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L’illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva: la storia insegna, ma non ha scolari Antonio Gramsci

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 10 APRILE 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Dall’assise di Parma, Emma Marcegaglia sfida il governo. Che risponde con un taglio di 20 miliardi in tre anni

Italia, operazione 2014 Confindustria lancia l’allarme: «La ripresa arriverà, forse, solo tra quattro anni a condizione che si intervenga subito su concorrenza e legalità. Puntando tutto sulla media impresa» EMERGENZA CONTI

di Carlo Lottieri

Magari ci fosse una sola ricetta

ntervistata dal Financial Times Emma Marcegaglia si è espressa senza giri di parole. Il governo ha di fronte a sé tre anni senza elezioni, dispone di una maggioranza solida e perfino sostanzialmente coesa e quindi non ha più scuse. Le riforme Silvio Berlusconi deve farle. Il convegno di Confindustria a Parma punta dunque a ottenere impegni meno vaghi. Partendo dalle medie imprese.

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di Gianfranco Polillo l balletto di dichiarazioni su una possibile manovrina da fare in primavera altro non è che la punta di un iceberg che è possibile non vedere: la mancanza di trasparenza sulla finanza pubblica del Paese, che si traduce in un deficit assoluto di controllo su chi governa.

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L’opinione di Linda Lanzillotta

L’opinione di Savino Pezzotta

«Ma il governo prepara una stangata»

«Ora, cara Emma, non t’accontentare delle promesse»

di Gian Luca Galletti

di Riccardo Paradisi

di Francesco Lo Dico

Il balletto di dichiarazioni su una possibile manovrina da fare nella prossima estate altro non è che la punta di un iceberg che è possibile non vedere: la mancanza di trasparenza sulla finanza pubblica del Paese, che si traduce in un deficit di controllo su chi governa.

Linda Lanzillotta non fa giri di parole: «Tremonti fa smentite nominalistiche, nega la manovra ma dice che ci sarà una manutenzione dei saldi della finanziaria 2010-2012. Ora bisogna avere dei dati precisi, perché la relazione di cassa aggiornata arriverà tra poco tempo e ci dirà quali sono gli andamenti effettivi del bilancio».

«Confindustria fa bene a incalzare il governo sulla ripresa e sullo sviluppo», dice Savino Pezzotta. «Ma se dobbiamo imparare dalla storia, non bisogna aspettarsi molto dal convegno di Parma. Tutte le volte che il premier Silvio Berlusconi si è presentato al convegno di Parma, ha fatto grandi promesse ma non le ha mai mantenute».

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LA MANOVRA DI TREMONTI

Il centralismo dei federalisti

Botta e risposta sulle riforme istituzionali

Mosca e Pechino insistono per la diplomazia

Scontro Berlusconi-Fini L’Onu frena le sanzioni sul modello francese contro Ahmadinejad

Il filosofo Giovanni Reale analizza lo scandalo pedofilia

«Vogliono colpire il Papa della cultura»

Intanto la Chiesa fa un nuovo passo verso la verità: «Il Pontefice disposto a incontrare le vittime. E i colpevoli saranno giudicati anche dagli Stati» Gabriella Mecucci • pagina 8

il personaggio della settimana Shinawatra, l’uomo forte della Thailandia

Quel tycoon d’Asia che sfida Bangkok

di Errico Novi

di Massimo Fazzi

di V. Faccioli Pintozzi

otta e risposta a distanza tra il premier e il presidente della Camera (sempre più nemico-amici) sul modello francese. Da Parigi Berlusconi ha detto di voler puntare sul presidenzialismo con l’elezione a turno unico. «No, serve mantenere i due turni alla francese - ha risposto subito Fini - per difendere la centralità del Parlamento».

sentire lui, le cose sono ormai fatte: «Nessuna potenza può più impedire all’Iran di procedere velocemente sulla strada dello sviluppo nucleare». E questo assunto il presidente Ahmadinejad lo ha messo agli atti. Certo è che la posizione fiacca del Consiglio di Sicurezza Onu, ancora nelle pastoie di Mosca e Pechino, lo ha aiutato a rimanere sul piano della provocazione.

estore di cinema, poliziotto, miliardario, tycoon delle telecomunicazioni, primo ministro, presidente del Manchester City, premier in esilio, condannato. E molto presto, probabilmente, primo ministro di nuovo. È impossibile stabilire quante vite vivrà Thaksin Shinawatra, ex “uomo forte”della Thailandia, che oggi guarda con molto interesse il caos nel paese.

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I QUADERNI)

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• ANNO XV •

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IN REDAZIONE ALLE ORE

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Denunce. L’analisi di Emma Marcegaglia è durissima: «Ormai sono dieci anni che il pil pro capite va a marcia indietro»

Confindustria all’attacco «Senza concorrenza né legalità non c’è futuro»: a Parma gli industriali fanno l’esame al governo e lo invitano a ripartire dalle medie imprese di Carlo Lottieri ntervistata dal Financial Times la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia si è espressa senza troppi giri di parole. Ora il governo ha di fronte a sé tre anni senza elezioni, dispone di una maggioranza solida e perfino sostanzialmente coesa, la quale è uscita rafforzata dalle ultime regionali: e quindi non ha più scuse. Le riforme Silvio Berlusconi deve dunque farle e il più rapidamente possibile, intervenendo su fisco, mercato del lavoro e funzione pubblica. La “due giorni” organizzata a Parma dall’associazione degli imprenditori punta dunque a ottenere da governo e maggioranza quegli impegni che finora sono stati troppo vaghi e disattesi. E lo fa richiamando l’attenzione su un soggetto per certi aspetti inaspettato: le medie imprese. Nel volume Libertà e benessere: l’Italia al futuro che è al centro del convegno viene specificamente richiamata l’attenzione su tali soggetti, e si tratta di una scelta gravida di significato, dato che in tal modo questa realtà produttiva è affrancata dall’indeterminazione delle Pmi e diventa il potenziale perno di quella ripresa che si vorrebbe veder comparire all’orizzonte.

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Anche se molto rilevante nel quadro complessivo dell’economia nazionale, sul piano culturale la media impresa italiana resta ai margini. L’industriale con alcune centinaia di addetti è tendenzialmente un isolato e un individualista, oltre che un provinciale. Non è in grado di disporre di una linea diretta con i vertici della politica italiana (diversamente da quanto avviene ai maggiori imprenditori e banchieri), ma neppure è davvero interessato a “fare gruppo” con la vasta platea delle piccole attività, che spesso finiscono per confondersi con l’artigianato. Se oggi Confindustria richiama l’attenzione su tale imprenditore di media taglia – forte nella sua provincia, ma debole nello scenario nazionale – ciò in parte si deve al declino del ruolo nazionale dei grandi gruppi produttivi. In questo senso, il caso

Tra scenari apocalittici e rimedi possibili: ognuno faccia la sua parte, anche Confindustria

Questa è la crisi globale. Senza formule magiche

della Fiat è emblematico, e lo è soprattutto la scelta compiuta (pur tra mille contraddizioni e distinguo) da Sergio Marchionne quando ha deciso di lasciare Termini Imerese, preferendo le incertezze (e le opportunità) del mercato ai facili sussidi dello Stato, puntando sulla possibilità

di Gianfranco Polillo re anni per evitare il diluvio: sembra essere questo il piatto forte che l’Assemblea di Parma della Confindustria ha riservato al Governo, dipingendo uno scenario a dir poco inquietante. La forte caduta del reddito del 2008 e del 2009, per il Centro studi dell’Associazione, è stata solo un’avvisaglia. Se non si interverrà non sarà solo il Pil a regredire, ma lo stesso reddito pro-capite. Famiglie ancora più in difficoltà, rispetto a quanto già avvenuto. Sono realistiche queste previsioni? Chi si esercita in quest’attività, come l’Fmi, è costretto a continue rincorse contro il tempo, aggiornando periodicamente numeri e cifre per tener conto del carattere sfuggente di questa crisi, che nessuno è in grado di afferrare. Chi avrebbe previsto, solo qualche mese fa, il default della Grecia e chi è in grado di indovinare come andrà a finire? Accorciamo quindi l’orizzonte.

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Per il 2010 tutti i centri di analisi - Fmi, Ocse, Commissione europea - indicano per il nostro paese un sentiero di crescita che non si discosta da quello degli altri Paesi. E per gli anni a venire? Le previsioni dell’Fmi mostrano un possibile allargamento della forbice, che penalizzerebbe l’Italia. Ma da oggi a quelle date ci sono di mezzo scogli ed incognite insormontabili: il rapporto di cambio tra euro e dollaro; il negoziato per la rivalutazione dello yuan cinese, le stesse sorti dell’economia americana, senza contare poi gli esiti impossibili da prevedere dell’exit strategy. Consideriamo pertanto quelle previsioni come una semplice esortazione ad agire. Ma per cosa? Qui comincia il difficile. La risposta ovvia è: rilanciare lo sviluppo. Ma come? Negli anni passati il pensiero di Keynes illuminava la difficile arte del governo. In un’economia chiusa, com’era quella degli anni ’70, in presenza di capacità produttiva inutilizzata, la leva della finanza pubblica poteva operare da volano. Una domanda pubblica aggiuntiva poteva creare mercato; consentire alle aziende di produrre, comprimendo i costi fissi, per rimettere in moto il circolo virtuoso dello sviluppo. Riacceso il motore, si rideterminavano le condizioni per rientrare dal maggior deficit o dall’eccesso di liquidità. Oggi purtroppo non è più così. Se si seguis-

se quella strada, l’eccesso di domanda interna, sarebbe catturata dalle maggiori importazioni, come è già avvenuto nell’ultimo trimestre del 2009. Queste ultime peserebbero, in misura maggiore, sul pil riportando l’asticella al punto di partenza, ma con effetti collaterali perniciosi: un maggior squilibrio finanziario, che si rifletterebbe sul debito pubblico; una maggiore inflazione; più o meno lo stesso grado di inutilizzazione degli impianti dislocati nei confini nazionali. Avremmo, in qualche modo, lavorato per il Re di Prussia, favorendo i nostri concorrenti. In un mondo globalizzato, qual è quello di oggi, ciò che conta non sono tanto le variabili macroeconomiche, in larga misura sottratte al controllo nazionale – si pensi alla Bce o alla stessa Commissione europea – quanto i dati di contesto: efficienza, produttività, concorrenza, flessibilità nell’impiego delle risorse. Qui c’è spazio per tutti. Naturalmente il Governo ha una grande responsabilità. Deve, ad esempio, abbassare le tasse. Ma questo può avvenire solo se si riduce la spesa pubblica. Può favorire, con incentivi, una riconversione dell’apparato produttivo, spingendo sulla ricerca e l’innovazione. Può semplificare un castello burocratico che ormai si muove come un elefante in una cristalleria. Può liberalizzare e privatizzare le strutture che mal sopportano logiche autoreferenziali. Può fare tutte queste cose – che non sono poche – ma non è più il dominus assoluto. Lo sviluppo presuppone una coerenza di comportamenti da parte di tutti gli attori economici: imprese, lavoratori, banche, pubblici amministratori.

Ed è allora che il pensiero torna ad Alcide De Gasperi ed alle sue parole: non chiedete sempre cosa lo Stato può fare per voi; ma cosa voi potete fare per il Paese. Confindustria, al pari di altri, ha una grande responsabilità. Deve contribuire a cambiare, per la parte le compete, i comportamenti dei suoi associati. Aziende che innovano, rischiando i propri capitali; confronto serrato con le organizzazioni sindacali per cambiare il modello contrattuale; nessuna condiscendenza nei confronti di chi – in particolare l’opposizione – vorrebbe conservare, in nome di una pelosa quanto apparente solidarietà, ciò che ormai non risponde più all’evoluzione dei tempi ed al principio di realtà. Queste sono le riforme vere che servono.Valori che potranno essere vestiti con abiti istituzionali adeguati. Ma se non si parte da qui, le stesse riforme ipotizzate si tradurranno nel solito chiacchiericcio: buono per qualche talk show, ma assolutamente inconcludente.

di crescere come player globale invece di accettare la tranquilla di condizione di chi, per decenni e decenni, è stato in primo luogo un rentier nazionale.

Il teatro della politica economica italiana vede dunque ridursi il peso dei grandi gruppi: e da tempo alcune significative realtà (basti pensare a Ferrero e a Del Vecchio) non condividono le logiche “romanocentriche” di tante imprese importanti, preferendo puntare su una compiuta globalizzazione e considerando dunque l’Italia una delle molte aree in cui produrre, vendere e investire. Per le medie imprese, però, il discorso è diverso. Anche quando pensano in grande e affollano le fiere di mezzo mondo, esse hanno per definizione profonde radici nel territorio. Non soltanto il titolare di un calzificio con 400 operaie è un signor nessuno a Roma e conta ancor meno nella City, ma egli è invece una figura cruciale nella cittadina di provincia in cui opera. Per di più la sua azienda deve ogni giorno fare i conti con gli oneri fiscali, le inefficienze amministrative e le pesantezze regolamentari di uno Stato a cui è molto difficile sfuggire. Sono proprio tali realtà che – più di altre – sono portate a chiedere al più presto un serio programma di riforme a favore della crescita. Si vende ovunque, ma si continua a produrre avendo il fiato addosso delle inefficienze statali. In questo senso è normale che in linea di massima le medie imprese chie-


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L’ex sindacalista Savino Pezzotta mette in guardia dalle «promesse» del governo: «Non bastano più le parole per favorire la ripresa della nostra economia». A sinistra, la presidente degli industriali, Emma Marcegaglia

«Ora Emma dica no alle promesse» Pezzotta: «È giusto tenere i conti in ordine, ma così il rilancio non arriverà mai» di Francesco Lo Dico

ROMA. «Come ogni anno, Confindustria chiederà le riforme che impediscono la crescita del Paese, ma la verità è che finora il Governo ha puntato molto sul contenimento delle spese. Il rigore era quanto mai necessario, viste le congiunture della recessione, ma dalla crisi non si uscirà mai davvero finché non verranno varate misure in grado di rilanciare lo sviluppo. Sarebbe auspicabile che si provvedesse quanto prima alle piccole e medie imprese in difficoltà con le commesse, che si allentasse la pressione fiscale snellendo l’Irap e l’Iva. E poi andrebbe affrontato una volta per tutte il costo del lavoro. Ma se dobbiamo imparare dalla storia, non bisogna aspettarsi molto. Tutte le volte che il premier Silvio Berlusconi si è presentato al convegno di Parma, ha fatto grandi promesse ma non le ha mai mantenute». Savino Pezzotta, deputato dell’Unione di Centro con un lungo passato da sindacalista, guarda con scetticismo all’appuntamento che vedrà impegnato oggi il presidente del Consiglio alla tradizionale due giorni di viale dell’Astronomia. Tanto più che ad attendere il Cavaliere e altri esponenti di governo a Parma, anche quest’anno c’è un quadro a tinte fosche. Ieri Confindustria ha presentato un report che descrive un Paese immobile, stretto tra lacci e lacciuoli che invece di diminuire continuano ad aumentare. Che Italia è quella che sta provando a uscire con molta fatica dalla crisi?

dano che si coniughi liberalizzazioni e valorizzazione del territorio. È anche da questo tessuto di realtà produttive che è sorta la marea elettorale leghista, ma non si creda che quello dato l’altra settimana a Berlusconi e Bossi sia un apprezzamento per quanto è stato fatto finora e nemmeno un plauso alla retorica spesso esibita. Si tratta, semmai, di un voto a favore di quella stabilità e di quella governabilità che per molti sono condizioni necessarie alla realizzazione dei cambiamenti (a partire da un vero federalismo com-

È un Paese che ad oggi non è riuscito ancora a fare il cambio di marcia, a fare uno scatto deciso per lasciarsi alle spalle la crisi. Piccole e medie imprese boccheggiano ancora, a causa di un preoccupante immobilismo. Occorrerebbe mettere il nostro sistema industriale nelle condizioni di riconquistare competitività sui mercati internazionali grazie ad appositi sgravi fiscali. Irap e Iva andrebbero ripensate, ad esempio. E poi resta aperta la questione del costo del lavoro. Il direttore generale di Confindustria, Giampaolo Galli, ha detto che «i conti pubblici sono un problema serio». Con il fabbisogno che cresce, che bilancio fa delle politiche di contenimento della spesa del governo? Credo che nel persistente tentativo di mantenere l’Italia entro un circolo virtuoso, si siano frattanto create le condizioni perché il Paese resti paralizzato in un trend negativo. Alla necessità di tenere in conti in ordine, deve affiancarsi un’adeguata politica di sostegno allo sviluppo e di protezione dei ceti deboli. Se si rimandano investimenti e riforme, nell’immediato si risparmia, è vero. Ma si priva il Paese delle condizioni indispensabili per pensare il futu-

ro, e lasciarsi alle spalle il lungo incubo della crisi. Anche quest’anno Confindustria fa l’esame al governo. Come andrà a finire? Come gli altri anni, temo. La storia ci dice che Silvio Berlusconi oggi a Parma farà promesse cui non darà seguito. Proprio come accadde sotto la presidenza Montezemolo e quella D’Amato. C’è la diffusa sensazione che si viva su mondi paralleli. Una classe dirigente che continua a interrogarsi sul sistema presidenziale, e i cittadini che continuano a interrogarsi su un sistema per arrivare a fine mese. Questo è il nodo centrale della vicenda. Bisognerebbe mettere in sicurezza la situazione di quanti portano sulle spalle il peso della crisi. Innanzitutto le famiglie, che andrebbero aiutate gradualmente attraverso l’introduzione del quoziente familiare. E poi i giovani, sui quali esiste una pressoché totale indifferenza, salvo tirarli fuori di tanto in tanto per definirli bamboccioni. E ancora le donne italiane, che pagano la crisi in modo drammatico. Molti italiani sono nelle condizioni di non potere neanche immaginare il futuro, è impensabile di continuare a rinviare una seria riforma

Tutto finirà come in altre occasioni: la storia dice che Silvio Berlusconi ha l’abitudine di prendere impegni che poi non mantiene

petitivo) si cui si è tanto parlato senza realizzare quasi nulla.

A Parma la Confindustria domanda che si sia più libertà a chi produce, si allarghino gli spazi per la concorrenza, e quindi si investa nello sviluppo. Sul piano ideologico, è chiaro che questo intende rappresentare anche una risposta al “declinismo” che ormai spira a destra come a sinistra, dove non di rado prevalgono ideologie che esaltano l’universo rurale di un tempo contro la città odierna. Per la maggior parte degli imprenditori è inam-

missibile che l’ecologismo radicale sia un patrimonio acquisito della destra come della sinistra, che il mercato venga demonizzato con le stesse parole da Beppe Grillo e dal ministro del Tesoro, che le innovazioni siano più temute che auspicate. Puntare (anche simbolicamente) sulla media impresa significa anche puntare su quella realtà che più è sintonia con i valori propri dell’universo industriale: responsabilità, merito, concorrenza, innovazione. Mentre la piccola imprese può essere attratta da logiche protezionistiche e populismi

degli ammortizzatori sociali. Così come non è più rinviabile il problema delle nostre università, costrette ad arrabbattarsi dopo tagli enormi. Per non parlare dell’imprenditoria giovanile e dell’economia civica, che pure potrebbero aprire interessanti spiragli alle nuove generazioni. A proposito di riforme non più eludibili, ha ragione il ministro dell’Economia a ritenere che il federalismo fiscale «servirà a tenere unito il Paese»? Io non sono pregiudizialmente contrario al federalismo, ma il fatto è che quello visto fino ad oggi non lascia pensare a effetti desiderabili. C’è troppa confusione sugli enti locali, sui poteri di spesa e sulle competenze. Un giudizio definitivo potrà essere dato quando il sistema entrerà a pieno regime. Ma al momento, ciò che più preoccupa è che sembra un federalismo a doppia velocità: chi può fa, e chi non può si arrangi. Sembra insomma un federalismo che la Lega ha confezionato su misura. Come nel caso della Lombardia. Non c’è il rischio che la nuova legge di bilancio, pur avendo il merito di ridurre il mercato della vacche parlamentare, finirà per annullare il controllo delle Camere? Giulio Temonti gode di un potere mai avuto da nessun altro predecessore. L’unico controllore della legge di bilancio è lo stesso ministro dell’Economia, e questo non giova certo al ruolo del Parlamento.

di vario genere, la media imprenditoria dispone di una maggiore capacità di analisi. Le facili invettive contro la Cina, insomma, qui fanno meno breccia. Non è detto che, quando il convegno emiliano si sarà concluso, gli imprenditori se ne torneranno nelle loro fabbriche rincuorati. D’altra parte se la Marcegaglia continua a sottolineare l’esigenza di agire alla svelta, la prima risposta giuntagli da Giulio Tremonti – ospite poche ore fa nel salotto di Michele Santoro – è stata a dir poco deludente. Per la realizzazione della riforma fi-

scale federale, infatti, il ministro ha parlato in periodo compreso tra i 6 e i 15 anni… ma chissà chi mai governerà l’Italia nel 2025!

Berlusconi deve però trovare il modo di agire e intervenire con forza contro le inefficienze dello Stato, poiché l’immobilismo governativo (ormai è chiaro) giova solo alla Lega. E la fitta rete delle imprese private che innerva l’economia del Centro Nord è pronta a voltare ancor di più le spalle al Cavaliere se si chi vuole produrre continua a essere ostacolato in tutti i modi.


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Cantieri. Via XX settembre studia come allentare il patto di stabilità e spera di recuperare più risorse dallo scudo fiscale

La manovra fantasma

Tremonti e Berlusconi smentiscono le voci ma non i numeri: nei prossimi tre anni servono 20 miliardi in più. E non per lo sviluppo di Francesco Pacifico

ROMA. «Sui giornali sono girate voci sulla necessità di una Finanziaria aggiuntiva. Devo smentire recisamente queste voci». Già gongolava per l’annuncio da fare oggi a Parma a Confindustria – un nuovo impianto fiscale più a misura di azienda – che Silvio Berlusconi si è ritrovato scavalcato a mezzo stampa da Giulio Tremonti e da una nuova stretta sui conti pubblici. Così, e a costo di rovinare il nuovo corso delle relazioni italo-francesi, ha approfittato della conferenza finale del vertice di Parigi e della presenza di Nicolas Sarkozy per un’autodafé davanti alla stampa internazionale: «Le cifre che ci eravamo dati sul deficit e il debito sono state rispettate». E ancora: «Abbiamo saputo tenere i conti in ordine». Per concludere: «Le richieste del mercato dei titoli di Stato italiani superano sempre di 2-3 volte l’importo delle emissioni. Questo dimostra la grande fiducia dei mercati finanziari e dei cittadini». Non ha gradito leggere ipotesi di una manovra aggiuntiva da 4-5 miliardi neppure Tremonti. E non soltanto perché tutti danno per scontato un intervento

se proprio deve pensare a una “manovra di primavera”, vede in agenda soltanto un accordo con l’Anci per alleggerire il patto di stabilità interno. Da settimane – e ben prima della vittoria del Carroccio alle amministrative – i suoi tecnici studiano modifiche per liberare risorse nei comuni virtuosi da destinare agli investimenti. Il meccanismo potrebbe essere quello di rimodulare il computo totali sui tetti di spesa (a loro volta riscritti sui costi standard e non su quelli storici) e non più sui saldi. E così buona parte dei primi cittadini guidati dal leghista Attilio Fontana giovedì che hanno restituito al prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi, la loro fascia tricolore, potranno usare i residui dei bilanci precedenti e avere risorse per rilanciare le opere viarie o la costruzione

Oltre agli interventi sul deficit servono 750 milioni di euro per le missioni di pace e quasi due miliardi per gli statali. Intanto rallenta il gettito in corso d’opera, viste le difficoltà che l’Italia sembra registrare sul versante dei consumi e dell’occupazione. Tendenze che, va da sé, si traducono in una riduzione di gettito, che nel 2009 è stato contenuto in un -2 per cento complessivo. Ma a creare maggior confusione anche il fatto che nelle ultime settimane sarebbero arrivate a tutti i ministeri richieste da parte dei funzionari via XX settembre per sapere se era possibile fare delle riduzioni alla spesa di loro competenza. Forti dell’esperienza degli anni passati, i ministri sanno bene che questa procedura si conclude con tagli orizzontali. E quindi tutti – con in testa Renato Brunetta – hanno respinto le richieste e si sono lamentati direttamente con Palazzo Chigi. Ma Tremonti – racconta chi ha parlato con lui in queste ore –

di scuole e ospedali. In tempi di crisi l’economia si rimette in moto soprattutto a colpi di keynesismo. Non rientra invece nelle intenzioni del ministro un intervento sui conti prima dell’estate. E non perché una manutenzione alle finanze pubbliche non sia necessaria. Al riguardo Tremonti avrebbe spiegato che non ha senso creare aspettative e tensioni politiche in maggioranza in una fase in cui tutte le economie di Eurolandia – Germania in primis – ripartono in fortissimo deficit. Di conseguenza meglio attenersi al programma stabilito: Relazione sull’economia e la finanza pubblica da presentare al Parlamento a fine aprile, aggiustamento di bilancio a giugno, e in contemporanea quello che un tempo era chiamato Documento di programmazione

Quei continui aggiustamenti fuori dal Parlamento

Il centralismo dei (falsi) federalisti di Gian Luca Galletti l di là dei buoni propositi, è difficile dare un giudizio sulla nuova legge di stabilità finanziaria, che ha ribaltato lo schema delle vecchie manovre. Perché, come c’è uno iato tra la pratica e la realtà, così una cosa sono le procedure, un’altra è la politica. E tanto basta per temere che alla fine avremo qualcosa di molto simile alle vecchie leggi di bilancio, forse più snella nella sua approvazione, ma con la controindicazione di ridurre il ruolo del Parlamento e di rafforzare ancor di più quello dell’esecutivo. In particolare quello del ministro dell’Economia. Perché il balletto di dichiarazioni su una possibile manovrina da fare in primavera altro non è che la punta di un iceberg che è possibile non vedere: la mancanza di trasparenza sulla finanza pubblica del Paese, che si traduce in un deficit di controllo su chi governa. Si dirà che soltanto stabilizzando i conti pubblici con riforme strutturali, e non vivendo alla giornata come ha fatto questo governo, si risolve il problema. Ma senza entrare in tecnicismi molto complessi, la nuova legge di stabilità finanziaria supera lo strumento dei collegato. Questo comporta per via XX settembre una maggiore discrezionalità nell’operare “variazioni di bilancio”all’interno dei vari capitoli di spesa. Ed è proprio questo a comprimere il ruolo del Parlamento. In un sistema che funziona, i parlamentari sono rappresentativi del territorio che li ha eletti. Di più, controllano per loro che il governo rispetti le regole.

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Di converso un minore coinvolgimento delle Camere ha il solo risultato di rendere la Finanziaria più centralista, meno aderente alle esigenze del Paese. Potrà sembrare un paradosso per un governo che fa del federalismo fiscale il suo mantra, ma a ben guardare è perfettamente in linea con una politica economica centralista scandita dal blocco delle imposte locali, da un patto di stabilità rigido, dal salvataggio dei Comuni con i bilanci in rosso a discrezione del ministero dell’Economia. Chi scrive parte dal presupposto che era arrivato il momento di revisionare la vecchia legge di bilancio. In Parlamento, come opposizione, ci si è battuti per raggiungere un compromesso onorevole migliorando il testo iniziale. Ed è per senso di responsabilità, che l’abbiamo votato pur denunciando le troppe perplessità che queste norme contengono. Eppure lo svilimento del Parlamento sta proprio nel fatto che si passa da uno strumento di confronto forte, forse anche troppo forte, a un orpello, a un dibattito che rischia di apparire preconfezionato. La vecchia Finanziaria era il momento nel quale il Paese discuteva dell’andamento dell’economia, funzione quanto mai necessaria oggi. Mi arrabbio quando legge che le Camere sono soltanto un ricettacolo di fannulloni e di incapaci. Esistono fortissime professionalità in maggioranza e all’opposizione che hanno tutte le capacità per produrre buone leggi. Il problema è, come dimostrano le ultime Finanziarie, che sistematicamente il loro lavoro viene annullato dal governo a colpi di voti di fiducia. Resta soltanto opera di approfondimento da lasciare a chi ha voglia di leggersi gli atti delle commissioni.

economica e finanziaria (Dpef) e che da quest’anno sarà la Decisione di finanza pubblica. Soltanto allora si potrà entrare nel merito delle misure con il decreto che anticiperà la manovra triennale e che per quest’anno comporterà un intervento per rientrare dal deficit tra i 6,5 e gli 8 miliardi di euro, contro i 13 concordati con l’Europa per il 2013. Rasenta la leggenda metropolitana, ma sono in molti a raccontare che al dicastero dell’Economia girerebbero simulazioni, secondo le quali per tagliare il deficit in tre anni ci vorrebbero ben 90 miliardi. E chi riporta questo calcolo – credibile considerando che il disavanzo possa salire al 6 per cento – lo fa per rafforzare la tesi che il primo a non ritenere che si possa azzerare il deficit in un triennio sia Tremonti. Per capire qualcosa in più si dovrà aspettare la Relazione sull’economia e sulla finanza pubblica, dove, va bene ricordarlo, le dinamiche sono individuate dai tecnici ma i saldi sono fissati dal ministro dell’Economia. Di conseguenza è difficile oggi fare previsioni. Quel che si sa è che dopo il boom di gennaio (a 3,2 miliardi l’attivo primario) rallenta il gettito fiscale, perché sono statici i consumi e non cresce la base degli occupati. E siccome il lavoro sarà un’emergenza per il Belpaese almeno fino al terzo trimestre, è facile ipotizzare un continuo peggioramento sull’Iva e sull’Irpef da incassare. Le dinamiche ipotizzate dal ministero parlebbero, a questi flussi di crescita, di un assorbimento di un miliardo all’anno dell’attivo primario, il che farebbe ipotizzare un deficit al 5 per cento come concordato con la Ue e tutto sommato sostenibile nel momento in cui la Germania ha un disavanzo del 5,6.

In questo scenario le incognite sono quelle che Tremonti chiama spese straordinarie. Non a caso ieri, ospite di Confindustria, il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, spiegava: «Conosciamo i temi della finanza pubblica e sappiamo per esperienza che se il Pil e la crescita sono troppo bassi non puoi tenere in equilibrio la finanza pubblica. Da due anni sollecitiamo un qualche intervento a favore di Pil, crescita o occupazione».


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L’esponente dell’Api: «Tremonti nega, ma la manovra estiva ci sarà»

«Ma che ”manutenzione”, sarà una vera stangata!» Per Linda Lanzillotta l’operazione del governo «sarà sui 4-5 miliardi di euro, pari a uno 0,3 di pil» di Riccardo Paradisi l ministro dell’Economia continua a negare: nessuna manovra estiva, nessun correttivo prima del 2011. Ma c’è chi insiste: no la stangatina ci sarà. Onorevole Lanzillotta lei sostiene che Tremonti giochi con le parole. Che la manovrina estiva ci sarà. Tremonti fa smentite nominalistiche, nega la manovra ma dice che ci sarà una manutenzione dei saldi della finanziaria 2010-2012. Ora bisogna avere dei dati precisi, perché la relazione di cassa aggiornata arriverà tra poco tempo e ci dirà quali sono gli andamenti effettivi del bilancio. Una manovra correttiva di 4-5 miliardi corrisponderebbe comunque a uno 0,3 di Pil all’incirca. E potrebbe starci tutta. Magari è una manovra necessaria appunto. Per carità, ci sono vari elementi che la potrebbero spiegare. Uno è che la crescita è stata peggiore di quanto previsto e quindi questo ha inciso negativamente sulle entrate rispetto alla previsione. L’altro è che la spesa corre e che soprattutto che ci sono alcune poste che non sono state stanziate in bilancio, in particolare la tranche 2010 dei contratti. Credo che questi elementi ed esigenze di spesa sopraggiunte determinino la necessità di intervenire nel bilancio. Ma insomma lo si dica che è una manovra. Se è necessario avviare già nel 2010 una riduzione della spesa è comprensibile che il ministro dell’economia abbia come preoccupazione l’abbassamento del rating in una fase di turbolenza dei mercati. Quello che è irritante però è un atteggiamento che nega sempre lo stato di necessità, questa continua rimozione dello stato di realtà. Stato di realtà critico che non dipende solo dal governo però. È evidente che il grosso della crisi deriva dalla congiuntura economica. Però ci sono due fattori che dipendono dal governo. Uno è quello di una mancanza di energia e decisione nella lotta all’evasione, che aumenta, l’altro è il controllo della spesa e su questo il ministro dell’Economia sembra non ricevere collaborazione dai suoi colleghi, soprattutto dal ministro della Funzione pubblica. La spesa per i servizi nel 2009 è molto aumentata. Il lavoro di limatura e di razionalizzazione in questo settore non si fa con gli slogan alla Brunetta ma con un duro lavoro su singole amministrazioni e singoli uffici. Tanto che abbiamo un quadro di finanza pubblica molto critico. Le risorse verrebbero recuperate dall’alleggerimento di alcune spese e soprattutto dal gettito recuperato dalla lotta all’evasione fiscale. Fino ad ora chi ha pagato di più sono stati gli enti locali virtuosi. Ricordo come è andata a finire la storia degli enti inutili. Non se n’è

I

mai soppresso uno. Tutti salvati per tutelare interessi consolidati e assecondare spinte di pressione. Governare è anche contrastare inerzie, resistenze corporative. È più utile contrastare queste spinte che tagliare i fondi agli enti locali. Operazione che si traduce nel taglio sui servizi sociali in un momento critico per molte persone. È vero però che tra gli enti locali ci sono anche molti esempi tutt’altro che virtuosi. Anche per gli enti locali il progetto di liberalizzazione s’è fermato. E le liberalizzazioni del decreto Ronchi sono una soluzione parziale perché quando si va a fare un’analisi puntuale si vede che tra le deroghe delle piccole gestioni, le deroghe delle società quotate, le inefficienze da monopoli locali e gestioni clientelari, non sono aggredite. E questi sono fattori che incidono molto negativamente sulla spesa dei comuni. Per questo si dovrebbe legare il patto di stabilità a una seria politica di liberalizzazioni. Si parlava anche di taglio o addirittura di abolizione delle provincia. Già, ma su questa ipotesi abbiamo visto un rifiuto ad affrontare il problema da parte della lega. La carta delle autonomie presentata dal governo non contiene nemmeno nessun criterio per mettere un tetto d’abitanti sotto il quale non si prevedano provincie. Eppure Tremonti avverte che con i tagli alle proivncie non si risparmi granchè. Certo le spese che ora sono in carico alle provincia, manutenzione delle strade e delle scuole, non si possono tagliare. Però oltre al numero degli eletti e del numero delle provincia si possono tagliare gli apparati amministrativi. È un principio di scienza comune quello per cui aggregando funzioni si fa risparmiare il sistema. Perché più ci sono apparati più è costoso per il sistema delle imprese e per i cittadini il rapporto con le istituzioni pubbliche. E poi un federalismo senza questa preliminare operazione di semplificazione del funzionamento sul territorio si tradurrà in aumento di spesa e difficoltà di accesso ai servizi pubblici da parte dei cittadini. L’eterogenesi dei fini del federalismo.

La spesa per i servizi nel 2009 è molto aumentata. Il lavoro di razionalizzazione in questo settore, del resto, non si fa con gli slogan alla Brunetta ma con un’analisi seria

Qui sopra, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. A destra, Linda Lanzillotta. A sinistra, il dicastero del Tesoro Scontata la conclusione: «Senza provvedimenti la crisi dei conti pubblici sarà inevitabile. Che avvenga tra tre mesi, o sei mesi o un anno, lo lasciamo alla valutazione di Tremonti». Gli ha fatto eco il leader della Cgil, Guglielmo Epifani: «Vorrei avere un po’ di chiarezza, non vorrei che ci si concentri solo sulla giusta difesa del bilancio dello Stato e non si affronti la possibilità di trovare risorse per ridurre le tasse su lavoro e imprese e ridare qualche stimolo vero all’economia». Tanto da chiedere a Giulio Tremonti di «tenere d’occhio i conti pubblici ma sostenere con incentivi giusti i consumi e gli investimenti. Ormai siamo in una fase in cui il serpente si mangia la coda». Se per riportare il deficit sotto il 3 per cento servono 20 miliardi di euro in due anni, in questo lasso di tempo potrebbero aprirsi altri buchi sulla strada della ripresa italiana. Il mini-

stro dell’Economia ha ammesso che sono da trovare altri 750 per le missioni di pace internazionali. Il pubblico impiega aspetta dopo l’accordo contrattuale dello scorso anno un aumento pari a 1,7 miliardi. Stefano Fassina, responsabile economia e lavoro del Pd, inserisce nella lista anche «i dieci miliardi persi nella lotta all’evasione fiscale in fase di accertamento e non assorbiti con i 2 in più recuperati con l’adesione spontanea. Senza contare che è sottostimata la dinamica delle spese d’acquisto, cresciuta nel 2009 rispetto alle previsioni del 7,9».

Basterà allora spalmare tutti questi interventi sul bilancio del 2010 oppure affidarsi ancora una volta allo Scudo fiscale o ai proventi delle nuove concessioni? Stefano Fassina, intanto, «accetta scommesse che a fine anno Tremonti sarà costretto a inventarsi un nuovo condono. Fiscale o edilizio».


diario

pagina 6 • 10 aprile 2010

Presidenti. Da Parigi il Cavaliere disegna il suo schema: «Si voterà insieme per Quirinale e Camere». Subito dopo la sconfessione

Riforme, duello Berlusconi-Fini

Il premier: «No al doppio turno». Il cofondatore: «È indispensabile» ROMA. Come non capire San-

di Errico Novi

dro Bondi? Al termine di un frenetico scambio di battute tra Berlusconi, Napolitano, Fini e Bersani sulle riforme, il ministro chiede time out: «Si è riaffermata la volontà di procedere, ora è inutile disquisire e cavillare sui particolari». È dai particolari, in effetti, che emerge la difficoltà dell’impresa: se sull’idea del semipresidenzialismo la maggioranza è concorde, c’è notevole distanza per la legge elettorale. Il Cavaliere non ha in mente di cambiarla, e in ogni caso annuncia da Parigi la sua preferenza per il «turno unico», Fini invece dice che «il semipresidenzialismo non può funzionare con una legge proporzionale senza ballottaggi» e che dunque serve «un maggioritario a doppio turno». Bocchino rincara la dose e definisce «sudamericana» la combinazione tra riforma presidenziale e porcellum.Tanto basta per giustificare e confermare le perplessità esposte da Giorgio Napolitano: «Presidenzialismo e premierato rappresentano capitoli complessi, sui quali si è già fallito. Attenti a non mettere in pericolo i punti condivisi di riforma già largamente condivisi».

Dal Quirinale arriva dunque un invito alla prudenza e alla concretezza. Ma adesso sembra difficile smorzare lo slancio del premier. Che dal vertice italo-francese di Parigi fissa il suo schema: «Prenderemo a prestito il vostro sistema», dice rivolgendosi a Nicolas Sarkozy che gli è a fianco in conferenza stampa, «e anzi se c’è un contordine avvertiteci: però non importeremo tutto», precisa il Cavaliere, «e pensiamo a un’elezione diretta del presidente della Repubblica nello stesso giorno del voto per il Parlamento, in un turno unico». Non è previsto il ballottaggio nei singoli collegi. Ecco dunque la variante italiana del sistema francese: un’eccezione pensata nella sostanza per evitare coabitazioni, giacché è presumibile che due elezioni politiche svolte nella stessa data assicurino un voto omogeneo. C’è però un dettaglio che Berlusconi trascura, uno di quei dettagli sui quali Bondi gradirebbe una sospensione: nella bozza Calderoli, uno dei poteri che danno maggiore “sostanza” al ruolo presidenziale è quello di scio-

glimento delle Camere, perciò basterebbe uno solo di questi atti per rendere sfalzate le scadenze dei due mandati, quello del Capo dello Stato e quello delle Camere.

In realtà a Berlusconi interessa soprattutto che il voto politico non preveda ballottaggi, secondo la consolidata dottrina che indica il centrodestra tendenzialmente sfavorito al secondo turno per la presunta minore disponibilità dei propri elettori a mobilitarsi. E in ogni caso il presidente del Consiglio, durante il suo intervento parigino, non sfiora nemmeno l’ipotesi di approvare una nuova legge

Napolitano perplesso: «Sul presidenzialismo si è già fallito, meglio concentrarsi sui punti ampiamente condivisi»

elettorale. Ma intanto su questo aspetto si annuncia un non semplice confronto all’interno dello stesso Pdl: da Gianfranco Fini infatti l’invito a modificare il sistema di voto, in caso di revisione della forma di governo, è pressante. Oltretutto, sostiene il presidente della Camera, certe valutazioni «sono legittime, ma relative a logiche che sono dei partiti, mentre le riforme andrebbero fatte nell’ottica dell’interesse generale». E soprattutto, è l’affondo più incisivo di Fini, «con l’approccio sloganistico rischiamo nuove bocciature, come quella già patita dal centrodestra, e quindi di fare tante chiacchiere e pochi fatti».

Difficile dunque non considerare avveduto il richiamo di Napolitano, che parla a braccio da Verona: «Non è serio intraprendere il cammino delle riforme a forza di anticipazioni e approssimazioni, è il tempo di proposte concrete». Riferimento per nulla criptico a quella bozza Violante che ha messo tutti d’accordo, maggioranza e opposizione, almeno su alcuni passaggi. Sono le poche certezze a cui il Capo dello Stato fa riferimento nel suo discorso di ieri: «Ci sono punti già ampiamente condivisi: sarebbe realistico e saggio non mettere a rischio e non tenere in sospeso quelle convergenze». Dopodiché «si possono legittimamente sollevare altri problemi, riaprire capitoli complessi e difficili come quelli di una radicale revisione della forma di governo, su cui negli ultimi quindici anni però non si sono delineate soluzioni adeguate e politicamente praticabili». Sarebbe bene, è l’ammonimento severo di Napolitano, «tenere conto dell’esperienza, dei tentativi falliti, delle incertezze rivelate anche dalla discontinuità della discussione sui taluni temi». Casomai, è l’altra indicazione che il presidente della Repubblica si preme di trasmettere, è bene portare a compimento il federalismo fiscale. Lorenzo Cesa sottolinea «il richiamo a lavorare con concretezza a un piano di riforme che affrontino i problemi reali del Paese» rivolto dall’inquilino del Colle, «è bene abbandonare il terreno delle chiacchiere e delle proposte confusionarie». Da parte del Pd c’è insofferenza: Pier Luigi Bersani da una parte osserva che «con il federalismo servono contrappesi» ma ricorda anche la preferenza del suo partito va a «un governo parlamentare forte» anziché al presidenzialismo. Che anzi è una materia lontana dai lavoratori e dalle famiglie «che discutono di lavoro: e se non ce ne occupiamo un po’ finisce che la politica prende una distanza abissale dalla società». Ma anche il numero uno dei democratico, come il segretario dell’Udc, aspetta di vedere «le proposte concrete che farà il governo: le portino in Parlamento e discutiamo». Considerate le attuali divergenze, di tempo ce ne vorrà.


diario

10 aprile 2010 • pagina 7

I consumatori protestano: «Togliere subito le accise»

Anche Torino si sta preparando alla somministrazione del farmaco

La benzina cresce ancora e tocca quota 1.44 euro

Lunedì a Bari altri 2 aborti tramite la Ru486

ROMA. Continua a correre il

BARI. «Saranno somministrate lunedì prossimo altre due pillole Ru486 al Policlinico di Bari». Lo ha riferito Nicola Blasi, responsabile delle interruzioni di gravidanza della I Clinica ostetrica dell’ospedale. «Le due donne sono una della provincia di Bari e l’altra della provincia di Taranto», ha aggiunto il medico, che mercoledì scorso ha somministrato a una quarantenne pugliese la prima pillola abortiva dopo l’approvazione in Italia del farmaco. La donna ha quindi abortito per via chimica invece che chirurgica non riportando alcuna complicazione, come hanno fatto sapere nel pomeriggio di ieri alcune agenzie di stampa: «Si è concluso con ef-

prezzo della benzina, che sfiora ormai quota 1,44 euro. A mettere mano ai listini ieri è stata la Shell, che, secondo le rilevazioni di «Quotidiano energia», vola a 1,439 euro al litro. Ritocchi all’insù si registrano anche per Erg, Esso e Q8. I rialzi di questi giorni, ha spiegato ancora «Quotidiano energia», avvengono nonostante una nuova flessione delle quotazioni internazionali di benzina e diesel: «Le compagnie petrolifere provano a recuperare le “sofferenze” delle scorse settimane, rimettendo mano ai listini con la verde volata ai massimi da settembre 2008». A scattare in avanti è stata la Shell con un rialzo di 1,5 centesimi sulla benzina. Erg ha invece mosso il diesel: +0,5 centesimi a 1,249 euro. Esso è intervenuta su entrambi i prodotti: +1,4 centesimi sulla verde a 1,421 euro, +1,7 centesimi sul diesel a 1,248 euro. Infine Q8 ha rialzato il solo diesel: +0,5 centesimi a 1,259 euro/litro.

«Con i nuovi rialzi dei prezzi dei carburanti sono sempre più urgenti interventi immediati per arginare la corsa dei prezzi». sostengono le principali associazioni dei consumatori. Per Adusbef e Federconsumatori, in particolare, «non si può an-

«No ai respingimenti» La Chiesa attacca «L’accordo tra l’Italia e la Libia vìola i diritti umani» di Gualtiero Lami

ROMA. «Nessuno può essere trasferito, espulso o estradato verso uno Stato dove esiste il serio pericolo che la persona sarà condannata a morte, torturata o sottoposta ad altre forme di punizione o trattamento degradante o disumano». Lo ha ricordato monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontifici Consiglio per la Pastorale delle Migrazioni, che ha contestato la decisione italiana di intercettare in mare gli immigrati «respingendoli forzatamente in Libia, come previsto da un accordo bilaterale con quel Governo, e ciò senza valutare la possibilità che vi fossero fra di loro rifugiati o persone in qualche modo vulnerabili».

«In Libia – ha detto Marchetto - esistono centri di detenzione e di rimpatrio dove le condizioni variano da accettabili a disumane e degradanti. E l’accesso a questi centri è difficile per cui è arduo monitorare il rispetto in essi dei diritti umani, tenendo poi conto che tale Paese non ha aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951, né al relativo Protocollo del 1967, e non riconosce l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Confermo – ha sottolineato - la mia posizione di condanna a chi non osserva il principio di “non refoulement”, che sta alla base del trattamento da farsi a quanti fuggono da persecuzione. E mi domando se in tempo di pace non si riesce a far rispettare tale principio fondamentale del diritto internazionale umanitario, come si farà a richiederne l’osservanza in tempo di guerra. E la domanda si può estendere alla questione della protezione dei civili durante i conflitti, che viene così indebolita nella sua radice, comune, umanitaria». Secondo il presule, «un altro diritto violato nell’atto di intercettare e respingere i migranti sulle coste africane del Mediterraneo è quello al “giusto processo”, che comprende il diritto a difendersi, a essere ascoltato, a fare appello contro una decisione amministrativa, il diritto ad ottenere una decisione motivata, e quello di

essere informati sui fatti su cui si basa la sentenza, il diritto ad una corte indipendente ed imparziale». L’arcivescovo Marchetto ha rilevato una tendenza, tra i Paesi europei, «di delocalizzare i controlli delle frontiere, incoraggiando i loro partner delle coste meridionale del Mare nostro, Mare dei diritti, ad effettuare controlli più rigidi sui migranti, ma dando loro la possibilità di chiedervi asilo». «Ci sono però serie questioni umanitarie connesse a tale tendenza – ha sottolineato - anche per la situazione concreta di vari Paesi. Ad esempio le intercettazioni e i decentramenti operati dalle autorita europee in molti casi rende impossibile a migliaia di persone di raggiungere la costa nord del Mediterraneo, o persino di lasciare il loro Paese di origine o di transito». Del resto monsignor Marchetto ha ricordato che «il diritto a emigrare è incluso nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 e non c’è nemmeno bisogno di ricorrere alla dottrina sociale della Chiesa, che pure è esplicita in materia. Il fatto paradossale – ha continuato - è che molti Paesi europei riconoscono come rifugiati persone che sono arrivati nel loro territorio per via non marittima, ma provenienti dagli stessi Paesi da cui giungono i migranti intercettati e respinti nel mare nostro, nel mare dei diritti». Perciò l’arcivescovo ha confermato la sua posizione «di condanna a chi non osserva il principio di non refoulement, che sta alla base del trattamento da farsi a quanti fuggono da persecuzione».

Monsignor Marchetto: «Se in tempo di pace non si rispettano le persone, come si farà in tempo di guerra?»

dare avanti cosi, si rende indispensabile un incontro con i petrolieri nel quale definire una soluzione per questa situazione intollerabile che pesa sulle tasche per oltre 254 euro annui». Le due associazioni ribadiscono la necessità di sterilizzare gli aumenti dell’Iva attraverso la realizzazione di un’accisa mobile, oltre che incrementare la distribuzione attraverso il canale delle pompe bianche. Queste manovre però - avvertono Adusbef e Federconsumatori rappresentano solo «un primo passo, che dovrà poi proseguire con l’istituzione di una commissione di controllo sulla doppia velocità e la razionalizzazione della rete».

Quanto ai respingimenti in senso stretto, monsignor Marchetto ha aggiunto che «non esiste nemmeno un atto amministrativo che proibisca ai migranti di proseguire nel loro viaggio di disperazione per raggiungere acque internazionali e che disponga il ritorno al luogo di partenza o ad un altro destino sulla costa africana». Altri diritti violati, ha concluso, «sono quelli all’integrità fisica, alla dignità umana e persino alla vita, e li possiamo qui solo elencare perché il tempo ci è tiranno».

ficacia e senza complicazioni a Bari il trattamento con la Ru486 della prima donna che si è sottoposta alla terapia. La paziente è stata dimessa nel primo pomeriggio. Tra 14 giorni dovrà sottoporsi ad un controllo di routine con ecografia». Al momento, nella farmacia ospedaliera di Bari sono disponibili nove dosi della pillola abortiva Ru486. La decima dose è quella già utilizzata per la prima donna.

Il dottor Blasi non ha escluso che già nei prossimi giorni il responsabile del servizio di farmacia del Policlinico faccia la richiesta di nuove dosi del farmaco visto che stanno arrivando al centralino del nosocomio barese numerose richieste di donne che chiedono di sottoporsi al trattamento abortivo farmacologico. E la prossima settimana dovrebbe essere avviata la somministrazione della pillola all’ospedale Sant’Anna di Torino. Lo ha detto il direttore generale Walter Arossa, che ha spiegato come al momento il ricovero divenuto obbligatorio ha bloccato gli ordini del farmaco, poiché potrebbero non essere disponibili i necessari posti letto. «Stiamo creando le condizioni per rispettare la legge», ha spiegato.


società

pagina 8 • 10 aprile 2010

Polemiche. «L’universo relativista colpisce il Pontefice per il suo valore simbolico» dice il grande pensatore cattolico

«Una cultura sotto attacco» Per il filosofo Giovanni Reale, è in atto una campagna contro il magistero intellettuale di papa Ratzinger. Che annuncia: «Pronto a vedere le vittime» di Gabriella Mecucci

ROMA. «Il papa è disponibile a incontrare le vittime dei preti pedofili e la Santa Sede pronta a collaborare con le giustizia»: continua la politica di apertura della Chiesa nei confronti dello scandalo-pedofilia. Lo ha ribadito padre Federico Lombardi, portavoce vaticano, in un commento alla Radio Vaticana sulla questione degli abusi sessuali commessi da religiosi. Un tema scottante che sta mettendo a dura prova la Chiesa e sul quale abbiamo chiesto l’opinione del filosofo cattolico Giovanni Reale. Reale è considerato anche un grande saggio ed a lui spesso si ricorre per comprendere meglio la ricerca che sta compiendo il Cristianesimo contemporaneo e le vicende talora laceranti che hanno investito la Chiesa ed in particolare il pontificato di Benedetto XIV. Oggi è in mezzo alla tempesta per uno scandalo grande, ma anche per l’uso che ne viene fatto. Secondo Reale la pedofilia è uno “spunto” per attaccare il Papa. C’è un tentativo di appiccicare a tutti i cattolici “l’etichetta di pedofili”. Ma resta uno spunto, finito questo “se ne troverà un altro”. Professore, da giorni e giorni sulla cattedra di San Pietro vengono rovesciate valanghe di accuse. Sono partire dalla stampa americana, ma poi sono arrivate un po’ovunque? Che cosa sta accadendo? Quello che sta succedendo non mi stupisce minimamente. Del resto lo ha profetizzato lo stesso Gesù Cristo. Ha detto: Perseguiteranno voi così come hanno perseguitato me perché il mondo vi odia in quanto non amate ciò che è suo. Il Papa come testimone sulla terra di Cristo continua a dire cose che per la loro natura intrinsecamente e strutturalmente sono contrarie a ciò che ama il mondo. La ragione degli attacchi è quindi teologica e molto profonda. E questo non lo ha spiegato uno qualsiasi, ma Cristo stesso. D’altra parte ricordate che cosa è capitato al predecessore di questo Pontefice? Non hanno tentato di ucciderlo? Professore, ma questo attacco parte da motivi contingenti? Guardi, per comprendere le ra-

gioni di fondo di ciò che sta accadendo non credo occorra guardare troppo al contingente. Pensare a questa vicenda attuale, a questa posizione dell’ oggi sarebbe riduttivo. È il mondo che ama solo se stesso e che odia chi lo mette in discussione che si scaglia contro l’artefice di questa critica radicale. Quanto sta accadendo non è altro che ciò che Cristo aveva preannunciato in modo profetico e splendido. Ma ci sarà qualche ragione specifica che dirotta questa feroce polemica contro Benedetto XIV?

guenza è un uomo agli occhi e alle orecchie degli avversari pericoloso. Chi avversa il Cristianesimo riesce a tollerare meglio un cristiano ignorante, ma non sopporta lo spessore culturale del cristiano. Questo Papa rappresenta proprio ciò che loro non riescono a sopportare. Delle straordinarie qualità di Ratzinger, il primo ad esserne fermamente convinto era Giovanni Paolo secondo. Se vuole le racconto un episodio... Prego... Una sera ero a cena con Papa Wojtyla e io gli dissi che la Fides et Ratio era una straordi-

zioni, Giovanni Paolo mi rispose che erano dovute ai suoi eccellenti collaboratori e mi fece capire che voleva alludere a Ratzinger che proprio negli anni precedenti aveva scritto: basta con la neoscolastica portata come modello unico ed irreversibile di filosofia. Luigi Pareyson diceva: quando un filosofo presenta anche nel modo più

È il mondo che ama solo se stesso e che odia chi lo mette in discussione che si scaglia con ogni mezzo contro l’artefice di questa critica radicale Questo papa dispone di un enorme sapere teologico e filosofico. Ha una grande sensibilità artistica. È, insomma, uno dei papi più dotati culturalmente spiritualmente artisticamente che la chiesa abbia mai avuto. Per anni, nel ruolo che ha esercitato. ha dimostrato queste caratteristiche. Di conse-

naria enciclica e che conteneva due idee molto importanti. Prima idea: la fede è metaculturale, cioè non può essere conchiusa in nessuna cultura né in alcuna filosofia. Seconda idea: la chiesa non canonizza nessuna filosofia, quindi San Tommaso non è l’unica filosofia della Chiesa. Mentre esprimevo il plauso per queste due innova-

E Bompiani pubblica l’opera omnia di Karol Wojtyla ROMA. Bompiani sta per pubblicare l’opera omnia di Giovanni Paolo II. Si tratta di tutti scritti filosofici e anche delle poesie che verranno curati da Giovanni Reale, il filosofo cattolico,agostiniano e grande studioso della filosofia greca. Il Pontefice all’inizio aveva qualche riserva nel far uscire i suoi versi, ma poi ha acconsentito. Accanto a questi usciranno anche tutte le encicliche che saranno curate da Monsignor Rino Fisichella, rettore dell’Università Lateranense e Presidente della Pontificia Accademia perla Vita. Presto dunque potremo disporre di tutti gli scritti di Giovanni Paolo secondo, curati e presentati da due straordinari conoscitori del suo pensiero, proprio mentre procede il lavoro di accertamento da parte dell’apposita Commissione per la sua beatificazione.

intelligente e raffinato Dio, come ce lo spiega? Attraverso categorie umane: si tratta cioè di una forma, seppur sublime, di antropomorfismo. E quindi non è il Dio come è, ma come lo pensi lui. Dio non è quello che tu hai capito – osserverebbe Agostino – è altro. Dire che la Chiesa non canonizza alcuna filosofia, significa fare un passo gigantesco portando ad altezze straordinarie la fedeche diventa metaculturale e metafilosofica. Non è contro la ragione ma oltre la ragione. In sostanza Ratzinger afferma che la parola di Cristo vale di più di quella di qualsiasi uomo per quanto grande. Insomma, lei sostiene che Ratzinger viene attaccato perchè è un grandissimo Papa e perchè è portatore di importanti innovazioni? Le idee che ho esposto sono rivoluzionarie. Se la fede non è contro la ragione, ma è sopra la ragione. Se la parola di Cristo vale più di quella di ogni altro uomo, io non mi identifico con nessuna filosofia e dunque posso favorire la circolazione di tutte, confrontarmi con tutte. Chi ha questo tipo di fede è infinitamente più libero di qualsiasi altro, molto più di un laico che può essere maggiormente vicino ad una teoria piuttosto che ad un’altra. E questo,lo ripeto, è rivoluzionario. Ma non è la sola grandezza di questo Papa. Procediamo nell’analisi del pensiero di Ratzinger... Questo Papa nella sua prima enciclica ha parlato dell’eros. L’eros - in questo suo scritto viene recuperato all’interno dell’agape, l’amore divino, e, se accade questo, arricchisce enormemente l’uomo. L’eros non va bene qualora neghi l’agape cristiana. L’amore divino non nega invece l’amore umano, ma lo include. Nella prima enciclica il Papa - e questa è la terza grandezza - dice esplicitamente che il Cristianesimo non è l’incontro con un’idea, ma con una persona. Infine, da quando è Papa, Ratzinger ha contratto la sua figura di intellettuale-teologo e allargato a dismisura quella di pastore. Si diceva: come riuscirà a farsi capire, lui così intellettualmente distante dalla gente comune? E invece ha avuto un gran


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10 aprile 2010 • pagina 9

In un mese e mezzo sono attesi circa due milioni di fedeli

E a Torino è il giorno della Sindone restaurata

Il sacro lino sarà visibile nel Duomo fino al 23 maggio. L’ultima ostensione per il giubileo di dieci anni fa di Osvaldo Baldacci

ROMA. Si apre oggi a Torino l’Ostensione della Sindone, cioè la messa in mostra del lenzuolo di lino che secondo la devozione è il sudario che avvolse il corpo di Gesù crocifisso. E nell’occasione, mentre si accende il dibattito tra sostenitori e oppositori dell’autenticità, con una raffica di nuovi studi e pubblicazioni, gli esperti comunque rinnovano la sottolineatura di come le ferite dell’“Uomo della Sindone” coincidano in modo impressionante con quanto riportato dai Vangeli in relazione all’agonia di Gesù. Tutto è pronto per l’evento che durerà fino al 23 maggio, con un momento culminante nella visita del Papa Benedetto XVI il 2 maggio. Il presidente della Commissione diocesana della Sindone Mons. Giuseppe Ghiberti ha affermato che «sono attesi 2 milioni di fedeli». Per questo, «ogni pellegrino potrà fermarsi a guardare la Sindone dai 3 ai 5 minuti, a seconda del flusso di persone». Grande l’impegno sulla sicurezza, anche grazie alla tecnologia: sulla Sindone vigileranno infatti telecamere di ultima generazione, con tanto di sensori antiterrorismo in grado di segnalare eventuali movimenti sospetti. Duecento agenti di polizia e carabinieri arriveranno di rinforzo a Torino per garantire l’ordine durante le visite degli almeno due milioni di pellegrini previsti: sono già più di un milione e 400 mila le persone che si sono prenotate per visitare il lenzuolo utilizzato – secondo la tradizione - per avvolgere il corpo di Gesù nel sepolcro, ma si è dovuto estendere gli orari di ingresso e dal 10 aprile la visita potrà essere prenotata, oltre che sul sito internet www.sindone.org, direttamente a Torino; inoltre si potrà comunque entrare nel Duomo anche senza prenotazione, ma in questo caso la Sindone sarà visibile solo da lontano.

Duomo che, arricchito di informazioni rispetto alle precedenti ostensioni, inizia dai Giardini Reali bassi, prosegue attraverso uno dei punti più affascinanti del Polo Reale, la Manica nuova, per sbucare poi sul piazzale del campanile. Nella sala della prelettura saranno proiettate le nuove immagini del Telo ad altissima risoluzione. Diversa anche la collocazione della Penitenzieria, che trova spazio a Palazzo Chiablese, e, tra le altre novità, la presenza di un bookshop al piano terreno del Palazzo della Regione, in piazza Castello.

L’ostensione è la decima in Italia dalla prima del 1578 e la quarta dal 1978, e viene dieci anni dopo quella del 2000, la prima da quando il sacro lino è stato sottoposto, nel 2002, ad un intervento di conservazione che lo ha riportato al suo antico splendore, eliminando anche le toppe che erano state apposte dalle Clarisse di Chambery dopo che la Sindone era stata danneggiata dall’incendio che si sviluppò nel 1532 nella cappella del castello dove era custodita. Un’altra novità di questa ostensione è l’ausilio della tecnologia più avanzata, con la proiezione di immagini tridimensionali, che permettono ai fedeli di vedere la Sindone sempre più da vicino e sempre più nei dettagli, dalle tracce ematiche alla componente corporea. Due degli aspetti principali della Sindone sono infatti la tridimensionalità e la negatività dell’immagine. La tecnologia quindi aiuterà a mettere in evidenza il risultato di una visione tridimensionale, sia per quando riguarda le macchie ematiche sia – cosa più importante – per quanto riguarda l’impronta superficiale derivata dal misterioso ingiallimento del telo. Misteriosa impronta che appunto costituisce il “negativo” dell’immagine, come nel processo fotografico, per cui la tecnologia aiuterà i fedeli a vedere i risultati dell’immagine riportata al positivo. Senza dimenticare la dimensione principale dell’evento, quella religiosa, come ricorda il cardinal Severino Poletto, arcivescovo di Torino, che sottolinea come la Sindone sia esposta per spingere alla preghiera ed evidenzia il tema scelto “’Passio Christi passio hominis”, per sottolineare «il forte collegamento tra l’immagine sindonica, testimonianza della Passione del Signore, e le molteplici sofferenze degli uomini e delle donne di oggi».

Grande è l’impegno sulla sicurezza con tecnologie nuovissime e l’impiego di molti uomini, soprattutto in attesa della visita del Pontefice, il prossimo 2 maggio

Papa Ratzinger è sempre al centro dello scandalo sulla pedofilia che sembra avere proprio il Pontefice come bersaglio. A sinistra, il filosofo Giovanni Reale e papa Wojtyla successo, soprattutto fra i giovani. Ha saputo farsi intendere. Il pensiero teologico e filosofico del Papa è un pensiero forte e aperto. E questo è considerato molto pericoloso dai suoi avversari. L’apertura non significa liquidare tutto. È forte perché mantiene ben fermi alcuni principi e insieme perchè realizza il massimo dell’apertura all’uomodi oggi. E Ratzinger fa tutto questo con la fede che ha, l’intelligenza che ha, la cultura che ha. La durezza di questo attacco fa temere per il futuro della Chiesa? La Chiesa sarà sempre avversata e avrà sempre mari in burrasca da attraversare. Gli altri non hanno la forza culturale della Chiesa: cambiano troppo rapidamente pensieri e mode. E poi Cristo ha detto che non

abbandonerà mai la Chiesa. I pericoli ci saranno certamente, ma chi ha fede sa che Cristo ha promesso: sarò sempre con voi sino alla fine del mondo. Naturalmente io distinguo la Chiesa dalla Curia. Gli errori li fa la Curia, non la Chiesa. Mi scusi, ma lei non ha ancora nominato la parola pedofilia che è la ragione per cui si è scatenata questa polemica... È uno spunto per attaccare il Papa. Ne hanno approfittato e credo che continueranno. Troveranno altri spunti. La pedofilia è un argomento ben scelto perchè colpisce molto e lo scandalo - questo è innegabile è notevole. Il tentativo che stanno facendo è quello di dire che sono tutti pedofili. Ma non è così. E Ratzinger si è mosso molto bene con forza ed apertura.

Massima attenzione è riservata alle esigenze di ammalati, disabili, religiosi e pellegrinaggi diocesani, che per informazioni possono contattare la segreteria dell’ostensione telefonando allo 011.0204721 o inviando una email all’indirizzo accoglienza@sindone.org. Il sito web www.sindone.org è stato completamente rinnovato e offre numerose informazioni oltre che il programma di tutte le iniziative legate all’ostensione, da quelle religiose agli appuntamenti culturali. Novità riguardano anche il percorso di avvicinamento al


panorama

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Discussioni. Tra identità italiana e dibattito sulle riforme tiamo vivendo in un’epoca caratterizzata da una sorta di ricerca ossessiva della identità, sia che si tratti della cultura, dell’economia, della religione, della lingua, della razza, del sesso, delle istituzioni politiche. In questa puntuale ed ossessiva rivendicazione della identità si gioca, infatti, una parte molto rilevante del passaggio avvenuto negli ultimi decenni dalla proposta comunista di modello sovietico ad altre e non sempre universali proposte di identità. Se ci considera che proprio sulla identità sono stati costruiti – soprattutto in Occidente – i concetti dapprima di Nazione e quindi di Stato, non può sorprendere che il tema identitario è posto molto spesso al centro di rivendicazioni, che hanno tutte in fondo un qualche territorio minore rispetto al mondo intero.

S

Anche il grandioso fenomeno (che come europei abbiamo conosciuto nei secoli scorsi) di costruzione degli Stati Nazionali ha finito con l’avere il tema della identità nazionale quale elemento costitutivo della specifica identità statuale. Questo fenomeno è progressivamente entrato in crisi con il passaggio dal prevalere del sistema produttivo di tipo industriale al sistema economico tendenzialmente globalizzato, nel quale la finanza ha pian piano preso il sopravvento sull’industria. L’analisi della crisi economica conosciuta nel corso degli ultimi due anni ha infatti posto in evidenza che la crisi è stata più incisiva proprio negli Stati nei quali la finanza aveva preso il sopravvento sull’industria. Per quel che concerne l’Italia, si è infatti ripetutamente affermato che

È iniziato il secolo delle nazioni globali Perché la trasformazione del mercato impone di ripensare anche le costituzioni di Francesco D’Onofrio la nostra “arretratezza” finanziaria ha consentito al nostro Paese di reggere meglio di altri la crisi economica in atto. Ma questi non sono tempi di riposo per nessuno. Si può infatti essere astrattamente favorevoli o contrari al processo di globalizzazione in atto, ma non è certo con una opposizione

in nome di una presunta superiorità di una sedicente “identità industriale”.

Può sembrare che si tratti di questioni lontane da una più urgente attualità politica, quale sembra essere l’attualità delle cosiddette riforme istituzionali. Allorché infatti si affrontano temi quali il rapporto

cesso di globalizzazione, o se si immagina possibile oggi operare nella sostanziale indifferenza delle necessità di centralizzazione riscontrate anche in antichi Stati federali – quali gli Stati Uniti d’America –; nella indifferenza alla nuova centralità del Mediterraneo, nel quale è l’Italia tutta – e non singole sue parti – che

Come fu duramente contrastato il passaggio dall’agricoltura all’industria, non sorprende che i conflitti di oggi siano prodotti proprio dalla globalizzazione

paurosa e timida al processo medesimo che si può riuscire ad impedire l’avvento della globalizzazione anche nelle nostre contrade. Così come fu duramente contrastato il passaggio dall’agricoltura all’industria, proprio in nome di una presunta superiorità di una cosiddetta “identità agricola”, non sorprende che oggi vi sia un contrasto proprio in riferimento al processo di globalizzazione in atto,

tra il governo centrale e i governi regionali, occorre aver chiaro in modo netto e visibile se si parla di una Italia profondamente immersa nella nuova centralità del Mediterraneo; rigorosamente ancorata ai vincoli derivanti dal processo di costruzione dell’Unità europea, partecipe al pro-

può avere un ruolo significativo culturale, economico e politico allo stesso tempo; nella velleitaria contrarietà al processo di globalizzazione in atto in nome della paura per tutto ciò che è nuovo, sia che si tratti di immigrati, sia che si tratti di complessi italiani di imprese multinazionali, sia che si tratti della competitività stessa dell’impresa italiana nel mondo attuale sempre più globalizzato. Così come nel

passaggio da una civiltà prevalentemente agricola ad una civiltà prevalentemente industriale si è dovuto affrontare, anche in termini giuridici nuovi, il tema fondamentale dell’equilibrio tra capitale e lavoro (basti pensare all’avvento dell’istituto della società per azioni ed alla provvista di capitali di rischio tipica degli istituti borsistici), anche oggi occorre saper guardare al futuro del passaggio dal sistema quasi esclusivamente agricolo-industriale al nuovo sistema, nel quale la componente finanziaria assume un significato crescente con uno spirito non certo di acquiescenza supina al nuovo, ma di apertura culturale e giuridica al nuovo sistema in termini appunto di un nuovo equilibrio.

In questo contesto anche le riforme istituzionali, delle quali si parla tanto diffusamente anche oggi, dovranno esser viste nella luce della ricerca di un nuovo equilibrio: nella cosiddetta Prima Repubblica, l’equilibrio fu ricercato ponendo l’accento da un lato su persona umana ed eguaglianza, e dall’altro su Stato e mercato. Il nuovo equilibrio oggi va cercato nella consapevolezza che il concetto stesso di persona ci fa aprire alla globalizzazione in termini di speranza, mentre il concetto di eguaglianza va oggi affrontato superando coraggiosamente la stessa dimensione dell’Occidente quale area all’interno soltanto della quale l’eguaglianza ha significato. Per quel che concerne il rapporto tra Stato e mercato, occorre saper guardare al nuovo equilibrio senza illudersi di potersi rinserrare all’interno del proprio Stato, e senza cedere al mercato il compito di ricercare il nuovo equilibrio tra industria e finanza senza nuove regole.


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Nelle sale “L’uomo nell’ombra”

IL DOPPIO SALTO MORTALE DI POLANSKI di Anselma Dell’Olio

rima di entrare nel merito di un’opera meritevole solo perché impreziostrizzata d’occhio ironica al pubblico. Inoltre, The Ghost Writer («scrittore Con sita da un maestro della suspense (Rosemary’s Baby, L’inquilino) fantasma», meglio del truce termine italiano «negro») è un romanzo che l’ex giornalista politico Harris ha scritto con la penna intinta nella bicerchiamo di capire l’entusiastica accoglienza per un noir il thriller che, se portasse un’altra firma di prestigio, sarebbe stato le, per vendicarsi - e con lui tutto l’establishment liberal di Holfantapolitico “Ghost trattato con meno deferenza. Roman Polanski, nel nuovo lywood - per l’odiato sostegno che ha dato l’allora primo Writer” il regista polacco thriller fantapolitico L’uomo nell’ombra (The Ghost ministro inglese Tony Blair agli Usa nella guerra al terrore. Così Polanski usa Blair in due modi contrapWriter) fa un doppio salto mortale, furbissimo e rinfresca la memoria della propria posti: rinfresca la memoria della propria viin direzioni opposte.Tratto dal romanzo pulp vicenda personale e foraggia il livore progressista cenda, e foraggia il livore progressista per la d’alto bordo del colto mestierante Robert Harper la guerra preventiva voluta da Bush guerra preventiva. Nel thriller il primo ministro si ris (Fatherland, Imperium, Mondadori) racconta di chiama Adam Lang, ma il riferimento a Blair è talmenun uomo famoso, osannato e odiato, braccato dalla giue sostenuta da Blair. Ma il suo te sfacciato che lo scrittore temeva una querela, «ma conostizia, isolato in una villa delle vacanze in un paese che non tocco è magistrale... scendolo non lo farà, non è nel suo stile». L’amico di Bush non è può lasciare, e assediato dalla stampa. I paralleli con la vita del reun tipo vendicativo, perciò il suo fan deluso Harris ha architettato libegista premio Oscar (Il pianista) ora agli arresti domiciliari, in attesa di ramente un assassinio morale in piena regola. giudizio per abuso sessuale di una tredicenne nel 1977, sono evidenti, una

P

Parola chiave Monachesimo di Gennaro Malgieri Imprevedibilmente… Erykah Badu di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Per un pugno di versi Alla riscoperta di Enrico Thovez di Francesco Napoli

Greta Luna. La Garbo 20 anni dopo di Orio Caldiron La Shoah delle Solovki di Pier Mario Fasanotti

Il Barocco variabile della Natura in posa di Marco Vallora


il doppio salto mortale di

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(un pelato, minaccioso Jim Belushi). La casa editrice ha pagato dieci milioni di dollari per le memorie di Adam Lang (Pierce Brosnan, ottimo), discusso ex primo ministro britannico che si è ritirato da poco. Si cerca un nuovo «scrittore ombra»: il primo è annegato cadendo dal traghetto ubriaco (era lui sulla spiaggia) e bisogna sostituirlo al più presto. I dialoghi, brillanti e affilati, riescono bene a Harris (ha collaborato allo script, al regista va il merito della solida struttura); il battibecco tra l’editor inglese snob di Lang, che vorrebbe uno scrittore non commerciale, e lo yankee concreto Maddox, stabilisce subito l’antica rivalità tra raffinati ed esangui ex colonialisti e rozzi, pragmatici ex colonizzati. «I nostri magazzini sono zeppi d’autobiografie politiche in bella prosa» ringhia Maddox, «pronti per il macero». Poi si gira verso Ghost: «Tu gli darai “cuore”, come hai promesso». All’incontro è presente Sidney Kroll, l’avvocato di Lang (Timothy Hutton). Una volta appurato che Ghost è il prescelto, Kroll gli consegna un enorme manoscritto. «Le memorie di Lang?», chiede Ghost. Kroll: «No, è un altro libro; vorrei la sua opinione». Ghost sospira: si vede che per i 250 mila dollari che avrà, più l’elevazione sociale, si esigono da lui «favori» come questo. Sceso dal taxi davanti a casa, è aggredito da un motociclista che lo stende e fila via con il pacco. Ghost dice al suo agente di sentirsi «un’esca di caccia grossa» (ottima traduzione di tethered goat nell’originale) mandato allo sbaraglio dal committente per vedere se qualcuno ha interesse a rubarlo, convinto che sia il libro di Lang. Ghost comincia a pensare che la morte del suo predecessore non sia suicidio né una morte accidentale.

(Blair avrebbe vinto la causa: le leggi antidiffamazione inglesi sono favorevoli all’accusa). Polanski, la cui vita è un alternarsi di buona e bestiale sorte, con questo film si è assicurato un consenso doppio - personale e politico - dall’esercito d’artisti e intellettuali che tifa per lui: da Woody Allen, a Mike Nichols, da Steven Soderbergh a Salman Rushdie, che dopo il suo arresto in Svizzera ha firmato appelli indignati per «il martirio» di un tale insigne cineasta. Abbiamo ammirazione per l’artista (anche quando tratta materiale inferiore al suo talento dà sempre il meglio di sé), compassione per le sue spaventose disgrazie e poca simpatia per il personaggio. Ma tra l’arrogante, incauto polacco e il bilioso, vendicativo inglese, è preferibile il primo. Infatti illumina d’eccellenza l’intreccio fallato di un competente giallo da aeroporto; e poi perché persino chi non crede nella «iella» ha qualche dubbio davanti alle inaudite sofferenze che hanno investito Polanski, di cui solo l’ultima gli può essere in qualche misura addebitata.

Il regista ancora ai domiciliari con braccialetto elettronico alla caviglia, ha avuto un percorso talmente romanzesco che è difficile non recensire lui insieme con le sue opere. Ha montato il film prima in cella, e poi in soggiorno obbligato nel suo chalet a Gstaad. Il risultato è straordinario, visto il materiale di partenza. Ghost Writer (Ewan McGregor) è un demotico scribacchino, la cui produzione letteraria consiste nel rielaborare i ricordi di celebrità-fuffa, per renderli appetibili alle masse. Ghost Writer (non ha altro nome nel film) guadagna bene: ha da poco trasformato le memorie di un mago famoso in un bestseller, ma ha voglia di migliorarsi professionalmente. Il doppiaggio e l’adattamento dei dialoghi in italiano sono perfetti. Ghost, per esempio, ha un accento lievemente cockney. L’Inghilterra è ancora segnata da antiche divisioni di classe; si capisce che Ghost non sia andato a Oxbridge, e questo rafforza la sua condizione di outsider rispetto a Lang e il suo clan. Nella versione italiana, la differenza sociale è suggerita attraverso le intonazioni di Pierferdinando Favino. La direzione del doppiaggio è di MauraVespini, di alta professionalità. Un altro felice esempio è il titolo della dozzinale autobiografia del mago scritta da Ghost. In inglese è I came, I sawed, I conquered (Veni, vidi, segai); nel film diventa Veni, vidi, stregai, una trovata geniale. Il film si apre con un traghetto che incombe sulla scena; emerge dalle brume oceaniche e attracca lentamente al molo dell’isola dove Lang si è ritirato, in un’inclemente notte invernale. Macchine e camion parcheggiati sul ponte hanno i fari accesi, enormi occhi allineati che bucano il buio. Gli addetti allo sbarco, in cerate nere con strisce catarifrangenti, dirigono con torce e gesti gli invisibili guidatori, in un’ordinata discesa dei veicoli dall’imbarcazione. Resta sul ponte una Bmw (product placement) vuota e spenta: agganciata da un carro attrezzi, strilla la sirena antifurto e lampeggiano i fari, mentre viene trascinata via. Cambio scena su una spiaggia notturna; s’intravede un rotolo di cenci (un cadavere?) che dondola tra le rocce sul bagnasciuga, battuto dalle onde. Questo l’antefatto, da brivido, che stabilisce il tono noir con tocco magistrale, coadiuvato da una colonna sonora perfettamente calibrata, mai invadente (le musiche di Alexandre Desplat, Un profeta, The Fantastic Mr. Fox, ricordano quelle del grande Bernard Hermann). Cambio scena: Londra, interno giorno. Ghost e il suo agente Rick Ricardelli (Jon Bernthal) incontrano un importante editore americano, John Maddox anno III - numero 14 - pagina II

polanski

L’UOMO NELL’OMBRA GENERE THRILLER

DURATA 128 MINUTI PRODUZIONE GERMANIA, USA 2009 DISTRIBUZIONE 01 DISTRIBUTION

REGIA ROMAN POLANSKI INTERPRETI EWAN MCGREGOR, PIERCE BROSNAN, TOM WILKINSON, OLIVIA WILLIAMS, KIM CATTRALL, TIMOTHY HUTTON, JAMES BELUSHI, JON BERNTHAL, JAYNES BUTLER, DAPHNE ALEXANDER

Mentre Ghost inizia la collaborazione nell’algida villa moderna sull’isola, con pareti di vetro che inquadrano un paesaggio tetro e umido (il film è quasi monocromatico), l’ex ministro degli Esteri di Lang Richard Rycart (Robert Pugh), da lui licenziato, lo denuncia alla Corte di giustizia internazionale per crimini di guerra. L’ex primo ministro, «succube» di Bush, avrebbe rapito sospetti terroristi con passaporto inglese in Pakistan, per consegnarli in extraordinary rendition alla Cia in un paese terzo dove sarebbero stati torturati. Martha’s Vineyard fuori stagione (sostituita dal mare del Nord) è assalita da reporter e pacifisti furiosi. La moglie di Lang (Olivia Williams) vuole che il marito affronti le conseguenze a Londra a schiena dritta. L’avvocato dice che deve restare negli Usa dov’è protetto, e Ghost comincia a insospettirsi del politico quando trova fotografie nascoste dal morto che scoprono strani altarini. Il film tiene fino alla fine, ma poiché la trama ha più buchi di una groviera, è meglio fermarci per non guastare la sorpresa (alcuni dicono di averla sgamata; noi no). N.B. Gli inglesi che ancora detestano Tony Blair, prima lo accusavano di essere un superficiale senza principi che governava solo secondo i sondaggi. Quando si è alleato con gli americani dopo l’11 settembre 2001, lo hanno bollato subito come «barboncino di Bush», senza mai riconoscere che aveva preso una decisione difficile e impopolare, da leader autentico, contro la maggior parte dell’opinione pubblica inglese. Con questo thriller, per spiegarsi le scelte di Blair, Harris inventa un’arzigogolata spy story che non spiega nulla. Basta il vero pensiero di Blair-Lang, ripreso nel film: «Sono tempi strani davvero quando chi difende la democrazia e la libertà è accusato di crimini contro l’umanità, e i terroristi che le vogliono distruggere sono trattati da vittime». A Harris e agli altri fegatosi, manca il dono della semplicità.


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parola chiave

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MONACHESIMO ngeli nascosti. Sono i monaci. Custodi del silenzio. La preghiera e il lavoro esalta il loro spirito e li congiunge a Dio.Vivono per legare la materialità alla trascendenza. Il mondo non li conosce, eppure vivono nel mondo ma separati dai suoi effimeri trionfi. E chiudono gli occhi sul mondo quando la loro missione è compiuta. Nelle antiche abbazie d’Occidente, come nei monasteri d’Oriente lo straziante dolore dell’umanità arriva accolto dal canto dei salmi, dalle regole di vita immutate da oltre un millennio, dall’odore dell’incenso e dal sorriso appena accennato di uomini e donne che hanno scelto di legarsi all’Eterno quando neppure più l’effimero è attraente. I muri antichi grondano mormorii sempre uguali a se stessi e le stagioni che entrano nelle segrete stanze recano profumi che, con devozione, i monaci conservano. Sono i custodi più gioiosi di tradizioni che non mutano. E perciò si propongono come apostoli di una fede non scalfita dalle mode, né dalle esigenze dei costumi. Sono i soli esempi viventi di una spiritualità che ha ancora parla al cuore di chi sa ascoltare.

A

In tempi di religiosità approssimativa e confusa i riferimenti alle uniche figure esemplari dello spiritualismo occidentale più profondo sono quasi d’obbligo per chiarire, se non altro, che cosa significa oggi aprirsi al sacro, individuare il trascendente, vivere in una dimensione metafisica. La modernità, tra le altre cose, ha dissipato il patrimonio che per secoli è stato il fondamento della civiltà europea e occidentale. Al punto che oggi ci si scopre fragili e angosciati di fronte alle grandi domande che l’esistenza pone e ai fini ultimi che l’uomo dovrebbe perseguire. La prevalenza del determinismo e della materialità sull’essenza metafisica della dimensione umana è la ragione del lungo lamento che, come lugubre colonna sonora, accompagna i nostri giorni tormentando le irriconoscibili anime le quali, come impaurite, cercano talvolta in false esperienze spirituali (la new age, per esempio) effimeri appagamenti alla fatica di esistere. E, non ultima, l’aggressiva penetrazione di altre metafisiche nel cuore del nostro mondo di occidentali disposti ad accogliere ogni cosa, ma pronti a respingere la loro stessa tradizione, ha reso irriconoscibile il rapporto delle nostre società con l’Essere; società che non mettono più al centro delle loro azioni la persona, ma il suo simulacro, vale a dire l’homo consumans. Eppure le figure esemplari evocate non mancano. Basta saperle riscoprire, magari vicine a noi, come lo sono i sempre più sparuti abitanti dei monasteri, sotto la patina della distrazione e dell’indifferenza che da tempo immemorabile le ricopre. Quando Joseph Ratzinger, affacciandosi da Pontefice romano, alla Loggia centrale della Basilica di San Pietro si fece riconoscere con il nome di Benedetto, il pensiero di tutti corse a San Benedetto da Norcia, il fondatore del monachesimo occidentale. E in tanti, forse tutti, si chiesero chi fosse quel mistico

Essere con Dio nel mondo. Ecco la diversa «apertura» al sacro operata dal Santo di Norcia protettore d’Europa, che ha indicato al cristianesimo una via nuova, fondata sull’individualismo sociale. Una lezione da riscoprire

La rivoluzione di Benedetto di Gennaro Malgieri cammino religioso nella laicità. È questo che fa della scelta cenobitica di Benedetto un atto «rivoluzionario» rispetto al monachesimo del suo tempo che traeva dal romitaggio di tipo orientale l’imitazione ascetica. Si può essere con Dio nel mondo, sembra ricordarci San Benedetto e si deve essere nel mondo per Dio e per le creature che Egli ha generato: un’inversione, come si può notare, o, quanto meno, una diversa «apertura» al sacro rispetto al posteriore francescanesimo che della «nullificazione» della persona in quanto totalmente votata alla contemplazione fino alla scarnificazione di se stessa, aveva fatto l’abito morale e comportamentale.

operoso che in tempi oscuri almeno quanto i nostri, fondò un grande monastero, diede vita a un’ordine, contribuì al rinnovamento della Chiesa di Roma che viveva una delle stagioni più controverse della sua storia. Non molto, a dire la verità, si è scritto nel secolo passato su San Benedetto la cui opera è paradossalmente conosciuta maggiormente fuori dai confini italiani, in particolare in Germania e in Austria, ma anche in Francia e in Gran Bretagna, dove la spiritualità benedettina è stata assunta a fondamento di una religiosità particolarmente sentita al punto che il Santo, come si sa, venne proclamato «protettore d’Europa». E con ragione, al di là dell’aspetto strettamente religioso. Santo europeo, infatti, Benedetto lo è per aver informato il suo comportamento spirituale a uno stile di vita proprio della tradizione continentale con la quale ha coniugato la sua Regola che ancora oggi è praticata in centinaia di monasteri in tutti il mondo, ma è vissuta come testo prescrittivo di un

Luigi Salvatorelli nel 1929 pubblicò San Benedetto e l’Italia del suo tempo. Con quel saggio storico, che risentiva ancora di molte incertezze legate alla ricerca e al difficile accesso alle fonti, Salvatorelli trasse il Santo di Norcia dall’oblio nel quale secoli di dimenticanza lo avevano relegato e rifacendosi, in particolare, alle pagine a lui dedicate dal suo più grande apologeta, Papa Gregorio Magno, per il quale non era soltanto un esempio di virtù e un difensore della fede contro le molte storture alberganti nella Chiesa del suo tempo, ma soprattutto l’innovatore della religiosità cristiana sul punto di essere «paganizzata» a puri fini politici. L’Italia e ciò che rimaneva dell’Impero d’Occidente e d’Oriente, quando Benedetto nacque, probabilmente intorno al 500, erano i paradigmi della barbarie, mentre Roma moriva giorno dopo giorno sotto i colpi dei barbari che se ne erano appropriati. Il «giovane» cristianesimo non poteva non risentirne, ma trovò negli anacoreti, negli eremiti, nei cenobiti i suoi difensori più intransigenti che lo salvarono dagli abissi, facendosi testimoni di un pia-

no divino, nei quali rischiava di sprofondare. Come sottrarci a un suggestivo paragone con ciò che accade oggi? Il «cenobitismo radicale» di Benedetto si fondava su un «individualismo sociale» e in questo stava la sua differenza con l’eremitismo e con quasi tutto il monachesimo precedente. La cura di San Benedetto era «cura di anime inferme, non tirannide su quelle sane». E il potere dell’abate, osserva Salvatorelli, «non aveva altro scopo che il bene materiale e spirituale, la salvezza eterna dei suoi monaci, uno per uno». E, a conferma che la persona consacrata a Dio e al prossimo viveva la sua vita solamente in comunione con gli altri, la vita benedettina, pur essendo integralmente cenobitica, si svolgeva nel monastero che «non costituiva nessun fine a sé, nessun ente trascendentale: il fine erano i monaci, tutti e singoli, e il monastero non era che il mezzo, il luogo della loro vita, l’officina in cui essi trovavano gli strumenti della propria santificazione individuale. Se fosse stato differentemente, quello di Benedetto sarebbe stato paganesimo e non cristianesimo».

È così che il cenobio forma una famiglia, vale a dire qualcosa di stabile, di duraturo, cementata da un profondo sentimento di intimità spirituale e religiosa, nella quale la rinuncia ai beni materiali, se non quelli di sostentamento primario, è il corollario di una vita dedicata a Dio e soggetta alla Regola e all’autorità dell’abate. Lontano dalla decadenza delle città e delle corti, Benedetto da Montecassino irradiava spiritualità e cultura. Questo secondo aspetto non va trascurato. Il Santo richiedendo nel monastero una biblioteca e la familiarità con questa di tutti i monaci, anche di coloro versati in attività non propriamente letterarie, pose le condizioni dello sviluppo intellettuale del monachesimo a cui si deve il recupero della cultura classica e perfino di quella pagana nelle cui pieghe Benedetto leggeva il pensiero dell’unico Dio. Egli fuggì le devastazioni dello spirito, rinunciò alle dignità clericali, creò un tipo di comunità nuova che esercitò una forte attrazione sugli spiriti migliori e che fece crescere «libera e sola».Taumaturgo, legislatore, organizzatore, San Benedetto seppellì il vecchio mondo per indicare la strada verso l’edificazione di quello nuovo. Dopo di lui, il cristianesimo fu più forte, la Chiesa si radicò nella società italiana ed europea, il cenobitismo divenne rifugio spirituale e centro di apostolato, gli studi prodotti dai benedettini aprirono varchi alla conoscenza di grande importanza. Soprattutto dai monasteri di San Benedetto uscirono papi e santi quasi a far da corona all’uomo di Dio che testimoniò la sua umiltà rinunciando all’ordine sacerdotale: semplice asceta, ma dotato del carisma di un capo; il capo di quell’Occidente che sarebbe stato definito cristiano. Oggi resta il silenzio intorno ai discepoli di San Benedetto, come nei romitaggi di Pec o del Monte Athos. Le grida non sconvolgono i mistici del Terzo millennio. E i lunghi corridoi dei monasteri si riempiono ancora di canti, incenso e preghiere. Non è un miracolo?


Pop

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scoltarla. Apparentemente, la Badu di New Amerykah Part Two: Return Of The Ankh è fin troppo morbida: come la sua voce, tastiere e stop di 20 Feet Tall. In realtà, la sua è una dolcezza acidula che si rincorre nel soul felpato e avvolgente di Window Seat (occhio al videoclip, in cui cammina lungo il viale di Dallas dove il 22 novembre del ‘63 venne assassinato John Fitzgerald Kennedy, poi si spoglia e si accascia sull’asfalto colpita da un cecchino); nei rapidi mordi e fuggi jazzati di Agitation e You Loving Me; nel funky (con la benedizione di Marvin Gaye) di Turn Me Away e nel ritmo a un passo dal reggae

di Stefano Bianchi i ostinano a etichettarla come nusoul o rhythm & blues (riaggiornato e corretto). Eppure, quando occorre, la black music sa scrollarsi di dosso le ovvietà per imboccare imprevedibili traiettorie. Chiedetelo a Erica Abi Wright, in arte Erykah Badu, se è vero oppure no. La trentanovenne cantautrice nata a Dallas, bravissima ed egocentrica, con l’imprevedibilità ci marcia. Tant’è che l’album Baduizm, con cui debuttò nel 1997, conteneva già nel titolo l’arroganza d’una musica nera a sé, fuori dalle consuetudini. Figlia di un’attrice teatrale, padre pressoché sconosciuto, un fratello e una sorella, Erykah (il suffisso kah, in arabo, significa «non può fare del male») Badu («verità e luce») ha solo quattro anni quando canta e balla con la madre sul palcoscenico del Dallas Theatre Center. A quattordici, ascolta Stevie Wonder e Chaka Khan ma s’innamora dell’hiphop al punto da fare freestyle (cioè «rappare» su pezzi strumentali improvvisando rime) per una radio locale. Dentro, però, le sta crescendo una voce stratosferica che ricorda Billie Holiday e Nina Simone. Sarebbe un delitto non sfruttarla. E allora incide un demo, duetta in Your Precious Love col soulman D’Angelo e poi arriva Baduizm, controcorrente, che vende più di tre milioni di copie e le fa vincere due Grammy Awards. Mama’s Gun, nel 2000, la fa invece oscillare fra hip-hop e rhythm & blues mentre Worldwide Underground (2003) è un’unica sequenza di musica, quasi hippie, dall’inizio alla fine. New Amerykah Part One: 4th World War del 2008, esce nel momento in cui l’America cerca

musica

S

Imprevedibilmente…

Erykah Badu

una nuova identità confidando in Barack Obama. Erykah, stavolta, punta soprattutto sull’elettronica, passa dall’intellettualismo al misticismo, approfondisce quello stile che i critici hanno definito conscious hip-hop. Mi sento di paragonarla a Prince, la Badu. Imprevedibile come lui. Imprevedibile come certa black music che ti rende felice, quando hai il privilegio d’a-

Jazz

che scandisce Gone Baby, Don’t Be Long. Seppur tra arpeggi ed evanescenze computerizzate, è indubbiamente hip-hop l’Erykah Badu che traspare da Fall In Love e Incense. Dentro Umm Hmm, invece, lascia che sia il rhythm & blues a reggere il filo del discorso, con quei fiati e quelle orchestrazioni dal sapore «vintage». Sicché, dopo un paio di dischi velleitari (Worldwide Underground e New Amerykah Part One) si torna finalmente a respirare quella schietta creatività che sembrava appartenere solo a Baduizm. In più, le interferenze elettroniche e il riavvolgimento rapido nel funk di Love, nonché i dieci minuti e passa finali di Out Of My Mind, Just In Time che transitano con disinvoltura dalla ballata pianistica al trip-hop, dalla psichedelìa ai ritmi in controtempo, ci raccontano un’artista tonica e ispirata. Imprevedibile. Come solo una certa black music sa essere. Erykah Badu, New Amerykah Part Two: Return Of The Ankh, Universal/Motown Records, 19,50 euro

zapping

ELOGIO DELLE CUFFIONE (meglio se Akg 141 studio) di Bruno Giurato

a ragazza che sta salendo sul 64 ha orecchie meravigliose, forse. Ora non si vedono perché coperte da un paio di cuffione, precisamente un paio di Akg 141 studio (scusate se citiamo marca e modello, siamo vittime d’invidia per il product placement, e mai nessuno che ci dia una lira o un paio di cuffie nuove). Ma non c’è dubbio e non c’è inganno, la ragazza ha orecchie meravigliose. Ci fa sentire sfigati con i nostri auricolari bianchi, arnesi da otorinolaringoiatra poco isolati (ogni accelerata del bus arriva al cervello), con pochi bassi (il funk metropolitano senza bassi è come il cucchiaio senza tazza) e acuti che provocano labirintite. Invece lei ha capito tutto, ha orecchie meravigliose ed è anche una sensuale. Con un paio di cuffie così può ascoltare in pace anche Sketches of Spain di Gil Evans e Miles Davis, e vedere il centro di Roma pieno di cromatismi gitani, o sentire l’Alleluia di Handel mentre scende a San Pietro. Qualcuno avrà da dire che le cuffione impediscono la comunicazione. Rispondiamo che: 1) chi ascolta musica in autobus lo fa precisamente perché in quel momento il prossimo gli sta sulle scatole, altrimenti discorrerebbe con la vecchietta: la misantropia è meglio ostentarla che mimetizzarla; 2) c’è momento e momento, tempo e tempo. C’è un tempo per la socialità e uno per mandare tutti alle zappe. La ragazza con la cuffiona oltre che sensuale è saggia, conosce i segreti del tempo, e soprattutto i piaceri dei lavori pratici. A casa avrà scelto la musica per bene, avrà messo le ingombranti cuffie nello zaino come il violinista cambia le corde, o il lettore sceglie il segnalibro, o il cuoco abbassa il fuoco sotto la cipolla di Tropea. L’arte ama gli impicci, più o meno come l’anima vuole l’oblio.

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Tessarollo e la pura spontaneità della chitarra

ono necessarie grandi capacità per affrontare due celebri canzoni come Star Dust e Georgia on My Mind, senza alcun accompagnamento strumentale. Lo ha fatto Rachel Gould in un cd di recente pubblicazione tutto dedicato alle composizioni di Hoagy Carmichael, da Two Sleepy People a Skylark, da Rockin’Chair a The Nearness of You, melodie immortali da sempre interpretate dai più importanti cantanti del mondo. Rachel Gould, che ha recentemente compiuto una breve tournée in Italia, è nota, oltre che per le sue qualità di interprete e di insegnante, anche per le molte e importanti collaborazioni con Woody Herman, Chet Baker, Horace Parlan ed Enrico Pieranunzi. Nel recente tour italiano si è esibita con il quartetto del chitarrista Luigi Tessarollo, ed è proprio di questo solista che vorrei parlare oggi per segnalarlo ai pochi che non hanno ancora avuto occasione

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di Adriano Mazzoletti di ascoltarlo dal vivo o su disco. Sono almeno una ventina i dischi che questo brillante musicista ha inciso nel corso della sua ormai quasi trentennale carriera, da quando faceva parte del complesso Arti e Mestieri - nome che ricorda una stazione della metropolitana di Parigi - fino a uno degli ultimi pubblicati, Jogo De Cordas. Nella sua biografia si incontrano nomi importanti, Lee Konitz, Slide Hampton, George Garzone, Barry Harris e gli italiani Stefano Bollani, Franco Cerri, Paolo Fresu, Enrico Rava, Flavio Boltro con i quali ha spesso collaborato. È nel disco realizza-

to in duo con Roberto Taufic, Jogo de Cordas che Tessarollo dimostra qualità inaspettate. Versatile nell’interpretazione di motivi bop, Donna Lee, del grande repertorio della canzone americana, Summertime, o di quello brasiliano, Upa Neguinho, è anche in grado di affrontare, con sensibilità, motivi poco o punto eseguiti da musicisti jazz, Guantanamera. Il duo di chitarre ha nel jazz e nella musica improvvisata origini lontane. I primi furono l’italo-americano Eddie Lang (Salvatore Massaro) e il chitarrista di blues Lonnie Johnson a cui seguirono un’infinità di altri, fra i quali

Carl Kress e Tony Mottola, Bucky e John Pizzarelli, Barney Kessell e Carlo Pes. L’incontro fra Tessarollo e il chitarrista Roberto Tauffic, nato in Honduras da madre araba, ma con lunghi soggiorni in Brasile, nella zona di Rio Grande do Norte, si è rivelata, in questa prima occasione, felicissima. Oltre a quelli citati, i due solisti eseguono temi di loro composizione, Reflexdo, Jogo de Cordas, Ballad per Adriano (non il sottoscritto) di Tauffic e La piccola Alice e Choro per Walter di Tessarollo. Oggi che nel jazz sta emergendo la tendenza a ridare importanza all’aspetto melodico più che alle variazioni armoniche, in queste registrazioni si ascolta qualcosa di molto simile alla pura spontaneità. Rachel Gould-Luigi Tessarollo quartet, Tribute to Hoagy Carmichael, Geko records; Luigi Tessarollo - Roberto Taufic duo, Jogo De Cordas, Velut Luna


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arti

Mostre

ome ha scritto Nietzsche, e l’aforisma è riportato sul verso del sontuoso catalogo Electa Napoli, dedicato alle molte mostre napoletane su Ritorno al Barocco, da Caravaggio a Vanvitelli: «Lo stile barocco nasce dallo sfiorire di ogni grande arte, ogni volta che le esigenze nell’arte dell’espressione classica sono diventate troppo grandi e occorre dar spazio all’eloquenza delle forti passioni». «Troppo grandi», si sa: l’eccesso barocco, il dilagare scomposto e muscolare, secondo soprattutto chi il Barocco non lo tollera, da Nietzsche a Ruskin a Croce. Ecco: «troppo» forse anche a Napoli, per questa grandiosa e quasi incontenibile kermesse, dedicata al secolo che più ha visto trionfare il gusto tenebroso e insieme luminoso del genio partenopeo. E che segna non soltanto l’anniversario della grande prima mostra sulla Civiltà del Seicento a Napoli, post-terremoto, e il ricordo d’uno straordinario studioso come Raffaello Causa, ma anche la miglior celebrazione d’addio e di riconoscenza per il congedo «forzato» di Nicola Spinosa, dal suo ruolo di Sovrindente-Principe di Capodimonte. Una mostra ramificata nei più diversi e lontani e coerenti «palazzi di città», di cui è difficile dare un resoconto striminzito e dabbene. Meglio ritagliarsi una minima, ma meravigliosa fetta, comunque, in quell’enorme universo, che alterna a pale d’altare raffinate oreficerie, a vedute e marine, ceramiche e ritratti e, appunto, Nature Morte. O meglio, Nature in posa, come preferisce chiamarle Spinosa, che da anni si danna e bea la vita non soltanto a scoprire chi si nasconde dietro il suo prediletto Maestro dell’Annunciazione ai pastori, ma non di meno a dirimere il problema dell’attribuzione a diversi maestri di tutto quel profluvio di pesci croccanti e

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Design

Il Barocco variabile della Natura in posa di Marco Vallora viscidi, che convivono insieme a funghi e formaggi campestri, a preistoriche tartarughe, che avanzano millimetriche, tatuate d’eleganti scurori, mentre indolenti aragoste attraversano l’orizzonte della scena con profumi salmatri e notturni. E hai davvero l’impressione d’avvertire, sulla pelle umida della pittura, quegli scivolosi passi, che rianimano tutte quelle ricche «cose» che pungono i nostri sensi. Simboli, allegorie del quotidiano, epifanie del nostro vivere qualunque, come ha sostenuto il semiologo Todorov, per la coeva pittura olandese. E qui s’apre appunto la problematica della bottega e dei maestri maggiori o minori, per capire per esempio se è lo

stesso artista a dedicarsi alla delizia di fiori e verdure e invece è un altro a occuparsi delle figure di cucinieri o pescatori, che animano quel crollare d’ogni bendidio naturale, tra antri scuri, gatti voraci e paioli di rame, dai riflessi fiamminghi. Nel caso di questa trionfale ribalta di colori e di fantasia variantistica, ecco il meraviglioso «caso clinico» di quel trucido pescatore dall’anima torbida e dai gesti brutali, che negl’anni è passato dall’ipotesi di Salvator Rosa a quella di Micco Spadaro, oggi proposta da Denise Maria Pagano, che guida con amore questo glorioso museo. Infatti bisogna stabilire se il Maestro di Palazzo San Gervaso può diventare

davvero Luca Forte, se è più credibile attribuire un pezzo a Giacomo Recco, con quei suoi succosi fichi, imperlati di umori più che femminili, oppure a Giovan Battista Recco (certo il più geniale, con le sue ruminanti granseole ghiacciate) oppure un altro Recco, ancora, e non eran nemmeno parenti, ma poi ci sono Porpora, e il magnifico Belvedere e i meno frequentati Cusati, Casissa, Nani e Realfonso, che detti così, alla veloce, paion quasi una formazione calcistica di serie C. Ma non è vero: perché ognuno nasconde uno stile, una variante, un segreto, e questo gioco virtuosistico di fioriture libere e di ad libitum barocchi e di assoli tenorili (di funghetti protagonisti o di saraghi melodrammatici) han la forza davvero di arie di affetti del melodramma coevo (non dimentichiamo che alla Pietà dei Turchini erano attivi in quegli anni i Porpora, i Pergolesi, gli Jommelli, di cui solo il «napoletano» Muti pare valentemente ricordarsi). In una fresca memoria delle Wunderkammer, tramate di coralli e pesci-palla e coniugate all’ossessiva tassonomia del borgesiano mondo «duplicato» barocco.

Dimmi che bagaglio hai e ti dirò chi sei

iamo su una strada sbagliata, ragazzi. Non dobbiamo pensare alle cose che ci farebbero comodo, ma soltanto a quelle di cui non possiamo fare a meno». Sagge parole, quelle di George, rivolte ai suoi compagni, in procinto di affrontare la risalita del Tamigi, nel celebre libro Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome. Il bagaglio, croce e delizia di ogni viaggio, compagno indissolubile di chi si allontana, per lunghi o brevi periodi, dalla propria casa, racchiude in sé un’infinità di elementi, legati alla storia, alla cultura e alla società. L’uomo con la valigia è una curiosa e interessante mostra allestita nel Borgo Medievale di Torino.Tema: il bagaglio, la sua storia, le tipologie, i valori simbolici, la psicologia del viaggiatore. Il percorso espositivo si sviluppa attraverso tre spazi e relative sezioni: Bagagli d’altri mondi, Oggetti del viaggiatore, Il bagaglio del Medioevo. Chiude il percorso un’ulteriore sezione dedicata al rapporto che lega l’uomo, il bagaglio e la sua funzione nel corso della storia. Nel Medioevo, la classe sociale aristocratica, sempre in movimento tra guerre, matrimoni lontani, giostre e tornei, conduceva un’esistenza quasi nomade. Il bagaglio

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di Marina Pinzuti Ansolini era costituto da una serie di «mobili», funzionali a ricreare l’ambiente domestico dove necessario: tavoli e sedie pieghevoli e smontabili, bauli e cassoni, che, all’occorrenza, svolgevano la funzione di letto, persino di bara. Il soldato, costretto dalle circostanze, riduceva il suo bagaglio al minimo trasportabile durante le marce: una ciotola, un cucchiaio, un coltello, pochissimi indumenti. Analogo il contenuto della sacca del pellegrino, mistico ed essenziale, all’insegna della rinuncia al superfluo, fatta eccezione per qualche oggetto di culto. La filosofia dello stretto necessario si ritrova nel bagaglio del globetrotter; anticonvenzionale e amante dell’avventura, dagli anni Sessanta gira il mondo, magari in autostop. Nel suo zaino, sorprendentemente, troverà posto anche il sacco a pelo e, nelle tante tasche, qualche indumento, attrezzi per cucinare, libri e guide. Nella valigia del turista, solitamente di notevoli dimensioni e munita di rotelle e lucchetti, viaggeranno per lo più vestiti, medicine, prodotti per l’igiene, gadget

tecnologici e, al ritorno, molti souvenir; la voglia di vacanza è sempre accompagnata dal desiderio di essere comodi e di avere tutto, come a casa. Il viaggiatore guarda con snobismo il turista, organizza in modo autonomo il proprio viaggio e il suo bagaglio sarà all’insegna della razionalità e della praticità: pur essendo di dimensioni ridotte, anche lui difficilmente rinuncerà alle medicine e alla macchina fotografica, magari professionale, mentre gli indumenti saranno pochi e comodi. Il bagaglio dell’emigrante varia in relazione al periodo storico e alla classe sociale. Fagotti, valigie di cartone tipicamente chiuse con lo spago, casse e bauli hanno come denominatore comune il tentativo di recare oggetti e ricordi del paese di origine verso il quale si avrà perenne nostalgia. Chiude la rassegna la ventiquattrore del businessman. Piccola e discreta, contiene il necessario per sopravvivere elegantemente un giorno e una notte: un cambio di biancheria, una camicia stirata, il computer, il cavo per ricaricare il telefonino, raramente un libro per il tempo del volo. L’uomo con la valigia. Piccola storia del bagaglio è inoltre un piccolo ironico volume di 48 pagine dello stesso curatore della mostra, Paolo Novaresio, giornalista, scrittore e viaggiatore a tempo pieno.

L’uomo con la valigia, Torino, Borgo Medievale, fino al 10 maggio


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il paginone

VENT’ANNI FA, IL 15 APRILE 1990, MORIVA A NEW YORK UNO DEI GRANDI, INDISTRUTTIBILI MITI DEL CINEMA. IL SUO VOLTO SEVERO ED ESSENZIALE, ARCHETIPICO E VIBRANTE EVOCA, SECONDO ROLAND BARTHES, LA SUGGESTIONE DELL’IDEA. MENTRE IL SEGRETO DEL SUO FASCINO RESTA ANCORA INDECIFRABILE…

Greta Luna di Orio Caldiron e si rivede oggi Ninotchka (1939), non si può non restare abbagliati dalla felicità inventiva di una delle più belle commedie di Lubitsch. Gli agenti sovietici in missione a Parigi, gli irresistibili Bulianoff, Iranoff, Kopalski, cedono subito alle lusinghe del capitalismo, mentre la compagna Greta Garbo, l’inflessibile commissario Nina Yakusciova, ci mette di più a lasciarsi catturare dal fascino della ville lumière. Alla fine anche lei perde la testa, ma non l’improbabile cappellino che ha adocchiato fin dall’inizio nella hall dell’albergo. S’innamora, ride, si ubriaca, cade fucilata dal botto di un tappo di champagne dopo la celebre battuta: «Compagni! La rivoluzione è in marcia, le bombe cadranno, la civiltà crollerà in pezzi. Ma per favore non adesso». Lanciato con lo slogan Garbo laughs!, il film sembra aprire

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parte dei suoi film sono firmati da artigiani fedeli ai diktat dello studio per cui volta volta lavorano, incarnando la politica della committenza più che l’estro necessario a fronteggiare l’imprevedibilità dell’attrice. Se i nomi prestigiosi di Victor Sjostrom, Rouben Mamoulian, Jacques Feyder, non sono sufficienti a garantire la quadratura del cerchio del successo, forse solo Clarence Brown per il muto e George Cukor per il sonoro si rivelano all’altezza della loro fama di woman’s director di spregiudicata sensibilità, prima

Enigmatica, inafferrabile, lontana come l’astro d’argento. Così la definiva Dino Risi, paragonandola al ciclone Magnani. Ma la sfinge svedese è stata la regista di se stessa. Anche nel preservare il fantasma a cui aveva dato vita una nuova, inattesa stagione nella carriera dell’attrice, mai apparsa prima in una commedia. Ma il clamoroso insuccesso di Non tradirmi con me (1941) la induce a lasciare per sempre il cinema ad appena trentasei anni.

Nessun’altra aveva saputo raccontare come lei la passione amorosa in una ventina di film diseguali, da Il torrente (1926) a La tentatrice (1927), da La carne e il diavolo (1927) a La donna divina (1928), da La donna misteriosa (1928) a Destino (1929), da Orchidea selvaggia (1929) a Donna che ama (1929), da Il bacio (1929) ad Anna Christie (1930), da Romanzo (1930) a La modella (1931), da Cortigiana (1931) a Mata Hari (1932), da Grand Hotel (1932) a Come tu mi vuoi (1932), da La Regina Cristina (1933) a Il velo dipinto (1933), da Anna Karenina (1935) a Margherita Gauthier (1937) a Maria Walewska (1937). Non mancano le eccezioni, ma la maggior

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della normalizzazione espressiva degli anni Trenta imposta dal Codice Hays. Nonostante i suoi film siano spesso modesti, affidati alle logore convenzioni del melodramma e ai ricatti sentimentali della cattiva letteratura, quasi sempre il carisma dell’interprete s’impone fino a brillare di luce propria. La bellezza misteriosa della sfinge svedese, per sedurre le platee, non ricorre al sex-appeal - c’è chi in lei non lo vede affatto, lo considera completamente assente o almeno latitante nell’ostentazione degli atteggiamenti androgeni o addirittura mascolini ma alle segrete alchimie della sua strepitosa fotogenia. Il volto intenso, la camminata altera, il magnetismo della immedesimazione totale, a cui non sono estranee la tenerezza e l’ironia, fanno di Greta una delle più alte incarnazioni del cinema come arte, confrontata a più riprese con il grande Charlot di Chaplin. Il trionfo della Garbo, di cui il pubblico femminile invidia i costosi vestiti che in-

dossa sullo schermo, viene spesso attribuito ad Adrian, il costumista della Metro Goldwyn Mayer che la studia come un chirurgo scruta il paziente con i raggi X. Alla sua immagine essenziale, inimitabile, archetipa, avrebbero contribuito i grandi cameramen hollywoodiani, a cominciare da Bill Daniels. Nessuno sembra voler ammettere che Greta ha fatto tutto da sola - Cecil Beaton l’ha paragonata a un sismografo capace di registrare la gamma più delicata e impercettibile di vibrazioni - dimostrando la singolare creatività di un’interprete che è stata regista di se stessa, una straordinaria, irripetibile attrice-autrice. Il paradosso della grande svedese è che, senza la logica brutalmente mercantile degli studios, non si sarebbe dovuta inventare da sé, ma per preservare il fantasma a cui aveva dato vita, il fascino senza tempo della sua miracolosa apparizione, si condanna a star lontana dal set.

Nel suo lunghissimo esilio si moltiplicano i progetti che resteranno irrealizzati, dalla vita di Sara Bernhardt a quella della principessa Anastasia, da Marie Curie a George Sand. Sono moltissimi i testi teatrali che per pochi giorni o per qualche mese sembrano vicini a concretizzarsi, come Olympia di Ferenc Molnár, Santa Giovanna di George Bernard Shaw, Il lutto si addice a Elettra di Eugene O’Neill, L’aquila a due teste di Jean Cocteau, Il giardino dei ciliegi di Anton Cechov, Un tram che si chia-


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ma desiderio di Tennessee Williams. Se le chiedono di portare sullo schermo Lady Chatterly o Emma Bovary, contropropone Dorian Gray e San Francesco, sicura delle scandalizzate reazioni negative. Qualche possibilità in più sembra averla La duchessa di Langeais di Balzac. Dovrebbe essere girato tra Roma e Parigi da Max Ophuls, che pensa di metterle accanto James Mason in un audace scambio delle parti. La duchessa ricca di potere, bellezza e sadismo è destinata a diventare la vittima di un uomo che sa cogliere il suo punto debole.

«Balzac e Garbo, che combinazione!», esclama il regista tedesco nel bellissimo racconto che Manuel Puig dedica al loro ultimo incontro. Il film è ormai saltato, forse anche per la stravaganza dell’attrice che, dopo aver fatto aspettare i finanziatori qualche settimana, finalmente li riceve in una suite al buio con le veneziane abbassate. Il commenda Angelo Rizzoli ci rimane male e si ritira dalla coproduzione. Nella sua stanza d’ospedale il vecchio regista se ne sta andando. «Quando lei è entrata qui con quei fiori, aveva le braccia cariche di compassione per me», le dice. «No, Max, tra le mie braccia porto sempre mio padre, cerco di dargli forze!», gli risponde Greta. «Si è ammalato di tubercolosi lavorando nelle vie gelide di Stoccolma, faceva qualsiasi mestiere, persino lo spazzino. Io l’ho visto spegnersi a poco a poco, è morto quando avevo quattordici anni. Da allora occupa sempre le mie braccia. Ma è tutto inutile, non posso far niente per rendergli la vita». Al momento del congedo, Max Ophuls le dichiara la sua infinita ammirazione: «I suoi film sono tutti dei classici, Greta. Peccato non avere un proiettore in questa stanza per vederli di nuovo. Se vado in paradiso spero di trovarmi una macchinetta che mi permetta di proiettarli avanti e indietro quante volte voglio». Straordinario l’incontro con Ingmar Bergman ne-

Molti i progetti irrealizzati nel suo lungo esilio. Anche quello di interpretare la Regina di Napoli nella “Recherche” che ancora Visconti sperava di portare sullo schermo. Ma ebbe però troppa fretta di rendere nota la sua partecipazione... gli studi della Svensk Filmindustri di Stoccolma, dove nel ’24 Greta era stata diretta da Mauritz Stiller in La saga di Gösta Berling, il suo primo film. In una fredda giornata d’inverno la limousine nera dell’attrice si ferma davanti alla città del cinema svedese. Ingmar riceve la diva nel suo ufficio: «La stanza era piccola, una scrivania e un divano sfondato. Io ero seduto alla scrivania, Greta Garbo sul divano. La lampada da tavolo era accesa. Questa era la stanza di Stiller, disse subito guardandosi intorno, ne sono certa. All’improvviso si tolse i grandi occhiali da sole dicendo: dunque questa è la mia faccia, signor Bergman. Il sorriso fu rapido e abbagliante, malizioso. È difficile dire se i grandi miti continuano a esercitare la loro magia perché sono miti o se la loro magia è un’illusione creata da noi fruitori. In quell’istante non c’erano dubbi. Nella penombra della piccola stanza la sua bellezza era eterna. C’era come una vitalità intorno ai grandi, puri li-

neamenti del suo volto, intorno alla fronte, al taglio degli occhi, al mento dalla nobile forma, al naso sensibile. Cominciò a parlare del lavoro per La saga di Gösta Berling. Andammo nel piccolo teatro di posa e cercammo nell’angolo sinistro. C’era ancora un’ammaccatura nel pavimento, conseguenza dell’incendio del castello di Ekebù. Lei citò il nome dei tecnici e degli elettricisti che ancora ricordava». Fanno poi un rapido giro per la città del cinema. «Era vestita elegantemente, in giacca e pantaloni, si muoveva con energia, il suo corpo era vitale, attraente. Siccome sulla strada ripida c’erano dei tratti sdrucciolevoli si appoggiò al mio braccio. Quando tornammo alla mia stanza era allegra e distesa. Si piegò verso la scrivania e la lampada le illuminò la parte inferiore del volto. Allora vidi qualcosa che non avevo visto prima! La sua bocca era brutta: un pallido taglio circondato da rughe. Tanta bel-

lezza e in mezzo a quella bellezza un accordo dissonante. Non c’era chirurgia plastica né truccatore che potesse far sparire quella bocca e quel che raccontava. Lesse immediatamente il mio pensiero e tacque, infastidita. Qualche minuto dopo ci separammo. L’ho osservata attentamente nel suo ultimo film. Il volto è bello ma teso, la bocca priva di dolcezza, lo sguardo per lo più distratto, triste nonostante la situazione da commedia. Il suo pubblico intuì forse qualcosa che lo specchio da trucco le aveva già detto». Si dice che nell’incontro il regista avrebbe cercato di coinvolgerla nel film che stava preparando in quel momento, Il silenzio, offrendole la parte di Ester, poi interpretata da Ingrid Thulin. Uno dei personaggi più significativi dell’universo bergmaniano, una donna lucida ma in crisi, contraddittoria ma forte, incapace di dimenticare la morte del padre e delusa dalla vita. L’ultima occasione mancata è quella di impersonare la Regina di Napoli che irrompe nel salotto di Madame Verdurin per difendere Charlus. Glielo propone la produttrice Nicole Stéphane quando spera ancora di portare sullo schermo la Recherche di Proust con Luchino Visconti: «Avevo pensato a Greta Garbo per il ruolo. Ne ho parlato con Luchino: “Se facciamo le cose intelligentemente, basterebbe un giorno di riprese con Charlus”.Valeva la pena di tentare. Conoscevo una persona che era molto amica di Greta Garbo. Gliene ho parlato. Un giorno lei mi ha telefonato e mi ha detto:“Tra due settimane Greta verrà da me a prendere il tè, vuoi venire?”. Quando ho incontrato la grande attrice, due cose mi hanno particolarmente colpito di lei: il suo sguardo (i suoi occhi) e la sua voce. Era perfetta per il film, era la Regina di Napoli! Le ho spiegato il progetto per una mezz’ora, ho cercato di convincerla, lei mi ha promesso di rifletterci. Era una risposta piuttosto incoraggiante, non era un no, non era negativa. Ho telefonato a Visconti e gli ho detto: “Vi prego, soprattutto non ne parlate con nessuno, forse abbiamo una chance”. Qualche giorno più tardi ricevo una telefonata dal Dail mail. Visconti aveva fatto la conferenza stampa, dove aveva annunciato che prendeva la Garbo per la Regina di Napoli. Greta era furibonda e ha rifiutato il ruolo!».

Nel corso degli ultimi anni viaggia sempre di meno, fino a fare di NewYork, anzi di Manhattan, la sua patria di elezione. In pantaloni, maglione e occhiali scuri la percorre a grandi passi nelle sue lunghe passeggiate quotidiane. Sono molti quelli che sostengono di averla vista tra la Quarantaduesima e la Settantesima, o da Bloomingdale, il mitico department store tra la Lexington e la Third Avenue. Qualcuno giura persino di aver incrociato il suo sguardo, mentre le palpebre si alzano e si abbassano nell’antico gioco fascinatorio, in un impercettibile sussurro: «C’eri dunque anche tu». Ma il tempo del cinema è per lei irrimediabilmente finito, mentre si ribadisce la scelta della solitudine. Se vuole restare se stessa deve essere quella che è sempre stata. Enigmatica, inafferrabile, lontana. Lontana come la luna, diceva Dino Risi, arrischiando il paragone impossibile con Anna Magnani: «La Garbo è la luna e la Magnani il ciclone. La luna troppo lontana può influire sui nostri sentimenti ma non si può toccare, mentre il ciclone è qualcosa di pericoloso, ti entra in casa, ti sfonda i vetri delle finestre, ti sfascia le porte».


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Narrativa

n libro torrenziale che non si fa fatica a immaginare scritto di getto come dichiara il suo autore. Un libro scritto in sei mesi da un esordiente ma che ha la mano allenata alla scrittura di sceneggiature cinematografiche. Per molti critici Hanno tutti ragione, in lizza allo Strega e firmato da un regista italiano giovane e già affermato come Paolo Sorrentino, è divenuto il caso narrativo dell’anno. Una prosa ricca e fastosa, una lingua contorta e comica, storpiata sulla base di un napoletano tipicamente borghese, incrocio tra il dialetto popolare e l’italiano riscritto dalla società del Vomero, parlata e monologata da un personaggio grottesco e perfetto, ridicolo e saggio. Anche senza gridare al capolavoro questo romanzo ha tratti di novità, di reale forza stilistica, ed è capace di tratteggiare un personaggio protagonista e i suoi comprimari con toni ironici e accesi. La forza visionaria dell’io-narrante fusa a espressione realistica fino a rappresentazioni dai toni pop, rende il libro di Sorrentino una lettura trascinante. L’epopea eroicomica di Tony Pagoda, cantante col pallino del sentimento e di lunghe sniffate di cocaina, è punteggiata di avventure maldestre, pericolose, erotiche. In ognuna di queste avventure, infilate una dietro l’altra,Tony sembra caracollare senza una vera pulsione. Se non che Tony Pagoda è un uomo che aspira alla vita reale e detesta la quotidianità normale fatta di famiglie infilate in pantofole e tuta. Teme la notte come tranquillo riposo dell’uomo normale e anela a vivere l’abnorme oscurità in nome della scoperta e della verità. La notte però è rischiosa e buia anche per i personaggi come Pagoda che più volte si trova invischiato in contorte situazioni. Come quando, alla ricerca di cocaina, si ritrova sul molo napoletano nel pieno di una resa dei conti tra bande rivali che si contendono il traffico di droga. Il suo amico muore falciato dai colpi dei mitra, mentre lui viene salvato da un potente boss che lo trascina su di un motoscafo in giro

libri

Paolo Sorrentino HANNO TUTTI RAGIONE Feltrinelli, 319 pagine, 18,00 euro

per il golfo di Napoli. Non meno divertente la scena dedicata alla prima volta, al primo rapporto sessuale di Tony, nel buio di un palazzo nobiliare con una nobile sessantenne che ha abolito l’elettricità per risparmiare. Un romanzo che si articola in quadri legati assieme dalla parabola di questo stravagante uomo, sempre alla ricerca del nuovo e che però di fronte ai cambiamenti viene preso dal furore (come quando picchia la moglie odiata che lo vuole lasciare), che al culmine del successo mollerà tutto per andare a vivere in solitudine vent’anni in Brasile, dove non canterà più nemmeno per gioco. Tornato in Italia, a settantasei anni, Tony Pagoda scopre il senso del ridicolo, un mood che aleggia in tutto il libro, forse sarà la vecchiaia o la decadenza eterna di Roma, la città dove si stabilisce, la città di tramonti inesausti. Per capire davvero cosa è stata la sua vita, e a cosa si è ridotta in vecchiaia, Tony torna da una anti-

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L’epopea quasi picaresca di Tony

Pagoda

È già un caso letterario il romanzo d’esordio del regista Paolo Sorrentino, in lizza per lo Strega. Una rappresentazione pop dai toni trascinanti

Riletture

di Maria Pia Ammirati

ca amante, Antonella. Di fronte alla disfatta della bellezza e della ragione Tony si arrende. E torna all’unico pensiero consolatorio che sa di avere, alla vita prima della vita. A lui bambino tenuto per mano dai genitori a passeggio il sabato pomeriggio. Torna alla vita normale, al suo sogno di una vita normale, dove la donna amata e perduta ha per caso il nome di Beatrice.

Ennio Flaiano oltre la “velatura” dell’ironia

l centenario di Flaiano (vedi liberal del 5 marzo scorso) è certo un invito a riprendere in mano la sua opera. Ma Flaiano è uno scrittore che ci è sempre venuto incontro con la sua drammaticità, che considero prevalente, e la sua ironia, indipendentemente dalle varie ricorrenze. Ennio Flaiano (1910-1972), nato a Pescara e studente a Roma, debuttò nel ’47 con il romanzo profondamente tragico Tempo di uccidere più volte ristampato. Ho sempre pensato che sia uno dei romanzi più importanti del Novecento italiano. Ambientato in Etiopia durante la guerra, non è un romanzo di guerra ma un romanzo di avventure personali esistenziali e sentimentali che portano di fronte al baratro del male che circonda l’uomo, che spesso si impadronisce di lui e che può determinare una situazione di vita quasi insostenibile. Può parere strano che il Flaiano passato alla storia della letteratura del Novecento sopratutto per la sua ironia, per le sue battute, per un certo modo parodistico di descrivere e prevedere l’andamento della società, abbia firmato una sua opera prima con un romanzo

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di Leone Piccioni così tragico e talvolta così crudele come Tempo di uccidere. In Diario notturno del ’56 e cioè quasi dieci anni dopo il romanzo, ci si imbatte in questo pensiero: «Quando si parla di guerra - scrive Flaiano - io penso a questo episodio che ne contiene il succo. Una volta mi toccò di assistere mentre bruciavano i cadaveri degli abitanti di un villaggio. Si preparò un rogo unico, i cadaveri (uomini, donne, bambini) furono ammassati. Stavano per dar fuoco ma arrivarono due soldati portando qualcosa in un lenzuolo che sostenevano per i quattro capi: “Un momento” - gridavano. Mi accostai. Nel lenzuolo, immobile e rattrappita dalla violenza, vidi un’orribile vecchia.“Ma questa è viva!” dissi quasi divertito.“No - rispose uno dei soldati con innocenza:“È quasi morta”.“E poi - aggiunse l’altro - c’è rimasta solo lei qui. Che facciamo?”». Vorrei citare anche, della vena malinconica e talvolta struggente di Flaiano in Una e una notte del ’59, il racconto intitolato «Adriano», chiaramente autobiografico,

Con “Tempo d’uccidere” ha squarciato le cortine del male e del dolore più profondo

che con grande semplicità e forza poetica narra di un autunno e di un inizio d’inverno passati a Fregene al «villaggio dei pescatori». Si consideri anche che nella sua vita privata ebbe il grande dolore di avere una sola figlia, spastica. Ora io penso che l’aver subito squarciato le cortine del male e del dolore più profondo, del peccato e del delitto immotivato, abbiano persuaso Flaiano a chiudere la sua attenzione verso questa tematica per rifugiarsi in una visione della vita filtrata, appunto, attraverso l’ironia, stendendo, come Foscolo suggeriva, una sorta di «velatura» tra sé e i fatti della vita nella propria esperienza: una «velatura» che consentisse di riprendere il respiro e di vivere questi anni che ci toccano in un modo possibile. Nella tematica di Flaiano ha grande spazio Roma. Malgrado non vi sia nato, la sente come la sua città anche se per tanti lati vorrebbe, senza riuscirci, odiarla: «Sono anche stanco di questa Roma terribile che è sempre da riconquistare una volta che ci si ritorna. Sembra di averla amica e invece ti accorgi che non potrai mai afferrarla interamente: ci sono dei lati che ti sfuggono e ti senti eternamente barbaro condannato ad amarla senza sperare nulla… Roma è immensamente bella».


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Storia

ilioni di morti nei gulag. Buttati in quei «tritacarne», in quelle pattumiere fondate sull’umiliazione dell’uomo, sulla sua scomparsa e quando diciamo scomparsa usiamo questa parola in senso assoluto: di loro non rimane una frase, un nome, figurarsi una tomba. Ma che importa poi il numero delle vittime? La domanda non intende sfiorare il sarcasmo contabile, è solo l’occasione per citare una delle frasi più feroci, ed eticamente abominevoli, attribuita a Stalin: «Quando si taglia il bosco le schegge saltano». Fuori dell’allegoria montanara e contadina, il minimo residuo della carneficina non deve entrare nella Storia, non ne ha il diritto. Vite falciate dalla tagliola grande del socialismo reale. E questo è coerente con la fantasia politicamente lugubre che disegnava giorno dopo giorno una società totalmente carceraria.

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Ha un nome buffo l’ultimo lembo di terra prima del Mar Bianco: Popov Ostrov. È a 160 chilometri sotto il circolo polare artico, 700 da Leningrado, 1200 da Mosca. Siderale la distanza che lo separa dalla terra chiamata civiltà. O, più semplicemente, dal concetto di umanità. Popov Ostrov era il centro di smistamento per le anime, già mute e consunte, che il potere bolscevico aveva deciso di scaraventare nelle isole Solovki perché lavorassero e morissero. Dal 1923 al 1939 ben 850 mila esistenze sono finite nella tortura, nel fango, nel gelo. Ingoiate dal silenzio. Anno 1926, un finlandese di nome Boris rimane nel gulag poche settimane. E riferirà: «L’orrore delle Solovki consiste nel fatto che nessun detenuto è mai sicuro di quello che farà un istante dopo». L’ingegnere e umanista Pavel Florenskij, definito «il Pascal russo», in un lettera alla figlia Olga parlerà di «epoca tremenda». E L’Epoca tremenda. Voci dal Gulag delle Solovki è il titolo di un libro che deve essere collocato sullo scaffale della memoria, accanto a molti altri della levatura testimoniale come quelli di Primo Levi. L’autore è Maurizio Ciampa, scrittore e studioso. L’editore è Morcelliana (227 pagine, 16,00 euro). Ciampa non si limita a citare fonti e a decifrare documenti. Narra con mano pietosa, dolce e scandalizzata la non-vita di quelle schegge umane. Fin dal viaggio sui treni. O ancora da prima, quando il nome di un uomo o di una donna si posava come una macchiolina d’inchiostro su un foglio protocollare e questo veniva infilato in una busta, immancabilmente gialla, il colore di tutte le burocrazie. Era sufficiente un sospetto, o semplicemente l’appartenenza a un’etnia o a un gruppo sociale (si pensi ai kulaki, i contadini). L’accusa vera aveva il peso del superfluo. Coerente con il marchingegno del terrore è la sadica vita di Alexandr Petrovic Nogtev, primo direttore del campo di concentramento nel 1923. Un pazzo furioso che amava urlare ordini di sterminio. Sovente ripeteva: «Noi abbiamo la nostra legge! Tutte le altre leggi ve le potete scordare». Zelante con la

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ALTRE LETTURE

IL TEMPO PARALLELO DI IOAN COULIANU di Riccardo Paradisi

i sono verità nascoste, o semplicemente dimenticate, che attraversano il tempo rimanendo celate alla coscienza della maggioranza degli uomini, ma vengono comunque tramandate per vie occulte. Una di queste riguarda l’origine del linguaggio umano e il linguaggio stesso della creazione. Attraverso una serie di racconti collegati tra loro, in cui ritornano un misterioso smeraldo e l’ombra di una figura femminile salvifica, Ioan Petru Culianu - il geniale storico delle religioni rumeno, discepolo di Mircea Eliade, assassinato nel 1991 all’Università di Chicago per motivi ancora ignoti disegna nel Rotolo diafano (Elliot edizioni, 238 pagine, 17,50 euro) un ritratto enigmatico e affascinante di alcuni passaggi segreti della storia dell’umanità fino a oggi.

C

Pavel Florenskij e la Shoah delle Solovki Nell’«Epoca tremenda» Maurizio Ciampa narra, con grande levatura testimoniale, la non-vita delle «schegge umane» scaraventate dal potere bolscevico nei gulag dell’arcipelago del Mar Baltico. Tra tutte, spicca la figura dell’umanista russo la cui morte fu resa nota dal Kgb 53 anni dopo di Pier Mario Fasanotti propria psicopatologia, Nogtev firma ordini di esecuzione e spesso è lui, solo lui, che li esegue. È giudice e boia. Prototipo nero dell’homo sovieticus. Ma le vicende politiche sono bizzarre: nel 1938 sarà accusato di terrorismo e di attività controrivoluzionaria. È condannato a sette anni di internamento. Muore scrivendo nella sua casa di Mosca, a 55 anni. Finalmente in silenzio. Alle isole Solovki nasce nel 1926 una sorta di ordinamento che ha come finalità «la rieducazione del prigioniero attraverso il lavoro coatto». Nel monastero delle Solovki c’erano preti. Via i preti. E via anche gli affreschi: un po’ di calce e, sopra, in grande si scrive la sintesi del delirio comunista: «Indicheremo una nuova via alla Terra. Signore del mondo sarà il lavoro». Mentre il nostro Pavel, scendendo dal treno, commenta «Tutto è frantumato», la propaganda sovietica scolpisce sulla carta l’essenza dell’utopia carceraria. C’è, annota Ciampa, un’occulta regia, in questa frase di regime: «…l’attualità, la speranza nel futuro sono i lager». Malattie, sfinimento e persino episodi di cannibalismo. La

sensibilità del prigioniero è anestetizzata. Scrive Florenskij: «Vivo in uno stato di continuo torpore spirituale». Novembre 1935, sono passati 18 mesi dal suo arresto. «La realtà mi sembra un sogno».

C’è un’isola che si chiama Anzer. È un sotto-inferno. Qui gli uomini sono chiamati «sciacalli», vivono nudi, «stipati in fosse sotterranee ricoperte di assi di legno, uno accanto all’altro, per darsi reciprocamente calore. Chi esce dalla catasta finisce congelato». Ciampa osserva che tra i vivi e i morti s’è azzerata la distanza. C’è «confidenza» tra i sopravvissuti e i cadaveri, anche perché chiunque «si sente un cadavere in potenza». Uomini che lavorano e trottano come cavalli, e come cavalli, osserverà qualcuno, sbuffano aria dalle narici. Obiettivo raggiunto: l’uomo è animale. Sognare, per tutti i sovietici, è diventata un’attività clandestina. Scende sulla terra gelata della Russia una logica assurda: «Alle Solovki bisogna morire se si vuole restare vivi». Ciampa descrive la deriva emozionale e sensoriale del detenuto. L’accanimento dei guardiani della Rivoluzione d’Ottobre colpisce anche i familiari dei «sovversivi». Formulare domande sui propri cari internati è un’ingenuità che oscilla fra tragedia e umorismo. Anna, la moglie di Pavel Florenskij, morirà nel 1973 a 84 anni senza aver mai saputo nulla. Accade qualcosa di grottesco quando un giorno la donna avanza la richiesta di grazia per il marito. Nessuno le rivela che è morto da anni. Solo nel 1990 il Kgb informerà la famiglia che Pavel è stato fucilato in una notte del 1937. Sono passati 53 anni.

UMBRIA ROSSA, RADICI DI UNA CRISI *****

e non fosse stato per l’insipienza del centrodestra in Umbria stavolta l’opposizione avrebbe potuto almeno impensierire il sessantennale potere rosso che governa la regione. Un potere talmente pervasivo e privo di alternanza, una specie di regime. Un sistema quello umbro però che con la crisi del Pd - scandali politico finanziari, risse interne, calo del consenso - ha mostrato le prime crepe. Umbria rossa. Ascesa e crisi (19452010) è il titolo del numero speciale della rivista umbra Diomede dove si mette a tema l’analisi della degenerazione di un potere che, come scrive nel suo saggio introduttivo Gabriella Mecucci, è a un bivio pericoloso. Il volume contiene oltre a saggi sulla storia della regione anche interviste a protagonisti e attori della politica e della cultura umbra: da Potenza a Radi, da Stramaccioni a Zaganelli.

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AVEVO UN CAMERATA... L’ULTIMO ATTO DI ACCAME *****

a Pericle a Ezra Pound, dalla Divina Commedia a Martinetti, da Gentile a Céline, insomma una storia delle idee del XX secolo politicamente scorretta. La morte dei fascisti (Mursia, 339 pagine, 19,00 euro) è il libro-testamento di Giano Accame dove lo scrittore recentemente scomparso passa in rassegna il rapporto culturale e simbolico del fascismo con la morte. Un rapporto che la moderna società liberale ha rimosso tentando di esorcizzare la morte con la tecnica e la scienza. Attraverso la letteratura, la filosofia e gli eventi storici questo saggio a cui Accame ha lavorato fino all’ultimo giorno della sua vita, analizza il valore della morte, per riscoprirne la concezione naturale e antindividualistica che sempre ha avuto: «Si muore sempre a qualcuno» diceva Gentile, poco prima d’essere assassinato.

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he sarà mai questo David Letterman Show, trasmesso in prima serata da Sky e più volte replicato durante la giornata? Me lo ha segnalato mio figlio quindicenne, ed è stata la prima cosa che mi ha incuriosito. Anche perché ha aggiunto che molti suoi coetanei lo ritengono interessante e spiritoso. Ho cominciato a vederlo (è in inglese, con sottotitoli in italiano) apprezzando immediatamente l’effetto disintossicazione. In questo senso: abituato ai talk show italiani, da Costanzo a Chiambretti (prodotti logoratissimi entrambi), ho avuto l’immediata sensazione del rilassamento, dell’umorismo rapido, poco malizioso, forse un po’ da ragazzoni americani ma, come dire?, una cosa fresca e spontanea. E soprattutto mi ha catturato l’assenza dell’ammiccamento sboccato, noiosamente e ossessivamente genitale. Certe battute, direttamente collegate a vicende televisive o politiche tipicamente americane, mi hanno solo sfiorato. In ogni caso il lettore medio di giornali italiano afferra il senso per l’ottanta per cento.

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Letterman è un sessantenne in giacca e cravatta che sa fare (sobriamente) anche il comico senza l’ansia di esserlo o volerlo apparire a tutti i costi. Passato alle cronache, l’ottobre scorso, per aver reagito a un ricatto confessando pubblicamente nel suo show di avere avuto relazioni sessuali con collaboratrici del suo staff (e gli americani, si sa, prediligono la sincerità), ha tuttavia l’aria di una specie di zio simpatico e arguto che prende la vita come viene e ci scherza su, tra surrealismo e sarcasmo. Una mimica facciale appena accennata e la padronanza del palcoscenico fanno il resto. Il programma inizia con un suo breve monologo. Il ritmo e la marca umoristica ricordano un po’ Woody Allen. Più di una volta ricorda la riforma sanitaria voluta dal presidente Obama e dice che gli americani fino a oggi si sono intestarditi nel voler pagare astronomiche parcelle ai medici. Entra in scena un tizio e gli chiede di autografare la radiografia del suo colon. Poi dà notizia che la prosperosissima Pamela Anderson partecipa a Ballando sotto le stelle: impresa non da poco visto che non riesce a vedere i propri piedi. Risate del pubblico, anche se la battutella è datata, a tal punto che veniva usata anche parlando di Marilyn Monroe. È arrivata la primavera, annuncia Letterman, e tutti se ne possono accorgere perché i ladri d’auto entrano dal tettuccio apribile. Il golfista sessuomane Tiger Woods ha deciso di partecipare alle competizioni: un modo per star fuori di casa almeno per un pomeriggio, e lontano dal rancore della moglie. Con un ospite, un attore non noto agli italiani, parla di figli. Rilassatissimi entrambi, scambio di sferzate su come crescere i maschi e le femmine. Sullo schermo grande compare l’ultima nata dell’attore assieme alla mamma, e lui: vede, mister Letteramn, volevo fare il carino con mia moglie e poi è finita così. È la volta infine del cantante Michael Bublé, dalla voce che somiglia a quella di Frank Sinatra. Chissà quante volte avrebbero insistito su questo punto gli showmen ita-

MobyDICK

Televisione

video DVD

Disintossicarsi con David

Letterman

Piace anche ai quindicenni lo show della Cbs trasmesso da Sky. Umorismo rapido, poco malizioso, spontaneo. Molto diverso dagli ormai logorati talk show di casa nostra. E il bravo conduttore, nonostante le ammissioni di “colpe” sessuali, mantiene l’aria da vecchio zio simpatico

IL FASCINO DISCRETO DI UGO PIRRO n anticipo ma non troppo, perché altrimenti non vi capiscono». Ugo Pirro ammoniva così gli allievi sceneggiatori che desideravano stupire tutti grazie a copioni innovativi. Romanziere, articolista, autore di script che hanno punteggiato la storia del cinema italiano (da Il giorno della civetta di Damiano Damiani a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri), il poligrafo salernitano rivive in Soltanto un nome nei titoli di testa, bel documentario di Daniele Di Biasio. Attività filmica e biografia si intrecciano in un gioco d’incastri che conferma Pirro come acuto interprete dei mutamenti insorti nel secondo Novecento italiano. Un autore che ha scolpito in silenzio parte del nostro immaginario.

«I

GAMES

CAPITANO NEMO VA ALLA GUERRA hi non ha dimenticato il Nautilus di Capitano Nemo, avrà di che gioire per la prossima uscita (prevista l’11 giugno) di Naval Assaults, arcade di azione che ripercorre le battaglie sottomarine tra gli Stati Uniti e le forze dell’Asse durante la seconda guerra mondiale. Nelle turbinose acque del Pacifico del Nord, alla guida di un sommergibile americano, il giocatore è impegnato in trenta missioni che richiedono di volta in volta l’assalto o la prudenza, l’impiego del sonar o l’elaborazione di una strategia dalla tempistica perfetta. E poi abilità nell’uso delle armi, la giusta destrezza nello schivare le mine e un accorto impiego delle intercettazioni in campo nemico. Grafica di pregio e buona accuratezza storica.

C

liani, magari fino a lambire una non esistente vocalità psicoanalitica. Bublé ha l’aria del giovanotto perbene che si mostra divertito di essere su quel palcoscenico. È in mezzo a una tournée che lo porta in ben 42 paesi per un totale di 300 concerti. La prossima tappa?, gli chiede l’ospite. Risposta: non ne sono sicuro, credo Cincinnati. Poi ci ripensa: no, devo andare a Denver, in Colorado. Buona notizia, pessima per Cincinnati, replica sorridente Letterman. Un tour de force canoro, non c’è che dire. La nuova voice americana spiega che dietro le quinte si comporta come un atleta: «Una volta ero abituato a bere un whisky e a fumare una sigaretta dopo ogni concerto, ma con questo ritmo ne devo fare a meno, quindi è una noia mortale. Letterman: più che un cantante lei mi sembra un uomo sequestrato. E ancora: ma chi glielo fa fare? Come mai tanta fatica? Risposta: so che è pazzesco, ma mi servono i soldi.

In uno dei monologhi, Letterman riprende il tema a lui più caro: New York, un mondo a parte. Racconta di aver attraversato Central Park e di aver visto, su una panchina, una vecchietta intenta a dare da mangiare ai piccioni. Dopo una brevissima pausa: e poi dava da mangiare i piccioni al suo pittbull. Notizia di cronaca: gli States sono impegnati a fare il censimento, ognuno deve dichiarare il numero dei componenti della famiglia. Un bel lavoro per Angelina Jolie che ora passa il suo tempo con un cercapersone. Tempo di tasse. Il mio commercialista, dice Letterman, nei tempi morti gioca a Guitar Hero nel suo studio. È una categoria professionale «stagionale», quella. E quando mi telefona, la prima cosa che mi chiede è questa: lei è seduto in questo momento? Ingenuità, risate forse da teatrino di vecchia provincia italiana. Certo. Ma è (p.m.f.) un modo per disintossicarsi.

WEB

STROMBOLI E POZZUOLI, MERAVIGLIE IN UN CLIC ssaporare in diretta la vista dei maggiori spettacoli naturali del Pianeta, monitorare le aree a rischio, o semplicemente scrutare le condizioni meteorologiche in vista di una gita fuoriporta. È questo il concept alla base di swisseduc.ch, piattaforma web che integra numerosi progetti internazionali, tra cui quello italiano di Stromboli on line. Utile per sismografi, geologi e studiosi di scienze naturali, quanto per studenti e turisti, il progetto si avvale di un fitto numero di webcam dislocate intorno alle aree più suggestive della Terra. Per quanto riguarda la Penisola, merita senz’altro un clic lo scorcio del Golfo di Pozzuoli. Fortemente consigliato un collegamento al tramonto.

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di Francesco Lo Dico


MobyDICK

poesia

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Thovez: per un pugno di versi di Francesco Napoli è un particolare momento della nostra storia letteraria fatta di mutazioni estreme, clamorose o segrete, che è il primo decennio del Novecento, quando ormai sopraggiunge il tramonto del XIX e inizia l’alba del XX secolo. Letture per lo più pigre hanno spesso confinato nella gabbia degli imputati autori che meglio sarebbero stati sul banco dei testimoni oculari del delicatissimo passaggio riconducibile a una sorta di protonovecento. Tra questi credo che Enrico Thovez (Torino, 1869-1925) meriti una più accorta revisione prospettica. Figlio di un ingegnere di origine savoiarda, Cesare, e di Maria Angela Berlinguer, «sarda, di famiglia oriunda spagnola, venuta dalla Catalogna nella fine del Seicento e da questa parte mi viene l’amore della poesia», fu iscritto alle scuole tecniche e poi alla facoltà di scienze nel 1886, una scelta che presto si rivelò decisamente erronea. Infatti, prese a studiare latino e greco e, conseguita la licenza liceale, frequentò la facoltà di lettere dove si laureò in storia dell’arte greca.

C’

dieci volte più larga della loro e che io mi sento a mio agio nella pittura e nella scultura e nella musica tanto quanto nella poesia, dove si degnerebbero di concedermi dell’autorevolezza, che io ho dieci volte più conoscenza della natura umana e più buon senso delle questioni di loro, che io sono più serio, più preciso e che ho una forza d’idealità, un culto della bellezza che si rivela anche nella vita comune, nelle mie parole, nella mia condotta, nei miei amori». Dal 1896 Enrico Thovez si dedica alla risistemazione del suo lavoro poetico in vista di un’eventuale pubblicazione. Poi, una volta decisa la partizione dei testi, a marzo del 1900 non sa ancora chi glieli pubblicherà, almeno per quanto si sa dalle preziose pagine del suo corposo diario pubblicato postumo nel 1939 e mai più rivisto in libreria, dove è assente anche la sua poesia. Sarà lo stesso editore di Guido Gozzano, il torinese Streglio, ad accogliere nel 1901 Il poema dell’adolescenza che venne ristampato più volte e con interventi nell’ultima edizione in vita l’autore del 1924. Apparsa la raccolta, Thovez se ne rallegra avendo temuto «per tanti anni di morire prima di vederlo stampato», commento in linea con certe estenuazioni di quel crepuscolarismo che pure non gli appartiene affatto, chiosando ancora e sullo stesso tono: «Ho dedicato tutta la mia vita alla poesia. Le ho sacrificato tutto: la salute, la prosperità, l’amore, la gioia, il piacere. Di tutta la mia vita mi resta questo pugno di versi».

Il suo avvento sulla scena letteraria italiana è clamoroso. Inizia a collaborare con diverse testate e nel 1895 pubblica sulla torinese Gazzetta Letteraria un articolo dove denuncia i plagi di D’Annunzio tratti dai poeti francesi del tardosimbolismo allora poco conosciuti in Italia. L’intervento molto critico s’innesta su una più ampia polemica che la pubblicistica dell’epoca stava montando sul Vate. La sua vis ebbe più tardi conferma nel saggio, anche questo suscitò un certo scalpore, Il pastore, il gregge e la zampogna del 1910. Il poeta vi analizza il linguaggio della poesia italiana, per la quale salva solo Dante e Leopardi, e prende posizione contro gli imitatori tanto del Carducci quanto del ben poRevisione co stimato D’Annunzio. Il libro, accolto prospettica di un con scandalo, fu ai tempi giudicato coautore celebre me lo sfogo di un poeta deluso dall’insuccesso della propria poesia, e poi prepiù per la sua sto emarginato, mentre in realtà è alopposizione quanto godibile per la prosa viva, chiara e ironica che meriterebbe oggi miglior a D’Annunzio fortuna come l’avrebbe meritata ancor che per la sua più allora, al tempo dell’imperante cropoetica attinta cianesimo. Dalla lettura del suo Diario però emerge un’enorme autostima a paalla limpidezza ragone con i colleghi critici e artisti: dei greci «Non posso nascondermi che ho la testa

il club di calliope

Il saggio polemico ricordato poc’anzi mette in chiaro la poetica di Enrico Thovez che, in nome di un robusto classicismo di stampo romantico alla Heine, si fonda su una poesia permeata di «verità» e che deve perseguire «la storia di un’anima nuova nelle sue relazioni con la vita e con la natura», in anticipo su alcune posizioni dei vociani che condividono a loro volta lo stesso antidannunzianesimo. Inoltre, insieme ad atteggiamenti di tipo moralistico, «permangono nel Thovez quegli stati di tensione psicologica, di pena nervosa e ossessiva, di incubi e vertigini voluttuose, retaggio della lettura di Heine» (Petrocchi). Il poema dell’adolescenza si apre con un testo del 1894, coevo a certe soluzioni poetiche di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, altra figura del fervido protonovecento italiano, Grido di liberazione in un mattino di primavera, poemetto in

GRIDO DI LIBERAZIONE IN UN MATTINO DI PRIMAVERA

I Oh, un canto, un inno più vasto! Più vasto e libero e forte! Un ampio canto che accolga Questo divino tumulto! Le vostre strofe mi soffocano; l’anima mia si divincola fuor dei legami nel sole! Splendimi, o sole, nel cuore! Oh, non mi uccida la gioia: oggi, percosso di luce, io getto un grido nel tempo: fondo in più libere forme le cose eterne e il mio palpito che le rinnova negli anni! (…) Enrico Thovez da Il poema dell’adolescenza

quattro parti, del quale riportiamo il primo, in esametri barbari distanti dalle soluzioni carducciane, che esplicita sin dal titolo il proposito di un «inno di libertà»: «Voglio esser semplice e grande/ come la stessa natura», dice, ma poi la raccolta prosegue e si chiude con la presenza massiccia di un evanescente «fantasma» e si organizza in quattro capitoli la cui denominazione denota forti e sintomatici accenti neospiritualisti: «Ombre di morte», «Ombre di sogni», «Vertigini», «Aneliti». Quel «grido» del titolo del componimento d’apertura ritorna ben nove volte nel corso del Poema, quasi a voler indicare i passaggi più intensi del dettato poetico di Thovez e va anche rammentato che al «grido» rivolse particolare attenzione la poetica dell’Espressionismo. La presa di posizione del poeta torinese si colloca dunque in una stagione di crisi e di fermenti nella quale tenta a modo suo un rinnovamento attraverso la grande tradizione della «poesia perenne», attinta alla limpidezza dei greci e di Leopardi e proiettata con slancio attraverso il futuro prossimo venturo del pieno Novecento.

AMELIA ROSSELLI E BIGONGIARI RITROVATI in libreria

DAMMI IL FUOCO DELL’ALTRA VERITÀ Dammi, dammi un amore che obblighi al silenzio, che abbia ossigeno e ventate secondo l’uso del corpo e della mente, che possa entrare dalla cuna celeste al ritmo veloce del fuoco. Dammi il fuoco dell’altra verità - aggiungi aggiungi e più riceverai! Venga tutta la verità benedetta degli astri essenziali, degli atomi radianti risana cellule e radici in questa legge mortale. Giovanna Sicari

di Loretto Rafanelli ell’Almanacco dello Specchio 2009 (Mondadori, 280 pagine, 16,00 euro), a cura di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi, ci sono, come al solito, importanti contributi: i versi di grandi poeti di questi anni, tra cui Giovanni Orelli, Milo de Angelis e Umberto Piersanti; un’antologia al femminile con 12 voci, in particolare Maria Attanasio, Anna Buoninsegni e Gabriela Fantato; le poesie dell’ungherese Miklós Radnóti, dell’irlandese Patrick Kavanagh, dell’argentino Arturo Carrera, del canadese Serge Patrice Thibodeau e dell’iracheno Kadhim Jihad Hassan; un’intervista a Franco Branciaroli su poesia e teatro. Infine due presenze che fanno di questo Almanacco un’occasione da non perdere: cinque poesie disperse di Amelia Rosselli e 21 poesie di Piero Bigongiari, casualmente ritrovate in una cassa presso un libraio milanese, assieme a carte autografe risalenti agli anni Trenta-Cinquanta. Il poeta ermetico fiorentino, tra i più grandi del Novecento, ci emoziona ancora una volta con i suoi versi raffinati, dolenti e profondi.

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ai confini della realtà

L’etrusco?

Assomiglia all’ungherese di Emilio Spedicato bbiamo osservato in una precedente rubrica che oggi esistono, secondo le ultime stime, circa 7000 lingue parlate. Ogni tanto se ne trovano di nuove, come recentemente avvenuto nelle remote regioni della Cina presso il Tibet, ma molte scompaiono senza essere state completamente documentate. E fra le lingue che scompaiono ce ne sono certamente alcune di complessità e ricchezza di parole non inferiore alle lingue più note. Quante lingue fossero parlate ai tempi, diciamo di Augusto, circa duemila anni fa, o di Abramo, circa quattromila anni fa, nessuno ovviamente lo sa. Forse più di oggi, dato che il numero di lingue è indipendente dal numero totale di abitanti della terra, ma dipende dalla loro distribuzione e dal loro isolamento. Eppure non è impossibile che all’origine della presente varietà di lingue ci sia stata addirittura una sola lingua.

A

Senza scomodare la tesi biblica della moltiplicazione delle lingue dopo il crollo della Torre di Babele (un evento che se storico sarebbe da collocare nel Terzo millennio avanti Cristo), sono ormai decenni che studiosi sia sovietici che americani (della scuola di Joseph Greenberg, professore alla Stanford University, scomparso da pochi anni) sono riusciti a classificare le lingue entro famiglie (slave, latine…), superfamiglie (indoeuropeo, na-dene…) e macrofamiglie (afroasiatico…), ipotizzando una unica lingua all’origine. E addirittura sono riusciti a proporre la struttura grammatico-sintattica di base di questa lingua e le radici di varie parole. Una tesi non accettata da tutti i linguisti, ma che ha forti paralleli con quella del grande genetista Luigi Luca Cavalli Sforza, professore di Pavia emigrato a Stanford, sull’origine dell’homo sapiens essenzialmente da una singola coppia, in Africa, circa 200 mila anni fa… Del tempo di Augusto conosciamo varie lingue ora morte ma ben documentate in scritti, come latino, greco classico,

Grazie al glottologo Mario Alinei che l’ha decifrato, si sa che appartiene al gruppo ungro-finnico. Ma sono ormai numerose le lingue morte conosciute in seguito a scoperte che hanno reso possibili nuovi studi. Ebla è un caso emblematico, ma anche i nuovi scavi nella regione del Bam promettono molto sanscrito… Il misterioso etrusco, dopo secoli di sforzi, sembra ormai decifrato grazie al lungo lavoro compiuto da Mario Alinei, uno dei massimi linguisti e filologi del Novecento, specialista dell’indoeuropeo e presidente

della società europea di dialettologia, e ancora attivo pur avendo superato gli ottant’anni da parecchio.

Alinei, che ho avuto l’onore di conoscere nella sua casa trecentesca vicino a Firenze, dove continua a lavorare dopo essere stato professore in Olanda, ha individuato l’etrusco come una forma arcaica di ungherese, quindi di una lingua del gruppo ugro-finnico. Ho scoperto il suo lavoro, ancora ampiamente e vergognosamente ignorato in Italia, tramite una matematica ungherese che, avendone letta la traduzione in ungherese fatta da Melinda Tamas-Tarr, chiese la mia opinione. Ho trovato, per quanto posso giudicare, il libro di Alinei non solo opera di uno studioso di altissimo livello, ma altamente convincente. E i suoi risultati sono stati fondamentali nel fare avanzare certe mie ricerche riguardanti temi biblici, e

non solo. Passando a tempi più antichi di quelli di Augusto, sono anche qui sono note numerose lingue, come egizio antico, sumero, accadico, pahlavi, pali, lineare B (aperta è la questione del lineare A, dove sono state fatte decine di proposte) e numerose lingue semitiche, divise in vari gruppi, dal sud semitico dello Yemen al nord semitico di Mari, città sull’Eufrate. Le lingue note parlate al tempo di Abramo in Mesopotamia e in Arabia sono almeno una ventina, e l’Italia vanta nello studioso D’Agostino uno dei maggiori esperti mondiali. Qui dobbiamo citare la missione archeologica italiana guidata da Paolo Matthiae, che, una quarantina di anni fa, scoprì in Siria la città di Ebla, citata nella Bibbia, ma sulla cui esistenza molti dubitavano, senza avere neppure idea di dove potesse essere. Gli scavi rivelarono una biblioteca di migliaia di tavolette cuneiformi, la più grande mai trovata. Fu chiamato per leggere tali tavolette, che erano scritte con caratteri noti ma in lingua sconosciuta, il sumerologo Giovanni Pettinato, fresco di studi a Heidelberg, luogo di massimi esperti in questo campo. Pettinato, dopo non meno di sei mesi di lavoro complesso e difficile, riuscì a decifrare lo scritto, come una nuova lingua del gruppo nord semitico. E si è quindi schiusa una grande porta sulla civiltà di allora, dove Ebla era grande centro culturale e commerciale. Notando che nella regione mesopotamica esistono migliaia di tell - cumuli prodotti dalle rovine di una città antica - non ancora scavati, e che solo una piccolissima parte del materiale scavato è stato letto e studiato, è chiaro che molto ancora potremo apprendere circa quella civiltà. E qui tacciamo sulle centinaia di tell mai esplorati esistenti nella regione araba dell’Asir, la terra di Canaan secondo quanto sostenuto in tre monografie dello storico libanese-cristiano Kamal Salibi. Ma intanto, crollata l’Unione Sovietica, si è aperta all’archeologia la vasta regione detta Bam, Bactriana-Margiana, a nord di Iran e Afghanistan. Qui c’è evidenza di tante e anche enormi città anche del Terzo millennio a.C., e di almeno una nuova scrittura da decifrare…


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’IMMAGINE

Ripristino immediato delle tariffe agevolate per l’editoria libraria Sono profondamente indignato per un provvedimento improvviso, non annunciato e che per la sua applicazione immediata sconvolge tutte le pianificazioni commerciali del mondo dell’editoria libraria. Ho letto nella Gazzetta Ufficiale del decreto che abolisce da un giorno all’altro le tariffe agevolate postali per tutta l’editoria libraria, quotidiana e periodica. Al di là del merito e delle ragioni dell’iniziativa, sono allibito del fatto che in nessuna occasione né Poste, né gli organi istituzionali competenti ci abbiano dato la minima indicazione di una decisione imminente e sconvolgente per il nostro settore. Le ricadute saranno pesanti non solo in termini economici per la vita delle case editrici, ma anche per la cultura e l’informazione del Paese: il canale postale è infatti uno strumento fondamentale di diffusione dei libri, soprattutto in quelle zone d’Italia non servite da librerie. Risulta quindi indispensabile un ripristino immediato delle tariffe agevolate e un’apertura del dialogo per l’individuazione di soluzioni sostenibili per tutti i settori interessati.

Marco Polillo, presidente dell’Associazione italiana editori (Aie)

RU486. SI VUOL TORNARE AL REATO CONTRO LA STIRPE?

LE VERITÀ NASCOSTE

È ormai evidente che il fiume di discussione e prese di posizione sulla pillola abortiva Ru486 non è contro l’introduzione di questo sistema meno intrusivo per interrompere una gravidanza non desiderata, ma solo un pretesto per rispolverare un problema non risolto e che non potrà mai esserlo in modo uniforme nelle coscienze di ognuno: la legalizzazione dell’aborto. Logica vorrebbe che in una società e in uno Stato non confessionale, la legge dovrebbe consentire ad ognuno di rispettare il proprio pensiero senza imporlo ad altri. Ma questa logica non appartiene al nostro sistema politico, a partire dall’art.7 della Costituzione che privilegia costituzionalmente il rapporto con la Chiesa vaticana, cioè non un accordo con una confessione religiosa, ma la presenza in Costituzione... tutt’altra cosa e tutt’altra impostazione rispetto alla libertà religiosa. Sulla Ru486 se ne stanno sentendo di tutti i colori, con in testa i “novelli ginecologi” che guidano le regioni Piemonte e Veneto, e che sembra intendano amministrare una questione sanitaria a mo’ di questione politica. E che l’obiettivo sia l’aborto in sé e non il metodo farmacologico per provocarlo, è palese: chi si opporrebbe, con argomentazioni logiche e umane, ad interventi sanitari meno invasivi, meno dolorosi? Nessuno. Ma nel nostro caso i “nessuno”si stanno inventando l’ininventabile pur di non dire che il loro obiettivo è l’abrogazione del diritto ad abortire. Una domanda è dovuta in questo gioco al massacro di istituzioni, logica e buon senso: prima dell’approvazione dell’attuale legge sull’aborto (la 194/78) le interruzioni di gravidanza venivano punite dal codice penale come delitto contro la stirpe, si vuole tornare a questo? Si levino i pretesti e si proceda in questo senso: le

NY, i prezzi li decide la Borsa

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

NEW YORK. Quanto costa una pinta di birra? Lasciamo che, nel miglior spirito dei tempi, sia la Borsa a deciderlo. È la politica scelta dall’Exchange Bar & Grill, nuovo ristorante che dal primo aprile ha aperto i battenti nella ristretta cerchia di Manhattan. I prezzi di questo locale, all’avanguardia anche per quanto riguarda l’arredamento, scorrono infatti su un nastro telematico sopra il bancone. La peculiarità è che questi cambiano rispetto alle quotazioni azionarie che le società produttrici affrontano sul libero mercato. Ed ecco quindi che un bicchiere di Guinness parte dal prezzo base di 6 dollari, ma può fluttuare di ben 2 dollari nel giro di un’ora. Ovviamente, il flusso può essere verso l’alto o verso il basso. I gestori si sono resi conto da soli che, però, sarebbe impossibile seguire gli indici con regolarità e hanno scelto un’alternativa: la Borsa casalinga. All’apertura e alla chiusura del locale, il prezzo lo decide il mercato azionario “regolare”. Ma nel corso della serata sono le ordinazioni a regolare i flussi di prezzo: se tutti bevono Guinness, questa aumenterà in maniera proporzionale, facendo però nel contempo calare la valutazione delle altre marche presenti nel menu. E che vinca il più scaltro fra i clienti.

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

Gioconda da record Calpestare l’enigmatico faccione di Monna Lisa? Da oggi si può! Ma solo al centro commerciale Eagles Meadow di Wrexham, in Galles, sul cui pavimento è stata realizzata una riproduzione extralarge: 240 metri quadrati (50 volte tanto l’originale), realizzati da 245 volontari, che insieme hanno utilizzato ben 86 litri di colore acrilico

maggioranze parlamentari e, caso mai, i referendum abrogativi, ci sono anche per questo. Chi la pensa così, faccia la sua mobilitazione contro il diritto ad abortire, chiamando la questione con un preciso nome e cognome, e ci risparmi di continuare ad ascoltare le idiozie di questi giorni; idiozie che pronunciate da importanti rappresentanti istituzionali credo abbiano solo un effetto: la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni e i loro rappresentanti.

Vincenzo Donvito

DROGA. STUDIO: DIVIETI E SANZIONI LEGATI AD AUMENTO VIOLENZA E CRIMINALITÀ Il proibizionismo sulle droghe e leggi sempre più severe riducono la violenza? No, anzi la fanno aumentare. Questa la conclusione di uno studio del Bc centre for excellence in Hiv/Aids in cui si è stata esaminata tutta la letteratura scientifica in inglese sull’argomento. Contrariamente a quanto spesso si sente dire, scrivono i ricercatori, le leggi proibizioniste sulle droghe non riducono la violenza e il crimine. Anzi, queste leggi sono associate ad un aumento dei livelli di violenza nel mercato nero delle droghe. La dilagante violenza legata alla droga in Paesi come il Messico e gli Usa, come anche i livelli di reati commessi con armi da fuoco in Canada, appaiono imputabili al proibizionismo. La proibizione fa aumentare in modo stratosferico il valore

Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci,

Direttore da Washington Michael Novak

Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Collaboratori

Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci,

Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati,

Roberto Mussapi, Francesco Napoli,

Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti,

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

Mario Arpino, Bruno Babando,

Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi,

Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi,

Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci,

Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi,

Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi,

John R. Bolton, Mauro Canali,

Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini,

Franco Cardini, Carlo G. Cereti,

Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli,

Enrico Cisnetto, Claudia Conforti,

Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi,

economico di queste sostanze, creando di fatto un mercato lucroso sfruttato dal crimine organizzato. Qualsiasi disturbo di questi mercati da parte delle forze dell’ordine e dell’autorità giudiziaria, sembra avere l’effetto perverso di creare opportunità finanziarie per le organizzazioni criminali. Di conseguenza aumenta la violenza. Lo studio spiega che la proibizione delle droghe ha creato un enorme mercato illegale globale dal valore annuale stimato di 320 miliardi di dollari. La violenza potrebbe in parte attribuirsi anche alla lotta per il potere interna alle organizzazioni criminali, ogni volta che un boss viene arrestato. Con i metodi sempre più sofisticati messi in campo dalle forze dell’ordine, è probabile un ulteriore aumento della violenza criminale. Gli studiosi, sulla base dei dati, mettono in guardia su una proposta del governo canadese di inasprire le sentenze per reati di droga. In un’era di politiche basate sull’evidenza, è sorprendente che il governo federale proponga interventi costosi, senza alcuna discussione sui costi o sul possibile impatto sul crimine. Questo studio dimostra molto chiaramente che questi interventi faranno aumentare il carico fiscale sui cittadini senza produrre una riduzione nel crimine. Infatti potrebbero produrre un aumento della violenza nelle nostre comunità.

Pietro Yates Moretti

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mondo

pagina 24 • 10 aprile 2010

Geopolitica. Concluso a Parigi l’accordo strategico tra il presidente Sarkozy e il premier Silvio Berlusconi

Nucleare, l’Italia dice “oui” Aziende transalpine pronte a investire nella Penisola: siglati undici accordi di Alessandro D’Amato

ROMA. Politica e affari. L’incontro tra Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkozy ha avuto al centro due temi in particolare, le riforme e il nucleare. E nella conferenza stampa che è seguita al colloquio, il premier, pur facendo sapere che gli accordi firmati tra i due Paesi sono stati una ventina (sia a livello intergovernativo che tra le imprese dei due Paesi soprattutto nel settore del nucleare e dell’energia), ha concentrato l’attenzione sul sistema presidenzialista alla francese, che potrebbe costituire, emendato dal doppio turno, l’ideale anche per l’Italia. «Prendiamo a modello il vostro sistema – ha detto Berlusconi rivolgendosi in tono amichevole e scherzoso a Sarkozy – quindi se ci sono controindicazioni fatecelo sapere subito». Il presidente del Consiglio ha voluto ricordare davanti ai cronisti italiani e francesi che l’attuale sistema costituzionale è «nato dopo vent’anni di regime fascista» e per questo, ha evidenziato, i padri costituenti vollero un sistema soprattutto assembleare che non prevedesse un esecutivo troppo forte. «Ma andarono un po’ troppo in là – ha aggiunto –, perché diedero tutto il potere alle assemblee e nessuno o quasi all’esecutivo. Per questo ora prendiamo ad esempio il semipresidenzialismo francese anche se non in tutto», ha concluso, riferendosi appunto alla volontà di non riprendere anche il doppio turno preferendo invece l’ipotesi di un’unica elezione contemporanea del Parlamento e del premier. Una valutazione prettamente utilitaristica, dietro la parvenza della semplificazione («Non dobbiamo mandare gli elettori due volte a votare»): con una sola votazione è sufficiente la maggioranza relativa dei votanti, con due ci vuole quella assoluta. Non a caso questa era la proposta di sistema elettorale propugnata dai dalemiani, ed è ritornata in auge in questi giorni con Luciano Violante: il rischio, per il premier, è che con il secondo turno tutte le opposizioni si uniscano contro di lui. Portandolo magari a perdere di un soffio come accaduto nel 2006.

Il premier ha poi accennato alle indiscrezioni sullo stato delle finanze nazionali: «I conti pubblici sono assolutamente in ordine», ha assicurato Berlusconi, che ha smentito «decisamente» l’ipotesi di una manovra correttiva, prendendosela con le “voci”pubblicate sui giornali. Rispetto alla crisi – ha detto – l’Italia è “serena”, stiamo uscendo dalla crisi bene» e il sistema bancario ha retto. La domanda sulla crisi ellenica è toccata a Sarkozy: «La Grecia – ha detto il premier francese – ha adottato provvedimenti coraggiosi, noi abbiamo approvato un piano di sostegno e siamo pronti ad attivarlo in qualsiasi momento, se ciò si rivelerà necessario. Sta alla Grecia, su raccomandazione della Bce e della Commissione europea, decidere se sussistono le condizioni per attivare il piano. L’Europa ha attraversato la crisi finanziaria, ungherese, in Lettonia, ogni volta ha saputo reagire in modo tempestivo e non ci deve essere dubbio che per quanto riguarda la Grecia è così». «Siamo assolutamente d’accordo che, essendo un paese dell’euro, abbiamo il dovere e l’interesse di dare supporto alla Grecia altrimenti avremo conseguenze negative sulla nostra moneta e sul-

la nostra economia», ha chiosato Berlusconi. Chiara e netta la posizione sul nucleare: Sarkozy ha parlato di “storico ritorno” dell’Italia a questa tecnologia per l’approvvigionamento di energia; Berlusconi ha risposto che era una scelta doverosa, ma che adesso si dovrà convincere l’opinione pubblica della sua bontà. Spiegando che l’atomo è sicuro e i rischi di una nuova Chernobyl sono soltanto uno spauracchio.

I due Paesi, ha assicurato Sarkozy, «sono amici e lavoreranno insieme per sviluppare il settore del nucleare civile» e, valutando come «molto forti le

Al via nuove partnership tra Areva, Ansaldo, Enel ed Edf. Nel progetto dell’atomo saranno coinvolte in tutto trenta aziende italiane che lavoreranno insieme in Paesi terzi. Operazioni anche nell’Europa dell’Est

ambizioni italiane», si è detto certo che importanti aziende francesi come Edf e Areva sono pronte a investire in Italia. Secondo il presidente francese, dopo gli impegni assunti lo scorso anno a Roma, «da oggi andremo più lontano». Dove? Intanto, 11 dei 20 accordi firmati oggi riguardano proprio l’atomo, su industria, formazione e sicurezza. In particolare, a Parigi sono stati sottoscritti gli accordi di partnership tra Areva ed Ansaldo ed Enel, Edf ed Ansaldo. Che serviranno a riportare il nucleare in Italia, ma anche, come già stanno facendo una trentina di

aziende italiane, a lavorare insieme (come a Flamanville con l’Ansaldo) in Paesi terzi, come nell’Europa dell’Est dove gli ex monopolisti pubblici lavorano su partnership adeguate. E non è detto che gli accordi non facciano da apripista ad altri, come nel caso della Westinghouse e dell’Ap1000. Su un altro argomento spinoso, quello dei treni, è stato Sarkozy a rompere il ghiaccio: «Non ci sarà una guerra ferroviaria tra Italia e Francia», ha esordito il presidente francese, «c’è un avvicinamento nel settore ferroviario e dei trasporti e sono molto contento per questo. Non vi è spazio per una guerra ferroviaria, tra Francia e Italia vi sarà collaborazione». Sarkozy si è detto «lieto dell’avvicinamento» osservando che un contrasto su questo terreno sarebbe stato “assurdo” nel momento dell’apertura delle frontiere. Gli accordi firmati toccano anche il settore ferroviario, e vanno in direzione di una maggiore liberalizzazione e reciprocità del mercato, con intese anche sulla Torino-Lione. Ma è evidente che non ci sarà alcun pericolo, per lo meno proveniente dai transalpini, per il monopolio di fatto delle Ferrovie in Italia; anche se i nuovi competitor (Montezemolo) hanno soci francesi.

Sulla politica comune europea l’identità del sarkoberlusconismo è nettamente visibile: «Siamo a favore dell’economia di mercato, della libertà


mondo

10 aprile 2010 • pagina 25

Molti gli accordi economici e strategici, poca la sintonia politica

Insieme sulle Alpi, ma ancora fuori dall’asse Una brigata comune italo-francese con 5000 uomini Il polo di attrazione di Parigi, però, rimane Berlino di Enrico Singer l nucleare, certo. Il secondo, decisivo, passo dell’intesa italo-francese per la costruzione nel nostro Paese delle centrali che sfrutteranno l’atomo per la produzione di egergia elettrica è stato il piatto forte del vertice tra Nicolas Sarkozy e Silvio Berlusconi all’Eliseo. Ma tra i quasi venti accordi firmati dai sedici ministri - due per parte - che componevano le delegazioni di questo ventottesimo incontro bilaterale, ce n’è un altro che ha un particolare valore simbolico, oltre che pratico. È l’atto di nascita della brigata comune alpina. Cinquemila uomini, metà Chasseurs des Alpes e metà Alpini, che saranno accasermati a Torino e a Vars, ma che si addestreranno insieme e insieme opereranno nelle zone più impervie di guerra: il loro primo campo di battaglia potrebbe essere l’Afghanistan se, nel 2013, quando la nuova brigata mista sarà operativa, le forze della Nato saranno ancora impegnate laggiù. Ai tempi della «pugnalata alle spalle» del giugno 1940 - l’entrata in guerra dell’Italia fascista che a molti francesi brucia ancora - Alpini e Chasseurs des Alpes si sono combattuti tra i nevai del Monginevro e del San Bernardo. Adesso, finalmente, formeranno delle unità comuni. Proprio come i francesi hanno fatto con i tedeschi già nel 1991 quando crearono la brigata francotedesca di stanza a Müllheim.

I

degli scambi, ma non possiamo essere ingenui. Italia e Francia rifiutano l’ingenuità», ha affermato ancora Sarkozy aggiungendo: «non possiamo imporre ai nostri agricoltori regole sulla tracciabilità dei loro prodotti quando altri Paesi non lo fanno». Insomma, ha

Le intese firmate toccano anche il settore ferroviario, e vanno in direzione di una maggiore liberalizzazione e reciprocità del mercato, con intese anche sulla Torino-Lione continuato il capo dell’Eliseo nel corso della conferenza stampa congiunta con Berlusconi «il protezionismo è il peggiore dei mali ma la concorrenza sleale e l’ingenuità sono ancora peggio». Sempre sul tema, alcuni accordi firmati riguardavano partnership nella sicurezza satellitare e nella sorveglianza, con Finmeccanica in prima linea. E mentre Sarkozy ha glissato sulle domande riguardanti i rapporti con la stampa – e stranamente a Silvio non è stata posta una domanda simile – di un altro

argomento non si è parlato in conferenza stampa ma sicuramente nei colloqui privati: l’intervista di Antoine Bernheim su Le Figaro fatta uscire proprio il giorno dell’incontro in cui il finanziere si dichiara insoddisfatto della decisione di estrometterlo dalla presidenza delle Generali.

Nel finale della conferenza stampa c’è stato invece spazio, per il premier, per l’elogio di Parigi: «Vengo qui sin da ragazzo ed ogni volta che ci torno, mi commuovo. Vi ringrazio per l’accoglienza e ne approfitto per dire che il cielo è sempre il più leggero», ha detto Berlusconi citando la canzone di Charles Trenet, Mes jeu

nes annees, che chiude proprio con la frase «il cielo leggero del mio bel Paese».

tese rifiuto in nome di una politica di difesa condivisa a livello Ue. Ma questa è storia del passato. Oggi, nell’Europa che viaggia a diverse velocità di coesione, il ruolo di apripista guadagna consensi. Non si tratta di rompere la solidarietà europea, quanto di percorrere da subito le strade di cooperazione possibili. «Se l’Europa vuole diventare credibile, deve essere produttrice di sicurezza e non affidarsi soltanto a quella prodotta dagli Stati Uniti», ha detto Frattini.

Segnali in codice lanciati a Parigi e a Berlino per manifestare l’intenzione italiana di entrare in quell’asse che, pur tra alti e bassi, governa la Ue? Forse. Di sicuro rimane un rammarico. Tra Italia e Francia, come ha dimostrato anche il vertice di ieri, quando si tratta di stringere accordi economici - e la cooperazione nucleare per Parigi è anche un grosso business - i rapporti sono ottimi. Dopo tante esitazioni, adesso, si è chiuso positivamente anche il capitolo della brigata alpina comune. Tuttavia la sintonia politica tra Parigi e Roma non decolla. Eppure quando nelle tre più im-

Con la Germania una unità militare mista fu creata già nel 1991 e da allora sfila il 14 luglio sugli Champs Elysées. Frattini parla di primo passo della difesa europea

Quegli uomini, che hanno il berretto blù alla francese, ma piegato sull’orecchio destro, alla tedesca, sfilano ogni anno il 14 luglio sugli Champs Elysées a ricordare che la pagina più tragica della storia europea si è chiusa. Fra tre anni alla parata della festa nazionale francese, ci saranno anche gli Alpini della nuova brigata comune che il ministro degli Esteri, Franco Frattini, in un’intervista al Figaro, ha definito «il primo passo verso la creazione di un esercito europeo», vecchio pallino franco-tedesco più che italiano, tanto che nel 1992 - quando Parigi e Berlino invitarono il governo di Giuliano Amato ad unirsi alla loro iniziativa della brigata comune - da Roma arrivò un cor-

portanti capitali d’Europa si sono insediati governi che appartengono tutti alla stessa famiglia politica - il ppe - molti osservatori avevano scommesso che tra Angela Merkel (cancelliere dal noembre 2005), Nicolas Sarkozy (presidente dal maggio 2007) e Silvio Berlusconi (premier dal maggio 2008) si sarebbe creato una specie di direttorio a tre. Una previsione che è stata, invece, rapidamente smentita. Alla crescita dell’asse franco-tedesco ha fatto da contrappunto l’isolamento italiano sulle grandi decisioni - ed anche sulla spartizione dei posti - nella Ue. Le recenti frizioni tra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy sul caso-Grecia non devono trarre in inganno. Asse non significa essere d’accordo su tutto: significa avere insieme il peso decisivo, tanto che l’accordo sui termini dell’operazione salvataggio dei conti pubblici greci è stato raggiunto soltanto quando la Merkel e Sarkozy hanno trovato un compromesso tra loro. Alla vigilia del vertice di ieri, i giornali francesi si chiedevano se si può parlare di «sarkoberlusconismo» e se alcuni tratti comuni dei due leader - uno uscito rafforzato dalle elezioni regionali, l’altro indebolito proprio da un simile appuntamento - possono favorire un avvicinamento. Facendo notare, tra l’altro, che Sarkozy è riuscito a far licenziare i due giornalisti del Journal du Dimanche che avevano dato la notizia del presunto tradimento reciproco tra Nicolas e Carla Bruni. Solo gossip o politica?


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pagina 26 • 10 aprile 2010

Islam. La rete africana di Bin Laden contro le nazionali occidentali JOHANNESBOURG. Al Qaeda entra a gamba tesa, e vuole fare l’arbitro dei Mondiali di calcio. In un messaggio su internet la branca nordafricana dell’organizzazione terroristica minaccia di colpire la Coppa del Mondo in Sud Africa, prevista per questa estate. E in particolare lancia il suo avvertimento contro l’Occidente. Italia compresa. La rete che si richiama ad Osama bin Laden ha minacciato di colpire durante la manifestazione le nazionali di Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Germania e Italia perché rappresentano Paesi complici “della campagna sionista-crociata contro l’islam”, come si legge nel testo dell’Aqmi (al Qaeda nel Maghreb islamico). Nel comunicato è contenuta anche una precisa minaccia riguardo alla partita tra Stati Uniti e Inghilterra che si giocherà nello stadio di Rustenburg il 12 giugno: «Come potrebbe essere sorprendente la partita tra Stati Uniti e Gran Bretagna, trasmessa in diretta e in uno stadio stracolmo di spettatori. quando il boato di un’esplosione si propagherà attraverso gli spalti, l’intero impianto sarà sottosopra e i morti si conteranno a decine e centinaia». In Italia le preoccupazioni sembrano per ora limitate. Il presidente del Coni Gianni Petrucci e quello della Figc Giancarlo Abete hanno confermato di essere stati avvisati dalle autorità ma anche di essere stati rassicurati, e si sono detti sereni se anche il Viminale e la Fi-

Al Qaeda minaccia l’Italia e i Mondiali Esplicito riferimento a Usa-Inghilterra: «Faremo esplodere lo stadio gremito» di Osvaldo Baldacci

Lo sport è una calamita per il terrore

Da Monaco alla mafia

Il ministro Frattini e il Viminale rassicurano gli azzurri: «È tutto sotto controllo, non sarà permesso alcun attentato terroristico» fa lo sono. Recentemente uomini della polizia e dei servizi di informazione italiani hanno avuto diversi incontri in Sud Africa sia con le autorità di polizia locali sia con i colleghi degli altri Paesi che parteciperanno al Mondiale e fino ad oggi da tutti è stata esclusa la presenza di una minaccia concreta. Anche se il Paese ha annunciato lo scorso ottobre che le sue forze di sicurezza hanno sventato un complotto di al Qaeda per compiere attacchi terroristici durante i mondiali. In base alle notizie circolate in quel periodo, l’agenzia nazionale di intelligence del Sud Africa, le forze di polizia e gli agenti americani

portarono a termine congiuntamente l’operazione, che portò all’arresto di numerosi sospetti legati all’organizzazione in Somalia e in Mozambico. Nei rapporti periodici inviati al Viminale dagli agenti dei servizi segreti non risultano segnalazioni particolari che riguardano la delegazione italiana. Il ministro dell’Interno Roberto Maroni, comunque, ha fatto sapere di seguire “con grande attenzione”la vicenda. La Fifa ha annunciato che creerà un sistema di sicurezza mai visto prima. Il ministro sudafricano per la Sicurezza, Nathi Mthetwa, si è affrettato a rassicurare tutti dichiarando che verranno

I terroristi cercano soprattutto pubblicità, e negli ultimi decenni si sono resi conto che non c’è nulla che abbia più risonanza mediatica di un grande evento sportivo. Di recente però, anche per l’alto livello di sicurezza, gli allarmi sono sta-

ti elevati, ma poi poco si è verificato. È il caso di Pechino 2008, ma anche delle minacce già previste per le Olimpiadi 2012 e per Soci 2014, olimpiade invernali in Russia che potrebbe essere messa a rischio dal troppo vicino terrorismo islamico del Caucaso. Il più tragico esempio di intervento di terrorismo nello sport resta quello delle Olimpiadi di Mo-

naco del 1972. Un commando di terroristi palestinesi di Settembre Nero prese in ostaggio 11 membri della squadra olimpica israeliana. Il tentativo di liberazione da parte delle forze dell’ordine finì in un bagno di sangue: morirono tutti gli atleti, cinque terroristi ed un poliziotto. Durante Atlanta 1996, una bomba piazzata nel Centennial Olympic Park uccise due persone e ne ferì più di cento. Di recente un altro lutto ha funestato il Campionato africano di calcio: un gruppo di ribelli angolani ha aperto il fuoco sul pullman della nazionale del Togo causando tre morti e nove feriti. Anche in Italia il terrorismo ha sfiorato il grande calcio. Secondo Spatuzza, il 23 gennaio 1994 una bomba doveva esplodere all’Olimpico di Roma, ma l’innesco non (O.Ba.) funzionò.

pattugliate «anche le coste durante il torneo; la priorità è garantire la sicurezza del milione di turisti che sono attesi. I terroristi sono preparati per uccidere tanta gente innocente. Noi non lo permetteremo». Sulla sicurezza delle squadre di calcio e dei Paesi partecipanti ai mondiali ci sarà il dispositivo di sicurezza messo in piedi dalle forze di sicurezza sudafricane. La polizia locale è in allerta da tempo e svolge regolarmente esercitazioni, simulando attacchi chimici, biologici e radioattivi. Gli ospedali hanno dei piani per affrontare attentati che provochino un gran numero di vittime, ed agenti dell’intelligence sudafricana sono in contatto con i colleghi di tutto il mondo.

La delegazione italiana e gli azzurri saranno accompagnati, come prevede un protocollo Fifa, da un responsabile per la sicurezza che ha compiti di collegamento con le autorità locali. Al momento dunque, non è previsto né un innalzamento dell’allerta, né delle misure di sicurezza già predisposte per la delegazione italiana e che tengono normalmente conto anche del rischio terrorismo. La minaccia ha subito riportato alla mente la strage di monaco 1972. Per il ministro degli Esteri Franco Frattini «il mondo non tollererebbe una nuova Monaco. Non lo tollererebbe l’Africa che cerca in questi mondiali di calcio una conferma di una promessa di opportunità e di sviluppo». Al Qaeda nel Maghreb Islamico è uno dei rami più pericolosi di al Qaeda, e avendo le sue basi tra l’Algeria, il Maghreb e il Sahel fino a sud del Sahara rappresenta una minaccia anche sia verso l’Africa che verso il Mediterraneo. Ma in Africa più pericoloso potrebbe essere l’asse di estremisti islamici lungo la costa orientale, attraverso Sudan, Eritrea, Somalia e Kenia. Anche lì al-Qaeda è radicata e ha già compiuto azioni eclatanti. Esiste poi un pericolo che viene dai fondamentalisti del Nord della Nigeria. In tutto questo proprio il sud del continente sembra la zona più tranquilla, almeno per quel che riguarda il terrorismo islamico. Certo i grandi eventi sono una vetrina irresistibile per i terroristi che cercano soprattutto pubblicità, ma è anche possibile che al-Qaeda cerchi di farsi propaganda sfruttando il richiamo mediatico dell’evento sportivo, senza essere in grado di compiere azioni concrete.


quadrante

10 aprile 2010 • pagina 27

Il presidente verso la vittoria, ma il popolo diserta le urne

La polizia cinese ferma chi inneggia al Dalai Lama

Sri Lanka al voto, vince Rajapaksa (e l’astensione)

Nuovi arresti in Tibet: 8 monaci in catene

COLOMBO. Per il partito del pre-

LHASA. La polizia cinese ha arrestato nell’ultima settimana almeno otto tibetani, di cui sei monaci appena adolescenti, che avevano protestato pacificamente in luoghi e momenti diversi per chiedere il ritorno del Dalai Lama in Tibet, l’indipendenza della regione e una piena libertà religiosa. Il 30 marzo scorso, due studenti della famosa lamaseria (monastero) di Larung Gar – che si trova nella contea di Sertha – sono stati arrestati per aver esposto nella piazza del mercato la bandiera del Tibet, bandita sin dall’ingresso delle truppe maoiste nella regione avvenuta nel 1949. I due – Tenzin Gyamtso, 16 anni e Gawa Wangchen Topgyal, di

sidente Mahinda Rajapaksa si profila una larga vittoria alle elezioni generali, tenute due giorni fa in Sri Lanka per il rinnovo dei 225 seggi del Parlamento. Lo scrutinio delle schede è tuttora in corso e i risultati verranno diffusi con un margine di ritardo rispetto alle previsioni, per la denuncia di brogli avvenuti in due distretti del Paese.Tuttavia, non è sicuro che lo United People Freedom Alliance (Upfa) riesca a conquistare i due terzi dei seggi, chiesti dal capo di Stato per modificare la Costituzione senza il contributo dell’opposizione. Elevato il dato relativo all’astensione, con un crollo fra il 45 e il 50% dei votanti.

Le operazioni di voto si sono svolte in modo pacifico nella maggioranza del Paese, con qualche episodio di propaganda illecita, negligenze e abusi denunciati con tempismo dalle due commissioni elettorali. Essi hanno riguardato la città di Nawalapitiya, dove l’organismo di controllo ha imposto una nuova conta dei voti. Il partito di governo primeggia in quasi tutti i distretti sinora scrutinati; il movimento di opposizione Tamil National Alliance vince a Vanni e Batticaloa. Dullas Alahaperuma, portavoce Upfa e Ministro dei trasporti, afferma

Bishkek, il caos sembra senza fine Il nuovo governo non tratta col presidente in fuga Bakiev di Pierre Chiartano li americani non si toccano. Ci sono altre priorità per il popolo centrasiatico che la base dell’esercito Usa. Il governo provvisorio kirghiso, nominato dall’opposizione due giorni fa sull’onda degli scontri nella capitale Bishkek, non intende affrontare ora la questione della base aerea statunitense di Manas. L’ha affermato ieri, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa Interfax, il premier Roza Otunbaieva. «Non abbiamo intenzione di affrontare la questione della base ora. Abbiamo priorità più importanti: la vita della gente e la normalizzazione nella repubblica e a Bishkek», ha spiegato la leader socialdemocratica a capo del governo ad interim. «Per ora – ha continuato – rispettiamo tutti gli accordi esistenti». Diverse voci, nei giorni scorsi, avevano messo in dubbio la volontà del governo provvisorio di rispettare l’accordo che prevede il mantenimento di un «centro di transito» militare Usa, che è una struttura cruciale per l’approvvigionamento dello sforzo militare americano in Afghanistan. Intanto sono tornati alla normalità i voli dalla base aerea statunitense, dopo che erano stati interrotti durante i disordini che hanno portato alla formazione di un governo provvisorio dell’opposizione a Bishkek e alla fuga nel sud del presidente kirghiso Kurmanbek Bakiev. L’ha comunicato con una dichiazione via email il portavoce del Comando centrale Usa maggiore John Redfield. I voli erano stati interrotti mercoledì pomeriggio, mentre nelle strade della vicina capitale le forze di sicurezza aprivano il fuoco provocando decine di morti. A Manas opera uno centro di transito per la logistica e i rifornimenti alle forze Usa impegnate nella guerra ai talebani in Afghanistan. Si tratta di uno snodo importante per la strategia Usa in Asia centrale. Il capo del governo provvisorio Roza Otunbaieva ha intanto respinto le proposte negoziali avanzate dal presidente decaduto, che per il capo del governo ad interim vorrebbe solo «tornare al potere». «Non ci sarà alcun

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negoziato con Bakiev» ha affermato la Otunbaieva. «Non ci sono condizioni da porre per le sue dimissioni, dopo che oltre mille patrioti sono stati vittime dei violenti scontri di mercoledì con la forze dell’ordine».Tumulti che hanno fatto 76 morti e un migliaio di feriti. «Nel sud, i partigiani di Bakiev tentano ancora di farlo tornare al potere» ha aggiunto la Otunbaieva, in occasione di una visita ai feriti della rivolta in ospedale.

Bakiev, dal suo feudo di Jalal-Abad, nel sud kirghiso, ieri mattina avrebbe dichiarato di essere pronto a trattare con l’opposizione che ha preso il potere, per evitare una guerra civile. E il presidente, in fuga dall’altro ieri, è sceso anche a più miti consigli. Ha negato che gli Stati uniti o la Russia abbiano avuto un ruolo nella rivolta che ha portato alla formazione di un governo provvisorio su nomina dell’opposizione. Bakiev ha parlato in un’intervista per la France Presse da Jalal-Abad, sua città d’origine. Nei giorni scorsi diversi osservatori avevano ipotizzato un ruolo di Mosca negli eventi che hanno portato alla rivolta di Bishkek. La Russia, secondo queste ipotesi, avrebbe voluto colpire Bakiev per non aver dato seguito lo scorso anno alla minaccia di «sfrattare» le forze statunitensi dalla base aerea di Manas. Intanto da Bruxelles si sta mobilitando l’Unione europea. Il capo della diplomazia estera dell’Ue, Catherine Ashton, invierà oggi un rappresentante speciale in Kirghizistan per aiutare nella risuluzione della crisi del Paese. Lo ha comunicato ieri una nota dell’ufficio di Lady Pesc. La Ashton «ha detto oggi che il suo inviato speciale per l’Asia centrale, Pierre Morel, arriverà domani (oggi per chi legge, ndr) a Bishkek» si legge nella nota. Lady Pesc ha poi aggiunto che Pierrel «lavorerà in stretta collaborazione con la presidenza Ue locale e con gli Stati membri rappresentati nel Paese, così come con i rappresentanti speciali delle Nazioni unite e dell’Osce che stanno anch’essi recandosi nella capitale».

La premier Otunbaieva: «Non abbiamo intenzione di affrontare la questione della base Usa in questo momento»

che il partito di governo potrebbe aggiudicarsi più di 136 seggi parlamentari su 225 in totale. Ma non è sicuro che si arrivi ai due terzi auspicati da Rajapaksa.Tuttavia, il dato più significativo sembra essere quello relativo all’astensionismo. Metà della popolazione, infatti, ha deciso di non esprimere preferenze, manifestando in modo palese la disaffezione ai partiti, ai candidati e al sistema elettorale. Un leader cattolico di origine cingalese, che chiede l’anonimato, denuncia ad AsiaNews le evidenti “debolezze”nel sistema politico, che vanno “corrette”. Egli invita però ad “accettare i risultati finali” e a rispettare il verdetto delle urne.

15 - hanno gridato “Indipendenza per il Tibet”,“Viva i diritti umani”e “Vogliamo il ritorno del Dalai Lama”.

Raggiunti dalla polizia, sono stati arrestati: di loro non si hanno altre notizie. Il giorno dopo, altri due monaci della stessa contea e residenti nello stesso monastero sono stati arrestati dopo una protesta simile. Ma di loro non si conosce l’identità o il luogo di detenzione. Il 2 aprile, Ugyen Namgyal – 20 anni, proveniente dal villaggio di Choktsang – ha manifestato da solo sempre nella piazza del mercato della contea di Sertha. Prima di portarlo via, gli agenti intervenuti lo hanno picchiato. Il giorno dopo, stessa sorte per uno sconosciuto – comunque non un monaco – nato nello stesso villaggio di Ugyen. Sempre da Choktsang viene invece un monaco re-incarnato, il 19enne Tulku Namgyal, che studia presso il monastero di Taglung. È stato arrestato il 5 aprile dopo aver lanciato in aria, nel luogo dell’arresto degli altri tibetani, diversi volantini che chiedevano l’indipendenza del Tibet e il ritorno del Dalai Lama. Lo stesso giorno è stato arrestato anche il ventenne Thakchoe, che aveva alzato la bandita bandiera tibetana.


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Nucleare. Mentre Teheran annuncia al mondo le sue “novità” in campo atomico, Obama cerca invano consenso per fermarla

La giravolta di Mosca Dopo le aperture di Praga, il Cremlino (e Pechino) frenano sulle sanzioni all’Iran di Massimo Fazzi sentire lui, le cose sono ormai fatte: «Nessuna potenza può più impedire all’Iran di procedere velocemente sulla strada dello sviluppo nucleare». E se questo assunto, nei pensieri del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, voglia dire lo sviluppo di un arsenale o di una centrale elettrica, sarà la Storia a dirlo. Certo è che ieri, parlando dalla torre Milad alla presenza delle autorità iraniane e del capo dell’agenzia atomica iraniana Ali Akbar Salehi, l’uomo forte di Teheran ha scelto di continuare sulla strada dell’auto-determinazione. Quanto meno dell’atomo.

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E non c’è alcun dubbio che la posizione fiacca del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ancora nelle pastoie imposte da Mosca e Pechino, abbia aiutato la Repubblica islamica a rimanere sul piano della provocazione. Con tanti saluti alla retorica sfoggiata appena due

giorni fa a Praga dal presidente russo Dmitri Medvedev, che firmando lo Start 2 insieme al suo omologo americano Barack Obama aveva parlato di un mondo più sicuro senza atomiche. Il presidente iraniano ha anche svelato, nella Giornata nazionale per l’energia atomica, anche il nuovo modello di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio che entreranno in

sidente russo Dmitri Medvedev, decisamente più cauto nelle sue dichiarazioni, non lo aveva escluso. Ma poche ore dopo la firma del Trattato sulla rimozione delle testate atomiche strategiche, si riunivano a New York gli ambasciatori del cosiddetto Gruppo del 5+1 (i permanenti con diritti di veto - Usa, Gb, Francia, Russia, Cina - oltre alla Germania). Si sono visti al

Dalla torre Milad, la più alta del Paese, Ahmadinejad torna all’attacco dell’Occidente: «Nessuno potrà più fermarci sulla strada del nucleare, e sarebbe pericoloso provarci» funzione nei siti nucleari iraniani: trattasi di macchinari più potenti degli attuali, in grado di processare il minerale fissile con più potenza. Eppure, da Praga, il presidente Obama aveva spiegato con chiarezza di puntare «con fermezza» a nuove sanzioni «entro questa primavera» contro l’Iran; ed il pre-

completo per la prima volta, perché fino ad oggi Pechino aveva rifiutato incontri di questo tipo. Ma le speranze che questo gesto avrebbe potuto significare una svolta nella posizione delle Nazioni Unite sono crollate poche ore dopo, quando ancora una volta la Russia e, soprattutto, la Cina, sono torna-

te a insistere sulla “via diplomatica”; quasi a voler sottolineare che la cautela resta d’obbligo quando si tratta con Teheran.

Così, al termine, è stato gioco forza non fornire date precise per una risoluzione della questione iraniana. Una delle ipotesi più accreditate vedeil varo

di nuove possibili sanzioni (che colpirebbero in particolare i pasdaran, i guardiani della Rivoluzione) entro giugno, sotto la presidenza di turno messicana del Consiglio di Sicurezza. Per aprile, sotto presidenza giapponese, il tempo a disposizione non appare sufficiente, mentre a maggio, quando il

E Bibi diserta il summit di Washington Israele non accetta imposizioni «da nessuno» sul Trattato di non proliferazione nucleare di Antonio Picasso a decisione del Primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, di non partecipare al summit sul nucleare in agenda a Washington la prossima settimana segna l’ennesimo motivo di frizione nell’alleanza israelo-statunitense. A onor del vero, Israele non aveva mai confermato la sua presenza all’evento. Vista la situazione di aperta crisi con la Casa Bianca però, questo avrebbe potuto rappresentare un’opportunità per un vertice bilaterale tra Netanyahu e il presidente Usa Barack Oba-

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ma, finalizzato a ricucire i tanti strappi che si sono susseguiti dall’inizio dell’anno a oggi. Occasione mancata quindi. Il governo israeliano si limiterà a inviare come suo rappresentante il Ministro per l’Energia Nucleare, Dan Meridor. La scelta è stata calcolata in modo che la poltrona israeliana al vertice di Washington non resti visibilmente vuota, ma che nemmeno sia occupata da una personalità di basso profilo. Come responsabile nazionale della produzione di energia atomica, Meridor resta tecnicamente l’uomo giusto.

Israele inoltre ha spiegato che le richieste presentate congiuntamente dall’Egitto e dalla Turchia affinché Netanyahu firmi il Trattato di Non Proliferazione nucleare (Tnp), durante il summit, costituiscono un’imposizione inaccettabile. Da lunedì Washington ospiterà per due giorni i rappresentanti di almeno 40 nazioni per un giro di consultazioni volte a sottolineare la necessità di contenere la prolifera-

zione di armi nucleari e il conseguente disarmo degli arsenali attualmente esistenti. Gli Stati Uniti, in questo senso, approfittano del riflusso positivo generato dalla firma dell’accordo con la Russia per il rispettivo smantellamento di 1.550 testate. Dopo il trattato firmato a Praga l’altro giorno, che segna un passo in avanti rispetto allo “Start 2” del 1993, Washington desidera dimostrare al mondo le sue intenzioni di pace. Chi si è sempre rifiutato di firmare il Tnp sono la Corea del Nord, l’India, il Pakistan e appunto Israele. India e Pakistan, si sa, sono riuscite a soddisfare le proprie ambizioni in materia. La Corea del Nord a sua volta è stata oggetto di profonde crisi diplomatiche in passato, che ora sembrano rientrate, o per lo meno congelate. Diversa è la situazione di Israele. La mancata sottoscrizione del Tnp lascia inevasi i sospetti relativi alle disponibilità o meno della Difesa israeliana di un suo arsenale nucleare. Nel 1986 in un’intervista al Sunday Times, il fisico israelia-


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Il ministro iraniano della Difesa ispeziona un container missilistico. Sotto, il presidente Ahmadinejad in una centrale nucleare. Nella pagina a fianco, Bibi Netanyahu

Il ministro Geithner si è recato a sopresa in Asia per parlare della rivalutazione dello yuan. E il governo cinese potrebbe votare per le sanzioni in cambio di una duratura “pax valutaria” Consiglio di Sicurezza sarà sotto presidenza libanese, il Palazzo ospiterà, tra il 3 ed il 28, la conferenza di revisione del Trattato Npt di non proliferazione nucleare, rendendo difficile il varo di sanzioni. A Praga Obama ha detto che «le mie aspettative sono che saremo in grado di decidere sanzioni, for-

ti sanzioni, contro l’Iran questa primavera. Non più tardi».

Alla stessa domanda Medvedev ha risposto spiegando che «se dobbiamo parlare di sanzioni, nonostante non siano sempre stato un successo, dovrà trattarsi di sanzioni intelligenti in grado di spingere le

no Mordechai Vanunu fece trapelare la notizia che nei silos di Tzahal fossero conservate 200 testate missilistiche. Lo scandalo portò al rapimento di Vanunu da parte del Mossad, che allora si era rifugiato a Roma, e alla sua condanna a 18 anni di carcere per alto tradimento. Anni dopo fu la volta dell’ex Presidente Usa, Jimmy Carter, famoso per le sue critiche costanti verso Israele. Il “Premio Nobel per la pace 2002” classificò il Paese mediorientale come di una potenza nucleare con un arsenale di 150 vettori. E fu di nuovo polemica. L’evento più significativo risale però alla fine del 2006. L’allora Primo ministro israeliano Ehud Olmert, intervistato dalla tv tedesca N24, sostenne che le ambizioni di Teheran di dotarsi di un’arma atomica erano “diverse da quelle di Stati Uniti, Francia Israele e Russia”. Includendo il suo Paese in questa lista, Olmert rispose implicitamente ai dubbi rimasti in sospeso fino ad allora. Ovviamente la sua segreteria tentò subito di correre ai ripari. Tuttavia con quella gaffe il danno era fatto. A questo punto l’assenza di Netanyahu al summit di Washington assume due significati.

parti in causa a produrre un comportamento appropriato». Il presidente russo ha aggiunto che le eventuali sanzioni dovranno rispondere a due requisiti: «Primo, dobbiamo spingere l’Iran a comportarsi in maniera appropriata; secondo, e non è la cosa meno significativa, avere (sempre in testa) l’o-

nuove critiche. Da sottolineare è il fatto che siano stati Egitto e Turchia a chiedere la sottoscrizione al Trattato. Vale a dire i soli due Paesi della regione, insieme alla Giordania, che sono amici di Israele e la riconoscono come uno Stato costituito. Ed è paradossale come, in coincidenza con la riunione del “5+1” a New York per la questione nucleare iraniana, si torni a parlare anche dello stesso problema in riferimento a Israele. Dall’altro lato, il fatto va ad aggiungersi al “nodo insediamenti”– la po-

mento. La paura, condivisa dalla classe dirigente nazionale e dall’opinione pubblica, di un attacco nucleare da Teheran porta l’Esecutivo ad assumere atteggiamenti di diffidenza di tutti. Per Israele il summit di Washington appare quindi una trappola, in cui il suo Premier rischierebbe di trovarsi imbrigliato e costretto a sottoscrivere il Tnp.

Un altro timore è quello di dover affrontare Obama vis à vis, che stavolta gioca in casa. Il Presidente Usa potrebbe mettere Netanyahu alle corde sul tema insediamenti e da qui imporgli la ripresa dei negoziati con i palestinesi. L’ipotesi è poco probabile, vista l’irresolutezza già dimostrata dagli Usa e la temerarietà israeliana di queste ultime settimane proprio in relazione alla estensione degli insediamenti. Da ricordare in merito il totale fallimento della visita in Israele del vice Presidente Usa, Joe Biden, all’inizio di marzo. Tuttavia Netanyahu deve aver pensato che sia comunque meglio scansare il pericolo e proseguire lungo la linea dura, adottata finora, che gli permette di conservare la leadership dell’Esecutivo, nonché di evitare crisi interne. Fermo restando però che questa politica appare improduttiva sotto ogni punto di vista.

Al posto del primo ministro ci sarà il ministro per l’energia nucleare Meridor. La scelta è stata calcolata in modo che la poltrona israeliana al vertice statunitense non resti visibilmente vuota

Da una parte, riapre la polemica sul rifiuto insistente di Israele di firmare il Tnp e offre ai suoi delatori una palla per

litica israeliana di espansionismo intorno a Gerusalemme – allargando così il gap di incomprensioni con Washington. La chiave di volta della crisi risiede nel Governo Netanyahu e nella presenza di fronde ostinatamente contrarie al compromesso. Si tratta in particolare dei rappresentanti di Israeli Beiteinu, Partito della Torah e Shas, che rifiutano a priori un confronto con i palestinesi e quindi la ripresa dei negoziati per il processo di pace.Tatticamente Israele alza le barriere protettive in campo diplomatico perché si sente attaccata e vive con la psicosi dell’accerchia-

biettivo di proteggere gli interessi nazionali dei nostri Paesi». Ma il giorno dopo le dichiarazioni hanno cambiato molto rapidamente tono. Il presidente americano si è fatto intervistare dalla Abc per spiegare che gli Stati Uniti «stanno lavorando con la comunità internazionale per mettere a punto nuove

sanzioni contro l’Iran per il suo controverso programma nucleare, ma non è possibile essere certi della loro efficacia». Obama, apparso per la verità abbastanza stanco, ha aggiunto: «Se la domanda è: abbiamo garanzie sul fatto che le sanzioni che siamo in grado di imporre in questo momento andranno automaticamente a cambiare il comportamento iraniano? Certamente no». Secondo il presidente, in ogni caso, costanti pressioni internazionali possono modificare i progetti di Teheran: «Se siamo coerenti e fermi nell’applicare una pressione internazionale, e se c’è uno sforzo internazionale unificato, nel tempo l’Iran - che non è un regime stupido, che è molto attento nell’osservare cosa accade nella comunità internazionale - inizierà a fare una diversa valutazione su costi e benefici, analisi sul se abbia senso continuare o meno a perseguire le armi nucleari».

E anche la Russia ha cambiato passo rispetto alle buone intenzioni ceche, ponendo di fatto agli Stati Uniti dei “limiti da non oltrepassare” nella definizione del nuovo pacchetto di sanzioni contro l’Iran. Lo sostiene una fonte della Casa Bianca presente al colloquio di ieri fra Barack Obama e Dmitri Medvedev a Praga. La fonte, parlando con il Washington Post, ha spiegato il senso delle dichiarazioni del presidente russo nella conferenza stampa che ha fatto seguito alla firma dello Start. La “linea rossa”invocata da Mosca non esclude completamente il settore dell’energia, che potrebbe così essere penalizzato dalle nuove sanzioni: «Siamo nel cuore della discussione su cosa deve contenere la risoluzione. Oggi abbiamo parlato di energia ovviamente. Il settore non è fuori discussione. Dove queste discussioni porteranno, non lo so ancora», aveva aggiunto, sempre ieri, il Consigliere di Obama per la Russia, Michael McFaul. In questo spostamento di pedoni sembra essere stato dimenticato il governo di Pechino, che pesa nel Consiglio esattamente come tutti gli altri membri. Forse non se ne parla perché, a differenza di Mosca, i legami che lo uniscono a Washington sono composti dal denaro. E mentre il capo negoziatore iraniano per il nucleare Jalili si reca in Cina per chiedere nuovi appoggi, Obama telefona a Hu Jintao per chiedere, il prossimo 12 aprile, un colloquio privato proprio a Washington. La Cina ha in mano le chiavi delle sanzioni: se Pechino molla Teheran, Mosca non ha alcuna possibilità - e a dire il vero poco interesse - nel salvaguardare le mire atomiche degli ayatollah. Ma se la Grande Muraglia dovesse includere l’ex Persia, l’Occidente si troverà in una situazione estremamente scomoda. Che passa per la rivalutazione dello yuan.


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il personaggio della settimana Calcio, televisioni e donne: ascesa, declino (e ritorno) dell’uomo forte della Thailandia

Il “Berlusconi d’Asia” che sfida Bangkok Thaksin Shinawatra è l’eroe delle camicie rosse, che pur di vederne il rientro in patria hanno costretto il governo a scappare in elicottero. Ma ora del Paese lui non sa che cosa farne di Vincenzo Faccioli Pintozzi estore di cinema, poliziotto, miliardario, tycoon delle telecomunicazioni, primo ministro, presidente del Manchester City, primo ministro in esilio, condannato. E molto presto, probabilmente, primo ministro di nuovo. È impossibile stabilire quante vite potrà vivere Thaksin Shinawatra, ex “uomo forte” della Thailandia, che dal suo dorato esilio in giro per il mondo ispira - e molto probabilmente sostiene economicamente - l’esercito di “camicie rosse” che in questi giorni sta mettendo a soqquadro il Paese leader del Sud-Est asiatico. La sua è una storia da raccontare, anche per spiegare come mai abbia guadagnato quel soprannome con cui ha tenuto banco fino alla detronizzazione nei meeting internazionali: il “Berlusconi d’Asia”. Un soprannome che lui ritiene un complimento. Nato il 26 luglio del 1949 a Chiang Mai, nella Thailandia meridionale, Shinawatra (che si pronuncia Chin-a-what) è il giovane erede di una dinastia che regna incontrastata nel campo del commercio della seta. Sono 50 anni che la sua famiglia non teme rivali nel settore, uno dei più redditizi dell’area, e il giovane Thaksin lavora sodo e a stretto contatto con il padre per assicurare il suo contributo. Per premiarlo dello zelo, l’anziano genitore Boonlert gli permette di aprire - appena sedicenne - uno dei primi cinema della zona: una mossa quasi profetica, visto il ruolo predominante che in futuro ricoprirà nel campo delle telecomunicazioni. Ottimo studente, il ragazzo entra nella Scuola di polizia nazionale, uno degli istituti più noti del Paese, da cui uscirà nel 1973 per partire alla volta degli Stati Uniti. Ha vinto una Borsa di Studio statale, che gli permette di laurearsi in Giustizia criminale nell’Università orientale di Richmond, nel Kentucky. Nel 1978 ottiene un dottorato all’Università di Huntsville, in Texas, nella

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stessa materia. Torna in patria, convinto della necessità di assicurare l’ordine e la disciplina nella natia Thailandia: compito che svolge in maniera ottimale per quattordici anni, quando il richiamo del primo amore lo spinge a mollare tutto e tornare al cinema. Si butta nella produzione del non memorabile Bann Sai Thong per far felice il padre, ma pur se deluso dagli incassi della pellicola matura la scelta di lasciar perdere l’ordine pubblico.

Nel 1987 mette in piedi la sua prima società - la Shinawatra Company - che ha la peculiarità di occuparsi in maniera esclusiva di un ramo del mercato fino ad allora quasi ignorato: la tecnologia informatica, sia per quanto riguarda il software che per ciò che concerne l’hardware. Un anno dopo, l’esplosione commerciale: sostenuto brillantemente dalla rete di contatti già saldamente in mano agli altri membri della sua dinastia, si unisce alla Pacific Telesis e sfonda nelle telecomunicazioni. Ma un anno dopo, i conflitti con il troppo morigerato Consiglio d’Amministrazione convincono il piccolo leader a lanciare una nuova avventura: la Shinawatra Paging, che decide di puntare - ancora una volta con rara lungimiranza - nel campo della telefonia cellulare. Sulla strada, quasi incidentalmente, Thaksin approva il lancio di comunicazioni via satellite e convince il governo di Bangkok a sposare la causa: la motivazione più forte è che la Thailandia «non può subire l’umiliazione di affittare da altri Paesi lo spazio sui mezzi spaziali». Nel 1990, l’oramai affermato tycoon delle comunicazioni festeggia una concessione ventennale con l’Organizzazione telefonica tailandese, che gli cede la gestione di rete e ripetitori. Allo stesso tempo, però, vanta un debito con la stessa di venti miliardi di baht (che tradotto in euro fa 460 milioni, più o meno) che dovrà ripagare nel corso dello stesso periodo. Oggi la rinominata Shin Corporation è una conglomerata delle comunicazioni che si divide in due aziende maggiori, la Shinawatra Com-

puter e Communications Plc e la Advanced Info Service Plc; ma queste hanno il pacchetto azionario di maggioranza in altre quattro sussidiarie, attive sempre nel campo. E fino a qui, le similitudini con il primo ministro italiano sono evidenti. Ma un altro segno li accomuna: la “discesa in campo”, che per entrambi avviene nel 1994, con il medesimo intento di «ripulire la politica» nazionale. Nel frattempo però Thaksin si è sposato con Pojaman (Damapong, altra cadetta di una dinastia thai) e ha avuto tre figli: il maschio Parthongtae e le due figlie Praethongtarn e Pintongta. L’avventura nella cosa pubblica inizia con una cooptazione: il Partito del Dharma Palang decide infatti di offrirgli il ruolo di vice ministro degli Esteri nel governo di Chuan Leekpai.

Ma mentre questo cade, il non più giovane industriale ha scalato il Partito per farsi nominare, nel 1997, vice primo ministro del governo Chavalit. Nel 1998, come da lui stesso ammesso, il Dharma non riesce più a contenerne la verve politica e implode: è l’anno di nascita del Partito Thai Rak Thai, che tradotto rozzamente significa “i thai amano la Thailandia”, oppure “Forza Thailandia”. Nel 2001, forte di slogan populistici e orecchiabili, spezza l’opposizione del Partito Democratico e vince di netto la maggioranza governativa, volando al premierato. Il bacino elettorale che lo ha premiato è composto dalle parti più povere della popolazione e da quelle più ricche. I primi lo hanno votato - e continuano a sostenerlo donando il sangue per le strade di Bangkok in queste ore - perché hanno gradito la sua offerta di riforma del sistema sanitario e la moratoria dei debiti, la sua piattaforma nazionalista e la sua sfida a quella che ha definito “l’elite di Bangkok”. Mentre le aziende e le famiglie forte del Paese decidono di dare una possibilità all’uomo che ha dichiarato di voler gestire la Thailandia come un’azienda e che ha creato le politiche “thaksinomiche”, stimoli alla creazione d’impresa


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che di fatto rialzano il Paese dopo la crisi finanziaria di fine anni Novanta. Ottimi i rapporti sul piano internazionale, sul quale Thaksin si affaccia seriamente per la prima volta al margine del disastroso tsunami che, il giorno di Natale del 2004, ha tolto la vita a 250mila persone nell’area dell’Oceano Indiano. La parte sud-occidentale del Paese è stata gravemente colpita, e il suo nuovo leader si presenta al mondo come un uomo che vuole ricostruire da solo, senza pietire aiuti internazionali, e che promette alle altre nazioni

sibile, per il virus, svilupparsi così in fretta e inizia a chiedere al governo maggiori notizie. Si scopre presto che il ministro locale della Sanità, su input diretto del suo datore di lavoro, ha nascosto al mondo i primi infetti per evitare una flessione nel fondamentale settore del turismo. Nel 2003, inoltre, i militari finiti sotto accusa per la morte di 2.500 presunti trafficanti di droga fanno emergere un memorandum segreto, firmato da Thaksin, che autorizza l’uso di “ogni mezzo” per sconfiggere la piaga dell’oppio e del-

Prima della spirale della corruzione che ha chiuso la sua avventura politica, era uno dei leader più amati nella storia della nazione dell’area una pax economica che permetta a tutti di riprendere fiato. È il boom, la consacrazione per un uomo che sembra avere tutto dalla propria parte. Ma le beghe sono dietro l’angolo, pronte a esplodere, e hanno le caratteristiche tipiche dei vizi orientali: la corruzione, l’autoritarismo violento e la troppa indulgenza per i membri della propria famiglia. Il primo segno di crisi per quello che sembra il miglior governo che Bangkok abbia mai ospitato viene dall’influenza aviaria: l’Organizzazione mondiale della Sanità non si spiega come sia stato pos-

l’eroina. Ma questi potevano rimanere peccati veniali, per un leader così forte; la botta vera arriva dalla Commissione nazionale anti-corruzione che, galvanizzata dalle prime inchieste sopracitate, punta la sua attenzione sul primo ministro. Da una generica prima accusa di aver nascosto al Fisco un po’ troppi soldi, si inizia a scavare nella cessione delle azioni della Shin Corporation che la famiglia Shinawatra ha fatto finta di tenere in tasca. Trattasi di una vendita che rende quasi due miliardi di dollari esentasse, che la Commissione scopre essere av-

venuta di nascosto da tutti. Il tailandese medio, che fino ad ora è stato lo zoccolo duro dell’elettorato del primo ministro, non gradisce.

E nell’aprile del 2006, in mezzo a manifestazioni di piazza praticamente ininterrotte, il “Berlusconi d’Asia”si trova costretto a indire elezioni generali. E si presenta all’elettorato sfidando l’opposizione, che ha guidato la piazza contro di lui: «Battetemi o chiudete il becco immediatamente». I principali Partiti a lui avversi temono l’avversario, e decidono per un trucco ancora più populista di quello tirato fuori dal tycoon: invitano al boicottaggio delle urne, parlando al mondo e al Paese dei numerosi brogli “già pronti” per riconfermare Thaksin al potere. È un successo, che costringe il nostro eroe a rimanere in bilico fino a settembre: a questo punto fra voti non registrati, politici corrotti e oppositori incerti - entra in campo l’esercito che, senza spargere una goccia di sangue, prendono il potere con l’approvazione del potentissimo re Bhumipol, o se preferite Rama VI.Thaksin fugge in Gran Bretagna, ma nel 2007 torna a Bangkok dopo che i suoi alleati politici vincono le prime elezioni politiche post “golpe bianco”. In casa però lo aspetta anche la Corte Suprema, che non ha dimenticato quell’affaruccio relativo al Fisco e alle azioni “vendutenon vendute”. Insieme alla moglie, viene condannato alla galera ma scappa di nuovo - nell’agosto del 2008 - questa volta in direzione di Dubai. In questa occasione, perde anche la proprietà del club di calcio inglese Manchester City. Una passione che aveva da tempo e che ha sviluppato nell’esilio britannico, allungando la lista di somiglianze con il primo ministro italiano in carica. Nel frattempo, le cronache rosa parlano di grandi litigi familiari, e dipingono la signora Pojaman come la vera mente dietro alla grande truffa: fatto sta che i due si dividono e lei ottiene una sospensione della pena che le permette di tornare a Bangkok, mentre l’ex marito si gode il sole degli Emirati. Thaksin prova

Pallone e tivù Circa 120 milioni di euro. Con questi spiccioli la società UK Sport Investments - un nome, un programma -si è preparata nel 2007 ad acquistare il Manchester City. Inutile dire che la società era all’epoca controllata dall’ex primo ministro thailandese Thaksin Shinawatra, che con i resti derivanti dai dividendi della sua società televisiva ha potuto rendere migliore il suo esilio britannico. Di quei soldi, 32 sono stati usati per il passaggio della proprietà; il restante è servito per garantire la copertura dei debiti contratti dal club. Dopo russi e americani, nella Premier League sono arrivati i thailandesi. Shinawatra, dopo la condanna a due anni di galera per corruzione espressa dalla Corte Suprema di Bangkok, ha dovuto abbandonare i sogni di gloria calcistica. Ma subito dopo l’accettazione dell’offerta aveva dichiarato: «Sono felice che sia stata accettata la mia offerta. È mia intenzione portare il City ad alti livelli, in Inghilterra e in Europa». Ed è forse un peccato che l’ex politico, pronto a rientrare in patria con intenti di grande attualità, sia stato tenuto lontano dal pallone: forse avrebbe fatto meno danni.

la strada dell’esule politico e arriva a mettere su una bella collezione di passaporti - puntano su di lui quasi tutte le nazioni centro e sudamericane, dal Nicaragua a Montenegro - abbinandoli a interviste con i grandi media in cui cerca di passare per il riformatore sconfitto dalla corruzione dei suoi alleati. Questo secondo trucco sembra funzionare meglio della sfida lanciata all’opposizione, e alla fine del 2008 il “Thai Rak Thai” non è al potere, ma è una forza con cui il governo del debole primo ministro Abhisit Vejjajiva è ancora costretto a fare i conti. Ed ecco apparire all’orizzonte le “camicie rosse”, i più leali sostenitori di Thaksin, che ne reclamano a gran voce il rientro a casa. La questione primaria è legata allo sviluppo delle zone rurali, lanciato dal loro eroe e lasciato stare dall’opposizione, che ha fatto dimenticare truffe e corruzione.

E anche il suo amore, chiacchierato, per le star della televisione. Fortemente carismatici i messaggi con cui il “Berlusconi d’Asia” arringa le folle rosse assiepate nella capitale: un capolavoro quello con cui promette di cedere la sua intera fortuna pur di poter tornare nel Paese e «renderlo migliore una volta per tutte». Sconvolte da questo amore incondizionato, le “camicie rosse” si sono lanciate contro il Parlamento e hanno costretto a una rocambolesca fuga il governo in carica. Mentre l’esercito, e il rispettatissimo e amato sovrano, dichiarano stavolta di voler rimanere a guardare. A questo punto,Thaksin deve tornare e compiere il suo miracolo. Perché pare che ai thailandesi, questa volta, le chiacchiere potrebbero non bastare: per il ritorno del loro eroe, hanno versato (davvero) il sangue per le strade della capitale.


ULTIMAPAGINA Kermesse. Fino al 12 aprile, come sempre a Verona, la 44esima edizione della fiera enogastronomica “Vinitaly”

Un sorso d’Italia a portata di CALICE C di Livia Belardelli

on più di 4.200 espositori per 12 padiglioni e 98.000 metri quadrati torna la kermesse sul vino più famosa d’Italia. Amato e odiato, tronfio e sguaiato per alcuni, imperdibile per altri, il carrozzone Vinitaly ha già invaso Verona. Fino al 12 aprile la città sarà gremita come ogni anno - il 44° per la precisione - di eno-appassionati più o meno esperti, dando vita al solito suggestivo e confuso spettacolo. Tantissimi gli eventi, tra convegni e degustazioni il disorientamento è assicurato. Così, per farsi strada tra le proposte senza rischiare di perdersi né di mancare gli eventi più significativi, ecco un breve percorso da affrontare senza cartine - magari con un’utile brochure per non smarrirsi tra i padiglioni dedicati alle regioni - ma con il calice in mano. Premetto che il rischio per chi affronta Vinitaly, tanto più se il tempo a disposizione è poco e la voglia di sorseggiare tanta, è di ritrovarsi dopo pochi stand barcollanti e insoddisfatti con il desiderio di proseguire che, se assecondato, porterà a un pentimento il giorno successivo preceduto da un terribile mal di testa.

Vinitaly deve essere fronteggiato con meticolosa pianificazione avendo ben chiaro il proprio scopo. Per i “bambini” del vino - anche se qui bambini del vino lo si è un po’ tutti, chi più chi meno in grado di trattenere una fascinazione fanciullesca, come quella di un bambino al lunapark, di fronte agli eccessi della manifestazione -, neofiti curiosi ma non troppo, basterà un giro per i padiglioni, una flânerie distratta ma trattenuta per assaggiare qua e là, magari con l’accortezza di non dimenticare i saloni dedicati a Piemonte, Toscana e Sicilia. Per chi ha voglia di immergersi con più convinzione nell’atmosfera enologica, per gli appassionati informati e soprattutto per chi ha almeno un paio di giorni da spendere alla Fiera, allora diventa d’obbligo, tra un padiglione e l’altro, qualche degustazione guidata o un convegno sul vino. Il programma (visibile sul sito della manifestazione www.vinitaly.com) propone diversi eventi. E il sito del Vinitaly viene in aiuto per districarsi tra convegni e degustazioni con MyVinitaly, agenda “virtuale” scaricabile che permette di scegliere e memorizzare gli appuntamenti più interessanti confezionando una propria personale agenda da stampare e portare con sé. Nel fine settimana c’è spazio per la calda terra siciliana con I vini di Sicilia, ma anche per l’opulento amarone nel XXII seminario Masi: clima che cambia e appassimento mentre domenica si chiude con Vino, Web e Social Network: opportunità e responsabilità. Il calendario delle degustazioni poi è davvero infinito. Oltre a confezionarsi da autodidatta il proprio personale itinerario di degustazione ai banchi d’assaggio tra preferenze regionali, bianchi e rossi, barriquati e tradizionalisti, si può scegliere la guida di voci e nasi esperti. Così non mancano le degustazioni A.I.S. dove si potrà brindare con Il fascino del Metodo Classico italiano e Champagne: la magia raccolta in un calice di bollicine. Lo sguardo per le eccellenze dei cugini d’oltralpe continua poi con le due degustazioni dedicate a Borgogna e Bor-

Sono tantissimi gli eventi in programma, tra convegni e degustazioni, che permetteranno di assaporare i prodotti (tipici e non) del nostro Paese regione per regione. Ma c’è spazio anche per le eccellenze dei cugini d’oltralpe... deaux. E ancora La provincia dell’Aquila nel bicchiere e Esordi: nuovi vini all’orizzonte.Tra le altre degustazioni troviamo quella dedicata a Le donne e il vino organizzata da Tasting Ex.Press che sdogana l’apporto sempre più massiccio del sesso femminile in un mondo prima prettamente maschile, e continua con I vini impossibili per raccontare, partendo dal bicchiere, tanti vini rari provenienti da zone impervie e nati in condizioni estreme. C’è spazio per il Friuli di Livio Felluga raccontato da Taste and Dream, per I vini biodinamici, per le verticali (stesso vino, annate diverse) di Amarone e Barolo organizzate dall’ O.N.A.V., per Masciarelli: i giorni del vino, i vini dell’amore.

Curiosa anche la proposta del Gambero Rosso che invita ad assaggiare i “tre bicchieri verdi”, i migliori vini italiani ottenuti nel rispetto dell’ambiente secondo la guida Vini d’Italia

2010. La lista delle incontri è lunga ma senza dubbio quello più atteso dagli enomaniaci è la degustazioneevento di Solaia di Antinori con 6 prestigiose annate della grande etichetta. Per il matrimonio d’amore - così chiamano l’abbinamento perfetto tra cibo e vino - enomaniaci, bambini e appassionati non potranno accontentarsi di qualche bibanese o altro tarallo in mostra sui banchi d’assaggio ma l’offerta, anche qui notevole, spazierà dalla Cittadella della gastronomia ai menù “d’autore” di self service e ristoranti.

Dopo un’occhiata alle etichette vincitrici del premio packaging per la veste del vino e ai vincitori del Concorso Enologico Nazionale Zonin si aggiudica il Premio Speciale “Gran Vinitaly”- si può curiosare nel padiglione dedicato a Enolitech per scoprire botti record e altri accessori curiosi per vino e olio. E infine, guardando questa macchina infernale e paradisiaca al tempo stesso, scapperà un sorriso pensando al 1967, quando sul finire dell’estate il Palazzo della Gran Guardia, oggi sede delle serate veronesi post-fiera, ospitava per la prima volta le “sobrie”Giornate del Vino Italiano, l’atto di nascita ufficiale di Vinitaly.


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