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17 marzo 2011 • pagina 19

150 anni d’Italia

ma in realtà nella sua disunione e riduzione a oggetto delle rivalità straniere non era una vera e propria storia, ma solo una serie di Cronache. Che però avevano avuto a protagonisti dei Giganti, da Leonardo a Michelangelo. Al contrario, l’Italia del Risorgimento aveva avuto per la prima volta una latitanza di grandi protagonisti della Storia dell’Arte, a parte il caso di Giuseppe Verdi. E osservava che non era un caso: per la prima volta i grandi cervelli italiani non erano stati distratti dalla corsa alla gloria delle Muse, ma si erano rivolti in modo primario al compito di costruire uno Stato. Così come avevano fatto tanti altri popoli europei, in effetti meno prodighi di geni, e un po’ più di solide istituzioni. Possibile che sia stato questo un tradimento a una missione sovrannazionale cui ci avevano destinato prima la storia della Roma imperiale, poi la storia della Roma pontificia? È quando rimproverò a suo tempo al Risorgimento Dostoevskij; è quanto in questi ultimi tempi di querule mode anti-risorgimentali è tornato a lamentare qualcuno, osservando ad esempio il livello non eccelso di una mostra come quella dei Pittori del Risorgimento. Intendiamoci: non eccelso, se si considera quello che era stato il livello dell’Arte italiana ad esempio nel Rinascimento. Ma avrebbe potuto continuare a esistere una cultura italiana capace di erogare al mondo la sua intensa luce sovrannazionale, se anche il XIX secolo fosse passato senza riuscire a dare a questa cultura una solida impalcatura statuale? La Corsica, ancora di cultura italiana fino al 1859, dopo di allora si francesizza in modo irrimediabile. Marx e Engels a quell’epoca osservano la tendenza dei de-

putati italiani al Parlamento svizzero ad usare il francese o il tedesco. E quella è anche l’epoca in cui una miriade di vernacoli dell’Europa Orientale iniziano ognuno a trasformarsi in lingua letteraria, puntigliosamente orgogliosa della propria autonomia.

Insomma, niente di più probabile che il Lombardo-Veneto si sarebbe germanizzato. Nel Regno di Sardegna si sarebbe imposto il francese, che sia Vittorio Emanuele II che Cavour usavo meglio dell’italiano. Il Regno delle Due Sicilie avrebbe sviluppato una lingua napoletana autonoma dall’italiano; imposta a siciliano, pugliese, calabrese, eccetera, con la stessa “violenza” poi rimproverata all’italiano, se non maggiore, Presumibile che uno Stato Pontificio del XX secolo dalla propria vocazione ecumenica sarebbe stato spinto verso l’inglese. E magari un ridotto di italiano sarebbe sopravvissuto nel Granducato di Toscana: ma ormai ripiegato definitivamente sulla propria identità locale. E sarebbe sopravvissuta senza questo humus l’«arte del saper fare bene italiano»? Anche questa è stata individuata come icona dell’identità nazionale, alla mostra del Vittoriano. «Il made in Italy viene da molto lontano: è il frutto di una lunga e fertile cooperazione tra cultura, arte, artigianato, abilità manifatturiera, territorio, memorie storiche. Questa sezione della mostra vuole essere testimonianza del “saper fare bene” in Italia nei tanti settori in cui il nostro Paese si è da sempre contraddistinto: moda, artigianato, cinema, design, cucina». D’altra parte, non è che l’Italia poi unificata non è che non ab-

Arte e Made in Italy, poesia e furbizia: un filo rosso ci lega da sempre bia ripreso a produrre geni. Sì: Paisiello scrisse l’inno del Regno delle Due Sicilie, Rossini per polemica contro l’unità nazionale se ne stette in esilio in Francia, Verdi forse non divenne risorgimentale che dopo aver visto i primi inni e cori riutilizzati dalla rivoluzione nazionale nel 1848. Ma non è stata l’Italia unita a produrre l’ultimo grande volo della grande opera lirica che proprio il nostro Paese aveva inventato, con i Puccini e Caruso e Toscanini? Certo: dopo la grande triade pre-risorgimentale Foscolo-Manzoni-Leopardi la nostra grande letteratura sembra un attimo insterilirsi. Ma non ha avuto poi l’Italia unita i sei Nobel a Carducci, Deledda, Pirandello, Quasimodo, Montale e Fo? Per non parlare di un libro come Pinocchio: metafora di un percorso iniziatico di maturazione che è anche quello dell’intero popolo italiano, scritta appunto da un combattente di Curtatone e Montanara. Conservatore scettico per sua polemica autodefinizione, Sergio Romano ha di recente ripubblicato una raccolta di tre saggi che per difendere l’Unità Nazionale reca il titolo provocatorio di Finis Italiae e sentenzia ancor più provocatoriamente come «il processo unitario è complessivamente fallito». In realtà, poi si scopre che più della provocazione c’è sotto quel tipico atteggia-

mento italiano da Montanelli attribuito a Machiavelli, e che vari critici hanno rilevato essere in effetti un tratto originario dello stesso Montanelli, e forse della gran parte dei nostri intellettuali. «Ostenta il cinismo, per mascherare l’amarezza». Con la scusa di essere «troppo conservatore per desiderare un evento che avrebbe effetti incalcolabili e imprevedibili», Romano spiega però poi che «bene o male gli italiani, in centocinquant’anni di storia unitaria, hanno creato un patrimonio comune fatto di istituzioni, aziende, opere pubbliche, miracoli economici, catastrofi e ricostruzioni, gare sportive, opere dell’ingegno, battaglie combattute insieme e non sempre perdute». «Questo eterogeneo patrimonio, disordinatamente stipato negli archivi della memoria nazionale, rappresenta, come direbbero i personaggi dei romanzi di Verga, la “roba italiana”. Se lo Stato in cui tutto questo è stato prodotto morisse, la roba andrebbe in gran parte dispersa».

E la roba, appunto, è la Fiat che viene chiamata da Obama al capezzale dell’industria automobilistica americana; e l’Eni cui Enrico Mattei fece scardinare il monopolio delle Sette Sorelle. Sono i Carabinieri che tutti vogliono nelle missioni di peace-keeping perché non ci sono

Risorgimento in breve

La conquista di Roma completa l’Italia

altri soldati al mondo ugualmente in grado di essere poliziotti e soldati allo stesso tempo; ed è la Dieta Mediterranea indicata dagli esperti come alimentazione più sana del mondo. È il patrimonio artistico più ricco del Pianeta, anche se noi ogni tanto lo lasciamo impunemente andare in briciole; ed è la nazionale di rugby che ha vinto la partita del Sei Nazioni con la Francia. È la piccola e media impresa dei distretti industriali che tanti Paesi ci pregano di insegnare ai loro imprenditori; ed è lo Stato che riesce ancora a farsi finanziare dai propri cittadini, anche quando la crisi finanziaria riduce le pretese tigri celtiche o vichinghe al livello di gattini spelacchiati. È Luigi Rizzo e Luigi Durand de la Penne, che da soli sconfiggono un’intera flotta nemica; ed è Paolo Rossi che torna a giocare dopo tre anni di squalifica, segna goal a ripetizione, e ti vince un Mondiale. È l’Italia che frana a Caporetto e si ritrova sul Piave; che scompare l’8 settembre e si ritrova il 25 aprile; che si presenta a un altro mondiale fuori uso per il calcio scommesse e lo vince; che viene sentenziata «Paese economicamente finito» e fa il miracolo economico. Insomma, il Paese che può fare tutto, perfino il proprio bene. Con l’unico, immenso problema che non sempre lo vuole.

1870 nseguita per una quarto di secolo dai rivoluzionari, Roma italiana arrivò per un complesso incastro diplomatico. La Francia (dopo la Repubblica Romana) aveva diritto di premazia sullo Stato Pontificio e non aveva mai consentito l’annessione della città al Regno d’Italia. Ma ne 1870 la situazione politica francese era caotica, se non compromessa, per via dello scontro con i tedeschi da un lato e dall’altro nel conflitto interno tra la Comune e i seguaci di Napoleone III. In estate, parve giutno il momento di «andare a riprendersi Roma». Sondati gli umori francesi

I

(ma caduto definitivamente Napoleone III, a chi si doveva chiedere?) e visto che non arrivano risposte, gli italiani partitono alla volta della Città Eterna. Dove giunsero proprio quando l’ultimo presidio dell’esercito francese era partito. Lo scontro finale avvenne davanti a Porta Pia, il 20 settembre. Al termine dell’ennesimo scontro fratricida, si contarono 49 morti tra gli italiani e 19 tra le milizie pontificie: l’Italia era fatta (mancavano Trento e Trieste, per le quali si ssarebbe fatta la Prima Guerra mondiale), ma senza un evento catartico alla sua radice.


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