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5 giugno 2012 • pagina 5

I giganti del business scappano da Grecia e Spagna temendo il crollo della moneta unica

Per le multinazionali è cominciata la grande fuga dall’euro Dalla Procter & Gamble alla Heineken, dalla Glaxo a Carrefour: tutti cercano di convertire i capitali in dollari o sterline di Luisa Arezzo e multinazionali scappano dall’euro, e se fino a qualche settimana fa il fenomeno era tenuto in sordina, adesso non è più possibile. Perché è partita una vera e propria gara a chi fugge prima. Innanzitutto dalla Grecia, dove il 17 giugno si tornerà a votare e dove la possibile vittoria di Syriza potrebbe far sprofondare la moneta unica nell’incertezza. Ma anche dalla Spagna, dal Portogallo e dalla stessa Italia. C’è il colosso alimentare e di prodotti per l’igiene Procter & Gamble, il gigante farmaceutico GlaxoSmithKline ci sono fior di multinazionali europee come la Heineken olandese, il tour operator tedesco Tui, il colosso francese dei supermercati Carrefour e la catena inglese di store elettronici Dixons. Tutti protesi alla grande fuga. Il motivo è presto detto: la possibilità di un euro fallito, anche se ancora lontana, è possibile. E non si può rischiare nulla, perché ne va della propria sopravvivenza. La corsa, poi, è anche protesa al recupero dei crediti insoluti: il timore è che se la Grecia dovesse tornare alla dracma, questa sarebbe talmente svalutata da non poter più andare a coprire la cifra del debito. In poche parole: i crediti non verrebbero ripagati, se non in tempi lunghi e imprevedibili. Non solo: si rischia anche che il governo di Atene converta ogni euro presente nel paese in dracma, e questo significherebbe un ulteriore danno per le multinazionali, che vederebbero ridimensionato di punto in bianco il proprio capitale.

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Mettere in salvo il cash, per non vederselo trasformato in dracme, o congelato da improvvise restrizioni sui movimenti di capitali è dunque la parola d’ordine di chi fa il grande business. L’allarme partito dalla Grecia e che riguarda ormai anche la Spagna e in misura minore, secondo il Wall Street Journal di ieri, anche l’Italia e il Portogallo, è più forte che mai. La Heineken, per esempio, sta spostando i suoi capitali fuori dalla Grecia e convertendo l’euro in dollari americani e sterline. «Lo facciamo regolarmente» hanno detto i vertici della casa della birra, e questo è vero, solo che adesso lo stanno facendo tutti i giorni. Così come lo sta facendo il gigante Diageo e la la farmaceutica Glaxo Smith Kline. I piani di evacuazione delle multinazionali dalla zona euro, dice il WSJ, sono «gli stessi che furono messi a punto e collaudati più di un anno fa verso i paesi del Nordafrica coinvolti nella primavera araba». Un paragone che certo non depone a favore di Atene e Madrid.Tra le misure già avviate dalle multinazionali più prudenti: «Esigere dai clienti locali dei pagamenti anticipati

al 50%, accorciare l’incasso delle fatture a 15 giorni». Lo chiamano “contingency plan”ma assomiglia di più ai preparativi di una ritirata strategica. Il colosso dei tour operator Tui, sta convertendo tutti i pacchetti viaggi già acquistati per la Grecia, in pacchetti verso altre destinazioni. Nel settore assicurativo, due colossi come Allianz Natixis

In caso di ritorno alla dracma, le compagnie si troverebbero risorse totalmente svalutate

avrebbero già sospeso le polizze di garanzia sulle esportazioni verso la Grecia, considerando troppo elevato il rischio che gli importatori locali non paghino più la merce, oppuro saldino i debiti in una nuova moneta locale pesantemente svalutata. Alcune società di consulenza come Roland Berger, o grandi studi legali internazionali come Linklaters, fanno gli straordinari per rispondere all’assedio dei clienti, cioè le multinazionali in cerca di aiuto su come smobilitare il più presto possibile dai paesi a rischio dell’eurozona. O quantomeno, le cose dovessero peggiorare, ridurre i danni al minimo.

Paura ed apprensione per il destino della moneta unica serpeggiano fra i giganti del business: e sono sempre di più le multinazionali che non prendono più ordini dalla Grecia e dalla Spagna per accogliere invece le richieste del mercato cinese e delle nuove economie emergenti. Carrefour, colosso francese dei supermercati, sta convertendo buona parte dei suoi ipermercati in una sorta di discount, e questo sia in Grecia che in Spagna che in Italia (soprattutto al centro-sud). Ufficialmente per andare incontro alle esigenze dei clienti, che ormai spendono solo in beni alimentari essenziali, ma in realtà per investire di meno in paesi considerati a rischio. Stessa cosa la stanno facendo la Nestlé, Danone e i marchi rappresentati dalla Procter & Gamble. Insomma, tutti restringono la cinghia.Trump, uno dei più importanti giganti dell’ingegneria industriale e della tecnologia medicale, ha nei cassetti pronto il piano B. Ovvero un pacchetto di misure analoghe a quelle adottate durante la grande crisi del 2008-2009: riduzione dell’orario di lavoro per i dipendenti, maggiore flessibilità nei pagamenti e sistemi di consegna a durata standard. In sostanza: se i mercati finiranno nel panico per il collasso dell’euro, inzialmente in Grecia, l’azienda è pronta immediatamente a decelerare su consumi e produzione. In attesa di tempi migliori. Per capire cosa questo significhi, basti pensare che quattro anni fa la Trumpf tagliò i suoi costi di oltre 124 milioni di dollari. Il punto è che la fuga di capitali dalla Grecia è non solo in corso, ma sarà duratura. Anche se quest’ultima dovesse restare nell’eurozona. Ci vorranno degli anni prima che le multinazionali riprendano fiducia nel mercato ellenico, considerato strutturalmente a rischio. Il Wsj ammette che il piano di evacuazione intrapreso dai grandi del business ridisegnerà in larga misura i rapporti commerciali. Rendendo sempre più difficile operare nei Paesi dell’Europa meridionale.

che è riuscita ad ottennere grandi risultati, grazie alla Ue, se li scorda e rischia di crollare». Le ragioni delle posizioni tedesche, secondo il professor Paganetto, dipendono «dal sentiment degli elettori. La stessa Germania ha di che preoccuparsi se la situazione bancaria va in disequilibrio. Bisogna non dimenticare il richiamo dell’Fmi che ricorda come l’aumento delle tasse e il taglio dei deficit siano misure recessive. La ricerca del pareggio di bilancio, quindi, non deve tradursi in situazioni controproducenti, ma occorre, una politica prioritaria di sviluppo attraverso gli Eurobond per fare investimenti in tutta l’Europa».

Quella degli Eurobond, secondo Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison e professore di Economia industriale della Cattolica di Milano, è «il vero piano che sognava fare, al quale la Merkel si oppone da sempre. Parliamo di uno strumento di tremila miliardi, basato su garanzie reali per mille miliardi, la proposta Prodi-Quadrio Curzio dello scorso anno per intenderci, al quale concorrerebbero tutti gli stati con lo stesso sistema che vale per la Bce. Siccome si sono sfilacciati i rapporti tra i paesi della Ue e con gli altri Stati non si riesce a dare una risposta di sistema, con i tedeschi che stanno approfittando a mani basse di questa situazione nel breve periodo. È un problema di debolezza europea legata alle debolezze dei vari paesi di avere un esecutivo in grado di governare. Se si lasciano incancrenire le situazioni bisogna fronteggiare le varie crisi: la greca da debito pubblico, quella spagnola delle banche e così via. Gli italiani dovrebbero cominciare a pretendere qualcosa, visto che il nostro debito pubblico è tenuto sotto controllo da decenni, pagando lauti interessi agli investitori, abbiamo fatto il più grande avanzo primario della storia. Le nostre banche non erano esposti con greci, portoghesi, irlandesi, spagnoli e con i titoli che hanno intossicato il sistema bancario mondiale. Cosa che hanno fatto le banche tedesche, in alcuni casi salvate dallo Stato. Alcuni paesi europei, a questo punto, dovrebbero avere la forza per mettere con le spalle al muro Berlino. Bisognerebbe riscrivere la storia economica degli ultimi venti anni con paesi considerati perdenti, perché non crescevano come l’Italia. Dopo abbiamo visto che tutti quelli che crescevano hanno contratto tanti debiti privati poi diventati pubblici. Per non parlare delle operazioni di salvataggio delle banche d’affari americane o di quelle inglesi da parte degli stati. La Germania dovrebbe essere messe di fronte alle sue responsabilità. E non è stato un italiano, un greco o uno spagnolo a dire che la Germania rischia di distruggere l’Europa per la terza volta, ma l’ex ministro degli Esteri tedesco».


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