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Un vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre, ma avere nuovi occhi

Marcel Proust

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 16 APRILE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

La Lega fa litigare i “cofondatori”. Secondo i primi calcoli, i finiani dovrebbero essere 25 alla Camera e dieci al Senato

Il Pdl sull’orlo della rottura

Fini: «O cambi o gruppi autonomi». Berlusconi: «Allora dimettiti» Drammatico incontro tra il premier e l’ex leader di An che gli dà 48 ore per una svolta nel governo e nel Pdl. Ma riceve un contro-ultimatum. Subito a consulto i finiani in Parlamento PARADOSSI NORDISTI

di Marco Palombi RMA. Doveva essere il pranzo del disgelo e magari è vero, ma solo perché la casa ha preso fuoco. Simbolicamente, mentre Berlusconi e Fini mangiavano al primo piano di Montecitorio, nelle vicinanze s’è materializzato Bossi, che oltre a ribadire che vuole le banche del Nord, ha anche buttato lì una di quelle sue icastiche uscite da bar di paese: «Io al loro tavolo? No, sarei il terzo incomodo», ha scolpito il leader della Lega. Per il resto, è stato un disastro: è finita con Fini che ha dato 48 ore al premier per cambiare strategia, «altrimenti facciamo gruppi autonomi». Se è così, «Devi dimetterti da presidente della Camera», gli ha risposto Berlusconi. Quasi una rottura nel Pdl, insomma. Material della contesa: la trazione leghista del governo, le riforme targate Calderoli e gli insulti del Giornale. C’è ancora spazio per un’intesa? Ieri sera, molti se lo chiedevano. a pagina 2

Ma il Cavaliere è leghista da sempre di Giuseppe Baiocchi a poco da arrabbiarsi, Gianfranco Fini: il “berlusconismo”non è mai esistito. Punto. Ed è davvero stravagante strologare sull’eventuale tramonto di una realtà inesistente (il berlusconismo, appunto). Certo, come tutte le cose che appartengono alla dimensione umana, poi vincerà la forza dell’anagrafe: e tuttavia su questa apparente «categoria dello spirito» si è discettato, si è tramato, si è odiato ed amato in quantità industriale. E, soprattutto sul versante dell’ “anti” si sono consumate acute menti intellettuali, si sono costruite sfolgoranti carriere del circuito mediatico-giudiziario, si sono elevate e sobillate tifoserie con l’intento esclusivo e neanche tanto nascosto di fermare comunque ogni modernizzazione del Paese, soprattutto all’interno della sinistra politica. Ebbene, diciamolo una volta per tutte: Silvio Berlusconi è sempre stato un “leghista”.

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La strategia finanziaria del Senatùr

Le ragioni di un’alleanza di ferro

Più che le banche, Il “berlusconismo” ora Bossi si è perso vuole i soldi nella nebbia delle Fondazioni della Padania Francesco Pacifico • pagina 5

Errico Novi • pagina 4

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

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Se ne è andato a 87 anni anni Raimondo Vianello: comico, intrattenitore, uomo di sport. Gentiluomo di un tempo passato

Ma non c’era più niente da ridere Una vita tra teatro, cinema e tv

Era una sorta di Lord inglese della risata, il maestro di eleganza della comicità. Oggi non era vecchio: era soltanto inattuale in un’Italia corriva, assediata dalla rozzezza

Da Roma a Milano, lo spettacolo di un emigrante di Roselina Salemi rmai era milanese a tutti gli effetti, anche se era nato a Roma e ci aveva vissuto per trent’anni. Era milanese come stile, oltre che come residenza, e non è un caso che la Provincia di Milano voglia commemorarlo allo Spazio Oberdan e che tutti cerchino un filmato, una foto, un ricordo. Era anche più milanese di Sandra Mondaini.

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di Alessandro Boschi stato un personaggio unico, nel suo genere: comico alla maniera popolare ma mai volgare, sempre elegantissimo. È morto a 87 anni Raimondo Vianello, il più inglese degli italiani.

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a pagina 13 I QUADERNI)

• ANNO XV •

NUMERO

72 •

WWW.LIBERAL.IT

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 16 aprile 2010

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Litigi. Il vertice tra il premier e l’ex leader di An finisce in una lite. Il Cavaliere scherza, ma i finiani promettono battaglia

Il giorno degli ultimatum Fini: «Il governo non può continuare a essere succube del Carroccio, altrimenti gruppi autonomi in Parlamento». Berlusconi: «Allora si dimetta» di Marco Palombi oveva essere il pranzo del disgelo e magari è vero, ma solo perché la casa ha preso fuoco. Simbolicamente, mentre Berlusconi e Fini mangiavano al primo piano di Montecitorio, nelle vicinanze s’è materializzato Bossi, che oltre a ribadire che vuole le banche del Nord, ha anche buttato lì una di quelle sue icastiche uscite da bar di paese: «Io al loro tavolo? No, sarei il terzo incomodo», ha scolpito il leader della Lega. Quanto a Fini, «con lui non c’è alcun problema, per ora». I problemi, però, sono già cominciati visto che fondatore e cofondatore del Pdl ieri hanno provveduto per un paio d’ore a sfilacciare fino all’inconsistenza la trama già lisa del loro rapporto. I due non si intendono più e la diffidenza antropologica che provano l’uno per l’altro, l’irritazione maltrattenuta che le pretese “diarchiche” di Fini ispirano al premier, è plasticamente raccontata dalle uscite con cui entrambi hanno voluto sottolineare i loro no comment.

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«Il presidente non ha nulla da dichiarare sull’incontro con Berlusconi - ha fatto dire Fini al suo portavoce - Se lo riterrà opportuno sarà il presidente del Consiglio a commentare l’incontro». Quello però non ci ha pensato neanche un attimo. «Ho mangiato benissimo», ha detto solo uscendo dalla Camera e poi è andato a farsi una passeggiata nella vicina via del Babuino, come fa sempre quando vuole dare l’impressione di essere calmo e rilassato: «Fatevelo dire dagli altri, sapete che sono riservato», ha detto ai giornalisti che gli chiedevano com’era andata con Fini. Da ieri, insomma, i finiani sono una minoranza del Pdl o forse fuori dal Pdl. Che sarebbe finita così d’altronde, nonostante l’aria da pace armata della vigilia, era nelle cose e nel carattere dei due: se Fini è troppo algido per il premier, quest’ultimo non è attrezzato per ascoltare critiche e

Puntata per puntata il lungo conflitto tra il Cavaliere e il presidente della Camera

Gli eterni duellanti del Popolo in Libertà di Franco Insardà

ROMA. La storia si ripete da più dieci anni. Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini come due fidanzati litigano, si chiariscono e poi fingono di fare pace. L’episodio più clamoroso è quello del predellino di piazza San Babila e delle comiche finali del 18 novembre 2007, quando l’allora presidente di Alleanza Nazionale si ritrovò senza partito in poche ore. Fino a qualche giorno prima Gianfranco Fini aveva lavorato alla costruzione politica di un partito unico del centrodestra, ma rimase spiazzato dall’accelerata del Cavaliere. Alla fine di novembre 2008 l’accusa di Fini è chiara: «C’è il rischio di cesarismo nel partito unico del centrodestra. Ci vogliono paletti contro il cesarismo e questi sono rappresentati dalla garanzia di democrazia interna ai partiti». Il webmagazine FareFuturo, fondazione animata dal presidente della Camera, diventa sempre più disinvolto e non risparmia critiche e affondi. E ad aprile 2009 “spara” su punta su donne (o meglio ancora veline) e tv. La politiloga Sofia Ventura scrive: «Le donne non sono gingilli da utilizzare come specchietti per le allodole, non sono nemmeno fragili esserini bisognosi di protezione e promozione da parte di generosi e paterni signori maschi, le donne sono, banalmente, persone.Vorremmo che chi ha importanti responsabilità politiche qualche volta lo ricordasse». Un attacco durissimo che costringe lo stesso Gianfranco Fini a puntualizzare definendo «comprensibili, ma eccessive e non totalmente condivisibili» le cose scritte dalla Ventura.

i suoi a presentare un disegno di legge al Senato rivisto e che non risolve i problemi giudiziari del Cavaliere. Ma per Fini l’esclusione della prescrizione in tempi brevi era l’unica via per ottenere la firma di Napolitano sul ddl. Da una parte FareFuturo dall’altra le bordate del Giornale hanno continuato a tenere alta la tensione tra i cofondatori del Pdl. All’inizio dell’anno, forse più come una buona intenzione, Feltri prevedeva in un suo editoriale che nel Pdl «le acque si siano calmate e che non dovrebbero tornare presto ad agitarsi». Ma uno dei fedelissimi finiani, Fabio Granata, dopo qualche giorno riparte all’attacco sia sulla nomina della Santanché sia sulle quote di rappresentanza all’interno del Pdl: «la quota del 70 e 30 sulla base del quale è nato il Pdl non significa più nulla, perchè il 30 per cento dovrebbe rappresentare le idee di Fini. Se poi, come accade spesso, i parlamentari vengono chiamati con metodi coercitivi a esprimere un’ortodossia stabilita non si capisce da chi, allora è un altro discorso».

Dalle comiche finali di piazza San Babila alle minacce di scissione, dagli editoriali del “Giornale” a quelli di FareFuturo

Da presidente della Camera Fini si è calato nella sua funzione istituzionale bacchettando a più riprese il Cavaliere, mentre i suoi fedelissimi denunciavano la mancanza di dibattito all’interno del Pdl. Gli scontri più duri si sono registrati sull’argomento che più sta a cuore a Berlusconi: la giustizia. La prescrizione breve prima e il processo breve poi sono stati terreno di attrito tra i due. Tant’è che a novembre del 2009 il Giornale. diretto da Vittorio Feltri, titolava «Fini vuole affossare Berlusconi». E il successivo incontro, mediato da Gianni Letta non è stato tranquillo proprio per il veto sulla prescrizione breve imposto dal presidente della Camera che ha costretto Berlusconi e

Le regionali non sono certo state un momento tranquillo sia per le vicende giudiziarie che hanno coinvolto Denis Verdini sia la bagarre per le liste alle Regionali del Lazio. E giusto per agitare ancora di più le acque Berlusconi ha annunciato la nascita dei «Promotori della libertà» guidati da MichelaVittoria Brambilla. Il rilancio di Berlusconi sulle riforme e sul semipresidenzialismo alla francese con l’elezione a turno unico hanno rinfocolato la polemica e hanno fatto dire a Fini: «Il modello francese funziona con una legge elettorale maggioritaria a doppio turno. Se, al contrario, si pensa che in Italia sia più opportuna una legge elettorale proporzionale a turno unico, si smetta di parlare di modello francese». Aggiungendo, qualche giorno dopo, che «è opportuno, ma non indispensabile, che una riforma così importante come quella del sistema italiano sia condivisa da un numero il più ampio possibile delle forze politiche». Alla fine di tutto lo sgarro del vertice con il“vincitore”delle Regionali: Umberto Bossi. Il Cavaliere e il Senatur hanno praticamente messo nell’angolo Fini, non sentendo la necessità di invitarlo per la seconda volta. E lui come un fidanzato sedotto e abbandonato si è mostrato più offeso del solito.

chiedere scusa. Il presidente della Camera s’è presentato infatti all’incontro di ieri deciso a dire tutto quello che non riesce più a digerire, fino alle cose più fastidiose da sentire per il Cavaliere, fino a mettere in discussione la buona fede con cui si è andati avanti sulla via della fusione tra An - già in buona parte acquisita alla causa berlusconiana - e Forza Italia, fino a minacciare la creazione di autonomi gruppi “finiani” in Parlamento a lavorare per governi di salute pubblica.

«Allora lasci la poltrona di presidente», gli avrebbe risposto il premier. Alla fine il presidente della Camera s’è chiuso in consiglio di guerra coi suoi fedelissimi, dopo che il premier aveva sostanzialmente congelato la questione chiedendo tempo - pare qualche giorno per riflettere. Se si arrivasse allo scenario atomico, stando alle liste di proscrizione berlusconiane (gli uomini di Fini sono di manica più larga), il Pdl perderebbe circa quaranta parlamentari: 30 alla Camera e 10 al Senato. Non sufficienti a mettere in crisi il governo (assenze permettendo), ma abbastanza per una legislatura al cardiopalma tutti i giorni e su ogni singolo provvedimento. Alla Prodi, insomma. Un rischio che Berlusconi preferirebbe non correre e quindi in molti scommettono in una formale ricucitura o anche in un prolungarsi indefinito della tregua armata. D’altronde, è il ragionamento dell’ala governista dei finiani, dove andiamo fuori dal Pdl? La consistenza elettorale di un partito di questo genere non supera il 4 o 5%, una soglia assai vicina alla morte politica. Lo scontro però, nonostante non convenga a nessuno, non poteva che scatenarsi. Fini nel tempo s’è convinto, non a torto, che Berlusconi voglia cancellarlo dalla mappa del centrodestra. Ha fuso i due partiti dopo essersi già guadagnato la fedeltà di buona parte degli ex colonnelli di An - una cosa che il presidente


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A destra, una manifestazione di protesta della Lega “Contro Roma Ladrona”. Nella pagina a fianco, il premier Berlusconi, e il presidente della Camera Fini. I due leader ieri si sono incontrati e il vertice è finito in lite

«Silvio, il vicesegretario della Lega» Quando Bossi, nel 2000, mi disse che avrebbe iscritto il Cavaliere d’ufficio al Carroccio di Giuseppe Baiocchi a poco da arrabbiarsi, Gianfranco Fini: il “berlusconismo” non è mai esistito. Punto. Ed è davvero stravagante strologare sull’eventuale tramonto di una realtà inesistente (il berlusconismo, appunto). Certo, come tutte le cose che appartengono alla dimensione umana, poi vincerà la forza dell’anagrafe: e tuttavia su questa apparente «categoria dello spirito» si è discettato, si è tramato, si è odiato ed amato in quantità industriale. E, soprattutto sul versante dell’ “anti” (l’antiberlusconismo appunto) si sono consumate acute menti intellettuali, si sono costruite sfolgoranti carriere del circuito mediatico-giudiziario, si sono elevate e sobillate tifoserie con l’intento esclusivo e neanche tanto nascosto di fermare comunque ogni modernizzazione del Paese, soprattutto all’interno della sinistra politica.

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Ebbene, diciamolo una volta per tutte: il cavalier e commendator Silvio Berlusconi è sempre stato un “leghista”. E, fin dall’inizio, non ci voleva molto a capirlo. Ma accettare la realtà per quello che era (ed è e sarà) era un esercizio troppo faticoso e poco gratificante per le “suburre salottiere” che governano l’informazione, che occupano con feroce determinazione ogni spazio di potere comunicativo, che accettano solo le tifoserie opposte. E

della Camera non può perdonargli - e ora lo tratta come un servitore che si lamenti dello stipendio in presenza degli ospiti. «Berlusconi deve capire che Fini non è Schifani», diceva con una certa indelicatezza un accolito dell’ultimo segretario missino, e quindi deve riconoscergli «coi comportamenti e nei fatti» un reale ruolo da cofondatore. E invece, s’è lamentato Fini, i vertici del partito - in guerra tra loro e in odio a lui - stanno svuotando il partito a favore della Lega senza che Berlusconi muova un dito, ne sono sudditi «politicamente e culturalmente» e vanno «azzerati». Fini, poi, non ne può più della character assassina-

che, di conseguenza, emarginano e riducono al silenzio quegli “spiriti liberi” che da sempre conservano l’umiltà di “leggere” con rigore la società, senza la presunzione di guidarla tramite menzogne edulcorate od omissioni interessate. La società “parla”e a saperla ascoltare senza pregiudizi, parlava da subito di una evidente identità di natura, di carattere e di vedute proprio tra Bossi e Berlusconi. Fin addirittura dal 1993, l’anno della discesa in campo. I sondaggi elettorali di quell’epoca davano una previsione di consensi alla Lega Nord intorno al 36 per cento, come conseguenza naturale del tracollo della politica provocato sia dalla caduta del Muro che da Mani Pulite. La nascita tumultuosa di Forza Italia portò ad una divisione del voto, ma sempre all’interno del medesimo “blocco sociale” che sentiva e provava per la prima volta il gusto e la necessità di affacciarsi sulla scena politica e di prendere in mano i destini del Paese, fino ad allora delegati in bianco alla prima repubblica.

creativo dell’intrapresa e della solidarietà dal basso, naturaliter cattolico e tuttavia comprensivo delle fragilità umane e dei mali del mondo, e stufo di essere vessato da burocrati e azzeccagarbugli in toga, simboli fisici di uno Stato nemico. E se aveva seguito nella disperazione della protesta il tribuno senz’arte né parte condottiero della Lega, si era poi identificato in Berlusconi come un brianzolo che ce l’aveva fatta (pur senza provenire da magnanimi lombi) e che offriva finalmente una speranza a tutti di “potercela fare”.

L’unica differenza è che ora da un lato c’è un partito e dall’altro c’è una “corte”: potranno accordarsi?

Era quel “blocco sociale”, in gran parte (ma non esclusiva) concentrato al Nord, che esprimeva il vitalismo

tion perpetrata quotidianamente nei suoi confronti da Il Giornale e ritiene che quei continui attacchi gli stiano alienando la simpatia di una parte consistente dell’elettorato di centrodestra (e che questo avvenga con l’avallo se non l’istigazione di Berlusconi). Altra cosa inaccettabile per l’ex leader di An sono i continui riferimenti alla sua presunta “infedeltà” o infingardaggine” fatti dai berluscones più esagitati: quando - ha chiesto - mi sono sfilato sulle cose importanti? Il Lodo Alfano uscito dalle Camere in una settimana, il legittimo impedimento, elaborazione del decreto salvaliste, non sono forse l’esempio che quan-

In modi e in forme

diverse (fossero descamisados o in doppiopetto) l’identità popolana, da “Homines novi” era comunque comune. E riconoscerla, dopo il gelo del “ribaltone” e gli insulti terribili che si erano lanciati, fu un cemento a presa rapida e non più scalfibile. Nacque allora la convinzione che si doveva continuare a “marciare divisi” per poter più efficacemente “colpire uniti”. Peraltro sapendo benissimo che la strategia andava rivestita con contributi indispensabili, a cominciare da Gianfranco Fini, accessorio necessario, ma pur sempre - se si può rubare un’immagine a Lenin - un “utile idiota” di

do il momento è vitale i finiani sono col premier? Davvero le loro proposte su immigrazione o temi etici minano l’unità del partito e dell’elettorato? Il cahier de doléance del doporegionali è, se possibile, anche più lungo: “un foglietto” con su scritta la riforma istituzionale del centrodestra viene consegnato da un leghista persino al capo dello Stato senza che a lui venga fatta nemmeno una telefonata; Berlusconi che incontra Bossi due volte per discutere agenda e rimpasto di governo senza che lui ne sia informato; il Cavaliere che chiama a casa sua Renata Polverini per disegnare la giunta laziale sempre senza avvertirlo.

bella presenza. E, ora che Fini,“ripulito”, la stessa parte in commedia la svolge a vantaggio dell’altro schieramento, non turba più di tanto una diarchia abituata a “trovare la quadra” nelle cene di Arcore. Con una differenza però: da un lato c’è un partito, la Lega, costruito negli anni con ferrea e leninista determinazione e che, pienamente coinvolto nel grande gioco del potere, rischia di pagare, pur gonfia di voti, i suoi inespressi limiti culturali. Dall’altra invece c’è una “Corte”. Dove, come in ogni monarchia, è strutturale l’intercambiabilità dei favoriti (e delle favorite) e dove fa premio la fedeltà stupida e spesso maldicente rispetto alla libera intelligenza. Per cui l’immagine di un Bossi “dominus” della coalizione emergerà ancor di più, e forse ben al di là dei complessi equilibri della realtà.

Se è permessa, dopo dieci anni, una memoria personale, basterà ricordare quando l’onorevole Bossi tornava dagli incontri anche segreti con il Cavaliere e veniva a trovare il direttore del quotidiano. «Berlusconi potrebbe essere un buon vicesegretario della Lega, ha eccellenti qualità di organizzatore e motivatore popolare. Ma di politica proprio non capisce un cazzo: avrà davvero tanto da imparare…». Chissà se nel frattempo il presidente del consiglio ha davvero imparato…

Per il premier, però, questi problemi non esistono. «Abbiamo vinto le elezioni, prendiamo voti e il governo ha un alto gradimento tra la gente», che cosa dobbiamo cambiare? Il problema della leadership, poi, non si pone nemmeno: il Pdl ha già un leader, cioè lui, e non esiste possibilità che ce ne sia anche un altro. Non funziona così. Lui ha i voti, ha il consenso e l’appoggio della stragrande maggioranza degli eletti e dei dirigenti, perché dovrebbe fare questo minuetto diplomatico col presidente della Camera? Fuori dal partito del predellino, è la convinzione di Berlusconi, non c’è nulla e il rapporto con la Lega non crea nessun pro-

blema, né cali di voti preoccupante: alle regionali, con tutta la campagna di stampa contro di lui, l’astensionismo ha penalizzato il Pdl, ma è un fatto momentaneo e alle politiche non sarebbe di certo andata così. Ora il presidente del Consiglio sta valutando la situazione: farà testare gli umori dell’elettorato da quelli di Euromedia e poi si vedrà. Se alla fine arriverà la scissione, però, il Cavaliere non rimarrà a palazzo Chigi come un’anatra zoppa: farà di tutto per andare ad elezioni anticipate abbracciato a Bossi per una legislatura in cui, come si riprometteva di fare un pm con lui, rivoltare l’Italia come un calzino.


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Successione silenziosa. Si ammaina la bandiera della rivoluzione liberale, nel futuro di Berlusconi campeggia solo quella padana

La resa del berlusconismo

Nei piani del Carroccio, Silvio sarà «garante nazionale» del federalismo, con un premier alla Tremonti: ed è così che abdicherà il Cavaliere di Errico Novi

ROMA. Si scorge ancora qualche bandiera azzurra (dove l’azzurro dovrebbe evocare l’originaria rivoluzione berlusconiana) in quel mare verde-Lega che definisce ormai l’orizzonte della maggioranza? Sembra sopravvivere davvero poco dell’identità liberale, modernizzatrice e popolare nello stesso tempo rappresentata in passato dal Cavaliere. Piuttosto è Berlusconi che si mette al servizio di un progetto politico diverso dal suo, imposto dal Carroccio, riformulato da Giulio Tremonti e sostenuto passivamente persino dal Pd. È in questo senso che il berlusconismo può dirsi già finito, perso nelle nebbie del federalismo. È una resa ideologica, quella di Silvio, una successione silenziosa ma evidente. È il leghismo, piuttosto che uno qualsiasi degli aspiranti del Pdl, l’unico vero erede del premier. Erede magari illegittimo, ma implicitamente già riconosciuto dal monarca.

Si è già perso il progetto di modernizzare il Paese, renderlo più libero, competitivo, coraggioso. Perché era questa la promessa del Pdl, e del suo leader, ancora nelBENEDETTO DELLA VEDOVA «Siamo a un bivio: o diamo un’impronta liberale e riformatrice a questa seconda metà della legislastura o il destino del Pdl sarà ineluttabile: restare schiacciato dalla Lega»

la campagna elettorale del 2008. Adesso di quella prospettiva quasi non vi è traccia. E non si può minimizzare l’analisi attribuendola al solo contraltare polemico di Fini e del finismo. Anche se dall’ex leader di An, e dai rappresentanti della sua area, provengono le poche analisi sincere che il Pdl riesca a esprimere in queste ore: «Siamo a un bivio: o diamo un’impronta liberale e riformatrice a questa seconda metà della legislatuira, o saremo schiacciati dalla Lega», dice per esempio Benedetto Della Vedova, che nella cerchia del presidente della Camera non è tra quelli imputabili di settarismo opportunista. Peraltro il miracolo politico lumbàrd si arricchisce ogni giorno di nuove perle: è di ieri l’astuta mezza retromarcia con cui Umberto Bossi ha definito «troppo giovane» il suo partito perché possa esprimere il candidato premier del 2013, scadenza «troppo vicina», ha detto. Né i leghisti sembrano avere bisogno di un simile riconoscimento. Nell’interpretazione suggerita da Giancarlo Galli «i leghisti immaginano un 2013 con

Umberto Bossi frena la corsa dei lumbard verso Palazzo Chigi

«Premier leghista? Non adesso, siamo troppo giovani» di Francesco Lo Dico anto tuonò, che infine non piovve. Nel classico spartito leghista, i tamburi tonitruanti sfumano nella distraente melodia dell’arpa celtica. Prima c’è stato l’affondo: «Un primo ministro leghista nel 2013? Vedremo, tutto è possibile. Abbiamo dimostrato che tutto è possibile», aveva sibilato Umberto Bossi mercoledì. Ma ieri, puntuale come in un’opera di Giuseppe Verdi, è venuto il momento della romanza: «Un premier leghista nel 2013? Siamo troppo giovani», ha confidato nel corso di un colloquio con alcuni giornalisti a Montecitorio. Note più distensive, che arrivano a placare i colpi di grancassa che lo stesso ministro Roberto Calderoli aveva vibrato domenica scorsa in direzione Palazzo Chigi 2013.

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Pdl, il messaggio dev’essere arrivato a destinazione.«Intendo le parole di Bossi solo come una battuta, nel senso che il sistema finanziario deve essere più attaccato al territorio per aiutare la soluzione dei problemi, ma nulla di più», ha parafrasato il ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola, conversando con i cronisti a margine di un convegno. Quello tra la Lega e gli azzurri è un duetto irto di insidie, e anche Bossi, per certi versi, sembra pronto a smussare certe asperità del dettato: «Giancarlo Galan al ministero dell’Agricoltura? Non è che vogliamo sempre qualcosa in cambio, siamo dei signori» – ha rassicurato il leader della Lega, che ha dato il suo lasciapassare alla designazione dell’ex presidente della Regione Veneto al dicastero di Luca Zaia.

Il ministro Claudio Scajola: «Intendo le sue parole come una battuta, la finanza deve essere più legata al territorio»

Ma dietro il progressivo “diminuendo” messo in scena ieri dal leader del Carroccio, c’è soprattutto il tentativo di camuffare il vero leitmotiv del pezzo: la Lega punta alle banche del Nord. E sta alla collaborazione del Pdl, godere della pretesa di un premier leghista nel 2013 come di un innocuo divertissement, o come di un fastidioso basso continuo pronto a guastare la melodia dell’amore azzurro. «La gente ci chiede di prenderci le banche e noi lo faremo. Chi è intelligente ha capito che abbiamo vinto tutto, quindi fatalmente ci toccherà anche una fetta delle banche. Fino ad ora è stato così, non vedo perché adesso che ha vinto la Lega vogliono cambiare le regole. Tò...», ha tuonato l’altro ieri il ministro delle Riforme, concludendo l’apostrofe con un vibrante gesto dell’ombrello. E nel

Ma ieri è stato anche il giorno dell’incontro tra il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e il presidente della Camera, Gianfranco Fini. Un faccia a faccia, sul quale Umberto Bossi ha preferito glissare, non senza un velo di ironia: « Contrapposizioni con Fini? Per adesso no» – ha detto il Senatur mentre era in corso l’incontro a Montecitorio. E ai giornalisti che gli chiedevano se avrebbe raggiunto i due commensali ha fatto sapere che non li avrebbe raggiunti: «Sarei il terzo incomodo...», ha chiosato. Molti acuti, qualche rullo, qualcuno fuori dal coro. Comunque vada, sembra che tra i due litiganti, d’ora in poi a godere sarà solo la Lega.

Berlusconi presidente della Repubblica e Tremonti capo del governo. Hanno assolutamente bisogno di Silvio come garante nazionale del loro progetto federalista. Nella Lega resta forte la convinzione che il dualismo Nord-Sud non sia superabile se non attraverso un federalismo molto spinto. Solo che serve, anzi è indispensabile, una figura in grado di far passare un disegno del genere anche nel resto del Paese. Tremonti assicurerebbe un contenuto politico-tecnocratico all’attuazione del progetto. Ma solo Berlusconi può portargli un sostegno nazionale».

Come è possibile che la prospettiva politica di un partitro del 12 per cento possa affermarsi in modo così incontrastato? Galli ha una risposta che dà un significato finora sottovalutato alla recente sortita di Romano Prodi: «Quando ha immaginato un Pd diviso in tante parti quante sono le regioni italiane, l’ex premier ha detto una cosa tremenda e rivelatrice, ha ammesso cioè di aver accettato la parcellizzazione del Paese. E forse riflette la convinzione, diffusa innanzitutto a sinistra, che l’Italia non possa essere mantenuta assieme».Tra i democratici lo pensano in tanti, lo dicono esplicitamente i Cacciari, i Chiamparino e lo stesso Bersani non sembra opporre grandi resistenze. «Pensiamo a cosa sono state le regioni rosse: in quelle realtà si è realizzata una forma di leghismo comunista», dice Galli, «l’Emilia-Romagna amministrata dalle giunte del Pci ha sempre rappresentato un modello ecumenico, popolare, in cui in fondo si riconosceva l’opinione pubblica non solo di sinistra. Ma si è trattato anche di esperienze fondate sul privilegio, sull’attribuzione di un sostegno economico particolare corrisposto già con De Gasperi». È anche l’inerzia del Pd, l’inerzia idelogica innanzitutto, a consentire il dilagare del leghismo, la sua esondazione ai danni dello stesso Pdl. Ma nell’ultima considerazione di Giancarlo Galli si svela anche uno degli aspetti finora sottaciuti dell’accordo Berlusconi-Bossi: come argomentano dall’entourage del Cavaliere, «la legge sul federalismo fiscale contiene un’arma letale per il sistema di potere delle regioni rosse: il principio dei costi standard che verrà sostituito a quello della spesa storica. È sulla base della spesa storica, infatti, e quindi della legge Stammati», spiega qualche berlusconiano della cerchia ristretta, «che si regge il costoso welfare dell’Emilia, il sistema degli asili nido, dell’assistenza sociale. Ma tanta parte di quell’impalcatura finirà per vacillare paurosamente nel momento in cui i criteri di trasferimento dal centro alla periferia verranno rivoluzionati dal federalismo». Ed ecco il sigillo di garanzia del patto Berlusconi-Lega: il potere della «sinistra» verrà colpito al cuore, al punto da rendere impraticabile un «tradimento» del Carroccio, uno sganciamento dalla maggioranza di centrodestra verso un’alleanza di tipo alternativo. Certo di non po-


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I veri piani del Carroccio e le ultime baruffe nel risiko finanziario

Meglio delle banche, i soldi. Delle Fondazioni Dietro l’uscita del Senatùr sui grandi istituti si nasconde soltanto la corsa alle casseforti padane di Francesco Pacifico

ROMA. Dal Carroccio dicono che era una battuta. Che quel «le banche più grosse del Nord avranno uomini nostri a ogni livelli» sparata 48 ore fa in Transatlantico era l’ennesima uscita del Senatùr, lanciata soltanto per vedere l’effetto che fa. Fatto sta che l’effetto è stato come al solito dirompente: giornali e telegiornali hanno aperto con le rivendicazioni bancarie di Bossi, alleati e avversari si sono sbizzarriti in paralleli con la Prima Repubblica, i maggiori istituti – loro malgrado – sono finiti sotto i riflettori in una fase di assestamento che non porterà a rivoluzioni, ma che certamente vede ancora tasselli da sistemare. Sintetizza un banchiere del Nord: «I miei colleghi sono così coraggiosi che dopo la dichiarazione di Bossi, l’esplicitazione delle presunte mire sui maggiori istituti, assisteremo a promozioni di funzionari che parlano bene il dialetto. Come è già avvenuto in piazza Cordusio con Gabriele Piccini». Ma non cambierà nulla. «In Intesa e Unicredit il potere resterà nelle mani dei Corrado Passera e degli Alessandro Profumo, a Bossi basterà garantirsi l’amicizia e l’appoggio di Guzzetti e replicare lo stesso schema nelle fondazioni del Nordest». Analisi alla quale sembra credere anche Bossi, se ieri,tornando sull’argomento, fa notare: «Alla fine diverse banche verranno da noi. Dovrebbe essere cosi». In fondo è stato così anche di recente. Per esempio, le liti tra le fondazioni azioniste venete e piemontesi e Alessandro Profumo sul modello di banca unica sono arrivate nel pieno delle Regionali. E non è un caso che martedì, mentre Luca Zaia si complimentava per la scelta di Gabriele Piccini – padano di Seveso ma non lumbard –, Cariverona a nome del territorio abbandonava il comitato esecutivo di Unicredit perché alla figura del country manager non erano stati dati veri poteri. Allo stesso modo, in una settimana decisiva per le future giunte regionali del Nord, fa gioco la baruffa ai vertici di IntesaSanpaolo. Dove, pur di far fuori il presidente Enrico Salza, il discusso numero di uno di Compagnia San Paolo, Angelo Benes-

sia, spacca il consiglio della principale cassaforte torinese e finisce per portare consenso al candidato meno gradito dal centrosinistra e dal sindaco Chiamparino. Cioè l’ex ministro Domenico Siniscalco, che a quanto pare non scalda neppure il cuore dell’ex amico Giulio Tremonti. Ma tanto basta per dire che il nuovo vento del Nord è bastato per contrastare un manager (Salza) troppo amico dei milanesi. A quanto raccontano in via Bellerio, Bossi non vuole andare allo scontro con le grandi istituzioni del Nord. L’obiettivo sono le fondazioni impareggiabile erogatori di soldi e consensi sul territorio. Se in Lombardia Giuseppe Guzzetti si vanta dell’amicizia del Senatùr, il problema è il Veneto dove i due ras azionisti di Unicredit Paolo Biasi (CariVerona) e Dino De Poli (Cassamarca) sono lontanissimi dal Carroccio. Ma ottenere un loro riconoscimento sarebbe l’ultimo passaggio in un processo nel quale istituzionalizzazione e consenso vanno di pari passo. Per non parlare delle risorse indispensabili per governare in una fase di crisi.

Guzzetti (Cariplo) garantisce equilibrio in Lombardia. È guerra in Veneto con Paolo Biasi (Cariverona) e Dino De Poli (Cassamarca)

ter essere avvicendato, il Cavaliere si accontenta dunque di lasciarsi colonizzare.

Giovanni Sabbatucci propone un’analiQui sopra, si non troppo distante: «Non penso che Berlusconi possa verificarsi uno scavalcamento della e Bossi: Lega ai danni di Berlusconi, per un motisono sempre più vo molto semplice: l’uno ha terribilmente legati nella guida bisogno dell’altro. Perché è vero che i rapdel governo porti di forza, rispetto al precedente del in una direzione ’94, sono parecchio cambiati a favore del padana e Carroccio: ma non si può ignorare il dato federalista. nazionale di Bossi, che resta del 12 per A destra, cento. Senza Berlusconi che fa il pieno in Alessandro Calabria, Campania, Sicilia, il Senatùr Profumo, non può disegnare una prospettiva». Ciò del gruppo non toglie, spiega l’editorialista del MesUnicredit saggero e ordinario di Storia contemporanea della Sapienza, «che Bossi sia l’unico a poter creare problemi a Berlusconi. È vero anche che il Cavaliere si trova a suo agio più a negoziare con i GIOVANNI SABBATUCCI leghisti che con i dirigenti del suo partito. Fosse per lui, «Non penso dovesse scegliere se sosteche possa nere Fini o Bossi, opterebbe verificarsi sicuramente per il secondo. uno Ma è anche vero che non scavalcamento può appiattirsi troppo sulla del Carroccio Lega, non può diventare il ai danni leader di un altro partito se degli azzurri, vuole mantenere la leaderper un motivo ship nazionale. E d’altra molto semplice: parte, fate caso alla scelta l’uno leghista di assecondare Berha bisogno lusconi nella difesa dell’atdell’altro» tuale legge elettorale: con il proporzionale in vigore oggi la Lega prende meno seggi di quanti potrebbe strapparne nei collegi, ma ben si guarda dal rovesciare il tavolo». E così il tavolo regge. Ma non è certo quello sul quale Berlusconi pensava di giocare sedici anni fa.

Nel Nordest si scommette che nello scontro con De Poli non si faranno prigionieri. Ma sull’altro versante Paolo Biasi, in scadenza a fine novembre, scenderà a patti con il sindaco di Verona Tosi. Magari portando agli enti locali (tutti controllati dalla Lega) parte di quella poltrone del Cda designate dall’università o dal non profit. Se le cose andassero in questo modo, il primo a esserne contento sarebbe Giulio Tremonti. Sarebbe una rivincita per la sua riforma del 2001 sulla governance delle fondazioni, tutta volta a dare più spazio agli enti locali, ma mandata al macero dalla Cassazione. Quella volpe di Guzzetti l’ha capito tanto da fare entrare nella futura deputazione di Cariplo i padani Luca Galli e Rocco Corigliano. E parliamo dell’ultimo allievo di Marcora che nel 2000, dopo aver conquistato via Romagnosi grazie all’ex leghista Armando Selva, ribaltò lo statuto e il Cda per allontanare da lui il vento del Nord di Tremonti e Bossi.


diario

pagina 6 • 16 aprile 2010

Lavoro. L’Italia, con le sue rigidità sociali, è uno dei Paesi europei destinati a subire lo shock maggiore

Occupazione: allarme della Bce

Non bisogna sottovalutare i rischi potenziali della “jobless recovery”

l nuovo grido d’allarme della Bce non va sottovalutato. Non è una novità, visto che ormai la tesi della jobless recovery - della ripresa senza occupazione - è un elemento acquisto nel dibattito tra gli specialisti. La notizia sta nell’autorevolezza della fonte. Da oggi in poi nessuno potrà più far finta di niente, sia a livello nazionale che comunitario. Le stesse politiche economiche non potranno non tenerne conto. E comportarsi di conseguenza. A partire da quella ipotesi di exit strategy che sta sullo sfondo e che tanto preoccupa imprese e sindacati. Ma cosa dice la Bce? Afferma che qualcosa è cambiato nel profondo dell’organizzazione del mercato del lavoro: a partire dagli Stati Uniti, il Paese, in genere, più rapido nel far fronte ai guasti provocati dalla crisi.

I

In uno studio specifico, sui relativi andamenti, si mettono in evidenza le grande ombre che pesano sul possibile riassorbimento, a breve termine, della disoccupazione. Il fenomeno è quello del just in time: la scelta delle imprese di ridurre i posti fissi, per compensarli sia con un maggior uso degli straordinari che con assunzioni a tempo determinato. Un fenomeno di precarizzazione del rapporto di lavoro che non è solo caratteristica italiana, anche se, nel nostro Paese, a causa delle maggiori rigidità sociali, esso si manifesta con una virulenza maggiore. Premia su tutto, la necessità di ridurre i costi ed aumentare la produttività che –

di Gianfranco Polillo

che il fenomeno dell’isteresi – questo è il termine tecnico che lo descrive – non ha mai avuto un effetto persistente. Speriamo che sia così. In Italia abbiamo il caso degli Lsu e degli Lpu – lavoratori socialmente utili e lavoratori a progetto utili – un triste retaggio della legge 468 del 1997, che ancora oggi si trascinano stancamente alla ricerca di una qualsiasi occupazione. Da un punto di vista teorico i sostenitore dell’isteresi hanno ragione. In un momento di rapido cambiamento tecnologico, come l’at-

Dalla crisi il centro-nord può uscire contando sulle proprie forze. Altrove, soprattutto nel Mezzogiorno, la situazione è molto diversa ironia della sorte – sembra essere legata indissolubilmente, almeno in questa fase, alla formazione di un più numeroso “esercito di riserva”. Come il fenomeno era indicato dai classici dello scorso secolo. Un eterno ritorno, quando si tratta di lavoratori e povera gente. Nel più lungo periodo – dice sempre la Bce – ci vuole più ottimismo. Quella massa di gente che perderà il lavoro, non per questo subirà un processo di dequalificazione. L’esperienza storica dimostra

tuale, le conoscenze del passato non sono il miglior viatico per un progetto di vita. Occorre, al contrario, rialfabetizzarli e metterli in contatto con quanto la scienza e la tecnica producono giorno, dopo giorno. Ma questo richiede corsi di riqualificazione effettiva, possibilmente a contato con le nuove realtà produttive e non insegnamenti di tipo accademico, modellati su vecchi schemi universitari. Occorre soprattutto una effettiva valutazione dei risultati conseguiti al fine di non trasformare il

Il rapporto sull’economia di Bankitalia

Tasse sempre più su ROMA. Cresce il peso delle tasse sulle tasche degli italiani: nel 2009 la pressione fiscale è passata dal 42,9 a 43,2%. Lo afferma la Banca d’Italia nel Bollettino Economico. «In Italia la ripresa economica è ancora debole», scrive via Nazionale, aggiungendo che «sulle prospettive di crescita pesano la debolezza della domanda interna e la lenta ripresa dell’export». Il reddito disponibile delle famiglie «è calato di oltre due punti percentuali in termini reali nella media dello scorso anno». Tuttavia «uno stimolo temporaneo ai consumi» dovrebbe arrivare, a partire da aprile, grazie agli incentivi decisi dal governo. L’indebitamento della famiglie italiane è salito, ma resta parecchio al di sotto di quello medio dell’area euro: se da noi il debito è quasi al 60% del reddito, nei 16 paesi della moneta unica arriva ormai al 95%. I consumi sono deboli e non si vede all’orizzonte un’inversione di tendenza. Dopo la contrazione dei consumi dell’1,8% registrata nel 2009, i segnali per i primi mesi del 2010 non delineano una in-

versione di tendenza. Il clima di fiducia dei consumatori, in progressivo miglioramento nella seconda metà del 2009, «è tornato a peggiorare quest’anno, riportandosi, in marzo, sui livelli dello scorso giugno». «La situazione delle finanze pubbliche è notevolmente peggiorata», rileva la Banca d’Italia, ricordando che l’indebitamento netto

delle amministrazioni pubbliche è salito nel 2009 al 5,3 per cento del Pil, dal 2,7% del 2008. L’attività «è in ripresa ma ristagnano gli investimenti produttivi». Infine, «rispetto al picco raggiunto nell’aprile del 2008, il numero delle persone occupate è diminuito di oltre 700 mila unità (-3,1%)», precisa il Bollettino della Banca d’Italia.

tutto in una forma di nuovo assistenzialismo, come purtroppo si verifica nella maggioranza dei casi. Il tempo non aiuta. Prima si volta pagina e prima si riallinea il mondo del lavoro alla realtà del domani, che sarà profondamente diversa da quella che conosciamo. Uno scenario sempre più caratterizzato da una profonda asimmetria: un manifatturiero dislocato verso i nuovi santuari delle economie emergenti Cina, India, Brasile e cosi via ed il resto del Pianeta - le vecchie metropoli imperialiste alla ricerca di un incerto destino. Non tutti sono nell’identica posizione. Nell’Europa centrale - sotto la guida tedesca è nata una realtà industriale importante che coinvolge alcuni degli ex paesi comunisti, altri come l’Austria o l’Olanda o parte del territorio italiano (il Nord-est) che è già in grado di reggere alla sfida. Ma per il resto, compreso il mondo anglosassone, c’è ancora tanto da fare. L’Italia è forse destinata a subire lo shock maggiore. La divisione tra coloro che sono in grado di reggere e quelli che subiscono più passivamente i contraccolpi della jobless recovery la spacca come una mela. Non si guardi all’immediato. Lo stato di disagio nel centro-nord è forse addirittura superiore a quello del resto del Paese. Qui sono le fabbriche che chiudono. Qui le tensioni sociali possono facilmente avere una dimensione di massa, visti, se non altro, i maggiori livelli di occupazione. Ma nel medio periodo, vale il rovescio della medaglia. Dalla crisi il centro-nord può uscire, con sofferenza ovviamente, ma contando sulle proprie forze. Altrove, specie nel Mezzogiorno, la situazione è diversa. Qui occorre una politica nuova, classi dirigenti che si pongono al di fuori degli schemi lottizzati e parassitari. Un presenza dello Stato che non sia solo repressione - cosa indispensabile - del fenomeno criminale, ma che imponga una “rivoluzione dall’alto” in grado di voltare pagina rispetto alle pratiche del passato. Una modernizzazione forte degli apparati e delle infrastrutture. Questo è il messaggio che proviene dalla Bce: a volerlo saper leggere. Resterà inascoltato?


diario

16 aprile 2010 • pagina 7

L’omelia nella Cappella Paolina con i membri della Commissione Biblica

L’Onu intanto chiede che l’inchiesta sia rapida

Il Papa: «Contro la Chiesa, la nuova dittatura conformista»

Emergency: La Farnesina visita i tre medici

CITTÀ DEL VATICANO. Nel mondo di oggi esistono nuove forme di dittatura più sottile, c’è «un conformismo, per cui diventa obbligatorio pensare come pensano tutti, agire come agiscono tutti, e la sottile aggressione contro la Chiesa, o anche meno sottile, dimostrano come questo conformismo può realmente essere una vera dittatura». È quanto ha detto Benedetto XVI nell’omelia nella Cappella Paolina in Vaticano, con i membri della Pontificia Commissione Biblica.

ROMA. Sono stati trasferiti a Kabul i tre medici italiani di Emergency arrestati dalle forze di sicurezza afgane con l’accusa di avere partecipato a un presunto complotto per l’uccisione del governatore della provincia di Helmand. Nella capitale afgana, dove sono stati portati da Helmand, oggi saranno visitati dall’inviato speciale del ministro degli Esteri, Attilio Iannucci, e dall’ambasciatore italiano a Kabul, Claudio Glaentzer. Ne dà notizia la Farnesina. Sempre oggi, Gino Strada incontrerà i giornalisti a Roma per fare il punto sulla vicenda e per presentare la manifestazione che si terrà domani nella capitale a sostegno della

«Devo dire che noi cristiani, anche negli ultimi tempi, abbiamo spesso evitato la parola penitenza, che ci appariva troppo dura. Adesso sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter far penitenza è grazia e vediamo come sia necessario fare penitenza, riconoscere cioè ciò che è sbagliato nella nostra vita». «L’obbedienza a Dio ha il primato», ha quindi ricordato Ratzinger, «bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini». «L’obbedienza a Dio», ha spiegato, dà a Pietro la libertà di opporsi alla suprema istituzione religiosa. Parimenti, Socrate davanti al Tribunale di Atene, che gli offre la libertà a patto di non ricercare più Dio, non deve ob-

Ormai è scontro aperto tra ricercatori e Gelmini Senza modifiche al ddl, da settembre niente didattica di Giulia Stella

ROMA.

I ricercatori dichiarano ufficialmente guerra alla riforma del ministro Mariastella Gelmini: da settembre niente didattica, loro incroceranno le braccia mettendo a rischio una buona fetta dei corsi universitari. La minaccia era circolata già nelle scorse settimane, ieri è stata formalizzata con una mozione votata all’unanimità da decine di esponenti della categoria che si sono riuniti in assemblea alla Sapienza di Roma da tutta Italia.

L’incontro è stato promosso dal Coordinamento nazionale dei ricercatori universitari (Cnru) per fare il punto sulle mobilitazioni. Dopo tre ore di dibattiti e qualche divergenza interna (l’area piemontese e quella sarda erano inizialmente contrarie ad alcuni contenuti del documento finale), è arrivato il voto unanime su una mozione che annuncia la volontà dei ricercatori di non mettere più piede nelle aule universitarie per fare didattica, a partire dal prossimo anno accademico, se i contenuti del disegno di legge Gelmini, in discussione al Senato, non subiranno le modifiche necessarie a garantire a chi già oggi fa ricerca a tempo indeterminato negli atenei di poter fare carriera accedendo alla docenza. La nuova normativa, infatti, con l’introduzione della figura del ricercatore a tempo determinato, taglia le gambe a chi ha già un rapporto di lavoro stabile: per le nuove leve è previsto un percorso fatto di contratti a termine e abilitazione all’insegnamento che può portare, se il candidato ne ha i meriti, alla cattedra. Per i ricercatori storici restano i soliti concorsi che lasciano «poche speranze», lamentano i “cervelli”, di fare carriera in università. Di qui la protesta che, spiega

Marco Merafina, a capo del Cnru, «ha quattro motivazioni di base: il sottofinanziamento del sistema universitario che penalizza gli atenei anche in relazione al turn over, il problema della precarietà dei giovani, che resta irrisolto, il mancato riconoscimento del ruolo di professori agli attuali ricercatori e, infine, il prepensionamento coatto per i ricercatori con quaranta anni di contributi che, così vengono penalizzati rispetto ai docenti». Tutti problemi a cui la riforma del ministro in carica «non pone rimedio». Ora i “cervelli”staranno a guardare cosa succederà al Senato, dove la commissione Istruzione sta vagliando il testo Gelmini. L’ altro ieri è cominciato il voto sugli emendamenti con la prima doccia fredda: la maggioranza ha bocciato un emendamento del Partito democratico che consentiva di recuperare risorse (100 milioni per ciascuno degli anni 2010, 2011 e 2012) per il sistema universitario. «La partita si giocherà anche alla Camera», ricorda Merafina, che ribadisce la contrarietà della categoria all’istituzione della terza fascia della docenza per poter sistemare il “caso” ricercatori. La proposta viene anche dal Pd che ha presentato emendamenti in tal senso al Senato.

La decisione votata all’unanimità nell’assemblea che si è tenuta ieri all’Università della Sapienza di Roma

bedire a questi giudici, comprare la sua vita perdendo se stesso, ma deve obbedire a Dio. Obbedienza a Dio «che dà libertà». Al contrario nei tempi moderni si è teorizzata la liberazione dell’uomo, anche dall’obbedienza a Dio: l’uomo sarebbe libero, autonomo, e nient’altro. «Ma questa autonomia è una menzogna ontologica, perché l’uomo non esiste da se stesso e per se stesso; è una menzogna politica e pratica, perché la collaborazione e la condivisione delle libertà è necessaria e se Dio non esiste, se Dio non è un’istanza accessibile all’uomo, rimane come suprema istanza solo il consenso della maggioranza».

«Il Pd fa una proposta autoreferenziale che noi bocciamo - sottolinea Merafina - invece sono più vicini alle nostre posizioni alcuni emendamenti dell’Udc che speriamo passino». In caso contrario, se ai ricercatori non sarà garantita una possibilità di carriera, loro hanno già avvertito: niente più lezioni da settembre. Il relatore del provvedimento al Senato Giuseppe Valditara, comunque, ha già assicurato che si «studierà una soluzione, ma niente ope legis». I ricercatori vogliono «vedere i fatti».

sua organizzazione. Nel frattempo Strada è tornato ad attaccare il governo italiano: «Io non so cosa ci sia scritto nella lettera - ha detto ad Affariitaliani.it riferendosi alla missiva inviata da Berlusconi a Karzai -. Sono soddisfatto semplicemente se vengono liberati. Punto. Tutto il resto non mi interessa. Visto che si tratta di una montatura che cerca di screditare il lavoro di Emergency e che scredita in modo vergognoso l’Italia».

Sulla vicenda ieri è intervenuta anche l’Onu. Il rappresentante delle Nazioni Unite in Afghanistan, Staffan De Mistura, ha chiesto una rapida inchiesta sulla vicenda. De Mistura ha manifestato la speranza che gli arresti siano stati compiuti sulla base di «un grave fraintendimento» e ha chiesto il rispetto dei diritti legali dei tre italiani. «Gli operatori sanitari internazionali in posti come Helmand mettono a rischio le loro vite per curare tutti coloro che chiedono aiuto» ha ricordato De Mistura. Intanto dal Nord dell’Afghanistan è arrivata la notizia di quattro soldati tedeschi uccisi vicino a Kunduz. Lo ha riferito il ministro della Difesa tedesco. Si parla anche di altri soldati feriti, almeno quattro.


mondo

pagina 8 • 16 aprile 2010

Inchiesta. È dai tempi della dissoluzione dell’Urss che il traffico delle armi ha mostrato un risvolto inquietante. E dimenticato

Il riciclaggio atomico

PAESI CON URANIO ARRICCHIT O UTILI Più di 500.000 kg

1.000 - 10.000 kg

20.000 - 500.000 k

100 - 1.000 kg

Il mondo è pieno di uranio-spazzatura: ecco dove al Qaeda (se volesse) potrebbe comprare la “bomba sporca” di Enrico Singer

uando Mikhail Saakashvili ha preso la parola al tavolo della conferenza di Washington non è riuscito a calamitare l’attenzione di tutte le 46 delegazioni che Barack Obama aveva riunito per discutrere della sicurezza nucleare mondiale. Anzi, c’erano anche parecche poltrone vuote. Peccato. Perché proprio il giovane presidente della Georgia, ex feudo sovietico tra il Caucaso e il Mar Nero, ha rivelato che la proliferazione selvaggia degli armamenti atomici non è soltanto un rischio, ma è già una realtà. «Il nostro ministero dell’Interno ha sventato negli ultimi dieci anni otto tentativi di traffico illegale di uranio arricchito. Il caso più recente è appena di un mese fa. L’uranio era arricchito a più del 70 per cento ed era abbastanza puro per realizzare una bomba». I timori denunciati il giorno prima da Angela Merkel nello stesso vertice - «il vero pericolo sono le bombe sporche che possono finire in mano ai terroristi» - sono stati, così subito confermati. La minaccia non arriva soltanto da quelli che Bush chiamava i “Paesi canaglia”, l’Iran e la Corea del Nord, che non vogliono fermare i loro piani nucleari e che preparano anche missili balistici per colpire a migliaia di chilometri di distanza.

Q

Il bazar della bomba, quello dove al Qaeda potrebbe davvero rifornirsi, è molto più vasto, esiste da tempo e prospera soprattutto nelle ex Repubbliche dell’Urss dove Mosca aveva portato migliaia di armi atomiche: dalle testate per missili ai più modesti, ma non meno micidiali, proiettili tattici terraterra e aria-trerra, fino alle suitecase bomb, gli ordigni nu-

cleari formato valigetta 60x40x20, ideali per gli attentati. Nel 1997, in un’intervista trasmessa dalla Cbs - era esattamente il 7 settembre - il generale russo Alexander Lebed, ex consigliere per la sicurezza di Boris Eltsin, disse che dagli arsenali sovietici erano sparite cento di queste bombe portatili. «Non so dove siano finite, non so se sono state distrutte, nascoste, vendute o rubate», dichiarò Lebed.

Scoppiò il finimondo finché il Cremlino non assicurò formalmente che tutto il suo arsenale nucleare era sotto controllo.Vero? Falso? Impossibile dirlo perché nonostante gli accordi

li. Ma poco si sa della fine che hanno fatto gli armamenti atomici disseminati nel resto dell’ex impero sovietico. E, comunque, rimane aperto un interrogativo ancora più inquietante: quale è stato il destino delle “bombe smantellate”? Sembra paradossale, ma ogni nuovo accordo di riduzione delle testate nucleari apre un problema molto complesso: come smaltire la grande quantità di materiale fissile delle bombe da distruggere. È l’eredità avvelenata della corsa agli armamenti. Passare dalle oltre 64mila cariche nucleari che avevano fino a vent’anni fa Usa e Urss alle 1500 per parte stabilite nei nuovi accordi non significa far

Ucraina, Bielorussia e Kazakistan hanno firmato il trattato di non proliferazione e hanno dichiarato di avere smantellato i loro arsenali. Ma nessuno sa che fine hanno fatto gli armamenti di non proliferazione e quelli di riduzione delle armi atomiche, compresi il vecchio e il nuovo Start, le maglie delle ispezioni e dei controlli lasciano ampie zone grige. Anche perché l’Armata Rossa ha probabilmente portato via tutti gli ordigni nucleari in sua dotazione quando si è ritirata dalle Repubbliche ex sovietiche diventate indipendenti, ma ha lasciato agli eserciti di quei Paesi le armi - in particolare quelle atomiche tattiche - che erano state distribuite in nome della politica del nuclear sharing, la condivisione nucleare tra forze una volta alleate. Le tre maggiori sub-potenze atomiche del blocco sovietico - Ucraina, Bielorussia e Kazakistan - hanno firmato il trattato di non proliferazione nucleare e hanno dichiarato di avere smantellato i loro arsena-

sparire con un colpo di bacchetta magica qualcosa come cento tonnellate di plutonio e settecento tonnellate di uranio altamente arricchito.

Smontare una bomba non è davvero uno scherzo. Le testate devono essere prima di tutto disinnescate. Poi devono essere trasportate nei depositi di sicurezza. Quindi si devono aprire, separando il materiale fissile dal resto della testata (di solito un esplosivo chimico o un sistema di scoppio secondario nelle bombe termonucleari). A questo punto il materiale fissile - in altre parole il plutonio o l’uranio arricchito - viene chiuso in un doppio contenitore di piombo e acciaio, che i tecnici chiamano pit, dove rimarrà stoccato per sempre sottoterra, o fino al momento di una sua nuova

Le società che controllano l’’«arricchimento»

“Sette sorelle”nucleari La presenza di uranio è distribuita sul pianeta in modo poco uniforme. Anche se giacimenti di forma minore possono essere trovati pressoché ovunque, tre soli Paesi Australia, Canada e Kazakistan conengono circa il 60 per cento delle riserve conosciute. In particolare, il Canada possiede ampi giacimenti che rappresentano circa il 23 per cento delle riserve del pianeta; l’Australia il 21% e il Kazakistan il 16%. Secondo i dati dalla Iaea (International Atomic Energy Agency), gli altri principali Paesi estrattori sono la Russia (8%), la Nigeria (8%), la Namibia (7%), l’Uzbekistan (6%), gli Stati Uniti d’America (4%), l’Ucraina (2%), la Cina (2%) e il Sudafrica (2%).

Il Paese d’estrazione, comunque, non ha unaq rilevanza particolare nella catena dell’uranium supply, perché il procedimento di fluorizzazione, di arricchimento e di fuel production avviene ad opera di sole sette grandi compagnie, nazionali e multinazionali, che si spartiscono l’interno mercato mondiale, continuando ad operare secondo una logica che risale alla Guerra Fredda e che

mantiene i mercati dell’uranio rigidamente separati secondo criteri geografici: da una parte Americhe ed Europa Occidentale; dall’altra i Paesi dell’ex Unione Sovietica, dell’Europa Orientale e la Cina.

Le “sette sorelle” dell’atomo sono: Cameco (Canada); Areva (Francia); ConverDyn (Stati Uniti); Rosatom (Russia); Atomenergprom (Russia); Cnnc (Cina) e Nukem (Stati Uniti).

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mondo

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più poveri perché permette anche ai regimi senza grandi apparati scientifici alle spalle, proprio come l’Iran o la Corea del Nord, di dotarsi di un arsenale in grado di intimidire. E altrettanto vale per i gruppi terroristici, tanto che è entrata nell’uso comune degli esperti l’espressione «proletariato atomico» per indicare chi insegue - e forse in qualche caso ha anche già raggiunto - una potenzialità di minaccia nucleare pur senza avere centri di ricerca o intere città proibite circondate da sbarramenti di filo spinato per fare ricerca atomica.

IZZABILE PER ARMAMENTI NUCLEARI

kg

10.000 - 20.000 kg

0 - 100 kg

1 - 10 kg

Il nucleare è diventato conveniente soprattutto per i regimi senza grandi apparati scientifici, come Iran o Corea del Nord, che così possono dotarsi di un arsenale in grado di intimidire

destinazione. Questa è la fase più delicata che pone enormi problemi di sicurezza: dal trasporto delle testate disattivate ai depositi, al controllo e alla registrazione di tutti i pit, alla loro custodia, alla definizione della eventuale nuova destinazione del materiale fissile.

Far sparire un pit non è, poi, così difficile. Soprattutto se a vegliare sulla sua sicurezza sono militari o funzionari malpagati e facilmente corruttibili. E se i tempi di stoccaggio si allungano in attesa di decidere come riutilizzare il materiale fissile delle testate smantellate. Per quanto riguarda l’uranio arricchito, la nuova destinazione più logica è quella di diluirlo con uranio naturale o impoverito in modo da ottenere uranio utilizzabile in reattori nucleari per la produzione di energia elettrica. Per il plutonio una analoga scelta è impossibile perché mescolare i diversi isotopi del plutonio non riduce le sue potenzialità di utilizzo per costruire una bomba. Si può soltanto mixare con uranio per la preparazione di uno speciale combustibile per reattori nucleari civili del tipo del francese Sperphoenix che è chiamato mox (ossido misto di uranio e plutonio), ma che richiede impianti molto complessi per

la sua realizzazione e non ha ancora un grande mercato. Così, proprio il plutonio delle bombe smantellate rischia di rimanere per sempre in qualche “tomba atomica” da dove, purtroppo, potrebbe essere facilmente trafugato e immesso nel grande bazar illecito del nucleare. Ma per costruire una dirty bomb, una bomba sporca, non c’è nemmeno bisogno di procurarsi plutonio o uranio super-arricchito. Bastano delle scorie nucleari che, unite a un esplosivo tradizionale, compongono un ordigno capace, comunque, di provocare una contaminazione atomica più o meno potente a seconda del grado di arricchimento dell’uranio o della quantità di plutonio. Può essere utilizzato anche il cobalto usato da laboratori che impiegano tecnologie per combattere i tumori. O possono essere utilizzati i materiali fissili impiegati dei reattori nucleari civili.

In tutto l’ex impero sovietico ci sono impianti di questo genere per la produzione di energia elettrica e la denuncia del presidente georgiano, Mikhail Saakashvili, si riferiva molto probabilmente proprio a un traffico di uranio arricchito uscito da una centrale atomica del suo Paese. Alex Schmid, responsabile dell’unità antiterrorismo dell’ Onu, ha scritto in un rapporto circolato quest’anno e reso pubblico dal Guardian che negli ultimi cinque anni il contrabbando di materiale nuclea-

Qui sopra, Angela Merkel; a sinistra il presidente georgiano Mikhail Saaskashvili. In alto, la mappa della diffusione dell’uranio arricchito, con l’Europa stretta tra i grandi produttori di nucleare a Est come a Ovest re è raddoppiato e che sono ormai molti quelli capaci di mettere insieme un’atomica rudimentale, una bomba sporca, appunto. Nella lista spicca il nome della centrale terroristica di Osama bin Laden come una di quelle che il Dipartimento di Stato americano considera in grado di rappresentare già una minaccia nucleare. Osama, già nel 1998 affermò che procurarsi la boòba atomica era un «obbligo per l’Islam» e che un giorno avrebbe potuto creare «un’Hiroshima americana». Secondo l’intelligence americana, Osama bin Laden era riuscito a entrare in contatto con il gruppo di ricerca nucleare pakistano. Vennero anche arre-

stati due scienziati, Mashiruddin Mahamoud e Abdul Majid, che avevano avuto incontri con Osama e con il suo vice, Ayman al Zawahiri. Mahamoud, un pittoresco personaggio che si diletta anche di cosmologia, ha ammesso in seguito di avere partecipato a riunioni anche con il mullah Omar. I due fisici facevano parte dell’équipe di Abdul Qadir Khan, il padre dell’atomica pakistana, che fu poi accusato di avere messo in piedi una rete clandestina sia per l’acquisto che per la vendita di componenti nucleari. Tra i suoi clienti c’erano l’Iran, la Corea del Nord e la Libia.

Il caso Qadir Khan ha rivelato come l’atomica è diventata un’arma ”popolare”. Dopo la fine della guerra fredda e dell’Urss si è creato una mercato che ha reso molto più facili gli approvvigionamenti di uranio, l’accesso alle tecnologie, la circolazione di scienziati e di tecnici. Anzi, il nucleare è diventato conveniente soprattutto per i

Ma non tutto è così facile. Quando il generale Alexander Lebed denunciò la scomparsa delle cento valigette atomiche, si pensò subito che qualcuno di quegli ordigni poteva essere finito proprio nelle mani dei terroristi di Osama bin Laden. A parte la smentita del Cremlino, in realtà, queste valigette di cui sono circolate persino le foto, non sono alla portata di tutti. Per funzionare richiedono un apparato di manutenzione sofisticato. Più una bomba atomica viene miniaturizzata e più spesso deve essere sostituito il cuore fissile dell’ordigno, cioè il plutonio o l’uranio, con un’operazione che richiede personale, laboratori e sistemi di trasporto fuori portata non solo di al Qaeda ma anche di una media potenza. Persino la Francia, che fa parte a pieno titolo del club nucleare, alla fine degli Anni Novanta ha dovuto smantellare il suo poligono di lancio dei missili balistici a testata atomica che aveva reso celebre il nome del Plateau d’Albion. La vera ragione che spinse Parigi a rinunciare a uno dei pilastri della cosiddetta “triade nucleare”- missili a lunga gittata, razzi tipo Cruise su sommergibili e bombe sugli aerei - fu il ritardo tecnologico nell’aggiornamento dell’arsenale che aveva trasformato il Plateau d’Albion in una pericolosa bomba innescata sul proprio territorio, piuttosto che un’arma di dissuasione nei confronti di eventuali nemici. Ecco perché anche Barack Obama ha riconosciuto che la minaccia più immediata è quella che viene dalle bombe sporche che un gruppo terroristico potrebbe usare ancora prima che la Corea del Nord - che ha già la sua atomica - o l’Iran di Ahmadinejad che la sta costruendo - diventino potenze nucleari capaci di sconvolgere l’equilibrio faticosamente raggiunto e negoziato tra gli altri Paesi del club atomico. Questa realtà complessa e molto spesso sottovalutata dovrebbe essere affrontata con una doppia strategia. Sanzioni, come quelle che l’Onu sta per discutere contro l’Iran, certo, per fermare il dottor Stranamore del regime degli ayatollah. Ma anche maggiore sicurezza per evitare che la spazzatura nucleare diventi un’arma.


panorama

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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Renata Polverini e l’apologia della spintarella on hanno fatto una bella figura. Non ha fatto una bella figura il sindaco di Latina, Vincenzo Zaccheo. Non ha fatto una bella figura la neogovernatrice del Lazio, Renata Polverini. Le telecamere di Striscia la notizia sono state implacabili nel compiere il loro piccolo “furto”: non si spia dal buco della serratura e non si origlia da dietro la porta. Questo, invece, è stato fatto dalle telecamere della banda di Antonio Ricci. Ma, tutto sommato, è un peccato veniale. E, per essere precisi, non c’era di mezzo nessuna porta e si era, invece, proprio nel mezzo di una festa. Come a dire: le telecamere passavano di lì e l’occhio e le orecchie del Gabibbo hanno visto, sentito e registrato quanto ha detto il sindaco alla governatrice: «Non ti dimenticare delle mie figlie». Di rimando la Polverini: «No, ma stai scherzando?». Già, stavano scherzando o facevano sul serio?

N

Ne è nato, come si usa dire, un “caso politico”. Ma il caso politico non ci interessa. Non ci interessa - nel senso che non è stimolante, non è decisivo - neanche quanto ha detto lo stesso sindaco Zaccheo sul senatore del Pdl Claudio Fazzone. Ciò che invece è interessante è proprio quanto detto da Zaccheo: «Non ti dimenticare delle mie figlie». Queste, infatti, sono cose che avvengono in ogni dove e da sempre, però niente è più imbarazzante della verità che appare improvvisa sulla scena. Un conto è sapere in astratto o credere di sapere e un altro conto è quando i fatti si mostrano in pubblico e senza che i suoi autori sanno di essere visti e ascoltati. Non c’è dubbio: è da qualunquisti dire che fanno tutti così e che la raccomandazione è un malcostume politico e sociale nazionale, ma il problema vero non è questo. È quest’altro: è avere una politica che si mostra all’altezza (bassezza) dei pregiudizi qualunquistici con i quali è giudicata. La risposta delle Polverini, in verità, sembra generica ed evasiva. Come di chi tende a farla breve e non ha neanche ben capito cosa gli stia chiedendo in quel momento di confusione il suo maldestro interlocutore. Insomma, la Polverini ha in quel momento la testa altrove, si vuol godere l’ora presente, la vittoria, e non vuole già pensare a tutti i grattacapi che verranno, compresi i favori e le raccomandazioni non solo dei clienti ma anche degli amici di partito. Polverini non vuole essere scocciata. Il filmato, in sincerità, mostra proprio questo. La governatrice del Lazio, facendo ricorso a un po’ di ingenuità, la possiamo anche salvare. Ma con Zaccheo come si fa?

Riguardiamo la scena nella nostra mente: siamo nel pieno di una festa, sorrisi, compiacimenti, congratulazioni, ma a lui, al sindaco di Latina, il primo pensiero che passa per la testa non è quello di inorgoglirsi per la vittoria politica e, nella generale esaltazione, di rendersi disponibile come conoscitore delle cose da amministrare nell’area pontina, bensì quello di ricordare alla vincitrice di averla fatta votare, anche a Ponza e Ventotene, e «non ti dimenticare delle mie figlie». È la perenne vittoria dell’uomo del Guicciardini non sulla morale, ma su Machiavelli e la patria.

Se le nuove professioni si chiudono al lavoro Alfano convoca gli Stati generali aperti solo agli Ordini di Angelo Deiana lla buona notizia – ieri il ministro della Giustizia, Angiolino Alfano, ha tenuto gli Stati generali delle professioni come primo passo verso l’auspicata riforma del settore – non ne è seguita un’altra migliore: l’invito a partecipare alle associazioni professionali e al CoLAP, il loro organismo di riferimento, dando spazio soltanto agli ordini e ai collegi. È proprio per evitare che un pezzo importante delle professioni fosse tenuto fuori dalla discussione che il CoLAP e più di 60 associazioni delle oltre 215 aderenti hanno inviato in questi giorni al ministro la richiesta per partecipare all’incontro. Ma da via Arenula non è arrivata risposta.

A

Ed è davvero difficile comprendere il motivo di questo silenzio: non è pensabile che un governo che si fa promotore della necessità improcrastinabile di fare le riforme, impedisca a uno dei motori del sistema professionale di contribuire alla discussione di merito. Come si fa a dimenticare che tutte le proposte di legge di maggioranza e opposizione in esame in Parlamento prevedono l’istituzione di un sistema duale, composto da ordini ed associazioni? Quindi limitare la discussione agli ordini sarebbe come guardare al futuro con gli occhiali del passato. La realtà italiana è piena di nuove professioni che devono essere selezionate e valorizzate attraverso il riconoscimento delle associazioni. Un titolo che compensi l’asimmetria che vede i professionisti comunitari venire a esercitare in Italia senza problemi, mentre i nostri non possono fare altrettanto. Gli stati generali convocati da Alfano potevano essere l’occasione giusta per fornire risposte concrete a tale esigenza e al fatto che le professioni associative costituiscono un comparto produttivo di rilievo, che non può essere ignorato da chi ha la responsabilità di governare il Paese. Molti problemi economici della crisi sono dovuti anche alla mancata regolamentazione delle associazioni professionali. Nell’era del capitalismo intellettuale, infatti, quello che conta veramente è il valore della conoscenza. È importante dunque trovare una regolazione che consenta non soltanto di tutelare i clienti/consumatori, ma anche di competere diffondendo sempre più la conoscenza stessa, abbassandone i costi di

scambio e assecondando la novità più importante della fase attuale: per vincere le guerre dei saperi è diventato conveniente investire nei processi di apprendimento e tutto questo ha determinato la crescita tumultuosa di soggetti in grado di produrre e selezionare informazioni e di agire in base a esse. Non ha senso quindi ingessare tutta la regolamentazione con un impianto rigido come quello ordinistico. Tale approccio massimizza le rendite di posizione monopolistiche senza, come purtroppo evidenzia l’Antitrust, aumentare proporzionalmente i livelli di tutela. Anzi. Molto meglio avvalersi di un sistema accreditatorio/associativo. La popolazione dei professionisti non ordinistici costituisce una vera e propria maggioranza: dalle analisi esistenti (Istat, Isfol, Censis) emerge un quadro che dimostra come tale mondo rappresenti una quota molto significativa dei 20 milioni di occupati. Nell’accezione internazionale di knowledge workers, l’Italia nel 2007 raggiungeva una quota intorno al 46 per cento della popolazione lavorativa: una cifra di tutto rilievo e in continua crescita. Senza dimenticare che, negli ultimi 15 anni, il settore dei capitalisti intellettuali aumenta a velocità doppia rispetto al resto del mondo del lavoro in tutte le economie avanzate.

Non aprire alle associazioni vuol dire mantenere uno schema che soltanto in Italia penalizza i lavoratori non riconosciuti

Nel nostro Paese poi siamo di fronte a un fondamentale problema economico e sociale: quasi 4 milioni di professionisti associativi che operano sul mercato producendo l’8,9 per cento del Pil individualmente e il 21,1 con le aziende collegate. È dunque arrivata l’ora, di superare la logica delle professioni in termini di antagonismo riconoscendo le associazioni professionali, riformando sinergicamente il sistema nel suo complesso e tenendo conto che il nostro sistema è composto da professioni ordinistiche, da molte associazioni (con le relative attività nuove, emergenti e/o di specializzazione) fortemente consolidate e organizzate, e da una serie di attività professionali di sicuro rilievo economico e sociale ma non ancora ben organizzate. Se il ministro Alfano non si renderà conto di questa realtà, vorrà dire che questo governo dovrà metabolizzare la consapevolezza che sta trascurando i problemi di quasi 4 milioni di elettori. Presidente del Comitato scientifico del CoLAP


vianello addio

16 aprile 2010 • pagina 11

Se n’è andato a 87 anni uno dei più amati showman della nostra commedia

Lord Raymond, un inglese in Italia Comico, intrattenitore, sportivo, marito... ha fatto dell’eleganza il suo stile. Oggi non era vecchio: era inattuale

di Alessandro Boschi na volta, sono passati molti anni, lo sentimmo dire alla radio: «Il mio medico tempo fa mi disse: Raimondo, mi dispiace molto ma ti rimangono solo sei mesi di vita. Adesso che quel periodo è passato da un bel pezzo non ho il coraggio di dirgli che si sbagliava». Avrebbe compiuto 88 anni il prossimo 7 maggio, Raimondo Vianello, e adesso non c’è più. A pensarci sembra impossibile. E ci sembra impossibile perché una parte di noi non lo accetta. Vianello era, è, una di quelle presenze che ci hanno accompagnato per tutta la vita, qualcosa del quale non saremo mai pronti a fare a meno. Non è la prima volta che ci troviamo a commentare l’addio di un grande del mondo dello spettacolo, ma in questo caso si tratta davvero di qualcosa di diverso. Forse perché per molti che appartengono alla nostra generazione Vianello era come un padre, se non altro per motivi anagrafici. Di certo era il padre che molti di noi avrebbero voluto: sereno, elegante, divertente, buono. Un padre educato ed elegante, una specie di nobile inglese in un paese di sgangherati italiani, quali noi siamo. Dinoccolato nelle movenze, con l’espressione allampanata e bonaria di chi magari ti prende anche in giro ma lo fa senza malizia, senza cattiveria, senza volgarità. Ecco, soprattutto senza volgarità. Sfido chiunque di voi a ricordarsi una sola parolac-

U

cia pronunciata da Vianello. Ciononostante anche lui, nel lontano 1959, cadde sotto il maglio della censura.

Insieme al compagno di tante avventure Ugo Tognazzi, nel divertentissimo show Un, due, tre nato agli albori della televisione, diede vita alla parodia del presidente Gronchi. Mica una cosa semplice: era successo davvero: alla Scala, durante una visita di Stato del presidente francese De Gaulle, Gronchi mettendosi seduto nel palco reale s’era trovato senza sedua sotto. Ed era caduto per terra. L’immagine aveva fatto il giro del mondo perché era stata ripresa in diretta televisiva dalla Rai. Orrore! Tognazzi e Vianello all’apertura della loro trasmissione non fecero niente, ma mentre Tognazzi diceva qualche amenità, Vianello cadde per terra, come non trovandosi la sedia sotto al sedere: «Ma chi ti credi di essere!», gli disse Tognazzi. E furono cacciati dalla Rai per anni, tutti e due: ma chi si credevano di essere! Insomma, “G”come Gronchi, una lettera dell’alfabeto importante, perché “G” anche come Garinei e Giovannini, due super autori con i quali Vianello iniziò la carriera. Per la verità con una particina piccola piccola all’interno della rivista Cantachiaro. Era il 1950, e da quel momento non si fermò più. Erminio Macario, Carlo Dapporto, Gino Bramieri. Questi i partner delle sue prime leggen-

darie imprese. Serve altro? Solo il titolo di qualche programma tv, così per rendere l’idea: Studio Uno, Sai che ti dico?, Tante scuse, Noi…no. In questo momento, in questo preciso momento, c’è solo un sentimento che se la batte con il dolore e la nostalgia. È l’imbarazzo. L’imbarazzo nel rivedere le scenette di Raimondo Vianello insieme ai suoi partner di allora. Oltre a quelli già citati aggiungiamo tanto per gradire Walter Chiari, solo lui basta e avanza. Basta e avanza cioè per comunicarci l’imbarazzo nel vedere l’incolmabile differenza tra come si faceva ridere circa mezzo secolo fa e come si (cerca di) fare ridere oggi.Tanto per dirne una, le prime serate delle nostre reti ammiraglie vengono affidate a schiere di comici e a pletore di autori per cercare di strappare ad un pubblico insonnolito una mezza risata. Se tutta va bene ci scappa una battuta buona, magari anche grazie alle risate “di sostegno” del pubblico in sala o magari in sala di postproduzione. Ebbene, Vianello nasce in una famiglia militare, nel senso che il padre Giulio era un ammiraglio della Marina.Vianello in realtà era nato a Roma, ma da subito si trasferì insieme al padre a Spalato, in Dalmazia. In seguito si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza e, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale diventa dirigente del Centro nazionale Sportivo Fiamma, del quale è anche atleta.


vianello addio

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Il cordoglio di Napolitano: «Ha dato molto a teatro e tv»

Sì, perché lo sport è il secondo grande amore della sua vita. Il primo, si badi bene, non era lo spettacolo, bensì la moglie Sandra, della quale parleremo tra poco. Vianello era un grande appassionato di calcio, e memorabili restano le sue partecipazioni, prima come conduttore e poi come ospite a tutte le più importanti trasmissioni televisive.

Lo spettacolo e la politica piangono un maestro di ironia di Francesco Lo Dico

Come sempre, grazie alla sua classe e alla sua eleganza da nobile inglese trapiantato,

Aveva portato un po’ di teatro nel rigore del piccolo schermo

Un improvvisatore in tv riusciva a svelenire il clima spesso teso creato da giornalisti, provocatori e giornalisti provocatori perché in Italia, serve ricordarlo, su tutto si può scherzare fuorché sul calcio. Invece Vianello riusciva a scherzare su tutto, senza mai deridere nessuno e senza mai essere superficiale. Credo che, come abbiamo già detto, si tratti di classe, un ingrediente che è sempre di piu’ difficile distillazione nella nostra tv. Per questo la perdita di un simile personaggio lascia un vuoto enorme, perché rappresenta, come già la morte di Virgilio Savona, la fine di periodo aureo della nostra televisione e del nostro varietà. Ormai il cambio generazionale è a tutti i livelli, e dal nostro punto di vista quello che sta avvenendo in televisione non è meno grave di quello che sta avvenendo (è già avvenuto) in politica. Il mondo che preferiamo è davvero sempre più in archivio e anche il gusto per un certo modo di fare televisione, spettacolo e politica sta seguendo la stessa sorte. È un processo che forse andrebbe analizzato in profondità, perché nasconde la fine

di un’era e l’inizio di un’altra, assordante e volgare.

Raimondo Vianello aveva portato un po’del suo privato in tv, con trasmissioni come Casa Vianello e Cascina Vianello insieme alla moglie Sandra Ma Mondaini. nonostante questo non si è mai avvertita la sensazione di un’intrusione nella loro vita privata. Sandra era la compagna perfetta, era la metà scoppiettante ed esuberante che metteva a dura prova l’aplomb del partner. Senza mai scalfirlo. Perché il segreto era proprio lì, in questo scambio unilaterale di schermaglie, in cui Sandra faceva da carnefice (in apparenza) e Vianello da vittima (altrettanto in apparenza). Si erano sposati all’inizio degli anni Sessanta dopo una frequentazione di circa tre anni. Non avranno figli, ma in seguito adotteranno una intera famiglia di fiQuando lippini.

Sandra chiese a Raimondo di adottare uno dei figli della coppia di domestici Raimondo rispose “vedremo”. «Era sufficiente - disse in seguito la Mondaini - avevo capito che esisteva uno spiraglio». I due reciteranno insieme anche al cinema, ad esempio in Caccia al marito di Marino Girolami, un titolo davvero profetico essendo stato girato nel 1960. Ridendo e scherzando, è davvero il caso di dirlo, Raimondo Vianello ha interpretato con fortune alterne oltre ottanta film lavorando con registi come Giorgio Simonelli, Steno, Mario Mattoli e Sergio Corbucci. Resta memorabile, per esempio, una sua caratterizzazione del politico

Sono molti i grandi nomi dello spettacolo, della cultura e della politica, che hanno voluto rendere l’ultimo saluto a Raimondo Vianello, e rivolgere una parola affettuosa alla moglie Sandra. E soprattutto univoci nel riconoscerne grandezza professionale e umana. A partire dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che rimpiange «il popolare attore che tanto ha dato al teatro, al cinema e alla televisione italiani».«Grandi personaggi così non lasciano eredi, sono unici e irripetibili», fa sapere il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri.. «Scompare uno dei padri della televisione italiana, un grande professionista che con ironia e sensibilità ha portato sempre il sorriso nelle case di tanti italiani», fa sapere il dg della Rai, Mauro Masi. «Un vero gentiluomo, che ha contribuito a rendere più lieve e gradevole il Servizio Pubblico», gli fa eco il presidente di viale Mazzini, Paolo Garimberti. «Con la scomparsa di Raimondo Vianello, il nostro Paese perde un maestro di comicità pulita, capace di far divertire intere generazioni di italiani senza mai scadere negli eccessi e nella volgarità. A Sandra tutta la nostra solidarietà», fa sapere il segretario dell’Udc,Lorenzo Cesa. «Un signore del palcoscenico che ha legato il suo nome a dei momenti indimenticabili della tivù italiana e anche un amante del vero calcio», è il commento di Luca Cordero di Montezemolo. «Era come Oliver Hardy, era sul set ma riusciva ad essere sempre oltre», aggiunge Fabio Fazio. Pippo Baudo ricorda che «non ha mai voluto essere divo pur essendo immenso, da lui nessuna prosopopea, ma un senso della misura oggi perso». «La sua comicità era paradossale e innovativa, chiosa Dario Fo. «Ogni volta che mi incontrava ai Telegatti – racconta Fiorello – mi diceva, col quel suo sguardo fintamente stupito ’Ma cosa ci fai tu qui? Allora premiano proprio tutti!». «Con lui muore una generazione: quella di Corrado, Tognazzi e Raimondo stesso», dice Paolo Bonolis. Maurizio Costanzo si consola pensando che «adesso, da qualche parte, si è ricostituita la famosa coppia Vianello e Tognazzi». Gianfranco Fini sottolinea come «Vianello abbia saputo interpretare con fine ironia l’evoluzione della società italiana». «È come se ciascuno avesse perso una persona amica. Il suo umorismo era figlio di un’Italia che sapeva esprimersi con garbo e misura», osserva Walter Veltroni. «La sua forza era in una garbata scorrettezza», commenta Irene Pivetti. «Ha rappresentato un’Italia borghese, educata, mai volgare, capace di non prendersi mai sul serio e di vivere la vita con allegro distacco», nota il presidente del Senato, Renato Schifani. L’ Airc ricorda «trent’anni di impegno di Raimondo in soccorso di chi soffre». Campione di risate, Vianello, ma anche di solidarietà.


vianello addio

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Da “Un, due, tre” fino a “Casa Vianello” era diventato un emigrante In queste pagine, alcune immagini di Raimondo Vianello in varie fasi della sua vita. Da sinistra, in senso orario: con Ugo Tognazzi agli esordi in tv; conduttore del «Gioco dei 9»; con la moglie Sandra Mondaini; giovane esordiente teatrale; con la maglia dell’amata Inter; insiema alla moglie con Piersilvio Berlusconi; infine, con Lorella Cuccarini e Marco Columbro

fascista (ma adattabile a qualunque epoca storica) nel film corale Sua eccellenza si fermò a mangiare; tra gli altri accanto a Totò. La scena in cui Vianello deve commemorale qualcuno di cui non sa nome né vita né miracoli è un capolavoro di improvvisazione. Quella del grande schermo non è però stata la sua dimensione migliore, forse per una innata propensione per i tempi e i ritmi televisivi. Registi come Daniele D’Anza, Mario Landi e Antonello Falqui ne sfruttarono infatti le doti brillanti al meglio con trasmissioni che hanno fatto la storia della televisione italiana. In verità il cinema di quegli anni, un po’ per i suoi ritmi di produzione vertiginosa, un po’ per la riproposizione delle stesse facce, non era poi così diverso dal piccolo schermo, dal quale spesso mutuava anche gli autori. Fenomeno questo che si ripete in verità anche ai giorni nostri ma con esiti spesso deludenti. Chiedersi il perché di come tutto ciò possa avvenire potrebbe essere già un passo nella direzione giusta, ma non sembra questa una nostra priorità.

leggete quello che, come si dice, viene “postato” dagli utenti. Da rabbrividire, con genitori che per permettere ai figli con meno di sedici anni di partecipare a questa orgia di volgarità, creano loro delle false utenze. Adesso, ci scommettiamo, nascerà anche il gruppo per tutti i fan di Raimondo Vianello, o magari esiste già. E riecco la tristezza, la nostalgia e l’imbarazzo, non solo per un mondo che non c’è piu’, ma per un altro che s’avanza imperterrito. Senza nemmeno il conforto di un Raimondo Vianello.

Il comico pendolare tra Roma e Milano

Grazie a Canale 5, a “Pressing” e a Sandra Mondaini, i lombardi lo avevano adottato, rubandogli lo stile di Roselina Salemi rmai era milanese a tutti gli effetti, anche se era nato a Roma e ci aveva vissuto per trent’anni. Era milanese come stile, oltre che come residenza, e non è un caso che la Provincia di Milano voglia commemorarlo allo Spazio Oberdan (però l’Ambrogino d’oro non l’ha mai avuto), e che tutti cerchino un filmato, una foto, un ricordo, da Antonio Ricci a Maria De Filippi. Era anche più milanese di Sandra Mondaini che dalle parti del Duomo c’era nata, nel 1931: «Abitavamo in un condominio che aveva garage, citofono, portineria e l’acqua calda centralizzata. Mio padre spendeva durante l’estate tutto quello che guadagnava in inverno e in primavera, quindi in autunno ci tagliavano la luce, il telefono, il gas». Lui e Sandra vivevano all’ultimo piano della Residenza Acquario a Milano Due, che non è proprio Milano, ma un sobborgo residenziale molto ordinato, con tanto verde e niente traffico. La casa era una normale casa borghese, con il divano a righe, la libreria, la mensola con i Telegatti vinti durante la loro lunga carriera in bella vista, e la tivù grande per vedere le partite. Spazi per tutti e due, e camere separate (Raimondo aveva preso l’abitudine di dormire con il suo enorme cane sul letto da molto tempo), non come nella sitcom Casa Vianello.

O

Subito dopo il passaggio alla corte di Berlusconi avevano deciso di trasferirsi al Nord: «Così siamo più vicini agli studi di registrazione»

Per Raimondo, Milano Oggi non c’è più un Raimondo Vianello perché non potrebbe piu’ esserci, perché a nessuno passerebbe per la testa di affidare una prima serata a chi non è in grado di gestire con padronanza il peggiore turpiloquio o, al massimo, a chi non si sognerebbe mai di pronunciare degli eleganti doppi sessi legati a banane e a chissà quali altri frutti. La cosa triste è proprio questa: la volgarità paga, e paga bene. Ovunque. Andate su facebook, il social network dal quale nessuno può prescindere, e

Silvio Berlusoni, per il quale nel ’96, Raimondo aveva fatto una sobria dichiarazione di voto. Il trasloco era stato una scelta, oltre che privata, professionale. Passati dalla Rai a Fininvest (che poi sarebbe diventata Mediaset), nel 1982, con quello che Fedele Confalonieri aveva giudicato «un trasferimento eroico», Milano era diventata più comoda per registrare Casa Vianello, (ricordate il leggendario «che barba che noia, che barba che noia»), per Pressing, su Italia Uno (l’unica trasmissione sportiva “inglese” nello strillatissimo mondo del calcio), l’annuale apertura di Paperissima, e tutti gli altri impegni. Non come nel 1954, quando Raimondo, a Milano, ci andava in vagone letto per Un due tre, e passava la notte sul treno a provare gli sketch con Ugo Tognazzi.

era la Gazzetta dello sport, era il calcio (a 76 anni ha giocato ancora un Derby del Cuore segnando anche su rigore), era ovviamente l’Inter (tifoso sfegatato, dopo le passioni romaniste in gioventù), era la cotoletta, galeotta, perché mentre ne mangiavano una lui aveva fatto a Sandra la fatidica dichiarazione d’amore che aveva provocato la rottura dei reciproci fidanzamenti. Era anche

Vianello, però, a differenza di altri conduttori e comici, non sembrava un romano che ha cambiato casa. Gli piaceva anche il cielo grigio, il clima incerto: stava bene con l’ombrello e l’impermeabile, a spasso per i viali di Milano Due. «È proprio un signore» dicevano i negozianti. «È come in tivù». Poco dopo il trasloco, però, Sandra era depressa. Lei e Raimondo non avevano avuto figli, cercava un senso alla vita e al lavoro. Così, nel dicembre del ’91, le è venuta l’idea di prendere una coppia di filippini e di adottarli in blocco, figli compresi: da allora sono stati un’unica, grande famiglia, e la depressione se ne è andata. La gente li adorava, tutti li volevano ancora in televisione, così hanno accettato Crociera Vianello, circondati dall’affetto degli autori, dei tecnici, degli amici. Lui le dice che ha troppi bagagli per una crociera, che sembra voglia andar via per sempre, lei gli risponde: «Ti piacerebbe?». E Raimondo fa una delle sue solite faccette buffe. Dopo, c‘è stato il ritiro ufficiale di Sandra («Basta recitare, è ora di uscire di scena»), ma non quello di Raimondo, che avrebbe accettato volentieri un programma sportivo. «Il calcio - ha sempre ripetuto - resta la mia passione». L’ultima intervista, che è quasi una scenetta, è stata registrata in casa, per ricordare Mike Bongiorno («Era simpatico, eravamo amici»), e sembra di essere tornati ai tempi di Casa Vianello. «Era bello, Mike» dice lei. «Io non l’avevo notato», commenta lui. «L’ho notato io», fa lei secca. E lui sospira. Molto milanese. Quasi british.


mondo

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Stati Uniti. Conservatore tradizionalista, deputato a 32 anni, poi senatore: oggi prepara un clamoroso rientro in scena

L’avvocato con un cuore Chi è Rick Santorum e perché (presto) nella politica Usa si parlerà ancora di lui di Marco Respinti ato anzitempo per spacciato dopo la sconfitta di John McCain alle presidenziali del 2008, il Grand Old Party (Gop), l’altro nome dei Repubblicani, ha già infatti ripreso ad affilare i coltelli e le sue chance di far registrare presto, prima del previsto, affermazioni elettorali significative sono alte. A poco più di un anno dalla “magica” elezione di Obama, il malcontento è infatti alle stelle e la Casa Bianca è al minimo storico della popolarità. Due esempi soltanto. Il primo è il movimento dei “Tea Party”,

D

ton si è svolta l’annuale (la 37esima, quest’anno) Marcia per la Vita, lo si è visto a occhio nudo. Ma la cosa più contundente è che negli Stati Uniti queste due galassie, quella contro le tasse esagerate e quella a favore della vita, fanno più che intrecciarsi: sono addirittura quasi la medesima cosa.

L’annus electoralis 2010 ha in serbo dunque certamente più di una sorpresa; anzi, qualcheduna si è già palesata. Rick Santorum, per esempio, deputato Repubblicano della Pennsylvania nel

Cattolico da Messa in latino, è un deciso sostenitore del diritto alla vita contro aborto, eutanasia, sperimentazioni sugli embrioni. Ma è vicino anche alle istanze del popolo dei Tea Party che da un anno attraversa il Paese inscenando una rivolta fiscale pacifica tanto quanto ferma, e che oggi sta raggiungendo la maggiore età pensando, anche se non mancano i dissenzienti, di buttarsi direttamente in politica.

Il secondo è quello dell’universo pro-life, un universo politico oggi come mai, convinto di essere oramai all’ultima spiaggia, e in costante e rapida crescita. Il 22 gennaio, quando a Washing-

1990 a 32 anni, senatore dal 1994 e cresciuto fino a divenire presidente della Conferenza dei senatori Repubblicani, terza carica del partito al Senato. Giovane (è nato nel 1958, il 10 maggio per la precisione), bella faccia pulita, di remote origini italiane, Richard John Santorum vive e fa politica appunto in Pennsylvania. Il mondo lo conosce per essere un conservatore tetragono, il che significa un uomo di politica e di popolo intelligente, astuto, realista tanto quanto idealista, deciso così come pacato. Diceva del resto il grande scrittore ottocentesco Ambrose Bierce (1842-1914) che il conservatore è un tipo umano a cui bastano e avan-

Rick Santorum insieme alla famiglia (nella foto grande). George Weigel (qui sopra). Nella pagina a fianco: Marvin Olasky (in alto); immagini di Tea Parties

zano i guai dell’ora presente, differenziandosi dal progressista il quale invece ne sogna, ne immagina e ne prepara di sempre nuovi e peggiori. Per certo il cuore di Santorum batte là dove ritma quello del popolo dei “Tea Party”, ovvero dove c’è il por-

tafogli depredato dal fisco rapace a detrimento di famiglie, imprese e società civile.

Questo non impedisce peraltro a Santorum d’immaginare che una società davvero a misura di uomo debba sforzarsi seriamente per garantire ai cittadini e in specie ai più deboli misure di vera protezione sociale, ammortizzatori che ne attutiscano le cadute in caso di bisogno, forze d’interpolazione che


mondo della famiglia naturale. Tutto il Santorum-pensiero sta peraltro in quel bel librone, It Takes a Family: Conservatism and the Common Good, che nel 2005 gli pubblicò l’Intercollegiate Studies Institute di Wilmington, Delaware, oggi il migliore think tank educativo di tutti gli Usa, il quale si autodefinisce una “università sulla carta stampata”. E pure in Letters to Gabriel: The True Story of Gabriel Michael Santorum (Ccc of America, Irving [Texas] 1998), così come nel libro, in realtà firmato da sua moglie, Karen Graver Santorum, nota homeschooler, in cui si narra la storia di questa famiglia normale benedetta da sette figli anzi otto. L’ultimo venne al mondo, nel 1996, prematuro, e visse solo due ore, ma fu comunque portato a casa, ze tacche e squali della politica, giudici conniventi. Con Bush il giovane Santorum si è schierato anche sulla lotta al terrorismo internazionale, laddove per esempio un McCain ci ha tenuto sin troppe volte a distinguersi dal presidente, cosa, peraltro, che alle urne decisamente non lo ha premiato. E pure sul “Progetto intelligente” antievoluzionista Santorum era al fianco della Casa Bianca, a dire cioè che il cosmo, basta guardarlo, canta indubbiamente le lodi di ben altro che non sua maestà il caso cieco e baro, la fredda meccanicità dell’eugenista selezione naturale, la brunon lascino mai la gente sola in mezzo alla strada ovvero preda del più forte, lo Stato per esempio. Non è un welfarista, cioè, ma un sussidiarista, uno che ha ben chiaro il valore aggiunto dei corpi sociali intermedi. La stessa idea, insomma, del vecchio “conservatorismo compassionevole” che in Texas il pensatore Marvin Olasky aveva elaborato per la presidenza Bush. Cattolico da Messa in latino, Santorum è un deciso sostenitore del diritto alla vita contro aborto, eutanasia, sperimentazioni sugli embrioni umani e clonazione.

Buon nome se lo fece del resto nel pieno del caso Theresa Marie “Terri” Schindler Schiavo (1963-2005), quando fu tra i più decisi sostenitori della linea Bush la quale a quella povera ragazza voleva semplicemente salvare la vita contro il parere di morte di medici, familiari, mez-

talità della scimmia. Il processo di Harrisburg, la capitale della sua Pennsylvania, lo trovò infatti pronto e aitante. Esattamente come intransigente e lucido Santorum fu nel mezzo della baraonda scatenata da chi avrebbe voluto equiparare le unioni omosessuali al matrimonio eterosessuale, forze sfasciste sonoramente peraltro sconfitte in numerosi referendum celebrati in diversi Stati dell’Unione nordamericana dai difensori

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viso dal suo elettorato sono ormai alle spalle.

Alle elezioni di mid-term dell’autunno 2006, infatti, Santorum perse il seggio al Senato federale a vantaggio del Democratico William Casey jr. (antiabortista, peraltro, come già il suo famoso padre, senatore Democratico pure lui e dissidente nel suo stesso partito, inviso specialmente ai coniugi Clinton) per effetto di un increscioso malinteso. Anzitutto, in quell’ora per i Repubblicani triste, successe che il popolo americano trovò più credibile, e proprio su istanze conservatrici, un certo personale Democratico moderato, più “centrista”, non anti-patriottico, meno nichilista del solito; al contempo, infatti, gli americani che elessero la maggioranza De-

Non è un “welfarista”, ma un “sussidiarista” che ha ben chiaro il valore aggiunto dei corpi sociali intermedi. La stessa idea, insomma, alla base del “conservatorismo compassionevole” di Olasky

venne normalmente presentato al resto della famiglia e la mamma se lo coccolò, già in Cielo, per una notte intera (una casa editrice italiana vi ha messo sopra gli occhi, meno male). La prefazione è firmata Madre Teresa di Calcutta. Santorum ha insomma la carte in regola per ben rappresentare un’alternativa salubre alle politiche del relativismo americano, soprattutto oggi che alcune incomprensioni che lo hanno in passato di-

mocratica al Congresso, respinsero con forza ogni tentativo referendario d’intervenire su temi “eticamente sensibili”, segno, questo, di un inesistente massiccio spostamento a sinistra dell’elettorato e forse solo di un cedimento secco su questioni di fondo dei Repubblicani. Eppoi c’era stato quell’endorsement dato da Santorum al collega senatore della Pennsylvania Arlen Specter, un appoggio che pochissimi hanno capito. Specter, che era Repubblicano, la pensa infatti tutto all’opposto di Santorum e dei suoi elettori tradizionali. Più-che-progressista smaccato, filoabortista, da presidente del Comitato senatoriale per il vaglio delle nomine presidenziali alla Corte Suprema ne ha fatte di ogni, e molti lo ricordano come il curioso ideatore di quella singolare teoria della “pallottola unica” che pare essere en-

trata e uscita più volte, come impazzita, dal corpo del presidente John F. Kennedy (1917-1963), ma che in verità fa scappar da ridere. Ebbene, Santorum sponsorizzò lui contro il pro-lifer Repubblicano Patrick J. “Pat” Toomey ragionando sul fatto che Specter alle urne poteva farcela davvero mentre Toomey no, e che quindi ciò avrebbe rafforzato il Gop nel Senato federale configurandolo come una forza d’urto unitaria in un luogo importante dove la maggioranza dei suoi rappresentanti si esprime costantemente in senso mediamente più conservatore di quanto invece faccia singolarmente il solo (ma appunto non in quella sede) Specter. Ragionamento complesso, non lo ha capito nessuno; ma ciò dimostra che senza rinunciare ai princìpi, Santorum è capace pure di spregiudicate valutazioni pratiche, di compromessi strategici e di mediazioni efficaci. Quello cioè che serve a un leader di razza. Per la cronaca, gli elettori non ci avevano poi visto male, però, dato che il 29 aprile 2009, dopo 44 anni da Repubblicano, Specter è passato ai Democratici... Nelle primarie del 2008 Santorum si schierò con il candidato presidenziale Repubblicano Mitt avversò Romney, McCain e molto apprezzò la candidata alla vicepresidenza federale di quest’ultimo, Sarah Palin. Oggi Rick fa bene il proprio mestiere di vende avvocato, consigli alle aziende, collabora con il canale televisivo conservatore FoxNews ed è Senior Fellow presso quell’Ethics and Public Policy Center di Washington che ruota tutto attorno al fuoriclasse George Weigel. Insomma, prepara la rentrée.

A novembre, infatti, non solo potrebbe, dovrebbe tornare appieno sulla scena politica della Pennsylvania da primo attore, ma forse persino finire a guidare l’intero Stato da governatore. Sarebbe un assist che ai Democratici potrebbe costare più di un autogoal. Soprattutto perché pare proprio che Santorum, anzitutto se davvero ce la farà a divenire governatore della Pennsylvania, pensi seriamente anche alla seconda puntata, la Casa Bianca. Qualche anno fa si era già seriamente pensato a lui come giovane promessa per il futuro Repubblicano ai vertici istituzionali e politici del Paese. Lui smentì, si schermì, disse no: il modo classico, in politica, per dire «ci sto seriamente pensando». L’ora potrebbe dunque essere giunta. Comunque vada, ci piace essere stati i primi a raccontarvi questa bella avventura americana. www.marcorespinti.org


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Terrorismo. A pochi mesi dalle elezioni torna la violenza in Birmania RANGOON. Tre bombe sono esplose ieri durante il Festival dell’acqua a Rangoon, in Birmania, provocando una carneficina. La televisione di Stato birmana comunica che il bilancio ufficiale è di otto morti e 75 feriti. Fonti locali parlano invece di “oltre 30 morti” e denunciano una “strategia del terrore” adottata dalla giunta militare in vista delle elezioni politiche “per annientare qualsiasi tentativo di opposizione democratica”. L’attentato è avvenuto oggi in concomitanza con le celebrazioni per il Festival dell’acqua – in programma dal 13 al 16 aprile – un rito tradizionale che segna l’inizio del nuovo anno in Myanmar. I testimoni riferiscono di almeno tre bombe esplose in rapida successione nella zona di Mingalartaungnyunt, verso le 3 del pomeriggio ora locale. Il luogo dell’attacco è situato nei pressi del lago Kandawgyi, dove si riuniscono i cittadini per partecipare agli eventi legati al capodanno. La Tv di Stato ha fornito uno scarno comunicato in cui parla di otto morti. Le autorità hanno blindato il pronto soccorso dell’ospedale di Yangon, per impedire la fuga di notizie. Bocche cucite tra i vertici della giunta militare che, al momento, non hanno attribuito a gruppi dissidenti o minoranze etniche la “responsabilità” dell’attentato. Fonti in Myanmar riferiscono che «sono morte più di 30 persone» e vi sono decine di feriti. L’esplosione è avvenuta nello stand allestito dai medici, in uno dei vari punti in cui la gente si riunisce per spruzzarsi addosso l’acqua come vuole la tradizione. Gli ordigni hanno sventrato la struttura: l’intento era quello di provocare delle vittime. Nei giorni scorsi, continuano le fonti, sono avvenute esplosioni in diversi punti della

Rangoon, tre bombe alla Festa dell’acqua Fonti locali parlano di trenta morti e cento feriti. La giunta contro le etnie di Vincenzo Faccioli Pintozzi

L a gi u n t a h a l an c i at o

stampa AsiaNews – per mettere a tacere qualsiasi iniziativa contraria agli interessi dei militari». L’obiettivo è alimentare una “strategia della tensione” e mandare un “segnale di avvertimento”ai movimenti e alla frangia della popolazione che si contrappone alla dittatura militare, in vista del voto. Di recente la leadership della Lega na-

I militari useranno gli ordigni per giustificare una nuova ondata di violenza contro i karen e i kachin, che vogliono l’indipendenza città e in altre zone del Paese. «Le bombe – raccontano – erano nascoste nei bagni pubblici o nei bidoni della spazzatura. L’attentato di oggi, però, mirava a provocare una strage». In occasione del Festival, la zona è presa d’assalto da molti cittadini che appartengono in maggioranza alla classe media e simpatizzano per i movimenti di opposizione democratica: «L’attentato è una mossa interna al regime ed è legata alle elezioni – spiega una fonte, sentita dall’agenzia di

d’Asia: la giunta dei generali che governa la Birmania, da loro persino ribattezzata in Myanmar, non ha legittimità politica e conduce da almeno un ventennio una guerra senza quartiere contro le etnie che vivono nel nord. I karen e gli hmong, gli shan e i kachin sono popoli fieri, che non accettano il dominio del generale Than Shwe: per questo vengono accusati di compiere attentati e commerciare droga, legittimando una repressione che non ha eguali. E le bombe, quasi sicuramente, verranno addebitate a loro per giustificare una nuova ondata di sangue e censura nell’anno delle prime elezioni politiche nazionali. Il fatto che l’addebito non sia stato immediato fa pensare che si sta cercando un nome da indicare. Nel frattempo, prosegue il massacro delle etnie e l’esodo delle popolazioni coinvolte nello scontro. Migliaia di civili hanno varcato il confine fra il Myanmar e la Cina, per sfuggire al conflitto in corso fra l’esercito birmano e gruppi ribelli della minoranza etnica Shan. I media cinesi parlano di 10mila persone dall’inizio di agosto; fonti locali riferiscono di “un esodo di massa”. Centinaia di truppe governative, intanto, hanno raggiunto l’area per sradicare la resistenza.

zionale della democrazia (Nld), il principale partito di opposizione birmana, ha annunciato di non procedere alla registrazione necessaria per partecipare alle elezioni. Un gesto di protesta contro le regole emanate dalla Commissione elettorale che, di fatto, impediscono ad Aung San Suu Kyi – tuttora agli arresti domiciliari – di partecipare al voto e di essere eletta. Un attentato, dunque, che ha coinvolto la popolazione innocente di uno dei regimi militari più feroci

Aung San Suu Kyi in ospedale per controlli al cuore

Paura per la “Signora” La leader dell’opposizione democratica birmana, Aung San Suu Kyi, è stata sottoposta alcuni giorni fa ad alcuni accertamenti clinici al cuore presso il General Hospital di Rangoon: dopo una ventina di minuti, il premio Nobel per la Pace ha fatto ritorno a casa, dove sta scontando una condanna agli arresti domiciliari. Al momento non sono stati forniti dettagli sulle sue condizioni di salute né sull’esito degli esami compiuti. Aung San Suu Kyi ha sofferto in passato di problemi cardiaci, ma non è chiaro al momento quale sia la causa che abbia costretto la leader democratica birmana a recarsi in ospedale. Secondo quanto si è appreso, gli accertamenti non erano stati programmati. La “Signora della Birmania”, come è chiamata

affettuosamente dai suoi sostenitori, è la figlia di Aung San, eroe nazionale del Paese asiatico. La sua schiacciante vittoria alle ultime elezioni libere del Paese - avvenuta 20 anni fa - e la maggioranza parlamentare ottenuta dalla sua Lega nazionale per la Democrazia l’hanno resa molto pericolosa agli occhi della feroce giunta militare, guidata dal generale Than Shwe, che di fatto governa in stato di dittatura. Per fermarne l’opera e limitarne l’autorità, i militari hanno lancontro ciato Aung San Suu Kyi una campagna composta da arresti ripetuti e accuse farsa. L’ultima condanna le è stata comminata dopo che un americano ha nuotato nel lago che separa la sua casa dalla terraferma. Per i militari, un agente della Cia.

un’offensiva verso i gruppi etnici ribelli; i militari intendono costringerli alla resa in vista delle elezioni politiche e a collaborare con il governo nella difesa dei confini nazionali. Un testimone oculare della cittadina cinese di Nansan riferisce che «un gruppo consistente di profughi» ha varcato la frontiera nei giorni scorsi, attraverso la cittadina birmana di Kokang, nello Shan. Una seconda fonte afferma di non aver visto «nulla di simile da almeno 10 anni»; al momento i rifugiati sono ospitati nei centri allestiti dal governo cinese. Nel frattempo il Myanmar Peace and Democracy Front (Mpdf), alleanza formata da quattro gruppi etnici ribelli, conferma un “confronto militare” fra il Mpdf e l’esercito birmano. Tra i più attivi nella lotta contro il governo - che non ha mai riconosciuto l’esito delle urne, imponendo una rigida dittatura militare - vi sono i ribelli del Karen National Union (Knu), che non hanno mai sottoscritto un accordo di pace. Il conflitto tra il Knu e l’esercito governativo dura da oltre 60 anni ed è uno dei più vecchi al mondo tuttora in corso.


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Ma gli analisti temono la bolla speculativa e la disoccupazione

L’ex presidente del Kirghiszistan contestato anche nella sua Osh

Cina, crescita record: +11,9% nel primo trimestre 2010

Bakiyev fugge in Kazakistan, ma ora rischia l’arresto

PECHINO. L’economia cinese

BISHKEK. Roza Otunbayeva,

cresce dell’11,9% nel primo trimestre 2010 rispetto a un anno prima, massimo incremento dal 2006, secondo i dati comunicati oggi dall’Ufficio nazionale di statistica (Uns). L’inflazione rimane contenuta entro il 2,2% a marzo (+2,7% a febbraio), ma il timore è che possa accelerare nei prossimi mesi, trainata dall’inarrestabile ascesa dei prezzi immobiliari e dai molti finanziamenti bancari. Esperti ritengono che Pechino debba ora aumentare il costo del denaro e rivalutare lo yuan, ma intanto ancora una volta la crescita del Paese appare avvenire a spese di centinaia di milioni di lavoratori migranti.

leader del governo provvisorio, ha rifiutato ieri qualsiasi concessione al presidente Kurmanbek Bakiyev e ha detto che «ha ecceduto i limiti della sua immunità facendo scorrere il sangue» durante le proteste della scorsa settimana e gli scontri con la polizia che hanno causato 84 morti. La posizione di Bakiyev, che ostenta sicurezza, si è aggravata dopo che Stati Uniti e Russia hanno manifestato sostegno al governo interinale, che controlla il nord del Paese e che ha subito chiarito che intende mantenere la precedente politica internazionale. Questo significa, fra l’altro, il mantenimento della base aerea Usa a Manas, unica che gli Sta-

La crescita del Prodotto interno lordo ha superato le previsioni, trainata dalla ripresa delle esportazioni (+29% nel primo trimestre) ma anche dai robusti finanziamenti erogati dallo Stato e dall’aumento dei consumi e delle vendite al dettaglio. Ottimista il commento di Li Xiaochao, portavoce dell’Uns, che ritiene possibile “raggiungere gli obiettivi fissati quest’anno”, consistenti in una rapida ripresa economica e nell’aumento dei posti di lavoro e dei consumi. A marzo le vendite al dettaglio sono cresciute del 18%. Spiccano le vendite di au-

Le paure di Israele nel Libano meridionale Si parla di Scud a Hezbollah via Siria, ma c’è Unifil che vigila di Pierre Chiartano lampi dal Libano ora parlano di missili Scud nel sud del Paese. Fonti ufficiali di Damasco hanno negato ieri le informazioni circolate nei giorni scorsi sui giornali kuwaitiani, secondo cui la Siria fornirebbe missili Scud ai militanti libanesi di Hezbollah. Mentre l’allarme lanciato dal presidente israeliano Simon Peres arriva dopo alcune settimane in cui stava montando la preoccupazione. Gli Scud sono tutta un’altra cosa rispetto ai razzi Qassam. Un trasferimento di missili con un raggio d’azione che cambierebbe radicalmente gli equilibri militari della regione. Hezbollah che fino ad ora poteva colpire solo le città dell’alta Galilea a nord d’Israele avrebbe così le capacità per raggiungere obiettivi come Tel Aviv e Gerusalemme. Ma sembra poco probabile che il partito di Dio voglia scatenare una reazione di Gerusalemme, ben peggiore di quella del 2006, che ha segnato fortemente sia la comunità sciita che le forze israeliane. Un bell’impiccio per Obama e la sua politica verso la Siria, proprio dopo la riapertura della sede diplomatica Usa a Damasco con la nomina di un nuovo ambasciatore, per la prima volta dopo cinque anni. «La Siria dichiara di volere la pace ma poi consegna dei missili Scud a Hezbollah che minaccia costantemente la sicurezza d’Israele» ha affermato il presidente Peres alla radio israeliana, prima della partenza del viaggio per la Francia. Ma c’è un diretto testimone della vicenda, il presidente della Commissione esteri del Senato, il democratico John F. Kerry che un paio di settimane fa è rientrato da un viaggio che lo ha portato in Libano e Siria. Il suo portavoce, Frederck Jones ha dichiarato al Washington Post che ciò che il senatore ha appreso prima della sua partenza è ritenuto materiale classificato, ma «che si rende conto che il continuo flusso d’armamenti verso Hezbollah solleva delle legittime preoccupazioni da parte di Israele e di tutti le parti che stanno lavorando per una pace nella regione». La commissione Esteri, martedì, aveva approvato

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con voto palese la nomina del nuovo ambasciatore a Damasco nella persona di Robert Ford . È stato chiesto da tre membri repubblicani che vengano verificate le accuse israeliane prima di procedere alla nomina. Ciò che non convince è come in una zona a forte saturazione militare, come l’area di competenza di Unifil 2, si possano far arrivare dei mezzi così potenti e ingombranti come le rampe mobili per gli Scud. Non solo, ma la situazione in loco è così improntata alla ricostruzione delle strutture civili ed economiche di base, che in pochi vorrebbero dare a Israele il motivo per un altro intervento.

La guerra del 2006 ha lasciato il segno, sindaci e moukthar pensano solo a costruire strade, fornire acqua potabile, energia elettrica e qualche posto di lavoro. A sud del Litani la popolazione è stremata.Tanto che a Teheran per il progetto di Terza Intifada stanno pensando alla Cisgiordaniae e ai palestinesi di Fatah. A Gaza e nel sud del Libano sono rimaste solo macerie. Anche l’intelligence americana che nel Libano meridionale ha qualche ”vuoto” non si è ancora esposta nella valutazione sull’allarme Scud. Tanto che un paio di settimane fa, Washington avrebbe chiesto collaborazione per alcune operazioni Comint (Comunication intelligence) – si pensa in supporto all’Idf – ricevendo un cortese diniego dalle forze Onu sul campo. Un’azione coerente col delicato compito di componente super partes che, grazie anche al triennio di comando italiano, i baschi blu sono stati capaci di costruire in una delle polveriere del Medioriente. Può darsi che le preoccupazioni di Gerusalemme siano state alimentate dalle notizie, emerse qualche tempo fa, sulla consegna di missili a corto raggio, 150 chilometri di gittata – forse dei Mushak 120 – forniti dall’Iran alle milizie sciite libanesi. Probabilmente passate via Damasco. Ma era previsto che mancassero di alcune componenti elettroniche essenziali per la fase di lancio. Chi arma una mano vuole poterla controllare in ogni momento.

Shimon Peres: «Damasco dice di volere la pace con Tel Aviv ma poi consegna dei missili a coloro che ci minacciano»

to, cresciute del 76% nel primo trimestre 2010, con la joint venture Mercedes-Benz (China) Ltd che le ha raddoppiate. La produzione industriale è cresciuta del 18,1% a marzo, con appena un lieve rallentamento rispetto al 20,7 del primo bimestre. Esperti ritengono che ora, per evitare che l’inflazione acceleri, occorrerà contenere i finanziamenti pubblici e aumentare il tasso di interesse per i finanziamenti bancari. Il basso costo del denaro favorisce la speculazione soprattutto in campo immobiliare. Il timore è che stia creandosi una bolla speculativa, favorita dal record di prestiti per 1.400 miliardi di dollari erogati in Cina nel 2009.

ti Uniti hanno nell’Asia Centrale, fondamentale per l’intervento militare in Afganistan, ma anche in posizione strategica verso Russia, Kazakistan e Cina. La Otunbayeva ha manifestato la dura posizione dopo l’incontro con l’inviato speciale Usa Robert Blake, che si è detto “ottimista” sulle iniziative del neogoverno e ha annunciato maggiori aiuti economici Usa.

Nei giorni scorsi Alexei Kudrin, ministro russo alle Finanze, ha annunciato aiuti umanitari con finanziamenti a basso interesse per decine di milioni di euro. Bakiyev, dopo avere per più giorni detto di non volersi dimettere, ieri aveva offerto le dimissioni in cambio dell’immunità per lui, la famiglia e altri sostenitori per andare all’estero. Oggi Bakiyev è stato contestato anche nella sua roccaforte di Osh, seconda maggior città del Paese, quando una folla inferocita gli ha impedito di tenere un comizio nella piazza davanti al Teatro drammatico nazionale della città. Il presidente deposto si è presentato circondato da guardie armate e centinaia di sostenitori, ma il gruppo ha iniziato a lanciare sassi, mentre la polizia non è intervenuta. Le guardie del corpo hanno sparato in aria.


cultura

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Linguaggi. La morte del desiderio e il disagio contemporaneo della civiltà nei recenti studi di Massimo Recalcati

Le nozze di Arte e Psiche Il delicato rapporto tra inconscio ed estetica attraverso i grandi maestri della psicoanalisi di Angelo Capasso

Q

uello tra Arte e Psiche è certamente il nodo centrale del XXI secolo. Lo è in quanto, come nella favola di Apuleio Eros e Psiche, l’incarnarsi dei due ha prodotto l’“immortalità”, o meglio, ha dilatato il territorio dell’arte su nuove ipotesi di lavoro e presentato uno schermo per la psicoanalisi su cui articolare l’indagine nelle profondità dell’Io. Psiche è stata una zavorra di salvataggio per l’arte, quando questa l’ha recuperata sull’orlo della crisi più radicale, sul baratro del delirio sociale, dopo la prima Guerra Mondiale, ovvero quando, come sosteneva Magritte, la questione non era più «come dipingere, ma cosa dipingere». Psiche propose una nuova prospettiva, non quella geometrica e retinica da applicare al quadro, come lo era per i Cubisti (agganciati ad un recupero del classicismo in quarta dimensione) o per i Futuristi (nella loro lotta con il dinamismo e le possibilità cinetiche dell’astrazione).

Il meccanismo della “rimozione” scoperto da Sigmund Freud, con i suoi studi sull’isterismo e sull’ipnosi, dimostrava l’esistenza di un bagaglio molto più ampio, il sogno, dove si fissava la possibilità recondita di giungere anche nel trauma del vivere e di rivelare un teatro più complesso, nascosto da un automatismo proprio della psiche, la “rimozione”: «Tutte le cose dimenticate avevano avuto, per un qualche motivo, un carattere penoso per il soggetto, in quanto erano state considerate temibili, dolorose, vergognose per le aspirazioni della sua personalità». La terapia psicoanalitica proponeva allora di entrare nel canale più oscuro della personalità umana e giungere in quella miniera di materiale inconscio per esortarlo ad uscire dall’armadio. La libera associazione d’immagini, ed ogni altra tecnica utilizzata dai surrealisti (gli ernstiani frottage, grattage, o la scrittura automatica in poesia e nel romanzo, ecc.), otteneva la sintesi dello spazio-tempo senza scadere nello sbilanciamento in uno o l’altro polo, ma nell’elevazione oltre il reale, nel Sur-

reale. Lo dichiarava Breton, con il suo Manifesto del 1924, attraverso cui si aveva la più radicale sterzata dell’arte: il paesaggio diviene interiore. «Con l’automatismo psichico puro dice Breton - ci si propone di esprimere sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero; è il dettato del pensiero con l’assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale». L’automatismo psichico è il procedimento pulsionale che, liberando la mente dai freni inibitori, razionali, morali, si elegge a chiave d’oro per accedere appieno nel mondo attraverso l’inconscio. Poi, con il film di Hans Richter, Dreams that money can buy, del 1946 (vincitore alla Biennale di Venezia) - pri-

una leva necessaria a sollecitare una presenza attiva del paziente allo scandaglio. Hans Richer, collega nelle boutade dadaiste di Duchamp, proponeva a New York un film antiretorico sulla psicoanalisi vista con gli occhi dell’artista. Quali sogni può comprare il denaro? Forse tutti, nel mondo pragmatico americano.

Certamente non l’arte, che non è legata al sogno, ma al segno, di cui il sogno è che un segnale premonitore. Quel film dimostrava che la forza dell’inconscio dell’artista è un motore perennemente in atto. Quella dell’artista è una lotta individuale, non una relazione “uno a uno” con il terapeuta, ma un monologo silenziato vissuto attraverso l’epifania e la meraviglia: l’arte dimostra che l’in-

Quella dell’artista è una lotta individuale, non una relazione “uno a uno” con il terapeuta. È piuttosto un “monologo silenziato” vissuto attraverso l’epifania e la meraviglia mo film sulla psicoanalisi realizzato da un artista - la terapia psicoanalitica usciva dall’incanto romantico del nuovo mondo cui prestare fede, e con estrema ironia mostrava un’altra questione centrale della terapia, il suo aspetto industriale (analogo a quello dell’arte), dove è il denaro a dar forma ai sogni: pagare la parcella dell’analista a fine seduta è certamente

conscio vive e intensifica la propria complessità, se messo in atto, se nutrito e rimesso in discussione dal segno. Tra i padri della psicoanalisi moderna, più che Freud (particolarmente scettico nei confronti dei Surrealisti), fu Jacques Lacan a sostanziare più concretamente il confronto tra arte-psiconalisi nei suoi “Seminari”. Lacan era vicino ai Surrealisti, tanto da

sposare Sylvie Bataille, sorella di uno dei scrittori più noti del Surrealismo. Dalì teorizzo il suo metodo paranoico-critico proprio leggendo la tesi di laurea dello psicoanalista francese dal titolo ”La psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità”. Per Lacan, l’inconscio, al pari dell’arte, è un linguaggio da decodificare, con una sua grammatica ed un suo lessico. Questo principio ha tolto ogni soggezione dell’arte nei confronti della psicoanalisi e ha sottratto alla psicoanalisi la possibilità di considerarsi una scienza per tutte le stagioni. È questo il sunto di quanto Mas-

simo Recalcati, filosofo e psicoanalista, ha raccolto nel suo lavoro (soprattutto recente). Recalcati ha raccolto i riferimenti di Lacan all’arte in un corpus unico, fino a giungere a un’estetica lacaniana applicata ad opere di artisti noti (Burri, Tàpies, Morandi, Pollock).

Che tipo di estetica può scaturire dalle teorie di uno psicoanalista? In termini molto generali, il limite delle conclusioni del saggio Le tre estetiche di Lacan di Recalcati è di cadere nella trappola della forma. È quanto sosteneva, Gillo Dorfles, in un suo saggio del 1976, dove affronta la questione di una possibile applicazione degli studi strutturalisti alla pittura: «Un tentativo - perso in partenza - di identificare le particelle discrete (equiparabili a fonemi, monemi) di un quadro con le unità minime di significato: questo tentativo si scontra con la realtà della pittura dove una piccola sezione può risultare molto più omogenea dell’intero dipinto». In altre parole, Dorfles in un’epoca dominata dalla “strutturazione forzata”, sottolineava i limiti dell’ossessione a “formalizzare” ad ogni costo un fenomeno impossibile da canalizzare in una forma. Il linguaggio dell’arte è una materia in continua metamorfosi con forme tempora-


cultura

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sagio contemporaneo della civiltà - anoressia, bulimia, obesità, tossicomania, depressioni - come forme della morte del desiderio. «Il soggetto ipermoderno appare come un soggetto smarrito, senza centro, dominato dalla spinta compulsiva a un godimento solitario (narcisistico e cinico) che esclude lo scambio simbolico con l’Altro». La “scomparsa dell’inconscio” sarebbe determinata dalla morte del desiderio, dalla “compulsione a consu-

“ciò che sta sotto”), s’intende ciò che è nascosto all’interno della cosa sensibile come suo fondamento ontologico. La sostanza è, quindi, ciò che di un ente non muta mai, ciò che propriamente e primariamente è inteso come elemento ineliminabile, costitutivo di ogni cosa per cui lo si distingue da ciò che è accessorio, contingente, e che Aristotele chiama “accidente”. Per sostanza, in altre parole, s’intende ciò che è causa sui, ovvero ha la causa di sé in se stessa e

L’artista propone l’inconscio come unica forma di porsi in relazione col mondo, poiché il mondo attuale ormai manda solo risposte inconsce. L’inconscio è dunque un “male necessario” mare”e dal liquefarsi - per usare un’immagine molle daliniana che Zigmunt Barman ha eletto a cardine della propria teoresi dell’inconscio individuale in un unico calderone collettivo.

nee, fuggevoli e precarie la cui sedimentazione è semplicemente un indizio della sua esistenza. Lo dimostra l’esigenza (sempre più frequente) dell’artista di esprimersi attraverso strategie diverse, tra linguaggi e forme. All’operazione titanica di Recalcati va comunque riconosciuto l’indiscusso merito di ribaltare l’approccio tradizionale nella relazione arte-psicoanalisi secondo cui la psicoanalisi sarebbe una disciplina “da applicare” all’esperienza estetica. La psicoanalisi è “implicata all’arte”; non è, secondo Lacan, un meta-discorso attraverso cui sottomettere e spiegare tutte le altre forme discorsive. In questa condizione enigmatica la psicoanalisi e l’arte instaurano una possibilità di dialogo molto più fruttuoso attraverso nodi, intrecci, incroci.

L’invenzione linguistica più interessante di Lacan è certamente il “piccolo oggetto a” che solleva la questione di una possibile oggettivazione dell’inconscio, rafforzando in questo modo le approssimazioni tra arte e psiche proprio sulla loro unica possibilità di analisi: il manifestarsi oggettivo, in una ipotesi di oggetto. Nel suo nuovo libro, L’uomo senza inconscio (pubblicato per i tipi di Raffaello Cortina), Recalcati ripensa le psicopatologie del di-

A destra, le copertine dei due volumi “German Love Sinfonietta” di Vettor Pisani e “L’uomo senza inconscio” di Massimo Recalcati

È, questa, una teoria che si collega perfettamente al grande filone che sostiene la destrutturazione del soggetto individuale a favore di un “soggetto collettivo”, e riscuote un consenso unanime nell’ambito delle facoltà cognitive e creative. Ma è veramente possibile un radicale estinguersi dell’inconscio o la sua perfetta inesistenza? Difficile a dirsi. Per i Surrealisti sarebbe il vero omicidio perfetto. Per tornare al nostro binomio di partenza, una questione simile, l’arte l’ha attraversata nei primi anni settanta, quando si cominciò a parlare di “morte dell’arte” sulla scorta di una nota teoria hegeliana e in corrispondenza all’imporsi di forme anoressiche dell’arte quali le numerose operazioni concettuali: l’arte si presentava attraverso il suo “fantasma”, come fatto assolutamente mentale, non carnale, con un velo opaco posto sul desiderio, il desiderio di un erotismo totale, diffuso, non veicolato, an-analitico potremmo dire, inibito alla meta dal rigor mortis. La liberazione da quella contrizione si ebbe negli anni Ottanta, con il tracollo di tutte le questioni strutturali e il riproporsi dell’artista “veggente”, libero battitore dal grande ego con il suo inconscio a cielo aperto. Piuttosto che preoccuparsi di questioni formali, l’artista ha rimesso in atto la sostanza dell’arte. In filosofia per “sostanza” (dal latino substantia, letteralmente traducibile con

non in altro. Vettor Pisani, l’ultimo degli artisti che opera sulla linea simbol-surrealista europea, maestro di cerimonie edipiche e paziente lettore delle teorie psicoanalitiche ha dimostrato con due romanzetti pseudo-autobiografici German Love Sinfonietta e Edipo borderline. Antigone, la discarica di Edipo. Tragedia della Politica e dell’Anti Politica che la vitalità dell’inconscio è, ad un tempo, una ricchezza ed una croce. Può essere un forte strumento critico ed una delirante ma positiva responsabilità sociale.

L’artista propone l’inconscio come unica forma di porsi in relazione col mondo, poiché il mondo attuale ormai manda solo risposte inconsce. L’inconscio è un “male necessario”, come Joyce diceva del padre. Come ente collettivo, la società ne rimuove l’esistenza o meglio ne rifiuta la consistenza, attraverso lo stordimento messo in atto da rituali di ogni genere perché, sostanzialmente, ne rifiuta il peso, la L’inconscio responsabilità. collettivo, nell’arte e in letteratura, confermerebbe Vettor Pisani, non è che una rifrazione di un io unico che cade su uno specchio infranto, la cui la ricomposizione è (ancora) possibile solo interpretandone il rebus di fondo. Più che di morte o scomparsa dell’inconscio, Pisani sembra presentare quindi una certa inadeguatezza dei suoi esegeti. Ma questa è una questione diversa che passa la palla ai deuteragonisti di Psiche e Arte: l’analista e il critico. Che sia da ricercare tra questi la vera morte?


cultura

pagina 20 • 16 aprile 2010

A fianco, un disegno di Michelangelo Pace. In basso a sinistra, la copertina del libro di Riccardo Calimani “Non è facile essere ebreo”. Sopra e sotto, gli scrittori ebrei: Gordimer, Safran Foer, Wiesel, Oz e Yehoshua

se da domani, 17 aprile e fino al 21, si andasse tutti a Ferrara per la prima Festa del Libro ebraico in Italia? La città emiliana, con Venezia, ha avuto un grande ruolo nella storia ebraica probabilmente perché nelle sue vie e nelle sue piazze si è respirata un’aria di libertà che ha permesso anche a ebrei e marrani, a certe condizioni, di sopravvivere. È da sempre, Ferrara, un luogo nevralgico dell’ebraismo, basti anticipare il nome di Giorgio Bassani per intendersi, e quest’anno accoglie un’iniziativa promossa dal Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, istituzione attiva nel centro emiliano dal 2008. «In questa prima edizione - ci dice il presidente Riccardo Calimani - si vuole mettere in rilievo l’importanza di un Museo, che pur in fase di costruzione, ha da subito avuto l’obiettivo di porsi come un laboratorio culturale dinamico».

E

La manifestazione nasce allora all’insegna di quel particolare rapporto che il mondo ebraico, non solo italiano, ha da sempre avuto con il libro e la scrittura. Un dato è certo: sul mercato vi è una presenza senza precedenti di testi di autori ebrei o dedicati all’ebraismo. Il tema da argomento di nicchia si è trasformato in una presenza molto diffusa. Né si tratta più solo dei grandi scrittori e intellettuali senza i quali la cultura del Novecento resterebbe orfana: Freud, Kafka, Einstein, Joseph Roth, Buber, Singer, Primo Levi e altri ancora. Sono ormai imprescindibili anche nomi di autori viventi quali Wie-

Rassegne. Da domani al 21 aprile, a Ferrara, la prima “Festa del Libro ebraico”

Sfogliando la storia (della libertà) di Francesco Napoli ha affermato che gli ebrei in Italia sono poco più di venticinquemila, minoranza numericamente esigua dunque, eppure a questa “Festa del libro” i volumi scritti da ebrei, in italiano o tradotti in italiano, o i libri di tema ebraico sono più di 1.500. Siamo in presenza allora di una sovraesposizione o di una cultura a suo modo dominante? «Mi piace rispondere in un modo tutto ebraico - sorride al quesito Calimani - sia l’uno che l’altro e né l’uno né l’altro. Mi spiego: una minoranza quale essa sia è sempre sovraespo-

secoli l’ideale ebraico oltre alla sopravvivenza è stato lo studio». Se il dettaglio del programma è visibile via internet (www.meisweb.it), su alcune delle iniziative previste forse è bene soffermarsi. Un’attenzione particolare sarà dedicata alla città di Ferrara e al suo grande scrittore Giorgio Bassani. A piedi e in bicicletta, mezzo di trasporto simbolo della città estense ma anche dello stesso scrittore (si scorrano nella memoria le immagini del film di De Sica tratto dal capolavoro Il giardino dei Finzi-Contini), si

L’iniziativa è stata promossa dal Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano. «E in questa prima edizione - dice il presidente Calimani - si vuole sottolineare l’importanza di un Museo che vuole porsi come un laboratorio culturale dinamico» sel, Gordimer, Oz, Yehoshua, Grossman, Safran Foer, per citarne solo alcuni. «Indubbiamente - afferma ancora il presidente del Meis, egli stesso scrittore e storico di vaglia - si tratta di un fenomeno che merita di essere messo a tema». E lo stesso Calimani sull’argomento ha speso molte energie, così nel suo Non è facile essere ebreo

sta. Esiste una legge della percezione che dice che se ci sono mille palline bianche e una nera tu vedi palline bianche e nere. E la minoranza è sempre sovrastimata.

Quanto alla forte presenza culturale nel mondo dell’editoria si tratta della eredità di una tradizione antica. In fondo nei

potrà essere guidati tra case, mura, giardini e l’orto degli Ebrei, sulle tracce di Bassani: ghetto e sinagoghe sulle due ruote assumeranno un gusto tutto particolare, forse irripetibile al di fuori della Festa. E oltre le date della manifestazione, e quindi fino al 30 aprile, nel Salone di onore del palazzo del Municipio sarà visitabile la mo-

stra Le origini del libro ebraico in Italia, a cura di Gadi Luzzatto Voghera, un itinerario che aiuterà il visitatore a capire come la stampa abbia mutato il testo ebraico e il suo utilizzo e a fargli comprendere perché attorno alla stampa e al rogo del Talmud e di altri libri ebraici voluta dall’Inquisizione (1553) si sia giocata gran parte della storia culturale dell’Italia ebraica del passato millennio.

All’eterno e forse infinito tema del pregiudizio di cui gli ebrei sono stati vittime, senza colpe?, tenterà di rispondere una tavola rotonda ben architettata dal titolo Pregiudizi sugli ebrei, pregiudizi degli ebrei (18 aprile, ore 17), coordinata dallo stesso Riccardo Calimani, con Ferruccio De Bortoli, Gian Arturo Ferrari, Arrigo Levi, Renato Mannheimer ed Enrico Mentana e la videoproiezione inedita di Moni Ovadia che esprime la propria opinione a riguardo in modo spregiudicato. Un’ultima domanda, presidente Calimani: lei sta pilotando la nascita del Museo. Quale è il modello che vi siete posti, se un modello c’è? Cosa si esporrà a Ferrara ma soprattutto come si differenzierà il Meis dagli altri musei ebraici italiani ed europei? «Questa è una scommessa. Il modello deve essere dinamico, deve produrre esso stesso, se possibile, nuova cultura, deve avere valenze pedagogiche stimolare insegnare informare. Obiettivi ambiziosi che non possono essere raggiunti in modo facile. Speriamo che in molti possano essere con noi nel seguire questa difficile strada. Speriamo davvero».


spettacoli

16 aprile 2010 • pagina 21

Ritratti. Ricordando la lezione di Leo de Berardinis, l’uomo che portò in scena la condizione umana e le sue contraddizioni

Il genio del teatro politico di Diana Del Monte

icordare Leo a poco più di un anno e mezzo dalla scomparsa è un compito doveroso e piacevole allo stesso tempo. Sfortunatamente, i ritratti d’artista raramente sanno restituire la tridimensionalità del soggetto e questo è un caso in cui l’impossibilità è uno stato di fatto, da accettare. Il teatro di Leo de Berardinis era potente, divertente, spaventoso, acuto, delicato, imponente, in breve, complesso quanto l’esperienza umana, perché di questa si occupava. Un teatro politico, qualunque forma assumesse, perché era della gente e per la gente che vive quotidianamente e perché di questo, Leo, aveva una percezione reale e lucida. Alto e magrissimo, con una corolla di capelli grigi che illuminavano un viso lungo e affilato, Leo si imprimeva nella mente delle persone al primo incontro.

R

Come uomo di teatro, lo faceva con la sua immagine, i suoi gesti, il suono della sua voce, straordinariamente duttile e versatile, le intuizioni geniali, l’istinto percettivo fuori dal comune, la capacità di guardare alle altre arti senza preconcetti; come persona, erano la cordialità e la disponibilità, l’immensa cultura, la pazienza ed il rispetto con cui trattava i suoi collaboratori a farlo emergere. Figura a volte scomoda, ma mai arrogante o provocatoria, Leo, infine, era un uomo terribilmente divertente. Dopo il convegno di Ivrea del 1967, si impose come crocevia fondamentale del Nuovo teatro in virtù della costruzione di un alfabeto diverso, originale; tuttavia, parlarne come di uno dei maggiori rappresentanti dell’avanguardia teatrale italiana sarebbe troppo riduttivo e, soprattutto, poco gradito al protagonista di questa storia, ostico a qualunque forma di etichettatura. Con il suo lavoro, infatti, Leo si oppose, senza inutili intellettualismi, a tutti gli altri generi del tempo, avanguardia inclusa. A teatro aveva debuttato nel 1962 con Carlo Quartucci e nel 1965 aveva iniziato la lunga e rivelatrice collaborazione con Perla Peragallo. Dopo molti successi, nel 1971 aveva abbandonato, con lei, quella che è stata la palestra per un’intera generazione di attori: «Andammo a Marigliano per ricominciare. Dato che le cantine romane erano diventate una moda». Una scelta di autoemarginazione operata senza demagogia o at-

teggiamenti vittimistici, semplicemente alla ricerca di un’indipendenza produttiva. A Marigliano, Leo e Perla provocarono un bisogno di teatro tra i locali la cui eco è sopravvissuta a entrambi; l’alchimia, l’intelligenza e la potenza del loro rapporto, d’altra parte, non possono essere rubricati semplicemente come una “collaborazione artistica”. Perla era un poeta, un grande e spaventoso poeta della scena di cui Leo diceva «Perla azzaccherà sempre la cosa, anche fuori intenzione (…). Come Raffaello». Quando lui si era trasferito a Bologna, lei era rimasta a Roma per dedicarsi all’insegnamento, ma i contatti fra i due si mantenne-

riprendere conoscenza. In suo ricordo, nella città che l’ha ospitato durante l’ultima parte della sua vita artistica, è stato presentato, pochi giorni fa, il libro La terza vita di Leo. Gli ultimi vent’anni del teatro di Leo de Berardinis a Bologna, epilogo di due convegni curati e progettati da Claudio Meldolesi nel 2007 e 2008. Il volume è una raccolta di testimonianze dirette dei collaboratori storici e occasionali, degli attori, dei tecnici e degli amici del periodo bolognese. Nessuno come Leo è riuscito a coniugare così efficacemente le sue esperienze di vita con quelle teatrali e le quasi cento voci, organizzate in una complessa architettura voluta da Meldolesi, raccontano di Leone proponendone un ritratto privato ancor prima che professionale; questo non perché l’uno sia più importante dell’altro, ma perché l’uno e l’altro erano appunto la stessa cosa. Per Leo, infatti, il teatro era un organismo vivente, un’altra fonte di vita che non si poteva fare: «Io non faccio teatro - aveva detto - io sono teatro”.

Il suo lavoro era potente, spaventoso, acuto e delicato. Oggi è raccolto nel volume “La terza vita di Leo”, di Claudio Meldolesi ro quotidiani ed il sostegno, fino alla fine, immancabile. Il periodo bolognese, che si apre con la collaborazione con la cooperativa Nuova Scena nel 1983, si caratterizza per la disciplina e l’attenzione che Leo poneva al processo di creazione collettiva; la sua particolare capacità di intuire i talenti in

Alcune immagini di Leo de Berardinis, scomparso circa un anno e mezzo fa dopo 7 anni di coma profondo. Il volume “La terza vita di Leo”, di Claudio Meldolesi”, ne ripercorre la vita e il lavoro

divenire ed il suo bisogno di affiancamenti non subalterni, infatti, lo rendevano in grado di guidare con pazienza e discrezione la crescita altrui, trasformandolo, così, nell’istigatore di gran parte del teatro a venire.

Tutto il percorso artistico e personale di Leo è costellato di continue morti e rinascite, così,

poco prima dell’incidente che lo avrebbe ridotto al silenzio, sentendo anche la fase bolognese in chiusura, aveva detto ad un amico «E io devo ricominciare da capo, un’altra volta». Il 16 giugno del 2001, tuttavia, a causa di un errore dell’anestesista durante un intervento di routine, Leo de Berardinis è entrato in coma e nel settembre 2008 si è spento senza mai

«Il mio teatro di sperimentazione vuole essere in mezzo alla gente, vuole abbattere le barriere economiche che escludono gran parte dei cittadini e vuole anche abbattere, con la potenza insita in quest’arte, le barriere culturali derivanti da una pseudo-intellettualità e da una pedagogia non democratica, ma di massa e, paradossalmente, di privilegio». Realmente disposto verso un’arte sociale, Leo, tuttavia, nel suo lavoro aveva sposato le parole di Arturo Toscanini - «siate democratici nella vita ed aristocratici nell’arte» - riconoscendo alla natura umana il diritto sacro e democratico di esprimersi, ma al teatro la necessità di avere attori con vocazione e abilità. «In un famoso concerto il musicista Cage, invece di suonare, chiuse il pianoforte: gesto forte e significativo, fecondo di sviluppi. […] Il dolce e feroce Novecento è riuscito a fare merce di geni, santi, martiri e artisti. […] Il pianoforte non suonato diventa il pianoforte che non si sa suonare, ed il silenzio in molti casi è soltanto mutismo. E allora bisogna riaprire questo pianoforte: bisogna riaprire il pianoforte di Cage, non dimenticando assolutamente perché fu chiuso». Leo, al secolo Leone de Berardinis, nato a Gioj il 3 gennaio 1940 è un uomo che mancherà a tanti, soprattutto a coloro che non l’hanno mai conosciuto.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

La Giornata del Nascituro, della Vita e della Famiglia Il 25 marzo scorso è stata la Giornata del Nascituro, della Vita e della Famiglia: una felice occasione di riflessione per la politica e la società civile. Chi si schiera apertamente col favor vitae? Senza il principio essenziale «della dignità intangibile di ogni pur iniziale vita umana, ogni scivolamento diviene a portata di mano» – fa notare il cardinale Angelo Bagnasco, nella prolusione ai lavori del Consiglio permanente della Cei. Con un suggerimento prezioso per la civiltà dell’empatia. La società civile e le istituzioni dovrebbero dedicare speciali “iniziative” per celebrare questo giorno. Lavorare intensamente e con particolare dedizione per la difesa della vita, è un diritto-dovere costituzionalmente garantito. È inestimabile la collaborazione di numerosi gruppi pro-vita, formati da laici professionisti (medici, avvocati, giornalisti), che come volontari prestano un prezioso servizio alla difesa della vita. L’Italia è ancora un Paese cattolico con forti convinzioni religiose, etiche e morali. Ma quando si tratta di fare laicamente delle “scelte di campo” per la Vita, scopriamo con profonda amarezza la realtà.

Nicola Facciolini

SPORTELLO D’ASCOLTO PER GLI STUDENTI La Consulta provinciale degli studenti di Palermo rende noto che è stato aperto presso l’ufficio scolastico provinciale uno sportello che darà ascolto a tutti gli studenti che lamentano violazioni nei confronti dei propri diritti, o che semplicemente vorranno essere informati sulle norme che regolano la vita scolastica. Daremo ascolto e forniremo risposte alle problematiche degli studenti. Saremo a disposzione per aiutare tutti coloro che ne avranno bisogno anche su un piano pratico. Lo sportello sarà aperto ogni mercoledì dalle ore 15.00 alle ore 17.00 presso la stanza riservata alla Cps al 7° piano dell’Usp.

Vincenzo Cicero

FONDI ANTIUSURA INVESTITI IN BORSA L’arresto di Salvatore Froio, presidente del Consorzio fidi di Soverato mette an-

cora una volta in seria discussione il sistema dell’antiusura. Si parla di un milione di euro che sono stati sottratti alla prevenzione del fenomeno, mentre dall’altra parte avanza lo stato di difficoltà economica in cui versano le famiglie del sud. Le istituzioni, oltre a legiferare debbono pretendere e vigilare sull’attuazione delle loro disposizioni. Una sana politica del credito appare essere un punto strategico per la lotta all’usura, ma certamente non l’unico. La crisi economica sta colpendo tutta l’Italia e i dati Istat parlano chiaro: i nuovi poveri sono un esercito di persone. A soffrire della povertà sono una famiglia su nove. Tra le principali preoccupazioni ci sono la casa e il lavoro. E oggi il fenomeno oltre a toccare, le famiglie e le casalinghe, tocca anche gli studenti. Le forme di usura si manifestano in svariati modi: l’identikit dell’usuraio si suddivide nello strozzino o nel cravattaro. Lavora da so-

Morning Glory Pool La “Morning Glory Pool” (tradotto letteralmente: “la piscina delle campanelle”) del Parco Nazionale di Yellowstone prende il suo stranissimo colore da un particolare batterio che vive in questa sorgente di acqua calda che, occasionalmente, si trasforma in un geyser

lo, agisce nel quartiere o nel luogo del lavoro e fa leva sul rapporto fiduciario con la vittima. In molti casi però l’attività usuraria viene svolta o da un pensionato o parallelamente all’attività legale. Usura dei colletti bianchi: a prestare i soldi a tassi altissimi sono gli insospettabili professionisti, commercianti, imprenditori e società finanziarie non abilitate che, talvolta, in contatto con un impiegato di banca infedele, attirano i clienti nella trappola dell’usura, promettendo impro-

L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

babili prestiti. Usura legata alla criminalità organizzata: questo tipo di usura è circoscritta in particolare al sud. Sono gli uomini d’onore o i soggetti “vicini”a organizzazioni criminali di stampo mafioso. È evidente la facilità con la quale le famiglie cadono nella morsa dell’usura e una volta dentro, la lentezza burocratica legata all’attribuzione dei fondi antiusura e il mancato controllo dell’uso dei fondi, accrescono la sfiducia dei cittadini.

Ivano Giacomelli

da ”The Indipendent” del 15/04/10

Il vulcano abbatte i voli utti i voli che non abbiano ragioni d’emergenza sono stati cancellati. È successo in Inghilterra ieri, da mezzogiorno non si è atterrati e non si è decollati dagli aeroporti britannici. La causa di tutto questo? Un’eruzione vulcanica in Islanda che sta spargendo migliaia di tonnellate di polveri e ceneri nell’atmosfera e che sta creando problemi anche nello spazio aereo irlandese e di altri Paesi nord europei. Il National air traffic service (Nats) ha annunciato ieri la cancellazione di tutti i voli sull’Inghilterra in partenza e in arrivo dalle 12.00 fino alle sei del pomeriggio. «Nessun volo sarà autorizzato che non sia d’emergenza» ha dichiarato un portavoce del Nats. «Stiamo lavorando in stretto contatto col servizio meteorologico, le compagnie aeree e i Paesi coinvolti nel blocco» ha aggiunto, (ricordiamo che gli effetti dell’eruzione vulcanica hanno colpito il nord Europa a causa della corrente a getto che passa proprio sopra l’Islanda e che è in grado di trasportare le polveri a velocità che vanno dai 120 ai 400 chilometri orari, su lunghissime distanze ndr).

T

Dal principale aeroporto londinese di Heatrow sono arrivati appelli ai passeggeri – con voli in partenza dopo mezzogiorno – a non recarsi nell’aerostazione. Ogni giorno da questo scalo passano 180mila passeggeri a bordo di circa 1.300 voli. Da Gatwick, il secondo scalo della capitale, transitano 80mila passeggeri e 679 aeromobili. E non sono gli unici aeroscali coinvolti. Si pensa che gli effetti negativi dell’eruzione possano proseguire anche venerdì. Insomma problemi per chi si era concesso delle lunghe vacanze pasquali: dovrà farle un po’ più lunghe. Molti i commenti negativi che vengono dal mondo

dei viaggi e del turismo, dopo un anno che non è stato fra i più brillanti per la regolarità dei voli e altri problemi che hanno afflitto il popolo dei viaggiatori. Le compagnie aeree offriranno un volo alternativo o il rimborso di quello non utilizzato, ma non ci saranno altre compensazioni per i passeggeri rimasti a terra, come il pagamento dell’albergo o l’affitto di un’auto. E intanto le ferrovie East Coast stanno rinforzando il sistema di trasporto per riuscire ad assorbire il traffico passeggeri rimasto appiedato.

L’organizzazione Abta che riunisce le agenzie di viaggio ha fatto sapere che manterrà un contatto costante con le autorità per comunicare ai propri aderenti ogni novità o variazione della situazione. Così anche i clienti potranno essere e continuamente aggiornati. Ryanair aveva già comunicato di aver bloccato tutti i voli nello spazio aereo inglese a partire dalle nove del mattino di giovedì. Oltre ad aver cancellato tutti i collegamenti da e per l’Irlanda, la Norvegia, la Svezia e la Danimarca a partire dalle 11.30. Mentre molte altre compagnie stanno mettendo on line sui propri siti web tutte le informazioni utili. Intanto centinaia di persone sono state evacuate dalla parte sud occidentale dell’isola islandese dopo l’eruzione di mercoledì avvenuta ad Eyjafjalljokull nella catena dei monti Katla. Le ceneri vulcani che sono molto pericolose se investi-

te dai motori dei jet, perché possono provocare uno stallo del compressore e lo spegnimento del reattore. Gli esperti prevedono che ci vorranno diversi giorni prima che le polveri si disperdano completamente. Matt Dobson meteorologo di MeteoGroup spiega «la corrente a getto in questa stagione piega verso sud est andando verso la Scozia settentrionale, la Norvegia e la Danimarca».

Ma oltre ad interrompere i voli l’eruzione ha terremotato la vita di molte persone, trascurando gli impegni di lavoro sono tantissime le storie che parlano di matrimoni annullati e vacanze preparate per mesi andate in fumo. Per non parlare degli appuntamenti di una lunga campagna elettorale per le prossime elezioni politiche che sono stati annullati. Tanto che anche il leader del partito Conservatore, David Cameron, ha dovuto sottolineare la gravità della situazione.


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Dimenticate le gioconde maniere con cui mi avete bloccato Mia cara amica, c’è una bella differenza fra voi e me! Voi vedete innumerevoli colpe in me, mentre io vedo una sola colpa in voi (ma forse dipende dai miei occhiali). Intendo dire, quel tipo di avidità che porta a voler avere il monopolio di ogni mio sentimento, e non mi lascia a disposizione altro per le adorabili donne del vostro Paese. Credete che sia impossibile per la mia attenzione (o per la mia tenerezza) essere divisa senza essere diminuita? Ingannate voi stessa, e dimenticate le gioconde maniere con cui mi avete bloccato.Voi rinunciate ed escludete totalmente dalla nostra passione tutto ciò che potrebbe provenire dalla carne, riservandomi unicamente dei baci civili e onesti, come quelli che potreste concedere alle vostre cuginette. E ciò che ricevo da voi è forse tanto speciale da impedirmi di darlo ad altre, senza per questo togliervi nulla di vostro? I dolci suoni che le vostre abili mani creano dal pianoforte possono essere goduti da una ventina di persone nello stesso momento, senza per questo diminuire minimamente il piacere che voi cortesemente destinate a me. E dal vostro affetto potrei esigere, con tanto poca ragionevolezza, che nessun altro orecchio al di fuori del mio sia autorizzato a farsi incantare da quei dolci baci Benjamin Franklin a Madame Brillon

LE VERITÀ NASCOSTE

India, più cellulari che wc funzionanti DELHI. La povertà, certo. La mancanza di educazione sanitaria, non c’è dubbio. Abitudini ancestrali dure a morire, soprattutto nelle zone rurali, perché no. I motivi possono essere tanti e validi, ma fa comunque impressione venire a sapere che in India i telefoni cellulari sono più numerosi delle toilette. Lo rivela uno studio pubblicato dalle Nazioni Unite, che una volta di più dimostra con questi documenti di essere strumento indispensabile alla comunità internazionale. I dati della fondamentale ricerca mettono in rilievo che, oggi, 545 milioni di persone possiedono un telefonino, mentre erano poche decine di migliaia dieci anni fa. Al contrario, soltanto 366 milioni di indiani, vale a dire il 31 per cento della popolazione, dispone di un bagno funzionante. Intendendo con questo un luogo munito oltre che di tazza e scarico, anche di un sistema di areazione. E non si tratta di sottolineature troppo inutili: in una nazione dove le epidemie aerobiche si trasmettono per la maggior parte nei luoghi vicini alle latrine, una buona ventola può fare miracoli. «La telefonia è riuscita ad attrarre le classi più povere della società indiana e ad imporsi sul mercato. Pensiamo che lo stesso approccio dovrebbe funzionare anche nel settore igienico-sanitario», si legge nel rapporto. Il testo, che probabilmente cambierà i contrappesi della diplomazia internazionale, è firmato dal coordinatore dell’Onu, Zafar Adeel. A parte le battute, Delhi dovrebbe impegnare una parte del proprio budget per risistemare la situazione sanitaria del Paese, partendo da una campagna di informazione che spieghi agli abitanti l’importanza di un’igiene corretta per evitare la trasmissione di malattie mortali. Si tratterebbe soltanto di un passo, certo, ma comunque importante.

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

SBARCA IN ITALIA LA TERRIBILE IDEA DEI TEST ANTIDROGA PER GLI STUDENTI Test antidroga per tutti gli studenti delle scuole superiori. Questa la proposta del Popolo delle libertà in Veneto. Prima o poi questa terribile e umiliante pratica, già sperimentata tra l’altro con scarsissimo successo negli Stati Uniti, era destinata ad essere proposta anche nel nostro Paese. L’approccio repressionista al problema delle tossicodipendenze, di fronte ai suoi evidenti fallimenti e all’aumento smisurato del consumo, risponde con nuove misure sempre più invasive e dannose e non risolutive. Siamo passati dai cani che interrompono e ispezionano le aule scolastiche, ai test antidroga gratuiti offerti ai genitori per controllare i propri figli, alle lezioni tenute da membri delle forze di polizia invece che da esperti di tossicodipendenze. Tutte misure inefficaci, come dimostrano ormai molti studi scientifici. Era inevitabile che prima o poi qualcuno proponesse il controllo sistematico delle urine di tutti gli studenti. Quale sarà il prossimo passo, imporre a tutti i giovani studenti un collare con telecamere incorporate per monitorare ogni loro movimento, durante tutta la giornata e oltre? Diversi studi dimostrano che i test antidroga agli studenti: non hanno alcun effetto deterrente; minano in modo incisivo il rapporto di fiducia fra studenti e insegnanti; incentivano l’abuso di alcool e altre sostanze stupefacenti che lasciano tracce nelle urine per un periodo più breve (come cocaina e eroina).

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Collaboratori

APPUNTAMENTI APRILE 2010 VENERDÌ 23 ORE 11, ROMA, PALAZZO FERRAJOLI-PIAZZA COLONNA

Consiglio Nazionale Circoli liberal SEGRETARIO

Pietro Yates Moretti

Robert Kagan, Filippo La Porta, Direttore da Washington Michael Novak

IL RUOLO DEL POTERE NELLE DINAMICHE DELLA POLITICA La politica, come accezione di impegno etico e civile, non sempre collima con il potere. La politica può essere impegno, dedizione, proposta,opposizione, governo, alle dinamiche di dialogo in un determinato e per un determinato contesto, territorio, ambiente, luogo. Il fare politica non sempre dunque collima con la gestione del mero potere,anzi tutt’altro. La politica è la contro-risposta a chi detiene il potere. La storia dell’uomo dimostra come l’ars politica si è sviluppata nei secoli, proprio contro le monarchie, le oligarchie e le dittature. Questo a testimonianza che l’impegno di più persone intorno ad un progetto, un’idea che si è sempre sviluppata dalle esigenze di quel periodo storico e di quel contesto. In un periodo dunque dove potrebbe esserci una assenza di politica, nell’accezione del termine, si può desumere che le necessità collettive non sono spinte da una condizione oggettiva di ricerca di una realtà diversa e migliore. Il potere si inerpica nella gestione della cosa pubblica nel corso dei secoli, come mero esercizio di interessi particolari o di gruppi, per alimentare la forza di chi già lo detiene e vuole continuare a mantenere una condizione di supremazia sociale ed economica. Il ruolo del potere e della politica sono divenuti quindi connaturali e sinergici, ma non lo sono stati e non lo sono alla nascita delle istanze e delle esigenze collettive. La politica è in molti casi nobile discussione, confronto, analisi, proposta, dedizione ad un’idea di società e di cultura. Il ruolo della politica è un impegno che può trovare fondamento nell’esercizio della propria funzione di cittadino. Il passaggio infatti da suddito a cittadino ha fatto della politica e dell’impegno civico un passo avanti. Il cittadino deve tutelare i propri diritti e interessi, non è più suddito perché ha ricevuto il diritto di parola e di voto per decidere insieme a tutti gli altri consociati che tipo di società vuole. Il ruolo dunque delle scienze delle dinamiche dei popoli ci insegna che il governo è di pochi, l’economia è di pochissimi, la politica come partecipazione è sempre meno oligarchica, la rappresentanza elettiva è ancora in salita e in molti casi nepotistica. L’elemento positivo risiede nel ruolo della comunicazione di massa, che ha un peso rilevante nei confronti dei governi e dei poteri costituiti, la circolazione in tempo reale di notizie fà dei cittadini elettori dei soggetti muniti di elemento concreto di discernimento per esprimere nuovi orientamenti con il loro voto sulle dinamiche politiche di gruppo o di territorio. Luigi Ruberto C I R C O L I LI B E R A L MO N T I DA U N I

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Maria Pia Ammirati, Mario Arpino,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

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ULTIMAPAGINA Libri. Un accurato catalogo di Fabrizio Di Mauro dedicato alle fontanelle di Roma

C’era una volta l’acqua di Francesco Lo Dico ffondano i piedi in un po’ di travertino, e da lì salgono dritti in un metro di ferro vecchio. In cima un baschetto di metallo fa ombra a un naso ricurvo. Altrove qualcuno le chiamerebbe fontanelle. Altrove ma non a Roma, dove tutti, da più di venti lustri, li chiamano “nasoni”.

A

Tutta colpa di quella cannella sgraziata da cui scroscia l’acqua eterna. Zampillò la prima volta, per i poveri di Roma, nel 1874. L’associazione fu immediata e colorita. Come sempre, quando il romano seziona la realtà con pinze pratiche e lame di sarcasmo. E subito furono i “nasoni”. Era sindaco Luigi Pianciani, un conte spoletino. Venti fusti di ghisa, un metro e dieci per circa cento chili, non privi di qualche

italiani. È proprio naturale, esattamente come rivenderla in bottiglia a costi di CaubernetSauvignon. Ad ogni modo, mentre l’inquietante ombra della privatizzazione della sete, cala come una spada sul cervelletto molle dell’italiano salutista (e discretamente fesso) modellato dai copywriter, i “nasoni”della Capitale sopravvivono. E c’è qualcuno, che maniacale, ha voluto catalalogarli uno ad uno. Si chiama Fabrizio Di Mauro, e ha passato gli ultimi cinque anni della sua vita a prendere nota di ciascuna fontanella della Città eterna. Ne ha individuate 2500, più 280 ritrovate fuori le mura, tanto per non sbagliarsi. Un lavoro tassonomico – leggi rognoso – che è stato solo il primo lustro di fatica. Un altro, Di Mauro, l’ha speso per trovare un editore. E chiaramente, alla fine della

dei POVERI velleità artistica: i primi ebbero bocchette di drago, ma non durarono. Qualcuno, da allora è rimasto ancora lì. L’acqua di tutti scrosciò sotto il quindici-diciotto, si moltiplicò sotto il Duce che v’impresse il fascio littorio, durò nonostante le bombe americane. Divennero innumerevoli, i nasoni. Dopo i dissesti idrici del Medioevo, e le fontane dei Papi, molti ebbero acqua da bere, e non più da guardare. Nella Roma odierna che accoglie 4 milioni di visitatori l’anno, le fontanelle sono più di duemila. Un milione e mezzo di metri cubi d’acqua potabile ogni ventigiorno, quattro ore su ventiquattro. Un fatto notevole, per la nostra repubblica fondata sulla televisione. Uno dei luoghi più ricchi di acqua al mondo, nel quale ancora si fa fatica con l’abc della frode mediatica: chiamasi “minerale”, l’acqua di altri comuni

Nelle foto, la tipica fontanella romana, detta “nasone” per via della cannella ricurva da cui sgorga l’acqua. Qui sotto, Fabrizio Di Mauro sfregato il proprio lavabo romano con erculeo gomito, costui non sa quanto severa sia l’acqua di Roma. Freschissima ma coriacea, e dicon spettosa qualunque cosa insista ad arpionarla. Tutti, dai cinefili più avvertiti ai più strenui oppositori della pallosissima histoire evenementielle, sanno bene quanta storia scorra nelle piccole cose “senza importanza”. È come se Di Mauro fosse salito nella soffitta di Nonna Speranza, e avesse tirato via la polvere. I nasoni sfilano nel libro, illustrato da begli acquerelli e notazioni artistiche, come piccoli oggetti crepuscolari. Rimasugli d’arte povera che forse hanno saziato pochi occhi, ma dissetato tante bocche. Il nostro cinematografo reca ampia memoria delle fontanelle: c’è il nasone di via Scarpanto, ad esempio. Vittorio De Sica mise seduto ai suoi piedi Lamberto Maggiorani, nelle sequenze iniziali di Ladri di Biciclette, quando una donna si avvicina per lavare i panni. A via del Vigneto, Sergio Citti vi si sciacqua volto e coscienza in una scena di Accattone. E attorno alla fontanella di Campo de’ fiori, sfilano insieme a pesci e ortaggi da ripulire, le vicende di Aldo Fabrizi e Anna Magnani nell’omonimo film di Mario Bonnard. Simbolo dei rioni, e della vita popolare, il nasone racconta anche il degrado e l’abbandono. Non è più epoca di neorealismo, ma le baracche incombono ancora. Come in Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola. Siamo nel 1976, e Marina Fasoli sporge il pancione gravido oltre un nasone da cui affiora sua maestà il Cupolone. L’elenco, da Sordi a Moretti, potrebbe continuare per molto.

È come se l’autore fosse salito nella soffitta di Nonna Speranza, e avesse tirato via la polvere. Rimasugli d’arte povera che forse hanno saziato pochi occhi, ma dissetato tante bocche capitoline fiera, non l’ha trovato a Roma, ma quando si è spostato a Grosseto. Lassù l’editore Innocenti è stato assai lieto di pubblicarlo. Sulle fontanelle che sono state la magnifica ossessione di Di Mauro, si sono esercitati i più pestilenziali ambientalisti: la “scomoda verità” sarebbe che le cannelle producono sperpero d’acqua per la cospicua cifra dell’un per cento. Qualche soluzione è stata suggerita, magari un rubinetto, ha fatto notare qualcuno. Ma chi non ha mai

Importa solo ricordare che la fontanella di Roma è un piccolo totem. Il mondo antico di Gozzano, che affiora da una cannella. Un piccolo scroscio, un avido sorso, sempre più flebile nel frastuono.


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