticolati, i materiali molteplici, le aperture che inquadrano la campagna toscana rappresentano un continuo viaggio nella contaminazione di linguaggi diversi, così come le opere esposte, con un allestimento temporaneo, indicano che ciò che è significativo non è tanto una stabile méta, quanto il percorso sempre diverso e sempre uguale, e tuttavia modificabile durante il cammino. Il percorso artistico di Bagnoli è quan-

to più possibile lontano da inquadramenti, correnti o stili prestabiliti, piuttosto è una continua sperimentazione artistica e intellettuale, nella quale si intravedono competenze fisiche e scientifiche, suggestioni filosofiche, composizioni vitali. E lo stesso spazio espositivo è un luogo di libertà capace di ricevere il dono dell’arte. È un determinato spazio in un determinato tempo, intimamente connesso con il territorio nel quale è immerso, uno spazio e un tempo entità in continua e infinita espansione. Marco Bagnoli spiega bene il suo concetto d’arte quando, nella presentazione all’interno della struttura e nel museo archeologico a Montelupo, invita a sgombrare il campo dalla ricerca di nuove metodologie, perché il metodo dell’arte è segreto. È l’arte stessa che compie il miracolo e il mistero della vita. Qualcosa che ha attinenza con il mistero o con il mito appare subito all’esterno, prima dell’ingresso nell’armonioso edificio, nei rilievi sulla facciata che rappresentano i sette fanciulli dormienti, con un rimando a Efeso, venerati sia dalla chiesa cattolica, sia da quella ortodossa.

atelier di Marco Bagnoli con sue opere e installazioni

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All’interno, in un vasto spazio, sono esposte diverse sculture realizzate con la sovrapposizione di elementi geometrici. Alcune sono costruite in modo da ricavare, con un gioco di distorsioni ottiche, profili, sagome di volti, quello di un giovane e di un vecchio, che richiamano il vaso di Rubin, ma nella dimensione tridimensionale. Altre, con materiali diversi, indicano i punti cardinali. Una grande parabola specchiante rimanda alla porta del cielo, riflettendo tutto lo spazio intorno. Altre parabole, più piccole come dimensioni e diverse nei materiali, accolgono tutto ciò che possono contenere e si modificano nel rimando emotivo secondo la luce del giorno o quella emessa dai riflettori che li illumina di notte e che, di riflesso, andranno a loro volta a illuminare. All’interno è istallata anche una mongolfiera realizzata con una struttura essenziale, sottile a raggiera. Anch’essa, di notte, sotto la luce


dei faretti, rappresenta un doppio luminoso proiettato intorno. Tutte le istallazioni sono ispirate dall’architettura del luogo, collocate volutamente senza criterio cronologico, ma in base agli spazi, alle condizioni ambientali e alle fonti luminose, oltreché secondo i significati da assegnare loro di volta in volta. C’è un altare nel giardino, che appare come un’antica ara con un rimando alle proprie radici, punto di partenza, non di arrivo, per altri percorsi ed esplorazioni diverse. Sono opere che lasciano intravedere un bravissimo artista che mantiene l’equilibrio e l’armonia tra la scienza fisica e la creatività, tra gli antichi temi filosofici indiani e le suggestioni del novecento, in una indagine quasi mistica nella tradizione culturale mondiale, e tra lo spazio e il tempo, temi, questi ultimi, ben presenti in quest’ultima esposizione. Pier Luigi Tazzi, curatore dell’apertura dell’atelier di Bagnoli, spiega che la X del Quinconce, il simbolo con cui i romani rappresentavano i 5/12, simile a quella del cinque nei dadi, rappre-

senta per Bagnoli “la contrazione finale della formula Spazio X Tempo” e della “derivata IOXTE”. Bagnoli, considerato uno dei maggiori esponenti delle tendenze artistiche contemporanee in Italia, apprezzato anche a livello internazionale, è anche valido poeta. La contaminazione dei linguaggi lo intriga e lo accompagna nel suo percorso artistico. Intanto questa struttura espositiva, fiore all’occhiello della cultura contemporanea, luogo di lavoro, quasi un elemento spirituale immerso nella natura, è anche sede dell’associazione “Spazio X Tempo”, che intende promuovere progetti e iniziative legate al rapporto tra arte, impresa e territorio, tra pubblico e privato, con una visione, anche questa, lungimirante e innovativa. Il tutto avviato con la recente inaugurazione e l’omaggio che Bagnoli ha dedicato a Michael Galasso, suo stimato amico per le affinità elettive. Galasso, infatti, oltreché virtuoso violinista, direttore d’orchestra e compositore, firma significativa di musiche legate alla storia del cinema, ha lavorato in collabora-

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zione con Marco Bagnoli dal 1992 al 2007 ed è stato uno sperimentatore, che ha spaziato anche nelle tradizioni orientali e asiatiche.


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ARTE

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xIndro dedicata al grande giornalista la scultura di Marco Puccinelli Andrea Pio Cristiani

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’inaugurazione della nuova rotonda della Ferruzza a Fucecchio, dedicata a Indro Montanelli, mi offre l’occasione di esprimere a Marco Puccinelli, artista

fucecchiese distintosi per una ricca produzione di opere pittoriche, scultoree e commemorative segnate dall’originalità del suo figurativo concettuale, tutta la mia soddisfazione umana, ma anche intellettuale e spirituale per il suo linguaggio artistico espressione alta del suo carisma e della sua capacità interpretativa della vita e degli eventi. La semplicità e cordialità che lo distingue, come del resto il suo amore per la libertà, sono trasferiti mirabilmente in ogni opera che esce dalle sue mani, le forme che esprime evocano i sentimenti di cui è portatore, come in questa sua opera. Egli ama la ricerca sottile e profonda delle cose e delle persone ed è capace di trasmettere emozioni e provocazioni interiori. Egli ama l’arte perché ama la vita, Non c’è ombra in lui di narcisismo, rivela il gusto del bello e la ricerca dell’imperituro, ama

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conservare attraverso l’espressione artistica l’immagine di sé, della sua originalita, del suo sguardo sempre posato sul mondo, ma con umiltà. Un’impronta fortemente sociale connota le sue opere, le sue aperture sono dovute a uomini grandi che ha incontrato nella sua vita, lasciando in lui segni indelebili. L’incontro con Hèlder Câmara, il Vescovo dei poveri, lo commuove ancora. Non è un mercante alla ricerca di venditori o di critici compiacenti, ma piuttosto un uomo distaccato dagli interessi, capace di mettere gratuitamente a disposizione di tutti il dono della sua arte, che ha ricevuto da Dio. Anche con la sua ultima opera realizzata senza vantaggio economico, ha voluto distinguersi per la sua generosità. Di tali uomini avrebbe bisogno il mondo e io sono lieto e riconoscente per la sua sincera amicizia.


Marco Puccinelli è nato il 10 agosto 1954 a Fucecchio dove vive. Diplomato maestro d’arte all’istituto d’arte di Lucca nel 1972 in scultura, allievo di Vitaliano De Angelis e di Antonio Rossi. Nei suoi 45 anni di attività ha realizzato opere di ogni genere, spaziando dalla pittura alla scultura ricevendo premi e riconoscimenti importanti. Alcune delle sue opere sono a Fucecchio, e in collezioni private in molte nazioni europee e in Canada, Stati Uniti d’America e in alcune nazioni dell’Africa.

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La libertà in un nastro “lettera 22” 2017, acciaio inoz, mt 6 Omaggio a Indro Montanelli pagina a fianco On/off, schede madri su pannello 2016, 116x77 cm


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RUOTA LIBERA Firenze. A tavola con il Premio Martinicca Costanza Contu

Roberto Giovannelli e il Dessert d’artista Le salette del Ristorante la Martinicca con le opere esposte di Roberto Giovannelli

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asce nel cuore di Firenze, nel centralissimo ristorante La Martinicca, a due passi da piazza Santa Maria Novella, l’omonimo premio dedicato all’Arte e alla Poesia. L’idea proviene dal critico d’arte Marco Moretti e dal gestore del ristorante la Martinicca, Marco Ciani; due anime innamorate dell’arte che hanno saputo rinnovare il tradizionale convivio fiorentino fra la buona cucina e la buona cultura con un evento importante che ormai si ripete ogni

anno dal 2008 con grande successo e apprezzamento da parte del pubblico, dei media e degli addetti ai lavori. «Assegnare il premio Martinicca ad una personalità della cultura potrebbe apparire indelicato o addirittura provocatorio se si rammentano certi traslati popolari, squisitamente toscani, che associano questo congegno frenante per carri e carrozze a individui di modeste qualità intellettive. Veniva infatti detto di una persona non al passo coi tempi, che era più indietro delle martinicche, in relazione ai ceppi dei freni situati sulle ultime ruote del carro. Mentre un individuo duro di comprendonio era bollato come più duro d'una martinicca, in attinenza al faticoso azionamento del congegno frenante. Tuttavia,dovendo far di necessità virtù, questo premio nato nelle salette del centralissimo ristorante fiorentino, ha trovato il modo di motivare, ribaltando in positivo le antiche allusioni e fregiarsi dell’onore che il termine comporta, cosi come i pittori

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macchiaioli, come poi i fauves, si erano riconosciuti nei rispettivi epiteti assegnati loro dalla critica. Il “paradosso” si può spiegare con la funzione stessa della martinicca: la quale frenando nelle discese, permetteva al veicolo di mantenere la via senza finir fuori strada; o porre freno, quando le briglie non bastavano, alle improvvise bizzarrie dei cavalli. Dunque, nella funzione salvifica di questo primitivo congegno si può intuire anche una metafora della vita, consistente nel saper frenare davanti a un pericolo, o procedere con accortezza in situazioni complicate o non chiare». Con queste parole Marco Moretti, presidente del premio, apre il catalogo che ogni anno viene pubblicato in occasione dell’evento dedicato a intellettuali e artisti sempre diversi; la lista è assai lunga e i nomi prestigiosi. Nel 2008 il maestro Sergio Scatizzi riceve il primo premio Arte e Poesia per le sue opere d’arte e per i suoi testi poetici, l’anno successivo Vittorio Sgarbi riceve il premio speciale per la


critica d ‘arte insieme all’artista Piero Vignozzi e al grande Sergio Zavoli. Si susseguono negli anni personalità di spicco quali l’artista Luca Alinari, Guido Ceronetti premiato per lo spettacolo e per il teatro e Franco de Felice che nel 2011 riceve il premio speciale per la tv. Giampaolo Talani è stato premiato nel 2012 mentre nel 2013 il premio Martinicca è andato al maestro Silvano Campeggi e a Cristina Acidini per la critica d‘arte . Poi ancora nomi rilevanti quali Antonio Possenti, Marcello Guasti e Alberto Severi che nel 2015 ha ricevuto il premio per la sua produzione teatrale. Ad Antonio Natali è andato il premio Martinicca del 2016 insieme alla pittrice Elisabetta Rogai. In una conviviale giornata di marzo presso i locali della Martinicca è stato assegnato quest’anno il IX Premio Martinicca Arte e Poesia al maestro Roberto Giovannelli che insieme alla giornalista Cristina di Domenico, premiata per il giornalismo culturale, è stato protagonista dell’intera giornata. Un artista Roberto Giovannelli legato a “ciò che concerne l’arte nei suoi contorni” come afferma Moretti nel saggio sul maestro, un uomo che è essenzialmente pittore ma che «l’amore innato per tutta la sfera della cultura lo ha indotto ad una speculatio avente origine nella classicità mediterranea, dai greci a noi. Da tali presupposti deriva la volontà d’indagine del nostro artista; il quale oltre a fare pittura ed averla insegnata in diverse accademie, l’ha sviscerata dalla parte delle radici facendosi scrittore d’arte nonché curatore e direttore di collane editoriali, divulgandone le oggettive molteplicità, estetiche storiche e di costume. Un amore a trecentosessanta gradi come di rado può attecchire in un pittore contemporaneo fino a coinvolgerlo nella ri-

proposizione di artisti di un ottocento meno noto ma non per questo meno significativo, del quale Giovannelli è divenuto anche attento ricercatore e collezionista di opere». Le opere di Giovannelli esposte nelle salette del ristorante la Martinicca fino al 6 maggio scorso, brillano d’oro e di linee raffinate, ricordi di viaggi lontani e esperienze che si legano con i turchesi stemperati degli acquerelli e con le lamine auree che rimandano alla mente l’antica tecnica della sfoglia d’oro. Un artista sofisticato e colto nella sua pittura così da essere premiato con un riconoscimento importante come il Premio Martinicca. Lo stile raffinato del maestro si è potuto intravedere anche nella realizzazione del dolce che ogni personaggio premiato deve realizzare alla fine del convivio;di consueto, infatti, dopo la premiazione l’artista esegue un soggetto caratterizzante la sua pittura servendosi di panna colorata sopra un supporto di pasta sfoglia; è il “Dessert d’autore” che poi verrà servito agli invitati e che anche il maestro Roberto Giovannelli, con spirito goliardico, ha realizzato in maniera sublime con panne colorate usando il rosa e il celeste che sono i suoi colori preferiti. Da quest’anno sulla parete esterna del ristorante campeggia l’insegna del Premio Martinicca Arte e Poesia, costituita da una targa in pietra di Simone Fiorde. Cosi il premio ha reso visibile la sua sede agli amanti dell’arte e della poesia, i quali, passando per via del Sole, tra Santa Maria Novella e Via Tornabuoni, alzando lo sguardo s’imbatteranno in questo segnacolo in pietra serena ed oro, simbolo di amore e riconoscenza per l’arte e la cultura, beni umanissimi, che, insieme al buon cibo, non devono essere dimenticati.

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Sergio Scatizzi Premio Arte e Poesia 2008 Cristina Acidini Silvano Campeggi Premio Martinicca Arte e Poesia 2013 Vittorio Sgarbi Premio speciale Martinicca Arte e Poesia per la critica d’arte 2009 con lo scultore Belarghes autore della targa e Marco Moretti Roberto Giovanneli con la targa realizzata da Simone Fiorde del Premio Martinicca Arte e Poesia 2017


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ARTE

omaggio a Marino Marini l'arte contemporanea a Pistoia capitale italiana della cultura Luca Fabiani

Marino Marini e moglie

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el nostro viaggio ideale alla scoperta di Pistoia capitale italiana della cultura, l’arte contemporanea occupa una posizione di primo piano. A Pistoia hanno vissuto e operato, solo per citarne alcuni, artisti di fama internazionale come Sigfrido Bartolini (Pistoia 1932-Firenze 2007), Marino Marini (Pistoia 1901- Viareggio 1980), Fernando Melani (San Piero di Agliana 1907-Pistoia 1985), Giovanni Michelucci (Pistoia 1891-Fiesole 1990) e Jorio Vivarelli (Fognano 1922- Pistoia 2008). Già dall’inizio dell’anno un raggio laser collegava idealmente Palazzo Fabroni con la Fattoria di Celle, sede attualmente della prestigiosa collezione di arte ambientale, proprio a voler sottolineare l’importanza del ruolo dell’arte contemporanea nell’ambito degli eventi della capitale italiana della cultura 2017. Palazzo Fabroni a pochi passi dalla centralissima Piazza del Duomo rappresenta il centro per eccellenza delle arti visive contemporanee a Pistoia.

Inaugurata nel 1997 e costituita da fondi civici originari, acquisizioni e donazioni, la raccolta di Palazzo Fabroni, che recentemente ha ospitato la mostra Prêt-a-porter di Giovanni Frangi, offre un itinerario attraverso il panorama artistico dell’arte contemporanea dal dopoguerra ai giorni nostri. Dopo il grande salone centrale a doppio volume del primo piano, dove si incontra l’imponente Scultura d’ombra di Claudio Parmiggiani sulle pareti, il percorso espositivo continua con le sale monografiche che ospitano le opere di Mario Nigro (Pistoia 1917- Livorno 1992), Gualtiero Nativi (Pistoia 1921- Greve in Chianti 1999) e Agenore Fabbri (Pistoia 1911- Savona 1998). Pistoiesi di nascita, si tratta di artisti che hanno svolto la maggior parte della loro attività al di fuori della Toscana percorrendo, a livello nazionale, la strada dell’Astrattismo e dell’Informale. Interamente dedicata a Fernando Melani1 è la sala in cui sono collocate opere di dimensioni maggiori e particolari “progetti” non ubicati nella casastudio di corso Gramsci. Un particolare approfondimento documentario è dedicato proprio all’abitazione dove Melani, a partire dal secondo dopoguerra, ha vissuto e operato in un’azione di totale interazione con lo spazio e le opere in essa contenute. Qui l’artista e ricercatore scientifico, partendo dalle riflessioni sulla materia e sull’atomo, portò avanti una ricerca creativa attorno a correnti come l’Arte concettuale, l’Arte povera e la Minimal Art. Il percorso museale prosegue poi con le sale collettive che ospitano le opere donate al Comune di Pistoia da molti degli artisti intervenuti dal 1990 a Palazzo Fabroni con mostre personali o tematiche. A testimonianza dei nuovi linguaggi dell’arte contemporanea

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(dall’Arte povera al Concettuale, dalla Minimal Art alla Poesia visiva), sono qui conservate opere di rilievo di Roberto Barni, Bizhan Bassiri, Umberto Buscioni, Enrico Castellani, Giuseppe Chiari, Nunzio Di Stefano, Diego Esposito, Luciano Fabro, Alberto Garutti, Jannis Kounellis, Daniele Lombardi, Vittorio Messina, Claudio Parmiggiani, Alfredo Pirri, Renato Ranaldi, Gianni Ruffi, Daniel Spoerri, Marco Tirelli. Dal 2011 la collezione si è arricchita di undici ritratti fotografici di artisti, realizzati da Aurelio Amendola e da lui donati al Comune di Pistoia: alcuni (Barni, Buscioni, Fabbri, Parmiggiani, Ruffi) sono stati selezionati e disposti a dialogare direttamente con le opere di quegli stessi artisti presenti nella raccolta; agli altri (Burri, Castellani, De Chirico, Kounellis, Marini, Warhol) è dedicata un’intera sala al primo piano dell’edificio settecentesco. Il percorso si conclude con le immagini, realizzate da Mario Carnicelli, che raffigurano un particolare momento storico: la partecipazione alle esequie di Palmiro Togliatti nell’agosto del 1964. Infine l’installazione Underground n° 02, pensata "ad hoc" da Federico Gori per una sala del museo e costituita da 95 elementi in rame, sembra catapultare il visitatore in una sorta di visione sotterranea in continua evoluzione. Naturale compendio alla visita di Palazzo Fabroni è la casa-studio di Fernando Melani. Questo luogo rappresenta il mondo artistico di Melani: della visita allo spazio espositivo sorprende l’impiego di materiali semplici, che l’artista riesce a trasformare in suggestive opere d’arte. Nei diversi ambienti una gran quantità di opere occupano soffitti, pareti, pavimenti, secondo la disposizione che l’artista stesso gli aveva dato fin dalla


loro realizzazione. La visita fra cumuli di materiali sedimentati, sperimentazioni sui metalli, lamiere e fili di ferro, è un percorso interno e ricco di suggestione lungo le tracce del pensiero di questo straordinario protagonista dell’arte contemporanea. Tutto però vi è stato conservato come era in origine, in un ambiente ricco di storia e di continui riferimenti al pensiero dell’artista, mantenendone il carattere originario e assecondando così la volontà di Donatella Giuntoli, storica dell’arte a lui vicina, che nel 2005 ha arricchito la casa con la sua personale donazione di opere di Melani. La sua abitazione e le sue opere, oggetto di importanti esposizioni a Firenze, Milano e all’estero (Germania e Stati Uniti), costituiscono dunque una testimonianza unica, che ci racconta nei dettagli un personaggio fuori dall’ordinario. Un altro protagonista dell’arte contemporanea a Pistoia è senz’altro Marino Marini, di cui molte opere sono oggi conservate in corso Silvano Fedi presso la Fondazione che porta il suo nome, ospitata nell’antico Palazzo del Tau2. Marino Marini nasce a Pistoia e fa propria la tradizione di questa terra antica e ricca di storia. Si sente profondamente legato alle sue radici tanto da ripercorrere la storia delle proprie origini fino agli Etruschi, una popolazione antica da cui egli sente di discendere. La matrice etrusca si riscontra nella scultura in terracotta “Popolo” del 1929 presentata alla seconda mostra del Novecento italiano. “Popolo” raffigura una coppia di contadini maremmani e richiama il sarcofago degli sposi di Cerveteri. Questa scultura rappresenta il capostipite dei ritratti, una delle tematiche più amate da Marino, ritratti penetranti e un po’ enigmatici proprio come i volti scolpiti dagli Etruschi. La forte matrice etrusca e toscana non gli impedisce tuttavia di aprirsi alle correnti artistiche del XX secolo. Inizia giovanissimo a viaggiare e continuerà a farlo per tutta la vita.

I continui viaggi gli permettono di entrare in contatto con i più grandi artisti del suo tempo, contribuendo all’arricchimento della sua interiorità e della sua arte. Nell’arte di Marino Marini vengono individuati quattro temi principali: le pomone, i cavalli e i cavalieri, il mondo del circo e del teatro e i ritratti come già accennato. Proprio a tutte queste opere il Museo Marini di Pistoia dedica un percorso tematico, che inizia con l’atrio, dove sono presenti alcune sculture e due gessi dell’artista. Tra le sale, che ricostruiscono il pensiero, l’arte e la vita di Marini, c’è quella dedicata alla memoria della moglie Mercedes Maria Anna Pedrazzini, da lui “ribattezzata” Marina, instancabile compagna di vita e fondatrice della Fondazione Marino Marini e del Museo di San Pancrazio di Firenze. La sua importante figura viene ricostruita attraverso pensieri, scritti, oggetti e opere d’arte. La collezione del Museo Marini comprende anche una gipsoteca, con oltre cento gessi rappresentativi di tutte le tematiche dell’artista. Proprio in questi giorni la Fondazione ha avviato, tra l’altro, un importante restyling degli spazi espositivi con quattro nuove sale dove saranno presenti ventiquattro opere inedite (sculture e tele) tra ritratti, nudi femminili ed animali. Accanto al Palazzo del Tau, sede appunto della Fondazione e del Museo Marino Marini, sorge inoltre la trecentesca Chiesa del Tau, vero e proprio gioiello artistico. Nella chiesa sconsacrata sono oggi esposte le seguenti opere di Marini: Il Miracolo del 1953/54, Il Cavaliere del 1956/57, Il Grande Grido del 1962, La Composizione di elementi del 1964/65, Una forma in un’idea del 1964/65, oltre a sette piccole sculture. Nell’ambito dell’ampia produzione artistica di Marino Marini, il gruppo equestre è sicuramente il soggetto più conosciuto. Esso può essere visto come un vero e proprio simbolo, un linguaggio originalissimo che l’artista

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adotta per esprimersi e per leggere la realtà. Infatti egli affermava: «C’è tutta la storia dell’umanità e della natura nella figura del cavaliere e del cavallo, in ogni epoca. È il mio modo di raccontare la storia. È il personaggio di cui ho bisogno per dare forma alla passione dell’uomo». Marini sosteneva anche che nel tempo il cavaliere diventa sempre più incapace di padroneggiare il suo cavallo, e la bestia, nella sua ansietà, sempre più feroce. In questo senso nascono opere come Composizioni di elementi, Fossili, Gridi, Guerrieri, Miracoli, in cui l’artista mette in risalto tutta l’ansia e la drammaticità della condizione umana. L’arte ed il pensiero di Marino Marini, le cui opere possono essere osservate in tutto il mondo, lo collocano a pieno merito tra i maggiori scultori ed artisti del Novecento. Proprio per ricordare la sua figura, Pistoia, nell’anno in cui è capitale della cultura, non poteva non omaggiare il suo genio creativo con una rassegna ed altri eventi al Palazzo del Tau e a Palazzo Fabroni. Con il titolo Mario Marini. Passioni visive dal 16 settembre al 7 gennaio 2018, la Fondazione Marini propone infatti la prima retrospettiva che ambisce a situarlo organicamente nella storia della scultura. L’esposizione, che si terrà a Palazzo Fabroni a cura di Barbara Cinelli e Flavio Fergonzi, si presenta come uno dei momenti di punta delle celebrazioni di Pistoia capitale italiana della cultura 2017. Dopo Pistoia, la mostra si trasferirà, in una versione più ristretta, alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia. Sempre da settembre a gennaio 2018 è in programma al Museo Marino Marini l’esposizione Miró e Marino. I colori del Mediterraneo.

1 Sulla figura di Fernando Melani, che è stato anche autore di numerosi testi sull’arte, è possibile consultare la seguente bibliografia: Anna Brancolini Criachi, Fernando Melani. Gli scritti, Archivio Sassolini Editore, Panzano in Chianti, 1986; Bruno Corà, Fernando Melani: la casa-studio, le esperienze, gli scritti dal 1945 al 1985, Electa, Milano, 1990; Donatella Giuntoli, Fernando Melani, un’esperienza bio-artistica, Gli Ori, Pistoia, 2010. 2 Al Palazzo del Tau sono confluiti negli anni tutti gli archivi afferenti a Marino Marini. Oltre alla biblioteca, con volumi d’arte di proprietà dell’artista e testi a lui dedicati, sono presenti molti testi generici sull’arte. Alla Fondazione è possibile consultare l’epistolario e la fototeca; sono inoltre archiviati tutti gli articoli di giornali usciti dal 1927 ad oggi sull’attività di Marini. Negli spazi del museo è stata allestita anche una biblioteca dedicata ai bambini con libri d’artista.

Marino Marini, Il grido, 1962 tempera su carta intelata Marino Marini, Gentiluomo a cavallo, 1944 tecnica mista su carta


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ARTE

Francesca Sacchi Tommasi

ART IN CINA

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gni luogo nel mondo ha un’avventura a sé. Anche quando ritorni nello stesso posto, non è mai come lo hai lasciato l’ultima volta. I colori, gli odori, i suoni, si ripresentano sempre sotto aspetti diversi. Fatta eccezione per Hong Kong, ancora inesplorata dalla mia curiosità. Hong Kong non è Cina, almeno sulla carta. Qui si guida ancora con il volante a destra come in Inghilterra, perché la città fu colonia dell’Impero Britannico fino al 1997. Il clima di Hong Kong ti avvolge con il suo sole, rendendo un po’ fastidiosa l’umidità nell’aria, ma il verde è vivo fra i grattacieli della città, e la varietà di persone che provengono da tutto il mondo non ti estraniano

completamente. Ritengo di essere stata particolarmente fortunata, perché, come per incanto, mi sono trovata durante tutto il soggiorno in un’atmosfera internazionale, stimolante e molto accogliente sotto ogni aspetto. Dall’arrivo all’albergo, il Mandarin, centrato a pochissimi chilometri dalla prestigiosa Art Basel (motivo del mio viaggio qui, occupandomi di arte contemporanea) ho trascorso cinque giorni non-stop, in una full immersion di sorprese, per visitare alcune gallerie italiane, da Casamonti alla galleria Continua. La storica Fiera internazionale di Arte moderna e Contemporanea nata a Basilea, poi giunta a Miami, è approdata anche qui per il quinto

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anno. Mi sono imbattuta ovviamente nei grandi nomi del Novecento, come Picasso, Fontana, Morandi, Burri, Giacometti, fino ai contemporanei come Ai Weiwei (ancora fresco del successo ottenuto a Palazzo Strozzi a Firenze), Mariko Mori, Marina Abramović, Jaume Plensa, solo per citarne alcuni: selezionati, più che da un gusto proprio, da una direzione artistica sensibile e non dalla scontata scelta di nomi famosi. Erano coinvolti oltre ai molti giovani artisti provenienti da tutte le parti del mondo, anche i nomi più noti in terra nostra, come Bertozzi & Casoni, rappresentati dalla galleria storica di Calarota (la più importante per quanto riguarda le opere di Morandi). Oltre a ciò, una coppia di virtuosi scultori romagnoli, che lavorando con la ceramica danno vita a veri capolavori. La loro professionalità in Oriente è davvero impeccabile. L’ho riscontrata qui a Hong Kong e nella mia successiva tappa finale, Shanghai. Il nome della città significa “sul mare” o “verso il mare”: una metropoli folle da quanto scoppia di energie. La più popolata al mondo, infuocata da un continuo flusso di persone, in una infinita rincorsa contro il tempo. Mio fratello Riccardo vive qui. Ha vinto una borsa di studio in lingua cinese, e si sta specializzando proprio nel mercato dell’arte contemporanea in Oriente. Nonostante sia più giovane di me di 12 anni, mi ha aperto il cuore e gli occhi su una realtà che, per pregiudizio, mi ero sempre mantenuta reticente nell’affrontarla con disinvoltura. Insieme, ci siamo addentrati nella parte più storica e artistica della città, dove abbiamo ammirato


* Francesca Sacchi Tommasi è cresciuta in una stimolante famiglia di artisti, attivi, da generazioni, nel loro storico studio di Pietrasanta. L’arte è sempre stata la sua costante passione diventata infine la sua professione (www.etrastudiotommasi.it). Collabora all’organizzazione delle mostre curate dal professor Vittorio Sgarbi. Fra quelle più recenti e note ricordiamo EXPO 2015 e il D’Annunzio Segreto mostra allestita al Vittoriale degli Italiani, a Gardone Riviera.

la skyline mozzafiato degli altissimi edifici, mangiato divinamente, raggiungendo infine questo “intimo” quartiere, chiamato Art District: un forte punto di attrazione della metropoli, frequentato da un pubblico cosmopolìta. Il luogo è folto di piccole e grandi gallerie e “guest house” per artisti: sono gruppi di giovani creativi che cercano con il loro talento di esprimersi dal vivo, fotografando o dipingendo qualcosa. Le gallerie sono prevalentemente cinesi, ma sono rappresentati anche i galleristi europei. Ho avuto modo di visitare una galleria storica con una storia simile a quella dei miei familiari. Noi artisti da generazioni, loro mercanti e pittori. Intervistando la gentile titolare della galleria Leung Gallery ho capito come il mercato cinese sia ancora generalmente orientato a investire in artisti cinesi, la cui fama internazionale garantisca un incremento del valore. Mentre nella grande e impeccabile Leung Gallery la titolare espone solo autori della sua

famiglia. Prevalgono paesaggi con marine e campagne, rilassanti agli occhi e tecnicamente piacevoli, ma molto commerciali. Le altre gallerie, di più recente fondazione, giocano su video installazioni, pupazzetti assemblati e giochi di specchi. Fra i pittori, alcuni li ho trovati davvero interessanti. Uno di questi mi è stato presentato da mio fratello Riccardo. È un giovane cinese che si sta facendo apprezzare. Si chiama Yu Nan Cheng. Nel suo studio dipinge e tratta le proprie tele. Gli artisti cinesi sono affascinati e attratti dalla nostra cultura, e la loro disponibilità a scambiarsi e a dedicarti del tempo è del tutto spontanea. Sono più aperti di quanto pensassi, e cordialmente pronti al dialogo. Con molti di loro si comunica in inglese. Auguro a tutti di avere la fortuna di un compagno o una compagna di viaggio che parli cinese, possibilmente lo slang della città: piacevole da ascoltare per l’andamento cantilenante e musicale dei suoni. Fotografie di Penelope Lisi

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Rosai

da 60 anni gli “omìni” dell'Oltrarno del pittore

Marco Moretti

Ottone Rosai nello studio, anni ‘30 Ritratto di Egidio, 1938, coll. privata

L

a notte del 13 maggio 1957 moriva improvvisamente a Ivrea, a sessantadue anni, Ottone Rosai, alla vigilia d’una grande mostra al Centro Culturale Olivetti. Curata da Pier Carlo Santini, l’antologica composta da sessanta opere sul tema La figura umana nella pittura di Rosai, escludeva ogni altro soggetto, compresi gli splendidi paesaggi imbevuti di luce che dall’inizio di quel decennio avevano portato all’artista, dopo anni d’incertezze, una stabile sicurezza economica. Il motivo della figura era il più sentito dall’artista ma il più ostico al pubblico. Non era facile far accettare i suoi “omìni” che riassumevano il basso ceto dell’ Oltrarno, mendicanti e cantastorie, giocatori di carte e di biliar-

do, operai e artigiani dipinti sullo sfondo fumoso di bettole e caffè, rifugi di quel popolo minuto tra il quale l’artista era vissuto anche dopo la scoperta di San Leonardo, la poetica via collinare fuori porta San Giorgio ispiratrice dei suoi luminosi paesaggi, dove dal ‘34 in poi avrà dimora e studio. Quelle figure, amate dai poeti, mettevano invece a disagio le buone coscienze, urtando con la loro cruda sintesi anche puristi della critica, da Brandi a Longhi e liquidate come espressioni “vernacolari”. Eppure, il valore più autentico della pittura rosaiana iniziava là dove l’immagine esteriore rischiava di consumarsi in “vernacolo” fine a se stesso, se questa non fosse stata suffragata da un sentimento assoluto e profondo verso coloro a cui doleva «il mondo dell’anima». Non ebbe vita facile Ottone Rosai, nipote e figlio di stipettai con bottega in via Toscanella a due passi da Palazzo Pitti. Il suo carattere impulsivo lo aveva portato misteriosamente all’arte, ma un’arte intesa più per stati emozionali piuttosto che attraverso piani di studio. Tant’è vero che presto abbandonò l’Istituto d’Arte e poi l’Accademia, dopo aver sfasciato una tela sulla testa del professor Calosci che ne aveva criticato gli esiti. Rosai fu dunque sostanzialmente un autodidatta, fortemente motivato ad esprimersi attraverso le emozioni del segno e del colore. Col senso della fede in se stesso con cui fu solito affrontare la vita, dopo le scorribande futuriste per l’intervento in guerra era partito per fronte come granatiere, ritornando come Ardito due volte decorato e col grado di “aiutante di battaglia”. La sua vita d’artista cambiò radicalmente nel febbraio del ‘22 quando, per il suicidio in Arno del padre,

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dovette accollarsi la direzione della bottega, i cui debiti pregressi resero sempre più drammatica la situazione tanto che l’artista, verso la metà degli anni Venti, dovette dimenticare la pittura. Per circa tre anni non dipingerà, rimanendo artigiano tra gli artigiani in quella via Toscanella dipinta nel ‘22 in tre versioni che rimarranno fra le pietre miliari dell’arte del ‘900. Nel 1930, dopo aver esposto senza alcuna vendita gran parte della sua opera alla galleria milanese del Milione, la fede nell’arte subirà un’altra flessione. Solo l’anno seguente, col rifugio in un ex casotto del dazio al limite della città, l’artista ritroverà se stesso davanti ai motivi della campagna tra le colline e il fiume. La moglie Francesca, che Ottone nonostante la propria omosessualità amerà fino alla morte capirà quella scelta, restando moralmente e materialmente vicina al suo uomo. Benché fascista della prim’ora e protetto dal ministro della cultura Bottai, che nel ‘39 lo nominerà per chiara fama professore al liceo artistico e tre anni dopo docente di pittura all’Accademia di Belle Arti, Rosai era vigilato dall’OVRA come uomo ambiguo e ambiguo fascista: pur combattente pluridecorato aveva pubblicato un libro impietoso e antieroico come “Dentro la guerra”; illustratore ufficiale de “Il Bargello”, organo del fascio fiorentino, figurava allo stesso tempo tra i movimentatori d’una fronda in seno al fascismo facente capo alla rivista “L’ Universale”. Come non bastasse, le figure dei suoi “omìni” parevano evocare miserie esistenziali che sembravano contraddire il riscatto sociale vagheggiato da Mussolini. In una dettagliatissima “Difesa” letta in una mostra personale al Lyceum fiorentino, l’artista


aveva invece sottolineato che la sua opera testimoniava solo l’amore «che da sempre avevo per certe creature destinate a vivere come di nascosto alla stessa vita». Così, «Nel dipingere i miei soggetti, non fo che esaudire un mio misterioso bisogno d’artista che intende esprimere il sentimento dell’universo», poiché «in un povero omino c’è indubbiamente un maggior contenuto, una più grande somma di mondo, di Dio, di questa vita, nostra tragedia di povere creature». E ancora: «La verità è che il grande artista cammina sulla strada tracciata dal Cristo, e allora non possiamo avere dicerto un’arte soverchiamente allegra che aiuti la digestione di un cuor contento borghese». Questa testimonianza di religiosità è rimasta sconosciuta ai curatori d’una recente mostra a Palazzo Strozzi (Bellezza divina, rassegna sull’arte e il sacro tra Otto e Novecento), nella quale erano pure comprese opere di richiamo religioso dell’ “ateo” Lucio Fontana. Sarebbe bastato inserire il tragico Operaio in croce dei Musei Vaticani per rappresentare la profonda religiosità di Rosai, sottolineata anche dal cattolico integralista Domenico Giuliotti in una lettera del ‘30 a Giovanni Papini. Un’esclusione dunque inconcepibile se non ascrivibile a un perdurante ostracismo che, beninte-

so, non danneggia Rosai quanto certi storici negatori della storia. L’umanità ”stravolta” che raffigurava era l’esempio ”vivente” di ciò che nel ‘22 aveva notato Soffici, suo primo esegeta, riguardo l’operare in «una personalissima misura e semplificazione, forzando e riducendo e sovvertendo i dati che ha di fronte a sé»,producendo quel processo espressivo che rende unica e inconfondibile l’opera rosaiana. Esempio in questo senso tra i più significativi è il ritratto di Egidio, eseguito nel ‘38 ed esposto in quell’anno alla XXI biennale di Venezia: ritratto che si pone tra i maggiore esiti -se non il più alto- della capacità introspettiva di Rosai. Un’opera che custodita per decenni in una collezione genovese è rimasta sconosciuta alle pubblicazioni storiche e dunque ignota al pubblico contemporaneo. La sua forte carica espressiva lascia trasparire, oltre allo stato d’animo del soggetto, il trasporto dell’artista verso coloro «a cui duole il mondo dell’anima». La figura seduta di Egidio, con il busto leggermente ruotato e il gomito che sfiora il montante della sedia, è pervasa da una luce che accende di marroni aranciati il verde cupo della giacca; quasi una sorta di ”lume mentale” che, diffondendosi a zone, “mesce chiarori nell’ombra” come avrebbe detto Dino Campana, amico di gioventù dell’artista. Un ”lume” che investendo la testa calva e deformata dell’uomo pone in risalto i tormentati pieni vuoti del viso, la cui plasticità è resa attraverso un ductus pittorico denso e sanguigno. Si capisce come Rosai, attratto da un soggetto così singolare, dal naso schiacciato come quello d’un pugile o depresso da chissà qual’ altro accidente, si sia fissato nell’indagine di quella carne dagli occhi smarriti e dolenti per trasporla impietosamente sulla tela fino a immedesimarsi in una sofferenza che era anche la propria, accentuandone gli effetti tramite licenze e invenzioni, quali lo scavo ombrato in forte delle rughe, come quello cigliato che divide la guancia dall’osso zigomale. Una capacità di ”trasfigurazione” alla

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quale si dice abbia guardato Francis Bacon. Ma mentre l’opera allucinata dell’ irlandese non proviene dalla realtà oggettiva quanto da un’apparenza interiore che solo attraverso la pittura acquista la sua visibilità, l’opera di Rosai scaturisce invece da contenuti reali, da una pietas verso i miserabili della porta accanto, rivelandosi nel suo realistico atto di passione, di vita, e soprattutto di fede. Riguardando all’espressività della sua pittura, nella quale, aveva osservato Carrà, «gli influssi realistici assumono rapporti misteriosi», viene spontaneo chiedersi il motivo del mancato riconoscimento dell’artista fiorentino tra gli esiti più alti dell’espressionismo europeo. Il 13 maggio, per ricordarne il sesto anniversario della scomparsa, nello studio che fu dell’artista in via Toscanella (ora sede dell’ “Associazione Culturale Rosai” fondata da Fabrizio Gori con direzione artistica di Fabio Norcini), si è svolta la “Notte Rosai”: un susseguirsi di eventi come la presentazione del ‘ritrovato’ ritratto di Egidio, letture di pagine rosaiane interpretate da Marco Mazzoni e proiezione di un documentario sull’artista realizzato dallo scrivente. Tra gli invitati (estimatori, artisti, critici e storici dell’arte), anche Eike D. Schmidt, direttore degli Uffizi, Vittorio Sgarbi e la gallerista Francesca Sacchi Tommasi.

Via San Leonardo, anni ’50, coll. privata Operaio crocifisso, 1942, Musei Vaticani “NotteRosai”, da sin. Marco Moretti, Vittorio Sgarbi, Fabio Norcini, direttore artistico dello studio Rosai con il direttore degli Uffizi Eike Schmidt


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visibile parlare

eTatik

Papik

Roberto Giovannelli

Roberto Giovannelli, 2004, Porta frutta per gli amanti di Amaras, alzatina in maiolica perlacea con lustro rosso e oro in terzo fuoco, alzata h. cm 18x Ø 30 (calice) Spilla ricordo con le immagini di Tatik e Papik, recante in lingua armena l’iscrizione “Kharabakh”, anni ‘70 del Novecento

T

ra le immagini che nel tempo ho raccolto tra le pareti del mio studio, mi piace di tanto in tanto tornare a osservare la riproduzione di un disegno acquerellato in bistro, raffigurante L’invenzione della pittura (e, per estensione, delle arti plastiche), del quale individuai l’originale ottocentesco tra le carte del fondo Rossi Cassigoli, conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze. Quel foglio mi piacque per la vivacità con cui l’artista interpreta la favola tramandataci da Plinio il Vecchio, ove si narra della fanciulla Core e come ella delineasse sul muro l’ombra del suo amante, e come suo padre Butade, vasaio e coroplasta, modellasse poi quel contorno in rilievo con la creta. Ricordai lo stesso episodio disegnato dal Camuccini, dal Giani e da tanti altri, ma il foglio che avevo sott’occhio mi sembrò di particolare

l’ombra d’Arus

vitalità rispetto a quelli che mi erano noti, benché alcuni risolti con più raffinata perizia.1 Ho immaginato spesso di tornare, come da un lungo viaggio, tra le pareti dell’oscura fucina per vestire i panni di quel giovane amante e dar seguito all’antica vicenda disegnando – con la mano guidata da Amore – la figura di Core accanto alla mia (interazione di antichi e nuovi miti? Ecco, ecco l’incauto funambolo andar pericolosamente sospeso sul lago vischioso del sentimentalismo!). Ebbi la percezione di calcare per incanto quella scena qualche tempo fa, trovandomi in Artsakh (repubblica del Nagorno Karabakh), sull’altopiano ove è fieramente arroccata la città di Shoushi. In quei giorni, chiedendo fra gli amici del luogo di un ambiente ove poter disegnare e modellare, Arus, una ragazza dai tratti di una bellezza arcaica e dolcemente faunesca, cantante e suonatrice di duduk (detto anche tsiranapogh, letteralmente “flauto albicocca”), mi condusse nella bottega di un vasaio, suo lontano parente. Egli lavorava in una casupola situata ai margini del giardino di un palazzone d’eclettica impronta neoclassica, restaurato, assieme a quella, sulle rovine causate nel 1994 dalla tentata invasione delle truppe azere. In una stanza dell’umile dépendance, da qualche anno l’artefice aveva ripreso a far girare il pacifico tornio, e tra anfore e vasche di creta mi offriva lieta accoglienza. La luce che filtrava all’interno per una bassa finestra proiettava nitidamente l’ombra delle nostre figure sulle pareti, ove pareva rinnovarsi la favola di Corinto. Allora, invertendo finalmente le parti dei due leggendari amanti, fui io quello che, dopo aver trovato il giusto punto di vista, tracciò su di una parete con la brace il profilo del volto della fascinosa ragazza. Lo disegnai nel timore che l’originale

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dovesse all’improvviso svanire come un sogno o per qualche maligna fatalità; simulai così, come in una ritrovata età dell’oro, di reinventare la pittura. Dopo il gioco propiziatorio al quale Arus si era prestata, compiaciuta e divertita nel riconoscersi in silhouette su un tratto di muro, presi a modellare in sua compagnia, e con l’assistenza del “vasaio di Shoushi”, le forme ispiratemi da certi vasi plasmati dagli antichi artefici di quelle contrade. Germinarono sul tornio in fioriture d’argilla diversi schizzi ripresi dal mio taccuino. Uno in particolare si rifaceva a un’antropomorfa saliera, foggiata in guisa di donna connotata da una rotonda apertura nel grembo, dalla quale poter attingere il sale minerale, finissimo e asciutto; ma in quel grembo immaginai potesse raccogliersi, come un bouquet trapunto di caucasici fiori, soprattutto la prorompente femminilità delle donne armene, così diversa da quella di tante anestetizzate Barbie sfilanti sulle passerelle della moda occidentale. Raccolsi quel mazzetto nei versi dedicati da Archag Tchobanian alla grazia della sua amata: Tes yeux en sont les bluets humides, Le faisceau de ta chevelure en est le fin basilic, Ta bouche, l’œillet, tes joues, les roses odorantes, Ton sein, le lis, et ton front, le camélia. Un altro mio studio traeva spunto da una saliera raffigurante una donna in forma di cono, sulla quale pensai fosse stata ricalcata, dalla testa ai piedi, quella Carmencita fortunata protagonista, negli anni Settanta del Novecento, dei caroselli pubblicitari di una nota marca di caffè. Oltre che dalle surrealistiche portatrici di sale, ero rimasto affascinato dalle mitiche figure protettrici di


quella terra, Tatik e Papik, i progenitori, una nonna e un nonno, custodi della famiglia, emblemi della forza, del coraggio, dell’ingegno della stirpe armena, decimata in uno dei più atroci genocidi del secolo scorso. Noi siamo le nostre montagne Queste parole recitano Tatik e Papik da una vicina collina, passaggio obbligato verso la capitale Stepanakert, ove lo scultore Baghdasaryan nel 1967 le ha rappresentate modellando grandi blocchi di tufo in forma di case dagli umani sembianti. Ritrovo le loro poetiche, taumaturgiche radici catafratte alla forza del male, nelle massicce erte di pietra raffiguranti i profili contrapposti del volto di una donna e di un uomo, incastonate all’ingresso della Cella degli sposi nel monastero di Amaras presso il villaggio di Sis, ove visse e professò Mashtots, il monaco forgiatore dell’alfabeto armeno. Tatik e Papik sono a guardia e dominio del paesaggio che, fra selve rigogliose, gole e ispidi anfratti vulcanici,

si perde all’orizzonte. La tradizione locale vuole che davanti a loro, dopo la cerimonia nuziale, si rechi lo sposo salendo un ripido sentiero con la sposa in braccio, per deporre un mazzo di fiori, quale auspicio di lunga vita e fecondità. Lasciando i giovani e antichi sposi di quella collina, il mio pensiero torna ancora ai loro consanguinei di Amaras, torna agli arcaici profili e al varco fuligginoso che s’apre fra i silenti contrapposti sembianti dei due amanti: luci e ombre, pieni e vuoti (come avviene nell’ambigua alternanza delle figure di Rubin), senso misterioso di solitudine e di orgoglio generoso suscitati da una rinnovata contemplazione di volti viventi e di volti e membra affioranti dall’abisso dei secoli remoti.2

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NOTE 1 Questo reca in calce una postuma attribuzione al pistoiese Bartolomeo Valiani, ma non stupirei se qualche spunto stilistico affiorante nelle figure rivelasse la mano del suo conterraneo Niccola Monti. 2 Intorno alle mitiche figure dell’Artsakh, nel luglio 2014 allestii nel Museo d’Arte Contemporanea di Shoushi la mostra Duduk, Tatik e Papik, a cura di Luisine Gasparyan e Arusik Gasparyan, esposizione che, oltre a un nucleo di vasi ispirati ai soggetti indicati, comprendeva disegni e dipinti eseguiti nel corso del III “Simposio internazionale di scultura” realizzato nella stessa città dal Ministero della Cultura e della Gioventù del Nagorno Karabakh guidato da Narine Aghabalyan.

Roberto Giovannelli, 2014, modello in terra cruda per Saliera Tatik, cm 46x18 Roberto Giovannelli, 2014, studio per Saliera di Scoushi, grafite su carta, cm 35x25. Armando Testa, la Carmencita “Lavazza”, anni ‘60 del Novecento Roberto Giovannelli, 2012, Gli sposi di Amaras, studio per una porta nella città di Scoushi, gesso misturato su tavola e lamina oro, cm 68x53 Roberto Giovannelli, 2014, Casa per Tatik e Papik, modello in terra cruda, cm 38x20x20 Roberto Giovannelli, 2012, Gli amanti di Amaras, studio per una decorazione murale nella città di Scoushi, olio su tavola, cm 70x50


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L’arte in italia

Carmelo De Luca

LA FABBRICA DELLA BELLEZZA

SASSOFERRATO. DAL LOUVRE A San PIETRO

IL CAPRICCIO E LA RAGIONE

18 MAGGIO 2017 1 OTTOBRE 2017

8 aprile 2017 1 ottobre 2017

14 maggio 2017 29 aprile 2018

Firenze

Perugia

PRATO

Bargello

G

iusto riconoscimento alla produzione scultorea in casa Ginori, la mostra ospita squisiti capolavori creati in epoca primordiale che dialogano con opere dell’omonimo museo, raffronta bronzi, cere, terrecotte serviti da modelli, sfoggia elaborate forme raccolte dal Marchese Carlo presso botteghe dei maestri rinascimentali, barocchi e coevi, gusci embrionali per la nascente fabbrica Ginori. Il percorso espositivo vanta sei sezioni, excursus storico concentrato sulla trasformazione in porcellana di manufatti decisamente originali. Sormontata dall’apparato scultoreo temporale presente sulle tombe michelangiolesche in S. Lorenzo, la riproduzione del camino e della pudica Venere medicea rivaleggiano nelle sale espositive con uno straordinario Tempietto, donato da Carlo Ginori alla cortonese Accademia Etrusca. Edito da Mandragora, un valido catalogo supporta la mostra.

Complesso Benedettino di S. Pietro

Museo del Tessuto

L

O

a mostra onora uno squisito maestro del classicismo rinascimentale, le cui opere emanano luce limpida e morbida, impregnante composizioni sceniche levigate nella essenzialità compositiva. Proveniente dal Louvre, l’Immacolata Concezione candida, tenera, assorta, troneggia nelle sale con altri 17 suoi dipinti. In perfetta simbiosi, Pietro Perugino presenzia con alcuni lavori sperimentali dedicati alla purezza formale dell’immagine, tanto cara al Salvi insieme alla produzione raffaellita. L’originalità compositiva del maestro si comprende in mostra nella sua versione della Maddalena creata da Tintoretto, attenuando sembianze formose attraverso un linguaggio rappresentativo semplificato. Nelle sale non mancano opere eccelse, a supporto di quella originalità creativa tanto disquisita, ne sono testimonianza la soave Annunciazione della Vergine e Giuditta con la testa di Oloferne.

maggio al settecento, il percorso espositivo vanta prestiti provenienti dallo stesso Museo, Fondazione Ratti, Museo Stibbert, Gallerie degli Uffizi, prestigiose istituzioni. Stile e gusto raffinato proiettano il visitatore nel secolo dei lumi grazie a porcellane, dipinti, incisioni, abbigliamento, accessori moda, calzature, racconto di un’epoca celeberrima per evoluzione stilistica, spaziante dai capricci primordiali alla sobria eleganza neoclassica. Protagonista assoluto, il tessuto delle produzioni bizarre, chinoiserie, dentelles, revel rivive nei capi spazianti dai fastosi volumi gallici al morbido vestiario made in England. Ed è la seta a dialogare con squisiti oggetti in porcellana, eleganti gilet, giacche ricamate, la cui valenza artistica trova supporto nei libri coevi presenti in sala, testimoni delle mutevoli mode che hanno caratterizzato questo secolo.

IL MITO DEL POP Percorsi Italiani 13 MAGGIO - 8 OTTOBRE 2017

Pordenone

S

Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea A. Pizzinato

Silvia Pegoraro lo evidenzia con questa mostra dal forte taglio critico, che riunisce circa 70 opere, sceltissime e alcune mai prima esposte, di una ventina di artisti, che hanno rappresentato l'arte italiana del Pop con assoluta originalità. Si è spesso sostenuto che gli artisti italiani non fecero sostanzialmente altro che “copiare” gli americani. Roma è infatti uno dei due punti di irradiazione della Pop Art di casa nostra: qui, il fenomeno della “dolce vita”, legato al “boom economico”, dà il via a un profondo rinnovamento del costume italiano. Nel dopoguerra, Roma è un luogo di incontri e dibattiti di livello internazionale. Di qui passano molti grandi artisti europei e americani. Si parla, si discute, si crea.

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YTALIA 2 giugno 2017 1 ottobre 2017 Firenze Forte Belvedere

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pulenta collettiva sulla italica arte contemporanea, l’evento fiorentino si appoggia a complessi architettonici dove storia e creatività odierna convivono in perfetta

HENRY MOORE graphic works 1967-1979 20 MAGGIO 2017 15 LUGLIO 2017 LIVORNO Guastalla Centro Arte di Silvia Pierini

C

on una selezione di opere grafiche di Henry Moore, considerato il più celebre scultore inglese del ’900, la galleria Guastalla inaugura

simbiosi, donando al capoluogo toscano quello spirito di identità nazionale in un mondo globalizzato. Neo-avanguardie, post-moderno ed evoluzioni varie rivivono nell’operato di Mario Merz, Giovanni Anselmo, Jannis Kounellis, Luciano Fabro, Alighiero Boetti, Giulio Paolini, Gino De Dominicis, Remo Salvadori, Mimmo Paladino, Marco Bagnoli, Nunzio, Domenico Bianchi ed altri nomi illustri, il cui operato genera riuscito dialogo tra passato prossimo, presente, ambienti storici ospitanti le loro opere, basti menzionare la sede madre espositiva di Forte Belvedere. Insomma, un museo diffuso in centro città che trova nella triade energia, pensiero, bellezza, compiuto messaggio comunicativo. La produzione creativa degli artisti in mostra esterna valori formali accomunanti diversità concettuali, tecniche, materiche. Cosi la bellezza, squisitamente formale ma espressiva, assurge a magico elemento di convergenza tra percettibile ed invisibile, fisico e spirituale, squisito messaggio culturale evocante una concettualità classica che bypassa storia, tempo, stili, rispettando l’individualità creativa di ogni maestro.

una nuova esposizione. In tempi di Brexit, è significativo sottolineare il legame culturale che questo grande artista inglese ha avuto con l’Italia sin da prima della guerra e con la Toscana, a partire dagli anni ’60. Henry Moore ha risieduto a lungo in Versilia, dove si stabilì nel 1965, anno in cui acquistò una casa a Forte dei Marmi per meglio seguire la lavorazione delle sue sculture in marmo, pietra e bronzo nei laboratori di Querceta e di Pietrasanta. Ed è proprio in Versilia in quel periodo, che si potevano incontrare nomi come Carrà, Longhi e Marino Marini. Con quest’ultimo in particolare, Moore aveva stretto un’amicizia legata dalla ricerca di quegli elementi primitivi dell’arte nella cultura toscana che lo portavano allo studio degli Etruschi, del Romanico e del Rinascimento. Nella mostra sono esposte 25 opere grafiche originali, suddivise tra acqua forti, acqua tinte e litografie, realizzate tra il 1967 e il 1979. Ricorrente il tema della figura sdraiata e seduta che assume a volte connotazioni più figurative, gli studi di madre con bambino e le scene di giovani studenti che svolgono i compiti a casa.

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mi, barocchi, pop, surreali, maestosi, dominati da un sottile equilibrio tra sacro ed irriverente, evidente nella arcinota Nativity presente nelle mostra veneziana dedicata all’artista. Qui, oltre 100 scatti ne ripercorrono la sfolgorante carriera, tra cui spicca la serie New World dedicata ad una gioiosa figura umana riflessiva verso tematiche chiamate anima, natura, paradiso, rivaleggianti con la sua primordiale produzione protesa alla supremazia delle immagini iconiche nel settore moda e star system. Gli esordi sono impregnati da benessere, superfluo, appagamento insiti nell’icon-style, sottile file rouge dei lavori ammantati da colori eccentrici e lacche lucide. La conversione in Cappella Sistina orienta Lachapelle verso una teatrale monumentalità michelangiolesca, evolvente nelle serie fotografiche dominate dalla vanitas e dai paesaggi presenti in mostra con il ciclo Gas Station and Land Scape. Insomma, Venezia propone al grande pubblico un sensibile uomo riflessivo, ispirato dall’umanità sempre in bilico tra gioie terrene, natura e metafisico.

co splendente, questa tonalità racchiude in verità sfumature esternanti nella pittura e scultura sensazioni, realtà, naturalismi incredibilmente autentici. In effetti esistono molteplici black apportanti nell’arte degno contributo, ne sanno qualcosa le tonalità, cosiddette, di mummia, fumo, ombra, vite, giusto per citarne qualcuna, imprimenti all’opera carattere e realismo disarmante. L’esposizione fiorentina racconta un percorso espositivo-riflessivo su un colore universale grazie all’operato italico contemporaneo. Così tagli spaziali di Lucio Fontana rivaleggiano con catrami informali elaborati da Alberto Burri, Mario Ceroli e la scultorea arte povera tiene testa a Jannis Kounellis, reinterpretazioni classiche create da Lorenzo Puglisi compensano allegorie sontuosamente opulente di Iacopo Raugei e magie primitive leggibili in Omar Galliani. Il percorso espositivo trova degna apoteosi negli abiti scultura, rigorosamente in nero, creati dall’arcinoto inquilino Roberto Capucci, architetture aeree fatte di sinuosi tessuti e originale creatività.


Legati da una cintola. L’Assunta di Bernardo Daddi e l’identità di una città 7 SETTEMBRE 2017 14 GENNAIO 2018 PRATO Museo di Palazzo Pretorio

U

n simbolo religioso e civile, fulcro delle vicende artistiche di Prato ed elemento cardine della sua identità: la Sacra Cintola, la cintura della Vergine custodita nel Duomo che per secoli è stata il tesoro più prezioso di Prato, sarà al centro del nuovo allestimento del Museo di Palazzo Pretorio. Un tema, quello della reliquia pratese, che consente di accendere i riflettori su un’età di grande prosperità per Prato, il Trecento, a partire dalle committenze ad artisti di primo ordine come lo scultore Giovanni Pisano e il pittore Bernardo Daddi, che diedero risonanza alla devozione. L’origine del culto della Sacra Cintola affonda le sue radici nel XII secolo; la leggenda vuole che la cintura, consegnata a San Tommaso dalla Madonna al momento dell’Assunzione, sia stata portata a Prato verso il 1141 dal mercante pratese Michele e da questi donata in punto di morte, nel 1172, al proposto della pieve. Fra il Duecento e il Trecento la reliquia assurse al ruolo di vero e proprio segno dell’elezione della città, santificata da una così preziosa vestigia miracolosamente giunta dalla Terra Santa, e

divenne motore delle vicende artistiche pratesi. La pala di Bernardo Daddi commissionata nel 1337-1338 è una delle immagini più prestigiose di tutto il Trecento dedicate all’Assunta e al dono miracoloso della Cintola all’incredulo San Tommaso. L’allestimento del Pretorio consentirà di tornare ad ammirare nel suo complesso la monumentale macchina dipinta dal Daddi, riunendo i suoi componenti che originariamente comprendevano una doppia predella con la storia del viaggio della cintola e del suo approdo a Prato (questa custodita nel Museo) e la parallela migrazione del corpo di Santo Stefano da Gerusalemme a Roma, perché si riunisse a quello di San Lorenzo (custodita nei Musei Vaticani), e una terminazione con la Madonna assunta che cede la Cintola a San Tommaso (conservata al Metropolitan Museum di New York). Anche il Duomo di Prato sarà parte integrante di un percorso che permetterà ai visitatori di entrare nella cappella della Cintola, abitualmente preclusa alla visita, e ammirare il ciclo di affreschi realizzati da Agnolo Gaddi.

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museo

secolar disfida

le collezioni dell'Accademia Valdarnese del Poggio Elena Facchino

Il chiostro quattrocentesco di San Lodovico, da cui si accede al museo. (Fotografia di Massimo Anselmi). Esemplare di Mammuthus meridionalis, rinvenuto nel Valdarno superiore e risalente a 1.8 milioni di anni fa. (Fotografia di Massimo Anselmi).

N

ata con sovrano rescritto nel 1805 a Figline Valdarno, l’Accademia Valdarnese del Poggio prese il via dalla volontà di Giacomo Sacchetti, professore di logica e metafisica all’Università di Pisa. Il gruppo di intellettuali che ne vollero la nascita la dedicarono all’umanista Poggio Bracciolini – in memoria dei conversari che egli teneva nella sua villa di Terranuova attraverso la sua Achademia valdarnina – ma nello stesso tempo con l’aggettivo "valdarnese" ne vollero sottolineare la missione territoriale, ovvero lo sviluppo socio-culturale ed economico del Valdarno superiore. L’istituzione fu da subito un laboratorio aperto alle innovazioni e al progresso, anche quando dovette trasfe-

rirsi, nel 1819, a Montevarchi in cerca di un contesto politico più favorevole in seguito al periodo napoleonico. Insieme ad essa si trasferì, ovviamente, anche il patrimonio che stava costituendosi: un primo nucleo di fossili provenienti dal Valdarno che anche Georges Cuvier, padre della paleontologia moderna, aveva studiato e classificato negli anni figlinesi, e una prima raccolta di libri in cui confluirono anche i volumi antichi, di natura quindi prevalentemente religiosa, dei limitrofi conventi soppressi dai napoleonici. L’attività proseguì dunque a Montevarchi e vide ben presto l’apertura al pubblico del Museo Paleontologico (1829), l’avvio della rivista istituzionale Memorie Valdarnesi (1835), l’in-

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cremento e lo studio delle raccolte, grazie anche a una apertura alla partecipazione capace di coinvolgere dall’intellettuale al contadino. Ma anche, nel campo dell’educazione, l’istituzione di scuole di mutuo insegnamento, di cattedre agrarie, della biblioteca circolante, oppure la promozione di attività economiche legate al mondo bancario, al mondo agricolo o minerario, o ancora nel sociale l’attivazione di borse di studio, ospedali o l’invio dei bambini scrofolosi alle colonie marine. Numerosi i soci di levatura nazionale, tra cui anche Giosuè Carducci, Alessandro Manzoni, fino a Isidoro Del Lungo o Giovanni Capellini, solo per citarne alcuni. Oltre alla crescita delle collezioni fossili e librarie, in anni più recenti si è assistito allo sviluppo del settore editoriale con collane monografiche legate al territorio, all’istituzione di una Audioteca, che conserva oltre diecimila dischi in vinile che ripercorrono la storia della musica, fino alla apertura di una nuova Sezione Archeologica e un Laboratorio di restauro interno. Ne emerge, quindi, un polo culturale e un laboratorio progettuale di alto livello, talvolta pionieristico e visionario, con contatti internazionali e continui rapporti con il mondo universitario e istituzionale, perfettamente calato nel territorio e in stretto dialogo con quello, e proprio per questo consapevole delle sue esigenze sociali ma anche delle sue potenzialità culturali ed economiche. Oggi l’Accademia continua a perseguire la sfida statutaria con rinnovato slancio e consapevolezza. Negli ultimi dieci anni si è assistito a un passaggio storico in seno all’istituzione.


Un restauro strutturale alla sede e al patrimonio fossile, protrattosi per circa sette anni, ha permesso alle collezioni di potersi finalmente distendere in uno spazio notevolmente più ampio e modernizzato. In particolare, per il Museo Paleontologico è stata adottata la scelta forte di abbandonare l’impianto ottocentesco a favore di un allestimento basato sul connubio tra rigore scientifico e efficacia divulgativa; esso espone una selezione dei 2.600 fossili valdarnesi e propone approfondimenti tematici con l’uso della multimedialità e di contestualizzazioni testuali e grafiche chiare e ovviamente tradotte in inglese. L’Accademia e i suoi settori (editoria, Museo, Biblioteca, Audioteca, Centro Studi e Documentazione del Valdarno Superiore) hanno riaperto le sue porte al pubblico nel 2014 e questo ha reso e rende possibile finalmente sviluppare le potenzialità dell’istituzione culturale più antica e composita del Valdarno. Potenzialità che hanno due elementi basilari: la territorialità e la partecipazione. Le collezioni, in particolare fossili e archeologiche, raccontano il territorio: il suo sviluppo naturale, il suo paesaggio, l’uomo che lo ha abitato. E lo raccontano partendo dalle sue origini, che non tenevano e non tengono tuttora conto, nel paesaggio e nella geologia, di confini amministrativi costrittivi e imposti. La progettualità messa in campo non prescinde mai dall’obiettivo di far maturare, soprattutto nelle giovani generazioni, un senso di identità e di appartenenza che sia base per quello di responsabilità da adulti. Alle numerose attività didattiche si aggiunge, ad esempio, la campagna associativa "Piccoli Grandi Soci". Rivolta ai minori di 14 anni, mira proprio a questo scopo: attraverso la partecipazione dei più piccoli alle attività, compresa la programmazione, i "Piccoli Grandi Soci" si affezionano. E sappiamo tutti quanto sia importante il ‘voler bene’ per sviluppare il senso della cura e quindi della responsabilità. L’Accademia si basa oggi più che mai sulla partecipazione, complice la natura giuridica dell’ente. La base sociale è coinvolta, chiamata a proporre attività, coadiuvare il personale e il Consiglio, mettere a disposizione il proprio tempo o le proprie competenze per il miglioramento e lo sviluppo dell’istituzione. C’è spazio di ascolto e co-progettazione insomma, perché il patrimonio più prezioso è

quello umano, non solo quello fossile o librario. Il dialogo con il territorio e con i suoi soggetti è costante: con le scuole, gli enti pubblici, le altre realtà museali, le associazioni, quelle di categoria, gli istituti di credito, le imprese, oltre che i singoli abitanti. È un dialogo che vuole sviluppare progetti condivisi e che, proprio per questo, abbiano maggiore possibilità di efficacia. Rispetto a tali interlocutori, oggi, l’unico approccio possibile è quello imprenditoriale, organizzato, capace di garantire costanza pur nella secolare anima volontaristica. Sfida nella sfida. Sempre grazie a tale natura giuridica, l’Accademia riesce a mettere in campo con agilità un grande potenziale di fundraising, che da un paio di anni

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si sta traducendo in sponsorizzazioni fidelizzate, in aumento degli introiti da 5x1000 e altre forme di sostegno economico utili a reggere il costo della struttura. L’obiettivo è dipendere sempre meno dai contributi pubblici, sia come risposta resiliente rispetto alla crisi, sia come strumento di difesa di una autonomia istituzionale secolare. Questo non significa dispensare gli enti pubblici dalla loro fetta di responsabilità; significa piuttosto crescere in consapevolezza dei propri mezzi e sapersi adattare al contesto storico e territoriale. Non dobbiamo dimenticare infatti che il potenziale delle istituzioni culturali è direttamente proporzionale al rapporto con il territorio.

Il nuovo allestimento del Museo Paleontologico. (Fotografia di Massimo Anselmi). La Sala Grande dell’Accademia, in cui si trova il Fondo Antico della Biblioteca Poggiana. (Fotografia di Massimo Anselmi).


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storia

dissolvenza piaghe bibliche a Volterra e in Toscana intorno al 1850 Paola Ircani Menichini

Henry Peach Robinson (1830-1901), Fading Away (Dissolvenza), 1858, Bradford (UK),The Royal Photographic Society Collection at the National Media Museum. Vincenzo Cabianca (18271902), Gente di campagna: le filatrici, 1862, Collezione privata.

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a parola italiana “dissolvenza” è la traduzione più appropriata del titolo inglese “fading away”, dato a una fotografia scattata da Henry Peach Robinson al capezzale di una fanciulla malata di tubercolosi nel 1858 (vedi). Ci sembra adatta, inoltre, a riassumere alcuni avvenimenti accaduti a Volterra intorno alla metà dell’Ottocento, in tempi che furono “di piombo”, come si potrebbe dire usando ante litteram un’espressione degli anni ‘60-’70 del secolo XX. Ricordano i fatti le Memorie ma-

noscritte del convento francescano di San Girolamo1, scritte, come altre del genere, per tramandare le vicende di un ambiente unico e irripetibile per chi vi dimorò. Qualche nota di introduzione. Il convento suddetto era stato fondato nel 1445 presso il Velloso nella campagna volterrana per volontà del Comune, sull’onda della predicazione di San Bernardino da Siena e dell’espansione in Toscana del ramo dell’Ordine Francescano dell’Osservanza. Essendo poi l’edificio costruito con buona struttura e in un luogo salubre, aveva condotto nei secoli una tranquilla esistenza ospitando una comunità religiosa piccola ma autosufficiente, simile a quelle desiderate dal Poverello quando era vivente. Qui, circa una ventina di frati si erano impegnati nel portare avanti il culto alla Vergine e ai santi francescani, tramite la liturgia, la predicazione e la “cerca”, cioè la questua in città e in campagna. Alcuni di loro avevano condotto anche una vita virtuosa, altri erano stati dei famosi “lettori” (professori) di teologia, in quanto nel luogo si trovava uno Studio per i chierici religiosi. I beati erano rimasti nelle memorie liturgiche e molti dei sapienti erano giunti a ricoprire le più alte cariche dell’Ordine. Gli avvenimenti di cui parliamo e nei quali San Girolamo ebbe la sua piccola parte, appartengono al tempo della grande miseria che attraversò l’Europa intorno agli anni ’50 dell’Ottocento. Di fatto, sotto forma di malattia o carestia, colpì la popolazione volterrana per almeno tre volte, lasciando una lunga scia di lutto. La prima volta è ricordata nelle Memorie il 12 giugno 1851 quando si parla di un morbo miliare sviluppatosi a maggio

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in Toscana e concentratosi alla Nera presso Volterra, dove in una casa uccise “tre forti giovanotti” in poche ore. Si trattava di una febbre da infezione associata a eruzioni cutanee simili alla granella del cereale miglio, da cui il nome miliare. I religiosi di San Girolamo prestarono assistenza spirituale (“amministravano sagramenti, consolavano, confortavano”) proprio nella parrocchia della Nera, dove abitualmente celebravano le messe festive come cappellani. Per l’opera svolta ebbero “encomi grandissimi” non solo da “quel popolo”, ma dai medici, dal prefetto della città e dal vescovo. La seconda volta la miseria si presentò nel 1854, anno successivo a quello in cui la raccolta dai terreni agricoli risultò assai scarsa e quindi “poco fu il grano, pochissimo l’olio e quasi punto il vino”, come si scrive. Sebbene nel passato il governo granducale avesse sempre contenuto l’emergenza della carestia, in questa occasione esso applicò rigorosamente i principi della libertà di commercio e di concorrenza di modo che gli speculatori ebbero carta bianca e i cereali arrivarono sui mercati a prezzo altissimo. “Tutto era caro” – annota infatti il cronista di San Girolamo. Il grano era venduto a 32 e 33 lire il sacco, il granturco a L. 20 il sacco, il vino a L. 40, e 50, 60 la soma 2. In aggiunta la città fu stretta dalla disoccupazione e “pochi erano i lavori, la popolazione di molta, e perciò gran poveri”. I più miseri furono costretti a mendicare e fino a seicento persone al giorno si presentarono alla porta del convento. I frati dettero quel che fu possibile, ma poi non ressero tanta pressione e concessero l’elemosina solo una volta la settimana.


La terza circostanza in cui la malattia giunse a Volterra fu al tempo del colera asiatico del 1855, innescatosi dai porti di Livorno e di Viareggio nel luglio 1854 e durato nella regione fino a tutto il dicembre dell’anno seguente. Anche allora i padri di San Girolamo furono chiamati a coadiuvare i parroci nell’assistenza ai malati ed essi andarono “volentieri” a Montescudaio, Guardistallo, Bibbona e Pomarance “dove stettero finché ci fu il bisogno”. Inoltre, in alternanza con i padri Cappuccini, prestarono servizio in città nel lazzaretto costituito nell’ex convento di Santa Chiara. Vi si recarono dai primi di agosto fino circa al 20 settembre. Il 25 dello stesso mese ricevettero un attestato di riconoscenza da parte del rettore dello spedale cittadino. Riguardo a queste testimonianze di elogio, il cronista, che le cita nelle Memorie, ne sottolinea l’importanza per il convento a motivo del fatto che allora si sentiva forte la pressione dei mutamenti in corso nella società italiana. La politica dei governi e dei movimenti rivoluzionari provocavano continue ansie alla Chiesa e i “religiosi regolari” erano oggetto di vessazioni. La popolazione più povera,

poi, era indotta a credere che i frati e le suore fossero una delle cause principali della sua miseria. Da qui il desiderio di essere stimati con gli attestati di benemerenza. Il cosiddetto “vento della storia” d’altronde stava spirando in una direzione che in prospettiva non appariva per nulla favorevole. Poco prima delle epidemie e della carestia, la crisi del 1848-1849 e l’entusiasmo per la guerra di indipendenza piemontese avevano alimentato l’animosità e lo sconcerto. Un esempio – come le Memorie raccontano – fu quando in Toscana venne istituita la guardia civica e le relative commissioni raccolsero sussidi per il suo mantenimento. Di fatto, il denaro venne corrisposto anche dai frati di San Girolamo, per nulla liberali, ma “considerando esser cosa pericolosa dare una negativa”. Allo stesso modo, il 28 giugno 1848, per festeggiare la presa di Peschiera da parte dei piemontesi, gli stessi parteciparono al Te Deum di ringraziamento in cattedrale e alla processione in città, non credendo “prudenza rifiutare l’invito, perché se non avessero accettato correvano pericolo di qualche vessazione”. Fuggito poi Leopoldo II dalla Tosca-

na, i rivoluzionari di Volterra, per uniformarsi alle altre città, vollero piantare un albero della libertà in Piazza, prendendo un leccio proprio dal bosco di San Girolamo. I frati lo concessero perché il 26 febbraio 1849 “una turba di popolaccio” arrivò al convento, chi cantando, chi urlando, “chi bestemmiando”, chi gridando come matti: viva la libertà! Entrata nell’edificio, aveva avuto da bere e da mangiare gratis; andata nel bosco, aveva atterrato un leccio “dei più belli” e lo aveva portato via con tutte le radici. Dopo di che aveva provato ad alzarlo sulla piazza cittadina, fra gli evviva, ma non vi era riuscita. Aveva però avuto successo al secondo tentativo, con un albero più piccolo preso dallo stesso bosco. Nei giorni successivi l’entusiasmo per la prodezza si era sfogato con dispetti, sfregi e iscrizioni infamanti sul muro della chiesa. Nella notte dell’ 8 marzo, poi, alcuni ignoti avevano attaccato il fuoco ad un portone del convento. Non erano mai stati identificati. Sono solo esempi dello sconcerto in quell’epoca di “dissolvenza” e di metamorfosi. Il medesimo anno fatale la politica mutò ancora, quasi come un “coup de théâtre”, con un improvviso e sorprendente rivolgimento. Infatti nel 1849 gli austriaci conseguirono importanti vittorie nel Nord Italia e per difendersi il governo provvisorio toscano impose una leva forzata intesa a mandare uomini in guerra, non esclusi i giovani religiosi. Così, il 12 aprile tre chierici e due terziari di San Girolamo si recarono a Volterra per la visita medica. “Ma né il medico né altri sapevano” – scrive il cronista – che lo stesso giorno il popolo fiorentino “toglieva l’anarchico” e ristabiliva sul trono il granduca Leopoldo II. Quando giunse la notizia in città, ci fu subito un gran scampanio a festa dappertutto e pure nelle campagne e a San Girolamo si suonarono “bellissimi doppi”. Contemporaneamente in Piazza fu bruciato il povero l’albero della libertà, con “maggiori evviva” – dicono le Memorie – di quando vi fu innalzato. Dieci anni dopo questi avvenimenti il granducato concludeva definitivamente la sua esistenza e nel 1860 la Toscana si univa al Regno di Sardegna. Note 1 Archivio Storico della Provincia Francescana dei Frati Minori di Firenze, Ex convento di San Girolamo di Volterra, Libro E, pp. 61, 62, 63, 64; Libro F, pp. 12, 72, 73, 90. 2 Antiche misure del granducato: un sacco = litri 73,089; una soma = litri 91,168.

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Silvestro Lega (1826-1895), Gli sposi novelli, 1865 circa, Collezione privata. L’ex convento di San Girolamo di Volterra, 2013. Fu lasciato dai frati Minori Osservanti nel 1992.


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memorabilia

giro

vagando Nadia

mia

Strenkowski Vania Di Stefano

Nadia giovanissima La Compagnia in viaggio (America del sud)

S

ono esistite persone reali mai incontrate eppure presenti e quasi tangibili per virtù di racconti altrui e di foto. Dolce, malinconica, frammentaria fu la narrazione udita, che trasfigurò la realtà e prima di tacere per sempre mi consegnò un mito fragile quanto la memoria che ora lo detiene. Domani resteranno misteriose e mute le immagini con volti e luoghi lontani, perduti come il tempo cui si riferiscono. Di tata Nadia rimangono due gran-

di album con 862 foto e cartoline. Nel giugno 1955 li spedì da New York al mio avo materno Titomanlio Manzella dentro l’ultimo dei pacchi che dopo il 1945, tramite la Russian Children’s Welfare Society, periodicamente ci mandava, colmi di vestiti e regali: una prova d’affetto amicale, ma anche un contributo al drammatico bilancio familiare postbellico. Nadja Beščetnikova (Pavlovsk 1892), è una bellissima donna, attrice girovaga sposata al regista e scenografo Sergej Vasilevič Strenkovskij (Mosca 1886 - New-York 1939), che negli anni Venti e Trenta lavorò per numerose Compagnie Teatrali (Isaac Duvan Torzoff, Tatiana Pavlova, Marta Abba e altre). Pagina dopo pagina, dall’Avana al sud America e all’Italia, le immagini, singole tessere d’un mosaico dissolto, ricreano scene del palcoscenico della vita e dell’arte. Fra

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città, campagne, foreste, montagne, oceani, ma anche fra donne, uomini, bambini, animali, ritrovi i suoi sorrisi, il suo stupore, le sue curiosità, la vicinanza del marito Sergej, di colleghi e persone care come la russa Elfride Neuscheler sposa di Titomanlio Manzella, autore di una commedia, Pierrot sui tetti, che dal 18 febbraio 1929 Anton Giulio Bragaglia diresse nel Teatro degli indipendenti in Roma. Quel sipario, salvifico come molti altri sparsi per un mondo funestato dalla crisi, temperò l’angoscia di un’epoca nel cui ventre maturava lenta l’apocalisse. Sui palcoscenici prendeva corpo un universo parallelo, a suo modo benefico per la capacità di far sorridere, piangere, appassionare, narrando speranze, illusioni, follia, gioie, dolori in cui terapeuticamente riflettersi come in un magico specchio capace di farti ritrovare una via di fuga liberatoria.


Attori e personaggi convivevano estranei e solidali allo stesso tempo, ma soprattutto complici perché fatti gli uni per gli altri in una rincorsa di reciproco adattamento e resi vivi da una stimolante dimensione artistica oggi minoritaria davanti alla finzione del moderno teatro televisivo: un canile autoreferenziale dove si abbaia a soggetto con risultati penosi. In questo panorama si alimentò anche l’inquietudine identitaria di Titomanlio Manzella, sempre teso a

inventarsi pseudonimi e vite parallele attraverso gli inesistenti autori dei Cinque atti unici editi a Roma nel 1946 (il primo, La madre, tratto da una sua novella del 1935 più volte ristampata, ebbe anche un’edizione radiofonica). Dolce Nadiuscia, anche grazie a te e alla tua arte il palcoscenico del Novecento m’appartiene tutto e mi scalda il cuore, a dispetto della folle malvagità dei mortali coltivatori di morte che lo devastarono.

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La Compagnia in viaggio sul piroscafo Holsatia Nadia fotografata da Otto Dítě (Praga) Nadia con Tintomanlio Manzella, sua moglie Frida Neuscheler e i figli Igor, Myriam, Mirco (Catania c. 1930) La compagnia teatrale di Isaac Duvan Torzoff al teatro Payret dell’Avana (1923?) Itinerario della Compagnia di Duvan Torzoff in America centro-meridionale (primi anni venti del XX secolo)


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STORIA

n intrepido

u o m o nel pallone

V i n c e n z o L u n a rd i a e ro n a u t a l u c c h e s e Marco Majrani

Il pallone di Lunardi, a bordo della navicella con il suo cane (incisione stampata a Roma). Francesco Guardi, Ascensione della mongolfiera del conte Zambeccari. (L’episodio avvenne il 15 aprile 1784).

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emo propheta in patria: così recita uno dei più noti motti latini. Un detto che si adatta perfettamente alle vicende che contraddistinsero l’esistenza di Vincenzo Lunardi, personaggio di grande fama, apprezzatissimo in mezza Europa e vituperato al limite del dileggio in Italia e nella sua città natale, Lucca! Il celebre aeronauta visse a cavallo tra due secoli, negli anni della Rivoluzione Francese, e toccò vette straordinarie di popolarità in Inghilterra, Spagna e Portogallo, esplorando in pallone l’ “inviolato impero dei fulmini”, come alcuni all’epoca definivano il regno quasi sconosciu-

to dell’atmosfera. La storia della sua vita è un’avvincente ed emozionante successione di eventi, ora di trionfo e di successo, ora di grande delusione e fallimento, in ogni caso mai banale. Come il raggiungimento degli oltre settemila metri di quota, “là dove più non volano gli uccelli”. Ma procediamo con ordine. Lunardi nacque a Lucca l’11 gennaio 1754 (e non 1759, come affermano tutte le biografie) dal lucchese Giuseppe Lunardi e da Caterina Pardocchi, originaria di Castiglione Garfagnana. La sua casa natale è tuttora esistente ed è situata in via Rosi (un tempo Via dei Borghi), angolo via dei Fossi. La sua infanzia non fu facile. Il padre si uccise in seguito a rovesci finanziari quando Vincenzo aveva solo nove anni. La madre si ritrovò con sei figli, impossibilitata a crescerli, tanto che affidò il futuro aeronauta al nobile cugino Gherardo Compagni, il quale si fece carico dell’educazione e del mantenimento del bimbo fino alla maggiore età, portandolo con sé in oriente, in India e forse anche in Indonesia, e poi alla corte di Napoli, avviandolo a una brillante carriera militare. Vincenzo, dotato di grandi capacità e intelligenza, già molto giovane divenne ufficiale del Regno Borbonico e segretario del Principe Aquino Caramanico, che svolgeva incarichi di alta diplomazia per il Regno di Napoli presso la corte del Re di Francia e successivamente, dal 1782, a Londra alla corte di Giorgio III. Grazie al periodo trascorso con il Caramanico, Lunardi ebbe l’occasione di frequentare gli ambienti di élite dell’epoca. Fu proprio a Londra, a quel tempo vera capitale mondiale, città nella quale le idee innovative veniva-

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no sempre premiate, che Lunardi, sull’onda dell’eco delle imprese che i primi aeronauti avevano compiuto a Parigi, per la prima volta al mondo vincendo la forza di gravità e volando con una mongolfiera il 21 novembre 1783, diede vita al suo immaginifico progetto di diventare il primo uomo a volare in pallone sul suolo inglese, di fatto rinunciando ad una brillante carriera diplomatica per inseguire un sogno improbabile. Dopo aver superato infinite difficoltà burocratiche ed economiche, il 15 settembre 1784, Vincenzo Lunardi riuscì a coronare la sua “lucida follia” decollando a Londra dinanzi ad una folla immensa ed osannante a bordo di un pallone da lui stesso progettato e fabbricato. La sua popolarità divenne immensa, al punto che la sua effigie era ritratta su quadri, stampe, medaglie, stoviglie e oggetti di uso comune, la gente lo riconosceva per strada e lo salutava con grande ammirazione. Lunardi non si fermò dopo il primo trionfo, ma effettuò in Inghilterra e Scozia numerosissimi voli, 13 o forse 14, stabilendo diversi primati per l’epoca, volando sopra il mare, veleggiando sospinto da venti a quasi 100 km/h e per oltre 200 km e raggiungendo altissime quote. Nel 1788 tornò in Italia. Nella natale Lucca venne dapprima accolto trionfalmente, ma poi, dopo un fallito tentativo di esibizione programmata per il 17 giugno 1788, fu accusato dai suoi stessi concittadini di essere un truffatore, dovette di fatto fuggire per non essere incarcerato o, peggio, linciato. Si recò quindi a Roma, dove collezionò un secondo, bruciante insuccesso, che gli valse ulteriori accuse e dileggi e tornò a Napoli, alla corte di Ferdi-


nando IV di Borbone, che lo aveva in grande simpatia e considerazione fin dai tempi in cui era diventato uno dei suoi più giovani ufficiali di artiglieria. Finalmente a Napoli riuscì ad effettuare un magnifico volo, che lo vide però ricadere in mare, dove venne salvato da alcuni pescatori. Ferdinando IV lo mandò a Palermo per fare dei nuovi voli (uno fallito e uno con successo) e, dopo un secondo volo a Napoli, in occasione del quale superò i 7.000 metri di quota, nel 1792 gli impose di recarsi presso la corte spagnola, con la quale era strettamente imparentato (Carlo III di Spagna era suo padre). Di fatto fu un esilio, perché l’aeronauta non tornerà mai più in Italia. A Madrid Lunardi effettuò alcuni voli con grande successo nel 1792 e nel 1793, quindi si trasferì a Lisbona, compiendo un altro magnifico volo nel 1794, per poi ritornare in Spagna, dove volò per l’ultima volta a Barcellona il 5 novembre 1802. Tornato in Portogallo, Vincenzo Lunardi morì a 52 anni di età a Lisbona, dove è tuttora sepolto, presso il convento dei frati Cappuccini, il 31 luglio 1806, a causa di una malattia acuta, forse una polmonite. La figura di Vincenzo Lunardi ha ottenuto il giusto riconoscimento anche nella natale Lucca solo recentemente, a partire dal 2011, in seguito alla pubblicazione del saggio Vincenzo Lunardi Aeronauta, l’avventurosa esistenza di un eroe del Settecento, pubblicato dall’Editore LoGisma (www.logisma.it). La stesura della biografia si deve allo scrivente e a due suoi collaboratori, gli studiosi di storia locale Angelo Frati e Rita Mandoli Dallan, che hanno saputo scoprire le origini familiari dell’aeronauta, impresa nella quale si erano precedentemente cimentati, senza riuscirvi, illustri biografi e storici e studiosi dell’aeronautica, come Croce, Sardi, Boffito, Lazzareschi e Gardiner. La scoperta della genealogia di Lunardi e della sua casa natale ha portato all’apposizione di una targa e a una serie di eventi sia a Lucca (mostra a villa Bottini, conferenze, conio di una medaglia a cura della antichissima Zecca di Lucca) e sia a Castiglione

Garfagnana (intitolazione di una piazza e collocazione di targa commemorativa). Più recentemente, nel settembre 2016, Lucca ha ospitato un convegno internazionale al quale hanno partecipato studiosi venuti appositamente dal Portogallo, che stanno preparando un saggio sul soggiorno di Lunardi a Lisbona e sui suoi rapporti con il poeta e patriota locale Manuel Barbosa du Bocage. Già da una quindicina di anni a Lucca opera il “Vincenzo Lunardi Balloon Club”, che organizza eventi con mongolfiere e che dai primi anni del nuovo secolo ha collaborato alla realizzazione del raduno aerostatico di Capannori, sotto la conduzione di Massimo Raffanti, vulcanico ed entusiasta giornalista locale. Tutte queste iniziative sono finalizzate a dare la giusta collocazione a una delle figure più interessanti e meno celebrate dell’Illuminismo europeo, un uomo che fu intrepido, audace, innovatore e dotato di quel “germe di sana follia” che contraddistingue gli uomini che hanno determinato la storia della scienza. Lunardi infatti non fu solo un aeronauta, fu scrittore, inventore, stratega militare, fine comunicatore (parlava correntemente cinque lingue e dopo ogni impresa convocava quelle che possiamo considerare come delle “conferenze stampa” ante-litteram). Inventò, tra l’altro, i cannoni a retrocarica, adottati dalla potente marina portoghese. Fu anche un personaggio di grande

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fascino, adorato dalle signore, che indossavano abiti, cappelli e monili ispirati alla moda “au ballon”, che furoreggiò per molti anni dal 1784 in Francia e in Inghilterra.

Ritratto di Lunardi nell’uniforme degli artiglieri del Galles, dipinto da Nesmit e inciso su rame da Burke. Apparecchiatura di produzione dell’idrogeno e montaggio dei palloni, pubblicata su “Account of the first aerial voyage in England”. Dama di fine Settecento abbigliata secondo la moda “au ballon” che furoreggiava in Francia e in Inghilterra dopo le imprese dei primi aeronauti.


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personaggi

Francis Boott

il musicista americano studiò composizione a Firenze Massimo De Francesco

Franck Duveneck, Francis Boott. Art Museum di Cincinnati

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a Toscana è la seconda patria di una delle comunità angloamericane più numerose in Europa. Fra gli illustri rappresentanti troviamo il musicista americano Francis Boott, nato a Boston il 24 giugno 1813 da genitori inglesi. Nel 1831 si laurea alla Harvard University e comincia la sua carriera di compositore. Con lo pseudonimo di “Telford” pubblica le sue prime sei canzoni fino al 1846, l’anno in cui, dal matrimonio con Elizabeth Lyman, nasce Elizabeth. Rimasto prematuramente vedovo, il maestro parte per l’Italia e arriva per la prima volta a Firenze nel 1847 con la figlia ancora in fasce. Si iscrive nel Libro dei Soci del Gabinetto Vieusseux indicando l’indirizzo: piazza San Gaetano, l’odierna piazza Antinori. A Firenze Boott studia armonia e contrappunto all’Accademia Musicale (oggi Conservatorio di Musica Luigi Cherubini) con Luigi Picchianti, componendo musica da camera con la quale si esibisce a Palazzo Barberini a Roma, di cui è inquilino l’amico scultore americano William Wetmore Story. I viaggi di Boott fra le due sponde dell’Atlantico e della figlia sono numerosi. Nel 1857 parte nuovamente alla volta dell’Europa per stabilirsi a Firenze, dove segue l’educazione della piccola “Lizzie”. Boott diviene subito una presenza attiva della comunità anglo-americana e risiede per molto tempo nella Villa Castellani (villa Mercedes), sulla collina di Bellosguardo. Qui ospita illustri amici, fra questi Constance Fenimore Woolson, nipote di John Fenimore Cooper, e il romanziere Henry James, il quale si ispirerà alla dimora

dei Boott per descrivere la residenza di Gilbert Osmond nel romanzo Ritratto di Signora (1881). Francis e “Lizzie”, daranno nuovamente spunto a James per i personaggi di Adam e Maggie Verber, padre e figlia nel romanzo La Coppa d’Oro (1904). Il principale scopo nella vita del compositore è l’educazione della figlia, la quale studia l’italiano, il francese e il tedesco. “Lizzie” sviluppa un notevole talento artistico; frequenta gli ambienti dei pittori, fra i quali conosce l’americano Franck Duveneck (uno dei più noti pittori americani), da lei già incontrato in America. Si sposano nel 1886 e hanno un figlio: Franck Jr. Sua madre fonda a Firenze il “Charcoal Club” (il Club del Carboncino) istituito all’interno del Palazzo dei Pittori, nel viale Milton. Boott è autore di oltre 140 composizioni, fra canzoni e musica corale. Alcuni suoi successi sono canzoni ispirate da opere come Ring Out Wild Bells del poeta britannico Alfred Lord Tennyson e From The CloseShut-Window del poeta americano James Russell Lowell. Nel 1888 Francis Boott rientra con il nipote Franck Jr. nella natìa Boston a séguito della scomparsa della figlia, deceduta a Parigi il 22 marzo dello stesso anno a causa di una polmonite, e fu sepolta nel Cimitero degli Allori di Firenze. Il musicista continua a comporre fino alla sua morte avvenuta il 22 marzo 1904. Tutt’oggi la Harvard University conferisce l’annuale “Premio Boott” ai compositori laureatisi nel prestigioso ateneo. Il soggiorno di Boot a Firenze non era avvenuto per caso e non solo per ragioni turistiche. Infatti, dal 1853 nella Scuola Musicale insegna armonia e contrappunto un nome che

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ha raggiunto un’importante fama di didatta: Luigi Picchianti. (Era nato a Firenze il 29 agosto 1786 e qui morì il 19 ottobre 1864). La sua tecnica discendeva certamente da Disma Ugolini, anche lui docente di armonia e contrappunto, di cui era stato allievo. La città, in quel tempo, vive una fase di grandi trasformazioni. Per citarne una, nel 1860 la Scuola Musicale, annessa all’Accademia di Belle Arti (della quale Boott sarà insignito con il titolo di professore onorario) si era sviluppata assumendo la nuova denominazione di “Istituto Musicale”. Come puntualizza il musicologo Marcello de Angelis, autore de La Musica del Granduca (Vallecchi, 1978), «Boot era al corrente di questa importante evoluzione a Firenze nel settore della cultura musicale, che possiamo far cominciare dall’Ottocento per merito dell’illustre personalità di Luigi Cherubini, altro compositore fiorentino, prima della sua chiamata come direttore musicale del Conservatorio di Parigi. Non è un caso che Picchianti sia stato suo primo biografo». Il nome di Cherubini è legato a uno dei più celebri titoli del melodramma ottocentesco: Medea. «L’Istituto Musicale – Marcello de Angelis continua – aumentò di prestigio internazionale con la presenza, fra gli altri, di Luigi Ferdinando Casamorata e di Abramo Basevi, da considerare pionieri della moderna musicologia. A riprova della internazionalità di questo Istituto Musicale, basta sottolineare che Basevi, oltre ad aver scritto una delle prime biografie di Giuseppe Verdi, era in amichevole relazione di corrispondenza con Wagner».


l’della assassinio

STORIA

bella

Elvira

lE

a Toiano un mistero lungo settanta anni lvira Orlandini, quando il 5 giugno 1947 fu uccisa nel paese di Toiano, che contava circa duecento abitanti, era bella e giovanissima. I toianesi la consideravano con orgoglio la bellezza del villaggio. Fu uccisa in un giorno di festa per la religione e per la gente: niente lavoro nei campi. Il parroco del paese aveva mandato tutti a casa a preparare il pranzo dopo la messa delle 11, aspettando i paesani per l'appuntamento liturgico delle cinque del pomeriggio, quella processione non uscì mai dalla Chiesa del borgo. Qualche minuto prima si diffuse la notizia che la bella Elvira era stata uccisa. Le avevano tranciato la gola ai margini della strada che stava percorrendo per andare a riempire d’acqua le brocche ad una fonte a poche centinaia di metri da casa sua. Il suo corpo si era dissanguato in un boschetto. Da quel momento si aprirono le indagini guidate dal maresciallo dei carabinieri Leonardi, e da

quel momento stesso si indirizzavano verso un punto di non ritorno. I suoi genitori facevano i contadini, il padre possedeva un piccolo pezzo di terra ma la famiglia era numerosa: oltre a lei c’erano tre sorelle e l’Elvira, per aiutare la famiglia, era stata mandata a servizio a Pontedera, dove però era rimasta soltanto sei mesi. Toiano era uno dei paesi più aridi e primitivi d’Italia, dove l’acqua bisognava andare a prenderla alla fonte con i secchi e con le brocche a un chilometro di distanza, senza la luce elettrica e con un solo negozio dove si vendeva tutto, dal cacao ai giornali. Circa tre settimane dopo l’accaduto venne incolpato delle delitto il fidanzato Ugo Ancillotti, anche se le indagini furono condotte in maniera superficiale. Nel marzo del 1948 inizia il processo in Corte d’Assise a Pisa, poi spostato a Firenze. Nel luglio del 1949, dopo due anni di carcere, arrivò la sentenza che assolse per insufficienza di prove Ugo Lancellotti. I vuoti di questa tragedia, purtroppo, sono tanti. Troppe le cose non trattate o prese in esame con scarsa attenzione dagli inquirenti, che portarono ad un dibattimento falsato perché basato su pochi labili indizi. Le persone che potevano essere ascoltate, magari risultare utili alla soluzione del caso, non furono presi in considerazione, forse per non sollevare un coperchio della pentola troppo olezzante. Gli occhi sul fidanzato di Elvira li mise quel maresciallo Leonardi noto per aver risolto casi delicati nella zona della Lunigiana. Arrivò sulle colline palaiesi pure lui convinto che in qualche giorno avrebbe assicurato alla giustizia il responsabile del delitto. Invece il tempo passava e non riuscì a soddisfare le sue aspettative e quelle di tutti gli

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abitanti del paese. La famiglia Orlandini era una famiglia piena di misteri. Già la mamma di Elvira venne soprannominata la madre dei misteri. Evidentemente c’erano molti motivi per far pensare alla gente ciò. Ed anche il padre Antonio: quell’uomo secondo cui le donne erano buone soltanto per stare in cucina e non avevano diritto alcuno di decidere la propria sorte. Sempre a quei tempi, venne definito a più riprese un padre padrone. Più si scava nella vicenda più il mistero si fa ampio e comprende in sé molte persone, anche alcune molto vicine ad Elvira. Ancillotti fu difeso dall’avvocato pisano e senatore socialista Giacomo Picchiotti. Poi la sentenza: 21 luglio 1949. Ugo assolto per insufficienza di prove. In dubbio pro reo. Una soluzione che peserà su tutta la vita di Ancillotti, fiero di non aver commesso il fatto, di aver amato la povera Elvira, di essersi sempre comportato secondo i dettami della legge e della fede. L’assassinio della bella Elvira tutt’oggi, dopo settanta anni dalla morte, rimane ancora un mistero.

Piergiorgio Pesci

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STORIA

mano

al piccone

Firenze. Dalla Casa del Balilla al nuovo Archivio di Stato Roberto Lasciarrea

Archivio di Stato Casa della Gioventù, 1936

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er quelli della mia generazione, quelli nati subito dopo la fine della guerra, credo sia ancora viva nella memoria la geografia della zona del viale, oggi denominato Amendola. Nel 1936 era stata eretta, su progetto dell’architetto Aurelio Cetica e dell’ingegner Fiorenzo De Reggi, la Casa della Gioventù del Littorio. La G.I.L. Fu inaugurata nel 1938 e subito chiamata “Casa del Balilla”. Le sue dimensioni imponenti. Al suo interno si trovavano numerose strutture sportive coperte, le più moderne esistenti all’epoca a Firenze, comprese piscina e palestra. In quel tempo il monumentale edificio assunse fama sinistra tra i giovani fiorentini in quanto utilizzato per trattenervi, la domenica, in punizione-reclusione, coloro che avevano disertato, senza giustificato motivo, le attività ginnico-militari del sabato fascista. Il complesso si trovava sui viali, come detto, presso

piazza Beccaria ed occupava un’area che il “Piano Poggi” aveva previsto di lasciare vuota per aprire la visuale da quella piazza verso la collina di san Miniato al Monte, chiamandoli i “pratoni della Zecca”. L’area triangolare fu occupata da questo grande edificio con cortile interno. La forma, a triangolo isoscele, aveva gli angoli smussati con una soluzione architettonica che poteva richiamare l’opera di Erich Mendelsohn, un celebre architetto naturalizzato tedesco, ma nato a Allenstein in Polonia, morto a San Francisco. I due lunghi lati ospitavano uno le organizzazioni maschili, l’altro quelle femminili. Sul lato corto, verso l’Arno, era posto l’ingresso monumentale. Di fronte, (l’attuale viale Giovine Italia), si trovava precedentemente l’edificio in stile moresco del cinema teatro Alhambra, progettato e costruito sin dal 1919 dall’architetto Adolfo Coppedé. All’inizio degli anni Sessanta, in una progressiva revisione dell’intera area, questa prima struttura fu abbattuta per costruire – ed inaugurare nel 1966 – l’edificio prefabbricato che sarà la sede del quotidiano La Nazione. Simile fu il destino della Casa della G.I.L. Dopo la guerra se ne continuò ad utilizzare alcune strutture, sia come spazi sportivi (leggasi la piscina), che per spettacoli cinematografici. Il “Cristallo”, oltre a cinema, era stato destinato anche a teatro di “avanspettacolo”. Un po’ alla volta fu lasciato andare fino a raggiungere uno stato di progressiva incuria. L’ingresso principale, sull’attuale breve tratto di via Duca degli Abruzzi, sopravvisse ancora qualche tempo. Fu adibito a centro notturno, così che i soldati, nei loro 24 mesi di ferma, trovavano in quegli

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ambienti l’“albergo” dove dormire. L’edificio venne chiamato, in quell’epoca, “Casa del soldato”, tanto che l’ATAF (la linea “R”, in seguito si chiamerà “14”) aveva istituito la fermata lì davanti all’ingresso proprio per i nostri giovani militari. Successivamente, ospitò anche “l’Ufficio di Collocamento”. Alla fine del 1975, ecco la “decisione di raderlo al suolo”. Viene presa dalla prima giunta comunale di sinistra, guidata dal comunista Elio Gabbuggiani, sindaco fino al 1983. L’operazione di demolizione ebbe inizio nel 1977. Farà posto ad un’architettura molto discussa dal nome altisonante: Archivio di Stato. L’edificio attuale è stato costruito tra il 1978 e il 1986 su progetto di Italo Gamberini, Franco Bonaiuti, Loris Giuseppe Macci, Rosario Vernuccio. Si salveranno dalla demolizione solo gli affreschi inneggianti al fascismo di Calastrini e Gemignani, messi in mostra dopo un lungo restauro. L’edificio aveva una forte identità stilistica che conciliava monumentalismo e attenzione al linguaggio moderno, tipica degli Anni Trenta in Italia e costituiva un documento importante di un’epoca, tanto che la sua demolizione è deprecata da vari storici, com’ebbe a dire Antonio Paolucci in un’intervista rilasciata a La Repubblica, il 2 febbraio 2001. Sempre in quell’intervista, l’allora soprintendente, confesserà di rimpiangere quel palazzo “distrutto solo per ragioni politiche, di puro odio ideologico: perché era fascista e perché era anche bello. Certo più bello della triste costruzione tirata su in fretta subito dopo per ospitare l’Archivio di Stato destinato a lasciare gli Uffizi”. Davvero la Casa del Balilla era un capolavoro dell’architettura del Ventennio.


STORIA

Lazzaro

Papi

il Giovanni Milton Toscano

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a secoli ed ininterrottamente la letteratura e l’arte hanno tratto ispirazione dalle sacre scritture della Cristianità, pervenendo ad opere sublimi, come la Divina Commedia di Dante Alighieri, e a thrillers, come Angeli e Demoni di Dan Brown. Anche l’inglese Giovanni Milton ne trasse spunto per il Paradiso Perduto, che terminò di scrivere nel 1665, nonostante la cecità pressoché totale. La miglior traduzione in Italiano dell’opera fu effettuata da Lazzaro Papi, che pubblicò una prima edizione nel 1811, con dedica alla Principessa Elisa Baciocchi di Lucca, ed una seconda edizione ritoccata nel 1817, con dedica al lucchese Angelo Guinigi. Nato a Pontito, vicino Pescia, nel 1763, cioè in Valleriana, allora appartenente alla Repubblica di Lucca e attualmente in provincia di Pistoia, Lazzaro Papi fu avviato agli studi presso il Seminario Arcivescovile di Lucca, acquistò competenze militari entrando

nell’esercito del Regno di Napoli, conseguì la laurea in Medicina a Pisa nel 1791 sotto l’insegnamento del chirurgo Andrea Vaccà Berlinghieri, riparò in India (dove amputò un piede in gangrena al Rajah di Travancore e divenne colonnello di quattromila lancieri inglesi del Bengala), ritornò a Livorno nel 1802 e trascorse l’ultima parte della sua vita a Lucca, ove fu politico, letterato, bibliotecario reale e segretario della Reale Accademia Lucchese. Ivi si spense il 25 dicembre 1834, ricevendo sepoltura nella basilica di San Frediano, con un monumento funebre di Luigi Pampaloni ed una epigrafe di Pietro Giordani, che lo tramandò ai posteri come “colonnello per gli inglesi nel Bengala, poi lodato scrittore di versi e di storia”. Il Paradiso Perduto tradotto da Lazzaro Papi fu impreziosito nel 1881 da cinquanta illustrazioni dell’incisore francese Gustave Doré (1832-1883), famoso per le illustrazioni di importanti opere religiose,

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Fernando Prattichizzo

come la Sacra Bibbia e la Divina Commedia. Il volume uscì a dispense nel 1881 dallo stabilimento grafico Matarelli per conto della Casa Editrice Sonzogno di Milano e fu ripubblicato in edizione economica unica nel 1891. La figura di Lazzaro Papi come medico, militare, letterato, viaggiatore, traduttore e storico lo accomuna non solo ad altri importanti personaggi dell’epoca, come Ugo Foscolo e Carlo Botta, ma ricorda tantissimo la vita di Giovanni Milton, parimenti destinato al sacerdozio, poi calvinista ed infine anabattista, grande conoscitore sia delle lingue antiche (latino, greco, ebraico), che delle lingue moderne (inglese, italiano, francese, spagnolo), aiutante generale nell’esercito inglese, viaggiatore per mezza Europa, autore di diverse opere poetiche, storiche e teatrali.

Lazzaro Papi Illustrazioni di Gustave Doré John Milton

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Andar per

borghi toscani di Lucard

Castello di Meleto

CASTELLO DI MELETO

Risalente all’XI secolo, il signorile maniero vanta storia illustre sin da un certo Guardellotto, privato dei suoi beni da Federico Barbarossa. Grazie a torri cilindriche e cassero coperto, l’apparato architettonico conferisce al castello un fascino altero, i cui interni ostentano delicati affreschi settecenteschi ed il delizioso teatrino coevo. Giardino all’italiana con pertinenze completano uno scenario suggestivo.

TENUTA DI LILLIANO

Scenografico borgo d’altri tempi, Lilliano vanta romantici edifici rustici sorti sulle antiche vestigia medievali. Qui sorge la romanica Pieve in alberese dedicata a Santa Cristina, rimaneggiata in epoca barocca, e la villa signorile con tanto di balaustra centrale, sormontata da blasone marmoreo. WINE&FOOD: Lilliano personifica il vino d’autore Chianti Classico, da degustare nelle attrezzate cantine accompagnato tra invitanti stuzzichini tipicamente toscani. I blasonati D.O.C.G. e I.G.T. sono una vera delizia, ma non perdetevi l’olio extravergine e grappa prodotti in loco.

Tenuta di Lilliano

WINE&FOOD: La sotterranea enoteca custodisce vini prodotti nella tenuta (Non perdete i Chianti Classico), da accompagnare con salumi, olio biologico, miele, specialità tipiche toscane. Gli amanti dei gustosi piatti fumanti troveranno soddisfazione nel ristorante “La Fornace di Meleto”.

PERNOTTAMENTO: L’ospitalità lillianese vanta collaudata nomea grazie alla formula dell’agriturismo.

PERNOTTAMENTO: Soggiorno in castello o nelle costruzioni coloniche, custodenti camere ed appartamenti, soddisferanno ogni vostra esigenza. INIDIRIZZO: Castello di Meleto 53013 Gaiole in Chianti (SI)

INDIRIZZO: Tenuta di Lilliano 53011 Castellina in Chianti (SI)

Fattoria di Casagrande

BORGO DEL CABREO

FATTORIA DI CASAGRANDE

Immerso tra rigogliosi vigneti ed ulivi secolari, il delizioso borgo si effigia di un superbo scenario agreste, grazie ai rurali caseggiati ingentiliti da portici e terrazze coperte. Travi in legno, cotto toscana, parquet in legno rustico, verde curatissimo donano quel tocco di classe a questa realtà, di per sé romantica.

Racchiusa nelle guelfe mura figlinesi, la trecentesca villa e pertinenze si affacciano sul bel chiostro porticato in stile tuscanico, costeggiante uno scenografico giardino all’italiana. I suoi interni custodiscono mobilio, statue, dipinti, suppellettili di rilevante spessore artistico. WINE&FOOD: Provenienti dalla vicina Fattoria, nella cantina potrete degustare i blasonati vini Donna Clauia e Donna Claudia Riserva, Vinsanto Chianti DOC, olio extravergine, invitanti e prelibati spuntini.

WINE&FOOD: Il Borgo, La Pietra e Black appartengono alla raffinata etichetta Cabreo prodotto in loco, ottimi nettari da abbinare alle tipicità gastronomiche ideate nei rinomati punti ristoro presenti in zona.

Borgo del Cabreo

PERNOTTAMENTO: Appartamenti ed il prestigioso hotel, ricavato nella villa, coprono ogni esigenza.

PERNOTTAMENTO: La proverbiale ospitalità del Chianti rivive nell’elegante Relais de Charme creato nelle sue costruzioni.

INDIRIZZO: Fattoria di Casagrande Via G.B. del Puglia 61 50063 Figline Valdarno (FI)

INDIRIZZO: Borgo del Cabreo Via di Zano 39 50022 Greve in Chianti

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paesaggi

villa giardino

Bardini

un belvedere su Firenze e l’Arno che corre verso il mare Saverio Lastrucci

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l complesso Mozzi-Bardini con la sua ampia area a verde, interclusa fra i vari palazzi, si trova all’interno della proprietà del Palazzo MozziBardini, compresa fra il fiume Arno e il Forte Belvedere, nelle vicinanze del centro storico di Firenze. Nel corso dei secoli in questi luoghi si sono avvicendati diversi proprietari e stili architettonici. La famiglia Mozzi, banchieri di parte Guelfa, commissionarono la realizzazione di un palazzo fortificato e dotato di una torre merlata in via San Niccolò sulle rovine dei loro possedimenti distrutti dai Ghibellini intorno al 1260. La descrizione di tale

Palazzo si avrà solo nel 1309: “Palatium magnum, con loggia grande e giardino dietro detto palazzo e casa contigua con orto e pratello, terreno murato dietro la casa, posti nel popolo di Santa Lucia de’ Magnoli, con stufa ossia stanza calda per sudare...”. Esisteva dunque un giardino o piuttosto un orto murato, un vero e proprio hortus conclusus a contatto della casa, rispondente nella dimensione e nella concezione spaziale all’idea medievale di giardino come luogo raccolto e protetto ove coltivare soprattutto specie eduli e/o curative; ancora lontana è invece la concezione rinascimentale

Galleria dei Glicini. (Fotografia Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze) Villa Bardini. (Fotografia di Moreno Vassallo)

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del giardino nel palazzo, che sarà in stretto rapporto prospettico con l’architettura del palazzo. Tuttavia il suo giardino rappresentava già un chiaro segno di una visione moderna dell’abitare, proprio nella ricerca di quelle comodità che vanno dal giardino dietro la casa alla “stanza per sudare”, una sorta di tepidarium, una vera sauna ante litteram. Così come la loggia che, sia che fosse aperta verso la collina o verso l’Arno, dimostrava comunque un desiderio di uscire all’aperto, di guardare, di inserirsi nel paesaggio circostante. A metà del secolo (1551) Luigi di Conte di Giovannozzo de’ Mozzi ac-


quista alcuni orti che si estendono sulla collina di Montecuccoli, dal retro del palazzo fino a raggiungere la cerchia delle mura trecentesche che cingono il versante meridionale di Firenze. Quest’area costituisce oggi il nucleo essenziale del settore orientale del Giardino Bardini. Nel corso del XVII secolo la porzione ovest dell’area sulla Costa San Giorgio, oggi occupata dal Giardino Bardini, avrà una definitiva sistemazione con la realizzazione della “Villa Manadora”, per antonomasia col proprietario Giovan Francesco Manadori, a opera di Gherardo Silvani. Nel 1888 la nuova proprietaria del complesso, principessa Carolath Benthen, fa eseguire sul palazzo radicali interventi di ristrutturazione e gli elementi barocchi della facciata vengono rimossi per creare un’unica grande facciata “a filaretto” in stile neogotico e si ha un’accurata descrizione degli esterni. Partendo dalla parte bassa, verso l’Arno, gli antichi orti murati medievali ancora esistenti svolgevano la loro originale funzione di raccordo del primo piano, o piano nobile del palazzo, con il retro e la collina. I due giardini principali erano divisi da un muro: il primo giardino era dotato di serre e locali di servizio, composto da quattro aiuole geometriche più un’aiuola di forma circolare forse realizzata con la tecnica della mosaicultura. Da questo giardino si passava a est nel giardino delle camelie, a ovest nel prato che collegava al viale carrozzabile e sempre dal prato si passava ad un ballatoio coperto da un berceaux verso la scala monumentale in direzione del soprastante belvedere. Il giardino delle camelie era a sua volta aperto verso un sistema di viali rettilinei circondati da boschetti di alto fusto, presumibilmente dovuti alla trasformazione operata da Te-

resa Guadagni all’inizio dell’Ottocento. Il giardino viene descritto come suddiviso nelle tre parti distinte: “… Giardino, tenimento di terra a cultura (la parte agricola), Bosco all’Inglese, selvatico e annessi…” (di tre ettari e 1/8) “… Diversi viali sviluppati in più e varie direzioni con mite pendenza intermediati da slarghi e riposi e da tratti pianeggianti in direzione orizzontale, offrono amene vedute delle colline e poggi circostanti la città e al tempo stesso una comunicazione agevole e svariata fra la parte inferiore…”. Il 18 febbraio 1913 Stefano Bardini, stimato antiquario fiorentino, acquista la proprietà composta da due case e da un palazzo su piazza dei Mozzi, via San Niccolò e via dei Bardi, compreso il villino con la vicina casa del contadino sulla Costa San Giorgio. L’antiquario Stefano Bardini

utilizza il giardino come uno spettacolare showroom all’aperto: il giardino diventa così un labirinto di tranelli per il conoscitore d’arte che stenta a riconoscere i materiali veri da quelli falsificati, le copie dagli originali e i rimontaggi con inserimenti moderni

dalle opere autentiche. Per migliorare questa funzione di “negozio all’aperto” Stefano Bardini chiede ed ottiene “… di creare un nuovo viottolone nel giardino a tergo delle case su via dei Bardi n. 1 e n. 3 e raccordarlo col vecchio viottolone già esistente nel parco per dare accesso dalla casa sulla Piazza dei Mozzi n. 3 alla Villa posta in via della Costa San Giorgio n. 4 e 6…”. Il complesso passa poi ai figli Emma e Ugo Bardini; quest’ultimo, alla morte il 27 settembre 1965, lasciava il governo elvetico suo erede universale e, in subordine, lo Stato italiano che accettò l’eredità nel 1971. Tramite l’intercessione di Antonio Paolucci, Ministro dei Beni culturali, nel 2000 l’Ente CR Firenze finanziò il restauro dell’intero complesso assumendosi la sua manutenzione per un ventennio.

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Il Ruscello del Drago nel Giardino Bardini (Fotografia di Moreno Vassallo) Il panorama di Firenze visto dal Giardino Bardini. (Fotografia Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze) Una scenografica visione di Firenze e delle colline di Fiesole visibili dal Giardino Bardini. (Fotografia di Moreno Vassallo)


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paesaggi

"... stromenti diversi sotto innumerevoli dita ..."

il paesaggio sonoro di Torre del Lago Puccini Piergiorgio Pesci

Lago di Massaciuccoli Giacomo Puccini La villa a Torre del Lago

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l paesaggio sonoro è definito dai suoni costitutivi di un ambiente percepito uditivamente, siano essi “naturali” o frutto dell’attività umana. Lo studio dei paesaggi sonori è l’oggetto primario dell’ecologia acustica (o ecoacustica). Il termine soundscape, e gli studi che vi fanno riferimento, devono la loro fortuna soprattutto al lavoro Il paesaggio sonoro (1985) del canadese Raymond Murray Schafer. Il presupposto da cui muovono gli interessi di Schafe è che il senso dell’udito media l’esperienza e la conoscenza della realtà circostante, e dunque il paesaggio sonoro è parte del contesto che incide sull’esistenza umana. L’interesse di questo ambito di ricerca si focalizza pertanto sulla relazione reciprocamente costitutiva fra l’uomo e il suo ambiente sonoro. Gli studi in questo campo devono porsi un duplice obiettivo. Il primo, consiste nell’indagare i modi in cui l’uomo agisce per fini strumentali sui suoni, e i modi in cui questi incidono sulla sua esistenza; ciò implica l’analisi delle proprietà fisiche del suono, il rilevamento delle caratteristiche

dei paesaggi sonori, l’indagine di come queste vengano percepite dalle persone, e quindi la convergenza di diversi ambiti disciplinari: acustica, musicologia, psicologia cognitiva, etnografia e sociologia. Il secondo, di ordine pratico, consiste nel migliorare la qualità della relazione fra gli uomini e i paesaggi sonori, accrescendo il livello di coscienza delle esperienze uditive, sia tramite l’educazione all’ascolto dei suoni in cui siamo quotidianamente immersi, sia progettando e realizzando interventi di design acustico, mirati a elaborare ambienti che favoriscano un uso consapevole delle esperienze uditive. In altri termini, un ambiente acustico di qualità dovrebbe consentire una comunicazione efficace: il soundscape è in equilibrio con gli uomini quando consente di ricevere chiaramente e di processare facilmente gli input sonori, nonché di esprimersi con altrettanta chiarezza e facilità. Se i paesaggi sonori sono formati dalla percezione di suoni prodotti sia dall’ambiente naturale sia dall’attività umana, essi comprendono a tutti gli effetti anche la musica. Il termine soundmarks (segni di riferi-

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mento sonori) viene utilizzato per gli specifici elementi dei soundscapes che articolano il senso del luogo, in quanto suoni distintivi dell’ambiente fisico o delle azioni sociali che vi hanno luogo, e per estensione della comunità da esse individuata. Le linee di sviluppo delle ricerche sui paesaggi sonori possono essere considerate anche indicative della problematizzazione e dell’assottigliarsi dei confini fra i concetti di suono e di musica, avvenuti lungo coordinate che riguardano diverse estetiche e particolari modalità di produzione, distribuzione e fruizione della musica. Mentre l’ecologia acustica auspica un’attenzione verso il paesaggio sonoro paragonabile all’ascolto di musica. La musica diventa lo strumento per individuare il genius loci (lo spirito del luogo), l’interazione simbolica tra natura e uomo. Città che, forti in alcuni casi di una storica tradizione musicale consolidata dalla presenza di un autore celebre, hanno individuato nell’opera musicale lo strumento di promozione e di valorizzazione del luogo. Le esperienze dei festival mu-


Torre del Lago Gran Teatro all’aperto Giacomo Puccini

sicali legati alle produzioni artistiche del musicista che ha un forte legame con il luogo e allo stesso tempo con il territorio tanto che nelle occasioni della prtogrammazione teatrale si può respirare nella singola città o in un territorio più ampio la presenza dell’autore stesso. Nel caso italiano basti pensare alle città di Parma, Pesaro e Lucca legate a Verdi, Rossini e Puccini. Il Verdi festival di Parma in occasione del centenario della morte di Verdi avvenuta a Milano nel 1901, ha deciso di attivare un festival lirico monografico considerandolo da subito uno strumento di promozione del territorio, occasione fondamentale di sviluppo per la città. Nel caso di Pesaro e di Rossini festival, a differenza di Parma e di Lucca dove si cerca di coinvolgere nella sua complessità tutto il territorio puntando sul genius loci, si è cercato di focalizzare l’attenzione esclusivamente sulla città. Altro elemento distintivo rispetto a Verdi e Puccini, è che nel caso di Rossini si è data l’opportunità di portare in scena il risultato di un lungo lavoro di rilettura critica dei lavori del musicista. Giacomo Puccini nato a Lucca è un musicista e compositore italiano e internazionale. Il luogo può divenire componente essenziale della sua produzione, essere fonte di ispirazione, ambientazione ed evocazione del suo vissuto. Lucca e torre del lago sono marcate dai segni del suo vissuto. Stretto è dunque il legame fra il musicista e la sua terra così come la

spiccata vocazione descrittiva di luoghi di ambientazione nelle sue opere. Quando ripercorriamo gli eventi della sua vita in momenti che hanno portato alla nascita delle sue melodie, è molto facile legare quest’operazione con un’analisi dei luoghi del vissuto o ispiratori di musica. Lo specchio d’acqua del lago di Massaciuccoli fu scelto da Puccini come luogo per celebrare le sue opere e diffondere l’amore per la musica. Il lago e il suo paesaggio si possono considerare il genius loci di Puccini. Le diverse iniziative di promozione del patrimonio pucciniano sono partite dalla conservazione dei contenitori materiali già esistenti, cioè dimore dove Puccini ha soggiornato e tracce che egli ha lasciato e che rimandano alla sua vita e alle sue opere. La Casa Natale, dove è istituito un museo, localizzata a Lucca in corte San Lorenzo, gestita dalla Fondazione Puccini che custodisce alcuni oggetti appartenuti al maestro; il Museo di Celle dei Puccini, istituito nel 1973 quando l’Associazione Lucchesi nel Mondo acquistò l’immobile; il Museo di Villa Puccini a Torre del Lago gestito dalla nipote dell’Associazione Amici delle Case Giacomo Puccini. Come nuovo contenitore per conservare la memoria della figura pucciniana, ma anche per valorizzare sia culturalmente ed economicamente il territorio, è il teatro realizzato a Torre del Lago sulle sponde del Lago di Massaciuccoli, denominato Gran Teatro all’aperto Giacomo Puccini.

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paesaggi

l'eremita non tentare

il Monte Forato nella storia e nella leggenda apuane Costantino Paolicchi

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e volete ammirare in tutto il suo splendore il Monte Forato, dovete recarvi a Cardoso, in alta Versilia e poi fino al paese di Pruno, uno dei paesi più antichi e suggestivi di tutte le Alpi Apuane, che si raggiunge dopo qualche chilometro di strada panoramica. Di lassù lo sguardo spazia sulla vertiginosa parete di roccia nuda che congiunge i versanti meridionali della Pania della Croce al Monte Nona e al torrione solitario e strano del Procinto. La Natura rivela in queste dirupate montagne tutta la sua forza e la sua prepotente bellezza. Al centro di questo anfiteatro calcareo, che il popolo ha chiamato “Costa Pulita”, fra due sopraccigli rocciosi si spalanca un ampio arco di pietra. È la Pania Forata, o Monte Forato. Il geologo e naturalista Antonio Stoppani conosceva bene questo monte e lo descrisse nella XXII Serata del suo celebre libro Il Bel Paese del 1889, con stupore e con meraviglia: «Era pur bello, com’io lo vidi, quello specchio di purissimo cielo, entro quella rude cornice di rupi! Quell’azzurro che spiccava così sereno fra il grigio cinereo della montagna tutta irta, ignuda, seminata di antri cupi e selvaggi, che disegnavano

le loro livide ombre sulla parete quasi a picco, sparse soltanto di qualche strappo di verzura! Dev’essere grande spettacolo per colui che per l’opposto pendio ascende dalla valle del Serchio e, rimontando il torrente Petrosciana, si affaccia all’immane pertugio, ove gli si allarga d’improvviso allo sguardo l’immenso mare!». Nel 1922 l’avvocato Leone Papanti così descriveva il Forato: «Si tratta di un magnifico ponte che ha m. 32,60 di corda per 26 di saetta, con uno spessore minimo di m. 8, ed è lanciato tra due vette che raggiungono rispettivamente m. 1223 e m. 1209, le quali si scorgono molto bene dalla Garfagnana e dalla nostra marina…». A Barga sull’Appennino, oltre la sponda del Serchio, si vede tramontare il sole attraverso l’arco di Monte Forato la sera del 2 febbraio e così pure da Fornovolasco il 15 febbraio verso le ore 15,40; e poi ancora da Barga il 9 di novembre e da Fornovolasco il 27 di ottobre. Sul versante di Cardoso, nei pressi di Pruno, c’è una località – detta “Il Pianello” – dove si può osservare la levata del sole attraverso il Monte Forato dal 16 maggio al 28 luglio di ogni anno. Dal paese si può ridiscendere a piedi verso Cardoso percorrendo una mulattiera ribattuta di pietre grigie diretta al canale di Deglio, che segna come una ruga l’alta valle di Trosi separando le case di Pruno dal colle soleggiato dell’Orzale. Cresciuto sul ciglio del torrente che nasce sotto la Penna Rossa con le sue case di pietra, Cardoso nei primi anni del Quattrocento formava un comunello senza parrocchia assieme ai borghi di Malinventre e Farneta. Il suo territorio, aspro e boscoso, fu oggetto di liti e zuffe con la gente di Fornovo-

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lasco per questioni di pascolo e per i legnami che servivano, di qua e di là dal Forato, ad alimentare le fucine delle ferriere. Farneta, modesta borgata povera di case e di abitanti, era situata sul Colle, chiamato anche Ponticello, prossimo al culmine di quel pinnacolo forte e ferrigno che incombe quasi a perpendicolo sulle ultime case di Cardoso e che tutti conoscono come Penna Rossa. Qui sorge la piccola chiesa di San Leonardo dove la tradizione vuole che abbia abitato San Guglielmo, Duca di Aquitania; luogo di solitudine e di preghiera, ideale romitaggio nella serena maestà dei monti, nel silenzio sacrale delle selve. La montagna col grande ponte di pietra ha offerto ai carbonai dell’alpe e delle selve della Penna Rossa materia di sogni e fantasie. Così sono fiorite le leggende che indagano, con gli strumenti della poesia ingenua, senza artifici, l’origine di questo fenomeno naturale che non ha eguali in Europa.


La geologia, si sa, ne fornisce una spiegazione razionale, ma il popolo è ricco di fantasia e la sua religiosità si sposa talora al mito per giustificare i prodigi della Natura. Secondo una leggenda garfagnina fu San Pellegrino, il santo venerato in alcuni eremi e santuari dell’Appennino e delle Apuane, a dare origine al Monte Forato con un suo gran ceffone. La cosa andò pressappoco così: San Pellegrino, nel suo romitaggio sull’alpe al confine fra la Toscana e l’Emilia, stava da lungo tempo raccolto in preghiera. Il diavolo cercava con tutti i mezzi di distoglierlo, ora promettendo mari e monti e tentandolo in mille modi, ora minacciandolo e insultandolo. Ma San Pellegrino non si muoveva di un amen, tutto compreso nella meditazione e nella preghiera. Il diavolo allora, reso furibondo dalla inattaccabile serenità del santo, gli scagliò contro una pietra. Lì per lì San Pellegrino accusò il colpo ma poi, riavutosi, decise che questo era troppo anche per la sua pazienza. “Scherza coi fanti, ma non coi santi” dice un vecchio proverbio. Il santo eremita doveva essere di razza montanara, robusto e roccioso come la sua montagna. Agguantò il diavolo e gli mollò un tal ceffone che questi fu scagliato lontano alla velocità di un proiettile, con una traiettoria tanto ampia da fargli superare a volo la valle del Serchio e la Pania Secca. Ricadendo urtò contro il monte che, con due cime ravvicinate, domina le case di Cardoso. Con un boato lo forò passando oltre e precipitando verso il basso, dove fu inghiottito da una voragine apertasi all’improvviso. Un’altra leggenda, piena di poesia, narra invece che fu l’Angelo del Signore a forare la montagna, per consentire alla Sacra Famiglia inseguita da Erode di mettersi in salvo sull’opposto versante. Leggenda che uno scrittore versiliese di rara umanità, Enrico Pea, ha narrato nel suo romanzo Solaio, accentuando il carattere di favola ridente e festosa attribuito a questo prodigioso evento. Giuseppe, Maria, il Bambino Gesù e l’asinello inseguiti dalle orde di Erode, giunti sulla riva del mare in Egitto, si fecero piccoli piccoli e salirono su una barchetta di legno di palma. Gli Angeli li sospinsero attraverso il mare e dopo un lungo viaggio la barchetta approdò a Motrone sulla spiaggia della Versilia. Ma non erano ancora in salvo, neppure qui, perché intanto i soldati di Erode si erano imbarcati su veloci navi per inseguirli. «Le tribolazioni di Gesù, di Giuseppe, di Maria non erano dunque finite. Senza perdere la pazienza – è Pea che scrive – Maria riprese posto sulla groppa del somarello, col Bambino sulle ginocchia, e su in cammino. Da Motrone a Pietrasanta attraverso le

macchie, ché, allora, non c’erano strade. E da Pietrasanta, Vallecchia, sotto il monte sulla strada del fiume, fino a Corvaia, Seravezza, Ponte di Stazzema; sulla strada maestra, tra il fiume e il monte, era agevole andare. Anche per Giuseppe che andava a piedi, con le briglie nella destra e il bastone, come sulle vie di Betlemme. E l’asinello non faticava, perché la Madonna era tutto spirito, nell’apparenza di esile giovinetta pesava quanto Gesù Bambino. Ora conviene girare a destra. Salire al Cardoso. E poi, per la mulattiera, al passo di Petrosciana. Di là si vede la Pania rosa, di qua le Grottacce…» Gli Angeli si posarono sulla sommità del Monte Procinto, per sorvegliare la valle. Tra il Procinto e il monte che gli sta di fronte c’è un vasto prato in una valle piena di erbe profumate, di alberi, di fresche sorgenti e nei fianchi scoscesi delle montagne si aprono vaste caverne. Il clima è sempre temperato, il freddo non è mai eccessivo anche quando nevica. «È questa, la parte della Versilia che le genti dei dintorni dicevano abitata dalle fate. Per il miracolo dell’erba e del clima. Per i fiori che fioriscono meravigliosi nel prato che abbiamo detto, e per le caverne dove stavano, invece che in capanne, per molta parte dell’anno bambini e donne soli, vestiti come si racconta nelle fole: di pelle di capra. Bambini e bambine vestiti così sembravano delle piccole fatine, dietro le capre, in quel prato …» Quel luogo era conosciuto un tempo come “Valletta delle Fate”, perché quando l’estate finiva e gli uomini partivano per andare a cercare lavoro lontano, restavano le donne e i bambini soli, affidati alla Provvidenza. Quando videro arrivare nella valle Giuseppe e Maria, vestiti nella foggia orientale, e il Bambino Gesù addormentato in grembo alla madre sulla

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groppa dell’asinello, e i due angeli bianchi con le ali d’oro e i canestri delle provviste, i bimbi e le donne vestiti di pelli, impauriti, si rimpiattarono sugli alberi e dentro le grotte. «Intanto, dal Procinto, le vedette annunziano la scalata di Erode. Maria e Giuseppe levano gli occhi al monte che hanno ancora da valicare. Si inoltrano nel prato e Maria scende di soma, piano, ché Gesù è appisolato. L’asinello si dà pazzamente a ballare nell’erba fiorita. Le caprette belano, si spaventano e fuggono. Traversano un campetto di lupini ancora da raccogliere sui sarmenti secchi, e il frastuono delle frasche e dei chicchi nelle bacche si fa sonoro come se quegli stecchi secchi del campo si fossero mutati in corde di strumenti. A quel punto Gesù si svegliò. Maria si conturbò. Giuseppe affrettò il passo, scosse la briglia all’asinello pazzo. Gli angioli misero i canestri in terra e si inginocchiarono davanti al monte che si era forato. Da quel portone spalancato, aperto d’improvviso veniva una brezza di mezzogiorno. E il cielo appariva accostato alle rocce come se fosse quella apertura la porta del Paradiso. Gesù sospirò e disse: - Grazie! Maria capì che bastava il cammino. Giuseppe levò il basto e la briglia al quadrupede pazzerello che si mise di nuovo a pazzerellare …» E Erode? Una fenditura larga e profonda duemila braccia si era aperta dalla parte del Monte Procinto. Lì dentro precipitarono Erode con i soldati, i servi e il boia, fino in fondo all’abisso e più giù ancora, perché sotto c’era l’inferno pronto che li aspettava. «Col sorgere del sole la Valletta delle Fate è tornata tranquilla. Han portato, le donne e i bimbi, il latte sotto il Monte Forato, a Gesù. E a Giuseppe e a Maria un canestrino di nocelle e un piatto di lupini salati …»


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società

street

art

la creatività di Clet Abraham nei cartelli stradali Alex Paladini

«L

a Street Art è in grado di trasformare il volto delle città, riqualificando quartieri poco conosciuti. Non è un caso se nelle principali città europee vengono chiamati gli artisti più famosi per donare una nuova vita soprattutto a quartieri popolari che difficilmente potrebbero attirare turisti tra le loro vie, ma che con le loro opere diventano gettonate mete di culto. Questo è anche l’obiettivo del progetto che interesserà Monteriggioni, a partire dalla prima tappa di Castellina Scalo, proiettandola tra i luoghi internazionali divenuti famosi grazie all’impiego del linguaggio dell’arte contemporanea». Circa 50 i cartelli stradali fra il Castello di Monteriggioni e Castellina Scalo avranno un nuovo volto grazie alla creatività e all’ironia di Clet Abraham, artista francese che ha aperto il progetto di Street Art. Curato da Gaia Pasi con il patrocinio dell’amministrazione comunale, il progetto vedrà all’opera, dal prossimo 6 luglio, Pierluigi Pagni, seguito, nelle settimane successive, da Jacopo Pischedda, Colette Baraldi, BLUB e Benedetto Cristofani.

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cartolina

fasti barocchi della Cechia B

arocco, trionfo di effetti prospettici, accorgimenti virtuosi, soluzioni ardite, originali corollari di un’anima artistica squisitamente classica. Il territorio Ceco accoglie con entusiasmo questa nuova arte, trovando terreno fertile nella italica presenza gesuita voluta dagli Asburgo per esternare supremazia politica e religiosa sul protestantesimo dilagante dal secolo precedente. Ed è Praga a personificare la nuova rivoluzione, soprattutto architettonica, romanticamente impregnante Mala Strana, straordinario esempio di coerenza stilistica rimasta immutata nel tempo. Adagiato sul colle che sale al Castello, questo scenografico quartiere emana principesca eleganza insita nel groviglio di suntuose dimore, chiese, statue adornanti piazze, vicoli, stradine, ne sa qualcosa Palazzo Valdstejn, ingentilito da una solenne loggia affrescata, prospiciente il giardino all’italiana adorno di statue bronzee. Poco distante, pavoneggia una leggiadra facciata con colonne e lesene, caratterizzanti due ordini architetto-

nici dell’edifico sacro dedicato a San Nicola. Nel suo interno domina un tardo barocco strabiliante, armonica scenografia fatta di marmi, stucchi, dorature, statue, affreschi trompel’oeil. Sempre nei dintorni, si erge imponente il complesso Clementinum. Riuscito accostamento fra edifici sacri e profani, i suoi ambienti vantano quella che, da molti, è considerata la biblioteca più bella al mondo. Prima di lasciare questo favoloso angolo, puntate verso Ponte Carlo, luogo etereo ingentilito da sculture sacre. In verità, la Repubblica Ceca racchiude realtà barocche decisamente suggestive, talmente numerose da non venirne a capo! Immergiamoci, comunque, in questo incredibile viaggio puntando su Holašovice, borgo rurale dominato da caratteristici edifici bianco candito e frontoni ondulati, prospicienti un ampio slargo alberato. Nella vicina České Budějovic, la fontana dedicata a Sansone domina orgogliosa sulla grande piazza ingentilita da leggiadro porticato, municipio sormontato da tre torri a cupola,

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slanciati palazzi borghesi, creanti un unicum architettonico decisamente bello. Riprendiamo il tour diretti al monastero benedettino di Broumov, i cui favolosi interni rappresentano un inno alla cultura barocca, nomea condivisa con San Giovanni Nepomuceno sul Monte Verde, luogo sacro dall’originale pianta a stella dove misticismo, architettura straordinaria, storia secolare convivono in armonia. L’edilizia residenziale, a cavallo tra XVII e XVIII secolo, possiede in terra Ceca gioielli unici, basti menzionare Kroměříž col sontuoso Palazzo Arcivescovile, custode di una importante quadreria comprendente Apollo e Marsia di Tiziano, prospiciente un geometrico giardino con sculture adornante lo slanciato padiglione centrale ottagonale. Castelli onirici costellano paesaggi magnifici, ne sa qualcosa Veltrusy, a circa 20 km da Praga, dalle sinuose forme simmetriche, la residenza conserva dipinti creati da Canaletto, Rubens, Velázquez, Veronese ed il famoso Fienagione di Pietre Bruegel il Vecchio.

Carlo Ciappina

České Budějovic San Giovanni Nepomuceno sul Monte Verde Kroměříž Ponte Carlo a Praga

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cinema

cannes

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candeline

Palma d’Oro a The Square di Ruben Ostlund

Andrea Cianferoni

Anya Taylor-Joy, Charlize Theron, George MacKay, Caroline Scheufele Juliette Binoche, Pedro Almodovar, Ruben Ostlund

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onclusa anche la settantesima edizione del più importante festival cinematografico del mondo. La Palma d’Oro è andata al regista svedese Ruben Östlund, autore di The square, ritratto della società contemporanea attraverso la figura del curatore d'un museo d'arte moderna. Mentre lui sta preparando una mostra che vorrebbe essere un invito all’altruismo e alla solidarietà, una serie di eventi surreali e imprevisti come il furto del suo cellulare, un gravissimo errore di comunicazione dei suoi collaboratori lo sprofonda in una crisi esistenziale. Il regista ha vinto due anni fa la sezione "Un certain regard "con Forza maggiore e ritirando il riconoscimento, ha chiesto al pubblico in sala di urlare tutti insieme un grido di gioia e alle telecamere di inquadrare la sala festosa in una sorta di happening collettivo che ha ricordato lo spirito del film. Quest’anno a vincere nella sezione "Un certain regard" c’era l’italianissima Jasmine Trinca premiata come mi-

glior interprete di "Un certain regard" per Fortunata. Uma Thurman e i suoi moschettieri hanno amato la Mamma Roma «coatta e guerriera», che già aveva colpito il delegato generale Thierry Frémaux. Emozionantissima, l’attrice romana – che nel 2001 vinse la palma d’Oro con Nanni Moretti per La stanza del figlio – ringrazia in francese, inglese, italiano, dedica il premio alle donne forti come sua madre e sua figlia Elsa, otto anni. Proprio come la piccola Barbara del film in cui, parrucchiera a domicilio, sogna per tutte e due un futuro migliore. È un film nato con la stessa rabbia e forza della sua protagonista». Merito, dice, di Margaret Mazzantini: da un suo racconto inedito è nata la sceneggiatura. «Lei ha inventato Fortunata, era già tutto là. Lei e Sergio Castellitto sono capaci di affidare ad altri le loro creature. Come regista, ha avuto solo sguardi d’amore per noi, per farci fare la più bella figura possibile. Mi commuove celebrare questa donna semplice, la sua forza

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che è vita». La cerimonia di premiazione è stata snella, condotta con bravura da Monica Bellucci che, dopo il tango con tanto di appassionato bacio al ballerino della serata d’apertura, per la chiusura ha scelto un monologo in cui ha ricordato il valore del “cinema, arte che ci permette di dialogare con le nostre coscienze. Il gran premio della giuria è andato a 120 battements par minute con cui il francese di origine marocchina Robin Campillo, sceneggiatore storico di Cantet e César per l’adattamento de La classe, firma un film molto personale negli ambienti dell’attivismo gay contro l’Aids della Francia anni Novanta. Il premio per il miglior attore è andato a Joaquin Phoenix che ha fatto molta strada dai tempi di Commodo de Il gladiatore, o da quelli di Johnny Cash nel biopic candidato all’Oscar, già miglior attore alla Mostra di Venezia per The Master di Paul Thomas Anderson. Il premio per la miglior interpretazione femminile è andata a Dia-


ne Kruger, attrice tedesca che dopo 15 anni di carriera ha finalmente girato nella sua lingua madre conquistando così la giuria di Pedro Almodovar con il ruolo di questa madre distrutta dal dolore e poi in cerca di vendetta per la morte del marito e del figlio, vittime di una bomba neonazista nel film di Fatih Akin Aus dem nichts. Il premio per la miglior regiase l’è aggiudicato Sofia Coppola per il film L’inganno con Nicole Kidman, remake del film di Don Siegel del ’71, che nelle mani della regista americana è diventato un “revenge movie” femminista con un cast di sole donne ad eccezione di Colin Farrell dove, oltre alle star Nicole Kidman, Kirsten Dunst e Elle Fanning, sono notevoli anche le giovani attrici che interpretano le fanciulle di un collegio femminile durante la guerra di Seccessione in Virginia. La giuria ha deciso di attribuire un premio speciale per il settantesimo anniversario del festival a Nicole Kidman per l’insieme della sua ope-

ra, d’altronde l’attrice era al festival con tre film e una serie tv. Il premio della giuria è andato a Loveless del regista russo Andrey Zvyagintsev, film che racconta la storia tragica di un dodicenne nel pieno del divorzio dei suoi genitori, testimone di litigi violenti che riguardano il suo destino e

l’appartamento di famiglia in vendita affinché ognuno di loro ricominci una nuova vita.

Christoph Waltz Fawaz Gruos Andie MacDowel Colin Farrell Julianne Moore Izabel Goulart Diane Kruger migliore attrice Caroline Scheufele

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cinema

Giorgio Banchi

Toni Servillo dal film La grande bellezza Alberto Saporito e Toni Servillo nello spettacolo teatrale Le voci di dentro

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Toni Servillo

oni Servillo, attore di teatro e di cinema nasce a Afragola nel 1959. Il suo percorso di formazione teatrale è molto lungo e intenso. Ha inizio nel 1977 con la fondazione del Teatro Studio di Caserta. Nel 1986 inizia a collaborare con il gruppo Falso Movimento e nel 1987 è tra i fondatori di Teatri Uniti e partecipa, da attore e regista, alla creazione di spettacoli di matrice napoletana come Partitura (1988) e Rasoi (1991) di Enzo Moscato, Ha da passà a nuttata (1989) dall’opera di Eduardo De Filippo, Zingari (1993) di Raffaele Viviani, fino a Sabato, domenica e lunedì (2002), pluripremiata rivisitazione del capolavoro eduardiano, in scena per quattro stagioni ed applaudito nei maggiori teatri europei. Con Il Misantropo (1995) e Tartufo (2000) di Molière, e con Le false confidenze (1998/2005) di Marivaux, tutti nelle mirabili traduzioni di Cesare Garboli, realizza un trittico sul grande teatro francese fra Sei e Settecento. Nel 2007 ha adattato, interpretato e diretto Trilogia della villeggiatura di Carlo Goldoni, in tournèe mondiale fino al 2010. Lo spettacolo Rasoi nel suo percorso teatrale degli inizi è uno dei più importanti e significativi. Napoli è il soggetto della messa in scena. La città è rappresentata da personaggi che ne fanno emergere il disagio, l’inferiorità, lo sporco. Il guappo è il personaggio di Servillo, vestito con una giacca gessata e un garofano all’occhiello che simula un piccolo camorrista. Sulle note incalzanti di una canzone della malavita napoletana si lancia in invettive contro il degrado professione della città e del suo mare. Un corpo snello, chiaroscuro, anche nella faccia, che alterna pose espressive e artificiose. Sulle

ultime battute giungono da fuori scena tre colpi di pistola, mettendolo a tacere. Una morte al rallentatore con movimenti enfatizzati quasi danzanti. Saluta chi ha di fronte indicando il punto del corpo colpito dal proiettile, alza le braccia e le mani verso il cielo con un gesto della testa e con le sguardo chiede il pianista di continuare con le ultime note di Guapperia (canzone tipica napoletana) per poi sdraiarsi a terra. Ritroviamo molto del suo teatro e del modo di recitare a teatro nei film che ha fatto Servillo a partire dagli anni Novanta. Tra i tanti degni di nota sono sicuramente Il Divo e Le conseguenze dell’amore entrambi scritti e diretti da Paolo Sorrentino. Ne Le conseguenze dell’amore Sorrentino scrive per sottrazione, toglie elementi e rarefà gli ambienti, i dialoghi, intride di mistero le azioni dei personaggi. Insomma toglie ogni frivolezza al film, il quale proprio per questo diventa magnetico. E costruisce un

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personaggio apparentemente privo di attrattiva, quello del protagonista Titta De Girolamo. In questo film il personaggio di Servillo, Titta appunto, è caratterizzato dall’immobilità e dall’introversione, che lo connotano in tutti sensi: immobilità operativa, fisica e affettiva. La vita di Titta sembra essere sospesa tra assenza e presenza. Ma le conseguenze dell’amore non tardano a farsi sentire. Tito diviene padrone dei propri essenziali strumenti di comunicazione, lo sguardo e la parola, diventa cioè un uomo completo, capace di sostenere di fronte a mafiosi che l’hanno convocato, il diniego a consegnare loro la valigia carica di milioni sparita a seguito di una rapina e coraggiosamente recuperata. Lo sguardo di Servillo si fa saldo, il suo volto diventa il teatro della dignità conquistata da Titta, il quale morirà ad occhi aperti, quasi in segno di sfida a quel mondo che gli ha rubato la vita, tuffato in una vasca di cemento, secondo la classi-


ca ritualità della mafia. L’amore che l’ha solo sfiorato ha portato a Titta queste terribili conseguenze. Un altro esempio della teatralità di Servillo nel cinema lo troviamo nel monologo sul potere di Giulio Andreotti ne Il Divo. Lo scopo del film non è quello di fare una biografia del personaggio, quanto di raccontare gli anni, in cui questo personaggio misterioso ne era il simbolo. Il film è una interessante riflessione simbolica sulla solitudine del potere, sulla distanza del potere dalla gente, sul mistero del potere. Questo film racconta quello che raccontava Manzoni ne I promessi sposi: l’eterno problema dell’Italia, che subisce una forte ingerenza da parte di paesi stranieri, da parte della Chiesa e da parte di poteri criminali. Andreotti è un personaggio misterioso, drammaturgicamente efficace, che parla per frasi fatte con la vanità

di un attore, senza mai riuscire a far capire se quelle frasi fatte, vogliono essere allusive; troncare il discorso o se non significare niente. Servillo dichiara più volte che la voce è stata la parte più angosciante per lui perché la cosa più personale di un attore è l’intonazione del suo strumento. Con il personaggio di Andreotti ha voluto recitare con una voce che non era la sua, ma sicuramente tutti questi sacrifici hanno avuto successo. L’attore nel film da luogo a un monologo che aumenta progressivamente di intensità, vorticoso e inarrestabile. Lo spazio scenico dell’intimità domestica si accende in riflettori, inquadrati a vista: Andreotti in piedi, di spalle, incorniciato dal profilo della porta; davanti a lui la tenda bianca della finestra, come un sipario, con ai lati due tende nere a delimitare la quinta. Si gira su se stesso, verso la macchina da presa che carrella verso

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di lui. Nel salone, al centro della inquadratura, si siede sulla poltrona, si aggiusta gli occhiali sul volto, dà inizio alla recita guardando verso l’obiettivo, illuminato dall’intensa luce a spiovente, in una teatralizzazione che il dato coreografico sottolinea. Andreotti si rivolge alla moglie, che non hai idea delle malefatte che il potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo del paese. In un crescendo distruttivo e urlato, perdendo l’abituale compostezza si autoaccusa di tutte le morti e di tutte le stragi avvenute in Italia negli anni delle strategia della tensione. Scoperto il sarcofago dei segreti dichiara quelle verità occultate e da occultare perché tutti pensano che “la verità sia la cosa giusta” Il tono, infine si smorza, i riflettori si spengono e cala il buio. Torna l’oscurità che ristabilisce quella insondabilità del personaggio e quel mistero su cui il film si incentra. Da aprile è nelle sale cinematografiche con Lasciati andare, brillante e divertente commedia diretta da Francesco Amato, che vede l’attore in un ruolo del tutto inedito. Dismessi i panni dell’antipatico, Servillo veste i panni di Elia, un burbero psicanalista annoiato dalla sua professione, separato dalla moglie, Giovanna, interpretata da Carla Signoris, che tiene tutti a debita distanza. Una vita apatica che prenderà una svolta con l’irruzione nella loro vita di Claudia, un’eccentrica personal trainer che lo metterà a dura prova, trasportandolo in un modo a lui sconosciuto: quello della ginnastica. Una pellicola questa venduta in Usa, Canada, Australia, Grecia, Israele, Spagna, Taiwan e Turchia, e i protagonisti hanno mostrato grande affiatamento, dichiarando di essersi divertiti come pazzi. Da Giulio Andreotti nel Divo a Silvio Berlusconi nel prossimo film di Paolo Sorrentino. Ospite di Che tempo che fa da Fabio Fazio su Rai Tre, Toni Servillo ha confermato che prossimamente vestirà i panni dell’ex premier. Allora non ci resta che andare al cinema in attesa del prossimo film.

Toni Servillo dal film La grande bellezza durante le riprese del film Il divo


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cinema

7 Bond

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il suo nome ERA

Giorgio Banchi

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lto, occhi azzurri, sorridente, elegante, passo sicuro e smooking erano il suo marchio di fabbrica. La sua immagine sprigionava una galanteria e una classe innati. È a Londra nel 1927 che nasce Roger Moore, gentleman del grande schermo capace di risultare impeccabile e raffinato anche alle prese con le situazioni più improbabili. I personaggi di Moore sono i tipici rappresentanti di quella razza di uomini che anche qualora dovessero ruzzolare giù da un burrone, si rialzerebbero illesi. Una razza a cui appartiene sicuramente James Bond, di cui Roger Moore è stato per alcuni anni uno degli alter ego più amati. Fu lui a sanare la “ferita” nei fan di 007 per l’abbandono di Sean Connery. Dopo essere venuto alla luce in una umida giornata londinese, l’attore trascorre un’infanzia normale, supportata dall’ottima famiglia che lo ha sempre amato e protetto. Portato in modo naturale alla recitazione, dopo gli studi alla Royal Academy of Drama, appare come comparsa in alcuni lavori teatrali. Purtroppo la seconda guerra mondiale è alle porte. È un’esperienza che Roger

James

ha dovuto vivere sulla propria pelle fino in fondo, arruolandosi nell’esercito e combattendo al fianco degli alleati per la liberazione dal nazifascismo. Finita la guerra e lasciatosi alle spalle, per quanto possibile, questa drammatica esperienza comincia a lavorare in teatro, radio e televisione, ma anche come modello e rappresentante, e parte per gli USA, meta leggendaria di tanti artisti come lui. Nessuna scelta fu più fortunata. Qui firma un contratto con la MGM che gli offre l’opportunità di comparire in diverse pellicole. Molti ad esempio lo ricordano in Ivanhoe, prima importante serie televisiva, seguita dall’altrettanto fortunata Maverick. Ma il vero grande successo giunge con la serie tv Il Santo, nel ruolo di Simon Templar e con Attenti a quei due! nei panni di Lord Brett Sinclair, a fianco di un Tony Curtis. Questi ruoli lo accreditano come perfetto interprete di film di spionaggio e infatti, dopo la dipartita dal set del leggendario Sean Connery, eccolo vestire i panni dell’Agente 007, James Bond, l’agente con licenza di uccidere. Da L’uomo dalla pistola d’oro e Vivi e lascia morire a A View to a Kill,

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sono ben sette i film dell’immarcescibile serie che lo vedono protagonista, tutti con ottimi riscontri di pubblico. Un successo tale che il governo britannico lo premia con l’onorificenza di Cbe. Dopo la sua carriera da attore, Moore è stato molto attivo socialmente, diventando tra le altre cose ambasciatore dell’Unicef nel 1991. Ha anche recitato in alcuni messaggi di sensibilizzazione della PETA (People for the Ethical Treatment of Aniamals), l’organizzazione per i diritti degli animali. L’attore inglese è stato sposato quattro volte, e ha avuto tre figli: l’ultima sua moglie è stata la svedese Kristina Tholstrup. La notizia della morte di Moore è stata data dalla sua famiglia e dai figli Deborah, Geoffrey e Christian. Il comunicato condiviso sul profilo Twitter dell’attore, dice che: «È con dolore che dobbiamo annunciare che il nostro caro padre, Sir Roger Moore, è morto oggi in Svizzera dopo una breve ma coraggiosa battaglia contro il cancro». I funerali di Moore si sono tenuti in forma privata a Monaco. E a noi resta un forte senso di smarrimento. Neanche 007 è immortale.


programma

LXXI FESTA DEL TEATRO

San Miniato

26 e 27 giugno 2017 ore 21.30 San Miniato, Giardino della Cisterna della Misericordia di San Miniato Il Teatro delle Donne - Centro Nazionale di Drammaturgia - in collaborazione con Fondazione Istituto Dramma Popolare

La cura

Testo e Regia Gherardo Vitali Rosati con Elena Arvigo, Alberto Giusta, Dalila Reas, Luca Tanganelli musiche Tommaso Tarani Video The Fake Factory Costumi Fedra Giuliani Tecnici allestimento e disegno luci Andrea Narese, Brando Nencini Prima Assoluta 3 luglio 2017 ore 21.30 San Miniato, Giardino della Cisterna della Misericordia di San Miniato Associazione Imagine

Note di Toscana: diario di un moderno viaggiatore antico di e con Francesca Breschi e Vincanto Prima assoluta

7 luglio 2017 ore 21.30 San Miniato, Giardino della Cisterna della Misericordia di San Miniato Compagnia Lombardi Tiezzi - I Sacchi di sabbia

Dialoghi degli dei

uno spettacolo di Massimiliano Civica e I Sacchi di Sabbia con Gabriele Carli, Giulia Gallo, Giovanni Guerrieri, Enzo Iliano, Giulia Solano Produzione Compagnia Lombardi-Tiezzi in co-produzione con I Sacchi di Sabbia e il sostegno della Regione Toscana 11 luglio 2016 ore 21.30 San Miniato, Cigoli Santuario della Madonna dei Bimbi Associazione Culturale Ca’ Rossa

Leila della tempesta

di Ignazio De Francesco regia Alessandro Berti con Alessadro Berti e Sara Cianfriglia 14 luglio 2016 ore 21.30 San Miniato, Misericordia di San Miniato Basso Suonamidite - Synthesis

Il viaggio del piccolo principe

Libero adattamento di Mario Costanzi da Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry

dal 20 al 26 luglio 2017 ore 21.30 San Miniato, Chiesa di San Francesco Associazione Arca Azzurra Teatro – Elsinor Centro di Produzione teatrale – Fondazione Teatro Metastasio – Fondazione Istituto Dramma Popolare

Vangelo secondo Lorenzo

Di Leo Muscato e Laura Perini Regia Leo Muscato Con (in ordine alfabetico) Francesco Borchi, Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Dimitri Frosali, Elisa Cecilia Langone, Fabio Mascagni, Massimo Salvianti, Lucia Socci, Beniamino Zannoni, e con Alex Cendron nel ruolo di Lorenzo Milani. Nel cast reciteranno anche 5 bambini nel ruolo degli allievi della scuola di Barbiana. Lo spettacolo ripercorre la storia di don Lorenzo Milani seguendo le due stagioni della sua breve vita (Vita da Cappellano e Vita da Priore) che segnano i confini territoriali ove iniziò, proseguì e concluse il suo apostolato sacerdotale: Calenzano prima e Barbiana poi. Vangelo secondo Lorenzo traccia le vicende del Priore e di quanti gli furono accanto ripercorrendo le fondamentali tappe di snodo di quella vicenda umana, sociale e spirituale. A fronte del centinaio di personaggi che popolano il testo, la struttura dello spettacolo prevede la partecipazione di un attore, in ruolo fisso, a interpretare Lorenzo Milani e di undici attori a interpretare tutti gli altri personaggi. 5 bambini, anche essi in ruolo fisso, interpreteranno i ragazzi di Barbiana. www.drammapopolare.it

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© Foto di Luca Passerotti, elaborazione fotografica di Luca Passerotti Immagini realizzate presso il Teatro della Pergola

L U G L I O

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Ventennale di Belvedere S.p.A.

giovedì

Opera di Pietro Mascagni Spettacolo a pagamento

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FABIO CONCATO

CLAUDIO SANTAMARIA

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da Gustave Flaubert

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feat PAOLO DI SABATINO Trio con la partecipazione straordinaria di IRINA TITOVA - La Regina della Sabbia presso LEGOLI, Triangolo Verde

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Le Notti dell’Archeologia Animali, divinità e simboli in Etruria

PECCIOLI, Museo Archeologico

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venerdì

LIONS GOT TALENT Spettacolo a pagamento PECCIOLI, Anfiteatro Fonte Mazzola

GIANCARLO GIANNINI

v e n e r d ì in Le parole note

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INFO e BIGLIETTI Fondazione Peccioliper Piazza del Popolo 5, Peccioli (PI) tel. 0587 672158 - 0587 936423 info@fondarte.peccioli.net 11Lune a Peccioli @peccioliper

STEFANO FRESI VIOLANTE PLACIDO GIORGIO PASOTTI l u n e d ì PAOLO RUFFINI in

STEFANO ACCORSI

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in Mamma Mia!

mercoledì

Spettacolo a pagamento

Sogno di una notte di mezza estate FestaAlchiarDiLuna

in Giocando con Orlando domenica Assolo

s a b a t o in Memorie di un folle

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Spettacolo a pagamento

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venerdì

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CAVALLERIA RUSTICANA

REAL CONSERVATORIO PROFESSIONAL DE DANZA “MARIEMMA” DI MADRID venerdì in Flamenco

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LUCA WARD PAOLO CONTICINI SERGIO MUNIZ

in concerto

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Coreografie di KRISTIAN CELLINI

EMOX BALLET, BALLETTO DI SIENA, KAOS BDF, OPUS BALLET mercoledì in Compagnie toscane

ALVARO SOLER

domenica

domenica Astratto

in Tributo a Ennio Morricone

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GIUSEPPE PICONE e i BALLERINI del SAN CARLO DI NAPOLI per PECCIOLI IN DANZA

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FILARMONICHE DI PECCIOLI, CHIANNI, LAJATICO, TERRICCIOLA E SELVATELLE, domenica CORALE VALDERA

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63° Festival Puccini www.puccinifestival.it

14-23 luglio / 4-12 agosto TURANDOT

La Fondazione Festival Pucciniano propone per l’edizione 2017 del Festival un nuovo allestimento con una ambientazione scenica contemporanea. Firma la regia è Alfonso Signorini, scrittore, giornalista, conduttore televisivo, oggi direttore del settimanale “Chi”. Sul podio uno specialista della partitura pucciniana: il Maestro Alberto Veronesi. Le scene portano la firma di Carla Tolomeo, artista eclettica la cui storia si svolge tra ricerche e intuizioni geniali che le hanno consentito di spaziare tra pittura, scultura e scrittura. Nel segno della modernità anche i costumi, che saranno firmati dallo stilista Fausto Puglisi, brand di riferimento di celebri pop-star tra cui Madonna. Interpreti eccellenti per questa nuova Turandot, che vede protagonisti: Martina Serafin, soprano austriaco, sarà Turandot; il tenore toscano Stefano La Colla vestirà i panni del Principe Ignoto Calaf; Liù sarà interpretata da Carmen Giannattasio e Timur sarà Roberto Scandiuzzi.

15 luglio - 5 agosto LA RONDINE

La Rondine è stata rappresentata per la prima volta il 27 marzo 1917 a Monte Carlo dove fu accolta con successo trionfale. Il centenario di la Rondine sarà accompagnato da una serie di conferenze in collaborazione con il Centro Studi Puccini di Lucca e con Tito Schipa Junior, figlio del grande tenore che per primo interpretò il ruolo di Ruggero. Sul podio Beatrice Venezi, regia Plamen Kartaloff. Straordinari interpreti Donata D’Annunzio Lombardi e Leonardo Caimi, con un cast di giovani.

21, 28 luglio - 11 agosto La Bohème

Nel filone dell’omaggio alla Francia e alla sua capitale, il Festival Puccini metterà in scena l’allestimento con le suggestive e poetiche ambientazioni parigine firmate per il Festival Puccini dal grande e compianto Jean Michel Folon, allestimento già Premio Abbiati e regia di Maurizio Scaparro.

29 luglio - 10,19 agosto Tosca

Sarà riproposto il tradizionale allestimento “cinematografico” con la regia di Enrico Vanzina, che segnò il debutto operistico del regista.

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programma

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PROGRAMMA

38° Festival La Versiliana 3/4/5 luglio Caffè-Chantant Cinema Ragazzi con animazione OMAGGIO A WALT DISNEY 1. Il libro della giungla (2016); 2. Into the woods (2015); 3. Cenerentola (2015). giovedì 6 luglio Caffè-Chantant DEBORA CAPRIOGLIO LUCREZIA BORGIA - PARTO PER TRE MATRIMONI regia Fausto Costantini venerdì 7 luglio Caffè-Chantant MARIO MANGIARANO VERSILIANA DANCE MUSIC & CABARET sabato 8 luglio Caffè-Chantant DARIO BALLANTINI ONE MAN SHOW Food & Beverage con DJ set by Mario Mangiarano domenica 9 luglio Caffè-Chantant BARBARA DE ROSSI e FRANCESCO BRANCHETTI CORO DI DONNA E UOMO lunedì 10 luglio Caffè-Chantant BARBARA BOVOLI ARIANNA HA PERSO IL FILO martedì 11 luglio Caffè-Chantant ANDREA BUSCEMI POESIA E’ TEATRO: ULISSE PER SEMPRE Opere poetiche in forma scenica di Alfredo Lucifero mercoledì 12 luglio Caffè-Chantant ANNA MAZZAMAURO NUDA E CRUDA giovedì 13 luglio Caffè-Chantant VITTORIO SGARBI DIVINA COMMEDIA – INFERNO Canto V (PAOLO E FRANCESCA) - Canto XXVI (ULISSE) venerdì 14 luglio Teatro Versiliana VIOLA PRODUZIONI LE BAL L’italia balla dal 1940 al 2001 sabato 15 luglio Teatro Versiliana AMII STEWART & GERARDO DI LELLA POP ORCHESTRA 70th – the DANCE ERA

martedì 18 luglio Caffè-Chantant ENNIO FANTASTICHINI IL PIACERE e LA PIOGGIA NEL PINETO di Gabriele D’Annunzio mercoledì 19 luglio Caffè-Chantant RENATO RAIMO e ISABELLA TURSO SPOGLIATI NEL TEMPO giovedì 20 luglio Caffè-Chantant MOTIN, RAFFAELE GIGLIO, GIORGIO GULI’ IO CANTO E TU Giancarlo Bigazzi 50 anni di musica italiana venerdì 21 luglio Teatro Versiliana FRANCESCA REGGIANI TUTTO QUELLO CHE LE DONNE (NON) DICONO sabato 22 luglio Teatro Versiliana SERENA AUTIERI DIANA & LADY D Pièce teatrale musicale domenica 23 luglio Teatro Versiliana MASSIMO DAPPORTO UN BORGHESE PICCOLO PICCOLO lunedì 24 luglio Caffè-Chantant ART VISION – ILEANA CITARISTI NIRVANA in collaborazione con l’Indian Council for Cultural Relations – Indian Embassy, Rome martedì 25 luglio Teatro Versiliana IL TEATRO DELLE ARTI IL VIZIETTO regia Angelo Polacci mercoledì 26 luglio Caffè-Chantant DEBORA CAPRIOGLIO CALLAS D’INCANTO giovedì 27 luglio Caffè-Chantant NON C’E’ PROBLEMA EVENTI VOCI SOLE con Claudia Campolongo Venerdì 28 luglio Caffè-Chantant MAURIZIO MICHELI e BENEDICTA BOCCOLI LEGGENDO LEGGENDO sabato 29 luglio Teatro Versiliana MASSIMO LOPEZ & TULLIO SOLENGHI SHOW

domenica 16 luglio Caffè-Chantant LEONARDO FIASCHI ONE MAN SHOW Food & Beverage con DJ set by Mario Mangiarano

domenica 30 luglio Caffè-Chantant SERGIO MASCAGNI VERSILIA IN MUSICA: anni indimenticabili con la partecipazione di Claudio Sottili

Lunedì 17 luglio Caffè-Chantant MARTINA BENEDETTI LA SIGNORINA ELSE di Arthur Schnitzler

lunedì 31 luglio Caffè-Chantant MANUELA BOLLANI C’ERA UNA SVOLTA Canzoni e monologhi con band dal vivo


martedì 1 agosto Teatro Versiliana LUCA WARD, PAOLO CONTICINI, SERGIO MUNIZ, SABRINA MARCIANO MAMMA MIA! IL MUSICAL di Massimo Romeo Piparo mercoledì 2 agosto Caffè-Chantant GABRI GABRA ONE MAN SHOW Food & Beverage con DJ set by Mario Mangiarano giovedì 3 agosto Teatro Versiliana ENRICO LO VERSO UNO, NESSUNO, CENTOMILA di Luigi Pirandello venerdì 4 agosto Teatro Versiliana SILVIA PRIORI CARMEN Narrazione in opera gitana teatro, canto, musica, flamenco sabato 5 agosto Teatro Versiliana GENNARO RAIA - ALESSIO IODICE URBAN STRANGERS - DETACHMENT domenica 6 agosto Teatro Versiliana SONICS - TOREN lunedì 7 agosto Teatro Versiliana COMPAGNIA NAZIONALE DI RAFFAELE PAGANINI IL LAGO DEI CIGNI musiche di P.I. Cajkovski martedì 8 agosto Teatro Versiliana DRUSILLA FOER ELEGANZISSIMA -RECITAL mercoledì 9 agosto Teatro Versiliana COMPAGNIA BUENOS AIRES DANZA TANGO HISTORIAS DE AMOR giovedì 10 agosto Caffè-Chantant PAOLO RUFFINI IL PRINCIPE PICCINO Trasposizione in Vernacolo Livornese de IL PICCOLO PRINCIPE di Antoine de Saint-Exupéry venerdì 11 agosto Teatro Versiliana PAOLA TURCI - IL SECONDO CUORE TOUR sabato 12 agosto Teatro Versiliana ANTONIO STASH FIORDISPINO, ALEX FIORDISPIINO, DANIELE MONA THE KOLORS - LIVE 2017 domenica 13 agosto Teatro Versiliana FIORELLA MANNOIA – COMBATTENTE TOUR lunedì 14 agosto Teatro Versiliana ANDREA PUCCI – IN … TOLLERRANZA ZERO martedì 15 agosto Area Festival MARIO MANGIARANO ONE MORE TIME ’90 SPECIAL DJ set by Mario Mangiarano SERATA EVENTO

mercoledì 16 agosto Teatro Versiliana VITTORIO SGARBI MICHELANGELO giovedì 17 agosto Teatro Versiliana UMBERTO TOZZI – 40 ANNI CHE TI AMO venerdì 18 agosto Teatro Versiliana MORGAN & GILE BAE GILE BAE PLAYS BACH PLAYS MORGAN sabato 19 agosto (Teatro Versiliana) CRISTIANO DE ANDRE’ DE ANDRE’ CANTA DE ANDRE’ domenica 20 agosto Teatro Versiliana ANDREA BUSCEMI - PRIMA NAZIONALE TARTUFO ovvero l’Impostore di Molière lunedì 21 agosto Caffè-Chantant EMILIO TIERI MOVIE RHAPSODY IN BLACK AND WHITE Le più belle colonne sonore da film martedì 22 agosto Teatro Versiliana KEOS DANCE PROJECT THE MIRROR DORIAN GRAY EFFECTS mercoledì 23 agosto Caffè-Chantant GAETANO GENNAI E GRAZIANO SALVADORI SHOW Due ragazzi terribili Food & Beverage con DJ set by Mario Mangiarano giovedì 24 agosto Caffè-Chantant PAOLA QUATTRINI OGGI È GIÀ DOMANI venerdì 25 agosto Teatro Versiliana THE BEAT BOX The best Beatles Experience Tributo ai Beatles sabato 26 agosto Area Festival MARIO MANGIARANO WITHE DANCE PARTY DJ MARIO MANGIARANO “L’estate sta finendo … ma che sei ancora qui!!” domenica 27 agosto Teatro Versiliana I GRANDI CONCERTI DELLA VERSILIANA THE NEW WORLD Il M° ALVISE CASELLATI dirige l’ORCHESTRA DEL FESTIVAL PUCCINI 28/29/30 agosto Caffè-Chantant Cinema Ragazzi con animazione OMAGGIO A WALT DISNEY 4. Maleficient – Il segreto della bella addormentata (2014); 5. Frozen – Il regno di ghiaccio (2013); 6. Alice in Wonderland (Tim Burton 2010). www.versilianafestival.it

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PROGRAMMA

Il Caffè de La Versiliana U n evento politico e culturale nazionale, ma in rapporto stretto con il territorio. Il Caffè de La Versiliana si prepara ad affrontare la sua 38a edizione all’insegna dell’attualità, con un programma di 150 ospiti per oltre 50 appuntamenti, dall’8 luglio alla fine di agosto. Gli incontri, coordinati da Marco Ventura, si terranno alle 18.30 nella pineta di Marina di Pietrasanta cara a Gabriele D’Annunzio. Sul palco si alterneranno figure istituzionali, esponenti di governo, parlamentari della maggioranza e dell’opposizione, direttori di giornale, conduttori televisivi, scrittori, artisti, scienziati, economisti, sportivi, personaggi dello spettacolo e protagonisti della cronaca. Il calendario è in allestimento, proprio perché legato all’attualità e sarà presentato a inizio luglio, ma tra i ministri che hanno già confermato la loro presenza figurano Roberta Pinotti (Difesa) e Valeria Fedeli (Istruzione, Università e Ricerca), governatori come Enrico Rossi (Toscana) e Giovanni Toti (Liguria), il capo della Polizia Franco Gabrielli e il

Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, il presidente del Parlamento Europeo, Antonio Tajani, Walter Veltroni e una nutrita schiera di giornalisti da Bruno Vespa a Paolo Del Debbio, Massimo Giletti, Luciano Fontana, Vittorio Feltri, Alan Friedman, Alessandro Sallusti, Virman Cusenza, Giorgio Mulè, Gianluigi Nuzzi, Magdi Allam, Mario Giordano, Paolo Brosio, Paolo Guzzanti e i direttori de La Nazione e Il Tirreno, Pier Francesco De Robertis e Luigi Vicinanza, nella veste anche di intervistatori d’eccezione. Tra gli autori di best seller Roberto Cerè e Raffaele Morelli. Importante novità sarà la trasmissione integrale degli incontri sul TGCom 24. Le telecamere Mediaset riprenderanno infatti integralmente gli incontri del week end per la messa in onda sul canale all news del gruppo. Alla conduzione degli incontri ci saranno anche volti delle reti Mediaset quali Claudio Brachino e Paolo Liguori. Un’attenzione particolare al territorio versiliese e toscano, anche grazie agli appuntamenti con Fabrizio Diolaiuti. E alle tradizioni culturali gastronomi-

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che con Eleonora Cozzella. Sul palco a raccontare le storie di uomini straordinari Francesca Fellini. Altre giornate saranno dedicate alla salute e alla lotta ai tumori. Presto definiti i conduttori (lo scorso anno una dozzina). Così come saranno di nuovo sul palco del Caffè alcuni degli ospiti che lo scorso anno hanno assicurato il successo del più lungo e frequentato salotto estivo italiano, che nella scorsa edizione ha visto per la prima volta la partecipazione del presidente del Consiglio in carica, Matteo Renzi.


programma

VILLA BERTELLI

ESTATE AL FORTE sabato 8 luglio 2017, ore 19:00 Compagnia Teatrale Sganzisgatto

Cappuccetto Rosso e il Mantello Maledetto

venerdì 4 agosto 2017, ore 21:30

giovedì 17 agosto 2017, ore 21:30

Chiara Galiazzo

Enrico Brignano in Enricomincio da Me!

sabato 5 agosto 2017, ore 21:30

Musical

Le Orme e i Dik Dik

sabato 19 agosto 2017, ore 21:30

venerdì 14 luglio 2017, ore 21:30 Simona Molinari con Mauro Ottolini in

mercoledì 9 agosto 2017, ore 21:30

Renzo Arbore e l'Orchestra Italiana

Loving Ella

uno speciale tributo a Ella Fitzgerald sabato 15 luglio 2017, ore 19:00 Compagnia Sganzisgatto

Peter Pan Musical

sabato 22 luglio 2017, ore 21:30

Jack Savoretti sabato 29 luglio 2017, ore 21:30 Antonio Meccheri e Lora Santini in

Versiglia in Bocca

Ermal Meta giovedì 10 agosto 2017, ore 21:30

Francesco Gabbani sabato 12 agosto 2017, ore 21:30

Nek domenica 13 agosto 2017, ore 21:30

Marco Masini lunedì 14 agosto 2017, ore 21:30

Antonello Venditti mercoledì 16 agosto 2017, ore 21:30

Francesco Renga

lunedì 21 agosto 2017, ore 21:30

Giuseppe Giacobazzi in Io ci sarò

martedì 22 agosto 2017, ore 21:30

Max Gazzè giovedì 24 agosto 2017, ore 21:30

TheGiornalisti venerdì 25 agosto 2017, ore 21:30

Benji e Fede

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MUSICA

la

musica

del

cuore Leonardo Taddei

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’ennesimo appuntamento, il 62esimo, con l’Eurovision Song Contest, il concorso canoro più famoso d’Europa, si è tenuto quest’anno in Ucraina, terra incandescente non solo perchè sede del recente conflitto con la vicina Russia ma anche per il calore dell’accoglienza che caratterizza il popolo di quella nazione. Il 9 ed 11 maggio 2017, presso l’International Exhibition Centre di Kiev, si sono svolte le due semifinali, alle quali hanno preso parte ben 42 paesi, in competizione per i 20 posti disponibili per la finale di sabato 13 maggio, in aggiunta a quelli dei cosiddetti Big five, le cinque teste di serie – Italia, Francia, Spagna, Germania e Regno Unito – già qualificate di diritto all’ultima setata, insieme all’Ucraina stessa, in quanto stato ospitante. Oltre al ritorno in gara di Portogallo e Romania, si sono anche registrati i ritiri illustri di Bosnia Erzegovina e proprio della Russia, la cui cantante Julia

Eurovision Song Contest 2017 Samoylova, in un primo momento prevista in concorso con la canzone Flame is burning (Una fiamma sta bruciando) nella seconda semifinale, è stata bandita per tre anni dall’ingresso in Ucraina per aver violato una legge secondo la quale è vietato entrare dalla Russia direttamente in Crimea, territorio conteso tra le due nazioni, dove la cantante ha invece ammesso di essersi recata ben due volte per promuovere la propria canzone. A seguito di questa limitazione, il 13 aprile Channel One Russia, il canale che avrebbe dovuto trasmettere l’evento, ha dichiarato ufficialmente che non avrebbe più onorato l’impegno e, conseguentemente, l’EBU, l’European Broadcasting Union, si è vista costretta ad annunciare che se il rifiuto fosse persistito non sarebbe stato possibile partecipare alla competizione per la delegazione di Mosca. L’evento preparatorio previsto in Russia per il 21 aprile è stato dun-

Francesco Gabbani canta ‘’Occidentali’s karma’’ sul palco di Kiev

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que annullato a causa dell’aggravarsi della già critica situazione politica e dell’incertezza riguardante la partecipazione alla competizione, dopo che la nazione del Cremlino aveva categoricamente escluso l’ipotesi, avanzata dagli organizzatori, di sostituire la cantante in gara. Per quanto concerne i premi della critica, i Marcel Bezençon Awards, quello al miglior artista ed al miglior compositore sono stati assegnati al Portogallo di Salvador Sobral, che con la sua canzone Amar Pelos Dois (Amare per entrambi), scritta dalla sorella Luisa, ha fatto quasi l'en plein, se si escludono i due premi della sala stampa e di OGAE, l’organizzazione generale dei fans dell’Eurofestival, andati entrambi all’Italia con Occidentali’s karma del fresco vincitore di Sanremo 2017 Francesco Gabbani, giunto poi sesto nella classifica finale. Ancora aperte, invece, le urne per la votazione dell’irriverente Barbara Dex Awards, il riconoscimento al peggior outfit della manifestazione, intitolato all’omonima cantante belga che nell’edizione del 1993 si cucì da sola il costume per la propria esibizione. Il Portogallo, risultando primo anche per le giurie di qualità e per il televoto, si è dunque aggiudicato la vittoria finale, con un ampio margine sulla Bulgaria di Kristian Kostov, che con la canzone Beautiful mess (Bella confusione) si è fermato a quasi 250 punti di distanza dal primo classificato, ma è riuscito comunque a precedere nell’ordine l’esuberante traccia dance Hey mamma dell’eccentrico gruppo moldavo SunStroke Project ed il raffinato brano elettropop City lights (Luci della città) della rappresentante belga Blanche.


Una vittoria ampiamente condivisa anche da organizzatori ed addetti ai lavori, come raramente si assiste nella manifestazione, per una composizione dalle indubbie qualità e dal semplice ma, al tempo stesso, delicato e sofisticato arrangiamento, eseguita in modo molto scenico e toccante dal cantante portoghese, che ha emozionato il pubblico in sala e da casa con una vivida ed appassionata interpretazione di un testo già malinconico, tristemente riferito ad un amore concluso, e reso ancor piú tragico dalle precarie condizioni di salute dell’artista. “Se un giorno qualcuno chiede di me Digli che ho vissuto solo per amare te Prima di te, sono esistito solo Stanco e senza niente da dare. ..... Se il tuo cuore non vuole cedere Né sentire la passione, né vuole soffrire Senza fare piani su quello che verrà dopo, Il mio cuore può amare per entrambi” recitano infatti alcuni versi del brano. A causa di un problema cardiaco molto serio, che gli impedisce di restare lontano per piú di una settima-

na dall’équipe medica che lo monitora e lo cura in Portogallo, il cantante non è infatti nemmeno potuto essere presente alle prove, in occasione delle quali è stato sostituito dalla sorella, autrice del brano. Con la sua commovente storia ha fatto tenere il fiato sospeso ai molti milioni di telespettatori, incollati agli schermi durante la sua esibizione, che lo hanno alla fine ripagato consegnandogli la vittoria. Dopo molti anni in cui la musica commerciale aveva preso il sopravvento sulla manifestazione, sicuramente quest’anno si è avvertito un cambio di rotta, che ha riportato al centro dell’attenzione l’arrangiamento, l’espressività intimista e il canto in una lingua diversa dall’inglese. «Ho riportato la musica di qualità all’Eurovision», ha dichiarato il cantante in conferenza stampa, «e non ho mai cantato una canzone pensando se sarebbe poi passata in radio oppure no», ha aggiunto in polemica contro i brani piú discografici presenti in questa edizione, primo tra tutti proprio quello dell’Italia, favorita della vigilia, e nelle precedenti. È stata dunque, stando alle sue parole, una vittoria della musica. Probabilmente, dato che tutta la musica ha la propria dignità, indipen-

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dentemente dal genere, più che di una vittoria della musica dovremmo parlare di una vittoria della musica del cuore, tant’è che se non si fosse trattato di un brano dal così chiaro e cristallino valore i piú scettici l’avrebbero già bollata come una vittoria del vittimismo. Sicuramente un bagno di umiltà sarebbe cosa gradita ed auspicata, soprattutto ai cantanti giovani che muovono i primi passi su palcoscenici internazionali di questo calibro, ma, per Salvador ed il suo grande cuore, forse è possibile fare un’eccezione. Foto: Andres Putting, Thomas Hanses

I tre presentatori della manifestazione, da sinistra a destra, nell’ordine, Timur Miroshnychenko, Oleksandr Skichko e Volodymyr Ostapchuk L’esuberante esibizione del gruppo moldavo SunStroke Project, terzo classificato Il portoghese Salvador Sobral festeggia la vittoria con la sorella Luisa, autrice del brano La cantante belga Blanche, quarta classificata Il bulgaro Kristian Kostov, secondo classificato, durante la sua esibizione in finale


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LIBRI

fiato alle canne 49 inediti per organo del giovane Giacomo Puccini Franco De Rossi

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a terza edizione del Lucca Classica Music Festival tra gli oltre 90 eventi proposti in quattro giorni agli inizi di maggio, non ha certo dimenticato Giacomo Puccini. Sono state infatti presentate 49 composizioni per organo inedite del compositore toscano, noto in tutto il mondo, ma certo non per le sue composizioni per organo, che si credevano disperse. L’ampliamento del catalogo pucciniano getta una luce nuova sugli anni giovanili del musicista, prima del 1880, quelli della formazione. Il volume Giacomo Puccini organista. Il contesto e le musiche, a cura di Fabrizio Guidotti (Ed. Olschki, 2017), che ha visto la sua “première” insieme al cd Puccini organ Works (Passacaille Records, 2017), è stato presentato durante il Festival lucchese dagli autori Gabriella Biagi Ravenni, docente di Storia della Musica dell’ateneo pisano, dal musicologo Virgilio

Bernardoni, presidente dell’Edizione nazionale delle Opere di Puccini, e dallo stesso curatore Guidotti. Gli amanti di musica classica, non solo i musicologi, potranno così scoprire che Puccini, come già Verdi e Bizet, ha iniziato a comporre per organo da giovanissimo e potranno valutare per la prima volta lo spessore di queste composizioni degli esordi. «Se è accettabile la data del primo fascicolo ritrovato – 4 febbraio 1870 – si scopre un musicista indubbiamente originale e precoce, 11 anni e mezzo. Le melodie sono particolarmente cinetiche grazie all’uso della dissonanza. Così cambia l’immagine del musicista che tutti conosciamo – ha spiegato Virgilio Bernardoni al pubblico del Festival – abbiamo ritrovato invenzioni per i vari momenti della Messa, ma anche tre valzer, banditi dalla liturgia del periodo, che dimostrano già una certa indipendenza di Puccini». La professoressa Biagi Ravenni, presidente del Centro Studi Puccini, ha svelato le modalità quasi avventurose del ritrovamento di alcuni degli inediti presentati a Lucca: «Il musicologo lucchese Bonaccorsi già nel 1927 scriveva che Puccini aveva un allievo di Porcari, Carlo Della Nina, di professione sarto. Per Della Nina Puccini scrisse numerose pagine di musica per organo, date per disperse. Quando Puccini si trasferì a Milano, quelle pagine vennero custodite per anni da Carlo Della Nina e, in seguito, dalla sua famiglia, in particolare da suo nipote Carlo, che negli anni ’80 del Novecento le mise in vendita da Sotheby’s. Per fortuna pensò bene di farne prima delle copie. Le ricerche di Aldo Berti, del Centro Studi Puccini, sulla famiglia

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Della Nina portarono all’incontro con Giuseppe Della Nina (omonimo ma non discendente di Carlo), un incontro che permise comunque di rintracciare il figlio di Carlo, Carl, che vive oggi a Chicago – ha spiegato la professoressa Biagi Ravenni –. Altro incontro importante per il recupero di questi inediti pucciniani fu quello di Berti con l’organista lucchese Andrea Toschi, che rivelò di possedere un brano di Puccini, una marcia datata 1878. Finalmente (nel 2015, n.d.r.) le fotocopie di Carl ritornarono a Lucca e dopo un complicato lavoro di ricostruzione fatto dal Centro Studi Giacomo Puccini, insieme a Dieter Schickling e Virgilio Bernardoni, abbiamo potuto recuperare 21 brani inediti per organo, di cui si era persa traccia. Questi si devono sommare ai 7 ritrovati nell’archivio Toschi e ad altri 20 brani mai eseguiti, scoperti con una ulteriore ricerca su manoscritti del periodo. Siamo arrivati così ai 49 proposti dal volume». Sull’autenticità del materiale non vi sono dubbi: la grafia è quella di Puccini. Su una partitura, inoltre, appare chiara la firma del grande compositore lucchese. L’accurato lavoro di ricostruzione va avanti per oltre un anno e alla fine il risultato è notevolissimo, quasi sorprendente per le caratteristiche dei brani inediti, che al tempo suscitarono anche qualche polemica nel mondo ecclesiastico lucchese. Valzer, quindi, ma anche citazioni da letteratura musicale varia (come la singolare parafrasi di “Questa o quella per me pari son”, dal Rigoletto di Giuseppe Verdi). La carica energetica di un Puccini ragazzo è pronta a rivivere dopo quasi 150 anni dalla composizione di musiche che pensavamo perdute.


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SPORT

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gioventù

39o Torneo Internazionale Città di Santa Croce Mauro Sabatini

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nche quest’anno la meglio gioventù del tennis (200 atleti di 44 Paesi e 5 Continenti) si è data appuntamento a Santa Croce sull’Arno, sui campi d’argilla del Cerri, laddove l’odore acre delle concerie diventa campagna, terra rossa, dolce tic-toc e puro spettacolo sportivo. Il tradizionale torneo internazionale giovanile Città di Santa Croce Mauro Sabatini – il “Viareggio” del tennis, giunto alla trentanovesima edizione, prossimo a tagliare il traguardo storico dei 40 anni di vita – non ha deluso le attese e ha confermato un livello tecnico degno di quel “grade 1” italiano del circuito ITF che rappresenta la qualifica nazionale esclusiva che fa onore alla piccola cittadina del cuoio. Se gli azzurrini del tennis ci avevano abituato male negli ultimi due anni (un successo e ben due finali tra uomini e donne), l’edizione 2017 della kermesse santacrocese ha ristabilito il predominio straniero con le vittorie del brasiliano Thiago Seyboth Wild e della svizzera Ylena In-Albon, degni continuatori di tradizioni tennistiche ben radicate nella storia di questa competizione. Con le frontiere tennistiche ormai dilatate verso i nuovi orizzonti asiatici (vedi l’affaire di famiglia del

doppio femminile), con la presenza robusta dei sudamericani e dei talenti dell’Est europeo, all’Italia non sono toccati altro che un titolo (consolatorio) nel doppio maschile con la coppia Ramazzotti/Iannacone e la semifinale (inattesa) del friulano Guido Marson, un prodotto della scuola di Bordighera gestita dal “guru” Riccardo Piatti. Detto del lato tecnico della manifestazione, rimane da sottolineare la bellissima cornice di pubblico che ha caratterizzato nove giorni di torneo, e i circa 1000 spettatori assiepati sulle nuove tribune del club il sabato delle finali. Il merito di tutto questo va all’organizzazione del torneo – che fa capo a Francesco Maffei, giovane successore dell’indimenticato Mauro Sabatini – e alla scelta vincente di legare sempre più il tennis al territorio: lo dimostrano gli accordi sempre più stretti con i club del comprensorio (Pontedera, Villanova, Fornacette); il consolidamento degli accordi con il Liceo Linguistico Eugenio Montale di Pontedera; una forte intesa con il mondo istituzionale di riferimento; l’appeal grazie al quale il torneo attrae i preziosi sponsor (Carismi, Morellino, Conceria Tuscania, Conceria Bcn, Klf, Tecnokimica e Manifattura 4f). Una menzione speciale

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va allo staff del bar/ristorante del TC Santa Croce sull’Arno, guidato dagli inesauribili Sestilio e Monica che con professionalità e affabilità hanno reso piacevole il ristoro di atleti, tecnici, dirigenti e appassionati, offrendo il carburante giusto per compiere, tutti insieme, ancora una volta, il miracolo tennistico di Santa Croce sull’Arno. Risultati finali: singolare maschile: Thiago Seyboth Wild (1, Bra) b. Blake Ellis (6, Aus) 63 63; singolare femminile: Ylena In-Albon (Sui) b. Simona Waltert (7, Sui) 64 64; doppio maschile: Iannacone/Ramazzotti (Ita) b. Geller (5, Arg)/Mejia (5, Col) 75,76 (3); doppio femminile: Chen (6,Tpe)/Sato (6,Jpn) b. Cho (Tpe)/Lin(Aus) 62,63

Marco Massetani

Il direttore del torneo Francesco Maffei e il presidente dell’ASD Tennis Santa Croce Simone Martini con vincitrici e finaliste del doppio La vincitrice del singolare femminile, la svizzera Ylena In-Albon Il vincitore del singolare maschile, il brasiliano Thiago Seyboth Wild

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scuola

O Angelo Errera

Debora Bianchi, Belardo Mariantonietta e l’art director Andrea Zampol D’Ortia

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f or Six

o scorso 14 maggio a Palazzo Mora, in concomitanza con la biennale d’arte e nella splendida cornice veneziana, si è conclusa la premiazione dei vincitori del concorso internazionale O Six for Art fortemente voluto dalla Thema Optical, azienda guidata da Giorgio Valmassoi e dai figli Roberto e Giulia, operante da sempre nel settore dell’ottica con i prodotti che rispecchiano serietà, passione ed entusiasmo, caratteristiche, queste ultime, grazie alle quali l’azienda e conosciuta in diverse parti del mondo . Il concorso O Six a cui hanno partecipato artisti provenienti da varie parti del mondo ha visto anche la partecipazione di Debora Bianchi una giovane studentessa di moda dell’IPSIA Arturo Checchi di Fucecchio. Debora, risultata tra i primi sei selezionati, è una promettente designer e fin dalla più tenerà età ha rivelato la sua predisposizione per l’arte e il design. La sua genialità ha stupito la commissione di giuria che ha per questo deciso di premiare lei come gli altri 5 giovani concorrenti con la somma di

tremila euro, l’esposizione del prototipo degli occhiali nella mostra permanente di Palazzo Mora fra le centinaia di opere d’arte e installazioni nonché la presentazione del proprio progetto su vari cataloghi di settore. Il concorso prevedeva infatti la realizzazione di un book con una serie di occhiali da sole e da vista seguendo la linea di art-marketing con elementi di originalità, creatività, backstage e riproducibilità. I progetti presentati dall’art-director Andrea Zampol d’Ortia denotano a suo dire un forte desiderio di trovare nuovi orizzonti: «il premio O-Six nasce proprio per questo, è un incontro emozionante tra l’arte e la Thema Optical». L’alunna Debora Bianchi è un 'ottima 'allieva con delle grandi potenzialità e come lei tanti altri giovani fuori e dentro la scuola aspettano solo di essere guidati e incoraggiati; ne è convinta la sua insegnante di progettazione, professoressa Mariantonietta Belardo, decoratrice, illustratrice, stilista di moda che da anni insegna al Checchi seguendo e incoraggiando la pas-

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sione dei propri alunni. L’insegnante ha seguito la ragazza fin dall’inizio del concorso accompagnandola infine a Venezia dove ha potuto assistere alla sua premiazione. Artigianato e industria, un connubio perfetto per il futuro dell’imprenditoria giovanile. Una bella soddisfazione per questi giovani talenti e un ottimo esempio trasmesso dai Valmassoi di come l’industria possa investire e credere nei giovani!


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SVOLGIMENTO CORSI: Monsummano Terme (PT) SCADENZA ISCRIZIONI: 20/07/2017

I CORSI CORSO SONO INTERAMENTE GRATUITI IN QUANTO FINANZIATI CON LE RISORSE DEL POR FSE TOSCANA 2014-2020, ASSE A E ASSE C – E DEL DD. 2779 DEL 06-05-2016 E RIENTRANO NELL’AMBITO DI GIOVANISÌ (WWW.GIOVANISI.IT), IL PROGETTO DELLA REGIONE TOSCANA PER L’AUTONOMIA DEI GIOVANI

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DURATA:

Il percorso ha una durata complessiva di 330 ore di cui 99 di stage. I percorsi si svolgeranno nel periodo Giugno 2017 - Gennaio 2018

REQUISITI DI INGRESSO:

L’ammissione al corso di cittadini provenienti da Paesi non UE è subordinata alla conoscenza della lingua italiana (livello A2 dell’European Framework) che potrà essere accertata attraverso apposito test, durante la selezione. Partners

Codice accreditamento PT0144

Codice accreditamento PI0477

Codice accreditamento FI0012

Codice accreditamento PI0606

Codice accreditamento PI0007

Codice accreditamento FI0500

PO.TE.CO. Via San Tommaso n. 119/121/123 56029 Santa Croce sull’Arno (PI) Tel. 0571 471318 Fo.Ri.Um. Sc, Via Del Bosco, 264/F 56029 S. Croce s/Arno (Pi) Tel. 0571 360069

Cittadini residenti in Italia, di età maggiore a 18 anni, inattivi, inoccupati o disoccupati. Il 30% dei posti è riservato a donne.

Codice accreditamento PI0145

PER ISCRIZIONI E INFORMAZIONI:

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Servindustria Pistoia Srl Via Luciano Lama 30, 51015, Monsummano Terme (PT) Tel. 0573/99171 Copernico Via Carducci, 39 Loc. La Fontina, Ghezzano, San Giuliano Terme Tel. 050 876572


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anniversario

ancora un traguardo «L Alessandro Susini Team Agenzia Santa Croce sull'Arno

a tenacia è il segreto che ci ha accompagnati nei primi ruggenti venti anni». Con questa frase Alessandro Susini ha esordito il 21 aprile scorso al Golf Bellosguardo di Vinci, parlando agli ospiti intervenuti per festeggiare insieme a lui e il suo staff, il ventennale dell’Agenzia assicurativa da lui creata. Splendida la cornice delle colline verdeggianti, allietante il sottofondo musicale e la comicità dell’intrattenitore, appetitosa la cucina toscana servita ai tavoli del ristorante Bellosguardo. In occasione della serata, il dirigente

Massimo Michelotti, Area manager della Allianz, ha consegnato a Susini e alla sua agenzia una targa di riconoscimento per il lavoro sin qui compiuto. Nel mese di aprile del 1997, Susini fece una scommessa con la società Ras – oggi Allianz – dando vita all’agenzia di San Donato/San Miniato, dove già festeggiò i primi dieci anni di attività svolta con ottimi risultati, accrescendo la propria credibilità e professionalità nel campo assicurativo. Dalla sede originaria, ormai da diversi anni l’azienda si è trasferita a Santa Croce sull’Arno, nei nuovi uffici al n. 13 di via Brunelli. Alessandro Susini e il suo armonico team, oltre alla preparazione professionale a livello sia amministrativo che produttivo, sono riusciti ad affrontare e superare in questi anni i momenti difficili che si sono presentati, traendone forza e convinzione del proprio lavoro, in special modo dopo l’entrata in vigore della legge Bersani nel 2007. Una continua ricerca nel formulare

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sempre soluzioni innovative, capaci di soddisfare le esigenze più particolari dei clienti anche con prodotti di altre compagnie. Ma che cosa è che differenzia questa agenzia dalle altre? Questo differenzia la agenzia dalle altre: nell'innovazione, la capacità di utilizzare attenzione alle esigenze, individuando il prodotto richiesto e anticipando le tendenze e necessità di ogni target di potenziali clienti, siano essi privati, aziende o enti istituzionali. Complessivamente un'assistenza professionale reale a 360°, in un territorio dal quale "mossi" i primi passi 20 anni fa, adesso l'agenzia spazia in tutta la Toscana. Notizia di questi giorni è un ambito riconoscimento comunicato dai vertici aziendali alla struttura: Alessandro Susini e il suo team hanno conseguito il primo posto nella gara nazionale tra tutte le agenzie Allianz Centro Nord, per i volumi distribuiti di un nuovo prodotto a tutela dei rischi infortunistici.


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scuola

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Opera premiata eseguita dalla 1a B Scuola Media di Montopoli in Val d'Arno 1 D Scuola Media di Ponte a Egola e opera eseguita dalla classe a

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n nuovo progetto, promosso dal Gruppo Lapi insieme al Lions Club San Miniato e al dipartimento di Educazione alla Salute di Empoli della AUSL Toscana Centro, ha permesso agli studenti delle classi prime, attraverso tre incontri seguiti da personale qualificato del centro multidisciplinare Comunicarea, di far emergere le proprie capacità personali e di avvicinarli alla storia del nostro territorio ed al rispetto per l’Arte. Con la sperimentazione manuale di diverse tecniche artistiche hanno riprodotto, prima individualmente e poi lavorando in gruppo, un'opera d’arte famosa presentata e discussa in classe all’inizio del percorso. Le opere scelte su cui i ragazzi delle scuole hanno lavorato sono: Gruppo di cani del grande pittore e incisore toscano Giuseppe Viviani, e Uomo e donna

dell'artista Fernando Botero cittadino onorario di Pietrasanta. Nella mattina del 3 maggio, si è svolta direttamente presso gli istituti comprensivi G. Galilei di Montopoli e M. Buonarroti di Ponte a Egola, la cerimonia di premiazione degli studenti che hanno partecipato al progetto “Rispetto… a colori. Pitturiamo la vita”, iniziativa che ha coinvolto 233 ragazzi. Le opere realizzate da ciascuna classe sono rimaste esposte per un intero weekend nello scorso mese di aprile in una mostra organizzata presso Villa Pacchiani, grazie anche al patrocinio dell'amministrazione comunale di Santa Croce sull’Arno. Oltre 200 visitatori hanno lasciato la loro votazione per l’opera d’arte preferita designando così le classi vincitrici: classe 1^ B per la scuola media di Montopoli Val d’Arno, Istituto G. Galilei; classe 1^ D per la scuola media di Ponte a Egola, Istituto M. Buonarroti. I promotori del progetto hanno ringraziato la dirigente scolastica, Cristina Amato, per la collaborazione pre-

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stata ed hanno premiato i 47 studenti appartenenti alle due classi vincitrici omaggiando ciascuno personalmente di un gioco educativo in scatola, ricco di richiami a nozioni culturali artistiche e geografiche; un premio pensato per stimolare ulteriormente nei ragazzi la curiosità ad approfondire la scoperta del patrimonio artistico e culturale del nostro Paese. Il progetto proseguirà nei prossimi due anni scolastici coinvolgendo anche le altre scuole medie del Valdarno (2017/2018 istituti Montanelli Petrarca di Fucecchio e F. Sacchetti San Miniato, 2018/2019 ist. Banti di Santa Croce sull’Arno e L. da Vinci Castelfranco di Sotto).


economia

ss on c i a t o r i A C nuovi CdA e presidente per il prossimo triennio

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lessandro Francioni è il nuovo presidente dell’Associazione Conciatori, eletto mercoledì 7 giugno 2017 nel corso della prima riunione del rinnovato cda dell’Associazione Conciatori, in carica per il prossimo triennio. Classe ’46, di Castelfranco di Sotto, titolare della conceria Sanlorenzo, già in passato al vertice dell’Assoconciatori, di cui è vicepresidente uscente, Alessandro Francioni è tra gli imprenditori conciari che meglio conoscono il settore e le dinamiche associative. Lavoro di squadra: «Fondamentale l’apporto di tutti i conciatori» «Con il supporto di tutto il cda e di

tutti i conciatori associati-dice Francioni-vogliamo continuare il lavoro fatto con costanza in questi anni su più fronti nell’interesse del comparto: dall’Accordo di Programma che ci ha visto registrare i primi importanti risultati sino alla valorizzazione della qualità complessiva del lavoro dei nostri imprenditori, dalle attività di ricerca e formazione alle iniziative per far conoscere ad un pubblico sempre più vasto l’eccellenza di questo distretto conciario. In un percorso corale in cui sono fondamentali l’apporto di tutti i conciatori e il dialogo costante con i rappresentanti dell’amministrazione e dell’in-

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tero tessuto socio-economico». Il neopresidente Francioni sarà affiancato da un comitato di presidenza, composto oltre che dai vicepresidenti, anche da Franco Donati e Massimo Banti. Questo il rinnovato cda Assoconciatori: Alessandro Francioni (presidente), Franco Donati, Massimo Banti, Paola Caponi (vicepresidente), Maila Famiglietti (vicepresidente), Roberto Giannoni (vicepresidente), Roberto Lupi (vicepresidente), Graziano Bellini, Francesco Giannoni, Tommaso Grossi, Fabrizio Nuti, Paolo Rosati, Piero Rosati, Francesca Signorini, Valerio Testai.

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economia

casaconcia uno spazio che racconta la cultura e la tradizione toscana Alessandro Bruschi

Lo spazio espositivo “casaconcia” Visitatori della mostra “Forme dell’Invisibile”

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n progetto partito da lontano ma che piano piano ha saputo trasformarsi in realtà. Un percorso iniziato ormai più di due anni fa, con i documenti firmati e i primi lavori di ristrutturazione che iniziavano a dare forma a casaconcia, la nuova casa del Consorzio Vera Pelle Italiana Conciata al Vegetale. Uno spazio, quello all’interno della Ex Conceria dell’Orologio di Ponte a Egola, riprogettato, ristrutturato e modernizzato, grazie a importanti investimenti, con l’obiettivo di trasformarlo in un centro polifunzionale dedicato alla promozione del comparto territoriale della concia e della cultura toscana in ogni suo aspetto. Il Consorzio con questo progetto ha scelto, dunque, di legarsi ancora di più alla propria storia e al proprio territorio, valorizzando un prezioso elemento del patrimonio archeologico industriale locale, costruito intorno alla seconda metà del diciannovesimo secolo, per poter proseguire nella sua opera di internazionalizzazione mantenendo però radici ben salde. L’obiettivo è stato quello di creare un nuovo contesto strutturale che rappresenti e veicoli non soltanto la pelle ma anche il saper fare toscano nel mondo. Perché continuare a veicolare solamente il prodotto sarebbe stata sì la scelta più facile, ma anche quella di più corto respiro. Per poter competere sul mercato nel lungo periodo è necessario comunicare il territorio, l’artigianalità, la conoscenza e l’identità del prodotto. La medaglietta “Made in Italy” non basta più. Il mercato globale è cambiato, così come la percezione del consumatore. E noi abbiamo la fortuna di operare in una terra che è stata, ed è ancora, la più

grande dispensatrice di arte e di testimonianze artistiche del mondo, la Toscana. Per comunicare al meglio è necessario mostrare, approfondire, discutere e raccontare tutto ciò che

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ha a che fare con la cultura e la tradizione toscana, oltre che con il prodotto. E questa nuova sede ha tutte le carte in regola per avvicinarsi a questo ambizioso obiettivo.


Perché si chiama casaconcia? Anche attraverso il nome il Consorzio voleva legarsi al territorio e alla sua tradizione storica. Casa-concia era il nome che veniva dato alle prime concerie, spesso composte da tre o quattro stanze con le vasche interrate e un terrazzo alle cui pareti esterne venivano attaccate le pelli per l’asciugo. La casa-concia svolgeva un doppio ruolo: sia di stabilimento produttivo sia di abitazione per chi vi lavorava. La concia, dunque, come un’attività lavorativa che si sviluppava in completa simbiosi con l’ambiente circostante. Un viaggio all’interno di casaconcia e dei suoi spazi casaconcia è un ambiente molto ampio suddiviso in due aree con finalità ben distinte. Un’ala dell’edificio ospita il nuovo quartier generale del Consorzio, con gli uffici direzionali e un grande salone dedicato ad attività formative, workshop, seminari, incontri e anche spettacoli teatrali, come Tutto quello che sto per dirvi è falso, andato in scena lo scorso 26 Aprile. Organizzato in collaborazione con UNIC (Unione Nazionale Industria Conciaria) e interpretato dall’attrice Tiziana Di Masi, è un monologo che

indaga il business della contraffazione a 360 gradi e gli ambiti in cui il “falso” prospera (agroalimentare, moda, farmaceutica, meccanica, audio/video ecc.). In maggio è partito il progetto lettura Eneide, un ciclo di incontri di avvicinamento alla lettura interpretativa e alla rappresentazione teatrale dedicato ai bambini delle classi quinte della scuola primaria, a cura del Teatrino dei Fondi di Corazzano e in collaborazione con l’Istituto Comprensivo Michelangelo Buonarroti di Ponte a Egola. Hanno partecipato i ragazzi delle classi di Ponte a Egola, La Serra, Cigoli e San Donato. La seconda ala dell’edificio invece è uno spazio espositivo, che nel corso degli anni ospiterà mostre di pittori, scultori e artisti toscani. La rassegna Artisti di casaconcia in questi mesi ha già visto protagonisti artisti molto rinomati: il ciclo è stato inaugurato in marzo da Romano Masoni con Segnastorie, in cui l’artista ritaglia e rinomina alcune parti di realtà quotidiana e racconta, attraverso la tecnica del patchwork, storie di luoghi, attività e personaggi del territorio; in aprile è stata la volta di Maria Grazia Morini con Forme dell’Invisibile, un’anatomia

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del sentimento dove i quadri sono stati realizzati attraverso una sovrapposizione di strati di materiali: foglia d’oro e d’argento sulla pittura e poi stoffe, carte, cartoni e fil di ferro. Dal 17 giugno all’8 luglio è in programma la terza mostra dell’anno che vede protagonista Gianmarco Passerini, giovane pittore nativo di Pietrasanta, con Viaggio nel mondo onirico, un viaggio nell’inconscio, atto a rendere l’impossibile possibile, andando ad assottigliare il confine che si erge fra realtà e fantasia.

Il Presidente Simone Remi durante la presentazione alla stampa e alle autorità Craft The Leather 2017 – Sperimentazione Serata di inaugurazione, 25 Febbraio 2017 Tutto quello che sto per dirvi è falso”, 26 Aprile 2017 Craft The Leather 2017 – Designer al lavoro


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ECONOMIA

Banca Popolare di Lajatico la nuova filiale di Pisa ai Frati Bigi

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A disposizione di soci e clienti la filiale pisana della Banca Popolare di Lajatico, in Via Rosellini 44/48 Scopri la gallery fotografica sul sito www.bplajatico.it nella sezione dedicata Cultura e Territorio

a storia, l’arte e la bellezza del nostro territorio meritano di essere costantemente celebrati, non come testimonianze di fasti irreversibilmente trascorsi ma quali strumenti di promozione culturale e d’impulso alla creatività delle generazioni a venire. La Banca Popolare di Lajatico dedica la sua nuova filiale di Pisa, ricavata dall’antico convento dei Frati Bigi appena recuperato, alla manifestazione popolare più antica e più cara alla città e ai suoi abitanti: i lampi della Luminara di San Ranieri si fondono coi riflessi luminosi delle sculture dell’artista Marco Lodola nella cornice unica dei lungarni pisani, coi suoi monumenti e i suoi palazzi. E così la banca si fa bella ed accogliente, rendendo omaggio alla creatività e alle tradizioni della comunità in cui opera come promotore di prosperità e di progresso, anche culturale. La tradizione, evocata dalle immagini della Luminara, si coniuga visivamente con la modernità, qui vividamente rappresentata dalle figure neofuturiste dell’artista Lodola: e non è un caso, perché tradizione e innova-

L'esterno della filiale e l'entrata da Via Rosellini

L'ufficio del Direttore e la sala riunioni

zione costituiscono l’essenza stessa della Banca Popolare di Lajatico. È, questa, un’ulteriore tangibile prova dell’attenzione che riserviamo alle comunità locali e al territorio,

L'interno con le opere di Marco Lodola

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della nostra volontà di “fare banca” in modo utile, con semplicità e in un bel contesto. Il Presidente Avv. Nicola Luigi Giorgi


economia

una risorsa giovani imprenditori

il Gruppo Giovani Conciatori e il futuro del distretto

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ormative nazionali e comunitarie, condizioni operative e gestionali a garanzia del benessere animale all’interno degli stabilimenti di macellazione delle carni: questi alcuni dei temi affrontati dal Gruppo Giovani Conciatori nella visita svolta lo scorso maggio presso il macello Inalca di Castelvetro di Modena, tra i più grandi e moderni impianti di settore d’Europa. L’evento si inserisce tra le attività di studio del Gruppo Giovani, attualmente impegnati nel corso Industrializzazione del processo e innovazione del prodotto per il settore conciario. «È stata una visita utile a raccontarci un passaggio fondamentale per la filiera – dice la coordinatrice del Gruppo Francesca Signorini – che si inserisce nei rapporti tra fornitori e lavoratori addetti alle successive fasi di trasformazione. Un’opportu-

nità di informazione approfondita, tanto più oggi che gli imprenditori, così come tutti gli attori del mercato, sono molto sensibili verso l’in-

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tero ciclo di approvvigionamento e produzione». Tra i presenti, oltre a Francesca Signorini, Alvaro e Niccolò Banti (Conceria Alba), Simone Bertini (Conceria Bertini Franco 1972), Matteo e Serena Brillanti (Conceria Rinaldi), Andrea Buldrini (Conceria Papete), Luca Capaccioli (Conceria Coripel), Paolo Cioni (Conceria Yankee), Nicolò Colombini (Conceria Brotini Mario), Marta Lupi (Conceria BCN), Antonio e Giovanni Rossi (Conceria Montana). Con loro il vicedirettore Assoconciatori Aldo Gliozzi, che cura le attività del Gruppo Giovani. «Il Gruppo Giovani sta crescendo progressivamente – conclude Francesca Signorini – confermandosi una buona risorsa, in prospettiva futura, per l’intero distretto, grazie al supporto degli imprenditori di maggiore esperienza con cui resta costante il dialogo e alle diverse iniziative in atto».

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evento

aFlorence walk through a

Carlo e Camilla a spasso fra applausi e selfie

Domenico Savini

Il principe Carlo d’Inghilterra, il nostro collaboratore Domenico Savini e il marchese Leonardo Frescobaldi. (Fotografia di Isabella Perugini).

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anno scelto Firenze come prima tappa del viaggio in Italia, Carlo d’Inghilterra e sua moglie Camilla, duchessa di Cornovaglia, per festeggiare i 100 anni dalla fondazione del British Institute, di cui il Principe è l’alto patrono. Di questo “compleanno” «Reality» ha dato nel numero precedente l’annuncio, per ricordare inoltre il tradizionale legame della famiglia reale inglese con Firenze: dai tre soggiorni della regina Vittoria, alla prima visita della principessa Margaret nel 1949 e della regina Elisabetta, giunta a Firenze nel 1960, con il consorte principe Filippo. L’arrivo a Firenze del Principe di Galles e della duchessa di Cornovaglia è iniziato il 31 marzo con la tradizionale foto-ricordo con il Ponte Vecchio dietro di loro, e si è conclusa il 4 aprile. “È una città meravigliosa”, hanno subito esclamato arrivando nel centro storico della città. Entrambi sono stati giudicati una coppia di vera eleganza. Doppiopetto per Carlo d’Inghilterra, con cravatta fantasia e pochette bianco-rossa nel taschino. Vestito nero a pois bianchi per Camilla, con giacca bianca. A fare da Cicerone sui lungarni il sindaco di Firenze Dario Nardella, con fascia tricolore. Scatenati i fotografi e i passanti. La coppia reale ha passeggiato per via Tornabuoni salutata cordialmente dai numerosi turisti e dai passanti. Nella sede del British Institute in lungarno Guicciardini 9 Carlo e Camilla sono stati accolti dall’ambasciatrice di Gran Bretagna a Roma, Jill Morris, dagli esponenti della comunità inglese in Toscana, dai rappresentanti delle famiglie storiche fiorentine e dagli studenti del British Institute.

L’Istituto Britannico venne costituito nel 1917, verso la fine della prima guerra mondiale, da un gruppo di studiosi anglo-italiani, intellettuali e figure pubbliche che intendevano contrastare la propaganda antibritannica. L’Istituto fu ufficialmente aperto nel giugno del 1918 dall’ambasciatore Sir Rennell Rodd. In base a quanto si legge nel decreto reale, gli scopi dell’Istituto comprendevano “la promozione dello studio in Italia della lingua Inglese, della letteratura, dell’arte, della storia, della filosofia e delle sue Istituzioni”; “la formazione e il mantenimento a Firenze di una Biblioteca Generale di libri sulla cultura inglese e italiana”; e “la promozione di una buona comprensione tra persone che parlano italiano e quelle che parlano inglese, provvedendo a creare opportunità per gli intellettuali e scambi sociali; e, a ciò legato, la creazione di opportunità per studenti che parlano inglese di studiare la lingua Italiana,

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la letteratura, l’arte, la storia, la filosofia e le sue Istituzioni”. Attualmente la biblioteca dell’Istituto conserva oltre 52 mila volumi che hanno per argomento la letteratura italiana e quella inglese, la storia di ogni epoca e quella dell’arte, inoltre della musica. La sensibilità nei confronti della natura da sempre professata dal principe di Galles ha trovato riscontro in due appuntamenti legati allo storico mercato fiorentino di Sant’Ambrogio, quindi la coppia ha visitato l’Opificio delle pietre dure, uno dei più prestigiosi istituti di restauro di opere d’arte, e partecipato ad una iniziativa di Woolmark nella Sala Bianca di Pitti. L’ultima giornata fiorentina della coppia reale si è conclusa con una simpatica visita in una sede della Caritas, poi alla Fondazione Strozzi per un riconoscimento al Principe: Reneissance Man of the Year. Il principe Carlo e la duchessa di Cornovaglia sono stati ospiti della


cena di gala organizzata per loro in Palazzo Vecchio nel Salone dei Cinquecento. A riceverli, il sindaco di Firenze, Dario Nardella, oltre trecento ospiti e il tenore Andrea Bocelli. Il sindaco ha fatto da Cicerone mostrando a Carlo e Camilla la statua bronzea etrusca della Chimera di Arezzo, esposta a Palazzo Vecchio in occasione del G7 e dove è rimasta fino alla fine aprile. «Benché i nostri rapporti siano già profondamente consolidati a partire dalla nostra storia condivisa, oggi, sono felice di dirlo, sono ancora più stretti di sempre. In pressoché in ogni campo: della cultura, degli affari dell’istruzione, della cooperazione in sicurezza e difesa, dell’innovazione e ricerca, e persino sport. La partnership tra il Regno Unito e l’Italia porta immensi benefici alle nostre economie e alle nostre società». È il discorso che, pur senza mai far riferimento alla Brexit, ha pronunciato il principe Carlo d’Inghilterra durante la cerimonia della consegna delle Chiavi della città di Firenze in Palazzo Vecchio da parte del sindaco Dario Nardella. Carlo e Camilla hanno preso parte ad una cena evento, per circa 300 invitati, nel salone dei Cinquecento. Prima della cena, Carlo e Camilla hanno firmato il libro d’onore di Palazzo Vecchio. La visita fiorentina della coppia reale ha compreso una sosta fra i banchi dello storico mercato di Sant’Ambrogio. Due cappuccini sono stati offerti dal barista del Caffè Vecchio Mercato: “Buonissimo” ha esclamato il principe di Galles che ha pure (inutilmente) tentato di pagarlo. Poi la passeggiata fra i banchi dell’ortofrutta che esponevano i prodotti

tipici. Qui, fra centinaia di persone che aspettavano i due illustri ospiti, il principe Carlo ha fatto anche la spesa, acquistando prodotti tipici toscani, che ha voluto assolutamente pagare (un gesto ovviamente compiuto dal suo segretario). Mescolati con i turisti Carlo e Camilla hanno visitato le botteghe e i banchi dell’ortofrutta davanti allo sguardo curioso della gente intenta a scattare numerosi selfie. La degustazione dei vini toscani, organizzata dall’Ambasciata Britan-

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nica in Italia, che si è svolta a Fiesole, nel Belvedere dell’hotel Villa San Michele, ha avuto lo scopo di far conoscere al principe di Galles e alla duchessa di Cornovaglia, alcune eccellenze vinicole toscane. Nella splendida cornice della Villa, affacciata sulla città, pochi e selezionatissimi ospiti hanno potuto conversare amichevolmente coi principi reali: Allegra Antinori, Leonardo Frescobaldi, Iacopo Biondi Santi con Alessandra Zucchini, i Colombini Cinelli, i marchesi Bernardo e Vittoria Gondi.

All’incontro con il principe Carlo d’Inghilterra e la consorte Duchessa di Cornovaglia, sono stati invitati (a sinistra) Jacopo Biondi Santi, Alessandra Zucchini Solimei e Domenico Savini. A destra: Domenico Savini insieme con i marchesi Vittoria e Bernardo Gondi (Fotografie di Isabella Perugini).


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intervista

carmen

Lasorella

uno stile giornalistico temprato sul campo Carla Cavicchini

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iventare il simbolo del giornalismo femminile conducendo il TG della RAI con bravura e competenza, arrivando perfino a conquistare il pubblico maschile e la simpatia femminile, non fu un’impresa facile neanche per una giornalista di spessore come Lasorella! Eppure, Donna Carmen di Matera, riuscì perfettamente nel suo ruolo di speaker ed inviata di guerra, conquistando la stima e la fiducia di tutti, grazie all’innata professionalità che da sempre la contraddistingue. Impegnata da sempre nel sociale, con attenzione ascoltiamo le sue risposte; «Effettivamente il mio lavoro mi ha portato ad incontrare tante donne in società disgregate, capaci tuttavia di dare vita cavalcando le varie esperienze vissute. A loro pertanto deve andare tutto il giusto sostegno: se partecipiamo ai diritti degli altri, difendiamo anche i nostri!» Adesso siamo a un convegno per ascoltare le parole di coloro che creano, che modellano, in quanto la fantasia unita all’ingegno ha sempre dato buoni frutti. Rapporto giornalismo – creatività, esiste un nesso, un filo logico in merito? Sì, un giornalista ogni volta deve creare le chiavi per le situazioni che deve raccontare: quello d’inchiesta non può avere strade dirette, bensì percorsi alternativi per avvicinarsi a ciò che c’è dietro le situazioni, quindi c’è molta creatività, è di casa, e deve continuare ad esserci nel far passare le informazioni nel linguaggio che sia più efficace possibile: semplificando ed associando. Una ricetta univoca non esiste in quanto si declina in tante maniere. Il suo valore aggiunto, la sua ricchezza, sta in questo, trovare tante forme... l’artista lo farà in

un modo, lo scienziato in un altro, il matematico cercherà i numeri, e chi è nel mondo della comunicazione apparentemente più forte eppur per certi versi più debole, a causa di rischi di pressioni e di inquinamenti, deve difendere questa creatività poiché è la sua risorsa. Giornalismo: mestiere difficile e sottopagato, per non parlare poi dei free-lance ancora più penalizzati. Come in tutti i mestieri c’è chi è pagato tanto e chi è sottopagato... ci sono primedonne in questo settore che non si lamentano, per non parlare del lavoro nero e delle occasioni negate grazie a clientelismi, nepotismi, ed altro ancora. Il giornalismo sul piano dei conti deve fare i suoi cercando di tirar fuori il merito di questo serbatoio che è sempre ricco. Ci sono talenti che troppe volte non hanno le forme e le vie per potersi manifestare e che quindi scelgono altri territori per esprimersi. Quanto ai free-lance, è vero ciò che dice, ma anche le redazioni sono piene di precari e quindi mentre prima esisteva un comitato di redazione che portava avanti una politica di difesa non tanto per esigenze economiche ma anche per l’autonomia di un giornale, oggi purtroppo questi corpi redazionali, che si sono annacquati ed impoveriti, il più delle volte non hanno la capacità e la forza di difendere tale valore che è il Dna del giornalista. Colui che scrive non difendendo la sua autonomia è un giornalista a metà. Una sua collega, Lilli Gruber, dopo aver intrapreso la carriera di parlamentare, è tornata sui suoi passi e adesso da molti anni è a La 7. Se l’ha fatto evidentemente era quello che desiderava e comunque è an-

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data a La 7! I motivi non posso saperli, evidentemente ciascuno di noi in questa vita ha le sue chance... si sceglie, si sbaglia... la forza è tornare indietro facendo la scelta giusta. La ricordiamo anni fa in diretta quando piangente disse che era viva per miracolo in un feroce agguato subito in Africa. (Carmen Lasorella mi guarda seria senza scomporsi d’un millimetro col suo bel volto scolpito come i “sassi di Matera” incorniciato dai lunghi e fluenti capelli scuri.) Guardi che le mie lacrime furono assolutamente misurate e... Non volevo scivolare nel pietismo... tutt’altro, creda. Bene. Effettivamente in Somalia fu un momento di grande emozione e tensione, tra l’altro sotto i proiettili morì il mio collega Marcello Palmisano... Sì, seguimmo la tragica vicenda, adesso le chiedo cosa le è rimasto di quei momenti e se esiste ancora la voglia di continuare questo mestiere, anche in posti ad alta tensione con tutti i rischi che comporta. Beh... un anno dopo partii per il Ruanda... ho vinto quel momento lacerante e di grande impatto grazie alla scelta di continuare. Quell’esperienza mi fece incontrare la morte, pertanto ho perso il senso della invulnerabilità. Adesso sono maggiormente consapevole ed attenta alle cose che debbono avere attenzione e molto più "tranchant" su quelle che non debbono averle. Il tempo non ha consumato la passione dello scrivere continuando a far tesoro delle esperienze. Belle, brutte... così cosi. Perché ogni cosa lascia un segno.


personaggi

ampadari degli

Albizzi

dal 1100 gli Albizzi furono protagonisti a Firenze

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herardo degli Albizzi possiede varie qualità e una visione ottimistica della vita e nel contempo realistica. Ha il gesto misurato della persona equilibrata. «Ho avuto un’educazione religiosa – racconta –; fino ai 13 anni ho studiato nel Collegio La Querce rètto dai Padri Barnabiti, poi in quello dei Padri Scolopi». Dunque un disciplinato impegno, che a suo tempo ha dato buoni frutti. Dopo la maturità ha conseguito una laurea triennale in Storia dell’Arte Medioevale con una tesi sugli arredi e i patronati della fiorentina chiesa di San Pier Maggiore, della quale i suoi antenati furono i maggiori benefattori. Infatti la chiesa sorgeva in Borgo degli Albizzi, vicinissima ai palazzi abitati fin dal Trecento da questa storica famiglia fiorentina, antagonista dei Medici. Gherardo degli Albizzi si presenta anche con una prospettiva diversa, certamente più dinamica, per fare da contrappeso alle sue giornate scandite dalle ore dedicate seriamente agli

studi. «Durante tutta l’infanzia e l’adolescenza ho giocato al calcio con buoni risultati, praticando, contemporaneamente, l’atletica leggera». In questo giovane discendente da una delle più antiche famiglie di Firenze, c’è tanta vita concretamente trascorsa, la cui qualità si comprende immediatamente. «Proseguendo gli studi ho conseguito la laurea magistrale, sempre in Storia dell’Arte medioevale dedicata a un anonimo maestro della fine del Duecento, il Maestro di Varlungo». Nell’insieme ha un carattere assolutamente “fiorentino”: volitivo, concreto, desideroso di fare; farlo bene e poi, imparata la lezione… «Durante l’ultimo anno dell’Università ho iniziato a lavorare nell’azienda di famiglia fondata da mio nonno, del quale porto il nome. I primi tempi li ho trascorsi nel laboratorio per rendermi conto di come nascevano i nostri prodotti, poi ho affiancato mia madre nella gestione dei clienti esteri, che rappresentano il 90% del nostro fattura-

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to. Realizziamo fedeli riproduzioni di lampadari artistici in stile, candelabri e appliques, usando materiali di pregio: bronzi cesellati, cristalli di Boemia, cristallo di rocca, pietre dure come malachite e lapislazzuli». Pur nel vortice luminoso riflesso dalle migliaia di prismi scintillanti, che ci abbagliano la vista, distinguiamo stili diversi. «La nostra produzione è incentrata sugli stili francesi e russi di quella che è considerata l’epoca d’oro del lampadario, ossia dal Luigi XIV allo stile Impero. L’apice della nostra produzione è rappresentato da tre lampadari in stile Impero che adornano il Salone delle Feste del Quirinale». Ma non è il solo artigiano della famiglia: sua moglie Gemma è stilista di borse in pelle dipinte a mano. Il dinamico imprenditore parla fluentemente inglese, e quest’anno ha cominciato a studiare il russo. «Amo molto viaggiare per conoscere nuovi luoghi e culture diverse. Fortunatamente questa mia passione coincide con le mie esigenze professionali. L’ultimo viaggio l’ho compiuto raggiungendo la Jamaica: una terra ruvida e orgogliosa. Il prossimo viaggio mi condurrà, insieme con mia moglie Gemma, da Mosca a Pechino, in Transiberiana, sul treno “Imperial Russia”». L’Albizzo che arrivò a Firenze da Arezzo verso la fine del 1100, e prima di lui Raimondino giunto in Italia nel X secolo dalla Germania, crebbero presto in ricchezza e potenza. Legarono spesso le loro sorti a quelle di Firenze: e per questo furono altrettante volte contrastati. L’Albizzi nostro contemporaneo ha invece solo il culto del lavoro, non si oppone e non ha oppositori. La bandiera di Firenze sventola solo nel suo cuore e nel sangue antico della sua famiglia.

Domenico Savini

Di nero ai due cerchi concentrici d’oro; col capo dell’Ordine Teutonico Marchese Gherardo degli Albizzi. (Fotografia di Moreno Vassallo) Albero genealogico della famiglia degli Albizzi. (Fotografia di Moreno Vassallo)

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MODA

moda autunno-inverno

1955

collezioni ispirate alla tavolozza dei pittori

Roberto Mascagni

Abito-tailleur con collo sciallato chiuso da fiocco di raso. (Figurino di Cesare Guidi. Collezione privata) La propensione di Cesare Guidi per il disegno e la pittura incrementava la sua sperimentazione per la Moda (Fotografia di Moreno Vassallo)

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rascorsi i quattro giorni delle sfilate romane, è la volta dei quattro giorni dedicati alla presentazione della Moda italiana nella fiorentina Sala Bianca di Palazzo Pitti, sempre organizzata dall’infaticabile Giovanni Battista Giorgini, propagatore della Moda Italiana, ma soprattutto della “mano d’opera” italiana. Anche questa decima edizione della Moda Italiana vede la Sala Bianca affollata da oltre quattrocento persone fra compratori americani ed europei. I giornalisti sono arrivati da ogni parte del mondo. La mattina del 22 luglio 1955 è dedi-

cata ai cappelli con i feltri forniti dalla “Familiare” di Montevarchi. Si sono visti i modelli del fiorentino Biancalani, del romano Clemente Cartoni, di Cerrato, Export Zacco, Leonella, Marucelli, Schuberth e Jole Veneziani (sarta e modista). In linea generale i cappelli per la stagione autunno-inverno saranno piccoli e drappeggiati, posati all’indietro; ampie le “cloche” per le ore eleganti; assortita la gamma dei colori. I toni sempre caldi. Un vero trionfo del feltro italiano. Nel pomeriggio sfilano le “boutique”: Valditevere con i suoi tessuti a mano, Miricae propone abiti facili da indossare (e da comprare), Glans dedica allo sport i suoi modelli: fra questi una attillatissima maglia di seta, decorata con frange sempre di seta. Merving si intona alla linea chemisier (camicetta); Vito, la cui collezione si differenzia con la boutique alta moda e la boutique per i confezionisti, presenta gonne variamente colorate, come vari sono i tessuti. Sorprende ancora la presenza di un uomo sulla pedana: si tratta del famoso indossatore “Angiolo” (Angelo), un trentunenne romano, che presenta gli abiti di Brioni. (In realtà si tratta di Angelo Vittucci, segretario di Gaetano Savini Brioni, che si presta a fare l’indossatore con grande successo, dato che all’epoca nessuno si prestava a farlo, in quanto ritenuto poco maschile). Mentre il geniale creatore di moda maschile Gaetano Savini, ideatore del marchio “Brioni”, comincia a ottenere ampi riconoscimenti internazionali, soprattutto in America, la stampa italiana tende quasi del tutto a ignorarlo, parlando solo della moda femminile. Schiettamente artigiana la collezione di

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Umba realizzata con i tessuti tradizionali del folclore della Sardegna. Il Grand Hotel (l’odierno The St. Regis Florence), in piazza Ognissanti, ospita invece gli accessori, accuratamente selezionati. «Un elegante cocktail – riferiscono le cronache – ha riunito nelle belle sale il folto gruppo dei buyers, degli inviati dei giornali, delle radio e delle televisioni, dei commissionari che accompagnavano i loro clienti». Nelle stesse giornate, ma dalle ore 21, sfilano Bertoli, Mirsa, Avolio, Luisa Spagnoli. Emilio di Firenze «non manca mai di sorprendere e di farsi ammirare perché lo merita». Infatti, conclude la sua sfilata con un “colpo di scena”: l’ultima sua indossatrice in pedana è la bella principessa Ira von Fürstenberg, figlia del principe Tassilo e di Clara Agnelli, in procinto di sposarsi a Venezia, nel mese di settembre, con il principe Alfonso di Hohenlohe. Ira è appena quindicenne. (In una fotografia li vediamo felici e sorridenti a bordo di una gondola. Il loro sarà uno dei matrimoni definiti “del secolo”). Jole Veneziani propone per l’inverno una linea semplice, che discende dalla sua “slim line”, che significa “linea nuda”, ma non propone scollature eccessive né trasparenze. È agile e svelta; già annunciata nella sfilata di gennaio per i modelli della primavera-estate. Maria Antonelli, i cui abiti sono piaciuti molto, ha chiamato la sua collezione “Intermittente”, perché i suoi modelli prescindono da un tema fisso. Evita lo sfarzo ma il lusso è sottinteso. Carosa (principessa Giovanna Caracciolo Ginetti) ha occupato tutta una serata. Dedica la sua attenzione alle


linee e ai colori, per vestire con eleganza le sue aristocratiche clienti. Simonetta (Colonna dei duchi di Cesarò) si è ispirata per i suoi modelli alla linea “Impero”, accompagnata dai cappelli di Canessa e dai gioielli di Luciana. La sua collezione, destinata alle donne internazionali, si distingue per rigore ed essenzialità. (Già nel 1948 l’edizione inglese di «Vogue» lodava la sua moda e negli anni successivi i grandi magazzini statunitensi Bergdorf Goodman furono i primi ad acquistare i suoi modelli). Fabiani si è riconfermato fra i grandi sarti europei. Sono molto ammirate le sue casacche da sera con i corpini allungati e quelli, più sobri, per il pomeriggio. Sono indumenti portabilissimi, disinvolti, semplici: primeggia la flanella, il pannino, il drap, il velluto usato in ogni possibile sfumatura. Germana Marucelli, occhieggiando nei giardini e nei boschi, ha tratto l’ispirazione dalla varietà dei colori del mondo vegetale. È artista e artigiana; continua l’impiego dei “plissés” e dei drappeggi che la resero celebre. Del giovanissimo sarto romano Roberto Capucci, si è notata la «crescente serietà». Capucci presenta la linea “Fucsia”, a tre giri di petali, come il fiore. La vita è semi-marcata. I suoi abiti da sera sono più corti davanti di quanto lo siano dietro. Fra la gran varietà dei suoi colori, spicca ovviamente il fucsia. Il fiorentino Cesare Guidi è sempre impeccabile: un aggettivo questo, usato per «indicare la considerazione per un lavoratore diligente e intelligente», di cui si apprezza la sapiente esperienza sartoriale. (I cappelli usati da Guidi sono forniti dall’atelier di modisteria “Gigi of Florence”. Il romano Schuberth ha messo a se-

gno un altro successo utilizzando tre colori base: il bianco, il nero e il grigio. Si legge: «È lirico, fastoso, e caldamente innamorato delle belle stoffe (molte, anche qui, in Rodhiatoce), del bel taglio, della bellissima esecuzione». Le magliette di Luisa Spagnoli, variamente colorate, sono state preferite dai maggiori clienti esteri. Bonwit Teller, il rinomato “department store” di New York, venderà quest’anno 150 mila camicette italiane. Fra queste, famose quelle dell’ammiratissimo fiorentino Emilio: sempre di taglio “maschile”, con piccolo colletto arrotolato, come i polsini. Importante il tessuto: seta, lana o cotone con motivi stampati. Quest’anno il suo tema sono i colori vibranti della Sicilia: arancio Messina, blu Siracusa, giallo Taormina, usati per riprodurre i carri siciliani o i templi greci di Agrigento. E gli abiti da cocktail? Vendutissimo il modello “Capriccio” di Veneziani e quello stile “Impero” di Simonetta. La gonna è sempre considerata la base di un guardaroba femminile: per tutte le ore e per tutte le età. La linea è a campanula, i fianchi sono ben fasciati, l’ampiezza si stacca sotto la linea della vita per accentuare la snellezza del busto. La maglia primeggia. Il tessuto di maglia (disegno, stampa, colore, qualità) e la sua confezione e la sua realizzazione non appare come un elemento complementare dell’abbigliamento ma un complemento di un vero e proprio modello di sartoria. Sono protagonisti anche i velluti: impalpabili, vari nelle tinte più originali, proposti per ogni ora del giorno. Fra gli abiti da sera sono protagonisti il broccato e il raso nei più grandi disegni e colori. Ciò di cui ci si può rallegrare è che si è finalmente raggiunta una più stretta collaborazione fra gli industriali e le sartorie, perché gli industrial tessili considerano ormai Firenze come il centro nazionale della presentazione dei tessuti italiani. Il loro numero è in crescita e gli industriali tessili sono disposti a partecipare anche anonimamente, dopo essersi accordati con le sartorie per la creazione dei tessuti. Il successo della nostra Moda non si basa soltanto sulla linea e sul taglio; la novità è costituita anche dai tessuti lavorati e realizzati in un certo modo. La televisione di New York ha comprato una piccola collezione da trasmettere nei suoi programmi: e non è mancato David Jones, l’australiano

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che la scorsa stagione comperò tutta una collezione per il suo “magazzino” di Sydney e organizzò una “Settimana della Moda Italiana”, invitando, per la presentazione, quattro fra le più belle delle indossatrici italiane.

Per gli estimatori della couture esclusiva e del merletto d’arte applicato alla Moda, al Museo del Merletto di Palazzo Mocenigo a Burano è in corso l’interessante mostra Maria Bissacco. Dedicata a questa artista la mostra illustra i suoi manufatti. Nata come creatrice di moda ha proseguito la sua carriera sperimentando l’unione tra merletto a fuselli in vari filati e temi provenienti dall’arte, dalla musica e dalla natura per vestire donne. Creatrice anche di accessori come sciarpe, scialli, borsette e gioielli, ha percorso le possibilità di questa unione senza mai soffermarsi sul tradizionale, ma appunto compiendo un’analisi dei diversi materiali. Tra le sue opere un abito dedicato a Mozart, uno dedicato al mare e altri a innumerevoli suggestioni artistiche e naturali. Una donna creatrice e creativa che è stata chiamata ad esporre in un luogo così prestigioso per la sua estrema capacità d’interpretare il volto moderno di arti antichissime. Mostra a cura di Chiara Squarcina, Museo del Merletto, Palazzo Mocenigo, Burano, dal 13 maggio 2017 al 7 gennaio 2018. Orario 10-18, chiuso il lunedì. ( http://museomerletto.visitmuve.it/it/mostre/mostre-incorso/maria-bissacco/2017/03/16896/maria-bissacco/ )

Tailleur con giacca aderente in vita nella parte inferiore, lunghezza 7/8, collo sciallato a punta e maniche con paramano rivoltato, abbinata a gonna a tutta ruota sostenuta da sottogonna tipo crinolina. (L’autore del bellissimo figurino è Cesare Guidi. Collezione privata). Cappotto in lana con pelliccia ai polsi di linea a trapezio svasato sul fondo. (Modello di Cesare Guidi).


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MODA

Monte Carlo Fashion Week

la stilista Chiara Boni sfila con la sua "Petite Robe"

Giampaolo Russo

Carolina di Monaco e Charlene di Monaco madrina della MCFW

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leganza, raffinatezza e grazia. Sono le parole d’ordine per gli abiti da sera di Chiara Boni, scelti da celebrities nel negozio di Milano in via Sant’Andrea e nel nuovissimo store di Roma in via del Babuino. Niente pellicce, vere o finte. Chiara non le ama. Chiara Boni, stilista fiorentina già dalla metà degli anni ’80, per talento e inventiva ha reso il suo stile riconoscibile e contemporaneo in Italia e all’estero. Dal 2009 il brand è sempre più internazionale e distribuito in Europa, Russia, Medio Oriente, Canada e Usa. La consacrazione tre mesi fa a Washington DC per il ballo di insediamento del nuovo presidente quando Lara Trump, nuora del presidente, ha indossato una sua creazione. Non è un caso che il primo mercato della stilista sia quello americano, tanto che recentemente ha aperto due punti vendita in hotel di lusso in Usa. Tra le clienti americani e Ophra Winphrey e Micha Barton. In Italia indossano la Petite Robe Cristina Parodi, Ilaria d’Amico, Myrta Merlino, Nancy Brilli, Elisabetta Sgarbi. Probabilmente ci saranno anche loro tra gli ospiti della loro amica stilista che

ha sfilato il 2 giugno – festa della Repubblica in Italia – durante la Montecarlo Fashion Week, che si svolge nel Principato di Monaco dal 1 al 3 giugno. Madrina della manifestazione, S.A.S. la Principessa Charlène, che ha dato il suo patrocinio insieme al governo monegasco, la Mairie di Monaco e l’Ufficio del Turismo del Principato di Monaco. La manifestazione, alla sua quinta edizione, è organizzata dalla Chambre Monégasque de la Mode, presieduta da Federica Nardoni Spinetta e sotto la direzione artistica di Rosanna Trinchese. Tra le stiliste che hanno sfilato nel corso della tre giorni monegasca ci sono anche la blasonatissima Tatiana Santo Domingo Casiraghi, moglie di Andrea Casiraghi, che insieme all’amica cipriota-iraniana Dana Alikhani, ha fondato nel 2011 il brand Muzungu Sisters (in lingua Swahili significa viaggiatore, ndr) portale-brand che propone una selezione di prodotti artigianali super chic, con un costo contenuto e profitti adeguati per i produttori. Le due amiche hanno portato in pedana una serie di capi e accessori realizzati dagli artigiani di 16 Paesi diversi dei 4 continenti, contraddistinti da ricami, coloriture naturali e dettagli preziosi. Proprio per questa idea innovativa ed etica allo stesso tempo, al brand Muzungu Sisters è stato assegnato il MCFW Ethical Fashion Award. Gli altri riconoscimenti sono stati assegnati a Chiara Boni, il McFw Made in Itay Fashion Award per il suo impegno nel diffondere l’eccellenza della manifattura italiana, alla fotografa Nima Benati l’Emerging Talent Fashion Award e alla top model Naomi Campbell, il McFw International Award per la carriera nel mondo della moda. Tra i brand italiani che hanno sfilato c’è Alef, il marchio degli accessori creati da Tiziano Colasante e Alessia Auriem-

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ma, dove la sperimentazione formale e i colori sono la caratteristica assoluta di una nuova energia; A.D. Amato Danieli, marchio di calzature e accessori che trasforma le pelli più preziose; Ancora il debutto della collezione Contrasti di Annalisa Queen, con la sua collezione Contrasts; lo stile casual chic di Anna Siciliano, lo stile grintoso di Babylon, i gioielli M ade in Italy di Minni’s Jewels. Coralli, turchesi, nicchie e pietre colorate rivelano la forza creativa dei gioielli di Minnie; l’eleganza contemporanea grazie al lavoro degli artigiani che collaborano con il marchio italiano Edda Berg; i denim di couture di Luca Taiana; le calzature marchigiane di Nando Muzi, i gioielli in chochet e gli accessori in plexiglass di Gattacci. Tra i brand monegaschi a sfilare, Banana Moon, azienda di beachwear ed accessori di ispirazione californiana; Beach & Cashmere Monaco, creato da Federica Nardoni Spinetta, e Leslie Monte Carlo. Ancora il beachwear di Livia Monte-Carlo, Stardust MonteCarlo, icona della gioielleria fino alle creazioni scultoree di Carlo Ramello. Alla manifestazione nomi internazionali come Anita Pasztor, designer ungherese le cui collezioni sono un perfetto miscuglio di arte e design, la stilista originaria della Bielorussia Kira Kirikovich e la russa Marina Gurvich. Dalla Francia l’italo francese Barbara Di Lorenzo con il suo brand Josephine Bonair, che mescola tagli geometrici e dettagli romantici nella sua proposta concettuale; De Tiara, marchio per accessori e gioielli di Antibes, presenta una linea di borse realizzate a Milano; sofisticate e sensuali, le creazioni di Herblain di Esther Mbia, originario del Cameroun, sono ispirati alle collezioni delle grandi case di moda di un’altra epoca.


curiosità

ASGARDIA

sarà il primo stato spaziale, non è fantascienza!

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n Australia, un gruppo di scienziati e imprenditori vuole fondare Asgardia, una nuova nazione nello spazio. “Il progetto ha l’obiettivo dello sfruttamento pacifico delle imprese spaziali”, anticipa Monica Grady, insegnante di scienze planetarie e spaziali alla Open University (Regno Unito). La nuova nazione spaziale è concepita per espandere l’esplorazione pacifica a beneficio dell’umanità, e il progetto è guidato da Igor Ashurbeyli, fondatore dell’Aerospace International Research di Vienna e medaglia Unesco per il progresso delle nanoscienze. Sembra un’idea fantastica che ogni scienziato dello spazio dovrebbe apprezzare. Secondo il sito web dell’iniziativa, Asgardia sarà “una piattaforma indipendente, libera dalle restrizioni imposte dalla legislazione di uno stato terrestre. Diventerà una vera e propria “terra di nessuno” orbitante. Il primo obiettivo – fissato per ottobre 2017, sessantesimo anniversario del lancio dello Sputnik – è il lancio di un satellite. Un secondo passo sarà la creazione di uno “scudo protettivo” che difenda la Terra da minacce come i detriti spaziali, le espulsioni di massa dalla corona spaziale e gli asteroidi. Il progetto è stato presentato il 12 ottobre scorso in una conferenza stampa a Parigi, è aperto a chiunque voglia iscriversi per diventare cittadino di Asgardia. A detta di Ahsurbely, superate le centomila adesioni, l’organizzazione potrà chiedere lo status di nazione all’Onu. È un’idea visionaria, ma non sarà solo un miraggio? Nella mitologia nordica, Asgaròr è uno dei nove mondi delle antiche divinità, governato da Odino. Si trova in cielo ed è collegato alla terra dal ponte dell’arcobaleno Bifrost. Chiamando il nuovo “stato nazione”

Asgardia, i fondatori invitano i potenziali cittadini a creare un mondo indipendente, basato sulla pacifica collaborazione scientifica. Tuttavia non so se il mondo mitologico di Asgaròr sia il modello migliore per questa aspirazione: in fondo la sua più grande aspirazione è Valhalla, dove i guerrieri morti in battaglia passano il tempo banchettando o combattendo. Cos’è esattamente Asgardia? A che serve? Cosa farà? Come funzionerà? Su quali principi poggia? Chi la finanzia? Gli organizzatori non hanno rivelato nessuna di queste informazioni. Un esempio di collaborazione mondiale nello spazio esiste già ed è la Stazione spaziale internazionale, che coinvolge governi e privati. Pur funzionando bene, la stazione è regolata dalle agenzie spaziali internazionali e imbrigliata nella relativa burocrazia. L’intento di Asgardia di rendere più accessibile lo spazio e la sperimentazione spaziale è lodevole, ma servono le regole. Lascia perplessi anche la dichiarazione d’intenti del progetto, secondo cui “spesso le considerazioni d’intenti di tipo economico e politico hanno la precedenza su quelle puramente scientifiche e i vincoli etici sono considerati necessari a garantire la sicurezza”. Ascardia invece “dimostrerà che la ricerca indipendente, privata e senza limiti è possibile”. I vincoli etici servono, soprattutto se l’obiettivo è la ricerca senza limiti, “libera dalle restrizioni imposte dalla legislazione di uno stato terrestre”. La storia fornisce fin troppi esempi di ricerca senza limiti con conseguenze inaccettabili. Per regolamentare l’uso pacifico dello spazio ci sono leggi e trattati, riconosciuti da tutti i paesi che vi si avventurano e attuati dalle Nazioni Unite. Non

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saranno perfetti e forse, vista l’acce- Luciano Gianfranceschi lerazione tecnologica e l’aumento di soggetti privati, è necessario rivederli. Ma forniscono un quadro di riferimento entro cui gli stati devono agire. In base a queste leggi, la nazione che lancia – o fa lanciare – un satellite è responsabile di eventuali danni. L’ufficio che ha il compito di farle rispettare così sovrintende anche al registro internazionale di ogni oggetto lanciato nello spazio e coordina il monitoraggio dei detriti. Se aspira davvero ad essere un attore indipendente dell’esplorazione spaziale, Asgardia non può ignorare i suoi doveri verso i trattati delle Nazioni Unite: ogni tentativo di diventare un “launching state”, cioè uno che lancia o fa lanciare un satellite, lo rende responsabile in caso di problemi. È difficile conciliare questo limite con l’intento dichiarato di essere “libera dalle restrizioni imposte da uno stato terrestre”. Nessuna nazione dovrebbe essere libera di agire in maniera del tutto indipendente alle vicine e, se Asgardia girerà nello spazio, ogni nazione della Terra sarà sua vicina.

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alimentazione

Paola Baggiani

IL CIBO NELLA SPAZZATURA

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a alcuni anni la sensibilità nei confronti del tema dello spreco alimentare è andata costantemente aumentando. Ogni anno nel mondo viene sprecato 1/3 del cibo prodotto, (1,3 miliardi di tonnellate), cioè quattro volte la quantità di cibo necessaria per sfamare gli 800 milioni di persone sul pianeta che sono denutrite e soffrono la fame. Il solo cibo buttato in Europa sfamerebbe 200 milioni di persone! Questi dati allarmanti e sbalorditivi indicano come la prima strada da percorrere nella lotta alla malnutrizione e alla fame sia proprio quella della lotta allo spreco. Esistono grandi differenze fra i vari paesi del mondo nello spreco di cibo: il triste primato spetta all’Arabia Saudita con 427kg. per persona l’anno, seguita dall’Indonesia e dagli Emirati Arabi. Male anche gli Stati Uniti dove si registrano risultati pessimi per quanto riguarda lo spreco casalingo (ogni americano spreca 277 kg. di cibo l’anno). In Italia si buttano via 49 kg. di cibo commestibile ogni anno ed è sopratutto spreco casalingo, un 25% in più che nella grande distribuzione. Una vera montagna se si aggiungono i prodotti lasciati nel campo (1,4 milioni di tonnellate), lo spreco nella trasformazione industriale (due milioni di tonnellate), e quello nella distribuzione commerciale (300mila tonnellate). Ci sono paesi che nella lotta allo spreco alimentare hanno raggiunto dei risultati importanti, come l’Australia, il Sudafrica e, in Europa, la Francia; in quest’ultimo paese esiste una legge che sostanzialmente istituisce il reato di spreco alimentare che si rivolge a uno dei nodi della filiera alimentare, quello della distribuzione organizza-

ta, non certamente però l’unico a creare spreco. In Italia è entrata in vigore dal settembre 2016 una legge contro gli sprechi alimentari, che a differenza di quella francese, non, prevede sanzioni, ma ha come primo intento la valorizzazione delle buone pratiche. Tra gli interventi più importanti della legge, che riguarda chi vende generi alimentari, c’è la sburocratizzazione e la semplificazione delle procedure per chi vuole donare; si punta a incentivare le aziende e i produttori che donano cibo ai più bisognosi. Esistono organizzazioni come la Fondazione del Banco Alimentare che si occupano della raccolta e del recupero di eccedenze della produzione agricola e industriale e della loro redistribuzione, a strutture che svolgono attività assistenziali o il Last Minute Market, iniziativa sociale nata nella facoltà di Agraria dell’Università di Bologna, ideata dal prof. Andrea Segrè professore di agronomia, che ha come obiettivo di fotografare e quantificare lo sperpero alimentare casalingo e delle grandi distribuzioni e di promuoverne il riutilizzo presso chi ne ha bisogno. Perché buttiamo via gli alimenti? Come rilevano le indagini, perché compriamo troppo e senza programmazione, per questo è importante l’educazione a partire dai primi anni fino alle università, mirando a cambiare i comportamenti. È importante la sensibilizzazione dei cittadini per diminuire la quantità di rifiuti domestici che sono complici di oltre la metà dei volumi di cibo sprecati. Secondo gli ultimi dati diffusi da Coldiretti, dei 12,5 miliardi che vengono sprecati ogni anno, il 54% è legato al consumo domestico, il 21% al settore della ristorazione, il 15 nella grande distribuzione e l’8% nel settore agricolo.

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La cultura e l’informazione sono indispensabili per non distruggere il pianeta, dove ogni anno si gettano via mille miliardi di cibo. Si sprecano un 30% di cereali, un 45% di frutta e verdura, un 20% di prodotti latteocaseari, un 30% di pesce e un 20% di carne. Produrre tutto quello che buttiamo costa una cifra stimata in circa un trilione di dollari ogni anno. Sprecare il cibo significa anche sprecare quelle risorse non rinnovabili che sono necessarie alla sua produzione, come l’acqua, il suolo fertile e l’energia. Un 30% della superficie agricola mondiale viene impiegata per produrre cibo sprecato; viene prodotto inquinamento attraverso una quantità di anidride carbonica, che se lo spreco alimentare fosse un Paese, sarebbe il terzo più inquinante del mondo dopo Usa e Cina. Una parte consistente degli scompensi ambientali è attribuibile proprio all’attività di produzione del cibo in agricoltura, ad esempio viene utilizzata più del 70% dell’acqua del pianeta. Lo spreco del cibo è solo l’aspetto più tangibile di un modo di produrre, distribuire, vendere e consumare il cibo che non funziona; è importante far luce sui paradossi del sistema alimentare, comprendere con chiarezza le cause, chiedere a tutti gli attori coinvolti, le istituzioni, i produttori, i distributori e i cittadini di impegnarsi per cambiare gli schemi esistenti, e per combattere la coesistenza di fame e obesità. Bisogna imparare il valore del cibo, e l’educazione alimentare deve entrare nei programmi scolastici; si deve insegnare fin dalla più tenera età che il cibo va rispettato, e che sprecarlo reca un danno economico e ambientale. www.baggianinutrizione.it


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l’e

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inalmente siamo arrivati al periodo dell’anno che più preferisco: l’estate. Profumi e luci nuove nell’aria, giornate meravigliosamente lunghe, aperitivi al calasole, energia frizzantina e quella incondizionata capacità di entrare in modalità vacanze appena si finiscono i doveri della giornata. Quest’anno come non mai credo che il cosiddetto # hashtag accompagnerà la vita reale e quella virtuale condivisa su i social più in voga. Per chi non lo sapesse l’Hashtag non sono altro che parole utilizzate per etichettare e identificare una foto o un video sui Social Network. Sono sempre preceduti dal simbolo “#” (chiamato cancelletto), infatti la parola stessa deriva dall’inglese hash (cancelletto) e tag (etichetta) Sembra che in questa nuova epoca storica l’importante sia immortalare spaccati di vita pseudo reale, per condividerle non si sa bene con chi, ma l’importante è ricevere like e cuoricini di approvazione. Se i più egocentrici e talentuosi ne hanno fatto un mestiere, vedi Fer-

curiosità

sta te

ragni e futuro sposo Fedez, e attori, cantanti musicisti ne fanno un veicolo di trasmissioni per usi e costumi personali e non, le “persone medio normali” cercano di mostrarsi per come sono, o per come vorrebbero essere, dividendosi tra selfie ovunque, panorami alla stregua di National Geographic, e lasciando una connotazione del tempo molto, molto relativa. Passiamo più tempo a scegliere la posa e la giusta luce per avere un riscontro sociale o viviamo veramente la nostra vita senza condizionamenti? Dal momento che nessuno è qui per giudicare, noi vi regaliamo i 5 hashtag dell’estate: #summertime Ovunque voi siate il periodo è questo e c’è solo un modo per dichiararlo al mondo. #holiday Prima o poi andrete in ferie. Siccome è meglio avere un ampio spettro internazionale, quando le vacanze iniziano meglio dirlo nella lingua mondiale che tutti o meno dovrebbero

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sapere, seguire poi con #(dove sei in vacanza?) #spritz In estate è sempre ora di un fresco Spritz per far festa! #sea#sunset#sun#beach Estate = mare sole sabbia! Quindi, con un’alta probabilità che ognuno di voi toccherà questi fondamentali, questi sono d’obbligo #Family Che siano figli, fidanzati, amici, parenti, amici pelosi, qualcuno vi accompagnerà in questa meravigliosa stagione dell’anno, e sicuramente per voi sarà Famiglia.

Eleonora Garufi

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design

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caloroso

egno

Annunziata Forte Cristina Di Marzio

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nverno, freddo, neve, pioggia. Non vi è dubbio che il materiale che più evoca il calore della casa sia il legno! Camminare a piedi nudi sulla sua superficie calda, dà immediatamente una sensazione di confort; la vivacità delle sue venature e la particolarità delle sue colorazioni rendono questo materiale un vero piacere per la vista. Il legno è un materiale naturale e questo lo classifica immediatamente come bello da vedere, prezioso e durevole nel tempo. Nelle nostre scelte progettuali prediligiamo soluzioni di grande impatto, quindi, quando optiamo per una pavimentazione di legno, la posiamo in opera in tutta la casa, zona giorno, zona notte, bagni compresi, con lo scetticismo iniziale del cliente che dimentica come il legno sia il materiale per eccellenza di tante imbarcazioni. Ci piace quindi apprezzare la superficie visibile delle doghe ed il rincorrersi delle venature in tutti gli ambienti e, se è possibile, si continua anche sugli spazi esterni, balconi, terrazze e spazi a bordo piscina. Parlando di pavimenti di legno, dobbiamo assolutamente fare la distinzione tra “pavimento di tipo tradizionale” e “pavimento prefinito”. Il primo è un pavimento in legno massiccio, ricavato da un’unica specie legnosa; il secondo tipo è un pavimento costituito da più strati stabilizzati, levigati, lavorati, cerati, in fase di produzione. La superficie a vista è in legno nobile, il supporto è in essenza povera. Se per i pavimenti di tipo tradizionale sono importantissima la stagionatura naturale e il processo di essiccazione, per quelli prefiniti è fondamentale per la loro resa estetica come viene trattata la superficie. Se alcuni anni fa le superfici verniciate a finitura dello strato nobile erano la prassi, succes-

sivamente le modalità di trattamento si sono diversificate. Altro trattamento per i pavimenti di legno è la ceratura, ma anche la ceratura crea una sorta di barriera tra il materiale e il suo uso, proteggendolo, ma al contempo anche isolandolo. Un approccio volto all’esaltazione della naturalità del legno ha visto la diffusione dei trattamenti di oliatura, “trattamenti naturali” che caratterizzano i legni di ultima generazione. All’insegna del rispetto e della valorizzazione delle caratteristiche del materiale, oli assolutamente naturali vengono applicati in modo da raggiungere gli strati più profondi del legno ed essiccati poi all’aria, che è cosa ben diversa dall’essiccazione sotto le lampade uv. Con un procedimento naturale i pori del legno rimangono aperti e l’essenza respira e si rigenera. a questi oli vengono poi aggiunte pigmentazioni naturali che regalano alla vista ulteriori suggestioni cromatiche. Un’altra lavorazione che dà origine a particolari colorazioni, è il trattamento termico che fornisce al legno una tonalità più scura e non monotona, poichè a seconda delle venature, il materiale risponde e si colora in maniera diversa. Le aziende che optano per il “tutto naturale” vedono il processo di cottura basato esclusivamente su acqua, calore e vento. Quando si sceglie un pavimento di legno è quindi importante il tipo di essenza, il formato, la sua finitura e non ultima la tecnica di posa. Possiamo sponsorizzare per ambienti dall’immagine contemporanea una posa a tolda di nave che presenta un andamento sfalsato e si compone di listoni di lunghezze diverse. Questa scelta ci regala un disegno non ripetitivo. In ambienti di particolare pregio e dal sapore antico, quando già abbiamo optato per un legno

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di grande valore, possiamo rendere il tutto più ricercato con una posa a fascia e bindello che crea una cornice lungo il perimetro degli ambienti ed un tappeto centrale. Per rendere calda e accogliente la casa il legno può rivestire non solo i pavimenti, ma anche le pareti con la realizzazione di boiserie. Noi adoriamo il legno alle pareti e se la boiserie è sempre stata presente nel nostro linguaggio formale, per molti invece la boiserie è oggi una scoperta oppure è ritornata, dopo anni di pareti rigorosamente minimal e rigorosamente solo imbiancate. Noi spesso adoperiamo le boiserie per mascherare accessi a locali di servizio che svilirebbero pareti che magari danno su zone giorno o pranzo e alterniamo i legni alla pelle e agli specchi, impreziosendo ulteriormente le pareti. Ma le boiserie possono essere anche semplicissime e in questo caso è la venatura del materiale il punto di forza, oppure possono attingere ad un linguaggio più classico, come nel caso di boiserie bugnate. La corretta progettazione e la supervisione attenta delle maestranze da parte dell’architetto vi garantirà un risultano eccellente e su misura, rendendo l’ambiente intimo e caldo.


Rag. Alessandro Susini Agente procuratore Promotore finanziario

Via Brunelli 13/17 56029 Santa Croce sull’Arno (Pisa) Tel. uff. 0571 366072 - 360787 Fax 0571 384291

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Centro Toscano Edizioni ISSN 1973-3658

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771973 365809

20172

Anno XIX n. 2/2017 Trimestrale € 10,00


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