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ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 14 MAGGIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Dodici milioni di cittadini domani alle urne dopo una competizione lontana dai problemi della gente

Che noia destra e sinistra! Tengono bloccata l’Italia in risse ideologiche. La sfida del Terzo Polo Si è parlato con odio di Br, terrorismo, amnistie: mai dei temi cruciali di una nazione in crisi. Se c’era bisogno di una prova del “degrado bipolarista” è arrivata. Archiviamolo con il voto

Da Milano a Napoli, prigionieri del passato

Ma non ci illudiamo sulla rottura di Bossi

di Riccardo Paradisi

di Enrico Cisnetto

e a Milano il calendario è tornato agli anni Settanta dopo le accuse che il sindaco Moratti ha rivolto a tradimento allo sfidante Pisapia sulle sue frequentazioni politiche di trent’anni fa, a Napoli, con le promesse d’impunità per l’abusivismo e il pane allegato alla pubblicità elettorale, sembra invece d’essere tornati addirittura agli anni Cinquanta. Cioè a quell’epoca in cui l’armatore Achille Lauro dilazionava elargizioni di scarpe e beni di prima necessità agli elettori dei bassi. a pagina 4

o sempre pensato che queste elezioni amministrative, seppur politicizzate come non mai, avrebbero prodotto ben poche novità significative nel panorama politico italiano. Lo confermo a poche ore dal voto, e nonostante alcune improvvide uscite, come quella della Moratti nei confronti di Pisapia, e relativi contrasti, abbiano versato benzina sul fuoco di una campagna elettorale una volta di più tanto priva di contenuti quanto ricca di vergognose sceneggiate polemiche. a pagina 3

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L’economia cresce meno delle previsioni

Intanto il Pil scende: siamo il fanalino di coda dell’Europa

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Palmeri, Musy e Pasquino candidati a sindaci del Terzo Polo a Milano, Torino e Napoli

Nei dati Istat spunta la realtà nascosta dalla campagna elettorale. Montezemolo: «Questi leader ingessano ogni cosa. Ora serve coraggio» Francesco Pacifico • pagina 6

La Farnesina cita il vescovo di Tripoli: «Probabilmente il raìs ha lasciato la capitale ma non la Libia»

Frattini: «Gheddafi? Credo sia ferito» Poi litiga con Maroni che chiedeva: «Subito stop ai raid per fermare i profughi» di Pierre Chiartano

Bombe della Nato su un ufficio petrolifero

ROMA. La guerra in Libia vista da Roma e dalla Padania offre

Il regime denuncia: «Vittime civili a Brega»

prospettive diverse. Il guaio è che Roma e la Padania sono costrette a convivere nel governo. Proprio mentre il ministro dell’Interno chiede lo «stop immediato» dei raid della Nato per «fermare gli sbarchi di clandestini a Lampedusa», il collega della Farnesina deve smentirlo: «Il cessate il fuoco non è possibile.Tanot meno in questo momento perché sancirebbe la divisione in due della Libia, permettendo al regime di consolidarsi nella zona di Tripoli». Una doccia fredda sulle pretese leghiste di fermare con la bacchetta magica il flusso di profughi. Ma la vera novità di ieri è che il ministro Frattini, citando un’affermazione di qualche giorno fa del vescovo di Tripoli, ha detto che «Gheddafi ha lasciato Tripoli ma non la Libia. E questo solo perché probabilmente è stato ferito nel corso dei recenti raid sul suo bunker nella capitale». a pagina 8 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

di Gualtiero Lami

ROMA. Sarebbe di 16 morti e 30 feriti il primo bilancio delle vittime del raid aereo della Nato compiuto contro una zona residenziale di Brega. Lo ha annunciato un responsabile della compagnia petrolifera libica attraverso la tv del regime «al-Jamahiriya», che trasmette da Tripoli. Secondo il regime, il bilancio potrebbe aumentare. a pagina 8 NUMERO

93 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 14 maggio 2011

verso il voto

il fatto Domani dodici milioni di italiani andranno al voto per cambiare i sindaci: ma di loro e dei loro problemi si è parlato pochissimo

Tra insulti e promesse

Berlusconi urla («Vergognoso votare la sinistra!») perché si gioca il futuro, Bersani spera di non franare ovunque. Ma il Paese è scomparso dalle urne di Marco Palombi

ROMA. Tre miseri punticini. È questo, al netto degli indecisi, lo scarto che in alcuni sondaggi riservati realizzati l’11 maggio divide Letizia Moratti da Giuliano Pisapia ed è sempre questo il motivo delle falsità “giudiziarie”lanciate addosso al candidato del centrosinistra a partire proprio da mercoledì scorso. Anche le altre rilevazioni, in ogni caso, vedono il sindaco uscente senza la maggioranza assoluta dei voti necessaria per la vittoria al primo turno. Sarà l’affluenza, dicono i numeri, a fare la differenza: più è alta, maggiori possibilità ha Moratti di essere riconfermata subito. Al ballottaggio, invece, tutto tornerebbe in gioco, anche grazie ai voti dei grillini (Mattia Calise è accreditato di un 3,54%) e del candidato del Nuovo Polo Manfredi Palmeri, che dovrebbe attestarsi tra il 5,7 e l’8% e i cui elettori – dice sempre il sondaggio dell’11 maggio – per la metà sono orientati ad appoggiare Pisapia al secondo turno (Moratti, invece, attrae solo il 19% di loro). A palazzo Chigi, insomma, mercoledì s’erano convinti che gli indecisi sarebbero arrivati a colpi di Prima Linea e accuse di estremismo: per questo la sindaco, il Cavaliere e il ministro La Russa – per non citare che le punte di lancia – insistono nell’attacco personale all’avvocato vendoliano, curiosamente (quand’era in Parlamento) uno dei pochi uomini di sinistra a trovarsi su posizioni vicine a quelle berlusconiane su riforma della giustizia, garantismo e diritti dell’imputato. Si vedrà: se Moratti non vince subito Umberto Bossi, che ieri ha chiuso la campagna elettorale proprio a Milano, farà pesare tutto il suo dissenso per una strategia giocata sui toni sobri del “brigatismo” nelle procure e

nelle liste elettorali su indicazione – dicono le colombe di centrodestra – del duo Santanché-Sallusti, immortalmente ribattezzati da Vittorio Feltri «Rosa e Olindo». Ovviamente, infatti, nel Pd non tutti hanno staccato il cervello dalla spina dorsale. Un imbarazzato Gaetano Pecorella ieri, intervistato da Radio Radicale, ha provato ad “astenersi”da ogni valutazione, ma dopo aver ricordato il suo praticantato nello studio di Giandomenico Pisapia, padre di Giuliano, s’è lasciato scappare un “meglio parlare di programmi che fare attacchi personali”che era, questo sì, tutto un programma.

Milano è la cartina di tornasole, il luogo in cui Berlusconi si gioca tutto: «Queste elezioni hanno valore nazionale», ha continuato a ripetere ad ogni ora, evidentemente convinto che il suo esecutivo abbia più appeal dei suoi candidati. Ieri il premier ha chiuso la sua campagna elettorale nel centro sud, in due luoghi simbolo di queste amministrative: a Napoli, dove si gioca la sua immagine di “miracolista”, e Latina. Nel capoluogo campano sommerso dalla munnezza, che ieri ospitava pure Antonio Di Pietro, il Cavaliere continua a ripetere il suo repertorio, ieri ha persino resuscitato Bertolaso, condito con quelle che non si possono che definire menzogne. Una su tutte: ogni volta che ci sono le elezioni i magistrati napoletani mettono i sigilli alle discariche per far accumulare l’immondizia. Il procuratore capo della città, Giandomenico Lepore, gli aveva già rispo-

sto un po’ basito: non essendoci discariche nella nostra provincia non si capisce cosa avremmo chiuso. Tutta questa campagna elettorale è andata così: si arriva, si dicono le solite ovvietà, la si spara grossa e poi si butta un po’ di fango nel ventilatore per vedere l’effetto che fa. A Napoli, poi, forse in memoria di qualche ricorrenza riguardante Achille Lauro, il premier s’è spinto più in là: ha promesso che le case abusive, destinate alla distruzione da una sentenza del Tribunale, non saranno abbattute. «Faremo un decreto nel prossimo Cdm», ha sostenuto facendo assai incazzare la Lega. La traduzione, però, è un’altra: fatemi vedere come votate e poi vi lancio l’osso, un po’ come la scarpa sinistra prima delle urne e quella destra a risultato acquisito del fu armatore. Nell’ex capitale borbonica però, destinata al ballottaggio, si consuma pure una guerra tutta interna al centrosinistra: il candidato del Pd, l’ex prefetto Morcone, nei sondaggi è infatti testa a testa con l’ex pm De Magistris. Se il dipietrista arriva prima del democratico, sarebbe una mazzata per Pierluigi Bersani, soprattutto perché andrebbe a sommarsi al pasticcio delle primarie annullate per eccesso di cinesi. Peraltro la cosa farebbe pure piacere al candidato Pdl Lettieri, visto che i voti determinanti sarebbero quelli del candidato del Nuovo Polo Pasquino, che non andrebbero certo così a sinistra. A Latina, invece, dove si è precipitato in serata, Berlusconi tenta di evitare l’incredibile: che una città in cui l’elettorato di destra è


l’analisi L’esito del «referendum» sul premier dipende tutto dall’astensionismo

Saranno quasi dodici milioni di italiani che domani e dopodomani si recheranno alle urne per eleggere i sindaci. Una consultazione amministrativa che presto ha assunto un tono nazionale e che il premier ha trasformato quasi in un referendum su di sé. Proprio alla vigilia del voto, comunque, l’Agcom ha comminato multe molto salate a Tg4 e a Sky per la sproporzione in favore del Pdl

largamente maggioritario ci si ritrovi a rischiare il ballottaggio e magari la sconfitta. Lì imperversano infatti le guerre fratricide dentro al Pdl che hanno portato alla giubilazione dell’ex sindaco Zaccheo e il fantasma mezzo letterario e mezzo goliardico della lista “fasciocomunista” dello scrittore Antonio Pennacchi, che mette insieme pezzi di Futuro e Libertà con ex militanti della sinistra radicale. Ad accogliere il Cavaliere c’era Renata Polverini, che in questa tornata – con la presentazione delle liste col suo nome dovunque tranne che nella fu Littoria – tenta anche di accreditarsi come “padrona” del Pdl laziale contro Gianni Alemanno. In una condizione simile, ma rovesciata, si ritrova Rimini, storica roccaforte rossa in crisi da assenza di un nuovo modello di sviluppo, in cui la sinistra si presenta super-divisa (addirittura con due candidati di area Pd) e il centrodestra spera nel clamoroso ribaltone.

La Milano di Bersani, però, si chiama Bologna: dopo lo scandalo Delbono e il ritiro per motivi di salute dalle primarie del superfavorito Cevenini, il Pd rischia seriamente di andare al ballottaggio. Si vedrà all’ultimo voto e, se così fosse, il merito dovrebbe intestarselo tutto il candidato del Movimento 5 Stelle, Massimo Bugani, che nei sondaggi s’aggira poco sotto al 10% dei consensi, tutti pescati nell’elettorato di sinistra. Il candidato democratico Merola – sulle cui origini campane i leghisti e Tremonti hanno fatto battute raccapriccianti – comunque dovrebbe avere meno difficoltà a vincere al secondo turno, nonostante non sia un sindaco in carica come Moratti. Pare invece senza storia la corsa a Torino, dove Piero Fassino dovrebbe mantenere in gran parte il consenso dell’attuale sindaco e collega di partito Chiamparino: anche nel capoluogo piemontese l’unica variabile reale è rappresentata dal peso del candidato grillino in una regione in cui il buon risultato dei “5 Stelle” l’anno scorso costò la poltrona a Mercedes Bresso. L’ossessione del Cavaliere, però, resta la “sua”Milano dove il Pdl veleggia attorno ad un disperante 27%: domenica Berlusconi sarà allo stadio a festeggiare lo scudetto del Milan e voci incontrollate dicono che potrebbe trovare il modo di buttare lì un paio di promesse stellari per il futuro calciomercato, mentre lunedì se ne andrà in Tribunale a presenziare ad uno dei suoi processi ben a favore di telecamere. Gli servono gli indecisi, gli servono i tentati dalla giornata al mare: qualcuno a palazzo Chigi sostiene infatti che dopo le sparate contro Pisapia il consenso per Moratti sia addirittura sceso. Berlusconi e Milano: simul stabunt, simul cadent.

Ma non ci illudiamo sulla rottura di Bossi

Comunque vada, il voto è destinato a modificare gli equilibri all’interno della maggioranza. Ma non fino a una separazione di Enrico Cisnetto o sempre pensato che queste elezioni amministrative, seppur politicizzate come non mai, avrebbero prodotto ben poche novità significative nel panorama politico italiano. Lo confermo a poche ore dal voto, e nonostante alcune improvvide uscite, come quella della Moratti nei confronti di Pisapia, e relativi contrasti, abbiano versato benzina sul fuoco di una campagna elettorale una volta di più tanto priva di contenuti quanto ricca di vergognose sceneggiate polemiche. Si dice: ma se Berlusconi dovesse perdere Milano o non farcela a Napoli, allora…. Intanto sono circostanze che si devono verificare, ma se anche fosse, non credo che determinerebbero conseguenze decisive. Naturalmente, non mi sfugge la differenza: se il Pdl conferma la Moratti e si becca il sindaco di Napoli non è la stessa cosa che portare a casa un pareggio o addirittura una doppia sconfitta. Ma se quest’ultimo fosse il risultato, fin d’ora è chiaro che a determinare quelle sconfitte sarebbe l’alto grado di astenuti e non gli avversari politici. I quali, tutto andando bene, al massimo avranno la forza di confermare Torino (dove Chiamparino ha fatto molto bene e Fassino è un candidato credibile) e Bologna, ma certo nel caso dovrebbero ringraziare chi fosse rimasto a casa – ai ballottaggi, perché di passare al primo turno hanno chance i candidati del centrodestra, non quelli del centro-sinistra – e in particolare gli ex elettori di Berlusconi ora delusi dall’uomo e dal suo governo. Non si tratta di un dettaglio, perché questo significa che tutte le dinamiche post-elettorali possono esclusivamente verificarsi nell’area di maggioranza. E qui è all’ordine del giorno la domanda che un po’ tutti si pongono: la Lega mollerebbe il premier in caso di sconfitta a Milano? Qualcuno sostiene che in realtà gli uomini di Bossi – non si capisce se con il suo consenso esplicito o meno – farebbero loro stessi in modo che la sconfitta si determini, in modo da assestare un colpo mortale al sempre più ingombrante alleato, visto che ha voluto intestarsi personalmente la contesa meneghina. Altri dicono che proprio per quest’ultimo motivo, la Moratti rimarrà a Palazzo Marino e la vittoria sarà tutta del Cavaliere, il quale poi procederebbe a clamorosi cambi nella compagine governativa. A me, sinceramente, paiono tesi estreme e in quanto tali poco probabili. Più semplicemente, penso che se il centro-destra mantiene Milano, Berlusconi allenta un po’ le tensioni che lo riguardano – l’intensità dipende dalla vittoria al primo o al secondo turno della Moratti – mentre se lo dovesse cedere a Pisapia, quelle stesse tensioni si accentuerebbero.

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nulla a quella che è una pura e semplice constatazione dei fatti – quanto le sorti della legge elettorale. Si tratta di capire se ci sono le condizioni di un suo cambiamento, e se sì in quale direzione. Berlusconi ha tutto l’interesse ad usare il resto della legislatura per tentare di modificare la parte che riguarda il Senato, nel senso di omologare le modalità di assegnazione del premio di maggioranza a quelle che riguardano la Camera. Di fronte a questa ipotesi molti hanno già reagito e detto con chiarezza che si tratterebbe di una forzatura costituzionale che la suprema Corte bloccherebbe, ma tant’è Berlusconi ci proverebbe ugualmente, sapendo di non avere nulla da perdere.

Viceversa, se il premier perdesse Milano e fosse in difficoltà, allora sarebbe la Lega a dire cosa intende fare su questo decisivo punto. Di certo non asseconderebbe il tentativo di equiparare Senato e Camera. Avrebbe invece due diverse possibilità. La prima: lasciare le cose come stanno e andare a votare – quando è secondario – sapendo che la cosa più probabile sarebbe una situazione di stallo, con la Camera al centro-destra e il Senato al centrosinistra, nel quale la Lega risulterebbe decisiva e potrebbe giustificare l’addio al Cavaliere con motivi di forza maggiore («dobbiamo pur dare un governo al Paese»). La seconda: aiutare, o quantomeno non ostacolare, i tentativi di cambiamento della legge elettorale in senso opposto a quello voluto da Berlusconi. D’altra parte la Lega è sempre stata proporzionalista, e lo stesso autore della normativa attuale (il leghista Calderoli) ha definito una “porcata” il sistema inventato per assegnare un premio di maggioranza che in nessun altro paese esiste (si assegna di fatto attraverso o lo sbarramento o con il doppio turno). Naturalmente, Bossi non potrebbe essere il promotore di una tale iniziativa, che dunque spetta alle attuali opposizioni o alla società civile. Dubito che il Pd, in quanto tale, ne sia capace. L’Udc potrebbe farlo, ma dovrebbe fare i conti con chi nel Nuovo Polo deve decidere se confermare o cambiare le sue vecchie opzioni maggioritarie (Fini). La mia speranza – ma di questo parleremo subito dopo le amministrative, non appena saranno sistemate alcune cose che si stanno mettendo a punto – è che una richiesta di cambiamento venga dai cittadini. Per ora votiamo per i Sindaci. E vediamo se la tanto decantata epopea dei primi cittadini scelti dal popolo in chiave presidenzialista regge all’usura del tempo. Se si osserva la curva discendente dei votanti dal 1970 ad oggi, si vede come alle Politiche si è passati dal 94.4% del 1972 all’81,3% del 2008, mentre alle Regionali dal 92,8% del 1970 al 63,6% del 2009. E se ne dovrebbe dedurre che le amministrative sono decisamente meno seduttive per un elettorato sempre più stanco e disincantato. E che il partito degli astenuti è in grande crescita. Ma ne riparliamo la prossima settimana. (www.enricocisnetto.it)

Dopo i risultati, si infuocherà la polemica sulle modifiche da fare alla legge elettorale: solo allora si capirà chi ha vinto davvero le amministrative

Fino al punto di farlo cadere? Non credo. Non subito, almeno. La variabile sarebbe non tanto la Lega – che abbia in mano l’interruttore della legislatura lo abbiamo detto già nel 2008 e ribadito a maggior ragione dopo lo scontro Berlusconi-Fini, le amministrative non aggiungono e non tolgono


pagina 4 • 14 maggio 2011

verso il voto

Dal terrorismo che fu ai bigliettini dei candidati diffusi insieme al pane: la politica che arriva al voto guarda solo indietro

Prigionieri del passato

A Milano, la Moratti rispolvera toni (e temi) da anni di piombo. A Napoli Berlusconi recupera il «laurismo» promettendo di difendere l’abusivismo: i problemi reali del Paese sono spariti dalla campagna elettorale di Riccardo Paradisi e a Milano il calendario è tornato agli anni Settanta dopo le accuse che il sindaco Moratti ha rivolto allo sfidante Pisapia sulle sue frequentazioni politiche di trent’anni fa, a Napoli, con le promesse d’impunità per l’abusivismo e il pane allegato alla pubblicità elettorale, sembra invece d’essere tornati addirittura agli anni Cinquanta. Quando l’armatore Achille Lauro dilazionava elargizioni di scarpe e beni di prima necessità agli elettori dei bassi.

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Che queste elezioni amministrative fossero destinate a trasformarsi in elezioni politiche a valenza nazionale era del resto prevedibile e in parte anche fisiologico considerata la tendenza del premier Berlusconi a trasformare ogni appuntamento elettorale in un referendum pro o contro la sua persona. Ma, insomma, che l’ordalia stavolta si consumasse su temi, storie e schemi che risalgono a quaranta o a sessant’anni fa è il

segnale che il Paese rischia davvero l’avvitamento in una logica irrimediabilmente regressiva, l’invischiamento in una mentalità incapace di generare futuro e solo capace di scernere rancori incrociati e spirali d’odio dentro la rissa continua d’un bipolarismo selvaggio che non solo non prevede più sfumature, contaminazioni o confronti ma che addirittura non prevede più nemmeno prigionieri. Una guerra totale senza sbocchi che rasenta ormai la follia politica. Poi, certo, ogni follia ha un metodo e una logica. Il colpo sotto la cintura vibrato dalla “moderata”Letizia Moratti a Pisapia, all’americana, a fine trasmissione e senza possibilità di replica rientra nella strategia di cui sopra: trasformare una competizione amministrativa in una riedizione delle elezioni del ’48, in uno scontro cioè tra opposte visioni del mondo, ma ha anche un altro scopo. Quello di cancellare un candidato come Pisapia anche solo dall’orizzonte

ipotetico di un voto moderato in fuoriuscita dal Pdl nel caso Letizia Moratti non ce la dovesse fare lunedì al primo turno e si arrivasse al ballottaggio.

E in effetti, se è vero che quello della Moratti è stato un colpo basso è anche vero che il centrosinistra avrebbe potuto schierare un candidato diverso a guida della sua coalizione. «La sinistra ha sbagliato candidature: se avesse fatto scelte diverse a Milano sarebbe a un

In fondo, anche nel Pdl ci sono ex-militanti dell’estrema sinistra milanese

passo dalla vittoria. Quella di Pisapia non è la candidatura giusta» ha osservato il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini in una constatazione che di fronte a quanto sta avvenendo nel capoluogo lombardo è di semplice buon senso. Anche considerando che se i moderati non possono votare per Pisapia – per motivi politici e culturali - non votano nemmeno volentieri per un Pdl che come dice ancora Casini «si sta trasformando nella forza più

estremista di questa campagna elettorale. Siamo al paradosso che la Lega sembra la parte più moderata dell’alleanza tra Pdl e Carroccio».

Ma di paradossi, a cercarne, ce ne sarebbero ancora. Primo tra tutti quello per cui se è legittimo per la Moratti tentare di screditare un avversario per il suo passato politico non moderato, che dire di autorevoli dirigenti dell’attuale Pdl, alcuni nel recente passato molto vicini al premier, che provengono anch’essi dall’estrema sinistra milanese? O di un esponente di Forza Italia come Aldo Brandirali, già assessore al comune di Milano e leader, negli anni della contestazione, dei maoisti di servire il popolo? Ma questa è filologia. La sostanza di quanto sta avvenendo sta appunto nella sindrome del gambero che sta spingendo il Paese indietro, ad accucciarsi su vecchi rancori che funzionano da certezze; che porta il premier del governo a promet-


14 maggio 2011 • pagina 5

Parla il primo presidente della Lombardia, promotore di un patto tra sinistra e Terzo polo al ballottaggio

«Ma questo richiamo della paura non funzionerà con i moderati»

Piero Bassetti: il fantasma degli anni Settanta mobilita solo gli estremisti di destra, la borghesia professionale milanese sente il bisogno di cambiare di Errico Novi

ROMA. «Moderati? E lei crede che la politica della paura proposta da Berlusconi sia in grado di convincere i moderati? Guardi che l’eccesso di paura è appunto un eccesso. Moderato è definizione che richiama il modus in rebus. E chi come il presidente del Consiglio spinge tanto sul freno della paura fa un’operazione estremista». Di Piero Bassetti sorprende la capacità di navigare tra i canoni della politica novecentesca e superarli senza imbarazzo. Classe 1928, primo presidente della Regione Lombardia, rispettoso delle istituzioni tanto da lasciare lo scranno di parlamentare dc per guidare la Camera di commercio a Milano, Bassetti non si lascia impressionare dall’impennata finale di Berlusconi e Moratti. Non crede che la borghesia delle professioni si lasci spaventare e convincere dagli anatemi su Pisapia. E nemmeno che i moderati del Terzo polo li prenderanno sul serio. Anzi, con il suo ”Gruppo per il 51”, l’ex presidente di Unioncamere lavora proprio per convincere i moderati a sostenere Pisapia in caso di ballottaggio. «Nella mezza pagina che ci dedica oggi (ieri per chi legge, ndr) il Corriere della Sera edizione Milano, ci sono le firme di 101 professionisti, tra loro i più noti avvocati della città». Ma si sarebbe mai aspettato una campagna elettorale così proiettata nel passato anziché nell’Expo? Non mi meraviglio. Il degrado del dibattito politico generale non lascia spazio a illusioni. La cosa è deprecabile, certo. Io ho cercato di dare un contributo opposto. A cominciare da una bozza di piano perché Milano si candidi a essere una città “glocale”, la vera sfida che può dare senso all’Expo. Se però il campo di gioco è così impraticabile... Si tratta di portare attorno a Pisapia, a un blocco sociale alternativo a quello di Berlusconi, idee lungimiranti. Che Il Cavaliere ha dimostrato di non avere. Noi cerchiamo di risvegliare quella porzione di classe dirigente che in una città come Milano è costituito da una borghesia progressista. E Pisapia ha rivelato la forza di essere capace di aprire a simili aggregazioni. Il tema resta aperto, al di là della campagna elettorale. È in questa prospettiva che si muove il “Gruppo per il 51”. Tra le 101 firme c’è anche quella di Alessandro Profumo. Ma il richiamo al passato e alla paura non potrebbe essere persuasivo, invece, per quella borghesia professionale altrimenti incline ad astenersi? Non è vero che Berlusconi si rivolge a quella borghesia moderata. Oggi a Milano chi è moderato si sveglia,

non si rifugia nell’estremismo conservatore di Berlusconi. O della Moratti. Pisapia ha ragione quando dice “il moderato sono io”. E l’elettorato tendenzialmente progressivo si espone per Pisapia non certo in nome dell’estremismo, ma per l’indispensabilità di una politica progressiva qui a Milano. Indispensabilità che Berlusconi non ha colto. Lui cavalca la tigretta dei conservatori, della paura,

«Gli attacchi sulle frequentazioni giovanili possono favorire Palmeri. Cattolici spaventati dalle urla del Pdl»

dello star fermi: sicurezza, immigrazione, i giardinetti, le tariffe tranviarie. Temi di conservazione. Quindi il Cavaliere non è più in sintonia con quella borghesia professionale che è il cuore della città? Non ha più il polso della situazione. È un estremista della conservazione. Pisapia sa rappresentarli molto meglio. E poi c’è un’altra novità che sfugge. Quale? A Milano non ci sono più i partiti nel senso che non c’è più nessuno che parteggia, che si schiera secondo un “a priori”. E non ci sono più le classi. D’accordo, però dalle parti del premier dicono: con l’affondo sul passato estremista di Pisapia, si impedirà al Terzo polo di Manfredi Palmeri e ai suoi elettori di sostenere il candidato di centrosinistra in caso di ballottaggio. Come fanno i finiani, si afferma con questa tesi, a votare per uno che era vicino agli sprangatori di Sergio Ramelli? Intanto è stato Feltri a dire che Moratti ha fatto una sciocchezza. E poi Berlusconi continua a pensare che la paura di Pisapia estremista sia un elemento decisivo. Non lo è? No, non per la borghesia, diciamo così, illuminata. Quelle sono famiglie che il più delle volte hanno avuto un figlio militante in Lotta continua. Non si scandalizza lei che è un ex parlamentare democristiano. Lei oggi a Milano trova fior di classe dirigente che viene da Lotta continua. È il solito schema di Berlusconi che dice“sono tutti comunisti”. Slogan che funziona fino a quando dominante è la paura. Ma oggi prevale il desiderio di cambiamento, non la paura. Insomma: nessun imbarazzo, per i moderati. Guardi, l’argomento delle amicizie giovanili di Pisapia è significativo solo per gli estremisti di destra. Non lo è per la borghesia illuminata, e quindi moderata. E nemmeno per quella parte intelligente del Pdl che ha bollato l’uscita della Moratti come un autogol. Penso a Formigoni. Il sindaco uscente ha creduto in quello che non funziona più. Nell’idea che la gente decida in base a criteri obsoleti. La gente ha bisogno di un sindaco bravo. Non gliene frega niente che rubava le macchine da giovane. E comunque, quella frangia di persone incerte se dare il voto a Pisapia, al limite può essere spinta piuttosto verso il Terzo polo. Il moderato teme più l’estremismo della Moratti. E poi guardi, in certi ambienti conta ancora lo stile. Una sbandata così palese viene bollata nettamente anche da quella parte della società milanese più vicina alla Chiesa.

tere nuove sanatorie sull’abusivismo per incassare subito e con qualsiasi mezzo voti e consenso. Mariano Crociata, intervenendo al convegno per i 15 anni del Progetto Policoro della Conferenza Episcopale Italiana ha invece ricordato che «lo sviluppo complessivo delle regioni meridionali dipende dalla crescita ai nuove generazioni dotate di senso civico, rettitudine etica, capacità e dedizione, per costruire un tessuto sociale nuovo». Un riferimento non troppo velato a quanto sta avvenendo anche a Napoli. Mentre entra chiaramente nel merito della questione il presidente dell’Istituto Nazionale di Urbanistica Federico Oliva che definisce la promessa del premir sospendere le demolizioni degli immobili abusivi a Napoli «un ulteriore condono si propone per la Campania. La sospensione degli abbattimenti fino alla fine dell’anno è una misura italiana assolutamente ridicola. Il problema va affrontato definitivamente, o in un senso o nell’altro. Va messa in atto un’operazione di risanamento urbanistico territoriale gigantesca, che innanzitutto passa dall’arresto del fenomeno dell’abusivismo che continua invece ad essere in atto senza che lo Stato abbia gli strumenti per arrestarlo definitivamente». Tanto più che da quando sono iniziati i condoni edilizi, l’abusivismo è cresciuto. Del resto, che sia imbarazzante la posizione del Pdl su Napoli lo indica la reazione di Ignazio la Russa, uno dei coordinatori del partito di Berlusconi: «Se noi dovessimo consentire a Milano di garantire gli abusi edilizi sarebbe un errore, ma a Milano c’è un’altra amministrazione». Non è una scomunica del capo, ci mancherebbe!, ma insomma una prudente presa di distanze sì. «Quella di Berlusconi è una proposta che va verificata con le condizioni reali del territorio». Ognuno per se insomma e dio per tutti.

Ognuno per sé. Tanto che tra Pdl e Lega non si fanno troppi complimenti né a Milano né a Bologna. Ancora La Russa ricorda, durante un incontro elettorale nel capoluogo lombardo, che ci potrà anche essere a Milano un altro vicesindaco, magari leghista, ma nessuno sarà mai meglio di Riccardo De Corato, esponente Pdl e ex An di sicura fede. E poi anche questa storia del maggiore radicamento sul territorio della Lega - aggiunge La Russa - è una leggenda metropolitana: «Noi siamo cinque volte più radicati di loro». Insomma, tra identitarismo, tribalismo e regressione al passato, ferma da vent’anni sullo schema «pro o contro Berlusconi» l’Italia sembra un’auto guidata da chi guarda sullo specchio retrovisore.


La Ue prevede un incremento dell’1,6% mentre a marzo, da noi, siamo rimasti fermi all’1%. Meno degli auspici del governo

Per chi vota il Pil

A marzo l’economia rallenta e cresce meno della media europea. Le cifre rivelano ciò che la campagna elettorale non ha detto di Francesco Pacifico

ROMA.

In questa campagna elettorale si sono registrati importanti passi avanti sul versante della pacificazione nazionale (Letizia Moratti che dà del terrorista a Giuliano Pisapia, incurante che lo sfidante sia stato prosciolto per la stessa accusa dalla magistratura). È stato lanciato un imponente piano casa per la Campania (Berlusconi ha promesso che le case abusive di Napoli non si toccano. E non si abbattono). Intanto da Bologna è arrivata una lezione sull’integrazione, con Giulio Tremonti che prima canta con Bossi l’inno di Mameli e poi spiega che siccome sotto le Due Torri «troppe persone vengono da fuori» e meglio non votare per il casertano Virginio Merola. «Altrimenti il prossimo sindaco potrebbe chiamarsi Alì...».

Ma della crisi, del fatto che l’Italia cresce pochissimo (ieri l’Istat ha annunciato un+0,1 per il Pil nel primo trimestre) e che la disoccupazione giovanile corre inarrestabile verso quota 30 per cento, di tutti quegli argomenti che un tempo rientravano nella retorica dei problemi del Paese reale, di tutto questo non si parla in questa durissima campagna elettorale che ieri è volta al termine. Il Belpaese ha iniziato l’anno con molte incertezze. Reggono le entrate tributarie (+4,6 per

Il presidente della Ferrari chiede tagli alla spesa e alle tasse

«Questa politica blocca l’Italia» Montezemolo: «Serve coraggio per la crescita» ROMA. Proprio alla vigilia delle elezioni, e in contemporanea con la pubblicazione di dati macroeconomici non proprio positivi per il nostro Paese, Luca Cordero di Montezemolo ha rilanciato il “suo”manifesto politico-economico. «Nella condizione economica dell’Italia di oggi nessuno può fare miracoli, ma vedo un paese bloccato in cui la politica è interessata a tutt’altro»: ha esordito Montezemolo a un convegno nazionale dei giovani imprenditori edili. Il presidente della Ferrari ha parlato di una politica nella quale «vedo risse e contrapposizioni, che sono l’opposto di ciò di cui il paese avrebbe bisogno e per questo la lontananza tra chi lavora e la politica è sempre più grande. Questo paese è bloccato – ha aggiunto - ed è tanto più triste perché c’è un grande potenziale». Per l’ex presidente di Confindustria, il rilancio del paese «avrebbe bisogno che le persone più responsabili di entrambi gli schieramenti si mettessero d’accordo su poche fondamentali cose: per le famiglie, la crescita, le imprese». Rispondendo poi alla domanda di un giornalista che gli chiedeva se ci siano le condizioni per una crescita in termini maggiori rispetto a quelli attuali, Montezemolo ha affermato: «Speriamo... La speranza è l’ultima a morire. In Italia però ci sono sempre motivi esterni o interni, attentati, crisi, per rimandare le decisioni». Per Montezemolo il rilancio del Paese dovrebbe passare attraverso una politica «che metta al centro la crescita e risorse per gli investimenti».

Servirebbero, in particolare, «un forte e convinto taglio della spesa pubblica, il recupero dell’evasione fiscale per ridare agli italiani onesti quello che hanno pagato, le liberalizzazioni, politiche di promozione della concorrenza.Tutte cose – ha aggiunto - che non ci sono». Montezemolo poi ha dato un parere negativo rispetto alle possibilità di rilancio che potrebbe determinare il nuovo decreto sviluppo: «Chi lavora nelle nostre aziende paga un livello di tasse che non ha eguali in Europa, ma al contempo è impensabile tagliare le tasse se non si taglia la spesa pubblica. Inoltre in Italia le imprese che restano trovano un sistema che non incentiva la crescita, mette troppi vincoli, soprattutto per le piccole imprese». In sostanza, «ci vuole una coraggiosa politica economica che non mi pare ci sia». Infine Montezemolo, in qualità di presidente di Ntv, l’azienda privata di collegamenti ferroviari, ha messo l’accento anche su un’altra carenza che affligge l’Italia: «Non parliamo poi di concorrenza e di quello che sta succedendo a noi. In altri paesi ci stenderebbero i tappeti rossi, eppure abbiamo tremila difficoltà determinate dalla protezione di un monopolio. Questo dimostra che siamo molto lontani da una politica liberale e di mercato».

cento nel primo trimestre), molto vicine agli stock precedenti alla crisi, ma con la timidissima ripresa dell’attività il debito pubblico si attesta a 1.868 miliardi, in aumento del 3,7 per cento rispetto al 2010 e, come ha sottolineato il commissario Olli Rehn, «sempre più vicino al picco che si registrerà l’anno prossimo». E in mezzo a questi due dati c’è una crescita ancora troppo risicata. Tra gennaio e marzo 2011 l’Istat ha registrato un aumento del Pil dello 0,1 per cento rispetto al quarto trimestre 2010 e dell’1 secco rispetto a dodici mesi fa. Giulio Tremonti, che non nasconde la lentezza della nostra economia, dice che come noi stanno anche la Francia e la Gran Bretagna. Ma a guardare le stime diffuse dall’Eurostat, si nota come questa sfida al ribasso non sia una consolazione. Nel primo trimestre 2011 l’Eurozona è cresciuta dello 0,8 per cento e del 2,5 su base annua. A dicembre si dovrebbe registrare un +1,6 per cento, che dodici mesi dopo salirà fino a un +1,8. Ma questi numeri servono a poco se non si sottolineano le performance della Germania: +1,5 per cento del Pil nel primo trimestre e la Locomotiva che vola verso un +3 a fine anno. Nonostante «le prospettive più favorevoli dell’economia mondiale e con il sentimento di otti-


verso il voto

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«Lo scontro politico uccide le città» Secondo Giacomo Vaciago se «il sindaco è scelto da Roma non c’è prospettiva di crescita» di Franco Insardà

ROMA. «I problemi del Paese che aspettino. In campagna elettorale si litiga e basta». Caustico come al solito l’economista Giacomo Vaciago, con un passato da sindaco di Piacenza, fotografa il clima politico di queste ultime settimana. E i dati diffusi dall’Istat sulla crescita non sono incoraggianti. L’Italia ha rinunciato a crescere. O meglio anche da noi ci sono aziende in crescita: quelle che investono all’estero. Qui restano gli sfigati a lamentarsi. Professore, ci spieghi meglio... Ci sono due Italia: quella che ha capito il nuovo mondo e fa affari con i cosiddetti Bric e gli altri. A marzo è uscito un bel rapporto dell’Istat che consiglio di leggere ai nostri politici. Purtroppo loro non si documentano, parlano soltanto. Qual è l’argomento? È sulle multinazionali italiane. Dal rapporto si evidenzia che le aziende italiane con produzioni anche all’estero crescono molto di più rispetto a quelle che lavorano soltanto in Italia. Anche da noi, quindi, ci sono industriali,in gamba? Certamente, ma sono in giro per il mondo a fare affari. Questo divario crescente nell’economia italiana dovrebbe preoccupare il governo. Se ci fosse. Invece? In Italia si è realizzato una sorta di miracolo: la privatizzazione della politica. Con la conseguenza che si passa il tempo a parlare dei politici che dovrebbero, invece, occuparsi dei cittadini, come accade nei paesi normali. Le amministrative dovrebbero, però, essere un momento di confronto sul territorio. Non mi sembra che qualcuno sia interessato ai problemi delle città. Con una scarsa attenzione anche alla crescita. Se l’amministrazione diventa troppo politica

la città si divide e non ci può essere crescita. Nelle zone dove c’è capacità di fare squadra e la classe dirigente si occupa ancora del suo territorio le cose non vanno male. Anzi. Possiamo fare qualche esempio di best practies? Direi senz’altro Trento,Torino, Parma e Genova. Parliamo di realtà che in questi anni sono cresciute, continuano a farlo e sono state capaci di attrarre investimenti. A Trento sono arrivate la Microsoft e la Rolls-Royce e lo stesso vale per le altre città che ho citato: Torino, ad esempio, è rinata. Il merito è degli amministratori che si interessano del loro territorio e non si fanno condizionare dalla politica romana. Nonostante i tagli agli enti locali del ministro Tremonti? Un bravo amministratore può riuscire a fare a meno di buona parte degli aiuti del governo centrale. L’Italia che non c’è, invece, è quella governata da Roma. Un discorso leghista... Assolutamente no. Anche se il vincitore, non solo morale, di queste elezioni sarà Bossi. La Lega governa a Roma impedendo al governo di funzionare e dove amministra localmente fa crescere i territori. Intanto i test elettorali più importanti sono Milano e Napoli. In questi due casi non possiamo parlare di best practies. Due città prigioniere del loro passato. A Milano si evocano le Br, mentre a Napoli siamo ancora fermi al populismo laurino. Non solo. Sono diventate “romane”, cioè politicizzano tutto, dimenticando la virtù amministrativa nel fare bene le cose. Gli episodi dei quali parlava sono il contrario della buona amministrazione. Con eccessi al limite della legalità. Il tentativo, nel caso dell’abbattimento delle

Comuni come Trento, Torino, Parma e Genova continuano a crescere e sono state capaci di attrarre investimenti

mismo generale delle imprese», l’Italia chiuderà l’anno con un +1 per cento, che salirà all’1,3 nel successivo esercizio. E non c’è da meravigliarsene, perché Berlino conquista mercati tra gli emergenti, mentre Roma si salva dalla recessione grazie all’agricoltura. Eppure c’è un filo che lega le performance dell’Italia e le casse dei suoi tanti campanili. L’ultima manovra di Tremonti, quella che taglia i trasferimenti di 4 miliardi e mezzo verso le Regioni e di oltre due verso i Comuni, ha costretto Roberto Calderoli a inserire nei decreti del federalismo, nella riforma che accompagnerà il Paese nel prossimo secolo, lo stanziamento di 400 milioni per il trasporto pubblico o lo sblocco dei residui nei bilanci comunali. Ospite di un microfono aperto di Radio Radicale Enrico La Loggia, il presidente della Bica-

merale per il federalismo, ha già annunciato un nuovo provvedimento per riordinare il fisco municipale. C’è da aggiustare la parte della perequazione, visto che nei passaggi parlamentari si sono create pericolose sovrapposizioni tra i vari livelli locali. E le cose sono soltanto destinate a peggiorare. Se è vero che il legislatore ha ampliato la sfera dell’imposizione diretta (addizionali per le Regioni, cedolare secca, imposta di soggiorno o tasse di scopo per i Comuni) la periferia rischia di dover fronteggiare nei prossimi anni buchi di dimensioni spropositate. Il principale campanello d’allarme resta la finanza derivata, della quale hanno abusato giunta di centrodestra e di centrosinistra. Una minaccia che riguarda realtà grandi come Milano e Roma e piccole come Taormina. È di 48 ore fa la noti-

case a Napoli, è quello di ottenere voti da chi non vive nella legalità. Con queste premesse quali prospettive possono avere Milano e Napoli? Non crescono e si svuotano. I migliori elementi vanno via e contribuiscono allo sviluppo di altri territori più attenti all’economia mondiale. Eppure Milano ha un’occasione importante da sfruttare come l’Expo. Purtroppo parliamo di un’esperienza già segnata. Che è stata politicizzata al massimo. La sua realizzazione è in netto ritardo e se dovesse vincere il centrosinistra sarà accantonato, perché considerata una creatura del centrodestra. Doveva essere il futuro dei nostri figli e, invece, è stato trasformato in un affare politico. E l’innovazione, uno dei cavalli di battaglia dell’amministrazione Moratti, che fine ha fatto? Sono rimaste chiacchere. Politicizzare, così come è stato fatto, una città significa distruggerla. L’elezione diretta comporta che l’eletto sia il sindaco di tutta la città, che deve governare nell’interesse comune. Chi porta la politica nella campagna elettorale in modo eccessivo, come succede da qualche anno, tradisce la riforma Ciaffi del 1993. I buoni sindaci sono quelli, invece, che governano non da politici, ma da amministratori di tutti i cittadini. Le città nella quali il sindaco è scelto dalla politica nazionale non hanno prospettive di crescita.

zia che il Gico di Messina, ha attuato un sequestro preventivo ai danni della Bnl di ben 17 milioni di euro. Secondo i sostituti Lo Forte e Di Giorgio l’istituto – che smentisce tutti gli addebiti – avrebbe tratto un «presunto profitto illecito» ai danni della ammini-

tra «un forte squilibrio informativo tra le parti protagoniste della sottoscrizione dei contratti» e l’ignoranza dei funzionari.

S t i m e p r u d e n z i al i d i c on o che casi come questi coinvolgerebbero oltre 600 enti comunali, provinciali o regionali per

Giulio Tremonti sottolinea che «soltanto la Germania fa meglio di noi». Ma il Belpaese evita di finire in negativo grazie all’agricoltura, perché industria e servizi restano fermi al palo strazioni di Messina e di Taormina, attraverso l’emissione di due contratti a tasso variabile, con i quali i Comuni speravano di recuperare rispettivamente un debito da 205 milioni di euro e uno Taormina di 7 milioni contratti con la Cdp. Dietro l’operazione i magistrati vedono il combinato disposto

operazioni pari anche 35 miliardi di euro. Contratti che per le amministrazioni e i giudici non vanno onorati e che per la Consob e l’Abi devono veder riconosciuti anche il margine di intermediazione. Eppoi c’è il capitolo utilities, che saranno anche delle mucche da mungere, ma che pre-

sentano in bilancio consolidati passivi, che senza i trasferimenti statali potrebbero diventare insostenibile. Il centrostudi di Mediobanca e la Fondazione Civicum hanno calcolato che gestioni clientelari e scarsa innovazione arrecano ogni anno nei principali comuni italiani perdite vicine al miliardo. Il prezzo del petrolio e le asimmetrie nella distribuzione hanno garantito alle utilities energetiche grandi guadagni. Ma l’altro lato della medaglia è la gestione dell’acqua. Secondo il Censis «un colabrodo non degno di un Paese avanzato che perde per strada 47 litri ogni 100 immessi in rete, con un danno di 2,5 miliardi l’anno». Problemi e deficit talmente grandi che è più facile mobilitarsi contro lo scippo dell’acqua pubblica o un avversario che soltanto qualche leggenda popolare vuole un terrorista.


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politica

A Lampedusa ancora sbarchi di clandestini. Per il titolare degli Esteri, «il raìs ha lasciato Tripoli ma non il paese»

Frattini: «Gheddafi è ferito» Il Viminale: «Basta raid per fermare i profughi». La Farnesina: «Non si può» di Pierre Chiartano

«Il colonnello Gheddafi è in fuga da Tripoli, ma non dalla Libia». È questa l’ipotesi sulla sorte del rais secondo il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini. Per Frattini «un dato è certo: la pressione internazionale ha verosimilmente provocato la decisione da parte di Gheddafi di mettersi al riparo in un luogo più sicuro». Poi la questione cruciale sollevata da Maroni che ha chiesto di fermare i raid: «Ora sarebbe come dividere in due la Libia. Nessuno può volere una soluzione simile» ROMA. Lampi sul governo di Roma. Tra clandestini – ieri ne sono arrivati più di mille – e conflitto libico, continuano a emergere polemiche. Divergenze d’opinioni, dirà qualcuno, ma in realtà volano bombe, missili e giubbotti salvagente. Per il ministro degli Interni, Roberto Maroni i bombardamenti sono quelli alimentano la fuga dalle coste del Nordafrica. Per il responsabile della Farnesina, invece, gli attacchi devono proseguire fino alla vittoria. Si ripropongono, questa volta in salsa etnica, le frizioni tra Lega e Pdl, forse complice la campagna elettorale per Milano che rende “nervosi” i compagni del senatur. Comunque sia, quelle dei disperati che arrivano dal mare sono vite sospese tra cielo e mare, tra passato e futuro, perché il presente è costituito solo dall’ansia di arrivare a terra, vivi. Non dovrebbero essere dunque materia per distinguo, ma per un’azione «efficace, rapida» e umanitaria, se vogliamo proprio imitare i discorsi della Casa Bianca. Ogni polemica è inutile. Ieri sono ricominciati gli sbarchi di profughi provenienti dalla Libia: un altro migliaio di disperati sono approdati sulle coste siciliane, spinti anche dalla sempre più convulsa situazione in Cirenaica e Tripolitania. Si spera che tra loro non si nascondano messaggeri di

La Tv di Stato mostra gli effetti di un bombardamento

Il regime: «Vittime civili a Brega» di Gualtiero Lami

ROMA. Sarebbe di 16 morti e 30 feriti il primo bilancio delle vittime del raid aereo della Nato compiuto contro una zona residenziale di Brega. Lo ha annunciato un responsabile della compagnia petrolifera libica attraverso la tv del regime «al-Jamahiriya», che trasmette da Tripoli. Secondo questa fonte, il bilancio potrebbe aumentare perché ci sarebbero ancora altre persone sotto le macerie. Nella palazzina colpita abitavano lavoratori della compagnia petrolifera libica. La Nato, dal canto proprio, non commenta la notizia e preferisce parlare delle operazioni nel loro complesso: «La missione militare in Libia sta registrando «progressi reali», con una distruzione significativa - ha precisato il portavoce Carmen Romero - «della macchina militare del regime di Gheddafi». Ieri si è appreso poi che le motovedette del rais hanno attaccato con artiglieria e batterie antiaeree unità navali britanniche, canadesi e francesi in servizio di pattugliamento nelle acque libiche, le quali

hanno risposto al fuoco senza essere colpite. È accaduto poche ore dopo la conquista dell’aeroporto di Misurata da parte delle forze ribelli. Altri particolari, poi, sono stati resi noti sull’uccisione di un cittadino francese a Bendasi, giovedì. Era un ex militare di 47 anni, fondatore e titolare di una società per la sicurezza privata che assoldava ex soldati. Pierre Marziali, questo il nome della vittima, aveva fondato nel 2003 la Secopex, che sul suo sito Internet si presenta come «società di appoggio strategico ed operativo» ed ha sede a Carcassonne, nel sud-ovest della Francia. Raggiunta telefonicamente, la società ha confermato che alcuni dei suoi uomini sono presenti a Bengasi ma ha rifiutato ogni altro commento. Nella vicenda risultano ancora agli arresti altri quattro francesi. Marziali fu sottufficiale del 3/o reggimento paracadutisti fanteria navale di Carcassonne. Secondo le fonti, le attività della Secopex sono spesso finite nel mirino dei servizi di informazione francesi.

morte, come paventano gli esperti dell’antiterrorsimo italiani. Dai tempi dell’antica Grecia le migrazioni sono state uno strumento d’infiltrazione d’interessi ostili per un Paese che le subisca. Per il momento sono solo messaggeri di liti, in seno alla maggioranza. Maroni guarda sgomento l’esodo biblico e non vede entrare nel proprio orizzonte l’azione dell’Europa. Frattini sembra eccitato dall’odore della battaglia e dalla caccia al colonnello, che vede prossima a una conclusione. Sul rais infatti dichiara: «propendo per una fuga da Tripoli, non una fuga dalla Libia».

«Quando mercoledì sono apparse immagini di Gheddafi ho avuto molti dubbi che quelle riprese fossero state fatte in quel giorno, e soprattutto a Tripoli» ha detto ancora Frattini. Quanto alla possibilità che il colonnello si nasconda in un’area desertica nel centrosud della Libia, il ministro ha commentato: «noi non lo sappiamo, ma c’è sicuramente un effetto di disgregazione all’interno del regime che è quello che noi auspicavamo». E intanto flirta col governo di Londra che sulla vicenda libica non ha fatto proprio delle cortesie all’Italia, reggendo il gioco a Parigi e all’Eliseo. Ma ora sembra che per il governo di Roma funzioni la politica dei sorrisi: fare buon viso a cattivo gioco. Sulla sponda del Vi-


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

minale, invece, si va dritti al sodo, seguendo una rotta ben diversa da quella della Farnesina. «Abbiamo sollecitato e solleciteremo ancora un’azione forte della diplomazia che ponga fine alla guerra in Libia, altrimenti non c’è modo di fermare gli sbarchi» ha affermato, sempre ieri, Maroni, a margine della festa della Polizia penitenziaria a Roma. Alla Nato ci si barcamena, dovendo dare conto con voce unica a un gruppo di Paesi dove molti vanno per conto proprio sulla Libia. Infatti la portavoce della Nato, Carmen Romero, dichiarava che la missione militare in Libia sta registrando «progressi reali», con una distruzione significativa «della macchina militare del regime di Gheddafi». Il che significa che i ribelli finalmente stanno ingaggiando le truppe lealiste, costrette a schierarsi sul terreno, e quindi individuabili dai raid aerei. Ma novità in questo senso non ce ne sarebbero. Dichiarazioni di ”circostanza” dunque.

L’Alleanza, inoltre, ritiene che «significativi miglioramenti» siano stati fatti a Misurata dove giovedì – ha riferito invece il portavoce militare Mike Brancken – non sono stati riportati attacchi ai civili. Brancken, poi, ha aggiunto che la Nato non ha prove per confermare se l’apparizione televisiva del colonnello Gheddafi di due giorni fa sia reale: «Non abbiamo persone sul terreno, non siamo in grado di confer-

crimini contro l’umanità. Ormai il nuovo confine dell’Europa corre sul mare tra Italia e Nordafrica. Sulla marea umana carica di disperazione, aspettative e qualche volta di semplice opportunismo si sta giocando una partita che vede l’Europa ancora divisa. Da una parte quella calvinista e protestante delle regole che vanno rispettate a prescindere, e che guarda sempre col sopracciglio alzato i partner meno ligi agli adempimenti comunitari, Dall’altra c’è l’Europa mediterranea, quella che le regole non le rispetta e ora invoca Bruxelles, Frontex e la solidarietà dell’Unione. Ieri più di mille profughi sono approdati sulle coste siciliane, scatenando la reazione del ministro degli Interni Roberto Maroni, quello a cui l’Europa piace a giorni alterni. «Noi non ci lamentiamo, stiamo lavorando in nome e per conto della Ue ma da soli» aveva

sbottato il politico leghista qualche giorno fa alla riunione dei ministri degli Interni europei. Ieri poco dopo le sette del mattino era sbarcato al porto di Lampedusa il primo dei sei barconi di profughi avvistati giovedì sera nel Canale di Sicilia. Sull’imbarcazione c’erano 166 profughi, tra cui nove donne e quattro bambini ancora piccoli. I migranti sono quasi tutti in buone condizioni, fatta eccezione per quattro persone portate al Poliambulatorio dell’isola per un controllo sanitario. Poco prima di mezzogiorno è approdato al porto commerciale di Lampedusa il secondo barcone scortato da una motovedetta della Guardia di finanza. Trasportava 265 i profughi. Tra loro ci sono 16 donne e tre bambini. E anche alcuni immigrati tunisini. Alla domanda sul perché siano arrivati insieme ai profughi, spiegano «siamo partiti dalla Libia insieme agli altri perché dalla Tunisia è più difficile partire». A dimostrazione che forse Tunisi sta rispettando gli accordi persi con Roma. A pochi minuti di distanza, un’altra imbarcazione era arrivata con a bordo un centinaio di migranti, anche questa volta provenienti da Paesi subsahariani. Come se la fuga verso la libertà pescasse i suoi protagonisti in un supermercato delle umane miserie e della disperazione. Con l’arrivo di altre cartte del mare si si è trattato di circa mille persone. Nella notte, una nave militare francese della Nato aveva soccor-

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Giallo su una barca con centinaia di persone a bordo, che ha lanciato un sos poco dopo aver lasciato le coste libiche mare la sua apparizione», ha affermato. Il fatto che si parli già di «apparizioni», la dice lunga sulla situazioni in Libia. Un conflitto che secondo molti osservatori, e tra questi Edward Luttwak, sul campo non ci sarebbe, se non per le vittime civili. Qualche punto di contatto tra le due vicende esisterebbe, quindi anche tra Viminale e Farnesina ci si potrebbe intendere, ma evidentemente non fa premio sulle polemiche. L’invio dei barconi colmi di migranti verso l’Europa deve essere considerata come «uno strumento criminale» che viene usato dal regime libico di Gheddafi per esercitare pressioni, ha ammesso il ministro degli Esteri italiano.Secondo il capo della diplomazia, tali crimini «dovranno essere considerati nel dossier della Corte Penale Internazionale». Ieri, infatti, il procuratore della Corte penale internazionale, Luis Moreno-Ocampo, ha reso noto che lunedì emetterà mandati d’arresto per tre dirigenti del regime libico considerati responsabili di

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so, nel Canale di Sicilia, uno dei sei barconi. L’imbarcazione, come si è poi appreso, si è avvicinata a uno dei barconi in difficoltà fornendo soccorso ai migranti e dando loro acqua e viveri.

«A Lampedusa continuano ad arrivare profughi dalla Libia. Mentre con la Tunisia funziona l’accordo di rimpatrio, in Libia c’è la guerra e finché dura la guerra arriveranno i profughi», ha sottolineato il ministro dell’Interno. «Questo è il problema – rimarca il titolare del Viminale – e per questo abbiamo sollecitato e risollecitiamo un’azione forte della diplomazia che ponga fine alla guerra in Libia. Altrimenti – avverte Maroni – non c’è modo di fermare questi sbarchi». Per il capo del Viminale «l’Europa non sta facendo quello che si è impegnata a fare. Un mese fa ha poi concluso il ministro dell’Interno – aveva deciso di prendere alcune iniziative, che dopo un mese non sono state ancora prese».

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società

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Molti applausi per la presentazione di «Habemus Papam» al festival CANNES. Applausi, consensi e qualche risata. Nanni Moretti ritrova a Cannes humour e loquela in occasione della presentazione di Habemus Papam., proiettato ieri mattina per la stampa in un clima di riverente complicità. Desta particolare ilarità tra i giornalisti francesi la battuta su Sarkozy che si complimenta con il pontefice appena eletto. Sui titoli di scoda scatte un battimano convinto, forse non oceanico, ma certo sentito.

Il regista di Ecce Bombo ha d’altra parte un feeling speciale con la kermesse transalpina, che già lo vide trionfare qualche anno fa con l’indimenticato La stanza del figlio. Ma è alle undici del mattino che Moretti dà il meglio di sè, quando si presenta alla conferenza stampa con Margherita Buy, Michel Piccoli, gli sceneggiatori, l’ad di Rai Cinema Paolo Del Brocco e il produttore Domenico Procacci. E l’attore francese, protagonista del film di Moretti nei panni del cardinale Melville e vero e proprio totem del cinema d’Oltralpe, riceve un’autentica ovazione. ”«È stato ancora meglio di come lo conoscessi – racconta Moretti – Soprattutto a film concluso, mi sono reso conto dei suoi silenzi, dei suoi sguardi, del suo modo di camminare e di tutto quello che ha apportato al personaggio e soprattutto al film.Senza di lui questo film sarebbe stato più triste». E Piccoli, candidato al premio come miglior attor protagonista, chiarisce che la sua carriera potrebbe concludersi con l’opera di Moretti, nella quale ha cercato di «incarnare questo Papa doppio, un Papa d’angoscia e gioia nel credere in Dio». Ma le antenne francesi, quasi nella stessa misura di quelle nostrane, erano puntate soprattutto sulla ricerca di polemiche, parole forti, spunti critici contro la Chiesa o il Vaticano. «Le critiche sono isolatissime e non rappresentative. Non ne ho approfittato per fare la vittima, un ruolo che non mi piace interpretare», precisa il regista italiano. Ma il clima festevole, e una certa matura pacatezza esibita da qualche anno, permettono al regista di rispondere sul punto con grande equilibrio. Stuzziato sull’accoglienza riservata al film dall’altra sponda del Tevere, Moretti spiega che «gli

Cannes festeggia il papa di Moretti Il regista: «Non parlo dell’Italia di oggi. E comunque non ce l’ho con la Chiesa» di Francesco Lo Dico

integralisti ci sono in qualsiasi religione ma sono state pochissime le reazioni dure, non rappresentano la sensibilità del mondo cattolico. Sono isolate».

Parato il primo affondo, la domanda diventa allora più diretta. «C’è ingerenza del Vaticano nella politica italia-

Michel Piccoli, interprete del cardinale Melville in “Habemus Papam”. In alto, il regista del film: Nanni Moretti

Sui titoli di scoda scatta il battimani della critica e degli invitati. Poi, sulla Croisette, la gag con Michel Piccoli: «Grazie a Dio sono ateo» na?». «C’è sempre stata – chiosa il regista – una volta forse veniva vissuta dai partiti con meno agitazione. Io mostro nel film dei fedeli che

quando Papa Melville afferma che c’è bisogno di un cambiamento, di una guida che porti amore e comprensione per tutti, applaudono felici». E dal fenomeno collettivo, l’indagine scende nel privato. «Che rapporto ha con la religione?». «Non sono credente fin da quando ero ragazzo. In La messa è finita e in questo film, non si sente quella voglia di andare contro l’istituzione, contro la religione,

tipica di chi è stato educato profondamente al cattolicesimo e poi si è ribellato. C’è chi si aspettava un film ‘contro’, un film di denuncia. Ma io non volevo farmi condizionare dall’attualità». E Moretti fa anzi notare che l’istanza di cambiamento tratteggiata dall’arringa finale del suo Melville, ha più di qualche addentellato nella realtà, specie in rapporto alla scottante attualità. «L’atmosfera è cambiata. La Chiesa, un po’ in ritardo, si è sentita in dovere di chiedere scusa, di denunciare la vergogna dei preti pedofili». E sempre in chiave di attualità, il regista romano ha tenuto a scansare alcuni equivoci, invero del tutto insensati, sorti anche in Italia nel corso del lancio di Habemus Papam. «Il personaggio che interpreta Michel Piccoli non si ispira neanche lontanamente al Papa, tantomeno a Karol Wojtyla: ho voluto raccontare il mio Vaticano con il mio Papa», chiarisce. E del cardinale Melville, ha fatto discutere molto quell’urlo, così tanto umano, lanciato da Michel Piccoli in preda a una crisi di panico in uno dei momenti chiave della pellicola. «È un grido che vuol dire tante cose – commenta Piccoli – ma soprattutto: non posso, non ce la faccio. Una cosa che capita a tutti noi quando ci troviamo di fronte ad un impegno importante che ci chiede tutta la nostra responsabilità». Ma la gravità trascolora presto nella battuta. «Ho dovuto ripeterlo venti volte per trovare quello giusto. Mi è stato anche richiesto di farlo in una trattoria dove ero andato a mangiare». E siccome non c’è incontro con Moretti che non contempli una domanda su Berlusconi, e dieci altre che vi alludono nelle maniere più immaginifiche, Nanni fiuta l’aria prim’ancora che si sposti. «Il film ha riferimenti alla politica?». E qui Nanni, dissimulando il fastidio, lascia tutto a una risposta secca: «No». L’unica zampata a favore di pubblico Moretti la concede sul suo rapporto con la fede: «Grazie a Dio sono un ateo, non credente ma senza esagerazione: quello che mi interessava era far incontrare due mondi che non si incontrano mai».

A chiudere, tra le facce soddisfatte dei giornalisti, una gag che suggella l’incontro. Moretti solleva la mano benedicente verso Michel Piccoli, e disegna per aria la croce. C’è da giurare che al conclave di Cannes, qualcuno si sia segnato il Papa di Moretti.


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Nicola Fano na biografia è qualcosa di più di un libro: è un’ossessione. Perché per scrivere una biografia che si rispetti bisogna almeno identificarsi nell’oggetto della propria ricerca, bisogna vivere la sua vita, bisogna ripercorrere le sue emozioni e cercare di avere le stesse reazioni così da mettere in fila ogni avvenimento dietro all’altro. Una pretesa irragionevole. Perché se la vita è un giro di perle casuale di eventi, la biografia ha l’obbligo di svelare le ragioni razionali di quei casi: una biografia presuppone che il caso non esista e che tutto sia spiegabile. Ossia raccontabile. Questa, naturalmente, è una legge che vale per le biografie vere, le biografie cosiddette scientifiche, cioè quelle che si limitano a descrivere minuziosamente una vita; e non per le biografie romanzate, ossia quelle che ricamano sui documenti e sulla realtà documentabile. Dei grandi personaggi, per esempio, abbiamo sempre l’una e l’altra: una biografia vera e una romanzata e non è nemmeno detto che l’una contraddica l’altra. Per dire, di Shakespeare abbiamo diverse autentiche ricostruzioni basate solo sui documenti: quella colossale di Schoenbaum e quella Nelle sue recente di Greenopere il riscatto blatt si basano

U

Marquez tra vita e letteratura

GGM, IL PIÙ SOLO DEL NOVECENTO Parola chiave Rischio di Sergio Belardinelli

Un convegno a Faenza per Claudio Marabini di Leone Piccioni

dall’abbandono familiare. È la tesi della nuova biografia del grande scrittore colombiano Gerald Martin, che è riuscito a ripescare dalla memoria privata o collettiva i tratti dei modelli dell’autore di “Cent’anni di in modo analogasolitudine” mente rigoroso sui

NELLA PAGINA DI POESIA

Lo tsunami spiegato da Campanella di Silvia Zoppi Garampi

C’era una volta Audrey Hepburn di Orio Caldiron

Ci vorrebbe Omero per raccontare l’Algeria di Anselma Dell’Olio

medesimi documenti eppure arrivano a una conclusione diversa su un dato fondamentale. Per il primo, Shakespeare fu tiepidamente protestante, per il secondo fu tiepidamente cattolico.

Sulla strada dell’iconoclastia di Marco Vallora


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E - tanto per capire la differenza in questione - la biografia romanzata (molto, molto amabilmente romanzata) di Anthony Burgess propende per uno Shakespeare cattolico, ma solo congetturando e assai inventando. Insomma: non basta la fedeltà ai documenti per avvicinarsi alla realtà, ma ogni studioso deve pur ammettere che una biografia romanzata e una scientifica analogamente servono a definire il profilo di un individuo. Tutto ciò vale anche per Gabriel García Márquez. Con una differenza apparentemente assurda: che se la biografia scientifica del grande scrittore colombiano l’ha scritta ora un inglese (Gerald Martin, Vita di Gabriel García Márquez, Mondadori, 668 pagine, 35,00 euro), quella romanzata García Márquez se l’è scritta da sé (Vivere per raccontarla). E non è che le due tracce non coincidano né che i due libri descrivano cose differenti, ma insomma… Senza contare l’ulteriore paradosso che i grandi romanzi di GGM (Cent’anni di solitudine, La mala ora, L’amore ai tempi del colera, Nessuno scrive al colonnello) sono tutti parecchio autobiografici; anche se

mescolano le cose vere della vita dell’autore ad arte. Ebbene: se a leggere la monumentale biografia scientifica di Martin accade spesso di perdersi nel gioco della riconoscibilità dei personaggi e delle situazioni nel canone di GGM, figuratevi che cosa deve essere stato per l’autore scriverla! Una doppia ossessione. E infatti Martin lo dice, in premessa, di aver inseguito per anni un incubo fatto di confusione e depistaggi, nel quale solo alla fine è diventato per lui agevole orizzontarsi. Salvo compilare un testo di migliaia di pagine che, in vista dell’edizione a stampa, hanno dovuto essere tagliare drasticamente fino alle seicento e passa finali. Perché Martin, per «contraddire» i romanzi di GGM ha dovuto portare una quantità di pezze d’appoggio spaventosa, talvolta rischiando di perdersi e far perdere il lettore. Salvo che in conclusione, risvegliati dalla lettura-incubo di questo memorabile libro, di GGM se ne sa davvero di più. E questo, per una persona che lo abbia seguito in tutte le sue capriole (tutti i suoi libri e tutte le sue interviste) è un mezzo miracolo. Ma quel che si scopre è esattamente quello scarto apparentemente impercettibile tra la certezza e il romanzo di una vita. A dimostrazione (ecco il pregio maggiore di questo libro) che la vita non è né scienza né romanzo, ma quel che c’è in mezzo.

E allora, che cosa c’è, in mezzo? Martin propende per un’estrema solitudine e nelle sue lunghe e sapienti pagine si sofferma a lungo non soltanto sugli abbandoni, ma anche sulla fatica sostenuta da GGM per recuperare gli strappi e per digerire gli abbandoni. Per perdonarli. Al punto che il suo romanzo proverbiale intitolato proprio alla solitudine è visto sia come un transfert analitico sia come un gesto riparatorio: come un atto compiuto da un dominus che con la scrittura (propria) ripara i guasti della vita. Ed ecco il senso della frase che GGM ha messo a suggello della propria esistenza in occasione della pubblicazione dell’autobiografia: «La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla». Scrivendo di sé, della propria infanzia e della propria famiglia GGM ha messo a posto le cose che il caso aveva reso eccessivamente dolorose. Ma per non tradire fino in fondo il senso delle vite vissute, l’auanno IV - numero 18 - pagina II

ggm, il più solo del

novecento

tore non ha potuto fare a meno di creare un circolo di solitudine: si può giocare con il destino solo fino a un certo punto. E allora ecco che Martin (in questo quasi un alterego di GGM) compie il percorso a rovescio: dall’idillio della letteratura torna alle ferite della vita. Che sono quelle di un bambino abbandonato, cresciuto con i nonni senza una regione apparente, in un villaggio dimenticato dal progresso e immerso nella leggenda dei secoli passati. Case bianche e basse, vite abbozzate e magie autentiche, con la mano del nonno Nicolás cercata quale unica certezza. E i genitori in giro per il nord della Colombia a cercare vita, chissà perché senza il primo figlio! Una storia esemplare del primo Novecento, nella quale sembra di poter rivivere - per esempio - quel modello di famiglia intergenerazionale che tanto ha caratterizzato il nostro stesso Paese.

Ma poi Martin insiste su un elemento importante; molto importante quando si tratta di analizzare la vita e le testardaggini di uno scrittore. GGM s’era dato un obiettivo: quello di riscattare il proprio Paese e il proprio continente. Il secondo Novecento è stato il secolo dell’America Latina, quello che ha consentito per esempio al Brasile oggi, all’alba del nuovo millennio, di essere una delle prime potenze economiche del mondo, trascinando con sé un continente pacificato, spesso moderno e democratico, sia pure in un senso diverso da quelli che intendiamo noi in Europa parlando di modernità e democrazia. Al contrario, GGM partì per la sua rincorsa da un continente dilaniato dalle disparità sociali e dall’idealismo dell’Ottocento. Quell’Ottocento nel quale pochi spiriti liberi dell’America Latina cercavano di trasferire in Paesi enormi e complicati l’idea di Stato nazionale che aveva sconvolto l’Europa. Ebbene, GGM cresce in questo contesto, vezzeggiato da uno di quegli «spiriti liberi»: il nonno materno, colonnello Nicolás Márquez. Ed è proprio questo personaggio mitico finanche in vita (Martin lo racconta benissimo) che GGM rimodula nel colonnello Aureliano Buendía. Ma il fatto significativo è un altro: se GGM ha sempre sostenuto di aver cercato attraverso il proprio realismo magico di riscattare il continente latinoamericano, in realtà Martin dimostra come quel riscatto ne nascondesse un altro più intimo e urgente. Quello proprio dall’abbandono familiare. Come a dire che dietro alla letteratura più pazza e in ultima analisi gioiosa del Novecento (perché tale è quella di GGM per quanto essa sa concedersi alle follie della fantasia e della magia) in realtà nasce da un dolore nascosto quanto profondo. A rileggerle così, le cose paiono subito più chiare. E chiaro appare il perché di ogni personaggio dei romanzi di GGM, dal momento che ciascuno dei suoi uomini o donne vengono direttamente dall’esperienza vissuta. Non solo in Cent’anni di solitudine, naturalmente. Non solo nell’Amore al tempo del colera, dichiaratamente dedicato all’avventura umana dei suoi genitori. Né solo in Nessuno scrive al colonnello che pure deliberatamente rielabora la pensione mancata di nonno Nicolás. No, il trasferimento di uomini e fatti è un fenomeno attivo in tutte le opere di GGM. Anzi, se anche non lo dichiara, Martin ha svolto la sua lunga e ossessiva ricerca sulla vita di GGM proprio con questo obiettivo: ripescare dalla memoria privata o collettiva i tratti dei modelli della lette-

ratura del grande autore colombiano. In questo - di fatto - offrendo un servizio enorme al lettore interessato: perché guardando i modelli, scavando in essi (come fa il biografo) è possibile rintracciare il percorso creativo dello scrittore. E capire quale sia stata la strada che ha condotto la sua ordinata fantasia a passare da un individuo in carne e ossa a quello letterario. Ma tra i pregi da dover riconoscere al lavoro (veramente colossale) di Gerald Martin c’è anche quello di aver resistito alla tentazione contraria: ossia di rendere letterari alcuni personaggi della vita di GGM. Il circolo di intellettuali di Barranquilla, la congrega di scrittori latinoamericani spersi per il mondo, chi alla ricerca di un riscatto locale e generazionale (per esempio l’amico-nemico Mario Vargas Llosa, sul cui dissidio con GGM Martin si sofferma appena il tempo giusto), chi affezionato ai propri luoghi e ai propri paesaggi di sempre (il grande e misconosciuto e comunque troppo poco amato qui da noi, Álvaro Mutis): i tantissimi personaggi pubblici che ricorrono in queste pagine sono vivi e ambigui e complici, ma mai fissi in una cornice letteraria.Tutt’altro.

Martin per esempio indugia sulla propensione di GGM a intrattenersi con leader politici, da Fidel Castro a Bill Clinton: indaga la debolezza dell’uomo-mito che concede una foto o una firma a gente il cui potere, grande o piccolo, è comunque destinato a passare, a essere dimenticato nel libro della storia. Un difetto, appunto, quello di GGM, che dall’alto dell’indiscussa eternità delle proprie storie stringe mani e abbracci con personaggi magari potenti ma transitori. Si racconta un aneddoto simpatico del nostro Ettore Petrolini il quale, popolano romano, alla ricerca di una radice storica illustre, inseguiva il titolo di centurione che il regime fascista donava a piene mani a chiunque potesse essergli utile. E allora Petrolini ostentava fedeltà al regime e passione fascistissima, sperando in quel titolo che avrebbe potuto dare una origine nobile alla sua propria storia povera e popolana. Ma il Duce, perfido, non lo fece centurione, rigettò la richiesta: tanto che Petrolini alla fine della sua vita con molto garbo lo insultò, Mussolini, quando quello gli diede un’altra piccola, miserabile onorificenza. Si presentò al pubblico e disse: “«l Duce mi ha dato questa cosa qui e io me ne fregio!» (essendo «Me ne frego» un penoso diktat dei fascisti). Non fu perseguito per questa battuta, Petrolini, dal che capì di avere più forza del previsto, nei confronti di Mussolini.Allo stesso modo, verrà un giorno in cui GGM accetterà il destino di avere più futuro dei poteri politici o economici, anche se ha dovuto scontare cent’anni di solitudine. Ma il suo riscatto è nelle parole, non nel potere. E questo fa la differenza.


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parola chiave

essuno oggi oserebbe dubitare che viviamo in una società dei rischi. Eppure, nonostante che questa espressione sia diventata ormai un luogo comune, non mi sembra che il suo significato possa dirsi scontato. Fa una grande differenza, ad esempio, parlare di società dei rischi con preoccupazione, come se si trattasse di una perdita secca rispetto al mondo delle antiche sicurezze, o parlarne invece come di una costellazione certo ambivalente, ma pur sempre piena di opportunità. Credo anzi che stia proprio qui uno dei punti più controversi e dirimenti della cultura contemporanea. In ultimo si tratta di trovare la giusta conciliazione tra sicurezza e libertà. Ciò che intendo dire è che in quella che oggi viene definita come società dei rischi e dell’incertezza è presente un aspetto che di solito non viene adeguatamente tematizzato: la società odierna è rischiosa soprattutto perché un sempre maggior numero di eventi dipende dalle nostre scelte, dalla nostra libertà. Nelle società del passato le cose stavano diversamente. Non che la vita fosse meno rischiosa e meno incerta, ma nel senso che rischi e pericoli raramente potevano essere imputati alle scelte umane. Fa un’enorme differenza morire di polmonite perché non ci sono rimedi o morire di polmonite perché si è deciso di non prendere la penicillina o perché il medico pensava che si trattasse di una banale influenza. Nel primo caso i nostri antenati potevano soltanto imprecare contro Dio o contro il destino avverso; noi invece possiamo imputarlo a noi stessi o al medico. Ebbene è precisamente questa nuova costellazione, frutto di sempre nuove conoscenze, di sempre nuove possibilità di dominare tecnicamente il mondo, a generare la società dei rischi. Crescono i rischi perché cresce in qualche modo la nostra libertà.

N

Curiosamente, però, il crescente potere di controllo che abbiamo via via acquisito sulla realtà ha fatto crescere anche uno spasmodico desiderio di sicurezza. Ci piacciono le comodità, almeno a parole ci piace anche la libertà, ma non ci piacciono i rischi che essa comporta.Viviamo così una sorta di schizofrenia, la quale, sul piano socio-culturale e politico, alla lunga, potrebbe produrre anche danni molto seri. Soprattutto, mi pare che diventi sempre più insopportabile l’insicurezza in quanto tale; tendiamo cioè a rifiutare ciò che c’è di più ovvio e scontato nella condizione umana. Ieri, per fare un esempio, avremmo considerato una malattia mortale o un terremoto come tragedie, delle quali «incolpare» Dio, la natura o la sorte. Oggi li consideriamo soprattutto come eventi imputabili all’uomo stesso: al medico che non è stato capace di curarci, al politico che non ha investito maggiori risorse nel sistema sanitario o che ha consentito che si costruissero case senza rispettare le norme antisismiche, oppure a coloro che non sono intervenuti tempestivamente con i soccorsi, e via dicendo. Ciò può essere senz’altro comprensibile, visti i mezzi di cui disponiamo sia per fronteggiare le malattie, sia per fronteggiare i terremoti.

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RISCHIO Siamo sempre meno pronti a correrlo... Ma in una società strutturalmente rischiosa non si possono alimentare aspettative di sicurezza che non si potranno mai assolvere compiutamente

Tre parole contro la paura di Sergio Belardinelli

Si versano lacrime sul duro destino che grava sulle nuove generazioni, ma nessuno che parli ai giovani di coraggio, di responsabilità, di disponibilità all’incertezza, o che raccomandi loro «pazienza, laboriosità, fatica». Forse le sole condizioni che consentono di sfruttare le grandi opportunità Ma è anche vero che, a furia di alimentare aspettative di sicurezza, gli uomini e le istituzioni che dovrebbero garantirla vengono sovraccaricati di un compito che, in una società strutturalmente rischiosa, non potranno mai assolvere compiutamente. E a qualcuno potrebbe anche venire in mente di promettere sicurezza in cambio di minore libertà. Per molti versi è persino curioso che una società come la nostra, nella quale tanto si parla di libertà, sia così poco disponibile ad accettare i rischi e le incertezze che essa comporta. Sia che si parli di diritti sociali, sia che si parli di immigrazione, tanto per fare qualche esempio, ciò che soprattutto

conta sembrerebbe essere la sicurezza. Più ancora quando si parla di energia nucleare, sulla quale per carità di patria preferisco tacere, o quando si parla di economia, a proposito della quale vorrei fare invece una breve considerazione. Da qualche anno ci troviamo nel mezzo di una congiuntura economica difficilissima, che indubbiamente sta rendendo l’incertezza una condizione insopportabile per milioni di persone. Ciò spinge giustamente i governi a prendere sempre di più in mano la situazione. Tuttavia non mi piace che si parli così poco di libertà e responsabilità dei cittadini e delle imprese e che in molti approfittino della

crisi per gettare discredito sul libero mercato. Come si legge all’inizio dei Pensieri sulla scarsità, un breve saggio polemico scritto da Edmund Burke nel lontano 1795, prendendo lo spunto da un progetto governativo di istituire granai pubblici per fronteggiare l’emergenza provocata dalla scarsità del raccolto agricolo di quell’anno, «L’interferire indiscriminatamente nel commercio dei generi di sussistenza è quanto di più pericoloso ci sia, e assume il suo aspetto peggiore quando gli uomini vi sono più propensi: ossia in tempi di scarsità». Certamente Burke non poteva immaginare la strada che avrebbe intrapreso lo sviluppo del «commercio», né l’impulso che gli sarebbe venuto proprio dalle innumerevoli interferenze dei governi, né la scarsità strutturale (soddisfatto un bisogno, occorre crearsene subito un altro da soddisfare) che tale sviluppo avrebbe favorito, quale sua vera e propria condizione di possibilità. Meno che mai egli avrebbe potuto prevedere le bolle speculative e le complesse architetture finanziarie che si sarebbero sviluppate nei due secoli a venire. In ogni caso il pensiero che ho citato conserva intatta una sorprendente attualità. La fiducia di Burke nei meccanismi del mercato può apparire per certi versi ingenua; lo stesso però non si può dire del suo timore nei confronti delle intrusioni dello Stato e della sua convinzione che queste diventino tanto più reali e pericolose quanto più si attraversano tempi di crisi.

Sarà anche un vezzo da liberali all’antica, ma, di fronte allo sfascio economico-finanziario in cui ci troviamo, non riesco a togliermi dalla mente questo libretto, scritto oltre due secoli fa. Comprendo, ripeto, che i governi puntino su ingenti investimenti statali per rilanciare l’economia; comprendo persino che si ritorni a parlare di «economia sociale di mercato», dove chiaramente la parola «sociale» è più importante della parola «mercato». Tuttavia, da semplice cittadino, per nulla esperto di fenomeni economico-finanziari, noto soprattutto un deficit di cultura e d’informazione. Si parla troppo di sicurezza e troppo poco di rischio. Anziché prendere lo spunto dalla crisi per rilanciare la libertà, la libera iniziativa, l’intraprendenza dei cittadini e delle imprese, vedo diffondersi un pernicioso paternalismo statalista. La stessa informazione sembra farsi semplice cassa di risonanza di questa cultura che, come denuncia peraltro l’ultimo rapporto Censis sulla situazione del nostro Paese (2010), è sempre meno capace di «desiderare» e quindi di attivare dinamiche sociali nuove e impreviste. Si versano lacrime sul duro destino che grava e ancora di più graverà sulle giovani generazioni. Ma nessuno che parli ai giovani di coraggio, di responsabilità, di disponibilità al rischio e all’incertezza più che alla sicurezza, o che raccomandi loro, come auspicava Burke, «pazienza, laboriosità, fatica». E pensare che queste sono forse le sole condizioni che consentono di sfruttare le grandi opportunità di una società rischiosa.


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Pop

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musica

MORRISEY E LO SPLEEN del precario cinquantenne di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi ognanti e febbricitanti, orecchiabili e claustrofobici, The Kills sono due: Alison Mosshart (voce e chitarra, in arte VV) e Jamie Hince (chitarra, voce e batteria, si fa chiamare Hotel). Lei, che vive in Florida, dopo aver fatto punk coi Discount nel 2000 approccia via mail lui, che abita a Londra e ha militato in tre band: Fiji, Scarfo e Blyth Power. Si annusano, si capiscono al volo, lei lo raggiunge e da allora sono (artisticamente) inseparabili. «Certe volte ho la sensazione che siamo gemelli», ha dichiarato Alison. «Altre, che non ci somigliamo affatto. Ma ci siamo musicalmente messi insieme perché amiamo le stesse cose e siamo entrambi impazienti, eccitabili, perfezionisti. Pur essendo io americana e lui inglese». Fin dai tempi dell’Ep intitolato Black Rooster, ma soprattutto dall’epoca degli album Keep On Your Mean Side (2003), No Wow (2005) e Midnight Boom (2008), The Kills elaborano un suono basic, dal ritmo incandescente, che ti schiaffeggia e ti accarezza. Un po’ come la musica dei White Stripes: quelli del «poo-po-po-po-popoo-po» di Seven Nation Army intonato dai tifosi della Nazionale di calcio italiana ai Mondiali 2006 in Germania. Anche loro in due: Jack White e la ex moglie Meg. Che però si sono sciolti. Senza rancore. Jamie avrebbe potuto fare altrettanto con Alison: quando quest’ultima, nel 2009, si è data al rock duro coi Dead Weather che oltretutto avevano come frontman proprio Jack White. E invece l’ha incoraggiata a vivere fino in fondo quell’esperienza. Lei, da quando compongono e suonano insieme, predilige il blues in ogni sua declinazione. Lui, invece, enumera fra le fonti ispirative il rocker e chitarrista Link Wray, il pioniere del rhythm & blues Little Milton, l’arrangiatore e produttore Dave Bartholomew che diede lustro al rock’n’roll di Fats Domino, il geniale sperimentatore Captain Beefheart, il reggae di Peter Tosh, Sly

S

Jazz

zapping

isoccupazione galoppante. Accade che Morrisey proprio lui, l’ex frontman degli Smiths, ovvero una bella fetta dello spleen inglese puntato sugli anni post new wave, abbia registrato un disco. Ma non riesca a piazzarlo presso nessuna etichetta discografica. «Il seguito di Years of refusal è pronto e galleggia selvaggiamente contro i frangiflutti», ha dichiarato in modo certamente pittoresco l’artista: «Al momento, non ho ancora trovato un’etichetta che sia disposta a giocare a carte scoperte. E io, tra i tanti talenti che possiedo, proprio non ho quello per il “fai da te”». Ora, visto che chiunque pubblica dischi a tutto andare, compreso il gruppo reggae di tuo cugino di Albanella che canta in giamaicano, la fattispecie Morrisey è presto individuata: è troppo famoso, troppo bravo, troppo costoso per pubblicare con una piccola casa discografica. Ma non abbastanza redditizio per una grossa. In breve ha un curriculum sovradimensionato, cioè rientra in pieno nella casistica dei cinquantenni sfigati. Mancava un esemplare così nel grande serraglio rock: ma a parte questo nessuno stupore. Il rock da che mondo è mondo (e dato che deriva dal sulfureo e depressivo blues) è una enciclopedia della sfiga. C’era Robert Johnson col cane dell’Inferno sulle sue tracce, c’erano i Beatles cantori magnifici di amori perduti (Ticket to ride) e di personaggi abbandonati (Eleanor Rigby). C’era Lou Reed che aspettava lo spacciatore (e quello chissà che zuccheri di canna gli portava). C’erano gli UB 40, che nel Regno Unito è il modulo di disoccupazione. Insomma lo spleen (o il blues) del precario cinquantenne come direbbero gli skater milanesi: «ci sta dentro». Ed ecco che il cinquantenne disoccupato è la punta avanzata dell’arte nella società proprio in quanto sfigato. E poi vengono a dirti che il rock è morto.

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Schiaffi e carezze formato Kills and Robbie e Grace Jones.Tutto questo c’è, filtrato dal suono audace e magmatico di Blood Pressures che il duo ha registrato ai Key Club Studios di Benton Harbor, nel Michigan: «Una specie di seconda casa, per noi», ha spiegato Jamie. «Senza distrazioni». Anche perché, apro parentesi, Mr. Hince è fidanzato con la top model Kate Moss. Gossip a parte, l’incedere tambureggiante di Future Starts Slow, pigiato dentro un’anima di coriaceo rock-blues, si contrappone all’ispido blues che scandisce Pots And Pans, al blues cantilenante di Wild Charms e a quello visionario/psichedelico di DNA. Il ritmo in levare di Satellite, ruvido e velenoso, inneggia a un reggae giamaicano che all’improvviso si scopre dark. Il rock, poi, viene ampiamente vivisezionato dalla coppia: incalzante e ballerino, corroborato in Heart Is A Beating

Drum dalla batteria elettronica e da svisate di chitarra elettrica, si tramuta in galoppante e mortifero (Lord knows I am ready, il Signore sa che sono pronto, recita un verso di Nail In My Coffin), sottolineato da efficaci distorsioni, per poi ammiccare ai T. Rex di Marc Bolan (Damned If She Do) e farsi abrasivo nello stile dei Rolling Stones (You Don’t Own The Road) senza mancare l’appuntamento col rhythm & blues. L’orecchiabilità quasi pop e gli scatti nervosi di Baby Says, infine, convivono accanto a The Last Goodbye: toccante ballad, ghermita dal suono vintage di una pianola e da un’ombra di valzer. Prendete nota: Alison e Jamie si esibiranno il 6 giugno ai Magazzini Generali di Milano. Guai a perderli. The Kills, Blood Pressures, Domino Record/Spin-Go!, 14,99 euro

Rudresh Mahanthappa, se il sound si tinge di India artedì 8 marzo e mercoledì 4 maggio coloro che fossero stati presenti alla XIII edizione di Dialoghi Jazz per due a Pavia o si fossero sintonizzati, alle 20.30, sulle lunghezze d’onda della Radio Svizzera Italiana, avrebbero avuto la sorpresa di ascoltare un musicista ancor poco conosciuto in Europa, anche se era già stato invitato sempre alla Radio Svizzera radio nel 2001, l’altosassofonista di origine indiana Rudresh Mahanthappa. Il jazz in India ha origini recenti. Solo nel 1978 a Bombay venne organizzata la prima edizione di Jazz Yatra, dove accanto ai numerosi musicisti americani ed europei presenti apparvero alcuni solisti di Calcutta e Bombay, la cui musica era ancora legata alla fortissima tradizione musicale locale. Molto più importante e significativa era stata invece

M

di Adriano Mazzoletti l’influenza che la musica etnica indiana aveva esercitato sul jazz già negli anni precedenti. Già alla fine degli anni Sessanta il cosiddetto flower power e la relativa cultura psichedelica venata di «orientalismo» ebbe come polo principale la swingin’ London. Ma il 1967 vide anche la nascita del festival di Montreux. Alla prima edizione partecipò il quartetto del sassofonista Charles Llyod con i giovani e ancor poco conosciuti Keith Jarrett e Jack Dejonette e fu animato da

molti gruppi emergenti.Tra questi il trio della pianista Irene Schweizer che nello stesso anno pubblicò Jazz Meets India, in collaborazione con Manfred Schoof alla tromba e Barney Wilen al sax tenore e soprano. Prima di allora l’incontro tra jazz e musica indiana aveva avuto un antesignano in John Coltrane che in India, inserito nell’album Impressions del 1963, dimostrava «in maniera intima e interiorizzata, l’assorbimento della lezione orientale, riproponendo i tradi-

zionali termini del rapporto “donnauomo” dei raga con sitar e tabla, nelle vesti di un incalzante flusso giocato sul minimalismo percussivo degli accenti di Elvin Jones e le traiettorie mantriche di Eric Dolphy al clarinetto basso e dello stesso leader al sax». Sarà poi sua moglie Alice a segnare i più affascinanti momenti di questi incontri. Con Rudresh Mahanthappa il jazz indiano ha finalmente un esponente di primo piano. Figlio di genitori immigrati negli Stati Uniti dall’India, può essere considerato fra i musicisti maggiormente rappresentativi delle nuove generazioni americane. I suoi recenti lavori discografici, spesso in collaborazione con l’altro sassofonista indiano Kadri Gopalnath, creano momenti di novità ricchi di slanci e intensità ritmica scomparsi nel jazz di questi ultimi tempi.


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arti Mostre

è un’interessante mostra, in questi giorni a Firenze, al Museo Alinari della Fotografia, su cui sarebbe anche bello tornare, dedicata alla contraffazione dell’immagine, in tutte le sue forme. Dalla probabilmente falsa immagine di morte in diretta del soldato di Capa, alle discusse foto sull’allunaggio americano, alle troppe immagini politiche, che cancellano personaggi scomodi. Si guardino per esempio le due immagini, quella «purgata» e quella reale, di Stalin accanto a Lurjia, che scompare sul Lungo Neva, come se non fosse mai esistito. E invece è curioso: se si guardano meglio le due immagini, quella che pare più «truccata», finta, è proprio quella che vanta la presenza del burocrate del terrore. Quasi fosse stato aggiunto, a decalcomania. Succedeva anche alla geniale ma poco nota e non in mostra altra immagine della Gioconda di Duchamp, «senza barba»: una volgare riproduzione della vera Gioconda, ma tu hai davvero l’impressione che si sia appena rasata la barba. Suggestione del vedere pensando. In un momento in cui (rischiando l’opportunismo dei rivali, che possono sostenere che Bin Laden non è morto) il potere «democratico», «anti-tirannico» per autodefinizione, preferisce non mostrare l’immagine del despota atterrato. Perché? Perché il terrore, il «terribile» devastato e batailliano non si può guardare negli occhi?. Ecco, queste considerazioni vengono in mente visitando la recente fiera romana, The Road to contemporary Art, guarda caso, all’ex-Mattatoio di Testaccio: i box omicidi per trattenere le bestie al macello, trasformati in gradevolissimi stabbi espositivi. Legge del contrappasso? Già me ne sono già occupato, ma voglio ribadirlo. È impressionante rilevare quanto in questo momento, ancora difficile per il mercato, ma di ritrovato buon senso selettivo (non ci si imbatte quasi più su certe insensatezze nulle dei rovinosi anni del boom del tangenziato mercato a gogò, anche se purtroppo, ahimé, certe scemenze si trovano ancora in alcune insulse Fondazioni o in certe Dokumenta pretenziose) ebbene, sorprende rendersi

C’

Archeologia

14 maggio 2011 • pagina 15

Sulla strada dell’iconoclastia di Marco Vallora conto come il tema ricorrente, quasi percussivo, dell’arte oggi sia proprio quello dell’immagine negata, vilipesa, insanguinata, impallinata, scorticata, tagliuzzata, impedita, se non ricamata o realizzata con gli spilli. Quasi un leitmotiv, che trafora le

pareti e passa di galleria in galleria (in un caso, addirittura, la parete è vuota d’opere, ma c’è come rosicatura nel muro, ed è già iniziato il fenomeno di cristallizazione, tipo pirite da grotta con stalagmiti). Ma sono soprattutto i volti a essere bersagliati e

spesso cancellati, come nel caso del ragguardevole austriaco Markus Schinwald, che propone delle classiche figure di fisiognomica, ma occupate e ingombrate da nubi, macchie, ostacoli. Oppure Arturo Herrera, che ripropone icone della sacralità artistica, delle illustrazioni tipiche da manuale d’arte, ma con la didascalia che uccide il cuore dell’immagine, che si sovrappone e straccia il «senso figurale». L’immagine pugnalata, come se i significati inceppassero, stipassero il significante. Nel caso di Nicolas Pallavicini la pennellata action painting è come scotchata da cerotti di sopralluogo poliziesco, ma molti giovani artisti (segnalati anche dal Premio dei Collezionisti o da quello della Fondazione Fico, in omaggio all’artista piemontese che ha decorato, Luca Trevisani) vanno verso questo nuovo indirizzo dell’iconoclastia galoppante. Già annunciata da molte tele violate, di Fontana, Parmiggiani, Calzolari. Quello che è certo è che il minimalismo frigido è agli sgoccioli, come dimostra il divertente barocco sudamericano di Bernardo da Bicci, che s’inventa un nome da maestro gotico e da martire messicano. E che partendo da un neon alla Flavin arriva a creare un rutilante ambiente funereo-camp, molto debitore agli scheletri di Posada, a Que viva Mexico di Eizensteijn, all’arte folk americana teschi & nastri. Mentre i supporti tradizionali si assottigliano: la pagina sbiadita di Mezzaquì, lo stecchino dello stick o il piattino del bigné, come residuo di tela, il dosatore Cif Ammoniacal tabernacolo per i potenti, i fogli strappati da testi di Artaud, Pavese, Wittgenstein, per comporre un proprio autoritratto scritto... pussa via, immagine. E se Turcato nei Cinquanta già lavorava di collages di banconote, un assegno in bianco del gallerista, inquadrato e nemmeno più firmato warholianamente dall’artista Claire Fontaine, diventa lo specchio della follia dell’arte-mercato. Vanitas progressive: la spirale di fumo impalpabile, molto areosol, di Donato Piccolo e il ritorno neo-barocco del sangue. Una specie di scansia minimal, alla Donald Judd, che però «piscia» in terra un laghetto di sangue. E Witkin scrive, borgesianamente, su una sua foto: «Durante la notte la gente sogna e macchina molte morti, quando la memoria si converte nella carne dell’arte».

Inizia dal senso del sacro la ricerca sull’antico

ppagato dal battesimo dell’anno scorso, sotto l’ala del padre dello strutturalismo in un percorso incrociato tra la memoria antica e il ricordo della recente scomparsa di Claude LeviStrauss, il Salone dell’Editoria Archeologica di Roma vuole insistere anche quest’anno sul binomio ff8«antropologia e archeologia». La sua seconda edizione sarà ospitata, dal 19 al 22 maggio, all’interno della prestigiosa sede della Soprintendenza del Museo Nazionale Preistorico Etnografico «L. Pigorini», luogo di ricerca, salvaguardia e promozione del patrimonio materiale e immateriale d’interesse paletnologico ed etnoantropologico. Come l’anno precedente, l’esposizione-vendita, che rappresenta il centro del Salone, sarà un punto di incontro e scambio culturale tra case editrici specializzate e operatori del settore, istituzioni, enti pubblici, musei, università, centri di ricerca, società e cooperative archeologiche, agenzie specializzate nel turismo culturale, associazioni culturali. Un pubblico non meno im-

A

di Diana Del Monte portante è quello composto da appassionati e curiosi che il Salone cerca di coinvolgere grazie a un ricco programma di presentazioni di libri, conferenze, lezioni universitarie, dibattiti e convegni. Ad aprire la serie di eventi che accompagnano l’espozione, la tavola rotonda Le ville senza imperatori: metafore dell’ideologia e dell’autorità imperiale. Gli Antonini a confronto, curata da Luca Attenni e Catia Fauci, e la lezione di epigrafia latina tenuta da Silvia Giorcelli Bersani dell’Università di Torino. Con il titolo Roma, l’Italia e l’epigrafia della conquista, la lezione del giovedì pomeriggio esaminerà alcune iscrizioni utili a comprendere le modalità della penetrazione romana nell’Italia settentrionale e nelle aree alpine (iscrizione di Aosta e arco di Susa; iscrizioni evergetiche della Cisalpina orientale come esempi di mediazione tra le componenti sociali). Proseguendo e completando i lavori iniziati durante la prima edizione, il 20 e 22 maggio avrà luogo il secondo incontro di studi su «Antropologia e archeologia

a confronto».Titolato Dalla nascita alla morte e dedicato alla memoria dell’autore di Tristi Tropici, il convegno del 2010 aveva volutamente lasciato aperte alcune questioni. Con questa seconda edizione, Rappresentazioni e pratiche del sacro, si vogliono affrontare quelle tematiche che trovano un’adeguata sintesi nel termine stesso di «sacro». Fine dichiarato dell’incontro, infatti, è quello di approfondire, nella duplice prospettiva antropologica e archeologica, quelli che sono gli aspetti archetipici del senso del sacro nelle sue molteplici manifestazioni, colti sia attraverso l’indagine etnografica che nelle tracce individuate dalla ricerca archeologica. Divise in sette sezioni tematiche, le due giornate sono curate da Luigi La Rocca, soprintendente del museo, e Valentino Nizzo. Organizzato da Ediarché, il Salone vuole diventare un appuntamento fisso capace di svelare a un pubblico più ampio possibile gli spunti più interessanti della ricerca sull’antico, dando spazio alla diffusione della piccola editoria sull’archeologia, nel rapporto con la sua disciplina più dialogante, l’antropologia.


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il paginone

Come notò Mario Soldati, la sua figura sembra contraddire tutte le più radicate preferenze e immagini di femminilità. Ma la sua aura sa di perfezione perduta. Per questo con la sua silhouette graficamente scolpita è diventata un’icona della modernità. Come il caschetto di Louise Brooks, lo sguardo da sfinge di Greta Garbo, la voce graffiata di Marlene Dietrich, la risata definitiva di Grace Kelly, la gonna di Marilyn Monroe sollevata dall’aria della metropolitana di Orio Caldiron milza e ossuta, volto da elfo, occhi da cerbiatta, sorriso sensuale e innocente, Audrey Hepburn non assomiglia a nessun altra nell’epoca del divismo maggiorato in cui dominano le grandi forme. Il suo sguardo irrequieto attraversa, in Vacanze romane (1953) di William Wyler, la città eterna dal Colosseo alla Bocca della verità, da Villa Borghese a Piazza di Spagna, dai bar all’aperto ai dancing sul Tevere, per impadronirsene nella labile ma tenace freschezza del ricordo come chi fa i sopralluoghi a futura memoria. Sospesa tra realtà e sogno, neorealismo che non c’è più e commedia all’italiana che non c’è ancora, la principessa in libera uscita è l’attrice che si avvia a di-

S

naz, in Svizzera, il 20 gennaio 1993 - ha alle spalle il lungo tirocinio nella scuola londinese di danza, i primi passi nel mondo del musical teatrale, i corsi di dizione, l’attività di modella, i servizi fotografici. Nelle particine che il cinema inglese le offre, si fa notare per il fascino sbarazzino e la naturale eleganza. Sul set di MonteCarlo Baby (1951) di Jean Boyer avviene l’incontro con Colette che appena la vede, folgorata dalla sua spontaneità, esclama «Ho trovato Gigi!». Non servono a nulla le proteste di Audrey, terrorizzata all’idea di diventare la protagonista assoluta di un grande musical a Broadway, l’anziana signora ha già mandato un cablogramma a New York per annunciare la sua scoperta. Superato l’iniziale sen-

all’aria aperta con i fratellastri Ian e Alexander, a sei anni l’abbandono del padre è l’evento più traumatico della sua vita, una ferita che non si rimarginerà mai del tutto. Negli anni bui della guerra, la dolorosa esperienza dell’Olanda occupata dai nazisti la segna profondamente. Se minimizza il suo contributo alla Resistenza, e cioè di aver portato messaggi segreti infilati nelle scarpe come tanti altri bambini anche più coraggiosi di lei, solo per caso riesce a sfuggire a un rastrellamento tedesco, nascondendosi in uno squallido scantinato, dove sopravvive per quasi un mese con un pezzo di pane duro e una bottiglia d’acqua. Quando nel ’46 legge il Diario di Anne Frank s’identifica con la piccola

Edda Van Heemstra Hepburn-Ruston si era già fatta le ossa come ballerina e modella quando il successo le piombò addosso. Con “Gigi” e con “Vacanze romane” che le valse il suo primo e unico Oscar. Aveva 23 anni ventare diva, ma anche la diva che si toglie la corona, scende dal trono e corre in Vespa tra il pubblico per rannicchiarsi nel letto del giornalista Gregory Peck, senza che tra di loro cadano mai le mura di Gerico. Se tutto sembra cominciare dal successo clamoroso del film, che le vale il suo primo e unico Oscar, la ventitreenne attrice belga - è nata a Bruxelles il 4 maggio 1929, morirà a Toloche-

so di smarrimento, conquista il pubblico e la critica con la sua impertinente innocenza. Se all’inizio l’insegna al neon annuncia «Gigi con Audrey Hepburn», alla fine diventa: «Audrey Hepburn in Gigi». Nell’articolo che appare sulla stampa di tutto il mondo, Colette si dice sicura che Audrey, questa specie di Miss Nazioni Unite nata in Belgio, mezza olandese, mezza inglese, e ora americana, saprà presto «mettere da parte il trucco».

Audrey Hepburn si chiama in realtà Edda Van Heemstra Hepburn-Ruston. La madre, la baronessa EllaVan Heemstra, è un’aristocratica olandese fiera del titolo e delle proprietà di famiglia, che ha già avuto due figli con il primo marito da cui ha divorziato. Il padre, Joseph Hepburn-Ruston, è una figura ambigua che vanta origini inglesi e ruoli di banchieri mai confermati. Se l’infanzia si svolge all’insegna degli allegri giochi anno IV - numero 18 - pagina VIII

ebrea: «Avevo esattamente la sua stessa età, avevamo dieci anni quando la guerra è scoppiata e quindici al momento della fine. Era come leggere la mia vita, rivivevo tutte le mie emozioni, le mie paure». Si rifiuta categoricamente di partecipare al film che più tardi ne viene tratto. Soltanto all’inizio degli anni Novanta, dopo molte esitazioni, accetta di fare la voce recitante, con la London Symphony Orchestra sullo sfondo, nel Diario di Anne Frank di Michael Tilson Thomas. Il successo di Gigi le apre le porte di Hollywood. Nei mesi delle oltre duecento repliche del musical fervono dietro le quinte i preparativi per il suo primo film americano, le cui riprese iniziano a Roma nell’aprile del 1952 e proseguono per tutta l’estate. Nello stesso anno, nell’intervallo tra la fine del film e l’inizio del successivo, avviene a Parigi l’incontro con Hubert de Givenchy, il giovane sarto alla vigilia della sua prima sfilata. Quando si presenta all’atelier di Rue Alfred-de-Vighy numero 8, deve vincere la diffidenza dello stilista, sorpreso di trovarsi di fronte a una ragazza giovane, magrissima, dai grandi occhi, che

Quel quid Audrey H vuole assolutamente provare almeno uno dei vestiti della nuova collezione. Finalmente ci riesce e anche lui deve ammettere che le va perfettamente come la scarpina di cristallo di Cenerentola.

È l’inizio di un rapporto straordinario, profondo, fatto di complicità, destinato a durare tutta la vita. La folgorazione di Sabrina (1954) di Billy Wilder coincide con il fascino della protagonista che, sin dal ritorno nella grande

casa di Long Island, sfoggia il suo sofisticato guardaroba parigino con la spavalda fotogenia di chi si prepara a diventare l’icona assoluta dell’eleganza e della leggerezza. Si rinnova a ogni visione il mito della primavera nella favolacommedia dell’amore che si sposta di continuo, è sempre altrove, fra slanci generosi e segrete timidezze, tenaci malinconie e improvvisi brillii. Un miracolo che si chiama soprattutto Audrey Hepburn, i suoi sorrisi, il suo passo


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za. Era assolutamente meravigliosa. A nessuna delle attrici venute dopo possiamo chiedere di essere la nuova Audrey Hepburn. Quello Givenchy è stato indossato una volta per tutte».

Il 24 settembre 1954 si sposa con l’attore Mel Ferrer. Il matrimonio viene celebrato a Burgenstock, lo sperduto paesino svizzero in cui Audrey ha uno chalet, dove passano il weekend, sottraendosi ai giornalisti che gli danno la caccia. L’intenso desiderio di maternità di Audrey si realizza finalmente con la nascita di Sean. Il matrimonio con Mel - nonostante la sua carriera di attore e i suoi discutibili tentativi nella regia, la stampa lo chiama Mr. Hepburn - tra alti e bassi, rotture e riconciliazioni, prosegue per tredici anni fino al 1967. Solo un paio di anni dopo, si sposa con lo psichiatra romano Andrea Dotti. Il nuovo matrimonio - allietato dalla nascita di Luca - sembra finalmente risolvere i problemi di cuore dell’attrice, che resta a lungo lontana dal set. Il rapporto con il marito italiano s’incrina definitivamente con l’inizio degli anni Ottanta. L’ultimo amore è Robert Wolders. Nel 1988 comincia la sua attività di ambasciatrice dell’Unicef, a cui si dedica fino all’ultimo, recandosi in Etiopia, Somalia, Kenia, Guatemala: «Se le persone si interessano sempre a me, se il mio nome li obbliga a ascoltare quello che voglio dire, è meraviglioso. Ma oggi non mi inte-

grande sciarpa di chiffon che indossa nella sfilata, più sottile è il fascino minimalista della maglia nera, jeans e mocassino con cui, tra i tavoli, sul pianoforte, davanti all’orchestrina, si scatena nella irresistibile danza acrobatica di Basal Metabolism, spiritosa parodia dei nuovi balli in cui si esprime la ribellione rock teenagers. Quando all’inizio di Colazione da Tiffany (1961) di Blake Edwards, Holly Golightly scende dal taxi giallo nel suo lungo Givenchy da sera e si avvicina alle vetrine di Tiffany’s sulla Fifth Avenue di NewYork, con in mano bicchiere di caffè e croissant, per guardare attraverso i grandi occhiali neri i diamanti che sono esposti, non sappiamo ancora che si tratta di un rito. Non solo il rito privato che la squinternata texana compie ogni mattina nel tentativo impossibile di pareggiare i conti con l’ultimo appuntamento sbagliato della sua turbolenta vita sentimentale. Ma anche il rito pubblico con cui Holly-Audrey, tra maldestri francesismi, dialoghi corrosivi, party selvaggi, attraversa il film come un ciclone, fino a far passare in secondo piano i sottotesti scabrosi del suo personaggio più spregiudicato, per risolversi completamente nell’impalpabile leggerezza del segno, nella silhouette grafica, nel geroglifico di riferimento che ancor oggi dopo cinquant’anni rispunta continuamente nei flash delle fotografie di moda, nelle trovate della pubblicità, negli azzar-

mento che attendeva sin dall’inizio quando può liberarsi degli squallidi costumi da stracciona e indossare finalmente il guardaroba da gran dama che Cecil Beaton, qui anche costumista e scenografo, ha disegnato per lei, il sognante arcobaleno di colori, tessuti, piume, cappelli, acconciature, gioielli, in cui rivive lo stile vittoriano rivisitato dal gusto sontuosamente artificiale del grande artista. Naturalmente è a questo punto che Beaton - con i ritmi suadenti, le lunghe pose, la folgorante capacità di andare all’essenziale - scatta alla sua best model centinaia di fotografie, tra prove e versioni definitive. Se il trionfo del film gratifica l’attrice al suo apogeo, la collezione conservata da Sotheby’s London è il documento eccezionale dei particolarissimi rapporti tra moda e fotografia intrecciati dall’eleganza della diva quando riflette la grazia che ha dentro di sé. Con una capacità di rivelazione in grado di sospendere per un momento la dialettica tra evento e messinscena, finzione e realtà.

«Chi è Audrey?», si chiede Mario Soldati, lo scrittore-regista che l’ha conosciuta sul set italiano di Guerra e pace, dove Dino De Laurentiis l’aveva voluto perché lì qualcuno che avesse letto il romanzo di Tolstoj ci doveva pur essere. Si potrebbe dire con Cary Grant che «Audrey nonostante l’aspetto fragile aveva un carattere d’acciaio». Oppure con la regi-

Fascino sbarazzino e naturale eleganza, dovette vincere le resistenze di Givenchy quando si presentò per la prima volta all’atelier dell’ancora non celebre sarto. Poi tra loro il sodalizio è durato tutta la vita

d chiamato Hepburn leggero, le sue reticenze, il suo modo inimitabile di indossare modelli che Hubert de Givenchy disegna per il film, dall’abito di organza bianco con un ricamo nero nella scena del ballo con David, scandito dalle note di Isn’t it romantic?, al vestito da sera di raso nero con un irriverente fiocchettino a farfalla in alto sulla spalla, che si gonfia attorno al suo corpo disegnando l’immagine di un cigno incantando Linus, fino alla sobrietà assoluta della calza-

maglia nera dell’ultimo incontro nell’ufficio che la svela nella sua spoglia vulnerabilità. Come ammette lo stesso Billy Wilder: «Non ci sarà mai una seconda Audrey Hepburn. Lei resterà per sempre un’immagine del suo tempo. Dipende tutto da un elemento x, un quid particolare che qualcuno ha e qualcun altro no. Audrey aveva quel qualcosa di speciale. Sullo schermo sapeva creare qualcosa di nuovo, qualcosa che ha a che vedere con lo charme e l’elegan-

ressa più fare la promozione di Audrey Hepburn. Il mio solo interesse è spiegare al mondo come si possono aiutare quei bambini che non conoscono la pace, che non conoscono la gioia e che non sorridono mai. Questa è la mia ragione di vita. È per questi bambini che parlo, per quelli che non possono difendersi da soli». Sin dall’inizio il rapporto con la fotografia è uno degli aspetti più sintomatici del personaggio Hepburn, un segnale importante della sua modernità che, nel giro di pochi anni, fa rimbalzare la sua immagine nelle copertine dei magazine di tutto il mondo. Richard Avedon, che ha incontrato sin dai tempi di Gigi quando la fotografa per Harper’s Bazar, si ritrova nel cast di Cenerentola a Parigi (1957) di Stanley Donen come consulente per il colore e gli effetti ottici. La stessa figura del fotografo di moda Dick Avery, interpretato nel film da Fred Astaire, sembra ispirarsi al lavoro dell’artista americano che era stato tra i primi a portare le sue modelle nelle strade, nei caffè, tra la gente. Se resta indimenticabile il glamour del lungo e avvolgente vestito rosso senza spalline con

di del design, nelle pagine dei settimanali femminili per chiederci in modo provocatorio quando ci decideremo a mettere ordine tra le immagini del divismo di ieri, azzardando magari qualche ipotesi sulla loro capacità di resistere nel tempo, tra il caschetto di Louise Brooks, lo sguardo da sfinge di Greta Garbo, la voce graffiata di Marlene Dietrich, la risata definitiva di Grace Kelly, la gonna di Marilyn Monroe sollevata dall’aria della metropolitana. Nessun altro film le costa quanto My Fair Lady (1964) di George Cukor, la cui lunga e complessa lavorazione è un incubo senza fine, la sfida maggiore della sua carriera. L’occasione di impersonare Eliza Doolittle, la rozza fioraia cockney che il professor Higgins scommette di trasformare in una dama di classe, è per l’attrice una conquista importante, ma la scelta suscita nell’ambiente malumori e ostilità. Superato lo stress, arriva al mo-

na madre che, in un ricevimento a Buckingam Palace, sussurra alla figlia: «È una di noi». Oppure con Soldati: «Audrey simboleggia l’altra donna della nostra vita: non la madre, ma l’amica; non la materia, ma lo spirito; non il passato, ma il futuro. La figura femminile che contraddice tutte le nostre più antiche e radicate preferenze e immagini di femminilità ma che, forse, proprio per questo, risolverebbe, o almeno avrebbe risolto, la nostra vita.Addio Audrey, perfezione perduta».


Narrativa

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libri

Gajto Gazdanov STRADE DI NOTTE Zandonai, 201 pagine, 20,00 euro

il caso d’essere molto grati alla Zandonai, piccola casa editrice con sede a Rovereto (Trento) per la bella sorpresa che in questi giorni ci ha offerto, ossia la pubblicazione del romanzo di Gajto Gazdanov (1903-1971). Nato a San Pietroburgo, è lo scrittore più importante assieme a Vladimir Nabokov formatosi negli anni dell’emigrazione russa in Occidente, dopo la rivoluzione bolschevica. Il romanzo, esplicitamente autobiografico, narra quanto annota e analizza, con straordinario acume e con digressioni storico-sociali sempre pertinenti, un tassista che fa il turno di notte a Parigi. Il protagonista (l’io narrante) è uomo colto, ex studente universitario, ex profugo in vari Paesi dell’Est europeo e in Turchia, ex operaio, ex impiegato. Nella prefazione a cura di Dragan Velikic si apprende che le vicende sono state scritte ai primi anni Quaranta. E, inoltre, che Gazdanov «nella Russia di oggi è considerato un classico moderno, accanto a Gogol, Bulgakov e Nabokov». Secondo un altro critico slavo, per Gazdanov «non sono importanti gli uomini, ma ciò che li tiene insieme, ciò che colma il vuoto tra le singole figure: un essere superiore, un elemento spontaneo, la casualità degli eventi, la vita o qualcos’altro cui neppure saprei dare un nome». Giusta osservazione, salvo la «non importanza» dei singoli: l’autore li tratteggia egregiamente, intrecciando giudizi taglienti e pietas. La Parigi di notte è composta da borghesi ignoranti che si rinchiudono in casa, da ricchi sfaccendati macchiati da abissali distrazioni umane e beceri pregiudizi, da barboni, prostitute, da esseri che sognano un’esistenza diversa con tutta la tantalica fatica nel realizzarla. Questo Proust al volante di un taxi si muove tra «zone chiuse, irrigidite» della città. Incontra errabondi, molti dei quali alcolizzati, e ammette che «scoprire qualcosa su di loro era difficilissimo: di solito i discorsi di quella gente non avevano né capo né coda. Ogni tanto, però, ci riuscivo». Quando il tassista smette il suo turno all’alba, va a dormire, poi per disintossicarsi s’immerge nei libri. Vede sempre alla stessa ora e nel medesimo bar «monsieur Martini» (chiamato così perché ordinava quel tipo di alcolico).Verso le tre di notte finisce i soldi, lo buttano fuori, e lui attacca la sua litania: «È davvero ridicolo, davvero. Non c’è altro da aggiungere». Un clochard? No: insegna greco, latino, tedesco, spagnolo e inglese, ha moglie e sei figli, è capace di citare in lingua un’ope-

È

Riletture

Perdersi

a Parigi nelle tenebre dell’ignoto Si pubblica in Italia Gajto Gazdanov, considerato nella Russia di oggi un classico moderno, accanto a Gogol, Bulgakov e Nabokov di Pier Mario Fasanotti ra di Schiller. Si rovina bevendo, ma sostiene che «ogni caso di alcolismo ha una sua ragione d’essere». Gazdanov disegna i contorni della «poesia cupa del decadimento umano» e persone che sono «carogne umane

ambulanti» la cui anima è come bruciata da «un veleno fetido». Ci sono poi i profughi russi, ostinati nell’aggrapparsi a un tempo immaginario che vira nel delirio di persecuzione oppure in utopici quanto inutili progetti. In questa «schiuma rivoltante» della ville lumière a luci basse c’è Jeanne Raldi, ormai attempata tuttavia opaco riflesso di donna bella ed elegante. Fa la vita e vorrebbe insegnare ad Alice, dal corpo «crudelmente stupendo», astuzie che potrebbero permetterle di entrare nell’alta società. Ma Alice è ingrata, disinteressata a tutto, anche all’amore, è «puttana e scema, con un perenne velo di stupidità sugli occhi bellissimi». Il tassista le sputa addosso la verità: non possiedi nulla, nemmeno «quel fascino caldo, animale che è di tutte le donne di successo». Lei alla fine piange, riconosce i suoi errori ma non se ne stacca, anche perché vittima di un’indolenza che è anche malattia. La sua «sensualità possente» non diventerà mai grimaldello di riscatto, personale e/o sociale. C’è poi, in quell’«universo immobile e sinistro impregnato di sangue e di paura», il signor Fedorcenko, patetica figura di esule che sposa un’ex belle de nuit e scivola in un labirinto di idee, di domande che mai s’era posto. Se prima la sua vita poggiava sulla lievità, sull’assenza di complicazioni, in seguito si rivolge al tassista: «Senta un po’, non è che mi direbbe perché viviamo?». S’allarga quindi, nella sua indole di uomo pratico, il tumore dell’anima. I crescenti quesiti esistenziali e filosofici lo travolgeranno. La tristezza slava può essere una bomba a orologeria. Anche l’uomo chiamato Platone vagabonda attorno al «pensiero astratto e letale». Il tassista cerca di difendersi dal contagio di quelle ore notturne e disperate, e al suo connazionale dice: «Continuo a credere che per certe domande non esista risposta; e che forse non esistano nemmeno le domande». Rimane tuttavia impregnato delle «tristezze degli altri». E ricorderà sempre quei clienti «che si perdevano nelle tenebre dell’ignoto». Lui, ormai nel sole del Midi.

Il mestiere del critico e quel premio “morale” alla Ortese era un tempo una bella presenza nella critica letteraria delle terze pagine dei giornali: si dava conto con recensioni dei libri italiani che via via uscivano, narrativa e poesia. Vero è che allora la produzione editoriale era molto minore ed era più facile scegliere. Chi non ricorda il magistero di Cecchi sul Corriere della Sera? e quello di De Robertis dalle colonne di un settimanale? Le cose sono molto cambiate e i punti di riferimento parevano crollati. Ma c’era ancora Geno Pampaloni a dar conto delle sue letture prima sul Corriere e poi su Il Giornale. Poi, unico erede, Claudio Marabini che seppe in parte riempire quello spazio altrimenti vuoto. Nato nel 1930 Marabini ebbe come scena dei suoi interventi soprattutto Il Resto del Carlino, quotidiano bolognese: ci scrisse per cinquant’anni. E intanto collaborava ad altri quotidiani, al Tempo, e ultimamente anche a liberal, ma soprattutto sulla Nuova Antologia diretta da Spadolini di cui fu molto amico. Molto importante è la sua conoscenza e il suo lavoro sugli amati scrittori romagnoli. Più di una decina sono i suoi volumi che raccolgono gli scritti critici. Nel 1993 vinse il prestigioso premio Estense con, appunto, Voci e silenzi di Romagna, la sua terra che lo ricorda proprio oggi, a quasi un anno dalla scomparsa, nel-

C’

di Leone Piccioni la Biblioteca Comunale di Faenza, con un convegno di studi intitolato Claudio Marabini: cinquanta anni tra letteratura e giornalismo (con interventi di Giuseppe Matulli, Franco Contorbia, Marco Antonio Bazzocchi, Cosimo Ceccuti, Ennio Grassi, Carlo Donati e Sergio Zavoli. Info: www.racine.ra.it/manfrediana, ndr). Acuto interprete si segnalava oltre che per il giudizio, per la sua passione letteraria, per una vera moralità artistica sempre libera, sempre autonoma. Mai sgarbato, molto umano, riluttante alle stroncature. Del resto era un uomo molto buono, onesto, di fermo carattere, pronto alla commozione ma anche all’impennata del vero moralista. Passare delle ore con lui era molto piacevole, proprio per la sua indole pacata e ironica ma anche per i suoi scoppi polemici specie politici. Si parlava di tutto, non solo di letteratura ma di politica, appunto, di sport, soprattutto del calcio, tifoso com’era del Bologna.Tornavano nei suoi racconti di vita quotidiana soprattutto i nipotini molto amati che ricordava - insieme alla cara moglie - uno per uno con tanta tenerezza. Ci sarebbe da dire anche della sua narrativa: cinque o sei romanzi di qualità come ad esempio La

Un convegno a Faenza ricorda oggi Claudio Marabini, a un anno dalla scomparsa

notte vede più del giorno (Mondadori 1978) e Viaggio all’alba (Rizzoli 1986). Se una cosa lo interessava non guardava né alle pagine del libro, né all’editore e si trovava a recensire anche piccoli libretti pubblicati più per gli amici che per il pubblico in poche copie numerate. È successo anche a me quando recensì un piccolo libretto su Gadda (Identikit per Carlo Emilio, Pananti, Firenze 1997). Un ricordo mi resta stampato nella mente: amavamo tutti e due la narrativa di Anna Maria Ortese che viveva anche una difficile condizione economica per un certo disinteresse editoriale.Venne l’occasione del Premio Fiuggi con premi di grande valore economico.Venivano formate diverse giurie per i vari generi letterari: quattro giurati con la presidenza di ognuna affidata a Giulio Andreotti. La mattina della riunione nella nostra commissione eravamo presenti solo Marabini e io, e con i nostri due voti non potevamo fare la maggioranza. Chiamammo Andreotti, lo mettemmo al corrente della situazione e con lui raggiungemmo la maggioranza per il premio ad Anna Maria Ortese. Le consequenze del Premio Fiuggi alla Ortese aprirono nuove prospettive per lei; tornò a pubblicare e scrisse quello che forse resta il suo capolavoro: Il cardillo addolorato del ’93. Il suo editore anche per le ristampe diventò Adelphi. Mi piace dire che questa consonanza tra noi riguardava soprattutto la moralità letteraria.


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poesia

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Lo tsunami spiegato da Campanella

MODO DI FILOSOFARE Il mondo è il libro dove il Senno Eterno scrisse i proprii concetti, e vivo tempio dove, pingendo i gesti e ’l proprio esempio, di statue vive ornò l’imo e ’l superno;

di Silvia Zoppi Garampi el pensiero filosofico e nella produzione poetica di Campanella (Stilo 1568-Parigi 1639) si dà costante rilievo a tre categorie di libri: il Libro della natura, le Sacre Scritture e i libri degli uomini. Nella lettera, scritta da Parigi negli ultimi anni di vita, a Ferdinando II dei Medici, lo Stilese dichiara: «Ho riformato tutte le scienze secondo la natura e la Scrittura, dui codici di Dio».Tuttavia Campanella resta consapevole che ci sono ancora molte pagine da leggere nell’immenso Libro della natura: da leggere con quella «intelligenza mistica» che ebbero Platone e altri sapienti. Al riguardo può essere utile soffermarsi su una prima considerazione inerente al rapporto tra il Libro della natura e i libri degli uomini. Per Campanella l’universo è un’entità vitale, è definito nelle poesie «un animal grande e perfetto» che pulsa e che, come ogni organismo, si trasforma. Gli uomini imparando dal Libro dell’universo, e i sapienti trasferendo le nozioni acquisite sui libri debbono quindi essere pronti a rivedere e ad aggiornare i perimetri della conoscenza. Se il Libro della natura è destinato a una ciclica mutevolezza che corrisponde alle proprie leggi - le catastrofi che si ripetono nel tempo, capaci di annientare intere regioni, far sprofondare villaggi sotto il livello del mare, provocare siccità, come oggi lo tsunami giapponese ci sta ricordando, ne sono un esempio - bisogna aggiungere che l’umanità, nei secoli, si è dotata di strumenti che le permettono di leggere con lenti nuove il Codice dell’universo. Ne consegue che il Libro dell’universo e i libri degli uomini sapienti, che imparano direttamente da quello, dovranno superarsi di continuo.

N

Tale convincimento di Campanella va valutato, per intenderne fino in fondo il significato, insieme all’importanza che egli attribuisce alla tradizione, legata necessariamente ai libri che la trasmettono. Solo gli scritti degli uomini sono testimoni di come fosse stato nel tempo il grande Libro della natura prima che si trasformasse attraverso alterazioni geologiche e astronomiche ma anche per l’intervento di scienziati e viaggiatori ed esclusivamente quei

il club di calliope

testi ci documentano le rinnovate capacità degli uomini di leggerlo e interpretarlo. Un libro può risultare superato, ma, se frutto di una diretta lettura del Libro della natura, rimarrà sempre una testimonianza irrinunciabile del nostro passato. Il libro, per la propria responsabilità di tramandare conoscenze, deve però rispondere alla condizione delle tre primalità metafisiche, che sono Potenza, Sapienza, Amore. Bisogna cioè che i libri, per essere degni di restare nella storia, siano scritti con la capacità (potenza), la consapevolezza necessaria (sapienza) e la volontà (amore) di attestare il vero. Gli uomini che leggeranno quei testi saranno in grado di giudicare, attraverso la loro facoltà critica, se esistano tali requisiti.

perch’ogni spirto qui l’arte e ’l governo leggere e contemplar, per non farsi empio, debba, e dir possa: - Io l’universo adempio, Dio contemplando a tutte cose interno. Ma noi, strette alme a’ libri e tempii morti, copïati dal vivo con più errori, gli anteponghiamo a magistero tale. O pene, del fallir fatene accorti, liti, ignoranze, fatiche e dolori: deh, torniamo, per Dio, all’originale!

Una valutazione questa molto importante per Campanella, il quale attinge spesso dalla tradizione antica modelli di sapere che giudica all’altezza di essere riprodotti nella sua enciclopedia. Basti pensare alla restaurazione della metrica latina, voluta dal filosofo e sperimentata in alcune sue poesie perché in origine si era rifatta a ritmi naturali: i battiti del polso dell’uomo. Una seconda considerazione può essere fatta sul rapporto tra Libro della natura e Bibbia, in particolare il significato che Campanella conferisce a questi due Codici dal punto di vista teologico. Il Libro della natura dimostra agli uomini la divina sapienza, mentre la Sacra Scrittura rivela al credente il mistero occulto di Dio. Questo perché negli uomini c’è diversità tra ciò che è percepibile con la ragione e ciò che essa non può spiegare, per i limiti della capacità cognitiva dell’uomo. Allora il Libro della natura rappresenta quel libro al quale ci si può affidare e dal quale impariamo con le nostre capacità razionali; mentre la Bibbia ci svela verità che ci sovrastano infinitamente, e che possiamo accettare solo con un atto di fede. La riflessione campanelliana sopra i

IL MARE COME VALORE ASSOLUTO in libreria

STASERA VOLENTIERI Stasera volentieri urlerei contro la luna quella grassa borghese luna che fa all’amore con il rosso comignolo di latta. Stasera volentieri mi squarcerei il petto per vedere com’è fatto il tessuto del mio cuore. Stasera volentieri romperei il becco a quella civetta che a lacerarmi l’anima continua nostalgica e monotona sul tetto. Michele Coco

di Loretto Rafanelli

i sembra decisamente fuori dal comune la vita del poeta Giacomo Scotti. A 19 anni, nel 1947, giunto a Monfalcone con l’esercito inglese decide, lui comunista napoletano, di raggiungere la Jugoslavia di Tito e lì abitarvi, a Fiume; ciò non gli impedirà però anni dopo di far scoprire il gulag titino di Goli Otok, quindi è il grande tessitore delle relazioni culturali tra Italia e Jugoslavia, infine il difensore-animatore della minoranza italiana in Croazia. La poesia di Scotti parla di molte cose, ma soprattutto di mare, e giusto pare potergli accostare il verso di Baudelaire, «Uomo libero, sempre avrai caro il mare». Ora, la triestina Associazione Iniziativa Europea di Augusto Debernardi propone una raccolta con le sue poesie dedicate al mare (Poesia del mare, Hammerle Editori). Scotti, fa del mare, il valore assoluto: il ventre materno e la forza paterna, l’amore femminile e la meraviglia del viaggio, il sorriso di un fanciullo e il segreto della vita. Il mare è il tempo che ci percorre, come dice in questi versi: «Sono acqua di molti fiumi, di molte piogge/ con loro mi sono versato nel mare/ che da una vita mi fa forte, bagna/ che mi accompagna/ verso la morte». Sì anche nell’ora finale, come un marinaio che ha solo lo sguardo fisso all’acqua che fluttua, egli penserà: «Mi è indifferente dove sarò sepolto… vivo e muoio in quel mare».

C

Tommaso Campanella (Dalla Scelta d’alcune poesie filosofiche)

due Codici, natura e Scrittura, vuole chiarire quali verità l’uomo apprende per via di ragione e quali per via di fede. Le verità apprese, sebbene di natura diversa, non si troveranno mai in contraddizione. La Bibbia è portatrice non solo di una rivelazione salvifica, ma di un sapere e di una scienza totale che supera la cultura pagana. Campanella, nel rifarsi ai Padri greci, si veda ad esempio il commento di Origene al Cantico dei Cantici, riconduce tutte le arti e la filosofia, nella loro integrità e purezza, alla scienza della Scrittura. I Salmi di Davide, scrive Campanella nelle sue Poetiche, si aprono sull’esistenza umana, sui lutti e sulle feste, sulla politica e sugli affetti intimi. Questi itinerari di vita, che si trasformano in preghiera, costituiscono le tracce per l’ordine dei Salmi stessi, che grazie al loro contenuto, alla loro forma e all’occasione per cui sono stati composti permettono di essere classificati e raccolti in famiglie. Si tratta per Campanella dei così detti «generi letterari», egli scrive: «Moltissimi sono i generi e le forme dei poemi, ma i più importanti sono dodici [...] nei Salmi di Davide si trovano tutti, e anche in numero maggiore di quelli entrati nell’uso; i poeti pagani non hanno trovato niente di nuovo».

Campanella ci dice inoltre che il rapporto del teologo con i due Codici è diverso rispetto a quello del credente. Per quanto riguarda l’esegesi biblica, egli segue l’insegnamento dei Padri, riconoscendo i quattro sensi interpretativi. Il teologo, attraverso l’interpretazione, deve sostenere che è conforme a ragione quello che l’uomo accetta con un atto di fede. È insomma la dimostrazione della razionalità dell’atto di fede. La strada seguita dal teologo per evidenziare la scientificità della teologia è quella della prova storica o ex signo. Mentre il Libro della natura, un Codice scritto da Dio in lettere vive e reali, nel quale, sostiene Campanella, la cosa e il significato coincidono, viene sottoposto dai teologi a una duplice lettura: storica e mistica. Essi ne rilevano un senso immanente, visibile, storico, onde noi osserviamo la terra, il mare, tutte le cose e, per inferenza, il creatore di queste. Inoltre, indicano un secondo significato mistico mediante il quale percepiamo il segreto delle cose; sillogiziamo dalle creature all’essenza divina; intuiamo dalla presente condizione dell’uomo un’anteriore primitiva integrità. Un senso, quest’ultimo, nel quale rifluisce da una parte una concezione naturalistica e dall’altra, come è stato ben rilevato da Rosario Amerio, «un motivo platonico [che] è un indizio della permanente base religiosa del sistema [campanelliano], per il quale il mondo ideale è la radice di ogni entità e di ogni significazione del finito».


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opo il debutto avvenuto a Rieti nel marzo 2010, in apertura del Premio Dodici Donne, segnaliamo al Teatro India la tappa romana di Nella Pietra, versione teatrale dell’omonimo racconto della tedesca Christa Wolf. Scritto nel 1996 e pubblicato in Italia nel 2009 all’interno della raccolta Con uno sguardo diverso (edizioni e/o) è prodotto da Florian Teatro Stabile d’innovazione di Pescara, Atcl e Fondazione FlavioVespasiano. Operazione ardita questa proposta da Enrico Frattaroli: ricercatissima nella composizione eppure immediatamente introiettabile. Raramente un allestimento riesce a essere sofisticato, impalpabile, rarefatto, algido, eppure così efficace. Entrando nel vivo: chi tra noi non sia mai stato sotto i ferri e non abbia fatto i conti con il panico da anestesia scagli la prima pietra… I fatti: il resoconto in diretta dell’operazione di protesi all’anca subita dall’autrice in anestesia epidurale. La scena: una sala operatoria, al centro, orientato lungo l’asse longitudinale rispetto della sala, il tavolo operatorio. Lei è già lì, preparata - si potrebbe dire pronta, ma forse pronti a un viaggio nello spazio non si è mai - sull’orlo del precipizio della perdita del controllo. Ci viene incontro visivamente, affidata, sorretta, agganciata al lettino, a disposizione. Il volto riverso verso il basso in una posizione obbligata e innaturale, ci costringe da subito a contattare la sua vertigine interiore. Esattamente all’altezza della vita, un velatino nero (che diverrà tangibile offertorio delle ansie della protagonista) la trancia in due come fosse l’assistente del prestigiatore. La parte superiore del corpo esposta a noi che condividiamo il buio e la possibilità di aggrapparsi a un libero pensiero; quella inferiore inondata

D

Teatro

MobyDICK

Carne

e spirito, cronaca in diretta di Enrica Rosso

spettacoli

dalla luce della lampada scialitica, saldamente costretta, in balia di un’equipe medica. Diventiamo così parte del magma dell’inconscio. Dappertutto buio e vuoto a ogni livello, da riempire. L’operazione ha inizio. Da una parte la realtà con i suoi asettici rituali: lampade, mascherine, guanti, bisturi; dall’altra la percezione stravolta che la paziente ha di sé, della sua partecipata presenza al momento che vive, dell’intorno amplificato e sgranato dall’alterazione dei sensi. Una babele di immagini sovrapposte, poi rimosse, scalzate le une dalle altre, vive, presenti saturano lo spazio e lo stravolgono procedendo verso una destrutturazione percettiva dello spazio. Il flusso del racconto seleziona a volte informazioni reali (L’odore del sangue che si fa strada attraverso l’odore del disinfettante… Ho superato il test d’insensibilità … hanno raggirato il mio cervello… hanno disattivato il collegamento tra la mia testa e le mie gambe) su cui si innestano questioni che rimangono aperte (Quale mai informazione potrebbe ricevere la carne in assenza dello spirito… Se ne esco viva non devo dimenticarmi di dimenticare le cose che non dovevo dimenticare…). Una bellissima prova per Anna Paola Vellaccio che supportata dal contributo di Mariatersa Pascale, Valentina Rosaroni, Ivan Marcantoni, si fa carne in assenza di spirito e viceversa. Un tappeto musicale arricchito da sonorità varie (notevoli i contributi di Maria Teresa Imseng e Federica Bern) contribuisce in modo sostanziale a spostare il livello d’attenzione da un piano all’altro cadenzando tutta la durata dell’operazione. Nella pietra, Teatro India fino al 15 maggio. Info: www.teatrodiroma.net tel.06 6840001

Televisione

DVD

L’AFGHANISTAN MINUTO PER MINUTO noto a tutti per le telecronache sincopate che ne hanno fatto una delle voci più amate del calcio, ma Fabio Caressa ha sfoderato con Buongiorno Afghanistan il suo commento più sorprendente. Alle calcagna dei soldati italiani impegnati a Kabul, il giornalista di Sky è diventato autore di un interessante reportage che registra la quotidianità delle nostre truppe all’estero. Lontano dagli scenari globali, dall’ordinaria considerazione che i palinsesti tv dedicano alla guerra, Caressa si concentra su volti e storie di giovani catapultati in uno scenario assai più umano e controverso di quanto si immagini.

È

PERSONAGGI

BENNATO, IL BRIGANTE CHE SUONA LA TARANTA n occasione del centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, non fa male riannodare le vicende dimenticate della Questione meridionale. Meglio ancora se a ritmo della musica di Eugenio Bennato, in scena il 16 maggio al Teatro Quirino di Roma insieme all’Orchestra popolare del Sud e Pietra Montecorvino. Immancabile Brigante se more, il cantautore interpreterà inoltre alcuni celebri canti meridionali. Non un semplice omaggio al taranta power, ma anche l’estratto melodico di una lunga ricerca sul campo che ha messo Bennato sulle tracce della musica popolare e dei suoi eroi. Ne è derivato anche un saggio, Brigante se more, che il cantautore ha pubblicato per Coniglio.

I

di Francesco Lo Dico

Julianna Margulies, da brava fidanzata a buona moglie runa, piacente, con forte personalità.Ve la ricordate Julianna Margulies nella famosissima serie E.R. Medici in prima linea? Forse no, se la domanda è posta in questo modo. Invece se parliamo dell’infermiera Carol Hathaway, fidanzata del dottor Ross alias George Clooney, è tutto più facile. Con quel ruolo, che è durato sei stagioni, ha vinto ogni anno una nomination all’Emmy (premio americano per la tv).A immaginare le sue origini ci si poteva facilmente sbagliare. Molti la credevano ispanica. Invece è di famiglia ebraica con antenati austriaci, ungheresi e romeni. Ha passato l’infanzia tra gli Usa, la Francia e il Regno Unito. Ha imparato a recitare a teatro. Poi il cinema, con il primo ruolo in Giustizia a tutti i costi con Steven Seagal. Dal 1994 è l’infermiera di E.R.. Così come Clooney, ha evitato la gabbia di un ruolo. A costi elevati, visto che ha rifiutato una somma esorbitante che l’avrebbe trasformata nell’attrice più pagata. Ma, dopo alcuni film, in tv è tor-

B

di Pier Mario Fasanotti nata, protagonista di The good wife (La brava moglie, produttori esecutivi Ridley e Tony Scott), trasmesso da Fox Life. Il serial è iniziato nel 2009 in America. L’anno successivo la Margulies ha vinto il Golden Globe quale miglior attrice di serial drammatico. In The good wife, come Alicia Florrick, si immerge nell’interpretazione di una donna che si batte su un fronte duplice: come avvocato e come consorte del procuratore Peter Florrick, che ha la carriera spezzata da anni di carcere perché coinvolto in uno scandalo sessuale (prostitute) e accusato di corruzione. Julianna-Alicia non si fa travolgere dalla malasorte, non divorzia e reagisce badando da sola alla famiglia. Lei è il

baluardo. Che ogni uomo sposato desidera. Il marito, in casa ad attendere la revisione processuale, ha il divieto di frequentare la camera da letto coniugale. La Margulies - che sul piccolo schermo non appare affatto invecchiata, semmai ha l’invidiabile intensità espressiva della quarantenne - è donna tormentata e per dare valenza al personaggio non nasconde turbamenti sentimentali, dubbi, esitazioni e slanci di sincerità emozionale. Li affida essenzialmente allo sguardo. L’amico di college Will l’ha assunta nel suo studio legale. In un episodio si baciano, ma non valicano la «soglia». Alicia torna a casa e a questo punto il copione centra la psicologia femminile, nel senso che «la

buona moglie», pentita del parziale cedimento con il collega, si abbandona al marito, ovviamente sorpreso. Ma solo per una notte. Una passionale notte. L’ex procuratore Peter non è simpatico. Mantiene il fastidioso cinismo e la banalità comportamentale del politico. Per correggere la propria immagine si accosta alla religione. Un pastore decide di puntare su un radicale mutamento interiore. Psicologicamente rozzo, Peter crede che una notte d’amore sia bastevole per tornare all’armonia di un tempo. Errore. Alicia la sera dopo dorme da sola, pur dopo una bella soddisfazione professionale. Non è ancora pronta. In sede extragiudiziale Alicia e colleghi vincono tutelando un neonato che rischiava di morire. La trama della puntata (in ogni episodio viene affrontato un caso diverso, e sullo sfondo resta la vicenda di Florrick e consorte) s’incentra sui maneggi di una società assicurativa, spietata nel trovare scorciatoie pur di non sborsare un dollaro. I soliti avvoltoi delle insurances americane.


MobyDICK

Cinema

14 maggio 2011 • pagina 21

di Anselma Dell’Olio

l film della settimana, Uomini senza legge, è un avvincente thriller politico, un melodramma storico e un film d’azione. Presentato al Festival di Cannes, ha avuto il pregio di movimentare con manifestazioni e polemiche, una Croisette mogia per l’offerta un po’piatta del 2010. La guerra di liberazione è ancora viva nella memoria di Francia e Algeria, con passioni e amarezze mai sopite (specie Oltralpe) intorno alle ragioni di una lotta viscerale, lunga e sanguinosa. Il conflitto è raccontato platealmente dalla parte dei ribelli, che portarono bombe, agguati e rappresaglie anche sul territorio francese, terra d’immigrazione. La battaglia d’Algeri del compianto Gillo Pontecorvo (Leone d’oro a Venezia 1966 e due nomination all’Oscar) resta un capolavoro incontrastato, che penetra i motivi che rendevano gli insorti imbattibili. Rachid Bouchareb, il regista franco-algerino (Indigènes) propone un bel filmone di guerra per il grande schermo con tutti i crismi, drammatico e coinvolgente, che aggiunge un mosaico, sia pure molto di parte, alla storia poco raccontata del suo Paese d’origine. S’inizia negli anni Venti, quando i tre fratelli protagonisti sono bambini. La famiglia, priva di carte catastali, è sfrattata dalla sua terra antica, requisita per conto di coloni francesi. Giurano vendetta mentre la madre (Chafria Boudraa, mai stereotipata) riempie un sacchetto di terra da portare come promessa di un riscatto futuro.

I

Il giorno stesso in cui la Germania nazista si arrende agli Alleati, scoppia la repressione dei moti di liberazione nella colonia francese. È assai controversa la rappresentazione della strage di Sétif (1945) in cui servizi segreti e gendarmeria francesi aprono fuoco su pacifici manifestanti nelle strade e fin dentro le case, senza apparente motivo, se non qualche striscione contro l’occupazione e a favore dei diritti civili algerini. Nel frattempo i tre fratelli prendono strade diverse. Said (Jamel Debbouze) è l’unico rimasto a casa. Dopo l’uccisione di padre e sorelle nel massacro di Sétif, convince la madre a seguirlo in una spaventosa bidonville a Nanterres, con la promessa di ritrovarsi con Massaoud, il fratello maggiore, militare francese che presto tornerà dall’Indocina, e Abdelkader, secondogenito intellettuale e ideologo, carcerato in Francia per attività sovversive. Said s’arrangia tra prostitute e nightclub, ma cerca il riscatto come impresario di pugili. Massaoud (Roschdy Zem) torna dal teatro di guerra nel sudest asiatico, facendo tesoro della sconfitta delle potenti forze armate francesi da parte dei poveri ma più motivati vietnamiti. «La violenza gioca sempre a favore dei rivoluzionari» è la regola aurea acquisita dalle altrui lotte di liberazione. Abdelkader recluta subito il fratello congedato nelle fila del Fronte nazionale algerino (Fln) per combattere non solo le forze occupanti, ma il più moderato Movimento nazionale algerino (Mna). La durata del film non pesa: tra azione, tradimenti, scontri violenti, rappresaglie, storie personali e la Storia, i 133 minuti volano. È vero che Bouchareb enfatizza le ragioni della rivolta algerina, ma non edulcora la gelida ferocia del Fln. Il pubblico non partigiano uscirà da un ottimo film soddisfatto ma poco illuminato. Visto l’orrore fratricida della recente storia del Paese magrebino, dilaniato dall’efferata contesa tra fondamentalisti e moderati, ci vorrà un Omero equanime per un ritratto più completo dell’intricata vicenda, e del suo riverbero sull’Algeria indipendente. Da vedere.

Ci vorrebbe

Omero

per raccontare l’Algeria È un bel filmone di guerra confezionato con tutti i crismi quello di Bouchareb sul conflitto franco-algerino: non è troppo partigiano ma neanche illuminante. “Con gli occhi dell’assassino” è un thriller elegante che sfuma nell’horror. Da vedere “Red”, con una rosa di star “agé” con licenza d’uccidere

Con gli occhi dell’assassino è un thriller elegante che sfuma nell’horror ispano-gotico, frutto della filiera ultra produttiva di Guillermo Del Toro (tre Oscar per Il labrinto del fauno, 2007). È la squadra che ha creato The Orphanage, sempre con Bélen Rueda protagonista (Il mare dentro), a eccezione del regista, che qui è Guillem Morales. Julia (Rueda) è affetta da una malattia degenerativa che porta inevitabilmente alla cecità. Ha una sorella gemella, Sara, già non vedente per la stessa sindrome, e con la quale era in freddo da molti mesi. Abbattuta dalla notizia che Sarà si è impiccata, Julia parte con l’amorevole marito psicologo Isaac (il magnifico e sotto utilizzato Lluis Homar, La mala educacìon) per occuparsi del funerale. Non riesce a convincersi che la sorella sia morta per cause naturali, nemmeno dopo aver saputo di un intervento - fallito - per restituirle la vista. Una misteriosa presenza intravista e sfuggente nei luoghi frequentati da Sara la rende più decisa a scoprire la verità. Isaac è contrario; gli choc emotivi velocizzano la malattia e sospetta che la «presenza» sia frutto della fantasia della moglie, colpita dal lutto improvviso. È inquietante la scena in cui Julia, ancora vedente, si intrufola nello spogliatoio della palestra dove spia un gruppo di cieche mezze nude, mentre parlano di Sara. (Ricorda l’indimenticabile sequenza del ballo delle cieche in Il cuore altrove di Pupi Avati, più crudele di tanti film dell’orrore). La storia è carica di tensione, brividi, piste false e colpi di scena, e una sola, orripilante sequenza di tortura fisica. Gli effetti speciali sono semplici (all’apparenza) ed efficaci.Tutto procede con ottimo livello fino alle rivelazioni finali, quando la sceneggiatura diventa macchinosa e s’allenta la stretta alle budella. Averne di così «imperfetti» in Italia sarebbe causa di giubilo. «Red» è un rutilante thriller comico d’azione per tutti, e perfetto per quel «qualcosa da condividere» con genitori pensionati. Il titolo, un acronimo, sta per Retired and Extremely Dangerous (Pensionati e molto pericolosi). Tratto da un oscuro fumetto della D.C. Comics, ha come MacGuffin i soliti servizi deviati, e una squadra d’agenti speciali con licenza di uccidere, a riposo. Trovandosi nel mirino di assassini, è costretta a riunirsi di nuovo per salvare la pelle e fare giustizia. Frank Moses (Bruce Willis), Victoria (Helen Mirren), Boggs (John Malkovich), Joe (Morgan Freeman) e Ivan (Brian Cox) annoiati e soli nei loro vari ritiri, sono felicissimi di togliere le armi dalla naftalina e ributtarsi in una cruenta, cameratesca rimpatriata, molto spiritosa e rocambolesca. Moses, innamorato a distanza di Sarah Ross, un’addetta al call center per pensionati Cia (Mary Louise Parker), la rapisce perché «sarai più al sicuro con me», cosa curiosa data la quantità di pallottole che volano dall’inizio alla fine intorno a lui e ai suoi compari. Ma non è finita la contabilità geriatrica. Nel profondo dei sotterranei Cia c’è uno stupendo Ernest Borgnine, 93 primavere, come guardiano dell’archivio, contentissimo di assistere i vecchi colleghi alle prese con la superciliosa nuova generazione di spie (Rebecca Pidgeon e Karl Urban). In due brevi sequenze, Borgnine ruba la scena a tutti, da attore consumato. Non si deve dimenticare il canuto Richard Dreyfuss (American Graffiti) nel ruolo usurato di un «vice presidente corrotto in combutta con una società di contractors», clone di Dick Cheney, mostro per tutte le stagioni, come se l’America fosse a corto di seri nemici esterni. Morale della favola: il mondo sarà salvato non da insopportabili fighetti, ma da vegliardi carichi d’anni e d’esperienza, ancora in gamba e senza più nulla da perdere. Da vedere.


Cristalli sognanti

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di Roberto Genovesi hiamateli pure dementi in costume ma quando gli uomini non sono in grado di dare il buon esempio non ci resta che fare riferimento a loro: i supereroi. Del presente, del passato o del futuro, in calzamaglia o in armatura, continuano a essere i personaggi più apprezzati dall’immaginario collettivo. In Italia, nello scorso fine settimana, Thor diretto da Kenneth Branagh e ispirato ai comics dell’universo Marvel si è portato a casa un incasso di quasi tre milioni di euro piazzandosi al primo posto del box office in una classifica dove solo due sono i film italiani e decisamente staccati per il numero di spettatori e incassi rispetto al trio sul podio. A farla da padroni nei gusti della gente rimangono i cartoni animati (Rio di Carlos Saldanha è stato a lungo al primo posto prima di cedere la vetta al figlio di Odino), il fantastico, la fantascienza e la favola. Insomma tutte quelle storie calate in universi simbolici ben definiti. E non è una questione di budget, di effetti speciali o di marketing come si affrettano sempre a precisare i produttori o i cineasti italiani per giustificare i loro fallimenti. La questione è sempre una sola: le storie. Cos’è che rende una storia avvincente? Perché ci sentiamo attratti da una vicenda, da un personaggio, da un racconto? Perché invece una storia riesce a incuriosirci ma non a coinvolgerci? Ci fa sorridere, a volte ridere e divertire, ma quando terminiamo il libro, il fumetto o usciamo dalla sala del cinema ci sentiamo come se ancora avessimo fame, come se il nostro subconscio ci dicesse che il menù che il racconto ci ha proposto non ci ha soddisfatto pienamente. E di quel film, di quel romanzo o di quel graphic novel, a distanza di qualche mese, forse solo di qualche settimana, non ci resterà in testa nemmeno il titolo.

C

C’è qualcuno che ha provato a rispondere a queste domande. E lo ha fatto giungendo alla conclusione più banale anche se attraverso decenni di studi. Secondo Joseph Campbell, quando una storia non ci piace, non ci attrae, questo avviene semplicemente perché non è la nostra storia. Campbell è stato uno dei più grandi storici delle religioni del secolo passato. Antropologo e docente universitario, ha

MobyDICK

ai confini della realtà

Thor e il richiamo degli archetipi

passato quasi tutta la sua vita a cercare connessioni tra le diverse mitologie e religioni della storia della razza umana. Per giungere alla conferma di quanto lo stesso Carl Gustav Jung aveva teorizzato e cioè che l’inconscio collettivo è intriso di maschere archetipiche. E gli archetipi sono alle fondamenta di tutte le religioni e dunque tasselli del dna della razza umana. L’uomo non solo è dunque in grado di custodire nel suo inconscio questi fondamenti ma anche, se sollecitato attraverso messaggi simbolici, di farli riaffiorare alla mente come se fossero parte della propria esperienza personale e

resterà superficiale perché la sottile, invisibile linea rossa dei ricordi ancestrali non è scalfibile. Cosa c’entra tutto questo con i fumetti della Marvel o con i cartoni animati? Il Mito viene tramandato da tempo immemorabile attraverso le sue figure archetipiche. Queste figure, comunemente dette simboli, sono le protagoniste dei poemi, delle fiabe, delle storie fantastiche in un processo didattico lento e progressivo in cui l’uomo tramanda

Perché il film diretto da Kenneth Branagh è da subito primo in classifica? E perché certe storie, raccontate al cinema, in un cartone animato, in un libro, su un fumetto piacciono e altre, invece, si dimenticano subito? La risposta va ricercata nell’inconscio collettivo che agisce dentro ognuno di noi. Fin da bambini… non l’eredità del cammino di una razza nei millenni. Per farla il più semplice possibile possiamo dire che l’uomo è una sorta di data base vivente che si muove nella storia come una grande rete per la pesca a strascico. Ogni tanto raccoglie tasselli che vanno a rafforzare l’impianto mitico di cui il suo inconscio si nutre. Un impianto fatto di punti di riferimento e valori riconosciuti e accolti che, nonostante il tempo, la modernità, la ricerca della trasgressione, restano fondamenti naturali della razza animale più evoluta del pianeta. Possiamo tentare di convincerci che certi equilibri possano essere cambiati ma la convinzione

a un altro uomo le sue esperienze nella storia. Per questo ci sentiamo più attratti da certe storie. Perché sono costruite in modo da aprire la cassaforte del nostro inconscio e ricordarci quello che siamo e quali sono i valori che ci distinguono da ogni altra razza animale. Insomma, anche al cinema o davanti alla tv, c’è qualcuno che ci ricorda il nostro destino.

Ma cosa accade se un prodotto creativo non rispetta questi canoni? Quando il flusso di un racconto non riesce a farsi carico di un messaggio archetipico, l’inconscio riconosce la falla e rifiuta quella storia, la minimizza, la rimuove o, più semplicemente, la lascia passare senza - ricordate l’esempio della rete del pescatore - trattenere nulla. L’uomo non è naturalmente attratto da storie banali, i bambini vogliono sentirsi raccontare in continuazione di maghi, streghe, eroi.

La lotta tra il bene e il male, la sconfitta della paura, la ricerca di un livello superiore di completamento attraverso un cammino lungo e difficile, la catarsi finale. Sono questi gli ingredienti delle storie di successo. Il nostro inconscio ci chiede eroi senza macchia e senza paura e non papi indecisi, ci chiede piccoli individui indifesi che sfidano il male più grande vincendo e non vagabondi che si rallegrano trovando comunque una scusa da happy end per i loro fallimenti. Peché il nostro destino dovrebbe essere quello di fare cose più grandi e non di accontentarci della banalità del quotidiano. La sfida, il confronto, l’affermazione di punti di riferimento morali. Insomma, il nostro inconscio non ci chiede le storie di gran parte dei film italiani a cui preferisce di gran lunga, e come non comprenderlo, il martello di Thor o il volo libero del solare protagonista di Rio. Il nostro inconscio non è convinto, come vorrebbe Abrham Maslow con la sua nota piramide, che i bisogni primari siano legati al quotidiano, all’istinto puramente animale della ricerca del sonno, del cibo e del sesso. Il nostro inconscio - o come qualcuno si spinge a dire la nostra dimensione nel Sacro ci chiede di essere consapevoli di una scala valoriale diversa e più antica e di non avere paura ad ammetterlo. E se ciò avviene di fronte a un buon film pieno di effetti speciali la cosa è ancora più divertente.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g

Il bipolarismo è nato morto: l’Italia non ha una vera opposizione UN DIBATTITO PER IL FUTURO Lo scorso 2 maggio si è svolto ad Assisi un convegno sul tema: “Nei 150 anni dell’Unità d’Italia. I giovani e l’Italia: quale futuro per le giovani generazioni?”, organizzato dai Circoli Liberal dell’Umbria in collaborazione con i partiti del Nuovo Polo per l’Italia. Il dibattito è stato incentrato sull’analisi dello stato di salute del nostro Paese in occasione di tale importante anniversario. Un Paese, si è detto, che vive un momento di grande difficoltà, che da tempo attende una grande opera di modernizzazione, istituzionale, economica, sociale, che tarda ad arrivare. Le grandi riforme di cui da anni si discute restano al palo, e a pagare maggiormente le conseguenze di questa situazione sono le giovani generazioni, gravate dal peso di un futuro sempre più incerto, con la consapevolezza che, forse per la prima volta nella storia della nostra Italia, l’avvenire dei figli non sarà migliore del presente vissuto dai padri. Per questo - è stato il parere dei partecipanti al dibattito - urge avviare una grande opera di rinnovamento del sistema Italia, volta a riscoprire alcuni concetti fondamentali per un paese maturo, quali il merito, la responsabilità, il riequilibrio tra diritti e doveri. Nel corso del dibattito sono state presentate le relazioni dei giovani rappresentanti dei movimenti promotori dell’iniziativa. Gianguido Colato, dei Giovani Api, ha parlato di green economy; Francesco Siciliano, di Generazione Futuro Giovani Fli, ha parlato di giovani, lavoro e welfare; Federico Poggianti, dei Giovani Liberal, ha parlato di università e ricerca; e Michele Coscia, dei Giovani Udc, ha parlato del rapporto tra i giovani e la politica. L’incontro è proseguito con una tavola rotonda in cui i giovani presenti in sala hanno intervistato i coordinatori regionali dei tre partiti del Nuovo Polo, l’on. Paola Binetti per l’Udc, il consigliere regionale Francesco Zaffini per Fli e il dott. Nevio De Zolt per Api. A fine convegno è stata unanime la volontà di rimetterci al lavoro, con i Circoli Liberal dell’Umbria e con i partiti del Nuovo Polo per l’Italia, per dare vita a nuovi qualificati momenti di dibattito sul futuro del nostro Paese. Mario Angiolillo C O O R D I N A T O R E RE G I O N A L E C I R C O L I LI B E R A L UM B R I A

Capita spesso di sentire e/o di leggere che manca l’alternativa all’attuale maggioranza perché l’opposizione si presenta frastagliata e mancante di un progetto omogeneo. L’affermazione cela la volontà di non desiderare cambiamenti e, nello stesso tempo, l’imbarazzo a sostenere iniziative politiche non condivise e spesso contraddittorie, cercando di scaricare la colpa sugli altri. La richiesta di un’alternativa condivisa è oggi la riedizione, in termini attuali, del cosiddetto pericolo del “salto nel buio”che fu il tema dominante della propaganda monarchica in occasione del referendum istituzionale (Repubblica o Monarchia) del 2 giugno 1946. In quella occasione, nella difficoltà di difendere i comportamenti della monarchia, cercarono di spaventare i ceti moderati con il “salto nel buio”per il pericolo comunista. Quello dell’alternativa è un falso problema. Il problema vero è l’azione contraddittoria della politica nazionale che non riesce ad affrontare efficacemente i grandi temi: occupazione, crisi economica, evasione fiscale, per citarne solo alcuni. Non fece presa e non vinse allora il paventato “salto nel buio”, e sono certo che non avrà fortuna anche ora la richiesta di conoscere prima l’alternativa, come se in Italia vi fosse il bipolarismo. Il bipolarismo è nato morto anche se invocato da Berlusconi e dagli ex comunisti. A chi vuol conoscere prima l’alternativa bisognerebbe rispondere con il proverbio, frutto della saggezza popolare, che dice che: “Più buio della mezzanotte non può venire”.

Luigi Celebre

VOLONTARI DEL SERVIZIO CIVILE: VALORE AGGIUNTO PER LA SOCIETÀ Anche se in Italia siamo ben lontani dalle percentuali di giovani coinvolti nel volontariato che si registrano nei Paesi virtuosi soprattutto del Nord Europa, bisogna ridurre questo gap. E rendere il servizio civile altamente identificabile nella cultura giovanile. Un valore aggiunto della nostra società e non, come purtroppo accade a volte, una manodopera a basso costo.

Maurizio Tiepidi

aspettative degli elettori e delle necessità della Nazione. Io aggiungo umilmente con onestà e correttezza, estesa a tutte le istituzioni dello Stato, in modo che i cittadini prendano esempio e contribuiscano loro stessi a recuperare quella moralità che è andata perduta con la corruzione diffusa in tutto il territorio. Recuperando gli ideali gli italiani possono vincere qualsiasi sfida nel mondo, realizzando quella comunanza di interessi che è indispensabile per presentarci uniti come popolo alle altre nazioni.

Giacomo Mandrone

PIÙ POLTRONE, MENO RIGORE Sulla legge per aumentare di altri 10-15 il numero dei sottosegretari annunciata dal presidente del Consiglio,Tremonti e la Lega non hanno nulla da dire? Dove sono finiti il rigore finanziario del ministro dell’Economia e il rigore morale contro Roma ladrona del partito di Bossi?

Lettera firmata

LE SAGGE PAROLE DI NAPOLITANO Grazie al presidente Napolitano per aver ricordato a tutti i leader politici il vero ruolo della politica, che è di costruzione e non di litigio; di esercizio serio e impegnato del ruolo e possibile realizzazione delle

VINCENZO INVERSO SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

Di zampa ferisci di mestolo perisci PERAK. Ha rischiato veramente grosso il malese Tambun Gediu. Il sessantenne stava andando a cacciare scoiattoli quando si è imbattuto in una tigre, a poche decine di metri da casa. Gli abitanti del villaggio sono abituati alla presenza delle tigri, che hanno sempre convissuto - per quanto a distanza - con l’uomo. Gediu quindi non si è preoccupato più di tanto, consapevole del fatto che ignorando l’animale, l’animale avrebbe ignorato lui. Ma qualcosa non ha funzionato come al solito, e la tigre ha aggredito l’uomo. Gediu ha tentato di difendersi, ma si è trovato completamente sovrastato dalla forza dell’animale: «Ero terrificato, ho usato tutta la mia forza per tirare un pugno in faccia alla tigre, ma la bestia non se ne è neppure accorta». Fortunatamente, le grida hanno richiamato sul posto la moglie dell’uomo, la 55enne Han Besau… armata di mestolo da cucina. La donna non ci ha pensato su e ha colpito la tigre in testa con il mestolo, inducendo l’animale alla fuga. Gediu ha dovuto essere portato in ospedale, dove è stato operato più volte per le profonde lacerazioni causate dall’aggressione della tigre.

INTESA BERLUSCONI-BOSSI La sinistra è sempre all’opera nel vano tentativo di far bisticciare Berlusconi e Bossi. Ogni giorno affermano che Bossi si inginocchia ai piedi di Berlusconi e il giorno dopo dicono l’esatto contrario. I seminatori di zizzania non riescono a convincersi che i due, anche nelle questioni controverse riescono sempre a trovare la squadra. Per due motivi. Primo: tra i due alleati esiste da tempo un rapporto di stima e fiducia, oltre a un’amicia quasi fraterna. Secondo: sono sulla stessa barca che, nel caso andasse a fondo, causerebbe

L’IMMAGINE

un grave danno per entrambi, e loro non sono mica stupidi.

Giovanni Ghepardi

IL PAESE STA IN PIEDI GRAZIE ALLE FAMIGLIE Spiace dover contraddire Emma Marcegaglia, valida presidente di Confindustria, quando afferma che sono le industrie a tenere in piedi il Paese. Tra le imprese, la signora Marcegaglia pensa anche alla Bertone di Torino, rimasta in cassa integrazione per due anni, o ad altri casi analoghi? Il Paese è rimasto in piedi per merito delle famiglie italiane risparmiatrici, le quali dalla politica fiscale del governo sono state trascurate molto più delle imprese.

Bruno Milano

L’ESERCITO NON È NETTEZZA URBANA I nostri militari sono abituati a rispettare gli ordini. Quindi con disciplina anche questa volta i ragazzi dell’Esercito hanno risposto con un “Signor sì” al governo che li ha spediti nuovamente a Napoli per raccogliere tonnellate di rifiuti dalle strade. Spero solo che il buonsenso prevalga: non è accettabile che si riducano di numero i nostri contingenti all’estero, impegnati nelle missioni di pace, e nello stesso tempo si utilizzino le Forze Armate nel capoluogo campano per svolgere funzioni di nettezza urbana. Non è questo il loro compito.

APPUNTAMENTI MAGGIO VENERDÌ 20 ORE 11 - ROMA - PALAZZO FERRAJOLI Consiglio Nazionale dei Circoli Liberal

LE VERITÀ NASCOSTE

Gianfranco

Maratona rilassante “Yogathon”, la maratona di yoga svoltasi di recente a Hong Kong, ha visto decine di partecipanti meditare sul proprio materassino in mezzo alla strada per attirare l’attenzione dei passanti sui benefici che questa pratica può portare alla salute. I più resistenti sono andati avanti per 8 ore, mentre i comuni mortali potevano interrompere l’allenamento anche dopo solo 60 minuti

QUESITI SUL FEDERALISMO FISCALE Cosa cambierà con il federalismo fiscale municipale? Le imposte andranno a beneficio principalmente dell’area in cui saranno riscosse? Sarà possibile premiare gli Enti locali che non spendono più di quanto incassano e i Comuni potranno far fronte ai propri impegni e, al tempo stesso, abbassare la pressione fiscale?

Mario Coppola


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grandangolo In dieci anni è diventato la seconda valuta di riserva dopo il dollaro

L’Euro, ultimo fortino di un’Europa sempre più in crisi

La politica estera comunitaria arranca. Continuiamo a dividerci sui valori della solidarietà. Si vogliono ripristinare le frontiere. E progetti ambiziosi come quello dell’esercito europeo sono finiti in soffitta. L’unico fatto incontrovertibile, è che a unire 375 milioni di persone, oggi, è solamente la stessa moneta di Enrico Singer a lite su Schengen e sui controlli alle frontiere. Quella sull’atteggiamento da tenere di fronte alle crisi dall’altra parte del Mediterraneo, con l’intervento in Libia che ha esasperato le tensioni. In più, le divergenze sull’opportunità di aprire le porte alla Turchia, le fibrillazioni dell’asse Parigi-Berlino, i ritardi nell’interminabile corsa per stabilire regole comuni per accogliere gli immigrati che, ieri, hanno fatto esplodere ancora una volta la rabbia di Maroni contro la Ue «bugiarda e sempre assente». E, soprattutto, le difficoltà dell’Euro, assediato dal rischio della bancarotta in Grecia e dai conti da salvare di Portogallo, Irlanda e Spagna, che dimostrano quanto sia difficile la vita dell’unica moneta del mondo che non ha uno Stato alle spalle, ma un’Unione di Paesi che si riscoprono sempre più gelosi dei loro interessi nazionali. L’elenco dei problemi scoppiati negli ultimi mesi è lungo e potrebbe continuare. Sembra quasi che l’affascinante architettura dell’Europa unita, pensata per farne una potenza capace di competere alla pari con America e Asia, sia diventato un ecomostro. Si voleva costruire uno scintillante grattacielo, si sta realizzando un brutto condominio dove ognuno punta ad aggiungere qualche stanza alla sua casa per stare più comodo infischiandosene del piano regolatore. Che si chiami Patto di stabilità, voce unica in politica estera, o principio di sussidiarietà. Nei vertici europei, ormai, non si

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fa altro che inseguire dei correttivi per salvare il salvabile. Anche lunedì e martedì, quando si riuniranno a Bruxelles i ministri dell’Economia e delle Finanze, alla fine, un compromesso sarà trovato. Ma nessuno s’illude di chiudere la partita con il prestito già promesso al Portogallo o con quello, nuovo, che potrebbe arrivare alla Grecia.

La situazione generale non consente grandi margini di manovra. Proprio alla vigilia dell’Ecofin della prossima

ché è il risultato di segno positivo della compensazione di performance molto lontane tra i diversi Paesi con l’Italia che si conferma più lenta tra i “grandi” – l’1 per cento di crescita quest’anno e l’1,3 il prossimo – con, in più, la prospettiva di toccare il record della massa del debito pubblico a quota 120 per cento del prodotto nazionale lordo. Se dalle previsioni, poi, passiamo ai dati verificati nel primo trimestre 2011, vediamo che la Germania è cresciuta del 4,8 per cento su base an-

Dopo il fallimento della Costituzione, le divisioni sono cresciute e il Trattato di Lisbona è stato un compromesso al ribasso settimana, il commissario agli Affari economici, Olli Rehn, ha presentato le “Previsioni di primavera” che sono la fotografia di quello che la Ue si aspetta per l’anno in corso e per quello che verrà. La media della ripresa – l’1,75 nel 2011 e attorno al 2 per cento nel 2012 – non deve trarre in inganno per-

nua. Buono anche l’aumento della Francia – il 2 per cento nel confronto con il 2010 – mentre la Grecia ha perso il 4,8 per cento: dato speculare, ma rovesciato, rispetto a quello tedesco. Ecco che le resistenze di Berlino a concedere altri 60 miliardi di euro ad Atene trovano una spiegazione anche

nei numeri. Se non sono bastati i 110 miliardi dell’anno scorso a far uscire la Grecia dal tunnel, quante possibilità ci sono che possa bastare adesso un prestito-bis? Domanda retorica. Che introduce, però, un elemento spesso trascurato quando si discutono i piani di salvataggio decisi dalla Ue. Perché, in realtà, quei soldi non andranno ad Atene, ma alle banche – in prima fila quelle tedesche – che hanno investito nel debito greco scommettendo sugli effetti del primo aiuto. In pratica, il nuovo prestito servirà al governo di Atene per pagare gli interessi sul primo, a evitare la bancarotta, ma anche a evitare perdite molto dolorose ai possessori dei titoli di Stato greci.

Tutta la campagna che c’è stata negli ultimi giorni in Germania sul rischio dell’uscita della Grecia dall’euro, secondo quanto si dice nei corridoi dei palazzi di Bruxelles, aveva proprio lo scopo di togliere dal tavolo delle possibili soluzioni quella alternativa al nuovo prestito: la rinegoziazione del debito. Di fronte a un rinvio della scadenza o a un rendimento più basso dei titoli di Stato greci, i primi a essere danneggiati sarebbero i possessori di questi bond e, guarda caso, il danno è stato valutato dagli esperti in 50-70 miliardi di euro: esattamente la forchetta entro la quale si dovrebbero muovere i nuovi aiuti di cui si parla. Dal prestito-bis, insomma, oltre al governo di Giorgio


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Il monito del presidente alle banche

Trichet: «Più rigore contro i rischi finanziari»

Papandreou che è soffocato dagli scioperi, trarranno beneficio le banche che hanno intermediato grandissime quantità del debito greco e che rischiano ora di perdere una parte del loro capitale. La ristrutturazione del debito, inoltre, potrebbe innescare un effettodomino. Se venisse concessa alla Grecia, perché non concederla anche all’Irlanda e al Portogallo? E magari anche alla Spagna? Da parte di tutta la comunità finanziaria europea, soprattutto tedesca, c’è un forte interesse perché i greci rimborsino i loro debiti, meglio ancora se attraverso gli aiuti. Realizzando una specie di partita di giro: con una differenza non di poco conto poiché i soldi vengono pagati dai governi, ma finiscono alle banche. In

ropeo sono finiti in soffitta, è un fatto incontrovertibile che 375 milioni di persone si ritrovano in tasca la stessa moneta. Che, nelle intenzioni di chi lottò per introdurla, doveva essere la logica conclusione del processo avviato con la creazione del mercato unico europeo, eliminando le barriere imposte dai cambi tra valute diverse, ma anche il volano di una più forte unione politica. Il risultato è stato che oggi l’eurozona, la cosiddetta Eurolandia, rappresenta la seconda maggiore economia nel mondo. In dieci anni l’euro è diventato la seconda valuta di riserva dopo il dollaro e, con banconote e monete emesse per più di 790 miliardi, ha superato la circolazione della divisa americana. Ma la maggiore unità politica della Ue non è

Si voleva costruire un grattacielo, si sta realizzando un condominio dove ognuno punta ad aggiungere qualche stanza alla sua casa Germania questo ha aperto un conflitto tra l’esecutivo e i contribuenti che alimentano le casse dello Stato, ma che sono anche elettori e hanno già fatto capire il loro risentimento ad Angela Merkel nelle ultime consultazioni regionali. Di fronte al disastro di un’uscita della Grecia dall’euro, che Atene ha comunque smentito anche come ipotesi, l’opinione pubblica tedesca potrebbe ingoiare l’amara pillola del nuovo finanziamento perché gli effetti del fallimento dell’euro – «Se fallisce l’euro, fallisce l’Europa», ha detto la Merkel – spaventano di più.

Nella generale crisi dell’Europa, l’euro è rimasto l’ultimo fortino. Se la politica estera comune arranca, se ci si divide sui valori della solidarietà, se si vogliono ripristinare le frontiere, se progetti ambiziosi come quello dell’esercito eu-

arrivata. Anzi, dopo il fallimento della Costituzione europea, si sono moltiplicate le divisioni e il Trattato di Lisbona del 2007 che ha fissato la nuova struttura dell’Unione è stato un compromesso al ribasso che ha salvato soltanto formalmente istituti come il presidente stabile del Consiglio europeo o il ministro degli Esteri che è stato ridimensionato anche nel titolo che rimasto quello di Alto rappresentante per la politica estera. L’euro, insomma, non è riuscito a fare il miracolo di trasformare la Ue in qualche cosa che somigliasse più agli Stati Uniti d’Europa che alla vecchia Cee, la Comunità economica europea. Il problema dei problemi è tutto qui e non bastano i prestiti miliardari ai Paesi in difficoltà per mettere davvero in moto il motore di una politica comune che possa sanare gli squilibri dai quali nascono le crisi. Quella della Grecia e, in genera-

le, dei “Pigs” – Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna – ha una spiegazione, in fondo, molto semplice: la moneta forte che vale quasi un dollaro e mezzo e che va bene per la Germania e il club dei Paesi del Nord non va bene per chi ha nel turismo il settore trainante dell’economia.

Quando l’Estonia è entrata nell’euro, il primo gennaio di quest’anno, i Paesi di Eurolandia sono diventati 17. Qualcuno aveva fatto gli scongiuri. Per fortuna non in tutti i Paesi quel numero porta male e poi l’allargamento dell’area della moneta comune – si partì in dodici e, su 27, ne mancano ancora dieci molti dei quali sono in lista d’attesa – è un fatto oggettivamente positivo per non interrompere l’effetto-calamita della valuta unica che cova un sogno nel cassetto: convincere anche la Gran Bretagna a fare il grande passo e a lasciare la sterlina per l’euro. Nell’ultimo anno del governo Blair se ne parlò anche come di una possibilità concreta. Adesso sembra una chimera. Di sicuro, tuttavia, l’euro è veramente l’ultimo caposaldo della Ue che resiste e da dove tutto può ancora ripartire, magari anche con tempi lunghi e numerosi ulteriori compromessi, ma dove si rischia anche di perdere la battaglia finale che trascinerebbe l’Europa nel caos, come ha ammesso Angela Merkel. In questi giorni si sta definendo la successione alla presidenza della Bce, la Banca centrale europea che governa l’euro. Forse già lunedì, dai ministri dell’Ecofin riuniti a Bruxelles, potrebbe essere ufficializzata la candidatura di Mario Draghi. La prudenza e – in questo caso sì – anche la scaramanzia, impongono cautela pur se tutte le voci e le indicazioni sono concordi. È certo, però, che il ruolo della Bce e del successore del francese Jean-Claude Trichet saranno decisivi per le sorti anche politiche della Ue proprio perché la Eurotower di Francoforte è oggi il fortino dell’Europa che non vuole cedere agli euroscettici che non sono, soltanto, i movimenti nazionalisti e populisti sparsi in giro per il Continente. I veri euroscettici sono anche i leader di quei governi che hanno portato la Ue sull’orlo del baratro dove si trova adesso.

MADRID. Lo sprone di Jean-Claude Trichet continua a spingere per la ripresa e la sicurezza bancaria. «È un obbligo assoluto, per tutti noi, continuare a fare tutto quanto è necessario per rafforzare la resistenza del sistema finanziario» e questo vuol dire continuare il processo di riforma, ha detto il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, in un intervento a un convegno a Madrid sulla riforma del sistema finanziario. «Al momento - ha aggiunto - siamo a metà del cammino verso quella riforma comprensiva del sistema finanziario richiesta dalla crisi». Dopo un primo pacchetto di riforme approvato all’indomani della crisi finanziaria mondiale, ha ricordato Trichet, «alcuni pensavano che si potesse ormai tornare alla normalità», ritenendo superflue nuove riforme. «Non sono assolutamente d’accordo su questo punto», ha detto Trichet, anche perché «è estremamente improbabile che le nostre democrazie siano pronte a mettere in campo lo stesso impegno finanziario per evitare una Grande depressione nel caso in cui dovesse emergere un’altra crisi della stessa natura». È necessario fare di più, ha ribadito Trichet, per garantire che «il sistema finanziario riesca a sostenere la crescita economica ed eviti crisi future». Poi, a proposito del sistema bancario, Trichet ha sostenuto che le «banche di rilevanza sistemica devono aumentare il capitale», aggiungendo che la crisi «ha messo a nudo profonde mancanze nel sistema» e che gli accordi di Basilea 3, che imporranno anche requisiti di capitale più elevati per le banche cosiddette di interesse sistemico, «saranno positivi per la crescita economica». A questo proposito, infine, Trichet è tornato a chiedere una procedura per gestire l’insolvenza di banche con importanza sistemica.


mondo

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Due kamikaze si fanno esplodere a Charsadda, vicino a Peshawar. La firma è quella di Hakimullah Mehsud

L’ora della vendetta Al Qaeda fa strage tra le reclute della polizia: 87 morti, oltre 100 feriti

A destra, un fotogramma del terribile attentato che ha devastato il centro di addestramento pakistano. Le reclute stavano uscendo per una licenza di dieci giorni. A sinistra: Meshud, capo indiscusso dei Tehrik-i-Taliban Pakistan. In basso, il presidente Zardari

di Luisa Arezzo a vendetta arriva su due moto - terrore di qualsiasi soldato - ed è subito strage. Nel nome di Osama bin Laden due kamikaze del Tehrik-e-Taliban Pakistan (il Movimento degli studenti del Pakistan, Ttp) si sono fatti esplodere davanti a una caserma di Charsadda (a circa 35 chilometri da Peshawar, capoluogo della provincia nord-occidentale di Khyber Pakhtunkhwa), mentre i militari - soprattutto cadetti e guardie di frontiera - stavano uscendo per

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«Lo abbiamo fatto per vendicare bin Laden», ha fatto sapere Tehrik-i-Taliban Pakistan, l’organizzazione guidata dal giovane qaedista. «Adesso attendetevi attentati ancora più grandi» andare in licenza. Il bilancio è quello delle grandi occasioni dell’orrore: 87 feriti e oltre cento feriti. Il principale gruppo terroristico del Pakistan, legato ad al Qaeda in maniera palese dal almeno quattro anni e che ha le sue basi nel Waziristan, subito dopo il blitz di Abbottabad aveva promesso attentati a stretto giro in Pakistan e Stati

Uniti. E la sua prima minaccia non è caduta nel vuoto. Il governo di Islamabad, ai suoi occhi colpevole di lavorare con il nemico imperialista e soprattutto di non applicare la shari’a, è coinvolto tanto quanto Washington nella morte dello sceicco del Terrore. E va punito. Poco importa che a farne le spese siano state soprattutto delle

giovani reclute. Al Qaeda non si è mai fatto di questi problemi. Anzi: più terrore c’è, meglio è.

L’attentato, secondo una prima ricostruzione della polizia pachistana, si è consumato nell’arco di due esplosioni molto ravvicinate: la prima è stata certamente causata da un attentatore suicida in motocicletta che si è schiantato contro l’ingresso dell’edificio delle Guardie di frontiera, da dove stavano uscendo le reclute che si accingevano a salire su alcuni autobus per un periodo di congedo. Qualche momento

dopo è avvenuto un secondo scoppio di natura incerta. Secondo alcuni testimoni il kamikaze sarebbe sempre arrivato a cavallo di una moto. Il capo della polizia del distretto di Charsadda, Nisar Khan Marwat, ha indicato che le reclute erano tutte in abiti civili perchè si accingevano ad usufruire di un congedo di dieci giorni. Una morte tremenda se li è portati via. Tehrik-e-Taliban Pakistan non è un gruppo omogeneo, ma un’alleanza tra diversi leader talebani che controllano il confine pachistanoafghano e che hanno comuni

obiettivi. Tra questi ci sono: l’applicazione della shari’a; l’unità d’azione contro le truppe internazionali in Afghanistan; il jihad in Pakistan unito al rifiuto di negoziare con il governo; la liberazione di decine di esponenti incarcerati; l’abolizione dei checkpoint e, ovviamente, lo stop alle operazioni militari nella regione. Il salto di qualità lo ha fatto fra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, quando ha stretto un’alleanza formale con i talebani afghani del Mullah Omar e con al Qaeda, alleanza che ha portato alla formazione di un consiglio unita-

Il pericolo dell’atomica, l’impossibilità di “regalare” il paese alla Cina e la minaccia armata impediscono la rottura diplomatica

Islamabad, l’alleato inaffidabile (ma utile) l dualismo è stato per anni una caratteristica delle relazioni fra Pakistan e Stati Uniti. Basti pensare agli anni Settanta, quando Islamabad negava categoricamente che stesse perseguendo un programma di armamenti nucleari, nonostante le prove concrete che Washington gli aveva ripetutamente messo di fronte. Con il succedersi di presidenti e assemblee del Congresso, il programma nucleare andò avanti nel suo cammino, finché nel 1998 venne effettuato con successo il primo esperimento. Non dovrebbe quindi essere sbalorditiva per nessuno la notizia che Osama bin Laden se n’è stato comodo comodo, probabilmente per sei anni, a pochi chilometri dalla West Point pakistana. Una simile sistemazione sarebbe stata impraticabile senza la complicità di elementi del governo pakistano, più probabilmente dell’Inter-Service Intelligence che anni fa diede origine ai Talebani. La domanda chiave è in che misu-

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di John R. Bolton ra le strutture civili e militari di Islamabad fossero a conoscenza della presenza di bin Laden. La reazione iniziale del Congresso è stata esplosiva. Come può un “alleato” aiutare il nostro più acerrimo nemico? I pakistani hanno dato diverse risposte, con diverse variabili di

cleari del Pakistan finiscano nelle mani degli estremisti islamici, ipotesi possibile in primo luogo per eventuali “perdite” pilotate dell’arsenale, in secondo luogo perché l’intero paese potrebbe cadere nelle mani dei terroristi. Se esistesse una sola possibilità di catturare o di-

È il momento di un confronto diretto e franco con il governo, affinché non possa più continuare il suo doppio gioco. Come prova deve riprendere gli attacchi contro i talebani credibilità. Molte di queste ricordano il Capitan Renault di Casablanca: Sono scioccati – scioccati! – che bin Laden fosse ad Addottabad. La questione che Washington deve affrontare adesso è cosa fare di questo alleato ribelle. In gioco ci sono tre fondamentali interessi per gli Stati Uniti. Prima di tutto, evitare che le armi nu-

struggere queste armi, sarebbe già un successo. Ma al momento nulla apre a questa ipotesi. Le armi sono troppe e dislocate in posti affatto diversi. Senza contare la reazione che potrebbe avere Islamabad qualora, dopo un simile attacco, qualcosa fosse rimasto in piedi. In secondo luogo, evitare che il Pakistan scivoli sotto il dominio della Cina. Nel

corso della Guerra Fredda, il Pakistan cercò un potente alleato di bilanciamento contro i legami dell’India con l’Unione Sovietica.

Islamabad si chinò alternativamente a Washington e Pechino che, per sottolineare il suo interesse strategico, fu pronta a fornirgli progetti definitivi per la costruzione di armi nucleari. Il mese scorso il primo ministro pakistano, Yousuf Raza Gilani, ha suggerito al presidente afghano Hamid Karzai un’alleanza al fine di scrollarsi di dosso gli Stati Uniti e allinearsi con la Cina. La quasi-belligeranza di Pechino è già evidente in Oriente e nei mari della Cina del sud con le sue aggressive manovre navali e le sue rivendicazioni di espansione territoriale. E gli Stati Uniti non possono permettersi di perdere due paesi dell’Asia Centrale di fronte a simili aspirazioni egemoniche. In terzo luogo, abbiamo ancora bisogno della collaborazione del Pakistan


mondo

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de un attacco dei droni americani mi chiedono: allora, di chi è questa guerra?». In tutta risposta, ieri i droni statunitensi hanno compiuto l’ennesimo raid sul nord del Waziristan, provocando almeno 4 vittime.

Il generale Khalid Shameem Wynne, numero due dell’esercito pachistano, nel frattempo ha annullato una visita negli Stati Uniti a causa del «contesto attuale» delle relazioni fra i due Paesi. Che dopo il blitz di Abbottabad (a loro nascosto fino a 15 minuti prima o dopo - non si è ancora capito) sono più fredde che mai. Con gli Usa ormai certi della protezione offerta a bin Laden dai servizi segreti collusi con i militari. L’ultima carta a favore di questa tesi è che l’ex numero uno di al Qaeda non avesse un piano di fuga. Insomma, fosse così certo della sua invulnerabilità e della sua rete di sostegno che - fra i tanti piani elaborati - non aveva minimamente pensato ad escogitarne uno per se stesso. «Era diventato troppo sicuro», ha detto alla Cnn un funzionario Usa. Al momento del blitz c’erano solo altri tre uomini con il leader di al Qaeda: un figlio e due rio. Sono accusati di innumerevoli stragi con la complicità di gruppi jihadisti del Punjab pachistano e anche dell’assassinio di Benazir Bhutto nel dicembre 2007.

Gli Usa li sospettano coinvolti anche nel fallito attentato di Times Square. Capo del Ttp è Hakimullah Mehsud, ex vice del fondatore Baitullah Mehsud, ucciso da un drone Usa nel 2009. È lui ad aver pianificato nel settembre del 2008 l’attentato al Marriot hotel di Islamabad (50 morti e 300 feriti) così come l’attacco il 30 dicembre

del 2009 alla base operativa avanzata Chapman a Khost, in Afghanistan, in cui vennero trucidati 7 militari Usa. Dato per morto oltre un anno fa, è ricomparso in un video sul web nell’aprile 2010 per minacciare attentati contro «le grandi città americane». E adesso sulla sua testa pende una taglia di 5 miliardi di dollari.Taglia destinata a salire dopo l’attacco di ieri e la minaccia ancora più reale che rappresenta. «Si tratta del primo atto di vendetta per il martirio di Osama», ha dichiarato un sedicente portavoce talebano, Ehsanullah Ehasn, mi-

nacciando «attentati più gravi in Pakistan e in Afghanistan» per colpire gli interessi americani e il governo di Islamabad. Quest’ultimo, per voce del suo premier Yusuf Reza Gilani, per scongiurare il peggio ha continuato a battere sul tema a lui più caro: ovvero che gli attacchi degli aerei Usa teleguidati (i droni) vengano posti sotto la supervisione di Islamabad per essere maggiormente efficaci: «Nessuno può vincere una guerra senza il sostegno dell’opinione pubblica: io dico alla mia gente che si tratta della mia guerra, ma ogni volta che acca-

Negli ultimi tre anni gli attacchi dei talebani hanno causato (solo in Pakistan) la morte di oltre 4.300 persone. Gli Usa temono che il commando dei Navy Seals possa diventare un bersaglio corrieri, rimasti uccisi anche loro. Cosa significa tutto questo? - ha continuato la fonte - come poteva sentirsi così sicuro vivendo in quel posto per così a lungo e con così poca sicurezza?» Ovvia la risposta. Era protetto. Ma ad ennesima dimostrazione della sicurezza del leader, il funzionario ha anche sottolineato come nel covo di

per continuare la guerra contro i talebani e al Qaeda. Purtroppo, il presidente Obama è sul punto di accorpare la morte di bin Laden ai suoi preesistenti racconti di successi in Afghanistan, giustificando quindi l’annunciato ritiro delle truppe per luglio. Questo è esattamente il contrario di quello che dovremmo fare. Piuttosto, dovremmo far leva sul momento psicologico e operativo fornito dalla morte di bin Laden per far pressione senza pietà sul nemico. Viceversa, il Pakistan leggerà il sostanziale ritiro delle truppe Nato e statunitensi come il segno di una riduzione dell’influenza americana – nella regione e nel mondo – e si comporterà di conseguenza.

Questo è il momento per un confronto diretto, alla stregua di quello che ci fu all’indomani degli attacchi dell’11 settembre 2001. Dobbiamo insistere inequivocabilmente con il Pakistan affinché si ricollochi contro il terrorismo, facendogli capire che il suo doppio gioco non verrà mai più tollerato. Il che significa in primo luogo sollecitare il Pakistan a condurre maggiori operazioni militari contro i Talebani e al Qaeda. Dobbiamo inoltre avere un confronto diretto con gli alti ufficiali pakistani per

Abbottabad sia stato trovato «molto più materiale di quanto ce ne aspettassimo», materiale che bin Laden non ha neanche tentato di distruggere. Tanto che «ci vorranno mesi» per analizzarlo. «Se sei l’amministratore delegato di al Qaeda, alcune volte ti concentri sulla strategia, altre sulla gestione o sul personale», ha continuato la fonte. Bin Laden «era coinvolto in tutti i settori» e per questo l’amministrazione Usa ritiene che il suo compound possa essere considerato «il centro di controllo e comando dell’organizzazione». E non una casa di riposo per il terrorista. Intanto, rompendo il silenzio che lo aveva contraddistinto in questi giorni, George W. Bush ha raccontato la circostanza in cui è venuto a conoscenza della morte di bin Laden. «Ero a cena al Rise Restaurant con Laura e due amici e stavo gustando un soufflé» quando la Casa Bianca lo ha chiamato, chiedendogli di tornare a casa perché il presidente doveva parlargli. «Obama mi ha detto queste semplici parole: Osama è morto». Quindi il presidente Usa ha raccontato al suo predecessore i dettagli del-

l’operazione e quelli che lo avevano portato ad autorizzare il blitz. E Bush ha concluso: «È stata una buona decisione». Il pensiero adesso va agli uomini delle forze speciali dei Navy Seals che hanno condotto il blitz, perché ci sono concreti timori che al al Qaeda voglia vendicarsi colpendo loro con le rispettive famiglie.

no. Nuova Delhi sostiene che l’accordo Simla del 1972 codifica la sua posizione e che la disputa può essere risolta solo bilateralmente tra India e Pakistan.

capire esattamente che tipo di assistenza sia stata fornita a bin Laden. Questi ufficiali complici di al Qaeda devono, per lo meno, essere rimossi dall’incarico. Hanno commesso un tradimento contro il loro stesso governo e hanno violato la nostra massima secondo cui chi sostiene i terroristi deve essere trattato come terrorista. Dovremmo anche

affrontare la ragione basilare per cui Islamabad ha acconsentito al terrorismo: precisamente, il suo continuo scontro con l’India sul Kashmir. Per chi non lo sapesse, il Kashmir è il terzo binario delle relazioni diplomatiche con l’India che, da quando la Gran Bretagna suddivise il subcontinente nel 1974, sostiene che il Kashmir sia india-

Quest’ultimo, il potere più debole, preferirebbe esserne escluso per organizzare il referendum promesso alla suddivisione per determinare lo status di un Kashmir ampiamente musulmano. L’india, inutile quasi starlo a sottolineare, questo referendum non lo permetterà mai. Il punto è che decennio dopo decennio, si sono perse molte occasioni (e molte proposte ragionevoli) per risolvere la questione kashmira. Nel frattempo, alcuni elementi del governo del Pakistan, ovvero i servizi segreti, hanno dato asilo a gruppi terroristici come Lashkar-e Taiba con lo scopo di minacciare l’India. Finché non si affrontano almeno le questioni basilari di sicurezza del Pakistan con l’India, il Pakistan non si concentrerà mai adeguatamente sulle questioni di sicurezza relative ai suoi confini con l’Afghanistan. Sarà un processo lungo e controverso. Ma è comunque un processo che merita uno sforzo maggiore degli Stati Uniti, perché coinvolge interessi straordinariamente importanti.


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Doppio vertice alla Casa Bianca: il presidente Usa vede Rasmussen (Nato), mentre l’ex colomba Tom Donilon fa i conti con Jibril (Cnt)

Obama senza pace Washington palcoscenico della diplomazia di guerra. Che ancora non può cessare di Antonio Picasso questo punto sono due i fronti della guerra libica. Il primo è interno al Paese e si spacca tra gli scontri da un lato e, dall’altro, i cauti segnali di un non meglio precisato dialogo tra le parti. Il secondo palcoscenico è dato dalla diplomazia, con l’epicentro di ieri a Washington.Partiamo dalle ipotesi di tregua. L’idea nasce dall’analisi delle dichiarazioni rilasciate dal viceministro degli Esteri del regime, Khaled Kaim. «Non riprenderemo Bengasi con la forza, ma percorrendo la strada politica». Alcuni osservatori occidentali hanno interpretato queste parole come una mano tesa da parte del governo di Gheddafi. È un’eventualità, però, che sembra ispirata da un eccessivo ottimismo. Chi chiede di aprire un dialogo lo fa o perché è in ginocchio, oppure perché si sente così forte da poter trattare. Data la situazione al

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fronte, sembra più plausibile la seconda. Intanto, del colonnello non si sa ancora nulla. Questo, già di per sé, potrebbe svilire le previsioni di un stop a breve del conflitto. Ieri, Mark Stone, reporter di Sky News britannica, ha indicato nella lobby del Rixos hotel di Tripoli la sala dove sarebbe stato filmato Gheddafi nel corso della sua ultima apparizione televisiva, avve-

Il leader degli insorti sperava in un successo diplomatico e di veder sbloccati 30 milioni di dollari a suo favore. Ma si è dovuto accontentare solo di essere diventato un interlocutore «attendibile» nuta forse mercoledì. Se Stone avesse ragione, il colonnello avrebbe beffato gli occidentali ancora una volta. Rifugiandosi nello stesso albergo dove sono alloggiati i giornalisti stranieri, sarebbe assolutamente sicuro di non essere né colpito da un raid né catturato. La Nato non può permettersi di ripetere un colpo di mano simile a quello riuscito ai Navy Seals ad Abbottabad contro bin Laden.

Da preda astuta qual è, Gheddafi potrebbe essersi creato una protezione nella tana del medesimo lupo che gli sta dando la caccia. Per quanto riguarda le manovre sul terreno, Brega e Misurata sono tornate al centro dell’attenzione. La prima è sotto attacco. Mentre i ribelli hanno conquistato definitivamente l’aeroporto della seconda. Detto questo, l’inesattezza delle notizie che giungono dalla Libia spinge i governi stranieri a nuove polemiche. È il caso della Russia. Sempre ieri, il suo ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha giudicato inaccettabile l’intervento militare Nato. Da settimane, Mosca non interveniva nella questione libica. È probabile che questa volta abbia deciso di rompere il silenzio, sfruttando la richiesta delle Nazioni Unite di arrivare a un cessate il fuoco. È anche vero che, mentre il Palazzo di vetro si è espresso in appoggio alla popolazione – fiaccata ormai da due mesi di guerra – il Cremlino si è mosso per squisiti interessi geopolitici. «Vi sono troppe violazioni della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Queste cose sono inaccettabi-

Saleh: «Non me ne andrò mai». Erdogan contro Assad

Ma il Venerdì non fa Primavera

La piazza araba invade le città in Siria e Yemen. Continuando ad essere uccisa di Laura Giannone i difenderò e lo farò con ogni mezzo». Otto parole per confermare definitivamente quello che tutti avevamo già capito: Ali Andallah Saleh, presidente/dittatore yemenita al potere da trent’anni non ha alcuna intenzione né di avviare il dialogo né di mantenere le promesse fatte al suo popolo nelle prime settimane delle rivolte. E per essere ancora più esplicito, negli ultimi tre giorni ha pemesso alle sue forze armate di sparare ad altezza uomo, uccidendo almeno 22 persone. Le ultime tre solo ieri, durante le consuete proteste del venerdì. E mentre gli Usa chiedono la sua immediata uscita di scena, la Russia mette le mani avanti dicendosi contro l’eventuale prospettiva di un intervento straniero nel paese, come pure in Siria e Bahrein. La dichiarazione di Saleh, pronto a farsi da parte solo se battuto alle urne (ma non esistono elezioni libere nel paese) è arrivata poco dopo la certificazione del fallimento della mediazione delle mo-

«M

narchie del Golfo per porre fine alla crisi nel paese. L’ultimo a lasciare il tavolo è stato il Qatar. «La mediazione è morta e per questo si intensificherà la protesta» ha detto il portavoce dell’opposizione yemenita, Mohammad Qahtan, «le parole del presidente Saleh sono state una dichiarazione di guerra».

Stessa drammatica situazione esplosiva in Siria, dove non si fermano le manifestazioni anti-regime. Almeno due dimostranti sono stati uccisi a Homs e uno a Damasco nel nono venerdì di protesta dedicato alle donne arrestate nei giorni scorsi e ribattezzato il venerdì delle donne libere. A migliaia sono scesi per strada a Homs, Dera’a, Hama e nel kurdistan siriano a Qamshili, nonostante un massiccio dispiegamento delle forze dell’ordine. A Dera’a, città simbolo della rivolta, le forze di sicurezza hanno ripetutamente sparato in aria per dissuadere le migliaia di fedeli usciti dalle moschee dal marciare per la città. Ma invano. Secondo alcuni at-


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Sopra, due attiviste del Cnt libico. Foto grande: Obama assieme a Tom Donilon, consigliere alla Casa Bianca per la Sicurezza nazionale. A sinistra: Mustafa Abdul Jalil, presidente del Consiglio di transizione

ritieri», ha detto da Ginevra il portavoce dell’Alto Commissariato Onu per i Diritti Umani, Rupert Colville. Migliaia di persone anche a piazza Tharir, in Egitto. Scese in piazza per chiedere maggiore unità nel paese e la scrupolosa applicazione della legge per evitare una frattura interna nella società alla luce degli ultimi scontri intercofessionali.

L’atteso discorso di Barack Obama al mondo musulmano verrà pronunciato giovedì prossimo al Dipartimento di Stato tivisti, in tutto il paese sono stati allestiti posti di controllo, soprattutto vicino alle città teatro di manifestazioni in favore della democrazia e contro il regime. Sul fronte diplomatico Londra ha convocato l’ambasciatore siriano e annunciato nuove sanzioni contro il regime di Assad, mentre da Washington il Segretario di Stato, Hillary Clinton ha ammesso che gli Usa «stanno studiando un modo per aumentare la pressione sulla Siria che viola i diritti umani». Stime delle Ong riprese dall’Onu parlano di un bilancio molto pesante: tra 700 e 850 morti e migliaia di arresti in meno di due mesi. «Non possiamo verificare questi numeri, però esistono liste dettagliate e crediamo che siano ve-

E mentre la folla occupava la piazza è arrivata la notizia che la moglie dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak, Suzanne Thabet, era stata posta in stato di arresto preventivo nell’ambito dell’inchiesta su presunti guadagni illeciti. Tanto per cominciare, il procuratore generale della Repubblica ha disposto 15 giorni di custodia cautelare. E la folla ha esultato alla notizia, facendo così meno caso all’estensione dello stato di emergenza nel paese fino a dopo le elezioni. E al fatto che fino a questo momento nessun segnale fa sperare (anzi, il contrario) che l’Egitto si stia avviando verso un futuro di riforme e libertà. In molti sperano che il presidente Obama, da cui si attende - dopo il blitz di Abbottabad in cui è stato ucciso bin Laden - un discorso al mondo musulmano giovedì prossimo, si soffermi sulle aspirazioni inequivocabili della piazza araba per la democrazia. Ma una cosa è certa: l’intervento sarà forse il più difficile del presidente. Il mondo arabo lo attende al varco.

li». Da notare un ulteriore elemento nelle dichiarazioni di Lavrov. «India, Brasile, Cina e Sudafrica sono dello stesso parere», ha aggiunto il numero uno della diplomazia russa. I Paesi indicati sono tutti membri del “Brics”, ma soprattutto siedono contemporaneamente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. È molto probabile che Mosca intenda farsi promotrice in sede Onu di un allentamento delle tensioni su Gheddafi, onde evitare che – una volta finita la guerra – la torta libica venga spartita solo tra Usa ed Europa. Questo porta a dire che la congiuntura di politica internazionale non volge in favore della Nato. Passiamo proprio a quest’ultima. Perché è a Washington che l’Alleanza ha vissuto ieri i suoi momenti più intensi. La capitale Usa ha accol-

teggiamento dell’Alleanza. «Il colonnello Gheddafi continuerà a non essere un target della missione militare in Libia, anche se la Cpi deciderà di spiccare un ordine di arresto», hanno confermato dall’ufficio stampa Nato. Nel frattempo, il leader del Cnt, Mahmoud Jibril, si è confrontato con i responsabili della sicurezza della Casa bianca. È probabile che l’aspirante capo del governo libico sperasse in un successo, che sarebbe giunto da questo viaggio in Usa. Al contrario di quanto avvenuto nel pomeriggio di giovedì a Londra, quando il premier britannico David Cameron, ha invitato l’esecutivo di Bengasi ad aprire una rappresentanza diplomatica presso il governo di sua maestà, l’Amministrazione Obama ha temporeggiato. «Gli Stati Uniti hanno bisogno di ulteriori garanzie dai nostri interlocutori libici», ha detto il portavoce della Casa bianca, Jay Carney. La presa di posizione fa seguito alla scelta del Senato di non svincolare 30 milioni di dollari che Jibril aveva chiesto in aiuto dagli Usa. Un fondo che, in passato, era nelle mani di Gheddafi e che ora Washington ha congelato.Per gli Usa di Obama la questione si sta facendo complessa, soprattutto in termini morali.

L’Amministrazione democratica era salita al potere con l’obiettivo di porre fine alle tante criticità mediorientali. Il vice presidente, Joe Biden, il senatore John Kerry, ma soprattutto Thomas Donilon, consigliere per la sicurezza nazionale. Obama si è circondato di colombe che oggi sono costrette a comportarsi da falchi. È soprattutto Donilon a mostrare le maggiori contraddizioni. Già al potere con Bill Clinton, questo 65enne cattolico di Rhode Island si è cucito addosso l’abito del lobbista pacificatore, esperto di campagne elettorali e di politica estera. Alla fine degli anni Novanta, è stato uno degli artefici della pace in Bosnia. Alla fine del 2010, Bob Woodward, il giornalista del Washington post, durante la stesura del suo ultimo best seller, Obama’s war, si è avvicinato proprio al responsabile della sicurezza, per avere un quadro veritiero dell’exit strategy che la Casa bianca avrebbe ideato per l’Afghanistan. Oggi dev’essere uno smacco per Donilon fare il muso duro contro governi che parlano di democrazia. E che soprattutto hanno imbracciato il kalashnikov per rivoltarsi contro regimi oppressivi. Del resto, come negare che la Washington democratica, in questi giorni, sia scesa sul sentiero di guerra? Dall’operazione in Pakistan contro bin Laden – per la quale sempre Donilon ha replicato al governo di Islamabad – fino alla crisi libica. Non c’è pace per Obama.

Un reporter di Sky News ha riconosciuto nel video di Gheddafi la hall del Rixos hotel di Tripoli, dove stanno i giornalisti. Il leone, insomma, potrebbe essersi rifugiato nella tana del lupo to in successione il Segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, e una rappresentanza del Comitato nazionale di transizione (Cnt).Il primo ha avuto un colloquio bilaterale con Barack Obama. Il vertice ha fornito anche l’occasione di tornare a parlare di Afghanistan. Argomento erroneamente dimenticato in questi mesi. In merito alla Libia, i due leader si sono trovati concordi nel sostenere che il regime di Gheddafi è sul viale del tramonto. «È finito», aveva detto Rasmussen giorni fa. A questo punto, restano da osservare le mosse della Corte penale internazionale (Cpi) e del suo Procuratore generale, Louis Moreno-Ocampo. Da quest’ultimo si attende, dopodomani, la messa in stato di accusa del raìs libico e di suo figlio Saif al-Islam per crimini di guerra e contro l’umanità. Da queste stesse colonne, il generale Camporini ha già espresso la sua perplessità per un’iniziativa che, interpretata come una provocazione, potrebbe ostacolare la fine degli scontri. In merito resta immutato l’at-


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il personaggio della settimana Ma c’è chi dice che la sua designazione a leader di Confindustria sia fatta apposta per essere bruciata

Il signor dopo-Emma È colto, è schivo, è a capo di un impero che va dall’acciaio alla sanità. E soprattutto piace a molti. Carta d’identità di Gianfelice Rocca, candidato a successore della Marcegaglia di Alessandro D’Amato enso a Gianfelice Rocca, un galantuomo che rappresenta una storia imprenditoriale familiare di assoluta eccellenza». L’endorsement è di sicura autorevolezza, visto che viene dal vicepresidente di Confindustria e patron della Brembo, Alberto Bombassei. Incidentalmente, uno che in altri tempi non ha nascosto di voler puntare alla poltrona più alta di via dell’Astronomia. La candidatura di Rocca, ha proseguito l’altroieri Bombassei nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera, «è un ragionamento partito dalla territoriale di Bergamo ma che ha già avuto modo di ricevere molti consensi, anche durante le assise, tra alcune associazioni della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia. Diciamo che ho trovato sul territorio un apprezzamento abbastanza largo che conforta la mia idea e testimonia la stima di cui gode».

«P

E siccome i maligni sono sempre in agguato, c’è chi pensa che una candidatura avanzata così presto sia fatta apposta per essere bruciata. Ma sono soltanto maligni, di quelli che pensano che le cose in Confindustria vadano come una quindicina d’anni fa. Come nelle precedenti elezioni la candidatura di Emma Marcegaglia non era un segreto, e la tornata è stata una semplice formalità, quella di Rocca è una nomination “naturale”, visto il prestigio del personaggio. Laurea in Fisica e master ad Harvard, dal ’ 97 presidente del gruppo Techint, è cavaliere del lavoro e vicepresidente di Confindustria con delega all’Education. Sposato con Martina Fiocchi dal 1975, padre di due figli, un’anziana parente lo descrive come un uomo «prodigiosamente intelligente, morbido di carattere, affettuoso, insomma, è sempre stato il migliore tra i fratelli». All’epoca del discorso di presentazione di Silvio Berlusconi come presidente del Consiglio, tre anni fa, spese belle parole anche per la Lega: «Il voto operaio al Carroccio dimostra che la competizione globale viene giocata sul territorio ed è coerente con la concezione industriale», disse all’epoca dopo i complimenti di rito al Cavaliere. Una delle poche uscite pubbliche dell’intera famiglia Rocca, da sempre riservatissima e attentissima ai rap-

porti con la stampa e la politica: rare le interviste concesse, e soltanto in occasioni importanti. Come quella che li portò nel 2006 sui giornali di tutto il mondo. Un colosso, Tenaris, costituito qualche anno fa mettendo assieme i vari pezzi controllati dai Rocca in giro per il mondo: la Dalmine vicino Bergamo, la Siderca di Campana a poche decine di chilometri da Buenos Aires e la Tamsa in Messico. Ma non bastava: i due fratelli, Gianfelice e Paolo Rocca avevano in mente di costruire una società globale, la più grande del mondo. E quindi hanno continuato a comprare fabbriche e aziende un po’ ovunque: Romania, Brasile, Canada. D’altronde Gianfelice e Paolo sono i nipoti di Agostino Rocca, il mitico fondatore dell’azienda che nel 1945 lasciò l’Italia dove era stato il papà dell’acciaio pubblico assieme ad Oscar

perforazioni petrolifere, agli oleodotti ed all’industria meccanica; produttore di laminati piani e lunghi in acciaio; Techint Engineering & Construction, che raggruppa le società di ingegneria e costruzioni controllate da Techint nel mondo; Tenova, che raccoglie le aziende attive nelle attività di ingegneria per impianti siderurgici. Recentemente, a seguito dell’acquisizione della tedesca Takraf, Tenova ha ampliato le sue attività estendendole al settore minerario. Tecpetrol, attiva nell’esplorazione e produzione di petrolio e gas in vari paesi dell’America Latina.

L’Humanitas Cancer Center è il fiore all’occhiello: nato nel 1997, è frutto di un investimento di 30 milioni di euro. Una struttura dove si concentrano competenze altamente specialistiche contro

Laurea in Fisica e master ad Harvard, dal ’97 presidente della Techint, è vicepresidente di via dell’Astronomia Sinigaglia per creare la Techint a Buenos Aires. Un’operazione per quei tempi temeraria e che invece si sarebbe rivelata un grande successo imprenditoriale. Come quella riuscita ai due fratelli cinque anni fa, quando, mettendo sul piatto 3,185 miliardi di dollari, hanno comprato Maverick Tube Corporation, un’azienda americana forte negli Stati Uniti e in Canada.

Oggi la Techint è il maggior produttore di acciaio dell’America Latina ed uno dei primi trenta al mondo. Nel 2005-2006 il gruppo è stato riorganizzato in cinque brand: Tenaris, leader mondiale nella produzione di tubi in acciaio senza saldatura, destinati alle

il cancro, ma all’interno di un policlinico capace di offrire risposte a 360 gradi (a necessità ad esempio di carattere cardiologico, riabilitativo e di emergenza) e con un’organizzazione in grado di garantire supporto ai familiari e al paziente la continuità delle cure anche una volta dimesso, attraverso l’ospedalizzazione domiciliare e la collaborazione con gli hospice del territorio. Un’attenzione particolare, poi, viene rivolta alle persone guarite dal cancro, che oggi sono sempre di più e che possono avere bisogno di un percorso successivo particolare, di tipo sia medico-assistenziale sia psicologico. Il nuovo centro conta 200 professionisti dedicati fra medici, chirurghi, psicologi, fisici e biologi, a cui


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Raggruppa le produzioni di acciaio inossidabile

T h ys s en K r up p ap pro va l o sc or p or o d e ll a S tai n le s s Gl ob al ROMA. Il panorama dell’acciaio

In queste pagine, uno scatto della leader di Confindustria Marcegaglia, e due immagini di Gianfelice Rocca, proposto da Alberto Bombassei per il dopo-Emma, in un’intervista rilasciata nei giorni scorsi al Corriere della Sera si aggiungono 200 ricercatori full time e altre 200 persone dedicate all’accoglienza e all’assistenza dei pazienti. Il tutto in una struttura di 30mila metri quadri, con 300 posti letto fra ricoveri e day hospital, 20 sale operatorie, 110 ambulatori e macchinari ad alta tecnologia come l’innovativo Truebeam per la radioterapia (si veda Il Sole 24 Ore del 6 ottobre scorso) e il robot Da Vinci per la chirurgia. In totale, nella nuova struttura troveranno cura circa 30mila pazienti all’anno. Oggi i due fratelli rappresentano una diarchia perfetta. Gianfelice Rocca,

vicepresidente di Confindustria con la delega per l’education, è presidente della holding che controlla il gruppo Techint. Sempre Gianfelice, che vive e lavora a Milano, guida Tenova. Ancora: tocca a lui sovrintendere alle attività Techint come società di ingegneria in Europa e Messico. E a Gianfelice fa capo anche il gruppo Humanitas.

Quanto a Paolo Rocca, dal suo ponte di comando di Buenos Aires (ma sempre più spesso vive e lavora a Houston) è presidente e amministratore delegato di Tenaris, numero uno modiale nel settore dei tubi per l’energia. Paolo ricopre inoltre la carica di presidente di Ternium, la holding per l’ acciaio che detie-

ne la quota più rilevante del mercato sudamericano del settore. Scrive Lettera43 che da decenni, i Rocca sono considerati “gli Agnelli” del Mar del Plata: è loro, per esempio, il più alto grattacielo della capitale argentina. «A noi piacciono i grandi lavori», dichiarò anni fa lo stesso Gianfelice, «come gli oleodotti attraverso le Ande o il gasdotto che porta a Buenos Aires il gas della Patagonia».

«Si tratta di imprese che nascono e muoiono nel giro di uno-due anni, aziende gigantesche con un fatturato che può raggiungere i 500 miliardi». «Gianfelice ha l’età giusta, è saggio e ha il vantaggio di conoscere bene il sistema confindustriale perché è stato per due volte vice presidente insieme a me. Conosco la sua attitudine al lavoro di squadra per cui la sua sarebbe una presidenza poco accentratrice», ha chiosato Bombassei sempre nell’intervista al Corriere della Sera. E con il patron della Brembo, Rocca ha un altro pensiero in comune: «Io credo che l’Italia non possa vivere di sola “testa”. L’ipotesi di avere qui ricerca e design e altrove le fabbriche non sta in piedi. È la produzione il fulcro per sviluppare e mantenere le competenze sul territorio. Prendiamo Torino e l’auto. Lì abbiamo la meccanica, il design, l’università. Tutti elementi sviluppatisi grazie alla produzione locale. Il problema è il mix, cioè capire quali siano le produzioni a valore aggiunto che possono restare qui, quelle per cui il costo del lavoro non è la variabile principale», ha detto qualche tempo fa al Sole 24 Ore. Un’idea tipica dell’industriale che ha una tradizione familiare alle spalle. Come del resto gli ultimi due presidenti della Confindustria. Nei giorni scorsi sono trapelate indiscrezioni su alcuni incontri che

avrebbero portato all’individuazione di altri possibili candidati, tra cui Aurelio Regina e Giorgio Squinzi. Ma le candidature sembrano troppo più deboli rispetto a quella di Rocca. Anche perché dalla loro ci sono i risultati: lo scorso anno si sono laureati Paperoni di Piazza Affari, con un valore complessivo delle proprie società quotate in Borsa pari a 12,434 miliardi di euro. E il programma della nuova Confindustria firmata Rocca come sarà? In un’intervista rilasciata un paio d’anni fa al quotidiano di via Solferino, Gianfelice Rocca lanciava una serie di desiderata per la sua città: «Milano è al bivio. Da una parte sono all’opera delle forze che tendono a limitare il futuro come la grande crisi finanziaria e che spingono a ripiegarsi sul territorio. Dall’altra ci sono spinte localistiche che rischiano di cadere nella trappola del ”piccolo e locale è bello». Il localismo è un valore ma come ogni cosa può essere una risorsa o un limite. Stiamo demotivando gli infiniti eroi della Lombardia, li stiamo circondando di formalismi, li stiamo disconoscendo con una concorrenza sleale e qualche volta illegittima. Noi dobbiamo premiare chi fa. Aiutare chi osa».

«Milano deve essere l’avanguardia e il modello innovativo del rapporto tra pubblico e privato - dichiarava ancora al Corriere -. Dove il pubblico ha la regia, crea piattaforme di convergenza, ma non si intromette in attività che deve svolgere il privato. Chi sta all’estero e guarda l’ Italia vede un’eccellenza del privato e una debolezza del pubblico. Mentre da noi sta rispuntando l’ idea che il pubblico sia lo strumento per risolvere la crisi. A Milano non tenere in conto l’eccellenza del privato sarebbe un gravissimo errore». E la ricetta? «Il pubblico deve dare la direzione e creare piattaforme di convergenza tra le varie nicchie d’eccellenza che sono i suoi sapori. La competizione asiatica è molto forte ma è basata sui prodotti di massa. Milano deve trovare la sua competitività nella differenziazione arricchendo le sue specialità». Chissà, forse può andar bene anche per l’Italia.

in Italia, dove Gianfelice Rocca vive da protagonista, è destinato a cambiare rapidamente: il consiglio di sorveglianza del gruppo ThyssenKrupp ha approvato ieri lo scorporo della divisione Stainless Global, che raggruppa le produzioni di acciaio inossidabile del colosso tedesco. La notizia è di particolare importanza, qui da noi, per due ragioni differenti. La prima è che uno dei principali siti produttivi dell’acciaio inox è quello della Thyssen di Terni. La seconda è che i vertici tedeschi della Thyssen, subito dopo la dura condanna al recente processo per il rogo di Torino, avevano polemicamente detto che «continuare a investire in Italia» sarebbe stato più difficile: è del tutto evidente che ora, con l’eventuale scorporo proprietario dello stabilimento di Terni, il disimpegno italiano di Thyssen (leggi la vendita degli stabilimenti) appare molto più agevole. Il gruppo ThyssenKrupp «disinvestirà» dalle attività dell’area Stainless Global (acciaio inox) anche per avere una «maggiore libertà d’azione per ulteriori miglioramenti strutturali e risparmi sui costi»: lo ha detto il presidente del consiglio di amministrazione del gruppo tedesco, Heinrich Hiesinger, durante il suo intervento di apertura di una conferenza stampa tenuta ieri a Essen. La divisione Stainless Global, ha ricordato il manager, ha oltre 11mila dipendenti e ha chiuso lo scorso anno fiscale (2009/2010) con un fatturato di 5,9 miliardi di euro. Queste attività, quindi, rappresentano circa il 60 per cento del fatturato totale (circa 10 miliardi di euro) delle attività che il gruppo si prepara a vendere e circa un terzo in termini di organico (oltre 11mila dipendenti su un totale di circa 35mila). Bisogna ricordare che la ThyssenKrupp Inox conta oltre 3.600 dipendenti in tutta Italia, di cui 2.755 soltanto negli stabilimenti di Terni. Nella città umbra 2.317 dipendenti lavorano alla Tk-Ast, i restanti nelle società controllate (65 in Aspasiel srl, 211 Società delle Fucine srl, 162 Tubificio di Terni srl). Nell’anno economico 2010-2011 l’Ast ha previsto un budget previsionale di produzione pari a 1,234 milioni di tonnellate di acciaio. Il bilancio di esercizio 2009-2010 è stato chiuso con un deficit di 39 milioni di euro, mentre le previsioni per l’anno 2010-2011 stimano un attivo di 53 milioni di euro.



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