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Non ci sono fenomeni morali, ma soltanto un’interpretazione morale dei fenomeni Friedrich Nietzsche

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 13 OTTOBRE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Passa la proposta del Terzo Polo: opposizioni via dall’Aula mentre parla il premier, ma parteciperanno al voto

Occupazione abusiva Berlusconi: «Non mi dimetto». Ma il Colle: «Trovi una soluzione» Napolitano 1: «Ma il governo è in grado di operare?». Napolitano 2: «Il premier indichi una via d’uscita ma se va bene lo diranno Fini e Schifani». Casini: «Evitiamo che con lui affondi l’Italia» Dopo un’ora di incontro con il capo dello Stato

Oggi il premier in Aula per un esercizio numerico

La palla passa a Gianfranco: tocca a lui stabilire il destino del Cavaliere

Una fiducia inutile: se anche la ottenesse, non cambierebbe niente

«L’articolo 1 fa decadere l’intero provvedimento sul bilancio, non si può andare avanti», ha deciso la Giunta. «Ma non chiamatelo solo un incidente»

Il no sull’assestamento di bilancio non è solo un incidente tecnico: è la dimostrazione pratica che questo esecutivo non è più in grado di governare

Gualtiero Lami • pagina 3

Giancristiano Desiderio • pagina 5

Il parere del presidente emerito della Consulta

I “ribelli” aspettano segnali dal Cdm di oggi

Capotosti: «La legge, non solo la politica, prevede un’unica strada: cambiare esecutivo»

Pronti due contentini per Scajola. Ma se non li rifiuta ora, quando?

«Un passo indietro sarebbe politicamente corretto. Il governo non è caduto su una legge qualsiasi e non può derubricare l’accaduto a un inciampo procedurale»

«Servono due svolte: una sullo sviluppo economico e una sulla gestione del Pdl». I fedelissimi dell’ex ministro sono pronti a dare battaglia su ogni provvedimento

Francesco Lo Dico • pagina 6

Errico Novi • pagina 4

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L’Iran sarebbe dietro l’attacco mancato. Washington: «Pronti a usare le armi»

Obama alza la voce con Teheran Sventato un attentato all’ambasciatore saudita: «La pagheranno» di Luisa Arezzo

Contro gli occupanti di Wall Street

fficialmente ritirata, da ieri, la mano tesa che Obama aveva offerto all’Iran degli Ayatollah all’inizio del suo mandato. Dopo mesi di tensioni tenute sotto traccia, il dossier sul complotto iraniano che avrebbe dovuto uccidere l’ambasciatore saudita a Wahington, sta facendo aumentare la fibrillazione fra i due Paesi. a pagina 10

E a New York nasce il gruppo del “53%”

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gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

Fieri di pagare le tasse, se la prendono coi paperoni Martha Nunziata • pagina 11 I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

199 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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la crisi italiana

Oggi il «discorso programmatico» del premier alla Camera

Tra Quirinale e Montecitorio Due interventi di Napolitano. La maggioranza è quasi muta. Casini e Franceschini: «Ormai Berlusconi non vede la realtà». Ma lui resiste a tutto... di Riccardo Paradisi ilvio Berlusconi appare ormai un premier solo. Ma intende resistere. Malgrado la sua maggioranza sia ormai un’espressione numerica e malgrado il governo non abbia ancora la matematica certezza di avere venerdì mattina la fiducia, considerate le riserve e le nuove condizioni poste dalla corrente degli scajoliani.

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Nessun passo indietro dunque, anzi malgrado la bocciatura alla Camera dell’articolo 1 del rendiconto dello Stato il premier chiederà la fiducia alla Camera giovedì mattina subito dopo aver concluso un consiglio dei ministri. La decisione del presidente della Camera Gianfranco Fini di

far parlare Berlusconi giovedì e non ieri, come era stato previsto e programmato dallo stesso Cavaliere, ha irritato la maggioranza. Che torna ad accusare Fini di non essere un presidente super partes. Da parte sua Fini è salito al Quirinale su invito dell’opposizione, per spiegare come sia diventato difficile, vista la situazione in cui versa la maggioranza, garantire il normale andamento dei lavori parlamentari. Le opposizioni hanno esortato Fini ad «esporre al presidente della Repubblica le ragioni per le quali, a loro avviso, non è possibile, nella situazione creatasi a seguito della reiezione dell’articolo 1 del rendiconto, dar corso alle comunicazioni del presidente del Con-

siglio». A sua volta il presidente Napolitano non sta a guardare e chiede al governo di dimostrare la sua capacità operativa: «La mancata approvazione dell’articolo 1 del Rendiconto, assieme a un «innegabile manifestarsi di acute tensioni in seno al governo e alla coalizione, con le conseguenti incertezze nell’adozione di decisioni dovute o annunciate, suscitano interrogativi e preoccupazioni i cui riflessi istituzionali non possono sfuggire». Per il Quirinale «la questione che si pone è se la maggioranza di governo ricompostasi nel giugno scorso con l’apporto di un nuovo gruppo sia in grado di operare con la costante coesione necessaria per garantire adempimenti imprescindibili come l’in-

Le note del Colle: «Questo governo può ancora operare?» «Ora il premier trovi una soluzione» Il comunicato della mattina

o finora sempre preso imparzialmente atto della convinzione espressa dal governo e dai rappresentanti dei gruppi parlamentari che lo sostengono circa la solidità della maggioranza che attraverso reiterati voti di fiducia ha confermato il suo appoggio all’attuale esecutivo. Ma la mancata approvazione, da parte della Camera, dell’articolo 1 del Rendiconto Generale dell’Amministrazione dello Stato, e, negli ultimi tempi, l’innegabile manifestarsi di acute tensioni in seno al governo e alla coalizione, con le conseguenti incertezze nell’adozione di decisioni dovute o annunciate, suscitano interrogativi e preoccupazioni i cui riflessi istituzionali non possono sfuggire. La questione che si pone è se la maggioranza di governo ricompostasi nel giugno scorso con l’apporto di un nuovo gruppo sia in grado di operare con la costante coesione necessaria per garantire adempimenti imprescindibili come l’insieme delle decisioni di bilancio e soluzioni adeguate per i problemi più urgenti del paese, anche in rapporto agli impegni e obblighi europei. È ai soggetti che ne sono costituzionalmente responsabili, Presidente del Consiglio e Parlamento che spetta una risposta credibile.

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Il comunicato del pomerggio

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l Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha oggi ricevuto al Quirinale il presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini, che ha ringraziato per averlo messo al corrente delle ragioni che ad avviso dei presidenti dei gruppi parlamentari di opposizione rendono politicamente complesso il superamento della situazione determinatasi a seguito del voto contrario all’articolo 1 del rendiconto generale dell’Amministrazione dello Stato. Ne ha dato notizia un comunicato del Quirinale. Il Capo dello Stato ha espresso la convinzione che tocchi al presidente del Consiglio indicare alla Camera nell’annunciato intervento di domani la soluzione che possa correttamente condurre alla dovuta approvazione da parte del Parlamento del rendiconto e dell’assestamento. Sulla sostenibilità di tale soluzione sono competenti a pronunciarsi le Camere e i loro Presidenti.


la crisi italiana

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Tocca a Fini decidere il destino di Silvio Il capo dello Stato: sarà il presidente della Camera a valutare la soluzione del premier di Gualtiero Lami

ROMA. Fini è un uomo paziente e fortunato, si sa. È il classico comeback kid: lo dai per morto e lui ritorna, rimonta, si rimette in sella. Gli successe quando Rauti lo scalzò dalla segreteria del Msi, dopo la mazzata dell’Elefantino, vale a dire l’infausta alleanza elettorale con Segni alle europee, o alla fine delle varie rivolte del colonnellume aennino. Anche ieri Fini ha rimontato il destino cinico e baro che dal 14 dicembre scorso lo dipinge come un apprendista stregone sfigato, un tramone incapace, e si è rimesso al centro della scena. Purtroppo per lui il colpo di mano non gli è riuscito per intero, perché Berlusconi è il re dei “ritornanti”, uomo audace quanto fortunato, che in quest’ultima fase della carriera politica si trova per paradosso a giovarsi del rigido comportamento costituzionale del capo dello Stato, lui che ha dimostrato in lungo e in largo di fregarsene della Carta e degli obblighi che prescrive. Il presidente della Camera, come che sia, ieri ha interpretato il suo ruolo all’attacco, in modo rigoroso quanto (legittimamente) politico, dimostrando peraltro ai suoi stessi pasdaran futuristi, che da mesi gli chiedono di dimettersi per guidare il partito, per quale motivo sieda ancora sullo scranno più alto di Montecitorio: perché la dialettica istituzionale non è solo il balletto di cortesie in grisaglia che sembrano pensare i più, ma uno snodo cruciale nella dialettica del potere.

suicidata sull’articolo 1 del Rendiconto generale dello Stato 2010 azzerando di fatto la sua intera politica economica, ma curiosamente non ha ritenuto che questo fosse un fatto politico di rilievo. «Solo un incidente, continuiamo con gli altri articoli», aveva proposto Cicchitto in conferenza dei capigruppo. Dopo qualche minuto anche il centrodestra però aveva capito la gravità della situazione e decideva due cose: rinviamo le intercettazioni prima che finisca male e poi chiediamo un altro voto di fiducia per dimostrare che

notizia in capigruppo e la maggioranza è già fuori dalla grazia di dio: «È una decisione aberrante», lo ha accolto, per dire, il vicepresidente della Camera Leone (Pdl). Niente da fare, discorso chiuso. L’opposizione, a quel punto, ha avvertito il presidente della Camera: blocco dei lavori parlamentari e dimissioni del governo sono obbligatorie, altrimenti aspettatevi un Aventino o un mezzo Aventino. Fini ha annunciato che ne avrebbe parlato col capo dello Stato nel pomeriggio e ha poi calendarizzato per oggi le dichiarazioni in aula del premier (che avrebbe preferito parlare già ieri) e l’eventuale voto di fiducia per domani. Alla maggioranza tutto questo non è piaciuto, soprattutto la faccenda del Quirinale. Ad accendere la miccia un lancio d’agenzia, che ne dava il seguente: «Fini salirà al Colle per spiegare come sia diventato difficile, vista la situazione in cui versa la maggioranza, garantire il normale andamento dei lavori parlamentari». Che magari era proprio l’intenzione del nostro, ma certo non è una cosa che si possa dire ufficialmente. «Se sale al Quirinale, lo faccia per dimettersi», ha reagito Calderoli (anche se Fini non dovrebbe certo salire da Napolitano per dimettersi). Un altro leghista, Reguzzoni, lo ha accusato di comportamento «non corretto» e concluso: «Per favore non degradi il ruolo di presidente della Camera a quello di vice Casini». La visita a Napolitano, alle 16 di ieri, non ha comunque sortito gli effetti sperati dall’opposizione: il capo dello Stato ha scaricato di nuovo la decisione su governo e Parlamento. La soluzione tecnica per approvare il Rendiconto la de-

Fonti della presidenza di Montecitorio sostengono che eviterà pasticci, ma difficilmente si spingerà fino a “spegnere” per via regolamentare la vita del governo

La giornata campale di Fini è iniziata ieri di buon mattino. Il giorno prima la maggioranza s’era sieme delle decisioni di bilancio e soluzioni adeguate per i problemi più urgenti del paese, anche in rapporto agli impegni e obblighi europei. È ai soggetti che ne sono costituzionalmente responsabili, presidente del Consiglio e Parlamento, che spetta una risposta credibile».

Napolitano torna a esternare nel pomeriggio dopo il colloquio con Fini al Quirinale esprimendo la convinzione che tocchi al Presidente del Consiglio indicare alla Camera nell’annunciato intervento di oggi «la soluzione che possa correttamente condurre alla dovuta approvazione da parte del Parlamento del rendiconto e dell’assestamento. Sulla sostenibilità di tale soluzione sono competenti a pronunciarsi le Camere e i loro Presidenti». Ma gli ostaco-

abbiamo ancora i numeri. Napolitano, con una nota, sembrava avallare questa conclusione: dovete dimostrare di poter governare. Restava sul piatto la domanda: eliminando l’articolo 1 il Rendiconto è stato definitivamente bocciato o resta in piedi? Decidere toccava alla Giunta per il Regolamento della Camera, primo appuntamento ufficiale di ieri per il leader di Fli. Per uno di quei cortocircuiti seguiti alla scissione del Pdl, in Giunta l’opposizione è maggioranza e dunque il parere (tanto tecnico, quanto politico) è stato il seguente: l’articolo 1 fa decadere l’intero provvedimento, non si può andare avanti. Problema non da poco perché senza il Rendiconto 2010 non si può approvare nemmeno l’assestamento di bilancio per l’anno in corso e dunque tutta l’amministrazione finanziaria dello Stato è azzerata. Fini porta la

li della maggioranza non sono solo“esterni”a volerci mettere anche i pungoli del governatore della Banca d’Italia Draghi sulla necessità della coesione sociale. La mina della fronda scajoliana infatti non è affatto disinnescata. Nel nuovo colloquio di ieri a palazzo Grazioli tra l’ex ministro dello Sviluppo economico e il presidente del Consiglio - un colloquio di due ore viene fuori che il voto di fiducia sarebbe assicurato da parte degli scajoliani ma che la situazione è da loro ritenuta insostenibile. Tanto che la linea emersa sarebbe quella di andare avanti con la costituzione di gruppi autonomi nel caso in cui il Cavaliere decidesse di non fare passi indietro. Un’ipotesi che Scajola ha pro-

spettato anche al premier al quale ha di nuovo chiesto di recarsi al Quirinale. La richiesta è quella di allargare i confini della maggioranza aprendo all’Udc, una condizione che presuppone il passo indietro dello stesso Berlusconi vista l’indisponibilità dei centristi ad aprire qualsiasi canale di dia-

ve proporre il premier, ha spiegato in una nota, mentre «sulla sostenibilità di tale soluzione sono competenti a pronunciarsi le Camere e i loro Presidenti».

A questo punto bisognerà capire, e lo stesso Fini dovrà farlo, quale spazio di manovra gli concede la posizione assunta dal Quirinale: può il presidente della Camera mettersi di traverso davanti al sicuro pastrocchio che Berlusconi proporrà alle Camere? Può, ad esempio, rifiutarsi in Giunta per il Regolamento o nell’Ufficio di presidenza di mettere al voto l’escamotage che inventeranno a palazzo Grazioli senza passare per un voto dell’Aula (supponendo che stavolta sia favorevole al governo)? Fonti della presidenza di Montecitorio sostengono che Fini eviterà pasticci, ma difficilmente si spingerà fino a “spegnere” per via regolamentare la vita del governo e della maggioranza. Ancora per un paio di giorni, comunque, il nostro starà al centro della scena, tra i berluscones pronti all’Armageddon e il non expedit delle opposizioni indignate. È un comeback kid, lo sa lui stesso, e per presentarsi preparato alla sua ennesima rinascita ieri pomeriggio se n’è andato dal barbiere. Il decoro delle istituzioni prima di tutto.

segnale politico e istituzionale in questo senso disertando l’aula durante le comunicazioni del premier sulla fiducia e non partecipando al voto. Ma non si tratta solo di un’assenza simbolica. Potrebbe trattarsi infatti anche di un’accortezza tattica. L’assenza delle opposizioni consentirebbe

La maggioranza torna ad accusare Fini di non essere super partes. Ma ora sta ai presidenti delle Camere stabilire se ci sono le condizioni perché possa proseguire la legislatura logo con una governo guidato dal Cavaliere. L’opposizione del Pd valuta la via dell’Aventino. Gli esponenti democratici ieri hanno disertato le commissioni della Camera e chiesto la sospensione dei lavori, oggi potrebbero non presentarsi in aula, anche Udc e Idv stanno valutando se dare un

infatti ai dissidenti interni al Pdl di astenersi dalla fiducia al governo senza esiti fatali ma con la possibilità di dimostrare ancora una volta il proprio peso condizionante. Il segretario del Pd Bersani taglia corto: il problema non è se saremo in aula o no, l’essenziale consiste nelle dimissioni di

Berlusconi. Che non sembra avere nessuna intenzione di darle. «L’opposizione sostiene che non esiste più una maggioranza. Noi accettiamo la sfida – dice il ministro della Difesa Ignazio La Russa – il presidente Berlusconi parlerà alla Camera e sulle sue dichiarazioni ci sarà un voto di fiducia. Quindi se per caso il Parlamento avrà il consenso, e in democrazia è quello che conta, significherà che l’aver tanto urlato che il governo non c’è, sarà un abbaiare alla luna». Ma oltre al consenso numerico in parlamento occorre avere anche la forza per governare. Napolitano ha di fatto espresso qualche dubbio che questo possa avvenire. E ha rimandato la decisione alle Camere. Non è l’inizio ufficiale della crisi di governo. Ma è evidentemente un’aperitivo.


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la crisi italiana

Seppure sopravvivesse al pasticcio del Rendiconto, il Cavaliere è ormai braccato: l’ex ministro gli ha chiesto ancora di dimettersi

Se non ora, quando?

Scajola verso la rottura irreversibile: con le candidature nelle mani di Verdini si sente già su un binario morto. Ma niente sfiducia: presenterà emendamenti su tutto per mettere il governo in minoranza e provocare la crisi di Errico Novi

ROMA. Quando inizia? Cinque mesi fa. Il granello che fa inceppare l’ingranaggio è in una battuta di Denis Verdini. Che poi era tutto tranne che una facezia: «Le prossime candidature le stabilisco io». Domanda legittima: perché, non fu così anche nel 2008? Sì, ma all’epoca per lo meno il Cavaliere vantava un formale diritto di supervisione. Alle prossime politiche verrebbe meno anche quello. Tutto comincia lì, comunque. È quella battuta tardo primaverile a spingere Claudio Scajola su una strada senza ritorno. Cioè verso la rottura definitiva. Prima di tutto, perché l’ex ministro – nonché ex coordinatore unico dell’allora Forza Italia – non ha un buon rapporto con Verdini. Sa cioè che con il deus ex machina di via dell’Umiltà confermato nel suo potere, il suo gruppo di dissidenti avrebbe scarse chance di restare in Parlamento. Verrebbe sbriciolato in coda alle liste. Lui, Scajola, potrebbe a stento confidare in una propria personale rielezione. Ma privato

dei suoi fedelissimi, si troverebbe sul binario morto dell’irrilevanza politica.

A sciogliere gli ultimi dubbi dell’ex ministro è il silenzio del Cavaliere. Che nei giorni successivi non rettificherà mai le parole di Verdini. Situazione chiusa, dunque. Già all’indomani della sua uscita forzata dall’esecutivo, peraltro, Scajola si era fatto referente di tutti i malpancisti del Pdl. Cioè aveva cominciato a radunare attorno a sé non solo la tradizionale cerchia di amici ma anche uomini di storica fede berlusconiana come Roberto Tortoli, a loro volta ormai invisi al gotha del partito. E così che Scajola si consolida nel ruolo di antagonista dei triumviri di via dell’Umiltà. Ed è per questo che il suo gruppo diventa il problema interno numero uno del Pdl, altro che Giulio Tremonti.

Si arriva dunque a queste ore concitate, in cui l’amico Claudio si permette di insistere con Silvio perché faccia un passo indietro: ci vuole l’allargamen-

to della maggioranza ma chi oggi ne è fuori non vuole il Berlusconi bis. Linea spavalda. D’altronde più la crisi si complica e più la morsa degli scajoliani si stringe. C’è un ulteriore specifico errore del premier e dei suoi alla base della rottura. Ed è l’improvvisa accelerata verso il voto anticipato. Scajola sa che se davvero si votasse in primavera verrebbe meno qualsiasi speranza di riformare il Pdl. Verdini continuerebbe a stringere saldamente il timone e per l’ala dissidente sarebbe finita. Più il partito del Cavaliere

Esclusa per ora la nascita di un gruppo: ma l’opzione è solo rinviata

spinge per uscire dalla trappola e corre verso le urne, più gli scajoliani si risolvono a staccare la spina. Il gioco fatale è ormai questo.

Ma i fedelissimi dell’ex ministro genovese continuano ad assicurare che non voteranno mai la sfiducia a Berlusconi, «semmai lo solleciteremo ad essere lo straordinario innovatore del 1994». Parola di Paolo Russo, che della scajoliana Fondazione Cristoforo Colombo è il presidente. Se non con la sfiducia, dunque, come brac-

cheranno il Cavaliere? «Con la guerriglia». Lo temono, anzi lo danno per certo proprio i berlusconiani della cerchia ristretta. Che in forma riservata riferiscono quanto filtrato dal giro di Scajola nelle ultime ore: «Non voteranno mai la sfiducia, è vero. Però presenteranno propri emendamenti. Ammesso che saremo in grado di promuovere ancora qualche legge», spiegano ancora dall’entourage del premier, «i ribelli faranno loro proposte soprattutto sul ddl sviluppo. Si mostreranno irremovibili nel sostenerle. Otterranno probabilmente il favore e i voti dell’opposizione. E ci faranno andare ancora sotto».

A quel punto provvedimenti delicatissimi come quelli in materia economica verrebbero «pesantemente alterati». Cioè si manifesterebbe l’assoluta incapacità della maggioranza di preservare una propria linea omogenea. E la crisi di governo diventerebbe inevitabile. Senza che Scajola Claudio da Genova, ex colonnello di ferro, possa essere taccato di tradimento. È la


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Berlusconi minimizza e cerca di ricomporre la maggioranza: ma la realtà è un’altra

Il voto di fiducia è soltanto un inutile esercizio numerico

La bocciatura sull’assestamento di bilancio non è solo un incidente tecnico: è la dimostrazione che questo esecutivo non può governare di Giancristiano Desiderio i sono due precedenti a quanto accaduto nel “martedì nero” del governo Berlusconi: sia Giovanni Goria sia Giulio Andreotti, dopo che i loro governi furono bocciati proprio su emendamenti al Bilancio, rassegnarono le dimissioni e salirono al Quirinale. Così deve fare anche il presidente del Consiglio in carica, Silvio Berlusconi, per il quale non si capisce perché, secondo la maggioranza e lo stesso capo del governo, dovrebbero valere norme e comportamenti diversi. «È solo un incidente tecnico - ripete proprio Berlusconi - dimostreremo di avere i numeri della maggioranza. Li sbugiarderemo». L’uomo è fatto così. Ogni vicenda è interpretata come una “singolar tenzone”, mentre qui se c’è qualcosa da dimostrare è di avere ancora un briciolo di senso delle istituzioni e recarsi dal presidente della Repubblica che è l’unico che può dare, se ritiene che ci siano le condizioni, al presidente del Consiglio la possibilità di farsi nuovamente ri-legittimare a governare dal Parlamento e riprendere così la palla là dove è caduta: sul Rendiconto dello Stato 2010. L’idea, invece, che il premier possa fare tutto da solo - secondo la logica del ghe pensi mi - ossia esser bocciato platealmente sul Bilancio mentre è egli stesso in aula, derubricare il tutto a mero “incidente tecnico”, presentarsi alle Camere con un nuovo ed ennesimo discorsetto programmatico, riavere la fiducia e ricominciare come se nulla fosse accaduto, non sta né in cielo né in terra.

C

La questione dell’“incidente tecnico” non ha quasi senso. Ciò che nella realtà delle cose conta è ciò che è accaduto in Aula: la bocciatura del governo. Un voto contrario che nella pratica legislativa ha già prodotto i suoi effetti. L’iter della legge è chiuso, come ha per altro dichiarato la giunta per il regolamento. Il governo non può rimediare all’“incidente tecnico” cambiando le carte in tavola: via quelle approvate che non volevamo e dentro queste altre nuove che sono quelle che avremmo voluto. Così non si governa neanche nella Repubblica delle Banane. Si può capire lo sconcerto del premier, la sua meraviglia, il suo disorientamento: tutto poteva immaginare, tranne di cadere in questo modo che sa tanto di “dissolvenza”, come ha detto un parlamentare dello stesso Pdl come il campano Paolo Russo. Proprio nella giornata in cui Berlusconi aveva parlato con Claudio Scajola e si sentiva rassicurato sul prosieguo della vita del governo, ecco, proprio in quella giornata arriva uno scivolone che è la prova concreta che la maggioranza è fragilissima, forse, inesistente se lo stesso padre del provvedimento - il ministro Tremonti non vota se stesso. Il governo che oggi vuole chiedere la fiducia, si è di fatto sfiduciato da sé. Ecco perché il presidente

della Repubblica in una nota ufficiale del Colle chiede una «risposta credibile» per «capire se la maggioranza è in grado di operare». Ossia: «La questione che si pone è se la maggioranza di governo ricompostasi nel giugno scorso con l’apporto di un nuovo gruppo sia in grado di operare con la costante coesione necessaria per garantire adempimenti imprescindibili come l’insieme delle decisioni di bilancio e soluzioni

C’è da chiedersi che cosa penserà il mondo (e che cosa i mercati) di questa sceneggiata adeguate per i problemi più urgenti del Paese, anche in rapporto agli impegni e obblighi europei. È ai soggetti che ne sono costituzionalmente responsabili, Presidente del Consiglio e Parlamento, che spetta una risposta credibile».

Le parole di Giorgio Napolitano, come è nello stile di questo presidente da quando - gliene va dato atto pubblicamente - ha iniziato il suo mandato al Quirinale, sono improntate ad un senso di responsabilità e delle istituzioni che oggi è quanto mai necessario. Proprio la certezza di avere un presidente della Repubblica serio e autorevole dovrebbe indurre il capo del governo a recarsi dalla presidenza della Repubblica come il “luogo naturale”in cui il suo governo bocciato in Parlamento deve e può approdare. Ogni altro modo di ri-legittimare l’esecutivo in fretta e furia, facendo finta che non sia accaduto nulla di così serio e grave, è un escamotage da cui non può sortire nulla di buono non solo per il governo e per Berlusconi ma - e qui è il punto della questione - per il Paese intero. Non possiamo, infatti, nasconderci che questo “incidente tecnico”che ha mostrato ancora una volta la fragilità politica del governo è avvenuto sotto gli occhi del mondo e dell’Europa.Tutti guardano cosa accade a Roma e Roma ha il dovere di agire avendo come suo obiettivo la tutela dell’interesse nazionale. Berlusconi vuole la fiducia dal Parlamento e parlerà

ai suoi parlamentari, ma è bene dirgli ancora una volta che le sue parole - lo voglia o no - saranno rivolte prima di tutto al mondo.

È bene, allora, che il presidente Berlusconi abbia un sussulto di dignità e salga al Quirinale. In gioco non c’è solo una questione tecnica, non ci sono solo i numeri della maggioranza, non c’è neanche e perfino solo la qualità politica del governo, c’è qualcosa di più importante e necessario: il valore delle nostre istituzioni nel bel mezzo di una crisi economico-finanziaria senza precedenti. Presidente, faccia la cosa più semplice e più vera: vada dal presidente della Repubblica. Altro non può, non deve.

linea confermata nella riunione a ranghi ristretti tenuta in mattinata dall’ex ministro proprio presso la sede della sua Fondazione. Scajola la rappresenta al Cavaliere nel lungo colloquio successivo. I suoi, sempre in forma anonima, confermano poco dopo che è stato chiesto un cambio di passo su due punti, la «struttura del partito», il che conferma quanto ricordato sopra, e poi la «politica economica del governo». Il che corrobora l’idea che proprio sul ddl sviluppo potrebbe arrivare il segnale di distacco a colpi di emendamenti.

Scajola in persona, all’uscita da Palazzo Grazioli, replica con un teatrale «ma nooo...» ai cronisti che gli chiedono se costituirà gruppi autonomi. Esclusi anche dai suoi fedelissimi. Ma pare un no cautelativo. L’ex responsabile dello Sviluppo economico non sa ancora se davvero sarebbe in grado di mettere insieme i 20 deputati necessari per formare il gruppo. Certo è che la soluzione sarebbe di grande aiuto per praticare la guerriglia parlamentare. Perché nel momento in cui il governo respingesse gli emendamenti dei ribelli, questi potrebbero facilmente ribattere che sono un gruppo autonomo della maggioranza e meritano di essere ascoltati quanto la Lega. Non servono le offerte del premier. Scajola le considera in contraddizione con il potere assoluto conferito a Verdini. All’ex ministro non servirebbe a nulla assumere incarichi di prestigio in un partito i cui vertici lo considerano ormai come il nemico numero uno. Anche nel libro di Angelo Polimeno, edito da Mursia, Presidente, ci consenta, Scajola chiede prima di tutto «un cambiamento vero, che incida in modo profondo nella struttura del partito». Il tasto è sempre quello. Certo, intercalato con l’appello a riunire i moderati, ad aprire all’Udc e anche a Fini, a un «congresso costituente» per mettere insieme tutti quelli che si riconoscono nel Ppe. Ma pare piuttosto l’elencazione delle scelte politiche che andrebbero fatte e che però il Pdl non farà mai. Vale lo stesso discorso per la richiesta di un Berlsconi bis. Non basta neppure l’opera mediazione di Alfano Gli scajoliani considerano il segretario troppo debole per arginare lo strapotere con cui Verdini, dicono, ha già predeterminato l’esito di tutti i congressi provinciali. Certo, se i ribelli faranno saltare la maggioranza verrà sancito il fallimento proprio del modello Verdini. Cioè del partito dato in gestione a un coordinatore impolitico con l’obiettivo di farlo girare a basso regime. Alla fine chi non sta al gioco, e come Scajola è infetto dal virus della politica propriamente detta, non viene espulso: se ne va da solo.


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la crisi italiana

È molto duro il giudizio del presidente emerito della Consulta sul “pasticcio” istituzionale fatto dalla maggioranza

La legge dice: dimissioni Capotosti: «Dopo la bocciatura, cambiare esecutivo è l’unica strada consentita dal diritto. Senza rendiconto di bilancio, si blocca tutto» di Francesco Lo Dico

ROMA. È un pasticcio di nuova ricetta, quello lievitato ieri dalle cucine di Montecitorio. Fino a ieri l’agenda di governo aveva mostrato spesso scarso feeling con la Costituzione per via di alcuni disegni di legge puntualmente demoliti dalla Corte. Ma da oggi tiene banco in questa legislatura una nuova specialità. Il mancato rispetto dell’articolo 81 della Carta è costume talmente bizzarro da non essere normato neppure dalla Carta. Le conseguenze sono talmente evidenti che le dimissioni di questo governo sarebbero giù dovute arrivare da un pezzo. Un’assunzione di responsabilità che nel maggio del 1973 portò Giulio Andreotti – unico precedente nella storia della Repubblica – a dimettersi dopo la mancata approvazione del consuntivo di bilancio. (Ma va precisato che le dimissioni furono respinte, e il voto di fiducia che ne derivò permise all’Andreotti II di restare in piedi per altri quindici giorni). «L’iter del rendiconto generale dello Stato è da considerarsi concluso», ha decretato ieri la Giunta per il regolamento della Camera. Montecitorio «non può andare avanti con l’esame del ddl perché la bocciatura dell’articolo 1 preclude i restanti articoli». Specie perché preclude, soprattutto, il funzionamento della macchina amministrativa di questo Paese per i prossimi mesi.

«La mancata approvazione dell’articolo 1 del rendiconto», spiega a liberal il presidente emerito della Corte costituzionale, Piero Alberto Capotosti, «viola l’articolo 81 della Costituzione in quanto esso im-

pone che le Camere approvino ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo. Importa poco che la bocciatura dell’articolo sia stato considerato un episodio fortuito. L’approvazione dei conti dello Stato è condizione irrinunciabile perché la macchina statale sia in grado di funzionare. L’ assenza del consuntivo equivale alla paralisi della pubblica amministrazione». Una situazione talmente paradossale, che rende ragione del duro monito lanciato dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, all’indirizzo del governo. «La questione che si pone», ha osservato il capo dello Stato», «è se la maggioranza di governo ricompostasi nel giugno scorso con l’apporto di un nuovo gruppo sia in grado di operare con la costante coesione necessaria per garantire adempimenti imprescindibili come l’insieme delle decisioni di bilancio e soluzioni adeguate per i problemi più urgenti del paese, anche in

CESARE MIRABELLI «Il no della Camera ai conti del governo è stato un atto grave anche dal punto di vista politico: implica un rapporto di non più consonanza tra esecutivo e Parlmento»

rapporto agli impegni e obblighi europei». Il Quirinale ha avvisato Silvio Berlusconi, insomma. Dopo lo scivolone sul rendiconto, ha ricordato Napolitano, il premier «dovrà indicare la soluzione nel suo intervento».

Questa volta non si tratta di dare conto ai stanche lamentazioni dell’opposizione. La mancata approvazione del consuntivo annuale si è trasformato nel nodo scorsoio di questa legislatura. «Dal punto di vista politico», ragiona il presidente Capotosti, «è interessante notare come la mancata approvazione del consuntivo rappresenti di fatto un atto di sfiducia verso il governo. Il rendiconto è infatti strettamente collegato al bilancio preventivo, è l’atto di controllo di quel progetto contabile che investe il governo della fiducia delle Camere». Equivale, dunque, a una mozione di sfiducia. «Non approvare il rendiconto», osserva Capotosti, «al di là di giustificazioni che mirano a presentare la bocciatura come un incidente, significa stabilire la presenza di gravi discrepanze tra il progetto iniziale, rappresentato dal bilancio preventivo, e il risultato finale, rappresentato dal consuntivo. Si tratta insomma di un tradimento del mandato affidato al governo dalle Camere». All’indomani del pasticcio, all’interno della maggioranza il nervosismo è palpabile.Tant’è che dopo un terribile autogol come la bocciatura del rendiconto, e la defezione di molti sostenitori della maggioranza che ritenevano per loro stessa ammmissione il voto tutt’altro che decisivo, Sandro Bon-

PIERO ALBERTO CAPOTOSTI «L’ennesima fiducia avrebbe un senso politico, solo se prima Berlusconi presentasse le dimissioni al Quirinale e Napolitano interpellasse le Camere»

di commenta: «La troppa eccitazione per il desiderio di afferrare il potere fa commettere gravi errori». «Le dimissioni dell’attuale governo sarebbero politicamente corrette», precisa il presidente emerito della Corte costituzionale, Piero Alberto Capotosti, «sebbene non esista sul punto obbligo giuridico. Il governo non è caduto su una legge qualsiasi e non può derubricare l’accaduto a semplice inciampo procedurale». E della stessa opinione è anche il presidente emerito della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli: «Quello che è accaduto, può voler dire che non c’è più consonanza tra maggioranza e Parlamento». Di soluzioni al rebus, in queste ore ne circolano di varie e disparate. Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha suggerito ad esempio «di procedere con la lettura e l’approvazione degli articoli, visto che l’art.1 è un cappello che non contiene cifre». E semmai non fosse possibi-


la crisi italiana ROMA. Tutto in due ore. Centoventi minuti per superare lo scoglio del decreto Sviluppo e per - progetto ancora più ambizioso - salvare quel che rimane della maggioranza. L’agenda di oggi di Silvio Berlusconi è a dir poco serrata: alle 9 deve convincere Giulio Tremonti e tutto il Consiglio dei ministri a fare quadrato. Alle 11 tornerà a Montecitorio sperando di cancellare, con l’escamotage procedurale del voto di fiducia, la sonora bocciatura al Rendiconto generale dell’amministrazione dello Stato arrivata martedì. L’obiettivo è quello di recuperare soprattutto Claudio Scajola e il suo gruppo. L’ex ministro dello Sviluppo avrebbe ribadito la sua lealtà al premier, senza però arretrare sulle critiche alla maggioranza, arrivando a chiedere al Cavaliere di allargarne i confini anche se questo dovesse comportare un passo indietro. Richieste contenute nel documento al quale da giorni l’ex ministro sta lavorando.

Berlusconi pensa di riuscire a convincere Scajola sulle misure che dovrebbe contenere il decreto Sviluppo, visto che la componente che fa capo al leader ligure aveva evidenziato la necessità di un cambio di passo nella politica economica e su misure concrete nel decreto, ultima occasione per rilanciare l’economia e per salvare questa fragile maggioranza. E proprio nel Consiglio dei ministri, che discuterà della legge di stabilità 2012 e del Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2012 e per il triennio 2012-2014, e nel discorso che Berlusconi farà dopo in Aula ci dovrebbe essere la chiave di volta per ricompattare la fragile maggioranza che lo sostiene. A partire dagli scajoliani. Intanto continua al ministero dello Sviluppo economico il lavoro del gruppo di coordinamento che lavora alla stesura definitiva del decreto Sviluppo, ma la definizione appare ancora molto lontana. Ogni giorno c’è qualche novità sulla quale si accende il dibattito. Al momento il provvedimento dovrebbe contenere un contributo di solidarietà dell’1 per cento per le baby pensioni. Mentre continua

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Il Consiglio dei ministri sullo sviluppo prima del discorso alla Camera

Operazione recupero (in due mosse) Il premier accontenterà i ”malpancisti” solo in cambio della fiducia in Aula di Franco Insardà la discussione sul condono e si fa strada la possibilità di una “minipatrimoniale”, misure che dovrebbero consentire di fare cassa e assicurare maggiori risorse per la crescita.

tica italiana il rischio è di mangiarsi il capitale reputazionale che Tremonti ha costruito in questi quattro anni».

L’opinione diffusa, al di là del problema della tenuta del governo è che il decreto Sviluppo rappresenta l’ultima occasione per dare un segnale positivo alla nostra economia, anche dopo l’ultimo avvertimento del governatore di Bankitalia Mario Draghi: «Occorre agire con rapidità sul rilancio della crescita. Perché è stato già perso troppo tempo». Carlo Dell’Aringa, professore di Economia politica all’università Cattolica di Milano, non nasconde lo scetticismo: «Dopo quest’ultima manovra nell’immediato non penso che l’Italia debba e possa fare altro. L’Europa, però, vorrebbe essere sicura che questi soldi effettivamente saranno risparmiati e che ci sia l’avvio, finalmente, delle misure per la ripresa. Anche se sono convinto che qualsiasi provvedimento in questo senso non produrrà effetti per uno, due

le, spiega, «si dovrà trovare una soluzione alternativa, tenendo conto che il rendiconto dello Stato è un elemento imprescindibile su cui ovviamente il governo otterrà in tempi molto rapidi l’approvazione del Parlamento, anche con una riformulazione del complesso delle norme».

Secondo Frattini «si potrebbe pensare a un maxi-emendamento, ovvero alla soluzione di approvare gli articoli che restano e invece del cappello iniziale, aggiungere come emendamento un articolo finale». Una diversa formulazione della legge che approva il rendiconto, potrebbe riacciuf-

Posizione simile quella di un altro osservatore come Leonardo Becchetti, professore di Economia politica all’università di Roma ”Tor Vergata“: In questo momento l’Italia ha bisogno di un intervento molto drastico. Dal momento che siamo il primo Paese al mondo per il rapporto tra ricchezza e reddito questa crisi deve essere l’occasione per dare un taglio forte al nostro debito. Il vantaggio è lampante: se si riduce il debito di un terzo calano proporzionalmente gli interessi (oggi quasi 90 miliardi all’anno). I 30 miliardi risparmiati si potrebbero investire per lo sviluppo e lo spread sul Bund non sarebbe più positivo, ma diventeremo un Paese che ha gli stessi fondamentali della Germania, sia come rapporto debito/Pil, sia come deficit. E su eventuali nuovi debiti andremo a pagare interessi più bassi. La posta in gioco è molto alta e il sacrificio, ovviamente, è eleva-

Il governatore di Bankitalia Mario Draghi avverte: «Occorre agire con rapidità sul rilancio della crescita. Perché è stato già perso troppo tempo» anni. Occorrono operazioni di respiro più ampio, a medio e lungo termine: pensioni, una piccola patrimoniale, e riduzione dei costi della politica. Serve il coraggio e la forza politica dell’impopolarità, ma per pagare questo costo avremmo bisogno di un governo in grado di affrontare la situazione e possa portare a casa il ritorno delle misure che avverrànei prossimo tre o quattro anni. Purtroppo l’orizzonte politico non mi sembra sia così a lungo termine. Con questa situazione poli-

fare per i capelli l’ordinaria amministrazione del Paese, certo. Ma resterebbe il problema della legittimità. La via maestra per uscire dall’impasse è indicata da Piero Alberto Capotosti: «Il mancato assolvimento di un compito di rilievo costituzionale come quello dell’approvazione del consuntivo», argomenta il presidente emerito, «richiede a mio avviso una nuova investitura del Colle, e una nuova legittimazione a governare di fronte alle Camere». La procedura in grado di restituire al governo Berlusconi piena legittimità è indicata da Capotosti in questi termini: «La soluzione del dilemma potrebbe con-

sistere in un percorso arduo ma necessario. Se il presidente del Consiglio si recasse al Quirinale e presentasse le dimissioni, il presidente della Repubblica avrebbe facoltà di respingerle e di rinviare il premier alla fiducia delle Camere.

Se Berlusconi la dovesse ottenere, riconquisterebbe la legittimità necessaria per adottare una diversa formulazione della legge di approvazione del consuntivo. Si tratterebbe insomma di una sorta di Berlusconi bis». La scappatoia suggerita da molti esponenti della maggioranza, che pensano a una nuova navet-

to. Ma sarebbe l’unica possibilità per la nostra economia, insieme all’aumento dell’età pensionabile».

Sulla nostra economia pesa come un macigno la crisi mondiale e, su tutte quella greca. Secondo il professor Dell’Aringa siamo «in situazione non più sostenibile per altri quattro o cinque mesi e con un prezzo del denaro così caro è inevitabile che ci siano delle ripercussioni sulle attività produttive. Il punto nodale rimane, però, quello dei debiti sovrani dell’area dell’euro che va affrontato con una massa di risorse in grado di demoralizzare qualsiasi tentativo di speculazione. Le risorse non necessariamente devono essere spese, ma è necessario che siano a disposizione per garantire questa azione forte. I soldi li devono tirare fuori Francia e Germania che dovranno mettere in conto un declassamento del rating. Ma si tratterebbe di un prezzo minore rispetto alla partita grossa che si deve giocare per contenere la speculazione. Il salvataggio della Grecia sarà una ristrutturazione pilotata che dovrà inevitabilmente essere affrontato. Il default pilotato della Grecia comporterà delle perdite da parte delle banche, ma parliamo di cifre certe. Ma in questo modo si scongiura il pericolo più grosso: il contagio di Italia e Spagna. Bisogna rifinanziare in maniera consistente il fondo salvastati, la ricapitalizzazione delle banche deve avvenire successivamente. Bisogna trovare il modo di pilotare il default della Grecia, altrimenti, come ha giustamente detto Trichet la situazione è destinata a peggiorare. Le banche sono in sofferenza perché hanno ancora titoli derivati, ai quali si sono aggiunti quelli dei Paesi del Mediterraneo. Ovviamente soffrendo le banche ci sono delle ripercussioni negative sull’economia reale». Il professore Becchetti sottolinea anche una diversità culturale «tra i paesi mediterranei e il resto d’Europa. Si tratta di un banco di prova per capire se il sistema regge, d’altronde o ci sono livelli di coesione e di unità molto elevati, altrimenti non ha senso avere una moneta comune».

ta del consuntivo, non è dunque così agevole come sembra. «Di rigore», spiega Piero Alberto Capotosti, «la legge sul consuntivo dovrebbe essere riformulata all’articolo 1 che è stato bocciato. Naturalmente si tratterebbe di una diversa formulazione soltanto sul piano formale». Resterebbe però intatto, il vulnus costituzionale stabilito dalla sfiducia di fatto sul rendiconto. Qualcuno sussurrava ieri di un intervento della Corte costituzionale per sanarlo. Uno scenario respinto con forza dal presidente Capotosti: «In questo momento è un’ipotesi giuridicamente infondata».


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di Pierre Chiartano Kyoto a metà dell’altro secolo esisteva una scuola buddistahegeliana, tanto per celebrare lo yugo giapponese. La naturale tendenza nipponica al sincretismo, che è poi la capacità di sopravvivere delle società e delle civiltà. Prendi il buono che c’è in chi arriva ospite nella tua terra e gli dai ciò che è fondamentale per te. A patto che tu lo sappia. Nel caso dell’immigrazione islamica in Italia ora si può ragionare sui dati aggiornati dello studio Abis. Se ne è parlato qualche giorno fa al Centro studi americani di Roma che ha ospitato un convegno organizzato con Italiani Europei e Genemaghrebina. Nel panel Giuliano Amato, Gianfranco Fini, Massimo D’Alema, Maurizio Sacconi, Karima Moual, Renzo Guolo, Giancarlo Bosetti, Federico Ghizzoni e Giorgia Meloni per discutere su come, quanto e quando poter creare un modello di «assimilazione» – no, è superata – «multietnico» – no, non funziona – «interculturale», hanno poi deciso in molti, per poter formare l’amalgama della futura società italiana. Insomma alla ricerca dello yugo all’italiana, se mai possibile. E le analisi dobbiamo ammettere non sono state improntate a uno sfrenato ottimismo. Non tanto per la prima metà della mela, l’identità musulmana, fin troppo forte e definita, rispetto a quella italiana che a 150 anni dall’Unità è ancora dibattuta. Un’identità fin troppo cosciente nel rifiutare il materialismo occidentale, il secolarismo alla francese che è antireligioso e un rilassamento della morale che non piace neanche agli occidentali, ma che subiamo da decenni. Certo aiuterebbe molto ammettere gli errori dell’ideologia “secolarista”. Che è uno strumento culturale -– al contrario del concetto laico della società – che non funziona più. E una lezione l’abbiamo presa anche dal premier turco Recep Tayyip Erdogan quando, qualche settimana fa al Cairo, ha tessuto le lodi del modello di separazione tra Stato e religione. Comunque lo studio Abis qualche punto lo ha fatto emergere. I media sono «pericolosi» con le loro semplificazioni sull’islam. È un dato incontrovertibile. Ma c’è di più e non è stato neanche affrontato nel convegno. È la speranza che nasca un Euroislam che riporti alle origini prassi e pensiero dei credenti. Clifford Geertz nei suoi studi ben sapeva come le tradizioni locali incidano molto sull’interpretazione del Corano e come il Libro sacro ai musulmani – che è un album di famiglia per cristiani (chiamati nazareni) ed ebrei, sempre citati come figli d’Israele – contenga molte delle radici religioso-culturali dell’Occidente.

A

Dal concetto di libera scelta a quello di responsabilità, tanto per citarne un paio. Si spera dunque che l’islam che ha studiato in Europa e in America non produca gli Awlaki, ma persone che sappiano rinnovare e meglio interpretare il dualismo fede-modernità. Ian Buruma in Occidentalismo sottolineava come la «miscela tossica» dell’odio antioccidentale fosse nato in casa nostra, dalle nostre paure proiettate sugli altri. «Buruma si riferiva alla tensione estre-

ma che aveva individuato nella situazione olandese. Legata alla vicenda di Mohammed Bouyeri, l’assassino di Theo van Gogh. Apparteneva alla seconda generazione d’immigrati. Era sradicato, aveva sviluppato del rancore e dei sentimenti negativi su base patologica, sfociata poi nell’omicidio. La situazione italiana sembra meno radicale. È più moderata a guardare i dati dell’indagine Abis. Separando il caso della comunità pakistana nel bresciano, che merita un’attenzione diversa. Lì ci sono maggiori tensioni. Le distanze geografiche fra Italia e Nordafrica non sono così grandi», afferma Bosetti, sottolineando come anche le differenze culturali non aiutino la reciproca comprensione.

«Infatti nel caso dei pakistani si vede sia la distanza geografica che quella culturale. Sono abituati a vivere in un contesto totalmente diverso da quello mediterraneo. La comunità marocchina crea meno tensioni. Anche se la duplicità identitaria esiste». Col rischio che la somma di quella d’origini più quella impalpabile e non definita come quella italiana producano una somma zero, come suggerito dal presidente della Fondazione ItalianiEuropei, Massimo D’Alema. «Ragazzi e ragazze si sentono parte dell’identità originaria e sul versante italiano non ottengono il riconoscimento pieno. Non c’è ancora una legge che conce-

Giancarlo Bosetti spiega e analizza futuro «intercultu

Cronache islam La «doppia identità» dei giovani musulmani nel nostro Paese. Tra forza, passioni e debolezze


il paginone ne d’origine musulmana. Gran parte della popolazione musulmana immigrata lo è nel senso culturale del termine, ma non strettamente vincolata a una fede religiosa». Anche se è in atto un ritorno alla fede dopo la sbornia secolarista degli ultimi due secoli. È vero per l’Europa continentale e ancora di più per i Paesi islamici. «In fondo si potrebbe arrivare ad una conclusione che si possa prescindere dall’interpretazione del Corano e dai dettami dell’Islam. Invece non è così – questa è l’ipotesi su cui abbiamo lavorato noi di Reset – individuando una sempre più grande rilevanza intorno a questa contraddizione tra cultura occidentale. Mondo democratico, modernità e la cultura islamica. Anche quando si parla d’Egitto e si afferma che i Fratelli musulmani siano una presenza minoritaria, in realtà il futuro della vita politica sarà determinato dalla fine del secolarismo tirannico – che riguarda in una certa misura anche il kemalismo turco. Nel momento in cui queste autocrazie vengono meno, e le popolazioni musulmane posso riconoscersi con maggiore tranquillità nel loro culto, allora si possono creare delle tensioni sul piano della vita politica. Importanti diventano quindi le componenti politiche islamo-democratiche. Cioè quelle culture che portano la declinazione confessionale della politica nella vita pubblica».

urale» e pluralismo politico, da Averroé a Ibn Khaldun

miche dall’Italia

Ricordiamo che ad esempio la Muslim Brotherhood è diventata, con le sue molteplici anime che assomigliano tanto alle correnti di partito, la Democrazia cristiana dell’Islam: stessi problemi, stesso pragmatismo nell’affrontarli, raffinata analisi politica e culturale. «Esattamente come all’epoca la Democrazia cristiana importava la cultura religiosa all’interno dell’Europa del secondo dopoguerra. Il tema dell’ìnterpretazione del Corano e delle diverse interpretazioni delle varie versioni che ne scaturiscono in diverse confessioni che aprono al-

da la cittadinanza a chi nasce in Italia». Il cosiddetto ius soli. «Chi è nato qua, ha fatto le scuole, è cresciuto con noi non ha alcun riconoscimento e quando arriva, arriva col contagocce. Abbiamo quasi un milione di minori di seconda generazione, nati qua sono circa mezzo milione, di questi un terzo sono musulmani. Sul versante italiano non ottengono un riconoscimento pieno, oltre ai problemi legati alla diversità in generale: se dovessero riconoscersi nello sguardo degli altri. Sull’altro versante, quello dei Paesi d’origine la situazione è altrettanto complicata. Ad esempio per maghrebini o egiziani, se dovessero tornare nei loro Paesi non sarebbe un ricongiungimento naturale. Troverebbero difficoltà d’ogni genere». Dunque la doppia identità è una forza oppure una debolezza?

«Loro la sentono ed è una forza. Ma da anche forma a delle tensioni, che sono anche generazionali, incomprensioni con le famiglie, tra i giovani e il contesto esterno. Ma mai così gravi come quelle rilevate in Olanda. In Italia c’è una certa vicinanza culturale oltre che geografica con il sud del Mediterraneo, che piaccia o meno. Le distanze tra i popoli mediterranei non è così grande come quella con i popoli del Nord Europa o come quella tra italiani e pakistani». Molti studiosi considerano il ruolo della tradizione locale far premio sulla “ve-

ra” natura del Corano e della sua interpretazione. Così abbiamo un islam dei Paesi del Golfo, quasi indigeribile per i musulmani del Maghreb, per non parlare di quelli turchi. Ora molti pensano che il vero Rinascimento islamico sarà quello che verrà dall’Europa e forse dall’America. Anche se a guardare la fine fatta dall’imam del New Mexico al Awlaki, verrebbe qualche dubbio. «È un punto molto importante. C’è una crescente influenza della cultura secolare e laica anche nell’ambito di perso-

la modernità sono importanti. Ad esempio ci si potrebbe chiedere perché sia necessario fondare il principio del pluralismo politico sul pensiero di Averroé oppure di Ibn Khaldun? Il bisogno c’è e si presenta come crescente, perché queste forze politiche che si ispirano ad una tradizione». Averroè, filosofo musulmano del XII secolo di Cordova, difese la filosofia aristotelica, affermando che la verità può essere raggiunta sia attraverso la religione rivelata sia attraverso la filosofia speculativa. Ibn Khaldun inve-

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ce è un “sociologo” ante litteram, spesso paragonato a Montesquieu e che ha teorizzato l’influenza del genius loci sulla cultura e le abitudini dei popoli. «Una tradizione che viene versata nella vita pubblica e auspicabilmente in quella democratica egiziana, algerina, tunisina e speriamo anche libica». A questo punto si potrebbe guardare all’Islam europeo come a una fucina di nuove idee, per la produzione di quel merger di idee che potrebbero purificare il pensiero musulmano da interpretazioni distorte. Ricordiamo ad esempio che nel Testo sacro ai musulmani non si parla di velo, vengono richiamati i concetti democratici di condivisione del potere, di responsabilità sociale e personale, oltre a gran parte dei concetti che già conosciamo nella cultura cristiana ed ebraica.

La Torah è citata decine di volte nel Corano così come i Vangeli. «Sicuramente l’Islam francese può contribuire, in Italia siamo ancora agli inizi. La nostra immigrazione è meno forte nelle fasce intellettuali. Però dalle nuove generazioni che hanno studiato da noi sicuramente emergerà un’elite. Anzi do-

A Roma, ci dice l’esperto, prevale la divisione per nazionalità.A Milano, quella teologica con salafiti, sciiti, sunniti, riformisti e tradizionalisti vrebbe essere promossa da Stato e governo. Il ministero degli Interni dovrebbe riprendere il lavoro per promuovere una rappresentanza musulmana, senza trincerasi dietro la difficoltà della non compitezza dell’entità musulmana. Non c’è una chiesa musulmana, ci sono tante sette. Sono divisi e frammentati per nazionalità, per correnti ideologiche. Ad esempio a Roma prevale la divisione per nazionalità, a Milano c’è una frammentazione di tipo teologico con salafiti, sciiti, sunniti, riformisti e tradizionalisti. C’è dunque un Islam italiano che ha una sua dignità culturale». Anche per il presidente della Camera Gianfranco Fini la «mediazione culturale» dovrebbe fare riferimento a un nuovo modello culturale che non può essere né quello francese e neanche quello inglese, perché entrambi hanno dimostrato molti limiti. Un vagheggiato modello italiano che però ancora non esiste anche se molti l’hanno già battezzato «interculturale», superando assimilazione, multiculturalismo e tolleranza, ma inaugurando un modello che si basi sul reciproco rispetto e integrazione finché possibile. Visto anche che 600mila giovani muslmani in Italia saranno sicuramente portatori di novità. Certamente di un’etica più forte di quella cui siamo abituati, e non è un male. Per rispondere invece ai dubbi sul connubio Islam e modernità ci viene in soccorso un intellettuale pakistano, Tariq Ali, che a Londra scrive per New Left Review, che denuncia subito l’approccio laico. Uno che per intenderci ha fatto il ’68 inglese a Oxford. E che ha scritto libri come A Letter to a Young Muslim e Lo Scontro dei Fondamentalismi. «Ce la faremo proprio come avete fatto voi» in Occidente, emergendo dai fondamentalismi e costruendo, pezzo dopo pezzo, una società laica e democratica, dove anche la religione abbia cittadinanza.


mondo

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Sauditi e inglesi schierati al fianco della Casa Bianca. Il dossier presto all’Onu

Usa e Iran ad alta tensione Washington attacca Teheran per il complotto ai danni dell’ambasciatore saudita e dice: «Ogni opzione è possibile» di Luisa Arezzo fficialmente ritirata, da ieri, la mano tesa che Barack Obama aveva offerto all’Iran degli Ayatollah all’inizio del suo mandato. Dopo mesi di tensioni tenute sotto traccia, il dossier sul complotto iraniano che avrebbe dovuto uccidere l’ambasciatore saudita a Wahington oltre a decine di americani, sta facendo aumentare la fibrillazione fra i due Paesi a dismisura. Tanto che il dossier è destinato ad approdare sul tavolo del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. A volerlo portare lì, hanno riferito fonti diplomatiche occidentali, sono principalmente Stati Uniti e Arabia Saudita, in un contesto di relazioni diplomatiche tra l’Iran e il resto del mondo che sembra tornato a venti anni fa, quando la Repubblica islamica programmava omicidi mirati in diverse capitali dell’Occidente. I più determinati a voler punire Teheran, oltre a Washington e Ryad, che ritengono «schiaccianti» le prove del coinvolgimento del governo iraniano, sono i britannici. Ieri David Cameron, in un’escalation di dichiarazioni incrociate, ha detto: «Sosterremo qualsiasi misura che faccia pagare all’Iran le proprie responsabilita». La Repubblica islamica contrattacca gri-

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dando al complotto internazionale. Quello americano è «un gioco infantile e dilettantesco, un volgare falso per creare tensioni tra Teheran e Ryad», ha detto il presidente del Parlamento iraniano, Ali Larijani. Sullo stesso tono la dura reazione del portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Ramin Mehmanparast, che in una dichiarazione diffusa dall’agenzia Irna ha bollato le accuse come «un copione prefabbricato e senza alcun fondamento, un trucco tipico della vecchia politica ostile degli Stati Uniti e del regime sionista».

I toni, però, dietro le quinte sembrano essere ancora più duri, con gli Usa che non escludono a priori un intervento militare e gli iraniani che si dicono pronti a una risposta «durissima». L’Unione europea, dal suo canto, ha espresso grave preoccupazione. «Dovessero essere confermati, i fatti costitui-

In alto il presidente Usa Barack Obama, che da ieri ha ufficialmente ritirato la mano tesa ad Ahmadinejad (a sinistra). Sopra nel riquadro: Chen Deming, ministro per Il Commercio della Repubblica popolare cinese

rebbero una grossa violazione della legalità internazionale, con gravi implicazioni globali», ha detto Maja Kocijancic, portavoce dell’Alto responsabile per la politica estera, Catherine Ashton (che non si capisce quando pensi che sia utile parlare direttamente...), invitando Teheran a «cooperare totalmente con la giustizia americana», che gode della «fiducia» dei Ventisette. Quantomeno,

In meno di 48 ore Obama torna al centro della scena mondiale: attaccando frontalmente il regime degli ayatollah, pungolando Pechino sulla valuta e subendo una sconfitta sonora dentro casa l’Europa al momento sembra sapere da che parte stare. Quello iraniano, però, non è l’unico fronte di attrito (ma è certamente quello potenzialmente più esplosivo) che gli Usa hanno aperto in queste ultime 48ore. Martedì sera (ora Usa), la guerra delle valute, silente ma mai assente negli ultimi anni, è tornata a galla. Con Washington che muove e Pechino che reagisce.

L’adozione da parte del Senato americano, infatti, di una legge per penalizzare la Cina, sospettata

di manipolare la propria valuta per rilanciare le esportazioni (per alcuni lo yuan è svalutato del 40% rispetto al suo valore reale, un vero e proprio sussidio alle esportazioni), può causare una «guerra commerciale» tra le due potenze, come ha sottolineato l’agenzia di Stato Nuova Cina.

Il punto è che la cosiddetta legge anti-yuan approvata dal Senato americano (nella stessa seduta che ha bocciato il piano lavoro di Obama), se dovesse passare anche alla Camera e fosse ratificata dal presidente, darebbe al dipartimento al Commercio e al Tesoro nuovi margini di manovra nel penalizzare i governi accusati di manipolare la propria valuta, in particolare la Cina. Il testo, che aveva nei giorni scorsi superato vari voti procedurali in

Senato, è stato approvato con 63 sì e 35 no. Pochissime tuttavia le speranze che la legge venga approvata alla Camera a maggioranza repubblicana: la settimana scorsa il presidente dell’aula John Boehner aveva definito il documento «pericoloso». Preoccupazione peraltro condivisa dallo stesso Obama, che però non ha affatto escluso di ostacolarla: «La mia principale preoccupazione - ha detto la settimana scorsa - è che qualsiasi strumento si adotti, assicuriamoci che possa funzionare, che sia in linea con i trattati internazionali e i nostri obblighi».

In altre parole, che non sia in contrasto con le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Dal fronte internazionale a quello interno, la strada, per Barack Obama, sembra farsi sempre più dura. E il piano del Presidente per il rilancio dell’occupazione, un pacchetto da 447 miliardi di dollari, incentrato su sgravi fiscali e nuovi investimenti pubblici, non ha supe-


mondo

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Contro gli occupanti di Wall Street che dicono di rappresentare il 99%

“Noi siamo il 53%” il futuro sbarca a NY

Nasce un gruppo conservatore che si fregia di pagare le tasse e si scaglia contro i super ricchi di Martha Nunziata a data è già fissata: il 15 ottobre. Sarà il giorno degli “indignados”, ma anche degli “indignati”, la loro versione italiana: nelle piazze del mondo, tutti insieme, per protestare contro la crisi economica. Ma chi sono gli indignati? È gente comune, pacifica: si tratta di donne, di giovani e di anziani. E molti altri ancora pronti a far sentire la loro voce: professori, liberi professionisti, medici. Perché la crisi riguarda tutti, o quasi. Ed i movimenti di protesta vanno sempre più ad aumentare e si stanno diffondendo a macchia d’olio in tutto il mondo. Gli indignati anti-Wall Street, tra cui il gruppo “I’m 99%”(Noi siamo il 99 per cento e quello conservatore “We are 53%” (Noi siamo il 53%), ieri hanno marciato a New York, nelle strade della roccaforte dei super-ricchi di Manhattan, portando cartelloni e megafoni per protestare davanti alle case di cinque miliardari messi all’indice come simbolo di chi non vuole pagare le «tasse giuste», necessarie per evitare il default. All’appuntamento del 15 saranno presenti, invece, gli indignati dei paesi più colpiti dalla crisi economica globale: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi, Russia, Polonia,Germania, Spagna e anche l’Italia. Il seme di questi fermenti parte da lontano, cioè dalle piazze arabe, che hanno il merito di aver riportato la linfa della democrazia autentica in paesi ormai decadenti, ovvero quelli occidentali. Ma secondo Slavoj Zizek, intervistato dal Financial Times, la crisi non ha un colpevole, perché «chi pensa che le cose durino per sempre è un sognatore. Noi non stiamo distruggendo nulla; è il sistema che sta distruggendo se stesso». La piazza più rilevante, oggi, per le proteste degli “indignados”, invece, è quella di New York. Dove, da tre settimane, il movimento di Occupy Wall Stret ha occupato Wall Street, la via della borsa che rappresenta il mondo economico e finanziario degli Usa. Il sindaco di New York, Bloomberg, neanche alcune settimane fa, aveva predetto nuovi rischi di proteste: «È accaduto anche a Madrid e al Cairo, può accadere anche da noi, stiamo attenti».

L

rato neppure il primo test legislativo. Il Senato americano ha infatti bloccato con un voto procedurale la legge sul lavoro: con 50 voti contro 49, e dunque ben al di sotto della soglia dei 60 voti necessari per avviare il dibattito sul provvedimento. Contro quest’ultimo hanno votato tutti i repubblicani e due democratici, Ben Nelson e Jon Tester, alle prese con una difficile campagna elettorale in Stati molto conservatori come il Nebraska e il Montana. Questo risultato «non significa in alcun modo che la battaglia sia finita», ha commentato Obama. «Nei prossimi giorni ha aggiunto - i membri del

Usa, Tim Geithner, ha ventilato il rischio di una nuova recessione se il parlamento non interverrà con provvedimenti a sostegno della crescita. Poco prima del voto, Obama da Pittsburgh, in Pennsylvania, Stato cruciale per la sua rielezione, aveva detto: «Tutti i senatori che votano no dovrebbero guardarvi negli occhi e dirvi esattamente a cosa si oppongono. Perché penso che il loro no sia dovuto solo al fatto che questa proposta l’ho fatta io».

E qui sta il punto. L’America è di fatto in campagna elettorale (martedì notte c’è stato un nuovo confronto tv, in verità un pò

Pechino avverte Washington: la legge anti-yuan passata ieri al Senato Usa con 63 sì e 35 no, è una bomba a orologeria che può scatenare una vera e propria guerra commerciale Congresso dovranno decidere se vale la pena rimettere al lavoro insegnanti, addetti alle costruzione, poliziotti e pompieri». L’auspicio della Casa Bianca è che almeno alcuni dei provvedimenti possano venire approvati singolarmente.

Insomma, Obama passa al già previsto piano B: spacchettare il piano lavoro e puntare a una approvazione per temi distinti. E se Obama ha definito la crisi economica «un’emergenza», presentando il suo piano sul lavoro davanti al Congresso riunito in seduta congiunta, il segretario al Tesoro

spento, fra i canidati repubblicani alla nomination per la Casa Bianca), e non c’è dubbio che i repubblicani temano che una possibile ripresa dell’economia possa tradursi in un sostegno per Obama. Mentre i sondaggi rivelano come la quota degli indecisi sia sempre più importante: oltre il 55%. Persone che sembrano dare sempre meno importanza allo schieramento del candidato e tese solo a capire se la ripresa sia possibile o meno e se sia possibile arginare un tasso di disoccupazione che ormai viaggia sopra il 9%. A Obama il compito di convincerli prima che sia troppo tardi.

E le piazze di New York, infatti, si sono trasformate in uno scenario di battaglia non violenta, riportando l’America agli anni sessanta, quelli delle tensioni razziali e delle proteste per la guerra in Vietnam. L’appuntamento della marcia pacifica di ieri è stata all’entrata di Central Park, sulla 59˚ Strada, dove i manifestanti di «Occupy Wall Street» sono arrivati in metro da Zuccotti Park, quartier generale della protesta. Uno degli slogan di Occupy Wall Street, che si riferisce alla disparità con cui la crisi economica degli ultimi anni ha colpito la maggioranza degli americani è: “I’m 99%” (Io sono il 99 per cento). Un messaggio che spie-

ga che «nessuno ascolta il grido del 99 per cento della gente» e che questa è «la nuova primavera araba». Il gruppo è composto da uomini disperati di ogni razza: bianchi, neri, immigrati. Sono persone che non arrivano con il loro stipendio alla fine del mese. Sono ragazzi che sognano il college e che non se lo possono permettere, laureati che non trovano lavoro e una casa, anziani che non riescono a farsi bastare la pensione e malati costretti a lavorare per pagarsi le cure. Giovani scesi nelle strade contro la disoccupazione, le ingiustizie sociali, la fame, il sistema sanitario, il riscaldamento globale, i diritti civili violati. È il movimento che si dichiara povero e che sostiene di rappresentare il 99% degli americani che non ne può più dei privilegi dell’1% dei super ricchi. Il senso dello slogan è questo, quindi: noi siamo il 99 per cento, e stiamo male a causa vostra, dell’uno per cento. Un confronto, questo, che si è poi spostato anche su

un livello fiscale. Un altro gruppo, infatti, che sta emergendo rapidamente e che rappresenta più questo aspetto, è quello conservatore “We are 53%” (Noi siamo il 53%). Questo movimento sostiene che ci sia un 1% percento di straricchi a cui però va aggiunto il 46% di americani che non paga nemmeno un dollaro di tasse. 1% di straricchi più 46% di esentasse fa 47%. Per arrivare a 100 è necessario aggiungere gli americani che non sono straricchi, ma che pagano le tasse fino all’ultimo spicciolo: il 53%, appunto. Gli “indignados”si scagliano, poi, contro le caste, universalmente intese. Un altro slogan degli indignati, infatti, è: «Basta con le classi politiche di tutto il mondo che non sentono e non ascoltano più le richieste della gente. E basta con le elite finanziarie e bancarie, alle quali sono asserviti». Molti di questi “indignati“, però, sono stati arrestati nei giorni scorsi e trattati come delinquenti comuni, colpevoli di aver allestito tende, cucine e ripari di fortuna in luoghi pubblici. Non poteva mancare, però, la componente informatica della protesta. Gli organizzatori di Occupy Wall Street, infatti, hanno aperto un tumblr (cioè un sito internet a metà tra un blog e un social network, ndr.), attraverso il quale stanno invitando gli americani colpiti dalla crisi a pubblicare una loro foto con cui raccontare la propria storia e le loro speranze per il futuro.


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grandangolo Il premier inglese arranca. Ma non smette di combattere

Scotland Yard, Murdoch e Liam Fox: tutti i guai di Cameron Dopo lo scandalo di “News of the World”e le rivolte che hanno messo a ferro e fuoco il Paese, la stella dell’inquilino di Downing Street brilla sempre meno. Anche l’intervento in Libia, deciso all’inizio assieme a Sarkozy e che sembrava proiettarlo in un un nuovo ruolo europeo, adesso è sintomo di scontento popolare. In più, rischia di perdere il suo ministro della Difesa, forse il più brillante del suo governo... di Antonio Picasso ameron dà fiducia a Fox. Ma la vicenda è tutt’altro che archiviata. L’inchiesta che ha coinvolto il ministro della Difesa britannico, Liam Fox, sulle connessioni illecite con il lobbista Adam Werritty, è arrivata in Parlamento. Ieri, alla Camera dei comuni, il premier britannico ha preso parte al question time settimanale, concentrato quasi unicamente sullo scandalo dei suo ministro. Il premier si è trovato di fronte il leader laburista, Ed Miliband, che lo ha tallonato sull’accaduto e sulle ombre dell’accaduto. La relazione d’affari e di amicizia che collega Fox con Werritty è sotto gli occhi di tutti. Il responsabile della Difesa britannica non l’ha mai nascosto. Questo va detto. Nel 2005,Werritty ha fatto da testimone di nozze a Fox. Mentre quest’ultimo, ancora prima, gli ha messo a disposizione pro bono un appartamento in pieno centro a Londra per poter terminare gli studi. Fox è nato nel 1961,Werritty nel 1978. Una differenza di età che ha fatto scattare la curiosità dei media. Per quale motivo un ministro di Sua Maestà dovrebbe essere così affezionato a un giovane businessman della City?

C

In primo luogo la condivisione di prospettive geopolitiche. In particolar modo l’Atlantic Bridge, think tank filo statunitense, finanziato da entrambi e ben nutrito di nomi celebri. Fox, del resto, è stato scelto da Cameron appunto per le sue consolidate conoscenze oltreoceano. Tra il ministro e Werretty c’è poi co-

munione di ingenti pacchetti azionari e fondi di investimento. Il Uk Health, per esempio, è una società di consulenza nel campo medico-farmaceutico finanziata da entrambi. Fin qui nulla di irregolare. Almeno di fronte alla legge britannica. A non piacere è stata l’eccessiva intrusione di Werretty a Whitehall, sede del ministero della Difesa. Con tanto di fotografie, è stato certificato che Werretty abbia partecipato

“David” deve gestire l’ennesima grana di fronte a un’opinione pubblica nazionale sempre più perplessa ad almeno 22 meeting insieme a Fox. E che fosse con lui nelle ultime missioni all’estero (Sri Lanka, Emirati Arabi, Stati Uniti e Spagna). L’ufficio di Fox ha giustificato il fatto sostenendo che Werretty sarebbe un consulente esterno del ministro. Tuttavia, questo non basta per usufruire delle facility di Stato. Tanto più che Fox, per motivi di ruolo, tratta argomenti di sicurezza nazionale e confidenziali. È l’al-

tra faccia della medaglia delle lobby britanniche. Londra facilita questa attività. Si ritiene che la promozione e la sponsorizzazione privata delle iniziative di uomo politico limitino la corruzione.

Ed effettivamente questo fa sì che tangenti e finanziamenti pubblici – leciti o meno – restino circoscritti sul suolo inglese. Quel che però non si può accettare è lo sconfino dei lobbisti. Il loro ruolo è tessere pubbliche relazioni e cercare soldi per i partiti. Il loro posto è la lobby, vale a dire i corridoi e le sale di attesa dei grandi palazzi londinesi. Gli uffici devono restare off limit. Come pure le abitazioni private dei ministri. La stampa inglese pone il dubbio sul fatto che Werretty si sia emancipato dal suo amico ministro, oppure che viva ancora presso qualche abitazione intestata a quest’ultimo.Vuoi mai che abiti in un immobile dello Stato! Per Cameron si tratta dell’ennesima grana che deve gestire di fronte a un’opinione pubblica nazionale sempre più perplessa. Quel che è seccante per Dowining Street è che Fox rischia la testa. Ma in questo modo c’è il pericolo che l’esecutivo perda una delle sue menti più brillanti. Peraltro, ancora una volta, Cameron non è il diretto responsabile dell’accaduto. Dalla seduta di ieri a Westminster non si è alzata ancora la richiesta delle dimissioni del ministro. Ma non la si può escludere nei prossimi giorni. Per il 21 ottobre si prevede che la commissione di inchiesta del ministero consegni il

suo dossier. In tal caso, si rischia un fronte compatto anti Fox dei laburisti, con lib-dem e alcuni tory. A Londra quando è il parlamentare a sbagliare, non ci sono dinamiche di partito che tengano. Il ministro della Difesa, da parte sua, sta assumendo una posizione che ha molto del politico continentale e poco dell’aplomb inglese. «Sono una vittima delle circostanze», ha detto ieri Fox Sembra passato un secolo dallo scorso 29 aprile, giorno del matrimonio fra il principe William e Kate Middleton. L’avvenimento aveva rivitalizzato le quotazioni anche del governo conservatore, il quale dopo un anno a Dowing street stentava a dimostrare la propria freschezza. Del resto, è dalla mondanità – nuziale o luttuosa – che gli ultimi premier inglesi hanno guadagnato in termini di immagine. Nel 1997, Blair era assurto a salvatore della Corona in quanto convinse la regina a chinare la testa di fronte al feretro di Lady Diana. A Cameron è andata meglio. Visto che si è trovato coinvolto nel più zuccheroso avvenimento glamour degli ultimi dieci anni. Poi però il tracollo. L’estate è stata segnata dallo scandalo del News of the World e dagli scontri a Tottenham. Uno dei più importanti e antichi tabloid britannici, di proprietà dei Murdoch, ha chiuso in seguito alla scoperta delle intercettazioni alle quali i suoi redattori ricorrevano per recuperare le notizie. Il tutto con la polizia londinese che faceva finta di non vedere. Andy Coulson, 43 anni ex direttore


i che d crona

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Regno Unito, disoccupazione mai così alta

Indignados pronti a occupare la Borsa

Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

a disoccupazione su suolo britannico supera il drammatico 8%. Come nel resto d’Europa, a pagarne il prezzo più salato è la fascia di età compresa tra i 16 e i 24 anni, vale a dire le nuove generazioni che, appena uscite dalle scuole, si buttano nell’impiego e trovano solo portoni chiusi. È il peggior dato degli ultimi 17 anni. «Paghiamo la crisi internazionale», ha detto Chris Grayling, segretario all’occupazione presso il ministero del Lavoro. Parole che però non hanno risparmiato aspre critiche da parte dei più importanti istituti di analisi della City.

L

Al di là del quadro statistico, certo non rassicurante, il Regno Unito è sotto pressione anche in termini di ordine pubblico. In estate, i disordini di Tottenham, a Londra, sono stati innescati da una questione di microcriminalità. Tuttavia, violenza, malessere sociale e tenore di vita sempre più indigente costituiscono un potenziale cocktail di nuovi scontri.Tanto più che la Gran Bretagna non è immune dai movimenti degli indignados e dei black block. A questo proposito, il governo è sotto attacco da parte delle società responsabili del monitoraggio della situazione delle strade. A loro giudizio, il premier David Cameron non sta implementando il suo progetto della Big Society che potrebbe portare a nuovi scontri e saccheggi nelle strade britanniche. È questo l’avvertimento di Paul Twivy, fondatore della Big Society Network e ingaggiato dal governo per attuare il piano, secondo il quale vi è un gap tra le dichiarazioni dell’esecutivo e la realtà di molti gruppi di volontariato che stanno chiudendo. Twivy ha detto che il settore del volontariato si trova di fronte a una crisi di dimensioni monumentali a causa dei tagli ai finanziamenti. Secondo le stime del think tank New Philantrophy Capital, fino a 5 miliardi di sterline di finanziamenti statali potrebbero sparire dal settore nei prossimi tre anni. A fronte della crisi, il governo avrebbe dato al priorità ad altre voci, nella distribuzione dei finanziamenti. Ieri, la Banca d’Inghilterra ha deciso di versare sul mercato altri 75 miliardi di sterline. La mossa riguarda la finanza però. Non il settore dell’impiego. Twivy è d’accordo con il ministro del Lavoro, Iain Duncan Smith, che «la prevenzione dei problemi sociali è più efficace dal punto di vista dei costi delle cure che vengono decise più avanti. Ma questo non si può fare senza i fondi ai gruppi di volontariato». L’opinione è stata accolta dal ministro ombra per gli affari sociali, Liam Byrne. Intervenendo alla Bbc, il parlamentare laburista ha sottolineato la durezza delle iniziative del governo, senza che però vi sia una linea per incentivare la crescita della occupazione.

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di News of the World e successivamente capo ufficio stampa del premier è stato arrestato. Una mossa che ha rischiato davvero di minare la permanenza di Cameron al potere. Tempo due settimane, e una sommossa devasta la cintura dei sobborghi più arretrati della capitale. Ci scappa un morto e danni per milioni di sterline. Ancora una volta è sotto accusa Scotland Yard.

La sicurezza londinese è apparsa in combutta con un potere mediatico planetario che si è fatto scrupolo di stringere alleanze con tutti i primi ministri inglesi dalla Thatcher in poi. In seconda istanza, i suoi agenti sono stati bollati come picchiatori razzisti. In entrambi i casi, Cameron è andato in parlamento con le due carte per rispondere dell’operato dei suoi ministri e del public service in generale. Oggi lo scandalo Murdoch sembra sotterrato. Solo da un punto di vista politico però. I giornalisti inglesi, infatti, sperano che la vicenda sia servita da esempio per tutti i big dell’editoria. Al contrario, si teme un riflusso di piazza. Soprattutto a causa di un diffuso malcontento popolare. La mancanza di lavoro e la riforma delle pensioni ancora in fase di approvazione non incentivano gli elettori a rivedere le proprie opinioni di delusione nei confronti dell’esecutivo. Per i Tory la vita è dura anche sul fronte della politica estera. Erroneamente Cameron aveva sperato di recuperare terre-

no con l’intervento in Libia, a fianco di Sarkozy. Ma la guerra in nord Africa viene fin troppe volte paragonata all’azione frettolosa e tardo colonialista della crisi di Suez del 1956, quando già Francia e Gran Bretagna tentarono il colpo contro Nasser, ma poi dovettero tornarsene a casa perché non avevano detto nulla a papà Stati Uniti. In questo caso Washington non ha detto no. Anzi. Tuttavia, tra Eisenhower e Obama ci corre un treno di differenza. Non fosse altro che il primo era un ex generale, mentre il secondo è un mago della comunicazione on line. La guerra in Libia, di conseguenza, si è trasformata in un dispendioso boomerang. Proprio Fox ha detto che per le casse del suo ministero le millanterie belliche di Sarkò costeranno agli inglesi 300 milioni di sterline. Sono 140 milioni in più rispetto alle stime di qualche mese fa. Fox ha aggiunto che sarà il Tesoro direttamente a coprire l’ammontare e non Whitehall in autonomia. Il che può andar bene per il ministero, ma non per il contribuente. Soprattutto se questo è investito dalla crisi finanziaria e dalla disoccupazione. L’elettore inglese è passato dalle mani di un Gordon Brown bravo, ma assolutamente non telegenico, a un Cameron un po’troppo simil-Blair. Il premier deve gestire criticità ben più pesanti di quelle che pesavano sulle spalle della Gran Bretagna all’alba del New Labour. Non solo. Stando alle cronache gli manca quella fortuna politica che, al contrario, è fondamentale per sopravvivere ai Comuni.

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Era malata di cancro all’utero. Il materiale prelevato dalla sua cervice, usato ancora oggi, ha favorito decisivi progressi nella cura di malattie terribili

La donna immortale Prima di morire, nel ‘51, Henrietta Lacks donò alla ricerca cellule tumorali che hanno permesso importanti scoperte scientifiche di Gabriella Mecucci eLa è una sigla molto conosciuta nel mondo della ricerca scientifica, ma ignota ai comuni mortali. Due sillabe dietro le quali si cela la storia di straordinarie scoperte, la drammatica vita di una donna, segnata dalla miseria e dal razzismo, e della sua infelice famiglia. Due sillabe che ripropongono i grandi interrogativi sulla vita e sulla morte, sull’etica della ricerca, sulla religione. Con HeLa si identifica la linea di cellule tumorali, nata dal materiale prelevato dalla cervice uterina di una trentunenne nera. Quelle cellule, asportate nel 1951, hanno vissuto più fuori dal corpo che le conteneva, che al suo interno. Sono “immortalizzate”: il contenitore è scomparso da tempo, consumato dal cancro, loro sono vive. Vivissime. Si riproducono molto rapidamente e, grazie a questa straordinaria vitalità, hanno consentito decisivi progressi nella cura di malattie terribili e, più in generale, nella ricerca. Le HeLa hanno sfidato e sconfitto la morte: vivono e consentono di vivere. Il corpo da cui provengono è quello di Henrietta Lacks, vissuta in Virginia. Più precisamente, a Clover, poverissimo sobborgo di Baltimora. La sua vicenda umana e quella dei tessuti a lei prelevati viene ricostruita in un libro magistrale da Rebecca Skloot, giornalista scientifica, filantropa, scrittrice. Per Adelphi è finalmente uscito anche in Italia: La vita immortale di Henrietta Lacks, con il suo rassicurante incipit: «Quella che sto per raccontarvi è una storia vera». Niente fantascienza, tutta realtà. Una realtà di cui si illuminano tutti gli angoli: anche quelli più misteriosi e spaventosi.

H

Aveva appena trentun anni Henrietta quando, torturata da dolori e sanguinamenti, si decise ad andare dai medici del

Johns Hopkin Hospital di Baltimora. Era il 29 gennaio del 1951 e la fecero entrare dalla porta d’ingresso riservata ai neri. Nella sala d’attesa c’era un cartello: “Colored”.

Il primo passo fu subito dopo la sua morte: nacque un’industria che sfornava miliardi di nuclei per combattere mali come la poliomielite La visitarono e arrivarono alla conclusione che si trattava di cancro della cervice dell’utero. Un cancro terribilmente aggressivo che la condusse a morte da lì a pochi mesi. Pri-

ma che se ne andasse per sempre, però, Henrietta – una donna profondamente religiosa, madre dolcissima di cinque figli – ci lasciò qualcosa che avrebbe cambiato la vita di tutti noi. Un paio di settimane prima che la malattia avesse la meglio, un medico prelevò dal suo utero un campione del tessuto canceroso. Quelle cellule iniziarono a riprodursi con una rapidità inimmaginabile. Un ricercatore ha stimato che oggi ce ne sono in giro tante da raggiungere i cinquanta milioni di tonnellate. E siccome una cellula pesa quasi niente, il numero risultante è quasi inconcepibile. Il tutto è nato da una donna che nel fiore degli anni era poco più alta di un metro e mezzo e pesava una cinquantina di chili. Il prodigio della riproduzione super rapida avveniva sotto gli occhi vigili di un ricercatore visionario, George Gey e di quelli di sua moglie Mary. Poco prima che la sua paziente colored spirasse le si avvicinò e le disse: «Le tue cellule ti renderanno immortale». Lei sorrise e rispose: «Sono contenta che tutto questo dolore serva a qualcosa». Morì pregando Dio e pronunciando i nomi dei suoi bambini.

Mentre il loro contenitore se ne era andato per sempre, le HeLa crescevano con voracità pantagruelica. Era questione di tempo ma sarebbero diventate famose: avrebbero fatto nascere il vaccino contro la poliomelite e la chemioterapia. Avrebbero aiutato a sbocciare terapie contro le malattie a trasmissione sessuale e ricerche sul morbo di Parkinson. Dal corpo di quella donna nera, che pensava che i dolori del cancro li mandasse il diavolo in persona, si sprigionò la materia su cui la scienza è cresciuta negli ultimi sessant’anni. Il primo salto in avanti si ebbe subito dopo la sua morte. Da allora nacque una sorta di industria che sfornava miliardi di cellule. Il tutto finalizzato a combattere la poliomielite. Alla fine del 1951 si era infatti

Da sinistra: uno scatto di Henrietta Lacks; la giovane donna insieme con la sua famiglia; un disegno di Michelangelo Pace;quattro tecnici del centro di produzione in serie di HeLa presso il “Tuskegee Institute” controllano le cellule prima di spedirle; uno scatto di alcuni esperti durante il processo di coltura delle cellule HeLa

nel bel mezzo di una vera e propria pandemia. Jonas Salk, all’università di Pittsburgh annunciò al mondo la creazione del primo vaccino. Una gran buona notizia. Ma prima di poterlo usare, occorreva sperimentarlo. Si decise che sarebbe stato iniettato a due milioni di bambini, e un successivo esame del sangue avrebbe stabilito se i soggetti trattati aves-

sero realmente acquisito l’immunità. Ma questa verifica richiedeva milioni di test di “neutralizzazione”. Le cellule per farli provenivano dalle scimmie, uccise appositamente per quella necessità. Costavano, dunque, tantissimo.

Ma le HeLa risolsero il problema. Ciò che restava di Henriette servì a salvare tantissimi


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glia, ma soprattutto pone due problemi di grande momento che la Skloot affronta sentendo anche numerosi esperti. Spiega che nel 1951 la legge americana non prevedeva che il paziente esprimesse il proprio accordo al prelievo di tessuti per fini esclusivi di ricerca. Oggi invece c’è bisogno del famoso “consenso informato”. Negli States si sta sviluppando un diffuso dibattito che ritiene che questo non basti. Il soggetto che subisce il prelievo – dicono alcuni studiosi ed opinion maker – non deve solo sapere genericamente che le sue cellule serviranno alla ricerca scientifica, ma deve poter conoscere anche per quale ricerca verranno impiegati: se per la bomba atomica o per sconfiggere il cancro.

Sta crescendo, poi, il numero dei cittadini – esperti di etica, avvocati, medici – che premono per una nuova normativa che dia al paziente il pieno controllo dei propri tessuti. La questione è straordinariamente delicata: c’è chi sostiene la causa argomentando che «la scienza non è il valore supremo della nostra società», e c’è chi mette in evidenza i danni che ne deriverebbero alla ricerca: «La gente deve consentire all’uso dei propri frammenti di materiale biologico per l’avanzamento delle conoscenze e per aiutare gli altri; tutti traggono beneficio dalle scoperte, quindi tutti possono

bambini che rischiavano di contrarre la polio. Il suo enorme senso materno ne sarebbe stato gratificato. È questo solo il primo esempio di ciò che la scienza riuscì a fare da allora in poi con i suoi tessuti. Da quel momento prese corpo anche il grande business: la produzione della linea cellulare venne affidata ad un centro apposito, lo “Hela Distribution Center presso il Tuskegee Intitute”, una delle più prestigiose università per i neri degli Stati Uniti.

In sei mesi un team di ricercatori di colore mise in piedi un centro di produzione come non si era mai visto. La miserrima Henriette non solo aiutava a curare e guarire, non solo faceva progredire la ricerca, ma creava un enorme ricchezza. E qui siamo arrivati ad un punto delicato del libro di Rebecca Skloot, là dove si affronta il rapporto fra la famiglia Lacks e il business: la loro povertà e l’enorme giro

d’affari nato dalle cellule della madre. L’autrice del libro, che ha stabilito nei dieci anni in cui ha lavorato per documentarsi un rapporto privilegiato con la figlia di Henriette, Deborah, pubblica a pagina 23 un suo discorsetto semplice, semplice. Eccone il passaggio finale: «Se le cellule di nostra madre hanno fatto tanto per la medicina, com’è che la sua famiglia non può permettersi le visite mediche? Non ha proprio senso... C’è gente che ha fatto un sacco di soldi grazie alla mamma e noi non sapevamo neppure che le prendevano le cellule, e oggi non vediamo un centesimo. Prima mi arrabbiavo così tanto se ci pensavo, mi faceva star male, e dovevo prendere le pillole. Ma adesso non ho più la forza di lottare. Voglio solo sapere chi era mia madre».

Il discorsetto di Deborah allude ad un conflitto fra l’Hopkins Hospital e la fami-

accettare i piccoli rischi che derivano dall’uso dei tessuti in ricerca». Ma il problema non si esaurisce qui: c’è infatti la questione dei soldi. HeLa è stato ed è un grande business. Non per chi come George Gay ne osservò per primo la straordinaria capacità di riprodursi. Lo scienziato non si arricchì mai e credeva moltissimo al suo lavoro: tantoché – quando si ammalò di cancro al pancreas – fece di tutto per donare i suoi tessuti, ma glielo impedirono. Il problema dunque – secondo il libro della Skloot – non si pone tanto per i ricercatori, anche se nemmeno loro, sono immuni dagli effetti della commercializzazione, ma soprattutto per i grandi gruppi industriali che utilizzano i materiali biologici. Dice uno degli intervistati: «Tutti prendono soldi tranne quelli che mettono la materia prima». La questione è quindi quella del brevetto dei geni. Chi ne è il proprietario, ne acquisisce i diritti economici. Ma anche per questa strada si arriva alla medesima domanda di prima: non si ostacola, così facendo, il cammino della scienza? Baruch Blumberg, il premio Nobel che utilizzò gli anticorpi ottenuti da Ted Slavin per le sue ricerche sull’epatite B, dice alla Skloot che la commercializzazione nel complesso è una buona cosa: «Altrimenti chi ci fornirebbe le medicine e i test diagnostici di cui abbiamo bisogno?». Certo, c’è il rovescio della medaglia: «È innegabile che ciò abbia avuto conseguenze sulla scienza; ha cambiato lo spirito della ricerca». E ancora: «Gli scienziati sono diventati imprenditori. Il che fa del bene all’economia e ha creato incentivi alla ricerca. Ma ha anche causato problemi, come la segretezza e le liti per i diritti di sfruttamento». Figurarsi se si aggiunge anche la nascita dei “geni brevettati”. A questo siamo e con questo comunque non possiamo non fare i conti. Il dibattito è ormai aperto. Le cellule della dolce, inconsapevole Henriette si sono così tanto moltiplicate da entrare in molti ambiti scientifici: sono andate persino sulla luna. E proliferando hanno invaso anche i campi dell’etica e del diritto.

Tutto questo è accaduto senza alcun “consenso informato”. Allora la legge non lo prevedeva. Quanto alla sua adorata progenie, non vuole in nessun modo porre ostacoli alla ricerca. Dice uno dei figli: «Sono fiero di mia madre e di quel che ha fatto per il mondo. Spero solo che la gente di Hopkins e tutti quelli che hanno usato le sue cellule facciano qualcosa per onorare la sua figura e far pace con la famiglia» Ma se i Lacks chiudono il discorso così, in tanti ormai vogliono andare molto più avanti. E non sempre nella direzione giusta.


ULTIMAPAGINA Monsummano, paese d’origine di Ivo Livi alias Yves Montand, ne celebra i vent’anni dalla morte

La fuga di Ivo, un toscano di Marco Ferrari hi si ricorda che un’icona della cultura francese è in realtà figlio dell’emigrazione italiana? Yves Montand, il più grande artista della Francia del dopoguerra, ha infatti avuto i natali con il nome di Ivo Livi a Monsummano Terme, in provincia di Pistoia, a due passi dalla rinomata Montecatini. La Toscana si prepara dunque a celebrare un doppio anniversario: il novantesimo della nascita (avvenuta il 13 ottobre 1921) e il ventennale della scomparsa (9 novembre 1991). Ciò che non si era riusciti a realizzare in vita, si realizza ora che non c’è più: un rapporto ritrovato tra l’artista la sua terra d’origine. A cominciare dal teatro restaurato di Monsummano che porta il nome di Yves Montand. Un’iniziativa benedetta dall’ultima compagna dell’attore, dal figlio Valentino e dai parenti che sono rimasti sempre in Toscana. Yves Montand, infatti, non aveva mai perdonato al paese natale il fatto che la sua famiglia avesse subito le persecuzioni dei fascisti che avevano costretto il padre Giovanni, la madre Giuseppina e i loro tre figli (Lydia, Giuliano e Ivo) ad un precipitosa fuga a Marsiglia. «Nel 1954 - racconta l’ultima compagna, Carole Amiel, - Yves è venuto a Monsummano in segreto. Ricordo molto bene l’affetto che conservava per la terra di suo padre Giovanni, i ricordi di bambino poverissimo, costretto a emigrare in Francia a causa delle malefatte fasciste. Quando sono andata a Monsummano per l’inaugurazione del teatro mi sono commossa davanti alla casa paterna».

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Ma, di fatto, Yves Montand non rispose mai a nessuna lettera che i vari sindaci gli spedivano per invitarlo a a Monsummano a ricevere la cittadinanza onoraria. Così, non ha mai stretto la mano ad un primo cittadino del paese natale. I famigliari, invece, accettarono il gonfalone del Comune toscano ai funerali dell’attore al cimitero di Père-Lachaise dove fu seppellito accanto a Simone Signoret per poi essere riesumato nel 1997 a causa del contenzioso giuridico avviato da una ragazza che pretendeva di essere la figlia illegittima dell’attore, smentita però dalla analisi del Dna. «Nel 1982 - racconta ancora Carole - Yves ebbe il privilegio di cantare al Metropolitan di New York e aveva dedicato lo spettacolo proprio al padre e al suo sogno di emigrare in America da Marsiglia. Fatto questo che non accadde perché Yves incontrò la Francia, poi Parigi e il successo». Strano destino davvero: un italiano ha cantato e esaltato Parigi nel mondo intero ricreando l’atmosfera dei cabaret, la poesia di Prevert, lo spirito dei grandi boulevard parigini, come ha scritto il sindaco di Parigi Bertrand Delanoe. La lunga vita artistica, ripercorsa anche da una mostra di un centinaio di fotografie, manifesti di film, registrazioni e filmati, documenti di vita e contratti, iniziò a 17 anni a Marsiglia quando, provocato dal fratello, si presentò al primo impresario. Yves non poteva certo immagine che avrebbe raggiunto la vetta dell’Olympia. Il nome d’arte fu un omaggio alla toscanità della mamma, che quando il piccolo Ivo era fuori a giocare con gli amici francesi lo richiamava in casa con la frase: «Ivo mon-

A PARIGI ciale, partecipò a opere di sempre maggior spessore, quali La guerra è finita nel 1966 di Alain Resnais, e divenne l’attore prediletto del regista greco Costantin Costa-Gavras. Sotto la sua direzione sarà il protagonista di Z. L’orgia del potere del 1969, vincitore dell’Oscar al miglior film straniero, La confessione del 1970 e L’Amerikano del 1973. È del 1970 quella che è considerata la migliore prova della sua carriera di attore, nel capolavoro noir di Jean-Pierre Melville I senza nome dove vestì i panni di un ex-poliziotto alcolizzato trasformatosi in rapinatore.

Da bambino, il futuro attore e cantante lasciò l’Italia a causa delle persecuzioni fasciste. Non è mai più tornato: al nostro Paese non ha mai perdonato quelle violenze e quelle miserie ta, Ivo monta». Da qui Yves Montand. In mezzo alla sua prestigiosa carriera, le grandi tournée all’estero, la fama internazionale, l’incontro nel 1964 con il regista Costa Gavras, l’impegno umanitario e pacifista. Nel 1953 interpretò il protagonista Mario nel capolavoro di HenriGeorges Clouzot, Vite vendute, mentre nel 1960 lavorò negli Stati Uniti interpretando Facciamo l’amore di George Cukor a fianco di Marilyn Monroe. Il film, che non fu un grosso successo al botteghino, rimase celebre per la relazione che Montand intrecciò con la Monroe, all’epoca sposata con il drammaturgo Arthur Miller. Nella seconda metà degli anni Sessanta, in concomitanza con l’aumentato impegno politico e so-

Ma sono state soprattutto le donne a forgiare il suo modo di vivere: da Edith Piaf che dal 1944 gli fu accanto per tre anni avvicinandolo alla canzone popolare parigina, a Simone Signoret che sposò nel 1951, con la quale formò nella vita come in scena una coppia leggendaria, alle grandi attrici che con lui hanno condiviso esistenza e spettacolo come Marylin Monroe, Barbra Streisand, Romy Schneider. Certo, Monsummano restò ad una distanza abissale. Ciò che era stato Ivo Livi non poteva essere incarnato in Yves Montand. In quel distacco c’era la chiave della sua vita. La cugina Vera Livi Ginanni, che venne a visitare in occasione del film Tempi nostri del 1954 in lavorazione a Firenze, vuole sfatare il luogo comune dell’artista celebre che rompe i ponti con la famiglia. Lei andò molte volte a Parigi a trovare sia Yves che gli altri cugini e in una di quelle occasioni conobbe il celebre poeta Jacques Prevert. Quanto al rapporto con Monsummano l’attore preferiva sorvolare portandosi dentro le immagini della paura della famiglia fino alla decisione di fuggire all’estero andando incontro ad una vita piena di incertezze.


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