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Il buon senso c’era,

he di cronac

ma se ne stava nascosto per paura del senso comune.

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Alessandro Manzoni

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 8 MAGGIO 2012

di Ferdinando Adornato

Sarkozy lascia la politica e la Merkel avvisa Hollande: «Il rigore non si tocca»

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Exploit dell’Idv (a Palermo) e dei grillini

L’illusione dell’antipolitica Il Pdl crolla ovunque, il Pd assediato dagli antagonisti: è la fotografia di un paese paralizzato

Ma ora Atene può restare nell’Euro?

da pagina 2 a pagina 7

È caos in Grecia: Samaras rinuncia all’incarico. Oggi ci provano i “radicali” da pagina 8 a pagina 11

A Marassi due persone in scooter hanno avvicinato Roberto Adinolfi e gli hanno sparato alle ginocchia

Sangue a Genova: torna l’incubo terrorismo «Gambizzato» l’amministratore delegato dell’Ansaldo nucleare. È fuori pericolo di Riccardo Paradisi

La storia ci insegna che non bisogna minimizzare

Genova si vota e si spara. Roberto Adinolfi amministratore delegato di Ansaldo nucleare è stato gambizzato ieri mattina mentre usciva di casa. È stato avvicinato da due persone a bordo di uno scooter, con il viso coperto dai caschi, una delle quali ha fatto fuoco colpendolo all’altezza del ginocchio. Cinquantanove anni Adinolfi si è occupato prevalentemente di energia nucleare, lavorando in Italia, negli Stati Uniti e in Francia. Dal novembre 2005 è direttore generale della Ansaldo Nucleare SpA. Da Aprile 2007 ne è amministratore delegato. a pagina 12

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EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

La maledizione (italiana) del passato che non passa di Giancristiano Desiderio l momento sappiamo una sola cosa: non possiamo sottovalutare l’attentato di via Montello a Genova. Che sia terrorismo non lo sappiamo, che non sia terrorismo altrettanto. Si dovrà attendere una eventuale rivendicazione che per ora non c’è. a pagina 12

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• ANNO XVII •

NUMERO

86 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

21.30


dopo il voto in Italia

pagina 2 • 8 maggio 2012

Alla fine, ha votato quasi il 67% degli elettori: non c’è stata la temuta valanga di astensioni. Rivoluzionati i partiti tradizionali

Ha vinto l’antipolitica

Il Pdl crolla, la sinistra avanza ma il Pd è accerchiato dagli antagonisti. Il successo di Tosi a Verona è l’eccezione di una Lega che non c’è più di Errico Novi

ROMA. Ce ne sono di analogie con il ’93, più d’una. Allora furono la Dc e il Pentapartito a dissolversi, persino prima del voto, stavolta tocca al Pdl, vittima di un’ecatombe politica. Festeggia il Pd, come il Pds di allora, senza dare troppa importanza alla ricorrente eterodossia dei candidati di sinistra in testa, come a Genova. Esplode, come allora fecero la Lega, la Rete e l’Msi, il fenomeno anti-sistema del Movimento 5 stelle, che conquista un incredibile ballottaggio a Parma, ci va molto vicino a Genova e va bene in tanti capoluoghi, compresa Verona. L’elemento di equilibrio proposto da queste Comunali è in alcune ottime performance del Terzo polo, che può compiacersi soprattutto del buon risultato di Genova con Enrico Musso (al ballottaggio

città scaligera colpisce il distacco tra il primo cittadino rieletto e gli avversari (il Pd Michele Bertucco, sostenuto da una sinistra compattisima, supera a stento il 20 per cento), con il grillino Gianni Benciolini che supera invece il 10 per cento.

Lo stesso Bersani può rallegrarsi fino a un certo punto. Le bandierine ci sono, le belle soddisfazioni arrivano (si pensi a Monza, dove il Pd ha ancora il ballottaggio tra sé e la vittoria ma Pdl e soprattutto Lega econo umiliate) ma il senso di una situazione che tende a sfuggire al controllo centrale è abbastanza forte. Non è solo la questione palermitana, dove peraltro i democrartici si producono in impegnative capriole (si pensi al commento entusiastico su Orlando di Anna Finocchiaro): è che non si vede certo una bella e rassicurante schieMARCO DORIA ENRICO MUSSO ra dei sindaci espres(C.SIN.) (TERZO POLO) si dall’apparato pd. Ce ne sono, c’è Bernazzoli in vantaggio nella bianca Parma, ma c’è anche un panorama variegato, che sarà difficile ricomporre. Tanto è 285 sez. su 653 vero che da Vendola arriva una chiosa affilata del tipo: il cencon Marco Doria, al momento trodestra crolla ma l’alternativa di andare in stampa), di Cuneo, non siamo noi, dove il noi sta dove il candidato Udc è primo, e per la foto di Vasto. di Lucca. Ma il segno dell’insof- Bersani prende la cosa dal verferenza c’è, si avverte, non solo so buono (per il Pd): «Il risultato nei risultati dei grillini. Due dei è di stimolo a sostenere il goverpersonaggi simbolo di questa no», dice. Forse per lui. Perché il tornata, Marco Doria e Leouca primo commento di Alfano non Orlando, sono simboli di una si- è sulla débacle del Pdl, ma sul nistra in contraddizione con se fatto che lui non parteciperò più stessa: il primo uscito vincitore ai vertici di maggioranza. Dopodalle primarie a dispetto del- diché il numero uno di via dell’apparato democrat e in van- l’Umiltà ammette che la sconfittaggio con il 46%, il secondo ca- ta è pesante. E sulle dimissioni pace di stracciare la concorren- spiega che «nessuno me le ha za con il 47% e quasi venti pun- chieste». Il punto è che sono ti sullo stesso Maurizio Ferran- proprio i berlusconiani, adesso, delli, altro candidato atipico del i maggiori indiziati per una riticentrosinistra. A Genova e Pa- rata strategica dalla coalizione lermo la vittoria dunque ha il di governo. L’umore dell’elettovolto di due frontman dell’anti- rato è nei numeri. Come osserva politica. A Verona Flavio Tosi tra i primi Francesco Rutelli, l’aconferma di essere molto amato stensione colpisce soprattutto i come le statistiche del Sole- berlusconiani. «Anche nelle re24Ore riferiscono puntualmen- gioni rosse dove è elevata, l’ate, e passa con il 56 per cento al stensione sembra che riguardi primo turno. Ma anche nella loro più di tutti». Il dato com-

plessivo dell’affluenza alla fine è negativo ma non gravissimo: 66,9 per cento rispetto al precedente 73,7. Ma ci sono città dove il fenomeno fa più impressione: il caso emblematico è quello di Monza, città dove il vecchio centrodestra segna il passo e dove la partecipazione al voto scende di 14 punti, dal 73,6 al 59, 6. Va malissimo anche in altre città in cui il primato Pdl-Lega si dissolve, da Alessandria (13%) e Asti (-10%) a Parma (anche qui dieci punti sotto, dal 74,6 al 64,5).

A fronte di quello che lo stesso segretario pd definisce uno «tsunami», dunque, il centrosinistra può sentirsi, per ora, al riparo. Al momento di andare in stampa le sue bandierine coprono i capoluoghi di quasi tutto lo Stivale: oltre al solido van-

GENOVA

49%

te toscana del centrodestra, con po al berlusconiano Paolo Buzl’uscente Mauro Favilla del Pdl zi, desolatamente sesto (semscalzato dall’ottimo Pietro Faz- pre al momento di andare in zi dell’Udc) e a Pistoia (Samue- stampa) con un modestissimo 5 le Bertinelli nettamente in van- per cento, testa a testa con la taggio su Anna Maria Celesti del Pdl, 60% contro 15%). C’è poi il caso puFLAVIO TOSI MICHELE BERTUCCO gliese, che restitui(LEGA) (C.SIN.) sce forse la fotografia più impietosa per i berlusconiani. A Brindisi viene sprecato lo straordinario patrimonio di consenso accumulato per lustri da Mimmo Mennitti, costretto al 110 sez. su 268 ritiro per ragioni di salute, e sembra veleggiare verso il successo il candidata del Prc. In testa c’è giornalista Cosimo Consales, appunto Bernazzoli del Pd con sostenuto dall’alleanza Pd-Udc- il 39 per cento. Dietro di lui il Api. Il pdl Mauro D’Attis, nelle grillino protagonista dell’exploit più clamoroso, l’ingegnere Federico Pizzaroti che veleggia oltre il 19 per cento. Il primo moderato è Elvio Ubaldi, capostipite della tradizione civica che conta sul sostegno dell’Udc, e sta intorno al 16%. Il

VERONA

57,1%

22,9%

Il Lombardia il Carroccio perde ovunque: a Monza il sindaco uscente si ferma al 10 per cento

14,4%

taggio di Doria a Genova (46 per cento conto il 14 di Musso e il 13 del grillino Putti) si va verso l’affermazione al primo turno a La Spezia (dove c’era una coalizione allargata anche dall’Udc), a Lucca (unica roccafor-

fasi iniziali dello scrutinio, è dato intorno al 30%. Disastro epocale a Taranto: vero che già vi governava il centrosinistra, con il ricandidato Ezio Stefano quotato attorno al 50%, ma sul Pdl profila anche il sorpasso di Mario Cito, figlio dell’ex sindaco Giancarlo, con il berlusconiano Aldo Condemi che PIERLUIGI GARELLI arranca sotto il 10 (C.SIN) per cento.

CUNEO FEDERICO BORGNA (UDC)

37%

20 sez. su 54

29,1%

Altra patria perduta, per il vecchio centrodestra, è inevitabilmente Parma: gli scandali che hanno travolto l’amministrazione Vignali non lasciano scam-

suo è uno dei risultati brillanti ottenuti dai centristi in particolare e dal Terzo polo in generale. Il partito di Pier Ferdinando Casini può appuntarsi sul petto sicuramente il colpaccio genovese, dove fino all’ultimo Enrico Musso contende il ballottaggio al grillino Putti. Ma uno degli exploit inattesi arriva da Cuneo, dove Federico Borgna è addirittura in testa con il 34 per cento, seguito dal vincitore delle primarie democrat, Gigi Garelli. Qui c’è tra l’altro una delle Caporetto più clamorose per i berlusconiani, con Marco Bertone inchiodato intorno all’8% dietro al leghista Claudio Sacchetto, assessore di Cota, che viaggia oltre il 10.

Altra ottima performance dell’Udc arriva da Lucca, dove appunto Fazzi pare destinato a


Il deputato Udc rilancia la necessità di «sostenere il progetto Monti»

«Promosso il Terzo Polo: la gente ci vuole uniti» Parla Mauro Libé: «I casi di Genova, Lucca, Cuneo e Rieti sono un’indicazione importante per il futuro» di Franco Insardà

ROMA. «Da politico che ama la politica so-

Silvio Berlusocni e Umberto Bossi sono i due veri sconfitti delle elezioni amministrative di ieri e domenica: sia il Pdl sia la Lega hanno subito perdite pesantissime soffiare il ballottaggio all’uscente pidiellino Favilla. Spicca a Rieti Silvio Gherardi con il 25%, mentre sulla strada del ballottaggio il Pd sorpassa il Pdl 34 a 33. Si può dire che il centro moderato esca molto bene dalle urne nonostante la comprensibile ritrosia dell’Api e soprattutto di Fli a presentarsi, in molte città, con il proprio simbolo. Va meno bene nelle città dove si è tentato l’accordo moderato con i berlusconiani: a Verona dietro lo straripante To-

kickboxer pidiellino Massimo Costa, sul quale l’Udc era confluita, si ferma sotto il 15%. Il capoluogo siciliano è il caso più eclatante di voto disgiunto: le liste a sostegno del vincitore raggiungerebbero il 19% scarso, a fronte del 47,1% dell’ex primo cittadino. Il quale, come dicono gli altri dati, prende voti un po’ da tutti, persino dagli elettori berlusconiani.

Grillo festeggia tra l’altro il primo sindaco in un piccolo comune del Vicentino, Sarego. Ma a fargli urlare «belìn, ci vediamo in ParlamenROBERTO SCANAGATTI ANDREA MANDELLI to» sono più che al(C.SIN) (PDL) tro Parma, Genova, Piacenza (Pd intorno al 48% e Cinque stelle oltre il 10) e Pistoia. Il Pdl non può consolarsi con la vittoria al primo turno di Romoli a Gorizia: lì la coalizione era 31 sez. su 110 amplissima, con dentro sia l’Udc che si c’è il pd Berucco e non Ca- la Lega E il Carroccio che, per stelletti sostenuto da Pdl e cen- tollerare l’eccezione alla corsa tristi; a Palermo Orlando se la solitaria, ha preteso e ottenuto vedrà con un ex compagno di- da Alfano di non presentare pietrista, Ferrandelli, mentre il nemmeno il simbolo.

MONZA

38%

21,8%

no molto preoccupato per il non voto». È questa l’amara riflessione di Mauro Libè, responsabile degli Enti locali dell’Udc facente funzione, dopo l’azzeramento di tutte le cariche del partito. Onorevole Libé, come sono andate queste amministrative per l’Udc? Siamo soddisfatti di quelle situazioni, come Genova, dove il Terzo Polo facendo un’operazione intelligente verso la città ha ottenuto un ottimo risultato. In giro per l’Italia l’impressione è che l’Udc stia tirando più dei candidati. Dai primi risultati arrivano segnali incoraggianti per i moderati e il segretario Cesa ha dichiarato: il nostro progetto continua. Il risultato di Genova, come quello di altre realtà (Gorizia, Cuneo, Lucca, Rieti e tante altre) rafforza questa idea. In alcune città siamo andati divisi dagli altri partiti del Terzo Polo, perché abbiamo lasciato libertà alle strutture territoriali. Questo non inficia assolutamente la posizione nazionale del Terzo Polo: il nostro progetto è chiaro e continuiamo su questa strada per creare un grande partito di centro e moderato. Torniamo alle amministrative: il successo dei grillini e la forte astensione erano prevedibili? Vorrei prima di tutto chiarire che, a dispetto di quello che dichiara Grillo, si tratta di voti contro, pura espressione di un sentimento antipolitico. Perché quando c’è solo contestazione e non ci sono proposte non può considerarsi politica. Ma sia il risultato dei grillini sia l’astensione sono andati oltre le previsioni. È il Pdl il grande sconfitto: dal Nord al Sud. È evidente, ma si ha l’impressione che molti esponenti del Pdl non se ne siano ancora accorti. Mentre i risultati ottenuti dal Pd sono discreti. O no? Formalmente il Pd uscirà rafforzato e al secondo turno vincerà molti ballottaggi, ma alcuni risultati non hanno confermato le previsioni. Penso a Doria a Genova, come Bernazzoli a Parma e altri candidati, dati vincenti al primo turno e invece costretti a una seconda tornata fra due settimane. Per la Lega, tranne l’affermazione di Tosi a Verona, le cose sono andate molto male. Proprio così. A Verona ha vinto un candidato credibile, a prescindere se fosse o meno della Lega. Come giudica la vicenda di Palermo? Anche in questo caso ha prevalso la credibilità del candidato, ma l’Idv non può considerarlo un successo del partito. Leoluca Orlando, però, rischia di diventare sindaco, ma di non avere la maggioranza in Consiglio comunale. Infatti. Potrebbe arrivare in

Consiglio comunale senza maggioranza e non riuscire a governare Palermo. Pensa che il Pd sia tentato da un ritorno alla foto di Vasto? La tentazione c’è ed è forte per alcuni di loro che vorrebbero inglobare l’Udc in quell’alleanza. Ma dimenticano che una cosa sono le amministrative, ben altra cosa sono le politiche. Da tutte queste situazioni quale segnale arriva ai partiti? Credo che i partiti che sostengono il governo dovrebbero imparare qualcosa da questo voto. Quando si lavora per risanare un Paese bisogna dimostrare serietà e coerenza, noi del Terzo Polo lo stiamo facendo dalla nascita dell’esecutivo Monti, rischiando di pagare anche l’impopolarità di certe scelte. I tentennamenti elettorali di Pdl e Pd hanno sicuramente un po’ inficiato la politica generale del governo. Le amministrative erano un passaggio intermedio, occorre guardare lontano e arrivare alla fine della legislatura, avendo la capacità di dare un segnale serio ai cittadini che, magari, oggi contestano. Ma dimostrando coesione e capacità di intervento i partiti potranno riacquistare la loro fiducia. Domenica la Sardegna si è espressa a larga maggioranza a favore dell’abolizione delle province. Che cosa vuol dire? Non solo si sono espressi per la cancellazione delle nuove, ma anche per quelle storiche. La politica dal 2008 ha fatto campagna elettorale promettendo l’abolizione delle province, ma solo l’Udc e pochi altri sono stati coerenti. Il rischio, però, è che, quando i cittadini non vedono realizzate le promesse, la facciano pagare a tutti i partiti. Occorre un impegno serio e in questo noi abbiamo dato un segnale molto più forte rispetto agli altri. Cambierà qualcosa per la maggioranza che sostiene il governo Monti? Mi auguro che non cambi nulla. Anzi i partiti che lo appoggiano dovrebbero avere il coraggio e l’intelligenza di farlo in modo ancora più forte e deciso. C’è un rischio di elezioni anticipate? No. I partiti della maggioranza, dopo queste elezioni, devono appoggiare con più convinzione il governo. Come sta facendo l’Udc. Da sempre.

A Verona come a Palermo ha prevalso la credibilità dei candidati


dopo il voto in Italia

pagina 4 • 8 maggio 2012

Le strade che partono da via del Nazareno portano a una riscoperta dei moderati. Oppure alle macerie evocate dal segretario

Sotto assedio

Il trionfo dell’antipolitica al Nord peserà soprattutto sulle strategie future di Bersani. Non pare in discussione l’appoggio al governo Monti ma, certo, a fermare l’emorragia a sinistra non basta nemmeno la “foto di Vasto” di Vincenzo Faccioli Pintozzi enova, L’Aquila, Monza e Parma. Ovvero Doria, Cialente, Scanagatti e Bernazzoli. Non sono risultati sicuri, almeno non per ora, ma sono scontri diretti in cui il Partito democratico ha ottime possibilità di vittoria. E poi La Spezia, Como, Lucca: tutte realtà in cui il centrosinistra “dogmatico” porta a casa buoni risultati. Sempre in attesa della prossima tornata – salvi i secondi casi – ma comunque buoni. Se si guarda alla partita giocata dai democratici,

insomma, si alza lo sguardo con l’impressione che abbiano raggiunto alcuni degli scopi prefissati. Ha ragione chi sottolinea come i candidati siano in qualche modo “atipici”, non proprio espressione della leadership centrale ma piuttosto personaggi forti sul territorio. Ma hanno ricevuto bene o male l’appoggio del Partito, ed è con quel simbolo che sono arrivati alla vittoria. Quale che sia il destino di questi ballottaggi, l’unico dato che emerge da queste consultazioni amministrative è che il Partito democratico si candida a divenire l’unico (insieme ovVINCENZO BERNAZZOLI FEDERICO PIZZAROTTI viamente all’Unione (C.SIN.) (5 STELLE) di Centro) sostenitore attivo del governo Monti all’interno dell’attività parlamentare. E se un’ipotesi di tal genere non è nelle intenzioni della direzione di via del Nazareno è 123 sez. su 203 meglio che questa

G

PARMA

39,5%

19,4%

cambi immediatamente idea: soltanto con un moto di responsabilità e di buon governo, infatti, potrà risollevarsi da questa situazione.

Il dato non è illusorio e la proposta non è garibaldina: con il crollo verticale di quel Popolo che della libertà oramai ha ben poco, infatti, è prevedibile attendersi da parte degli ex berluscones – chi più, chi meno pentito delle proprie scelte passate – una violenta inversione di rotta sulla strada che costeggia quello dell’esecutivo tecnico. Consapevoli dell’importanza del populismo per questo popolo italiano, infatti, i caporali del PdL avranno già nel cassetto un “j’accuse” da pronunciare contro palazzo Chigi, per poi divenire alfieri di un’opposizione feroce quanto miope e pericolosa. Naturalmente senza sfilarsi dal sostegno parlamentare: per quanto oramai allo sbaraglio, i deputati del centrodestra sanno di avere pochissime possibilità (siamo nel-

l’ambito dei decimali) di essere sti due scenari. Nel primo caso rieletti. E un altro annetto alla Bersani recupera la grinta dei Camera non fa schifo a nessu- primi minuti dopo la sua eleno. I sodali di Pierluigi Bersani, zione alla segreteria del Partito invece, possono contare su e ritiene che l’Italia sia ancora qualche risultato: ma non possono e non devono pensare che – per migliorare MASSIMO CIALENTE GIORGIO DE MATTEIS la situazione – sia (C.SIN.) (UDC-MPA) utile inseguire le tracce del comico genovese. Che in effetti si profila come vincitore, ma che porta con sé diverse macerie. Le strade davanti ai piedi dei democratiproiezioni Piepoli ci sono ora sostanzialmente due: o seguono il canto delle sirene del- la stessa degli anni Sessanta. l’antipolitica e superano a sini- Guarda con attenzione i dati restra i vari Grillo e Di Pietro op- lativi a queste ultime consultapure si smarcano del tutto dal- zioni amministrative e si autola deriva radicale, che per il convince che siano i toni esamomento risulta vincente. Con sperati dei vincitori relativi ad il problema che a seguire il aver attratto tanti voti. Supera canto delle sirene ci si schianta la famosa (o famigerata) fotografia di Vasto e stringe un acsugli scogli più vicini. Esaminiamo più da vicino que- cordo elettorale con il Movi-

L’AQUILA

36,7%

35%


8 maggio 2012 • pagina 5

Il Movimento al Nord va spesso oltre il dieci per cento. Ma anche al Sud prende voti

«Ci vediamo in Parlamento»: Grillo è diventato un partito

Il movimento del comico sfonda a Parma (dopo la campagna contro Tanzi) e a Genova. «Abbiamo un sindaco: a Sarego nel vicentino» di Marco Palombi

ROMA. «L’unico dato vero di queste elezioni è il tonfo di Grillo: con questa situazione doveva prendere il 20 o il 30 per cento». A caldo, in tv, Giuliano Ferrara decide di attestarsi su una posizione ad effetto, quanto falsa: Grillo, le amministrative, le ha vinte. È una delle poche cose certe. D’altronde il Movimento 5 Stelle non è “L’Uomo qualunque” che fu, non è (o non solo) l’esplosione della pancia reazionaria e impaurita del paese, ma una realtà che si consolida attorno ad una sorta di leninismo 2.0.: tanto caotica nelle sue manifestazioni locali, quanto teleologica nel movimento generale. Il non-partito fondato dal comico genovese non è infatti pensato per esplodere in un solo momento come successe con Forza Italia nel 1994 - figlia di un media tradizionale e novecentesco come la tv e del suo modello di potere verticistico - ma con una progressione geometrica, orizzontale, virale per dirla in termini più adatti al web, che è insieme la sua sede e la sua incubatrice. I numeri, d’altronde, sono imponenti: nel centronord il Movimento 5 Stelle viaggia ormai in doppia cifra quasi ovunque (forse anche grazie alla bassa affluenza che percentualmente ne esalta il risultato), praticamente ai valori del Terzo Polo e – in molti casi – a quelli dello stesso Pdl. Buone le performance anche nel Sud, dove fino all’ultima tornata il nonpartito di Grillo non esisteva quasi, mentre ora raccoglie qua e là buoni risultati come il 5 e dispari per cento di Palermo (dove peraltro ha stravinto Leoluca Orlando, candidato che pesca nello stesso bacino del movimento). Peraltro, al netto dei casi eclatanti di Parma e Genova su cui torneremo, il movimento incassa anche la simbolica conquista del primo comune: «Abbiamo il primo sindaco: è a Sarego la prima Terza Repubblica. Avanti così. Belin!», ha annunciato lo stesso Beppe Grillo su Twitter nel pomeriggio di ieri. Il nome del neosindaco, per la cronaca, è Roberto Castiglion, 32 anni, ingegnere informatico e dipendente Enel, che dovrà amministrare le 6.500 anime circa del paese vicentino grazie ad una vittoria per soli 20 voti sul candidato di una lista civica. Tale è stato lo sconvolgimento portato dai ragazzi che sono usciti dal web per riempire le urne che persino il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, ieri s’è lasciata andare ad un commento abbastanza irrituale, soprattutto per un tecnico membro di un governo tecnico: «Sono fenomeni che accadono sempre nei momenti di disorientamento». Tolto il buon Castiglion, i nomi del giorno, nell’universo

grillino, sono due: Federico Pizzarotti e Paolo Putti.

«Carneade, chi era costui?», direbbe il curato di campagna o il consigliere provinciale cresciuto nella Prima Repubblica. Per costoro e per altri Pizzarotti e Putti, entrambi abbastanza giovani per l’età media della politica, sono i candidati del Movimento 5 Stelle rispettivamente a Parma e Genova: il primo con

«Nessun apparentamento per i ballottaggi», promettono i fedelissimi del “santone”

uno stratosferico 20% dei voti andrà al ballottaggio con lo strafavorito uomo del Pd (dopo, peraltro, aver battuto un uomo assai amato in città come l’ex sindaco Elvio Ubaldi, candidato dell’Udc), il secondo dovrebbe arrivare terzo a Genova (dopo centrosinistra e Terzo Polo) con un 15% dei consensi. Numeri assai pesanti, come si vede (come il 10% di Verona d’altronde) è persino più inaspettati nel capoluogo ligure che nella città di Calisto Tanzi. A Parma, infatti, Beppe Grillo ha condotto la sua battaglia su Parmalat, prima e dopo il crac, e il comune stesso è stato in questi anni sconvolto dal dissesto finanziario e dalle inchieste per corruzione che hanno smantellato la vecchia giunta di centrodestra: terreno propizio per una campagna d’assalto, come piace al comico, giocata soprattutto sui toni “morali”e sul campo della “differenza” coi partiti tradizionali. Al contrario di Parma, invece, a Genova - che pure è la città di Grillo – il Movimento 5 Stelle coglie un risultato in linea con altri comuni del centro nord (ci sono altri 15% sia in “Padania” che nelle regioni rosse), ma lo fa in un contesto decisamente più difficile: Marco Doria, infatti, candidato del centrosinistra à la Vasto, pareva inventato apposta per togliere appeal ai pasdaran del comico. Economista dell’università di Genova, gauchiste ma figlio della nobiltà cittadina, uscito vincitore dalle primarie fratricide nel Pd (l’ex sindaco Vincenzi e la deputata Pinotti erano in corsa entrambe, Doria fu proposto da Sel) con il crisma dell’uomo nuovo e senza compromissioni con le vituperate segreterie dei partiti. Invece niente: anche con Doria oltre il 45%, Putti si mette in tasca comunque il suo quasi 15% scompaginando più di una sicurezza sull’identikit dell’elettore M5S.

Ora già qualcuno si chiede cosa faranno Grillo e i suoi per i ballottaggi. Non faranno niente, non appoggeranno nessuno, in nessun comune: «Non possiamo appoggiare nessuno dei due candidati – dice ad esempio il genovese - perché hanno dietro la stessa idea di città, uno ha il Pd e l’Idv, l’altro Udc e Fli: non rappresentano nessuna possibilità per questa città». Il Movimento, in sostanza, lavora esplicitamente per l’eversione completa dell’attuale quadro politico. Una battaglia di lungo periodo nella quale i grillini hanno un solido alleato: non solo o non tanto la recessione o le tensioni sociali fomentate dalla crisi, quanto i partiti stessi, ingessati, impauriti e inefficienti. Eppure, promette Grillo: «Ci vediamo in Parlamento».

mento 5 Stelle e l’Italia dei Valori. Si presenta alle urne con una coalizione di sinistra che di sinistra non ha nulla, ma che di sinistro ha molto. Vince, perché su queste onde si potrebbe anche vincere, e scopre di essere a capo (relativamente) di un’accozzaglia che non è d’accordo su nulla. Insomma, siamo davanti a uno scenario molto simile a quello imposto agli occhi di chi seguì i tristi giorni dell’Unione guidata da Prodi e affossata da Fausto Bertinotti.

Nel frattempo, mentre il Pd cerca stremato di tenere in mano le redini della sua armata, il Paese stremato dagli assalti di investitori-squali continua a perdere punti concorrenziali rispetto ai nostri padroni europei “di Germania” e rimanda ancora una volta quelle riforme strutturali – fiscali e giudiziarie al primo posto – che impongono pastoie violente e immobilizzanti alla nostra crescita economica. La seconda ipotesi è quella più auspicabile. Controllando gli stessi dati elettorali di cui sopra, la direzione di via del Nazareno capisce una volta per tutte che i valori dell’antipolitica sono valori che puntano alla distruzione e non alla ripresa. Questa stessa direzione impone un freno alle possibilità di alleanze e si muove insieme all’Unione di Centro in una politica di sostegno al governo che mantenga le proprie promesse, ovvero naturale scadenza del mandato. Nel frattempo saranno entrate in vigore senza scossoni le proposte di riforma avanzate da Monti e dai suoi. La situazione economica peggiorerà prima di migliorare, ma i mercati daranno tregua all’Italia quando sarà oramai chiaro a tutti che la politica sostiene i dolorosi interventi resi necessari da anni di ruberie e spese inutili. E si arriverà al marzo del 2013 con un malato – l’Italia – in condizioni serie ma stabili. A quel punto il Partito democratico avrà nella sua faretra una freccia di prima qualità, ovvero la dimostrazione che è il benessere del Paese e non qualche illusoria vittoria temporanea il vero pensiero e la priorità dei propri dirigenti. A urne aperte potranno giocarsela senza il rischio di vedersi materializzare quelle “macerie” di cui proprio Bersani diceva di aver paura. Perché il rischio, è inutile nascondersi dietro un dito, è proprio questo: che le prossime politiche abbiano in ballo le macerie di un Paese che poteva dare molto e che invece è stato distrutto.Tutto questo ovviamente parte dalla premessa che i sodali del Cavaliere di Arcore mantengano il proprio impegno e decidano di continuare a sostenere il governo. Perché se fossero loro a sfilarsi in nome di un assalto suicida alla diligenza non ci sarebbe più nulla su cui discutere.


Il partito di Berlusconi crolla ovunque: in molti casi i suoi rappresentanti non arrivano nemmeno ai ballottaggi

Lo strappo di Alfano

Il segretario: «Candidati sbagliati ma non mi dimetto. Da oggi cambio linea. Basta vertici con Bersani e Casini: non servono a nulla» di Francesco Pacifico

ROMA. L’addio a Verona, Parma o a Palermo spinge il Pdl sul fronte dei falchi. E con un eccesso di spregiudicatezza, ecco quello che rimane del partito di Berlusconi agitare l’Aventino, rompere la pax che garantisce la stabilità del governo Monti. La debacle alle ultime amministrative, la paura di essere travolti e l’astensionismo hanno portato, come primo effetto, Angelino Alfano minacciare agli “alleati” Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini per far saltare l’accordo sulla legge elettorale ormai prossimo.

i vertici ABC, perché «gli incontri con i segretari di questa strana maggioranza non portano a nulla». A via dell’Umiltà la situazione sta stretta e le tensione hanno superato ormai da tempo i livelli di guardia. Di fronte a un Massimo Costa che a Palermo non va oltre il 13,3 per cento – lontano anni luce sia dal ballottagio sia dal 61 a 0 del 2001 in Sicilia – Ignazio La Russa mira in alto: «Abbiamo sbagliato i candidati, non ho difficoltà ad ammetterlo. C’è la mania di cercarli con la faccia carina, senza sapere da quale esperienza amministrativa vengano, mentre la gente vuole persone affidabili e per FABRIZIO FERRANDELLI i palermitani è più (PD) affidabile Orlando».

tito degli onesti e delle regole, voluto da Alfano, è un ottimo progetto, e noi vogliamo realizzarlo». Come detto il segretario mostra i muscoli. Fa sapere che «se i dati del voto amministrativo saranno confermati, il Pdl dimostra di essere radicato sul territorio. E su queste basi si può ricominciare». Garantisce che «nessuno mi ha chiesto le dimissioni». E promette piena fedeltà soltanto a Mario Monti, perché «non toglieremo l’ap-

Ospite del Tg3 per commentare le prime proiezioni, l’ex ministro della Difesa fa uscire dalle pagine dei giornali lo scontro sulle macerie del Popolo delle Libertà e avverte. «È tutto da vedere se Alfano ne esce indebolito», fa sapere, «però vedremo nei prossimi giorni. Ma il progetto di un par-

poggio al governo per queste amministrative. Noi siamo responsabili». Tutte affermazioni che i suoi compagni di partito fanno di tutto per smentire, in attesa della svolta già annunciata da Berlusconi. Anche ieri Alfano ha fatto sapere che «dopo le amministrative annunceremo una grande novità politica». Intanto roccaforti come Monza rischiano di passare al Pd. Sto-

PALERMO LEOLUCA ORLANDO (IDV)

47,4%

proiezioni Piepoli

17%

«Non esiste alcun accordo sul testo ma solo su due principi», fa sapere l’ex Guardasigilli. Anzi, basta proprio con

Via dell’Umiltà spaccata tra colombe e falchi. Napoli: «Avanti con Monti». Crosetto: «No, troppo rischioso»

rici avamposti dove gli effetti nessuno ma non possiamo delle inchieste giudiziarie o nemmeno far finta che nulla della malagestione (Parma co- sia successo». Ma più che il vime Palermo) portano a debacle cepresidente del Senato è ancoincredibili fino a un anno fa. E ra una volta Silvio Berlusconi a se al Nord la fine dell’alleanza dare la misura di quello che ricon la Lega non riesce a far passare il messaggio di un nuovo Pdl responsaETTORE ROMOLI GIUSEPPE CINGOLANI bile e istituzionale, (UDC-FLI-LEGA) (C.SIN.) al Sud la proliferazione di liste e liti fratricide portano percentuali risibili. Così, per fermare il tempo, via dell’Umiltà deve voltare lo sguardo verso Gorizia, dove il sindaco 32 sez. su 37 uscente Ettore Romoli viaggia spedito verso l’elezione diretta al pri- mane del partito fondato su un mo turno. Ma è una vittoria po- predellino alla fine del 2007. co significativa per il futuro del In quest’ottica finisce per essepartito di Berlusconi, visto che re più eloquente la scena vista il settantenne commercialista è ieri a Mosca, dove l’ex premier sostenuto da un cartello com- è volato per la rielezione di Vlaposto da Pdl, Fli, Udc e Lega. dimir Putin. Davanti ai cronisti Cioè da quella Casa della Li- prima si è soffermato sull’ultibertà che proprio il Cavaliere mo campionato – «Complimenha contribuito a distruggere. ti alla Juve, ma lo scudetto l’abSempre al Tg3 Gaetano Qua- biamo perso noi». Poi si è vangliariello ha commentato a cal- tato di essere stato collocato do: «Noi non immaginavamo di dal cerimoniale del Cremlino avere un buon risultato, per noi tra «i posti d’onore fra gli ospiqueste erano elezioni di resi- ti, nella fila subito dopo i parenstenza. Certo, non condannano ti». Quindi, correndo alla mac-

GORIZIA

50,8%

37,4%


dopo il voto in Italia

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Il ciclone Orlando sul centrodestra A Palermo, un tempo roccaforte del Pdl, vanno al secondo turno l’ex sindaco (46%) e il Pd di Francesco De Felice

ROMA. Per Leoluca Orlando a Palermo le primavere non finiscono. Questa del 2012 si preannuncia più perturbata delle altre. Ha vinto il primo round della sua battaglia per ritornare a governare la città per la terza volta, lui che, come recitava il suo spot elettorale, “il sindacolosafare”. Ma la coalizione che ha sostenuto Vincenzo Costa è in testa nella sfida per conquistare il consiglio comunale di Palermo con oltre il 25% di voti, mentre quella di Orlando e di Ferrandelli sono appaiate intorno al 18%. Una situazione che non fa dormire sonni tranquilli né a Orlando, né a Ferrandelli. Stando così le cose per il prossimo cittadino di Palermo sarà un’impresa davvero ardua riuscire a governare la città. Una partita, quella palermitana, che vedeva ai nastri di partenza ben undici candidati a sindaco e sulla quale erano puntati i riflettori di tutti gli schieramenti. La campagna elettorale non è stata delle più esaltanti, la prima dell’era post Berlusconi che nelle precedenti competizioni elettorali era sempre arrivato a Palermo a sostenere i candidati del centrodestra. Tra l’altro questa volta si è votato con la nuova legge elettorale, che non ha consentito ai candidati sindaco di usufruire dell’effetto traino delle liste, in quanto è stato necessario esprimere la preferenza. I palermitani sono stati chiamati anche a esprimersi su circa 1.400 candidati al Consiglio comunale. Mentre per il primo cittadino in campo oltre a Orlando, c’erano Fabrizio Ferrandelli, il vincitore china e scusandosi di dover correre a vedere l’ospite russo giocare a hockey, si è rifiutato di parlare di amministrative – «Ho chiamato al partito, ma ci siamo dati appuntamento al mio ritorno dal Cremlino in serata», smentito staffette Alfano Santanché e «le notizie sul Pdl percorso da voglie non positive. Non mi risulta siano vere».

Tra quelli che meglio conoscono il Cavaliere e la sua parabola politica, è utile sentire Giuliano Ferrara: «Berlusconi», dice, «non sa che cosa fare, non ha la minima idea di cosa fare, l’unica cosa è che ha capito di dover appoggiare il governo Monti. Non ha una strategia per le alleanze, il Pdl si è spappolato molto prima delle elezioni che hanno certificano uno sfilacciamento, ma questo si sapeva: dopo Berlusconi il Pdl è a rischio esistenziale».

delle discusse primarie, ex Idv ma sostenuto da Pd e SeL. E poi Massimo Costa, un giovane “non politico”sostenuto da Pdl-GrandeSudUdc, Alessandro Aricò, candidato di Mpa e Fli, ed infine la candidata del Pid Marianna Caronia. Uno dei dati che emerge dalle amministrative palermitane è quello dell’astensione che ha raggiunto quota -8,6%. Il dato definitivo nel

La Russa ammette: «Abbiamo sbagliato i candidati, lo dico senza difficoltà. La gente vuole persone affidabili» capoluogo siciliano è stato, infatti, del 63,2% a fronte del 71,8% delle precedenti amministrative.

Quello di Palermo resta un risultato, comunque, eclatante che farà molto discutere all’interno dei partiti. A partire dal Pdl. Il coordinatore del Pdl, Ignazio La Russa ha, infatti, dichiarato ai microfoni del Tg3: «Abbiamo sbagliato i candidati, lo dico senza difficoltà. C’è la mania di cercarli con la faccia carina senza sapere da quale esperienza amministrativa vengano, la gente vuole persone affidabili e secondo i palermitani è più affidabile Orlando. Non è un elogio di Leoluca Orlando, anche se lo ritengo una persona intelligente, ma ho detto che è tramontata la pretesa dei candidati che non hanno né arte né parte. Magari bravi candidati nelle loro professioni, ma la politica per passione è un’altra cosa».

Ormai all’interno sembrano muoversi due anime in perenne conflitto tra loro. E non soltanto per il tentativo di alcuni di ritornare ai fasti della vecchia Forza Italia contrapposto alla considerazione di altri che, uscito di scena Berlusconi e con la vittoria di Hollande in France, bisogna modificare l’orizzonte politico partendo proprio dall’esperienza Monti. Su questo fronte, quello delle colombe Osvaldo Napoli fa sapere che «continueremo a sostenere il governo Monti, non c’è dubbio». E lo dice uno degli esponenti del Pdl più vicini oggi al Cavaliere, che guardando al medio termine non disdegna l’ipotesi di grandi coalizioni. Aggiunge al riguardo l’ex ministro Franco Frattini: «Il Pdl paga il prezzo della coerenza nelle alleanze e di non aver guardato ad accordi strutturati di convenienza».

Sul fronte Pd c’è qualche critica alle scelte, anche se il segretario regionale del Pd siciliano, Giuseppe Lupo, ha dato una singolare versione: «I candidati a sindaco dei partiti del centrosinistra a Palermo insieme superano il 60%. Questo conferma che la nostra percezione era esatta. Se fossimo riusciti a imporre un’unica candidatura avremmo vinto al primo turno. Credo che lo strepitoso risultato elettorale ottenuto sia la conferma che occorreva dare un segnale di speranza a questa città e i palermitani hanno risposto in maniera straordinaria con un consenso che si è riversato sulla mia persona». Sulla stessa linea Anna Finocchiaro, presidente del gruppo del Pd al Senato: «Il risultato di Palermo è straordinario e mostra come, in una situazione di grave crisi politica, un buon candidato possa riuscire ad attrarre voti non solo dalla sua area di riferimento ma anche dal resto del fronte politico. La situazione di Palermo dimostra anche come le primarie siano un buon metodo per creare consenso, ma un pessimo metodo per risolvere problemi politici che andrebbero affrontati altrove». Il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, ha ammesso: «Evidentemente non era giusto il candidato, mentre come coalizione invece siamo andati bene».

Ma il leader dell’Api, Francesco Rutelli, avverte: «A Palermo, Leoluca Orlando, se i primi dati fossero confermati, non avrebbe nessuna remota maggioranza in Consiglio comunale. I partiti che lo appoggiano sarebbero al 17%

Sull’altro versante all’ex sottosegretario Guido Crosetto non basta consolarsi con il fatto che «piange Atene, non ride Sparta e sta male anche Corinto”. Ma per rimanere al Pdl, è importante prendere le distanze da questo governo e dalle scelte degli ultimi mesi, che occorra

Perse città “sicure” come Palermo, Lucca e Parma, sotto la soglia di guardia a Verona e a Cuneo fare le riforme istituzionali, una nuova legge sul finanziamento ai partiti e soprattutto una legge elettorale che non uccida l’idea del bipolarismo». Se questi sono scenari, il presente parla di una debacle senza uguali. A Cuneo Marco Ber-

mentre lui al 45%. Dovrebbe sperare che al ballottaggio non andasse Ferrandelli ma Costa, salvo allearsi con il Pdl, cosa assai improbabile». Un raggiante Orlando ha commentato così il voto: «La realtà è che a Palermo era morta ed è morta la politica e i palermitani hanno dato una risposta molto forte dicendo no alle logiche delle caste, che dice no agli equilibrismi della politica e che dà una risposta molto forte a un sogno di futuro».

Dal suo competitor Ferrandelli sono arrivate pesanti accuse: «Il candidato che ha goduto dei voti di Cammarata è Orlando, colui che ha rotto il patto delle primarie e ha diviso il centrosinistra. Il miglior candidato dei cammaratiani è stato Orlando e non Costa. Al ballottaggio, che saranno una storia a parte, gli uomini di Cammarata che intanto sono stati eletti al consiglio comunale non voteranno Orlando. I palermitani sanno da oggi chi ha fatto gli inciuci». Concetto ripreso anche dal senatore del Pd, Giuseppe Lumia: «Oggi abbiamo un asse Orlando-Cammarata che al secondo turno può essere battuto da Fabrizio Ferrandelli». Fra due settimane la verifica.

tone non arriva neppure al 10 per cento, superato non soltanto dalla sorpresa Federico Borgna (Terzo Polo al 37,06) e dal Pd Maria Garelli (29,12), ma anche dal leghista Claudio Sacchetto (12,11). A Verona, nonostante ci si sia affidato a un personaggio conosciuto in città come l’ex vicepresidente di Unicredit Luigi Castelletti (9 per cento), la lista del partito non è andato oltre il 5 per cento. A Parma Paolo Buzzi, con il suo misero 4,9 per cento, paga le inchieste sull’ex giunta Vignali e arriva sesto. Lascia con il fiato sospeso la corsa per Monza, dove si era speso anche Silvio Berlusconi, forte anche degli interessi immobiliari del fratello Paolo in alcune aree periferiche. Complice anche il calo record dell’affluenza a Monza (-12% rispetto al 2007) chiude in vantaggio il primo turno il candi-

dato del centrosinistra Roberto Scanagatti (37), mentre quello del centrodestra, il leader dei farmacisti del Fofi Andrea Mandelli, si fermo al 21. Nelle grandi città poi il Pdl sembra la prima Forza Italia. A Genova il segretario generale dell’Anci, PIerluigi Vinai con il suo 10 per cento guarda da lontano la lotta per conquistare un posto al ballottagio tra l’ex fuoriuscito Enrico Musso (14,10) e il grillino Paolo Putti. Disdetta anche Lucca, storica enclave di centrodestra in Toscana, dove il berlusconiano Mauro Favilla (14,54 per cento) fa peggio del candidato dell’Udc Pietro Fazzi (16,21), che al secondo turno sfiderà Alessandro Tambellini (47,02) del centrosinistra. Al Sud danni limitati soltanto a Catanzaro con Sergio Abramo e a Trapani con Vito Damiano, diretti verso il secondo turno.


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on il gollista Sarkozy in Francia, sono ormai 22 i capi di Stato o di governo europei che la crisi si è portata via in quattro anni. Nell’ordine: il socialista ungherese Ferenc Gyurcsány; il conservatore ceco Mirel Topolanek, che oltretutto saltò mentre era presidente di turno dell’Ue; il greco di Nuova Democrazia Kostas Karamanlis; il laburista britannico Gordon Brown; l’indipendente ungherese Gordon Bajnai; l’indipendente ceco Jan Fischer; il democristiano fiammingo belga Yves Leterme; il centrista finlandese Matti Vanhanen; il socialdemocratico slovacco Robert Fico; l’irlandese del Fianna Fail (centro-destra nazionalista) Brian Cowell; il socialista portoghese José Socrates; la centrista finlandese Mari Kiviniemi; il liberale danese Lars Lokke Rasmussen; il socialista greco Yorgos Papandreu; l’italiano Silvio Berlusconi; il socialista spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero; il socialdemocratico sloveno Borut Paho; il democratico liberale romeno Emil Boc; la democristiana slovacca Iveta Radicová; il liberale olandese Mark Rutte; l’indipendente romeno Mihai R\u0103zvan Ungureanu.

C

Da notare però che in Spagna dopo le politiche le regionali in Andalusia hanno visto i socialisti riprendersi rispetto e i popolari perdere. E che nel Regno Unito le ultime amministrative sono state vinte dai laburisti. E che in Germania la coalizione di Angela Merkel continua a perdere in un Land dopo l’altro, anche se nello Schleswig-Holstein un po’meno peggio che nelle consultazioni immediatamente precedenti. Insomma, dove governa la sinistra la gente vota a destra, dove governa la destra a sinistra, e magari passa immediatamente dall’una all’altra posizione una volta cambiato il governo. tant’è che sono sempre più diffuse anche ampie coalizioni e governi tecnici. Ma quel che imperversa è soprattutto il voto di protesta. Anch’esso, peraltro, totalmente disomogeneo. Si potrebbe dire che gli europei non sanno che vogliono ma quello che non vogliono: in compenso lo non vogliono subito. Vediamo ad esempio quella che è normalmente catalogata come estrema destra. In Francia al primo turno presidenziale del 21 e 22 aprile Marine Le Pen del Fronte Nazionale ha preso un 17,90% dei voti che è il tetto nella storia del partito: anche quando suo padre Jean-Marie nel 2002 arrivo al secondo turno, ottenne il 17,80%. In Grecia le politiche del 6 maggio hanno per la prima volta visto l’ingresso in Parlamento del partito dell’Alba d’Oro, che da percentuali da prefisso telefonico è passato direttamente al 7%. Possiamo ricordare che come quello dei Le Pen terzi partiti sono pure arrivati l’11 e 25 aprile 2010 il Movimento per una Migliore Ungheria (Jobbik) di Gábor Vona con il 16,67%; il 9 giugno del 2010 il Partito per la Libertà (Pvv) olandese di Geert Wilders con il 15,5%; il 17 aprile 2011 iVeri Finlandesi (Ps) di Timo Soini, col 19,1%; il 15 settembre 2011 il Partito Popolare Danese di Pia Kjærsgaard col 12,3%. Meglio ancora la destra dura è andata in Polonia, dove dal 2005 il movimento Legge e Giustizia fondato dai gemelli Kaczy\u0144ski è uno dei due partiti principali del Paese: alle politiche del 9 ottobre 2011, col 29,9% dei voti. In Belgio, dove il 13 giugno 2010 la Nuova Alleanza Fiamminga (N-Va) di Bart De Wever è arrivata pure prima, con il 17,4%, cui va aggiunto il 7,76% dell’ancor più estremista Interesse Fiammingo (Vb). In Austria, dove alle presidenziali del 25 aprile 2010 la candidata del Partito Au-

dopo il voto in Europa Localisti, spesso razzisti, qualche volta nazisti. Ma anche anti-modernisti di “sinistra”: ecco la mappa della protesta europea. Che ha solo un tratto in comune: l’estremismo antipolitico

Premiata ditta dis

di Maurizio striaco della Libertà (Fpö) Barbara Rosenkrantz arrivò seconda col 15,2% dei voti. Fuori dall’Unione Europea andrebbe però ricordata la Svizzera, dove quello che a seconda dei cantoni è conosciuto come Partito Popolare Svizzero o Unione Democratica di Centro (Svp-Pps-Udc) è il primo partito, con il 26,6% ottenuto il 23 ottobre 2011. Mentre in Norvegia il Partito del Progresso è il secondo partito, col 22,9% ottenuto il 14 settembre 2009. Su un livello più simile a quello di Alba d’Oro sono i bulgari di Attaka, che il 5 luglio del 2009 ebbero il 9,36%, e i Democratici Svedesi di Jimmie Åkesson che il 19 settembre 2010 sono pure entrati per la prima volta in Parlamento, con il 5,7%. Romania Grande dopo essere stata un partito di massa alle ultime elezioni è invece uscita dal Parlamento, ma alcuni sondaggi dicono che con la crisi potrebbe ora tornarvi in forze, fino a classificarsi a uno dei due primi posti. Un caso a parte è quello del Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (Ukip), che ha preso il 16,1% alle Europee del 2004 e il 16,5% a quelle del 2009, ma tende a contare poco alle elezioni politiche e locali. All’ultimo turno di amministrative è però salito dall’8 al 13% nei collegi dove si è presentato, anche se questi sono stati una minoranza.

E tuttavia, già l’esperienza del Palamento Europeo dimostra la difficoltà di far convivere questi gruppi che proprio in

quanto ultra-nazionalisti tendono spesso ad affrontarsi tra di loro: Romania grande contro Jobbik, ad esempio, sulla Transilvania; o Romania Grande contro Alessandra Mussolini per il suo “razzismo contro il popolo romeno”. A proposito di ebraismo, ad esempio, Wilders è un noto filo-israeliano; Marine Le Pen viene da un partito larvatamente revisionista sul-

l’Olocausto che però da ultimo ha cercato di prendere il voto ebraico in chiave anti-islamica; l’Alba d’Oro iscrive solo “greci ariani”. A proposito di frequentazioni governative: Legge e Ordine in Polonia ha fatto un governo da sola; popolari svizzeri, Fpö austriaca e N-Va fiamminga sono state in coalizioni di governo nazionale o locale in cui c’erano pure i lo-

Non solo Atene: l’estrema destra può contare su Le Pen in Francia, sul Movimento per una Migliore Ungheria, sul Partito per la Libertà (Pvv) olandese di Geert Wilders, sui Veri Finlandesi (Ps) di Timo Soini e sul Partito Popolare Danese di Pia Kjærsgaard


dopo il voto in Europa

però è un partito che è stato forza di governo diretta con propri ministri, e da ormai 18 anni: anche se, a differenza che in Austria o Svizzera, senza governare direttamente a livello nazionale anche con la sinistra. Insomma, cavalca l’antipolitica, ma con gli ultimi scandali minaccia pure di esserne travolta.

A differenza che in America Latina, in Europa l’estrema sinistra approfitta di meno della protesta anti-politica. Ma non è che ne sia del tutto assente. In Grecia, in particolare, il crollo del Pasok ha portato al secondo posto la Syriza, Coalizione della Sinistra Radicale. È un 16,8% che si contrappone a sinistra al 12,2% dei socialisti, all’8,5% dei comuni-

sUnione Europea

o Stefanini cali socialisti; Pvv olandese e i“progressisti” danesi hanno appoggiato governi di centro-destra dall’esterno; gli altri partiti sono stati invece tenuti in rigido isolamento. Quanto all’etichetta di neo-fascisti: in effetti vale soprattutto per l’Alba d’Oro, la cui bandiera rossa con un labirinto minoico in mezzo evoca in maniera impressionante quella nazista, e il cui programma originario sparava allo stesso modo contro “giudeo-cristianesimo, marxismo e liberalismo”, in nome della restaurazione addirittura del paganesimo olimpico. Simpatie fascisteggianti sono presenti anche nel Fronte Nazionale francese, che è in parte erede di una tradizione legittimista che pesca anche nel regime di Vichy; nel Vb, che guarda invece al nazionalismo fiammingo filo-nazista; in Romania Grande, nel cui albero genealogico ci sono certamente i Legionari di Codreanu; e anche nello Jobbik, che ha a sua volta nel suo dna qualcosa delle Croci Frecciate. Ma il Front National ha anche arruolato ex-partigiani, ilVb si è dichiarato filo-Usa nella guerra a alQaida, in Romania Grande sono anche numerosi gli ex-esponenti del regime di Ceaucescu, e lo Jobbik si considera soprattutto un movimento cristiano.

Per il resto, popolari svizzeri e Fpö sono essenzialmente antichi partiti liberalconservatori che si sono radicalizzati a destra sul tema dell’immigrazione. Il Pvv

è nato a proposito dello stesso tema da una scissione dei liberali olandesi. Progressisti norvegesi e popolari danesi erano in origine essenzialmente partiti antitasse. Legge e Ordine voleva fare piazza pulita della nomenklatura post-comunista e difendere i valori cattolici dall’influenza secolarizzante dell’Ue. L’Ukip è a sua volta un partito anti-Ue. A parte la N-Va, che vuole semplicemente l’indipendenza dal Belgio: un motivo di fondo di tutti questi movimenti è semplicemente l’ostilità anti-immigrati specie islamici, che si è sovrapposta a volte a un precedente motivo anti-fiscale, e su cui si è poi in seguito sovrapposto anche un mo-

sti e al 6,1% degli ex-Pasok della Sinistra Democratica. All’origine della Syriza, in realtà, c’erano semplicemente i comunisti “dell’interno”: autodefinizione locale degli eurocomunisti, contrapposti ai comunisti filo-sovietici del Kke, da loro definirti “dell’esterno”nel senso di “dipendenti da Mosca”. Fu un partito a lungo piccolo, che stretto tra Kke e Pasok non riuscì a diventare quello che fu in Italia il Pds-Ds. In compenso, dopo il 2000 riuscì a aggregare nuovi consensi di area no global, scivolando dalla destra dei comunisti ortodossi alla loro sinistra. E la crisi ha permesso ora loro di decollare. A Syriza assomiglia anche il

Tranne che sulla Syriza greca, i partiti di sinistra radicale dopo le fiammate degli anni scorsi appaiono in decadenza: il Partito Socialista olandese è sceso al 9,9%, mentre la Sinistra tedesca domenica nello Schleswig-Holstein ha mancato il quorum tivo anti-europeo. Specie con le ultime difficoltà della zona euro, anche se spesso per motivi proposti: i Veri Finlandesi non vogliono che si diano soldi ai greci; l’Alba d’Oro sfrutta la rabbia per questo tipo di sentimenti anti-ellenici. In Italia, dal momento che i vari gruppi a destra dell’ex-An sono tuttora a un livello extraparlamentare, il movimento che più si inquadrerebbe in questo gruppo è la Lega. A differenza che in Olanda e Danimarca

Fronte della Sinistra con cui l’ex-socialista Jean-Luc Mélenchon è arrivato quarto alla presidenziali francesi, con l’11,10%: la differenza è che lui è riuscito a schierare con sé anche il Partito Comunista storico, da tempo in salute non eccelsa. Nel Regno Unito un simile partito no global è Respect: fondato dall’exlaburista George Galloway quando ha rotto col Blair sulla Guerra in Iraq. Uscito dal Parlamento alle ultime elezioni, vi

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è tornato il 6 marzo con la clamorosa vittoria di Galloway alle suppletive del colleguio di Bradford West, dove ha preso il 55,9%. Anche se va detto che si è trattato di un collegio particolare, con una forte popolazioni di origine asiatica e islamica. Invece, alle ultime elezioni amministrative Respect non si è segnalata in modo particolare.

Altri partiti di sinistra radicale che dopo le fiammate degli anni scorsi appaiono in decadenza: il Partito Socialista olandese, terzo nel 2006 col 16,6%, ma nel 2010 sceso al 9,9%; la Sinistra tedesca, nata dalla confluenza tra gli ex-comunisti della Ddr e la sinistra socialdemocratica scontenta per le riforme dello Stato sociale, che nel 2009 ha avuto l’11,9%, ma alle ultime elezioni dello Schleswig-Holstein ha mancato il quoziente minimo, crollando dal 6 al 2,2%. In forma appare invece la Sinistra Unita spagnola: dal 3,15% del 2008, al 6,92% delle ultime elezioni, all’11% di cui la accreditano i più recenti sondaggi. Ma si tratta di un partito tradizionale i cui successi hanno un carattere di protesta, ma non di anti-politica. Piuttosto, in Spagna una forma di anti-politica è rappresentato dalla crescita, peraltro costante ma non impetuosa, di un partito centrista: Unione, Progresso e Democrazia (Upyd), che è passato dal 3,51% del 2008 al 4,7% delle ultime elezioni, e adesso sarebbe al 6%. Fondato dalla ex-socialista Rosa Díez in marcata polemica contro l’eccessivo peso dei partiti regionalisti, di fronte a tanti Paesi dove è cresciuta una protesta anti-centralista regionalista, è il caso particolare di un Paese dove sta invece crescendo una protesta centralista anti-regionalista. Un po’ all’Upyd potrebbe assomigliare il Modem di François Bayrou, che in Francia ha avuto il 9,13%, ma che appare più inserito nel sistema. Insomma, è un voto di proposta centrista, più che di protesta. In Italia, dopo una Seconda Repubblica in cui l’anti-politica sembrava soffiare soprattutto a destra, questo inizio di Terza Repubblica la vede invece imperversare soprattutto a sinistra: Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, versus Sinistra Ecologia e Libertà di Nichi Vendola, versus Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo. Su alcuni aspetti, peraltro, i grillini potrebbero evocare il Partito Pirata, che nato dalla Svezia con l’obiettivo della libertà di peer-to-peer sta ora sfondando soprattutto nel mondo germanico: l’8,9% il 18 settembre 2011 a Berlino; il 7,4% il 25 marzo 2012 nella Saar; il 17 aprile il 3,8% a Innsburck; l’8,2% il 6 maggio nello Schleswig-Holstein.


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dopo il voto in Europa

La minaccia greca di non rispettare gli obiettivi di bilancio scuote le Borse e mette in imbarazzo la Merkel

Borse in altalena, ieri, dopo il voto in Francia e in Grecia (qui, un elettore al seggio). Sotto, il premier greco incaricato, Antonis Samaras. Nella pagina a fronte, dall’alto, Jean-Marc Ayrault, Michel Sapin e Pierre Moscovici: si fanno i loro nomi, rispettivamente, per la guida del governo, per il ministero dell’Economia e quello degli Esteri

Atene infiamma Berlino di Francesco Pacifico

ROMA. Nel messaggio di congratulazioni a Francois Hollande il garbo istituzionale lascia subito spazio all’avvertimento: piena disponibilità «ad accogliere a braccia aperte» il neo presidente francese a Berlino, ma «il Patto sul rafforzamento della disciplina di bilancio in Europa non è rinegoziabile». Nel saluto ad Andonis Samaras, invece, Angela Merkel sfiora l’intimidazione: «È della massima importanza che la Grecia attui pienamente gli impegni presi su risanamento dei conti e riforme strutturali». Perché se davvero passasse il principio che sul Fiscal compact si può «cambiare linea a ogni elezione», allora salterebbero anche gli accordi «in base ai quali ad Atene sono stati concessi aiuti europei e internazionali». Cioè i

130 miliardi stanziati nel marzo scorso, senza i quali – va da sé – il Paese cadrebbe preda di una miseria peggiore di quella che sta vivendo. L’ultima tornata elettorale e la richiesta di Obama di investire sulla crescita indeboliscono una Merkel, che già sottotraccia tratta con la Spd per una nuova grande coalizione nel 2013. E se Hollande abbassa i toni e riconosce la centralità in Europa del motore franco-tedesco è Atene a mettere in discussione la leadership della Germania. I mercati intanto tirano il fiato. Va male la Borsa di Atene (-6,67 per cento), arranca Francoforte (+0,12) per il resto è tutta una sequela di segni positivi come Milano: +2,56. E si allenta anche la pressione sui debiti sovrani dei Piigs: il differenziale di rendimento tra Btp decennali e Bund tedeschi equivalenti si attesta a 386 punti, dopo aver toccato un

La Grecia ormai è ingovernabile

Samar as lasc ia. Ora ci pr ova no i “r adic ali ”

di Luisa Arezzo

massimo a quota 401, quello tra Bonos spagnoli e titoli. Sul lungo termine lo spettro per la Merkel è quello dell’uscita di Atene dall’euro. Ieri due analisti di Citigroup, Jurgen Michels e Guillaume Menuet, hanno alzato al 75 per cento le possibilità di un ritorno alla dracma entro 18 mesi. Prima del voto di domenica, con il boom di partiti neonazisti comunisti e antieuropeisti, si era al 50 per cento. Dante Buonsanto, sales di Cmc Markets, ha fatto sapere che «una settimana fa in un contratto stipulato tra la Bei e la Deh è stata inserita una clausola che prevede la rinegoziazione del rimborso nel caso in cui si ritornasse alla dracma». Ma è sugli scenari a breve termine che la Germania s’interroga. C’è il timore che se dopo Samaras falliranno anche il comunista Tsipras e il socialista Venizelos, si andrà di nuovo al voto. Con il ri-

a Grecia fa paura. Perché i partiti che hanno negoziato il salvataggio ed evitato il default hanno perso un terzo dei voti a vantaggio degli estremisti euroscettici di destra e sinistra. E adesso Antonis Samaras - il leader del partito di destra Nuova Democrazia, che ieri aveva ricevuto dal capo di Stato della Grecia, Karolos Papoulias, l’incarico di formare un nuovo governo - ha rimesso il mandato davanti a una mission impossibile. Consapevole che Atene potrebbe smarrire la rotta, o cambiarla, ha ceduto il mandato ad Alexis Tsipras. Col rischio di affossare l’Ue e la sua moneta. Ecco perché i prossimi dieci giorni saranno cruciali non solo per l’Ellade, tornata al centro delle preoccupazioni europee e dei creditori, ma per l’intera zona euro. Ciò che attendeva Samaras, che aveva un mandato esplorativo di tre giorni, era un compito molto arduo, visto che Nuova Democrazia è sì il primo partito, ma solo con il 18,5%

L

schio di aprire una breccia nel muro di rigore che permette alla Germania di difendere la propria competitività dalla potenza di fuoco degli emergenti: quel sistema che, grazie all’impercettibile disavanzo, permette alla Cancelleria di stanziare alle imprese esportatrici grossi incentivi per la ricerca, che finiscono poi per alleggerire il costo del lavoro, renderlo competitivo anche rispetto al dumping cinese. Entro giugno chi guiderà il governo deve approvare una manovra da 11 miliardi di tagli, pena la perdita degli ultimi 130 miliardi di aiuto faticosamente strappati a Ue Fmi. Operazione complessa in un Paese dove il Pil quest’anno segnerà una contrazione del 2 per cento, la disoccupazione toccherà il milione di persone e l’evasione fiscale – già prima della crisi – ammontava a 60 miliardi di imposte non pagate. Soprattutto se

dei voti. Una percentuale che nonostante il premio di maggioranza di 50 seggi, gli fa conquistare solo 108 deputati, negandogli dunque la maggioranza dell’assemblea che è composta da 300 seggi: una soglia irragiungibile anche alleandosi con il Pasok, l’altro partito pro-austerity che ha portato a casa solo 41 seggi (il peggior risultato di sempre). E questo era un altro rompicapo, visto che Samaras che ieri si era detto aperto a questa prospettiva in nome di un governo di unità nazionale, prima di cedere il passo - ha passato la campagna elettorale proclamandosi contrario a qualsiasi collaborazione con i socialisti. Puntando al contempo a far entrare nel governo di unità nazionale un terzo partito. Il problema è che tutte le altre cinque formazioni che hanno superato la barra del 3% dei voti sono, a livelli diversi, contrarie all’accordo raggiunto dalla Grecia con l’Europa. Si tratta dell’estrema sinistra di Syriza, che si è affermata come

secondo partito del Paese (16,78% dei suffragi e 52 deputati), la destra nazionalista dei Greci indipendenti (10,6% e 33 seggi), i comunisti del Kke (8,48% e 26 seggi), i neonazisti di Alba dorata (6,97% e 21 seggi) e la Sinistra democratica (6,1% e 19 seggi).

Avendo vinto cavalcando il vento della protesta e della stanchezza popolare (che attenzione, è un vento vero e non soltanto di ispirazione populista come si cerca di far credere), questi partiti è ai loro elettori che dovranno rispondere. E i margini di un’alleanza nazionale sono esigui. Lo Syriza guidato da Alexis Tsipras non caverà un ragno dal buco nemmeno lui, probabilmente. Ma potrebbe ricavarne in termini elettorali, soprattutto in caso di più fumate nere ed eventuali nuove elezioni. Un’eventualità, quest’ultima, che fa tremare l’Europa e l’euro. Ma di cui nessuno può dirsi sorpreso. Così come nessuno può restare a bocca aperta per


8 maggio 2012 • pagina 5 Il 15 maggio l’insediamento all’Eliseo, poi subito la campagna per le politiche di giugno

la Spagna non rispetterà a fine anno il recentissimo impegno a ridurre il deficit/pil dall’8,51 del 2011 al 5,3 per cento. Eppoi Berlino non può nascondere che il dogma del rigore – ovunque si è votato – ha portato soltanto consensi ai partiti antieuropeisti e alle destre xenofobe. Ed è facile ipotizzare che riscrivere in queste fase gli equilibri politici metta in crisi la coesione sociale, porti scioperi selvaggi e causi la fuga di capitali e cervelli. Una jattura per un’Europa che può ridurre gli alti indebitamenti e conquistare i mercati degli emergendo producendo meglio ma con costi (innanzitutto salariali) più bassi.

Non a caso la Merkel ieri ha mandato a dire ai vecchi e ai nuovi colleghi: «Ora non si tratta di ripagare i vecchi debiti. La grandissima maggioranza dei Paesi, anche la Germania, sono lontani. Ora la questione è quella di ridurre il nuovo indebitamento». Ma per tutta risposta il governo Rajoi ha annunciato nuove iniezioni di liquidità per le proprie banche (servono 58 miliardi di euro di nuova capitalizzazione e sono stati già stanziati oltre 15 miliardi), mentre da Francoforte la Bce ha confermato il suo programma di acquisti diretti di titoli di Stato, nonostante la scorsa settimana non avesse effettuato operazioni. Nelle prossime settimane si capiranno meglio le richieste di Francois Hollande, la sua ricetta per coniugare rigore e sviluppo. A ben guardare – e al di là di annunci a uso e consumo elettorale come la promessa di non inserire il pareggio di bilancio in Costituzione – il leader socialista si dice favorevole a integrare il Fiscal Compact con un Growth Compact e a lanciare i Project bond per le opere pubbliche, non gli Eurobond. Istanze, anche se in maniera più tipieda, appoggiate anche dalla Germania. Però è facile capire che il neo inquilino dell’Eliseo riprenderà dei dossier che stavano a cuore anche al suo predecessore: una tassazione più restrittiva verso le transazioni finanziarie, una maggiore elasticità nell’utilitizzo del Fondo Salva Stati fino a farne una banca, rivitalizzare la Banca europea degli investimenti e provare ad aprire i mercati interni più ricchi del Vecchio Continente. Come quello tedesco per l’appunto. l’exploit di Alba dorata. Erano mesi che i giornali greci ventilavano questa ipotesi, mesi che la gente si accaniva contro il potere centrale di Bruxelles e il pugno di ferro di Frau Merkel. Chi ha seguito tutta la crisi ellenica, sa benissimo che la spinta antieuropeista è diventata altissima dopo le condizioni capestro imposte dalla troika. Il rischio era chiaro a tutti, e tutti hanno fatto orecchie da mercante. Anzi, per evitare di sentirselo dire in maniera ufficiale, l’Europa ha anche bloccato il referendum indetto dal governo di Atene sul piano di aiuti. Quella stessa Europa che oggi si indigna per l’ingresso in Parlamento di Chrysi Avgi e chiede che, indipendentemente dalle elezioni, quanto concordato con Atene venga «attuato in modo rigoroso e nei tempi previsti», auspicando al contempo una «maggioranza stabile». Due dichiarazioni figlie della real politik, ma distanti anni luce dal sentire del popolo greco.

Tutti gli uomini di Hollande (per ricucire con Angela)

Il nuovo presidente prepara la sua squadra (con Jean-Marc Ayrault, Michel Sapin, Pierre Moscovici) in vista del debutto internazionale di Enrico Singer a vittoria dell’uomo normale sul super-eroe che ha fallito la sua missione. Il successo dell’eterno gregario che ha vinto perché, a volte, anche i numeri due s’impongono quando i numeri uno rivelano i loro limiti. La prova che la Francia ha bisogno di fatti, più che di roboanti parole, per allontanare i pericoli di una crisi che non è poi così lontana soltanto perché il Paese è la seconda economia di Eurolandia. I commenti e le analisi del giorno dopo spiegano bene perché François Hollande ha battuto Nicolas Sarkozy, ma ormai fanno parte di una storia passata. Adesso l’uomo normale è diventato presidente – s’insedierà all’Eliseo il 15 maggio – e quello che conta è come si muoverà d’ora in poi. Sul fronte interno, con la scelta del premier e dei ministri del suo governo e con la preparazione delle elezioni politiche del 10 e 17 giugno; all’esterno, prima di tutto in Europa. Con l’asse Parigi-Berlino da ricentrare e con Angela Merkel – non a caso la prima leader europea che incontrerà faccia a faccia – da convincere a coniugare finalmente rigore e crescita. Ma anche a livello globale con il vertice del G8 che si terrà a Camp David (il 18 e il 19) e quello della Nato (a Chicago il 20 e il 21) dove annuncerà ufficialmente il ritiro delle truppe dall’Afghanistan già alla fine del 2012, un anno prima rispetto al previsto. La nuova Francia, insomma, sta per diventare realtà.

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Anche il discorso pronunciato l’altra notte – era quasi l’una – a Parigi, in piazza della Bastiglia, di fronte ai suoi sostenitori in festa, è esemplare. Si è aperto con i toni e i temi cari al popolo della gauche («Sarò il presidente della gioventù francese, della giustizia, del cambiamento») e si è concluso con l’omaggio trasversale alla fierezza della Francia e alla sua unicità di «Paese speciale», «diverso», che è un po’ come dire superiore a tutti gli altri. Retorica trasversale e meno promesse. In quella stessa piazza, 31 anni fa, Mitterrand fece il ritratto, aulico e solenne, di un Paese che inaugurava una svolta politica e sociale. Ma i tempi non sono gli stessi. Non c’è più la guerra fredda. Non c’è più nemmeno il forte partito comunista di George Marchais che entrò nei primi due governi guidati dal socialista Pierre Mauroy. E proprio il governo sarà il primo indice delle novità della presidenza Hollande. La domanda che si pongono i politologi francesi è quanto a sinistra sarà il nuovo esecutivo. L’esercizio della scelta dei ministri si annuncia delicato, anche se per la guida del governo la rosa si restringe a due nomi, salvo sorprese: quello di Martine Aubry, 61 anni, attuale segretario socialista, sindaco di Lille, e quello di Jean-Marc Ayrault, 62 anni, sindaco di Nantes, attuale capogruppo socialista e fedelissimo di Hollande. La Aubry, che è figlia di Jacques Delors, storico leader del Ps ed ex presidente della Commissione europea, è particolarmente gradita alla sinistra socialista (e al Front de gauche di Jean-Luc Mélenchon) ed è stata ministro del Lavoro nel governo Jospin ai tempi di Mitterrand. Sua è la contestata legge delle 35 ore che ridusse l’orario di lavoro in Francia. Non solo: Martine Aubry è stata la sfidante di Hollande nelle primarie per

la designazione del candidato anti-Sarkozy. Per il neopresidente, sceglierla come premier significherebbe pagare un pedaggio agli equilibri interni del partito, più che un debito di riconoscenza.

Ma nel sistema politico francese, il vero capo dell’esecutivo è il presidente che detta l’indirizzo generale, compie le scelte più importanti e presiede anche le riunioni del Consiglio dei ministri. Il premier è una specie di suo braccio destro e per questo, tradizionalmente, deve essere in sintonia con lui. Condizione che fa apparire favorito Jean-Marc Ayrault che ha anche un altro vantaggio. È un ex professore di lingua e letteratura tedesca che conosce perfettamente la Germania: dote preziosa per sostenere Hollande nel negoziato con Angela Merkel. A quanto si dice a Parigi, Hollande ha in programma di formare un governo con quindici grandi ministeri più una serie di dipartimenti guidati da vice ministri. Il fedele Michel Sapin, un tempo in corsa come premier, sembra destinato al ministero-chiave dell’Economia e Finanze. La poltrona degli Esteri se la contendono Pierre Moscovici e Laurent Fabius, due pesi massimi del partito. Ma l’ex premier Fabius potrebbe anche andare all’Economia e, in questo caso, Sapin potrebbe diventare ministro della Giustizia. Manuel Valls, il potente direttore della comunicazione della campagna presidenziale di Hollande (che potrebbe anche diventare premier), punta agli Interni come pure François Rebsamen, numero due del partito. Alla Difesa il nome più accreditato è quello del presidente della regione Bretagna, Jean Yves Le Drian, mentre per l’Educazione è in corsa l’eurodeputato Vincent Peillon. Martine Aubry, se non sarà premier, potrebbe diventare ministro della Cultura. Nel governo dovrebbero entrare almeno altre tre donne: Marisole Touraine, figlia del sociologo Alain Touraine, agli Affari sociali, la deputata Aurelie Filippetti e la senatrice Nicole Bricq. Nessun incarico di governo, invece, è atteso per Ségolène Royal, ex compagna del presidente.

Riduzione dei costi dei ministeri e riforma delle pensioni saranno le due priorità del nuovo governo

I primi passi del governo – blocco del prezzo dei carburanti per tre mesi, riduzione del 30 per cento della retribuzione del presidente e dei ministri, riforma della legge sulle pensioni per ristabilire parzialmente il tetto dei 60 anni, congelamento del programma di riduzione del numero di dipendenti pubblici – saranno decisivi per l’esito delle elezioni politiche del 10 e 17 giugno. Hollande spera di bissare la vittoria per poter governare con una maggioranza forte in Parlamento, ma il sistema istituzionale prevede anche la coabitazione tra un presidente di sinistra e un governo di destra (o viceversa), eventualità che si verificò proprio tra la prima e la seconda presidenza di Mitterrand. Ma la scommessa più importante per Hollande sarà l’Europa. Il vertice informale della Ue del 31 maggio e, ancora prima, l’incontro con la Merkel. Adesso che sta per entrare all’Eliseo, il presidente socialista non minaccia più di denunciare il fiscal compact. Dice che deve essere accompagnato da misure per la crescita. Perché l’asse con la Germania interessa anche alla Francia del dopo-Sarkozy.


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Gambizzato a Marassi un dirigente dell’Ansaldo. Gli Interni escludono la pista personale: si teme il fantasma del terrorismo

Se torna il piombo Nuovo attentato “in fabbrica” a Genova, la città-laboratorio delle vecchie Br di Riccardo Paradisi Genova si vota e si spara. Roberto Adinolfi amministratore delegato di Ansaldo nucleare è stato gambizzato ieri mattina in zona Marassi mentre usciva di casa. È stato avvicinato da due persone a bordo di uno scooter, con il viso coperto dai caschi, una delle quali ha fatto fuoco colpendolo all’altezza del ginocchio. Cinquantanove anni Adinolfi si è occupato prevalentemente di energia nucleare, lavorando in Italia, negli Stati Uniti e in Francia alla progettazione degli impianti italiani di Montalto e Trino Vercellese e di quello di Superphenix, in Romania, entrambi costruiti dall’Ansaldo. Dal novembre 2005 è direttore generale della neonata Ansaldo Nucleare SpA. Da Aprile 2007 ricopre l’incarico di Amministratore Delegato. «Si tratta di un fatto grave, che lascia pensare a matrici politiche - dice all’Adnkronos Stefano Dambruoso - responsabile del Coordinamento dell’attività internazionale del ministero della Giustizia, commentando l’attentato. È opportuno attendere eventuali rivendicazioni e le prime indagini per orientare al meglio le analisi». «Le informazioni che abbiamo fino a questo momento escludono la pista personale - dice il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri – e quindi rimangono aperti tutti gli interrogativi su un fatto che desta molta preoccupazione». C’è chi ipotizza una pista anarchica, chi quella eco-terrorista, chi non esclude il ritorno di fiamma d’un eversione organizzata. Ma appunto siamo nel regno delle supposizioni.

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Sta di fatto che Genova non è una città qualunque quando si parla di attentati e terrorismo. Il capoluogo ligure è sempre stata una città centrale nell’eversione italiana. Per le Brigate rosse in particolare è stato l’epicentro strategico della loro azione terroristica che aveva fatto dell’Italsider e l’Ansaldo centri di propaganda e basi di arruolamento. È qui, inoltre, che soprattutto si svolgono le azioni di volantinaggio, le inchieste e gli attentati ai dirigenti. L’Ansaldo è stato uno degli obiettivi privilegiati della

La storia ci insegna che non bisogna minimizzare

La maledizione (italiana) del passato che non passa di Giancristiano Desiderio l momento sappiamo una sola cosa: non possiamo sottovalutare l’attentato di via Montello a Genova. Che sia terrorismo non lo sappiamo, che non sia terrorismo altrettanto. Si dovrà attendere una eventuale rivendicazione che per ora non c’è. Ma anche considerare la nostra storia che, purtroppo, in materia di violenza ideologica ci fornisce elementi istruttivi. L’amministratore di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi, rappresenta - come ha giustamente sottolineato il sindaco uscente Marta Vincenzi - l’eccellenza del mondo dell’impresa e la sua persona è conosciuta nel capoluogo ligure, nella regione e non è ignota in Italia. Un modello che può essere visto o mostrato anche come un simbolo. È stato gambizzato sotto la sua abitazione, poco dopo le 8,30 del mattino, come accadde a Massimo D’Antona a Roma in via Salaria ucciso dalle Br il 20 maggio 1999. La differenza rilevante è che l’amministratore dell’Ansaldo può raccontare l’accaduto: a sparargli sarebbe stato un uomo che lo aspettava, mentre un complice attendeva su uno scooter. Avevano il volto coperto da un casco. L’uomo che ha sparato indossava un giubbotto scuro e un casco integrale: ha sparato tre colpi di pistola semiautomatica ma uno solo è andato a segno, colpendo Roberto Adinolfi alla tibia destra. A chiamare i soccorsi è stata la moglie del manager, che si è precipitata in strada appena ha udito gli spari, proprio come avvenne con la moglie di D’Antona.

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Se Roberto Adinolfi è vivo è perché chi ha sparato non ha voluto ucciderlo. Anche questo non sappiamo con certezza esente da dubbio, ma chi indaga ritiene che chi ha sparato non volesse uccidere. Ma chi ha sparato? Sono state fatte due ipotesi: l’ultrasinistra e gli anarchici. Tutto da verificare, accertare, riscontrare. L’unico elemento sicuro è il clima di tensione sociale che c’è stato in Italia negli ultimi mesi, dalla Tav in val di Susa alle aspre polemiche sulla riforma del lavoro e dell’articolo 18. Circostanze che potrebbero favorire una nuova fiammata eversiva e un ritorno agli “anni di piombo” che, sia pure con modalità e organizzazioni diverse, in Italia ritornano ciclicamente. Sono questi motivi sufficienti per tenere desta la testa e non cadere nella tentazione della sottovalutazione o del doppiopesismo che sono atteggiamenti tipici di chi, un po’ per convenienza e un po’ per pigrizia, non vede ciò che non vuol vedere. In fondo, anche gli “anni di piombo” quando iniziarono non furono individuati subito e prima di passare dalle “sedicenti Brigate Rosse” - i cosiddetti “fascisti mascherati” - all’“album di famiglia” ci volle un bel po’ di tempo. Ecco, se c’è una cosa che non va fatta è proprio questa: non perdere tempo e non temere la verità dei fatti. L’unità aiuta. È un altro elemento da tener presente e fermo. La follia terroristica e la violenza politica s’iniziano a fronteggiare ed a vincere quando le forze politiche, sindacali e variamente democratiche rifiutano i metodi aggressivi e violenti non solo sul piano dell’azione ma anche sul piano del pensiero e della propaganda. Anche in questo abbiamo qualcosa da imparare dal nostro passato remoto e prossimo: la violenza ideale e materiale si condanna da qualunque parte venga.

Sergio Prandi, vicecaporeparto Ansaldo Nucleare, viene colpito il 10 luglio 1977 in un agguato sotto casa. Un’analogia inquietante con l’attentato ad Adinolfi colonna genovese delle Br. Sono quattro i dirigenti colpiti dai brigatisti.Vincenzo Casabona, capo del personale dell’Ansaldo Meccanica, viene rapito il 23 ottobre 1975 per poi essere rilasciato legato ad un albero presso l’immondezzaio di Recco. Sergio Prandi, vicecaporeparto Ansaldo Nucleare, gambizzato il 10 luglio 1977 in un agguato sotto casa. Un’analogia inquietante con l’attentato a Adinolfi Carlo Castellano, direttore della pianificazione dell’Ansaldo, colpito alle gambe e all’addome il 17 novembre 1977. Giuseppe Bonzani, direttore dello stabilimento G.T. Ansaldo, viene ferito il 30 aprile 1979 nei pressi della sua abitazione dai colpi di pistola sparati da due giovani a bordo di uno scooter. Insomma c’è una tradizione di attentati e ferimenti ai dirigenti Ansaldo che potrebbe aver ispirato gli epigoni dell’attentato a Adinolfi.

Città tradizionalmente calda Genova, si diceva. È qui che nel giugno del 1960 con il pretesto d’impedire il congresso del Msi la sinistra extraparlamentare sperimenta la guerriglia urbana su vasta scala. Ed è a Genova che nasce la prima formazione armata di sinistra in Italia, quella “Banda XXII ottobre”, legata ai G.A.P. (Gruppi di Azione Partigiana) di Giangiacomo Feltrinelli. Un embrione e un avanguardia del più vasto movimento terrorista degli anni successivi. Negli anni Settanta Genova è attanagliata dalla crisi economica che porta l’estremismo nero e rosso a rendersi aggressivo.

È qui che le Brigate rosse di Curcio e Franceschini decidono di mettere a segno la prima azione importante dopo lo stillicidio di microattentati portati nelle fabbriche del nord. Nel 1974 l’organizzazione mette a segno il rapimento del giudice Sossi, rapito sotto casa seguendo il modello dei sequestri tupamaros e tenuto prigioniero per 36 giorni giorni chiuso in una prigione del popolo. Le Br, nella persona di Franceschini, lo interrogheranno a lungo con le procedure che verranno usate anche durante il rapimento Moro. Il sequestro costituisce il primo «attacco al cuore dello Stato» la cui escalation si verificherà sempre a Genova dove le Br decidono, dietro la regia di Mario Moretti, di assassinare l’8 giugno del 1976 il


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8 maggio 2012 • pagina 13

Parla Sabina Rossa, figlia del sindacalista assassinato dalle Br nel ’79

«Chi spara è il nemico peggiore dei lavoratori» «La crisi potrebbe indurre qualcuno a cavalcare il malessere. Ma niente può giustificare la violenza» essuno ha ancora rivendicato l’attentato a Roberto Adinolfi amministratore delegato di Ansaldo nucleare, gambizzato a Genova mentre usciva di casa. Gambizzato è un termine coniato negli anni di piombo e a quella stagione viene da pensare dopo i colpi di pistola che hanno ferito il dirigente dell’Ansaldo. L’ultimo di una lunga teoria di quadri aziendali colpiti dal terrorismo. Sabina Rossa, genovese, senatrice del Pd è la figlia di Guido Rossa, sindacalista Cgil assassinato dalle Br per aver denunciato la presenza di terroristi in fabbrica. Con l’inviato di Panorama Giovanni Fasanella ha scritto Guido Rossa mio padre (Rizzoli) dove insieme alla figura del sindacalista viene ricostruito il clima di piombo in cui maturò il suo omicidio, l’atmosfera di una città Genova tradizionalmente sensibile nelle sue pieghe radicali ed estremiste alla tentazione eversiva. Senatrice Rossa s’è fatta un’idea di chi potrebbe esserci dietro l’attentato ad Adinolfi? Sono abituata a ragionare quando ci sono degli elementi rilevabili; al momento non c’è alcuna rivendicazione, c’è un ipotesi di una pista anarchica eversiva. Posso solo dire che lo ritengo un gesto criminale. Da condannare con fermezza. Il clima, la crisi economica non giustificano nulla. Si deve distinguere il legittimo dissenso e dalla violenza. Lei conosce Genova, la sua storia recente, soprattutto la storia entro cui maturò l’assassinio di suo padre. Che segnali coglie nella Genova di oggi? È possibile un paragone con quella di allora, epicentro del terremoto eversivo che sconvolse l’italia? La dinamica dell’attentato a Adinolfi ci riporta ad attentati simili avvenuti contro altri dirigenti dell’Ansaldo in quegli anni. Obiettivi difficilmente riconoscibili a livello nazionale. Questo fa pensare che ci sia, come allora, una strategia. E Genova è stata il labodell’eversione ratorio rossa italiana, lo hanno rivelato i fatti ma già lo scrivevano Walter Tobagi e Giorgio Bocca. La nostra memoria va là, a quegli anni, è inevitabile. Ma sono ancora suggestioni. Dire che ci siano

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Adinolfi si è occupato prevalentemente di energia nucleare, lavorando in Italia, negli Usa e in Francia alla progettazione degli impianti italiani procuratore generale di Genova Francesco Coco e di “annientare la sua scorta”.

Una strage legata al sequestro Sossi – Coco si era rifiutato di liberare i compagni dei brigatisti appartenenti alla XXII ottobre in cambio della liberazione del giudice – ma che viene usato dalle Br per alzare il livello dello scontro e portarlo su un piano di guerra frontale allo Stato. L’anno successivo, il 12 gennaio del 1977, è la volta dell’armatore Piero Costa, rapito dalle Br e tenuto prigioniero per 81 giorni

fino a quando la famiglia decide di pagare il riscatto. Dal 1975 al 1980, l’anno in cui la colonna genovese viene spazzata via con l’irruzione dei carabinieri di Dalla Chiesa in via Fracchia, le Br portano a segno nove omicidi, sedici ferimenti, un’aggressione, due assalti militari e varie rapine. È con l’assassinio del sindacalista Cgil dell’Italsider Guido Rossa che le Br perdono quel residuo di fiancheggiamento passivo che le aveva accompagnate sin dalle prime azioni. Il sindacalista viene assassinato il 24 gennaio del 79 da un commando delle BR per aver segnalato le attività brigatiste in fabbrica. Il giorno dopo per le strade della città sfilano in 250 mila contro il terrorismo anche se il giornale di Lotta Continua titola: «Ora che un delatore è morto...» Sta tornando quell’incubo? In alto, immagini del luogo dell’attentato. Sopra, il dirigente Ansaldo Roberto Adinolfi. Qui a fianco, Sabina Rossa senatrice Pd e, a destra, con il padre Guido, ucciso dalle Br

delle analogie è un azzardo. Genova è comunque una città che ha un tessuto democratico profondo. Le Br dopo l’omicidio Rossa cominciarono ad essere percepite da tutti, anche dai fiancheggiatori passivi, come quello che erano: un organizzazione terroristica. Eppure quel fiancheggiamento ci fu. L’atroce crisi economica di oggi può indurre a certe tentazioni secondo lei? C’era un fiancheggiamento ma era un fenomeno marginale tra gli operai. Dopo la prima stagione di attentati dimostrativi era apparso chiaro soprattutto a loro chi fossero le Br. Mio padre le definiva come il nemico peggiore della classe operaia. Nelle fabbriche peraltro ci fu una vigilanza attiva da parte di tutti anche prima del 79. E gli operai scesero in piazza anche per la liberazione di Sossi, un magistrato che veniva dai ranghi del Fuan. Oggi la crisi potrebbe indurre qualcuno a pensare di cavalcare il malessere con atti di violenza. E non è detto che le lezioni del passato servano anche per il presente. Per questo la vigilanza deve essere sempre alta. Secondo lei c’è una concomitanza tra l’attentato e le elezioni per il rinnovo dell’amministrazione comunale a Genova? Il ferimento era progettato da tempo credo. Poi tutto è possibile ma non credo che le amministrative siano state un fattore determinante o che abbiano condizionato troppo gli attentatori. L’unico brigatista preso nell’Italsider fu Berardi, gli altri sono rimasti anonimi. C’è chi ipotizza che vi fossero altre decine d’unità operative che restarono in sonno. È possibile pensare a una filiazione diretta tra quelle unità e nuovi operativi di oggi? Non mi risulta che vi fosse una formazione brigatista in sonno all’Italsider riuscita a sfuggire alla rete della giustizia. In fabbrica non fu individuata una vera e propria colonna. Il procuratore Luigi Carli mi disse che furono trovate poche cellule riconducibili alle Brigate rosse. Pesci piccoli insomma. Non credo ci siano filiazioni da allora. Ma ripeto, tutto è da verificare. Lei diceva prima che la recente storia del terrorismo può non esser servita da lezione definitiva contro la violenza. La vicenda del terrorismo è stata lasciata troppo in mano a carnefici, vittime e giudici. Mentre tutta la società dovrebbe occuparsene. Per rompere il muro di omertà trasversale di allora. E per trasmettere alle nuove generazioni il ricordo di quegli orrori.

La vicenda della lotta armata è stata lasciata a carnefici, vittime e giudici. Mentre tutta la società dovrebbe occuparsene


cultura

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La questione riguarda l’interpretazione esatta dei testi evangelici originali: non si vuole emarginare nessuno

La Cena di Benedetto Il Papa apre il dibattito sulla traduzione delle parole di Cristo il Venerdì santo di Luigi Accattoli uesto è il mio sangue versato per voi e per molti”: parole dei Vangeli che nelle traduzioni in alcune lingue moderne – compresa la nostra – del Messale di Paolo VI sono diventate “per voi e per tutti”, che è una traduzione interpretativa che ebbe l’approvazione dei Papi Montini e Wojtyla. Ora Papa Ratzinger vuole che si torni al “per molti” dei Vangeli. Ai più stava bene la novità e ora sta bene il ritorno all’antico, ma ad altri no e ne viene – ancora una volta – una fiera guerra di parole, come sono quasi sempre qui da noi le guerre di religione.

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La questione è stata riproposta da Papa Benedetto con una lettera ai vescovi della Germania che ha la data del 14 aprile, ma non è una questione nuova: il Papa teologo l’aveva fatta proporre già nel 2006 con una lettera circolare a firma del cardinale Francis Arinze, allora prefetto della Congregazione per il Culto, alle Conferenze episcopali dei Paesi dov’era stata adottata la nuova traduzione, per invitarle a rimediare e a preparare i fedeli al cambiamento. L’impresa è tuttavia risultata più ardua del previsto. Arinze chiedeva agli episcopati interessati di «intraprendere la necessaria catechesi dei fedeli», cioè di preparare il popolo alla modifica e di farlo «nei prossimi due anni», specificando che l’innovazione era da realizzare in un secondo momento, cioè con la «prossima traduzione del Messale Romano» che sarebbe stata approvata in tempi differenziati per i vari Paesi e che avrebbe avuto questa e altre variazioni. Per l’Italia si prevedeva che a quell’approvazione si potesse arrivare nel giro di tre o

quattro anni: ma ne sono passati più di cinque e mezzo e ancora nulla si è fatto. Per intendere la resistenza di tanti alla sollecitazione papale – che fa parte del suo mini-programma di “riforma della riforma liturgica”, com’è stato chiamato dal alcuni osservatori – occorre una premessa filologica. Questa era la formula latina tradizionale: “Accipite et bibite ex eo omnes: hic est enim Calix Sanguinis mei Novi et Aeterni Testamenti: qui pro vobis et pro multis effundetur in remissionem peccatorum”. Che in italiano è stata così tradotta: «Prendete, e bevetene tutti: questo è il Calice del mio Sangue per la Nuova ed Eterna Alleanza, versato per

blico (cioè a come i Vangeli riferiscono le parole di Gesù: il greco «polloi» divenuto in latino «multis»), ininterrotta tradizione, rispondenza a quanto praticato nella liturgia delle altre Chiese e, soprattutto, intenzione di chiarire che «la salvezza non arriva in modo meccanico, senza la volontà o la partecipazione di ciascuno».

La lettera era del cardinale nigeriano ma l’iniziativa era partita da papa Benedetto XVI, che già nel luglio del 2005 (tre mesi dopo l’elezione) aveva fatto consultare sulla questione le Conferenze episcopali di tutto il mondo e che dopo quella consultazione aveva tirato la con-

Il pontefice spiega: ««Poiché pronuncio spesso le preghiere liturgiche nelle varie lingue, noto che talvolta tra le diverse traduzioni quasi non si riscontrano somiglianze comuni» voi e per tutti in remissione dei peccati». Il «per tutti» dell’italiano corrisponde al tedesco «für allen», all’inglese «for all», allo spagnolo «por todos los hombres». Non in tutte le lingue c’era stata quella variazione. In francese per esempio si dice «pour la multitude». Il cardinale Arinze nella circolare del 2006 riconosceva che la formula «per tutti» corrisponde «senza dubbio» a una «corretta interpretazione dell’intenzione del Signore», in quanto Cristo muore «per tutti gli uomini e le donne». Elenca poi le ragioni a favore di una «resa più precisa della tradizionale formula “pro multis”»: uniformità al testo bi-

clusione della necessità del cambiamento. Chi si era opposto da subito alla decisione papale aveva espresso il timore che i fedeli non capissero il nuovo testo o lo interpretassero nel senso di una «restrizione» del numero dei salvati. Portavoce di quel timore si era fatto in Italia il teologo fiorentino Enrico Chiavacci, che aveva inviato una lettera aperta al cardinale Arinze per chiedere un «ripensamento». Egli entrava nella questione linguistica: «In greco (lingua dei Vangeli) il termine “molti” ha anche un significato inclusivo (come in “oi polloi” = la gente in genere). Mentre in latino e in italiano il

termine “molti” ha di norma un significato esclusivo: per molti ma non per tutti». Chiavacci prevedeva che l’innovazione chiesta dal Papa avrebbe provocato il commento: «La Chiesa ha fatto marcia indietro. Non per tutti è morto Gesù, ma solo per alcuni, sia pur molti». La questione era nota agli addetti ai lavori. Quel «per tutti» era tra le spine che gli amanti della tradizione avevano dovuto sopportare al momento della traduzione del messale di Paolo VI nelle lingue moderne. Se ne trova traccia tra i più colti come tra gli orecchianti. La discute il coltissimo Romano Amerio nell’opera maestra «Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX» (Ricciardi editore 1985, p. 523) e la orecchia Mel Gibson che fa dire a Gesù, in «The Passion» (2004), «per molti» in aramaico. Per Amerio

l’innovazione «improvvisa e vistosa» arrivata con la riforma liturgica montiniana è dovuta alla volontà di affermare «la universalità di fatto della salvezza» e di «rifuggire da ogni idea di discriminazione».

La lettera del Papa da cui siamo partiti è indirizzata ai vescovi della Germania ma vale per l’intera area di lingua tedesca, che comprende l’Austria, una metà della Svizzera, il Tirolo italiano. Sta capitando infatti che in Germania, dopo un aspro confronto, la Conferenza episcopale ha optato per la nuova traduzione “für viele” (per molti), mentre in Austria essa è stata respinta e resistenze analoghe ci sono in Svizzera. Incontrando in marzo il Papa, il presidente della Conferenza tedesca l’ha informato di tale dissenso e della conseguente opportunità che la nuova edizione


8 maggio 2012 • pagina 15

Benedetto XVI saluta la folla dei fedeli radunati in S. Pietro per l’Angelus domenicale. In basso San Pietro visto da Guido Reni. Nella pagina a fianco “L’ultima cena” di Leonardo da Vinci con felice efficacia: «Siamo molti e rappresentiamo tutti. Quindi le parole “molti” e “tutti” vanno insieme e fanno riferimento l’una all’altra nella responsabilità e nella promessa».

E in Italia? Che ne sarà della nostra messa? Dovrà adottare anch’essa il “per molti”, non c’è dubbio. Siamo in ritardo sui tempi immaginati nel 2006, perché i nostri vescovi restano affezionati al “per tutti”, se non altro al fine di risparmiarsi le obiezioni dei partecipanti alle celebrazioni, che direbbero: “Si cambia di nuovo?” Nel novembre del 2010, in una votazione su questa richiesta del Papa, 187 vescovi votarono “no”e solo 11 “sì”. La lettera di Benedetto ai tedeschi ovviamente vale anche per i nostri e per tutti. Un poco ovunque nel mondo ci sono resistenze ed è facile intenderlo, se è vero come è vero che gli italiani sono generalmente tra i più docili alle indicazioni vaticane e invece stavolta hanno difficoltà ad accettarle. Insieme a questa vicenda si viene dipanando l’altra del rientro dei lefebvriani nella “comunio-

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tecipavano alle funzioni. Un rischio nuovo era il fatto che, attraverso la traduzione, i testi sacri sarebbero stati aperti, lì, davanti a quanti partecipavano alla messa, e tuttavia sarebbero rimasti molto distanti dal loro mondo, ed anzi questa distanza sarebbe diventata più che mai visibile. Quindi non ci si sentì solo autorizzati, ma addirittura obbligati a immettere l’interpretazione nella traduzione».

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Il Papa fa anche riferimento al fatto che di persona e in più lingue si trova a dire il “per tutti” e a dare voce ad altri adattamenti liturgici che oggi diversificano l’unica messa sul pianeta: «Poiché pronuncio spesso le preghiere liturgiche nelle varie lingue, noto che talvolta tra le diverse traduzioni quasi non si riscontrano somiglianze e che il testo comune sulle quali si basano spesso è solo lontanamente riconoscibile. Allo stesso tempo si sono verificate delle banalizzazioni che costituiscono vere perdite. Così, nel corso degli anni, io stesso ho compreso sempre più chiaramente che, come orientamento per la traduzione, il principio della corrispondenza non letterale, bensì strutturale, ha i suoi limiti». Dopo tanto flessibile argomentare,

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Insieme a questa vicenda si viene dipanando l’altra del rientro dei lefebvriani nella “comunione con Roma”, che oggi è data per probabile mentre solo un mese addietro pareva impossibile del messale avesse a prevedere la doppia formula, sia cioè “für alle”, sia “für viele”. Da qui l’intervento scritto del Papa, deciso – chiarisce nella premessa – “per prevenire una divisione nel luogo più intimo della nostra preghiera”. Il Papa nella lettera rifà la storia della traduzione “per tutti”, che in tedesco risale agli anni Sessanta del secolo scorso, si appella alla più recente traduzione “unificata tedesca” della Bibbia – cioè condivisa da cattolici e protestanti – che è tornata al “per molti” e conclude: «La traduzione di “pro multis” con “per tutti”non è stata una traduzione pura, bensì un’interpretazione, che era, e tuttora è, ben motivata, ma è una spiegazione e dunque qualcosa di più di una traduzione». Benedetto da professore e da teologo così argomenta la sua scelta: «Questa fusione fra traduzione e interpretazione per certi versi fa parte dei principi che, subito dopo il Concilio, guidarono la traduzione dei testi liturgici nelle lingue moderne. Si era ben consapevoli di quanto la Bibbia e i testi liturgici fossero distanti dal linguaggio e del pensiero attuale della gente, per cui anche tradotti avrebbero continuato a essere incomprensibili per quanti par-

e di cronach

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la conclusione è comunque tassativa: «In tale contesto, la Santa Sede ha deciso che nella nuova traduzione del messale l’espressione “pro multis” debba essere tradotta come tale, senza essere già interpretata. La traduzione interpretativa “per tutti” dev’essere sostituita dalla semplice traduzione“per molti”. Vorrei ricordare che sia in Matteo sia in Marco non c’è l’articolo, quindi non “per i molti”, bensì “per molti”». In un successivo passaggio il Papa teologo dice

ne con Roma”, che oggi è data per probabile mentre solo un mese addietro pareva impossibile. Il rientro dei lefebvriani “moderati” – perseguito con decisione da Papa Ratzinger – è ovviamente auspicabile ma è anche ovvio che esso inasprirà il dibattito sugli aggiustamenti benedettiani dell’eredità conciliare. A cinquant’anni dall’avvio del Vaticano II il conflitto sulla sua interpretazione è più acceso che mai. www.luigiaccattoli.it

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ULTIMAPAGINA

Elogio del campione della Juventus: la sua filosofia del rigore e della tenacia dovrebbe fare scuola nel Paese

Italia, impara il metodo di Gabriella Mecucci er giocare, ha giocato poco. Ogni tanto ha sfoderato qualche colpo di gran classe, ma sono finiti i tempi in cui mandava in bambola le difese delle più grandi squadre europee tutte le domeniche (e pure negli infrasettimanali...). Eppure, a distanza di anni dalla vera e propria età dell’oro, è lui la bandiera della Juve trionfante. Come ha fatto Alessandro Del Piero a tenere il ruolo di leader, nonostante l’inevitabile usu-

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quillo e puoi persino divertirti. Ma Del Piero non è solo persona per bene in campo, lo è anche nella vita: solido matrimonio, vita senza esibizioni, grande legame con la famiglia d’origine. È il ragazzo della casa accanto: educato, laborioso, equilibrato. Sa parlare, sa leggere, sa scrivere. Lo volete mettere con quello scriteriato di Balotelli? O con quel sessuamane di Cristiano Ronaldo? Certo loro in campo sono più forti: hanno gran classe e soprattutto l’esuberanza della giovinezza, ma il nostro atleta ormai trentasettenne, figlio del “veneto profondo”, è così pieno di buon sen-

quando scoppiò calciopoli. Era giovane e forte, non se la sentì di arrancare in serier B. Disse subito che lui se ne andava. Per carità, nulla da dire. Il suo comportamento è comprensibile. Non c’è niente di male. Ma vuoi mettere l’immagine di uno come Alex che a 32 anni – al colmo della gloria – resta con i vecchi compagni nel momento della sventura con quella di da perfetto, anche se onesto mercenario di Ibra? Roba da fare impazzire di amore i tifosi juventini. Dulcis in fundo, proprio l’altra sera quando impazzava la festa scudetto, Del Piero ha dato un’ ulteriore

DEL PIERO Fedeltà alla maglia, mai una parola di troppo, nessun vittimismo e grande gioco: il numero dieci della squadra-scudetto è una mosca bianca. Non solo nel calcio ra del tempo? Alex è prima di tutto una persona affidabile. Comprereste una macchina usata da quell’uomo? Sì, da lui sì. In un mondo in cui un ragazzetto senza arte né parte con indosso la maglia viola, può permettersi di insultare un allenatore mite ed esperto come Delio Rossi, fa bene agli occhi, alla mente e al cuore vedere la faccia da ragazzo normale di Del Piero.

Perché Alex se prende un impegno lo rispetta. Se lo tengono in panchina non sbraccia, non urla, non s’arrabbia. Se lo mettono in campo solo gli ultimi dieci minuti, lui entra, concentrato e sereno, e ce la mette tutta. Vi sembra niente? E, siccome ha i piedi buoni, anzi buonissimi, ogni tanto – nonostante l’età – riesce ad inventarsi un gol. Basterebbe questo per renderlo simpatico all’intero mondo pallonaro. Uno col quale ti riposi, stai tran-

so e di buone maniere da essere il figlio ideale, il genero ideale, il numero 10 ideale. Non che gli manchi genio e fantasia, ma lui non le coniuga con la sregolatezza, ma con l’affidabilità.

Del Piero però non è solo questo. È anche un uomo che, con grande semplicità e senza fare il trombone, rivendica un suo mondo di valori. Ed è coerente con questi. La Juve va in B? Lui resta con la vecchia signora e, nonostante il suo glorioso passato (scudetti, champions, campionato del mondo) fa fino in fondo il suo dovere. Lo fa con tanto impegno da diventare il capocannoniere della seconda divisione. Attaccamento alla maglia? Forti legami con un ambiente che l’ha reso ricco e famoso? Riconoscenza? Sarà come sarà, è’ sicuro però che lui non ha mollato la Juve. È rimasto lì, è sceso all’inferno insieme a lei e ha dato una gran mano per tirarne fuori la squadra. L’esatto contrario di Ibrahimovic. L’attaccante rossonero era in forze alla vecchia signora

lezione di stile. Mentre tutti i cronisti cercavano di strappargli una qualche battuta polemica contro la società che ha deciso di rinnovargli il contratto, lui con un sorriso leggermente mesto, rispondeva che se si doveva chiudere, quella vittoria era un bel modo per lasciarsi. Ancora una volta perfetto: misura, affidabilità, classe. L’immagine di un’Italia sana, capace, tranquilla, senza grilli per la testa. Magari ce ne fossero un po’ ovunque di tipi così. Un simil Del Piero segretario del Pd o del Pdl? Non sarebbe mica una cattiva idea: così le elezioni anticipate sono scongiurate di sicuroi.

Alex è l’antidoto ai colpi di testa e al rampantismo. Con i chiari di luna della crisi, le facce come la sua diventano sempre più simpatiche. E’ finito il tempo degli spacconi e dei rodomonti. E anche quello di chi gioca con le parole per farti sognare. Chissà che un Alessandro Del Piero non spunti anche in politica? Fantasia coniugata con la gentilezza. Impegno e buonsenso. La fortuna di avere un leader normale.


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