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Nella maggior parte degli uomini, l’amore per la giustizia è il timore di patire l’ingiustizia François De La Rochefoucauld

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 6 GENNAIO 2010

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

All’Onda verde iniziano ad unirsi anche i membri della società, i veri protagonisti della rivoluzione che cambierà il Paese

Non lasciamo solo il nuovo Iran Politici e media occidentali seguono distrattamente la “guerra civile”di Teheran. Si tratta di un grave errore perché dalle sue sorti dipendono gli equilibri futuri del pianeta Appello del Quirinale e del presidente della Camera

Napolitano e Fini: «Coesione nazionale» Il Capo dello Stato: «Non va smarrito il senso dell’interesse comune». L’ex leader di An: «C’è l’esigenza di valori unificanti e condivisi»

SCHIZOFRENIA

CONSONANZE

Fautore dell’amore ed editore dell’odio

La seconda ricostruzione dei due presidenti

di Michael Ledeen orse i tiranni hanno deciso che il senatore Kerry era troppo alto per entrare nelle loro celle di tortura, e avranno pensato che la crisi economica ancora in corso non gli permetteva imponenti lavori di ristrutturazione. O forse, e questo è più probabile, tutte le celle erano piene di quei dissidenti che continuano ad essere arrestati a folle velocità. Gli ultimi in ordine di tempo sono quelli fermati nella moschea di Shiraz, guidata dall’ayatollah Dastgheib. Questi è un sostenitore del leader dell’Onda verde Mousavi. E, negli ultimi giorni, i sostenitori clericali del regime riuniti nella città santa di Qom hanno cercato di impedire la crescita morale del Grande ayatollah Sane’i, l’erede del mantello di Montazeri. Nello stesso tempo, ora le forze di sicurezza uccidono i dimostranti con fucili a canne mozze caricati a proiettili di grosso calibro. Per farla breve il regime iraniano è al momento in guerra con chiunque, se si esclude quella sottile fetta di fanatici e/o opportunisti leali alla Guida suprema Ali Khamenei e al presidente Ahmadinejad.

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Ahmad Qabel

Emadedien Baghi

Mashaolah Shamsolwaezin

Heshmatollah Tabarzadi

IL DISINTERESSE DI STAMPA E TV

GLI ALTRI DISSIDENTI

Che fine hanno fatto i giornali?

E intanto in Cina muore la giustizia

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

di Ding Zilin

ino all’altroieri, i media mondiali davano per prossima una guerra civile in Iran e seguivano con attenzione le rivolte a Teheran. Oggi invece gli organi di informazione si sono dimenticati dell’Iran.

l 23 dicembre le autorità cinesi hanno usato la più sporca delle penne per scrivere le più sporche fra le parole: quelle usate nel processo contro Liu Xiaobo. Che invece, da parte sua, ha usato la sua penna più limpida.

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Lo Yemen, culla del terrorismo islamico

L’ambientalismo estremista dopo Copenhagen

I veri obiettivi di al Qaeda

Il business dell’Apocalisse

di Giancristiano Desiderio

di Errico Novi

l leader del partito dell’amore (Pd’A) è anche l’editore del partito dell’odio (Pd’O) diretto da Vittorione Feltri. Silvio Berlusconi prende alla lettera il Vangelo anche quando andrebbe interpretato: la mano destra non sappia cosa fa la mano sinistra. Così con la destra ama e con la sinistra odia. Con la destra è misericordioso e porge l’altra guancia e con la sinistra somiglia non alla Trinità ma a Lo chiamavano Trinità. Se Berlusconi è per l’amore universale, Feltri è per l’odio nazionale.

oesione nazionale». Espressione chiara, semplice: il Capo dello Stato e il presidente della Camera la evocano con perfetta consonanza a Napoli, alla celebrazione per i cionquant’anni dalla morte di Enrico De Nicola, primo presidente dell’era repubblicana. È un messaggio forte, che difficilmente può essere iscritto al registro della casualità. Non sfuggono richiami come quello di Giorgio Napolitano ai «momenti di serie prove per il Paese».

di Osvaldo Baldacci

di Carlo Ripa di Meana

Lo Yemen è il paese di bin Laden. Certo, anche della regina di Saba, ma oggi come oggi è più interessante che sia la patria nativa della famiglia del superterrorista più ricercato del mondo. E non è questo l’unico problema di un paese splendido per storia e natura, ma anche messo continuamente a rischio dalla sua fragilità interna e da una condizione di povertà insolita per la penisola arabica. Integralisti islamici, indipendentisti del nord e del sud, ribelli sciiti, tribù e briganti: un calderone di insorgenti in ebollizione.

La Conferenza sul Clima di Copenhagen voleva salvare dal global warming gli orsi polari bianchi, ed è invece riuscita a far arrivare in Danimarca gli umani neri e incappucciati, i black bloc, che sfasciano le città storiche, concludendo così con un clamoroso fallimento. È stata una Conferenza partita male: preparata con atteggiamenti retorici e teatrali e, soprattutto, fondata su basi scientifiche controverse e manipolate, messe sotto accusa prima dell’inizio dei lavori dai dati emersi con lo scandalo del climate-gate dell’Università dell’East Anglia.

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CON I QUADERNI)

• ANNO XV •

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Denunce. Incredibile il cambio di atteggiamento da parte del mondo libero, che ha sostenuto i dissidenti sovietici e ora nicchia

Un ayatollah ci seppellirà L’Occidente ha scelto di ignorare la dissidenza iraniana, di cui non conosce nomi e volti. Un errore che potrebbe costarci molto caro di Michael Ledeen

orse i tiranni hanno deciso che il senatore Kerry era troppo alto per entrare nelle loro celle di tortura, e avranno pensato che la crisi economica ancora in corso non gli permetteva imponenti lavori di ristrutturazione. O forse, e questo è più probabile, tutte le celle erano piene di quei dissidenti che continuano ad essere arrestati a folle velocità. Gli ultimi in ordine di tempo sono quelli fermati nella moschea di Shiraz, guidata dall’ayatollah Dastgheib. Questi è un sostenitore del leader dell’Onda verde Mir Hossein Mousavi. E, negli ultimi giorni, i sostenitori clericali del regime riuniti nella città santa di Qom hanno cercato di impedire la crescita morale del Grande ayatollah Sane’i, l’erede del mantello di Montazeri. Nello stesso tempo, ora le forze di sicurezza uccidono i dimostranti con fucili a canne mozze - tipici della mafia siciliana - caricati a proiettili di grosso calibro. Per farla breve il regime iraniano è al momento in guerra con chiunque, se si esclude quella sottile fetta di fanatici e/o opportunisti leali alla Guida suprema Ali Khamenei e al presidente Ahmadinejad.

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Che inizia a essere sempre meno presente ai grandi eventi nazionali. Tuttavia, anche all’interno di quella banda di terroristi, assassini e torturatori (molti dei quali hanno ucciso americani per decenni) ogni tanto esplode la tensione: ad esempio, durante le recenti dimostrazioni nel periodo dell’Ashura. In questa occasione, mi è stato detto, un ufficiale ha sparato tre volte al generale Ahmadreza Radan durante una violenta discussione. Per non paralre delle Guardie Rivoluzionarie, al momento sotto pesante attacco. Il regime ha annunciato ieri che sette membri di quel corpo scelto sono stati uccisi durante un conflitto a fuoco con degli “smerciatori di droga”

nella provincia di Khorasan, vicino al confine afgano. Il numero reale dei morti si avvicina in realtà a 25, con altri dodici (o giù di lì) feriti gravi. E gli “spacciatori”erano in realtà membri dell’etnia baloch, da sempre contraria al regime. Il combattimento è stato così intenso che le Guardie sono state costrette a chiamare in aiuto gli elicotteri e i veicoli blindati. Ed ecco perché i mullah non sono così interessati ai visitatori stranieri che vorrebbero parlare di nuovi inizi. Non si tratta soltanto degli americani: l’Iran ha appena rifiutato una visita, organizzata da tanto tempo, da parte di una delegazione di europarlamentari. Organizzata, molto appropriatamente, dai Verdi. Secondo l’agenda della visita, gli europei avrebbero voluto parlare con i dissidenti: un appuntamento non presente nell’agenda di Kerry! Ed ecco una lezione sulla “cura della parola”: bisogna tornare ai tempi di Ronald Reagan, il presidente che decise di fare tutto il possibile per aiutare i dissidenti sovietici. Gli incontri fra i diplomatici americani e quelli russi erano sempre accompagnati da una lista di persone che soffrivano nell’arcipelago gulag; quella lista era presentata con la richiesta di rilascio immediato. Inoltre, il sostegno americano ai dissidenti veniva reso pubblico a ogni incontro internazionale; e George Schultz era particolarmente bravo in questo. Alcuni giorni fa, il Wall Street Journal

Il mainstream coglie soltanto a tratti la crisi in corso

Che fine hanno fatto televisioni e giornali? di Vincenzo Faccioli Pintozzi ino a all’altroieri, gli occhi del mondo erano puntati sulle strade di Qom e Teheran. La Città santa dell’islam sciita persiano e la capitale del regime governato con pugno di ferro da Mahmoud Ahmadinejad campeggiavano ovunque. E i media - cartacei e catodici - davano per prossima una guerra civile in Iran. Una guerra civile non ha quasi mai eclatanti bombardamenti, non ci sono spostamenti di truppe da monitorare o scontri a fuoco che durano giorni. È combattuta nei palazzi del potere, in cantine male illuminate, dentro le aule delle università. È quindi comprensibile che sia altalenante l’interesse del mainstream internazionale nei confronti del Paese. Meno comprensibile, invece, l’atteggiamento di tanti organi di informazione - alcuni molto blasonati che non ritengono utile mantenere un occhio fisso sui fatti di Iran. La teocrazia dell’ex Persia è, e questo è un fatto, un partner commerciale ed energetico fondamentale: per l’Occidente in senso lato, ovviamente, ma sempre di più per i Paesi del Mediterraneo. Italia in testa, ovviamente, tanto che Roma continua (business as usual) ad essere uno dei maggiori soci di Teheran. Una pacificazione di quel Paese, un tratto di strada comune per il regime degli ayatollah, è dunque a nostro totale vantaggio. Gli immensi giacimenti petroliferi oggi nelle mani di fanatici possono diventare la soluzione alla carenza energetica dell’Europa meridionale, e la grande popolazione iraniana - per molti versi, una delle più avanzate al mondo - potrebbe levandosi il velo dare un contributo decisivo in tanti campi di interesse internazionale. Ecco perché si devono tenere i riflettori puntati su quanto sta accadendo nel Paese. Ecco perché ci si deve sforzare di conoscere i nomi e i volti di coloro che un domani, che tutti speriamo sia prossimo, guideranno una nazione finalmente fuori dalla Rivoluzione di Khomeini.

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Ma anche a voler rimanere testimoni di quello che (su questo siamo tutti d’accordo) è un momento storico per lo scacchiere geopolitico internazionale, ci si deve sforzare di mantenere una propria coerenza. Non è utile a nessuno urlare con toni, appunto, da guerra civile per poi buttare tutto nel dimenticatoio. Certo, è difficile cercare di capire in profondità una situazione complessa e complicata da molti fattori e attori per lungo tempo rimasti nell’ombra. Come è complicato mantenere viva l’attenzione anche in giornate in cui sembra che non succeda nulla. Ma sono proprio quelli i giorni in cui si preparano le Rivoluzioni. I giorni in cui non ci sono rumori di soldati, avvicendamenti di nomine e sparate dai palcoscenici internazionali (un siparietto a cui Ahmadinejad e l’Onu ci hanno abituato da tempo) sono quelli in cui si muovono con più efficacia le truppe di fanteria. I nomi ricordati da Michael Ledeen nell’articolo che presentiamo sopra sono i nostri futuri interlocutori. Sono loro quelli che subiranno lutti e torture prima di arrivare alla vittoria: meritano il nostro rispetto.

ha suggerito di familiarizzare di più con i dissidenti iraniani. Qui ne presento alcuni. Heshmatollah Tabarzadi è un ingegnere, che ha già passato sette anni in prigione. È una figura secolare, non un musulmano devoto, ma è molto rispettato sia dai laici che dai ferventi credenti. Mashaolah Shamsolwaezin è invece un giornalista e attivista per i diritti umani, che ha fondato diversi giornali durante la presidenza di Khatami. Emadedien Baghi è uno studente, uno dei prediletti del defunto Montazeri. È anche lui una figura molto spirituale,

Oltre ai leader politici dell’Onda verde, fra i democratici ci sono ingegneri, giornalisti e teologi. Che oggi vogliono la fine del regime ma ha abbandonato il turban [il copricapo degli ayatollah ndr]. È stato arrestato a causa di un’intervista rilasciata al servizio in persiano della Bbc, che aveva fatto con il Grande ayatollah. Ahmad Qabel è invece un teologo progressista, che chiede da tempo la creazione di uno Stato che sia secolare. Anche lui ha studiato con Montazeri.

Come ho già detto, il Leader supremo e la sua corte sembrano non riuscire a trovare una soluzione per la terribile crisi che sta attanagliando il Paese. Mousavi ha fatto loro un’offerta, che probabilmente non accetteranno: un brillante proclama, apparso sul suo sito Internet, che sottolinea la natura pacifica dell’Onda verde e espone le sue proposte. Il cosiddetto “Documento 17” contiene cinque proposte di base. La prima è che il governo dichiari pubblicamente e senza remore di essere alle dirette dipendenze della nazione, del Parlamento e della magistratura. E questo deve avvenire in modo tale che non si verifichino più sostegni inusuali a copertura della sua debolezza e dei suoi problemi. Deve essere il governo a rispondere per i problemi che ha causato: se è giusto e competente, dovrebbe poter rispondere senza problemi alle richiese della popolazione. E gli altri poteri dello Stato si muoverebbero sui binari tracciati dalla Costituzione.


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I firmatari del documento sono stati arrestati e condannati

E intanto in Cina muore la giustizia La fondatrice delle “Madri di Tiananmen” accusa: «Avete ignorato Charta ’08 e i suoi eroi» di Ding Zilin l 23 dicembre, alle nove del mattino, le autorità cinesi hanno usato la più sporca delle penne per scrivere le più sporche fra le parole: quelle usate nel processo contro Liu Xiaobo. Che invece, da parte sua, ha usato la sua penna più limpida per dire: “Non sono colpevole”. Tremando di paura, una Corte cinese ha superato ogni confine e ha presentato accuse pre-fabbricate e totalmente deboli contro il dissidente. Moltissime persone nel mondo hanno risposto: «Liberatelo». Il cristiano Liu Xiaobo, attivista per i diritti umani, dopo un anno di reclusione in un luogo sconosciuto, il 23 dicembre scorso ha subito un processo con l’accusa di «aver tentato di sovvertire il potere dello Stato» ed è stato condannato il 25 dicembre a 11 anni di prigione. Ora, le uniche parole che da parte mia voglio dire sono queste: il processo che il governo cinese ha intentato contro Liu Xiaobo è in realtà un processo ai valori e ai diritti umani universali. Carta 08 è il luogo virtuale dove i diritti umani hanno trovato spazio per esistere, in Cina. Che se ne leggano soltanto i primi sei paragrafi, o tutti e diciannove i capitoli, la Carta dimostra di esserne permeata. Da parte sua, il governo cinese ha risposto alla sfida con un atteggiamento da “nuovo ricco”. Mostrando il suo denaro e usandolo per sottolineare la debolezza altrui, il regime cinese ha puntato il dito contro la crisi finanziaria internazionale per cercare di farla passare come il tallone d’Achille dell’Occidente. In altre parole, ha glorificato il “modello cinese” dal punto di vista economico per giustificare la repressione effettuata contro i valori universali dell’uomo. In Cina non esistono libertà, diritti umani, uguaglianza, repubblica, democrazia o tanto meno governo costituzionale.

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Scontri per le strade di Teheran. A destra Ding Zilin, leader delle Madri di Tiananmen. Nella pagina a fianco, Mahmoud Ahmadinejad La seconda proposta è quella di indire elezioni trasparenti e credibili che convincano la nazione di vivere in un sistema legale giusto e corretto, senza trucchi o interferenze. Questo nuovo sistema elettorale deve garantire la partecipazione popolare alle urne, nonostante differenze di pensiero e di prospettive. La terza proposta riguarda i prigionieri politici, che devono essere immediatamente scagionati e liberati. Mousavi ritiene che questo procedimento non sarà interpretato come un segnale di debolezza, ma anzi darebbe al governo una nuova luce per la gente normale.

La quarta proposta riguarda la libertà di espressione. Devono essere cancellate le liste di giornali proibiti e deve finire la pratica della confisca della licenza. Questo è un elemento essenziale: censurare Internet e limitare i movimenti dei giornalisti sono pratiche che possono avere un effetto soltanto a breve termine. L’unica, vera soluzione per questa questione prevede la creazione di diversi mezzi liberi di informazione, che siano ben informati e possano operare liberamente all’interno della nazione. L’ultima proposta principale prevede il riconosci-

mento a tutti coloro che vogliono del diritto di unirsi in congreghe, partiti o gruppi politici come previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Ogni azione tesa a promuovere tutto questo potrà alleggerire la tensione fra i basji e le forze di sicurezza nei confronti della popolazione. In un paio di mesi si potrà tornare a un’atmosfera di riconciliazione nazionale.

A conclusione del suo documento, Mousavi pone il peso dell’azione dove dovrebbe essere: sulle spalle del governo. «Questi suggerimenti possono essere intrapresi senza alcun bisogno di contrattazioni politiche o accordi. Sarebbero una conquista di fede, competenza e compassione». In conclusione, tutto questo porta verso un’unica fine. Messa in parole educate, senza chiedere il crollo di alcun regime, i leader dell’Onda verde propongono ai mullah che guidano la politica di Teheran di mettere da parte il diritto divino che sarebbe alla base del loro potere, mettere conclusione allo stato d’assedio contro la popolazione e sottomettersi al verdetto emesso dalle urne alcuni mesi fa. In pratica, sempre in parole educate, si chiede la fine della Repubblica islamica d’Iran.

la del nostro Paese». Come si evince, il processo a Liu Xiaobo è contrario ai desideri della popolazione ma allo stesso tempo accelera l’indebolimento delle fondamenta morali su cui si basa il potere di Pechino. Altra gente nel Paese, sempre di più, guarda a queste cose e perde la propria fede nel governo.

Sì, stiamo assistendo a un collasso simile a quello di una torre: una volta iniziato, non si può fermare. Ogni giorno che passa, l’impatto e la forza morale espressi da Carta 08 crescono più forti. E questa è la vera ragione per cui le autorità non rilasciano Liu Xiaobo ed ha passato più di un anno a cercare e interrogare – uno per uno – tutti coloro che ne hanno siglato il testo. Eppure ad oggi, per quanto si possa cercare, non si trova neanche una persona che abbia ceduto alle pressioni e abbia ritirato il suo sostegno ai valori espressi in quel testo. E perché? Perché così sta andando il Paese!La popolazione cinese ha atteso troppo, veramente troppo per quella società civilizzata che sognava. Oggi, le autorità cercano di pianificare ogni cosa molto meticolosamente. Ogni persona che voleva assistere al processo, ad esempio, è stata messa sotto controllo. Chi si aggirava nei pressi del tribunale veniva rimandato a casa. E questo è un lavoro estenuante, fatto con molta precisione. Persino la moglie dell’accusato, Liu Xia, è stata costretta a rimanere a casa. Ora, il più sporco dei processi politici è finito. Quello che verrà dalla sentenza emessa è facilmente deducibile: è iniziata una nuova fase di sofferenze ancora più grandi per Liu Xiaobo. Sua moglie sarà costretta a passare anni ad andare davanti e dietro da una prigione. Dovrà portare con sè pacchi di cibo, da dare al marito nelle pessime prigioni cinesi, e non dormirà una notte in maniera serena. Noi, che siamo coinvolti nello stesso caso, non possiamo andare in galera con lui: non ce lo hanno permesso. Ma finché lui rimarrà dentro una galera, nessuno di noi avrà un solo giorno di pace.

Ogni giorno che passa, l’impatto e la forza morale espressi da Charta 08 crescono più forti. E questa è la vera ragione per cui le autorità non rilasciano Liu Xiaobo. Ma tutto questo non giustifica il silenzio del mondo intero

Un utente di Internet ha scritto: «Il 23 dicembre, la Corte intermedia del popolo di Pechino ha compiuto un gesto concreto per sovvertire il potere statale». Un altro internauta, stranamente, ha colto nel segno quando ha commentato così la sentenza: «Oggi è nato il Nelson Mande-


politica

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Richiami. Perfetta consonanza tra prima e terza carica dello Stato alle celebrazioni per i cinquant’anni dalla morte del primo presidente dell’era repubblicana

La seconda ricostruzione Fini e Napolitano evocano De Nicola per chiedere «coesione nazionale»: è una risposta agli «sfascisti» di Errico Novi

La strana schizofrenia di Silvio Berlusconi

ROMA. «Coesione nazionale». Espressione chiara, semplice: il Capo dello Stato e il presidente della Camera la evocano con perfetta consonanza a Napoli, alla celebrazione per i cinquant’anni dalla morte di Enrico De Nicola, primo presidente dell’era repubblicana. È un messaggio forte, che difficilmente può essere iscritto al registro della casualità. Non sfuggono richiami come quello di Giorgio Napolitano ai «momenti di serie prove per il Paese» in cui l’interesse comune non può essere smarrito, né l’altro con cui Gianfranco Fini definisce «prezioso» l’insegnamento di De Nicola «sulla via di una rinnovata coesione nazionale». È netto insomma il riferimento alla condizione attuale del Paese, diviso e disgregato dai conflitti, condizione che per la Terza carica dello Stato non è poi così lontana dalle tremende difficoltà del dopoguerra, superate solo grazie a una «ricostruzione morale». Pur nella solennità della loro cornice celebrativa, gli interventi di Napolitano e Fini suonano come una sfida, rivolta soprattutto a quegli attori della scena politica che pensano di poter lucrare ulteriori spazi da un clima di scontro.

E come in tutte le sfide nulla garantisce la certezza della vittoria. Schierati sul fronte opposto ci sono quelli che ieri il Secolo d’Italia ha definito «sfascisti»: Vittorio Feltri – che continua a interpretare l’anima più bellicosa del Pdl berlusconiano con continui attacchi allo stesso Fini e adesso anche all’Udc di Casini – e Antonio Di Pietro, innanzitutto. Ma il discorso sulla coesione da preservare riguarda una certa impostazione complessiva del dibattito pubblico, si riferisce a una svolta ormai necessaria nei termi-

Fautore dell’amore ed editore dell’odio di Giancristiano Desiderio

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migliori penne del suo giornale - quel “vagamondo”di Solinas - per dire all’amico Pier che è l’ultimo democristiano che c’è ancora in circolazione.

Due nomi a caso: Gianfranco (Fini) e Pier Ferdinando (Casini). L’amore - si sa - è cieco e Berlusconi ha più volte dichiarato la sua passione per “il caro amico Gianfranco”; tuttavia,Vittorione - che si picca di essere un drago nell’interpretare i sentimenti più veri dell’uomo Silvio - non lascia passare giorno senza impallinare quel «Fini che è come Di Pietro». Berlusconi soffre pene d’amore per il distacco con Pier e non passa giorno che non lo chiami al telefono e gli dica: «Caro Pier, ma finiamola qui, perché sei andato via, ora che si vota per le regionali torniamo insieme»; anche qui, però, il Feltri ne sa una più del diavolo e sfodera una delle

Berlusconi - si sa - è un amante insuperabile, ma soffre di una malattia che è tipica di Eros: quando l’oggetto del suo desiderio si nega, soffre, più si nega e più soffre e siccome Silvio-Eros non può odiare, ecco che ha imparato a odiare per interposto giornale. È vero che in questo modo il suo partito dell’amore senza confini - che, in verità, somiglia molto al romanesco “volemose bene” di Rugantino - perde un po’ in credibilità, ma - come gli dice e ripete il suo alter egoista di via Negri - sia i Fini sia i Casini giustificano i mezzi stampa. Bisogna dunque rassegnarsi: gli attacchi con articoli sott’odio - come diceva mi pare Longanesi - continueranno e a loro seguiranno le cosiddette prese di distanza degli amorini del premier, ossia Bonaiuti, Bondi e persino La Russa che sembra, anche nell’aspetto, un po’luciferino, ma in realtà è una pasta di pane, praticamente un panino. (L’articolo finisce qui e perciò le poche righe che seguono le scriviamo tra parentesi, quasi come se qui si dicesse una cosa irrilevante. L’amore e l’odio sono due sentimenti umani, troppo umani che nulla dovrebbero avere a che fare con la politica. Accade, invece, che da un mese o quasi si parli spesso di amore e di odio, pure emozioni che hanno trasformato la politica italiana in una politica emotiva e priva di ragionevolezza. Sarebbe meglio che ognuno parlasse d’amore a casa sua, riservando alla “cosa pubblica” dei sentimenti più freddi e proprio per questo più utili e sinceri).

l leader del partito dell’amore (Pd’A) è anche l’editore del partito dell’odio (Pd’O) diretto da Vittorione Feltri. Silvio Berlusconi prende alla lettera il Vangelo anche quando andrebbe interpretato: la mano destra non sappia cosa fa la mano sinistra. Così con la destra ama e con la sinistra odia. Con la destra è misericordioso e porge l’altra guancia - ma non fatelo sapere al Tartaglia - e con la sinistra somiglia non alla Trinità ma a Lo chiamavano Trinità che come è noto diceva «Dio perdona, io no». Se Berlusconi è per l’amore universale, Feltri è per l’odio nazionale. Così il Pd’A e il Pd’O sono di fatto fusi nel partito unico dell’Amore e dell’Odio che, animato da sentimenti contrastanti e contrastati, odia e ama allo stesso tempo e, forse, quelli che odia di più sono anche quelli che ama di più.

A fianco, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano insieme con il presidente della Camera Gianfranco Fini. In basso a sinistra, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Nella pagina a fianco, a destra, il direttore del quotidiano “il Giornale”, Vittorio Feltri

ni del confronto e nella concretezza delle ambizioni riformatrici. È anche questa una «seria prova», per usare le parole di Napolitano: affidarsi a una sola arma, per neutralizzare chi semina divisioni: quella della «serena fermezza», altra qualità di De Nicola ricordata nella celebrazione di ieri. A riprova che non si tratta di una via semplice provvede anche un episodio apparentemente insignificante: nel corso della cerimonia, Napoli dà un’altra deprimente prova del proprio degrado, con il black out dell’impianto elettrico nel Salone dei Busti di Castelcapuano dove si svolgeva la commemorazione. Il fabbricato, storica e dismessa sede del Tribunale partenopeo, «è un po’ abbandonato a se stesso», secondo successiva ammissione del responsabile per la manutenzione degli uffici giudiziari. Ecco, nel ricostruire la nazione e le condizioni di agibilità per la sua democrazia, bisognerà tenere conto anche dello stato di abbandono in cui una parte del Paese si trova.

primo presidente della Repubblica sopportava «l’insofferenza di altri soggetti istituzionali per la sua correttezza e il suo rigore». Parole di un Capo dello Stato che a sua volta ha fatto i conti con la reattività dell’attuale premier di fronte ai richiami sul rispetto tra le istituzioni. È così cruciale e decisiva per la solidità della democrazia la «fermezza» di un presidente della Repubblica che quella esibita a suo tempo da De Nicola anticipò addirittura la Costi-

Il significativo discorso di Napolitano, che ha richiamato a una «serena fermezza», ha la forza di un invito alla pacificazione che è anche monito per chi, quella pacificazione, intende sabotare

Che si tratti di un richiamo chiaramente rivolto alla politica di oggi lo prova anche un passaggio di Napolitano sulla «serena fermezza» con cui il

tuzione e l’equilibrio tra i poteri solo successivamente codificato: «Senza il suo apporto risolutivo è difficile immaginare quale avrebbe potuto essere la sorte del Paese sconfitto e diviso», dice Napolitano: il primo Capo dello Stato del dopoguerra, infatti, «fu il garante dell’evoluzione dalla Monarchia alla nascente Repubblica, inventando prassi ed equilibri repubblicani non ancora fissati nella


politica

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Burrasca nella maggioranza dopo il nuovo attacco del Giornale a Fini

Le bombe di Feltri spaccano il Pdl Tra i finiani c’è chi definisce a rischio l’esperienza dell’alleanza nel centrodestra. I pompieri di nuovo al lavoro di Riccardo Paradisi ’è un metodo nella guerra totale che il direttore del Giornale Vittorio Feltri ha scatenato da questa estate contro il presidente della Camera. L’obiettivo è duplice: da un lato minare ogni ponte di interlocuzione di Fini con soggetti esterni alla maggioranza e quindi recludere l’ex leader di An all’interno del perimetro istituzionale della sua carica. Dall’altro impedire l’emersione di qualsiasi schema politico interno al Pdl riconducibile a Fini: la polemica nei confronti della candidatura di Renata Polverini nella regione Lazio, candidatura riferibile all’area vasta finiana, va evidentemente in questa direzione.

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nuova Costituzione e gestendo passaggi delicatissimi, comprese varie crisi di governo».

Anche qui ritorna l’idea di una seconda, necessaria ricostruzione: ossia di un Paese che oggi, «pur in condizioni, per nostra buona sorte, profondamente mutate», ha «ancora molto da imparare e da trarrre da quella lezione». Non manca, tra i riferimenti agli anni di De Nicola, un passaggio che si può interpretare come richiamo a tutti i soggetti istituzionali, non ultima la magistratura: nell’invito al «rispetto delle reciproche competenze», dice il Capo dello Stato, oggi come allora non c’è «incorreggibile formalismo» ma appunto «correttezza e rigore», che per il primo presidente dell’era Repubblicana si traduceva nel «richiamo a restare ciascuno nei limiti dei propri poteri». A maggior ragione il discorso di Napolitano ha la forza di un invito alla pacificazione che è anche monito severo per chi, quella pacificazione, intende sabotare. Fini a sua volta non disdegna toni di una certa solennità: si sofferma sull’esempio di De Nicola il quale «nei quasi due anni in cui esercitò il suo mandato, delineò i tratti essenziali di uno stile che ha mantenuto ancora oggi tutta la sua efficacia e la sua credibilità. Era uno stile ispirato in particolare all’idea

della ricomposizione morale degli italiani dopo le tremende prove conosciute dal Paese». È appunto quella di un Paese che riesce a rialzarsi dalle sue macerie l’immagine a cui il presidente della Camera sembra tenere di più. È a suo modo un incitamento alla ripresa dell’orgoglio e dell’unità nazionale, quella di Fini, che si inoltra nel difficile sentiero delle lacerazioni storiche, cita «la guerra a cui il fascismo aveva condotto l’Italia». E in particolare ricorda «un messaggio inviato da De Nicola alla Costituente in occasione del suo giuramento il 15 luglio 1946», in cui il primo presidente della Repubblica «auspicava la partecipazione di “tutte le energie vive della Nazione, non esclusi coloro i quali si siano purificati da fatali errori e da antiche colpe all’opera immane di ricostruzione politica e sociale”del Paese». L’esperienza di De Nicola, dunque, «costituisce un prezioso insegnamento sulla via di una riaffermata appartenenza di tutti gli italiani alla stessa comunità nazionale», tanto più che «l’affermazione della democrazia dell’alternanza e la fine delle contrapposizioni ideologiche ripropongono l’esigenza di valori unificanti e condivisi, essendo comunemente accettata l’idea che in un sistema di democrazia bipolare ciò che unisce è importante come ciò che divide».

Un obiettivo diventato ancora più trasparente con l’ultimo assalto frontale al presidente della Camera definito dal Giornale uguale ad Antonio Di Pietro per aver messo in sicurezza i beni immobili di An. Il disegno di Feltri, in questo caso, è quello di rompere preventivamente il fronte di un possibile futura intesa tra le forze moderate di centro e di destra. Insomma rendere da subito impossibile qualsiasi ipotesi di Kadima italiana. Anche perché all’intemerata contro Fini è seguita, il giorno dopo, l’intervista al presidente dell’Alleanza per l’Italia Francesco Rutelli dove l’ex leader della Margherita esprime delle posizioni sull’immigrazione e sull’Islam molto lontane da quelle del presidente della Camera Fini. Parole che hanno indotto il direttore Vittorio Feltri a intravedere «più affinità tra l’Alleanza per l’Italia e il Pdl che tra questo e l’Udc». Rutelli da’”ragione”a Giovanni Sartori sulla difficile integrabilità degli islamici nella società occidentale, «perché la cultura prevalente nell’Islam non è laica, ovvero impone il comandamento divino sulle scelte dei fedeli anche nello spazio pubblico»; critica ”certe reazioni a sinistra”, che dimostrano «una sostanziale incomprensione di quello che accade nel mondo»; ritiene il multiculturalismo «una strada senza uscita, come dimostra la crisi drammatica che investe l’Olanda, e la profonda autocritica aperta nel Regno Unito e in Germania»; propone per l’Italia «pluralismo culturale e integrazione, non velleitario egualitarismo»; definisce le posizioni di Fini «scorciatoie che rischiano di essere superficiali, come alludere all’ora di Islam a scuola, oppure l’idea salvifica della concessione della cittadinanza agli stranieri». Per Rutelli, la concessione della cittadinanza italiana non è uno ”strumento”di integrazione, al contrario, dev’essere ”il punto di arrivo dell’integrazione». Feltri ha buon gioco nell’indicare al Pdl Rutelli come in-

terlocutore più interessante rispetto a Casini e allo stesso Fini. Un attacco in due tempi dunque, di sfondamento il primo e di assestamento il secondo che ha subito attivato le reazioni degli uomini vicini a Fini. Il ministro della Difesa Ignazio La Russa, uno dei tre coordinatori del Pdl, scrive a Feltri – è la seconda volta che lo fa per gli stessi motivi – chiedendogli di cessare il fuoco amico nei confronti di Fini. Bocchino, un finiano doc rispetto al pontiere La Russa, è meno diplomatico: «In giro ci sono troppi guastatori intenzionati a rompere la coppia Berlusconi-Fini, ma sbagliano se pensano che il premier possa prescindere dal cofondatore del Pdl, se si rompe va a rotoli tutto il progetto». Fabio Granata, il più finiano di tutti della minoranza del Pdl fa un passo ulteriore rispetto a Bocchino con un intervento di rottura che profila addirittura la fine del Pdl: «Se nel partito non sarà possibile trovare forme di sintesi politica bisognerà cercare nuove sintesi ma oltre la vecchia dicotomia destra-sinistra». Secondo Granata, «c’e’ una fronda antifiniana nel Pdl, che rende difficile l’elaborazione di una linea politica coerente con una moderna forza riformista europea».

Secondo Fabio Granata «c’è una fronda antifiniana nella maggioranza che rende difficile una linea coerente con un moderno riformismo europeo»

Per il vicepresidente dell’Antimafia infine «la quota del 70 e 30 sulla base del quale è nato il Pdl non significa più nulla, perché il 30 per cento dovrebbe rappresentare le idee di Fini. Se poi, come accade spesso, i parlamentari vengono chiamati con metodi coercitivi a esprimere un’ortodossia stabilita non si capisce da chi, allora e’ un altro discorso». A tentar di gettare acqua sul fuoco il capogruppo dei senatori Pdl Maurizio Gasparri:«Che nel Pdl vi siano posizioni di minoranza lo disse per primo il presidente della Camera Fini nell’intervento politico che tenne al congresso fondativo del partito. Fini stesso riconobbe che alcune sue opinioni, penso alle questioni etiche e oggi potrebbe essere la cittadinanza, erano minoritarie». Gasparri cerca poi di sdrammatizzare «Feltri è il nostro sparring partner, colui che riscalda i pugili. Diciamo che ci tiene allenati non avendo avversari che ci contendono il titolo sul ring. Ogni tanto tira un cazzotto invece di limitarsi ad allenare». Ma le battute non sembrano sufficienti a sedare la tempesta scatenata dalla nuova bomba feltriana. Il viceministro finiano allo sviluppo economico Adolfo Urso accusa Feltri di incitare alla guerra civile nel Pdl e parla già di successione a Berlusconi. Leggendo lungo le linee misteriose di ciò che sarà il presidente della Fondazione Fare Futuro vaticina: Dopo il Cavaliere verrà Fini e dopo di lui Renata Polverini.


diario

pagina 6 • 6 gennaio 2010

Aperture di credito. «Siamo pronti a sostenere la scelta moderata del Pd, ma si decida presto», dice il leader dell’Udc

Casini: o Boccia o salta tutto

E nel Lazio incarico esplorativo a Zingaretti, mentre la Bonino è già in campo ROMA. È un estremo atto di fiducia quello con cui Pier Ferdinando Casini sostiene l’opzione moderata del Pd in Puglia: «Siamo pronti a sostenere la candidatura di Francesco Boccia», dice il leader dell’Udc in conferenza stampa, al termine di una lunga riunione con Lorenzo Cesa, il coordinatore pugliese del partito Angelo Sanza e gli altri dirigenti locali. Il tono risoluto stride fatalmente con le incertezze esibite finora dai democratici, ma è, appunto, un netto incoraggiamento a insistere nella direzione indicata il giorno prima al Nazareno, con l’incarico per una «esplorazione» conferito al deputato di area lettiana. È un po’ il coraggio che in questo momento al Pd manca, o meglio è la spinta forse decisiva per superare quelli che Casini non esita a liquidare come «i giochini di Vendola». La fiducia e il sostegno, d’altronde, non sono illimitati: «Si scelga entro lunedì», dice il leader dell’Unione di centro, «altrimenti inizierà una partita diversa».

Difficile che da un alleato pure decisivo potesse arrivare un aiuto più chiaro di questo, giacché in ultima analisi sono Bersani, Letta e D’Alema a dover scegliere se dare un ultimatum alla sinistra massimalista. Certo è che per quanto definito in un perimetro locale, il ballottaggio Boccia-Vendola equivale a questo punto per il Partito democratico a una scelta quasi irreversibile tra l’esito riformista e moderato e l’arroccamento in un vecchio centrosinistra. Lo si capisce dalle parole di Casini: «Noi chiediamo al Pd di scegliere una volta per tutte e presto: siamo disponibili ad appoggiare Boccia, che è un modeindipendentemente rato, dalle scelte di Vendola. E se Vendola sarà sostenuto da una coalizione di sinistra siamo disposti anche a perdere», è il paradosso del vertice di via dei Due Macelli. Qualsiasi rischio, anche quello di una partita a tre con un altro schieramento guidato da Vendola a giocarsela contro il Pdl, pur di mettere alla prova la capacità dei democratici di esseri interpreti di una sinistra «blairiana»: «A chi ci dice che tentenniamo rispondo che

di Errico Novi

Umbria. Duello tra la dalemiana Lorenzetti e il franceschiniano Agostini

Il senatore e «la zarina» di Valentina Sisti l Pd rischia di dividersi anche nelle poche realtà in cui è certo di vincere. Già, vincere. Ma con chi? Anche nella rossa Umbria il partito fatica a compattarsi. Dopo l’ufficializzazione della ricandidatura di Maria Rita Lorenzetti, detta“la zarina”, dalemiana di ferro, alla guida della Regione da dieci anni, ieri pomeriggio i rappresentanti della segreteria umbra del Pd hanno nuovamente cercato l’accordo, senza trovarlo. La governatrice uscente avrebbe raccolto per ora solo 130 firme dell’assemblea regionale del suo partito, ben al di sotto dei due terzi dei 250 componenti, necessari per ottenere il terzo incarico, dato che lo statuto ne prevede solo due. Contro la Lorenzetti, i franceschiniani hanno candidato il senatore Mauro Agostini, ex tesoriere del Pd con Walter Veltroni e profondo conoscitore del settore creditizio e finanziario. Una piccola rivincita, insomma, dopo la sconfitta al congresso.

I

«La priorità è evitare qualsiasi rottura», va ripetendo il segretario regionale Lamberto Bottini. Se le difficoltà per trovare la quadra sulla candidatura unica sembrano per ora evocare l’unico scenario delle primarie, sia i franceschiniani che i bersaniani paventano il ripetersi delle circostanze che avevano portato, alle comunali di Bastia e Orvieto, dapprima inevitabili fratture e poi la vittoria del centrodestra. Per questo, oltre a proseguire le trattative ai livelli più alti del Pd, sul piano delle possibili mediazioni spuntano alcuni nomi, meno forti, nel tentativo di ricompattare il partito. A raccogliere maggiori consensi, è il de-

putato perugino Gianpiero Bocci, ex democristiano vicino a Giuseppe Fioroni, che potrebbe avere la meglio sia su Catiuscia Marini, della segreteria di Pierluigi Bersani, già sindaco di Todi ed europarlamentare, che su Marina Sereni, deputato di Foligno e attuale vicepresidente nazionale del Pd.

Ma a far pendere l’ago della bilancia a favore della Lorenzetti, ci sarebbero i sondaggi. Nel caso di un nome diverso, infatti, il candidato del centrodestra potrebbe avere buone possibilità di spuntarla. Non sarà invece determinante, in questo caso, la scelta dell’Udc, che già da tempo ha annunciato di correre da sola. L’ipotesi migliore potrebbe allora essere quella di una“squadra” da affiancare alla governatrice uscente, che consentirebbe un equilibrio alle diverse aree del partito. Si parla, infatti, anche di un possibile accordo che assegnerebbe due assessori su quattro del Pd alla corrente franceschiniana, mentre la presidenza dell’assemblea di Palazzo Cesaroni potrebbe essere assegnata a un bersaniano di ferro come l’ex sindaco di Perugia Renato Locchi. La candidatura della Lorenzetti potrebbe contare anche sull’appoggio di Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Sdi, che non incontrerebbe invece il favore dell’Italia dei valori. E per ridimensionare lo spettro delle primarie (inventate per unire, che però sin qui si sono dimostrate in grado più che altro di spaccare), è già al lavoro un comitato di quattordici persone, incaricate di gestirne l’organizzazione.

noi siamo interessati a una evoluzione del Pdl nel solco del Ppe così come siamo interessati a una sinistra riformista di stampo blairiano. I democratici sono chiamati oggi a scegliere», incalza Casini, «e noi ci prendiamo la responsabilità di dire al Pd della Puglia “non perdiamo altro tempo, usciamo da questo gioco che ci sta impantanando tutti. È il momento, per il Pd, di scegliere tra il riformismo e i veti dell’ultrasinistra. Se ci dicono di sì andiamo immediatamente alla coalizione, perché Boccia è apprezzato da tutti noi in quanto è un moderato. Ma ci vuole una frattura tra la sinistra no global ed estremista e una sinistra riformista e blairiana». Ecco appunto l’invito a prendere in modo sostanzialmente definitivo una delle due strade aperte davanti al Pd: «Ragazzi, le chiacchiere stanno a zero: noi non solo ci stiamo, ma siamo pronti anche a perdere, non ci interessano i giochini di Vendola».

Discorso chiaro, che sposta la discussione decisamente più avanti rispetto al travagliato attendismo del Pd, certo indebolito dall’assenza di Bersani. «Sono molto soddisfatto di questo esito», dice intanto il coordinatore pugliese dell’Udc Sanza: sarà la riunione dei democratici prevista per domani con il segretario a fornire una prima risposta, che dovrà in qualche modo estendersi anche al caso del Lazio: dove a fare la prima mossa sono invece i Radicali, che candidano ufficialmente Emma Bonino e annunciano liste «in tutte le regioni». Il sostegno del Pd «è un’opportunità per loro», dice la vicepresidente del Senato. Alla quale i democratici rispondono con una soluzione ancora attendista: affidare al presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti l’ennesima «esplorazione», in questo caso destinata ad accertare «l’orientamento prevalente» dei rappresentanti regionali del partito. Immaginare che Zingaretti possa capovolgere il suo rifiuto di candidarsi, finora opposto con decisione, e incrociare quindi le aspettative dell’Udc, sembra un eccesso di ottimismo, per la sinistra moderata.


diario

6 gennaio 2010 • pagina 7

Ted Simon, “paladino legale” dei cittadini americani all’estero

Arrestati mandanti ed esecutori di 16 omicidi nel napoletano

Amanda Knox assolda un super avvocato Usa per l’Appello

Maxiretata contro i clan della camorra

PERUGIA.

La famiglia di Amanda Knox si è assicurata l’assistenza di Theodore “Ted” Simon, uno dei maggiori legali Usa, che affiancherà il colleggio dei legali italiani nel processo di appello. Lo riferisce la Press Association britannica. La 22enne americana di Seattle è stata condannata in primo grado a 26 anni di prigione per l’omicidio della studentessa britannica Meredith Kercher, avvenuto a Perugia nel 2007. Simon lavorerà con gli avvocati Luciano Ghirga e Carlo Della Vedova. Il processo di appello dovrebbe iniziare il prossimo marzo, ma con ogni probabilità la prima udienza si terrà solo in autunno. Secondo Simon, segretario della America’s National Association of Criminal Defence Lawyers (considerato un’autorità nella difesa dei cittadini americani all’estero) «la condanna di Amanda è un tragico esempio di condanna sbagliata che richiede una significativa revisione».

Il papà di Amanda, Curt, è fiducioso, e ritiene che l’avvocato Simon sarà «una carta decisiva”. Subito dopo la sentenza, i rapporti tra la città (gemellate) di Perugia e quella di Seattle si erano molto raffreddati, al punto che alcuni dirigenti politici della città americana hanno

NAPOLI. Maxiretata contro i

Da Scajola arrivano 2 miliardi per la ricerca Al via i nuovi «contratti di innovazione tecnologica» di Alessandro D’Amato

ROMA. Il ministero dello Sviluppo Economico lancia una nuova formula di “contratti di innovazione tecnologica” che, attivando investimenti per circa 2 miliardi di euro, favorirà la ricerca applicata e stimolerà nuove opportunità di lavoro per oltre 30mila ricercatori. Lo comunica lo stesso dicastero di via Veneto in una nota, dove si informa che il ministro Claudio Scajola ha infatti firmato il decreto ministeriale che dà via libera al programma. Che, dicono i tecnici, rappresenta anche una risposta ideale alle difficoltà denunciate dai ricercatori italiani come quelli dell’Ispra, che ancora oggi vivono sul tetto dell’istituto per protestare contro il mancato rinnovo dei loro contratti presso il ministero dell’Ambiente. Anche se la tipologia utilizzata, simile ai contratti a progetto, si adatta alle partnership tra pubblico e privato e non alle situazioni totalmente pubbliche (a meno che non si tratti di enti di ricerca).

del progetto di massima all’approvazione del piano definitivo. Se davvero sarà così, si potrà finalmente dire addio alle lungaggini burocratiche che attanagliano lo stanziamento dei fondi pubblici.

Le risorse disponibili per il finanziamento, in grado di consentire alle imprese un volume d’investimenti pari appunto a circa 2 miliardi di euro, secondo i calcoli di via Veneto permetteranno ad oltre 30mila ricercatori di lavorare. Nel decreto del ministro dello Sviluppo Economico sono fissati un iter dettagliato e tempi molto stretti per l’attivazione del contratto. Per il finanziamento pubblico agevolato si potrà contare su una prima dote di risorse finanziarie pari a un miliardo di euro, a valere sul «fondo rotativo per il sostegno alle imprese e gli investimenti in ricerca» costituito presso la Cassa Depositi e Prestiti. Altre risorse saranno messe a disposizione del Mezzogiorno con una più significativa incidenza riservata ai contributi diretti alla spesa. Il finanziamento pubblico sarà affiancato da un finanziamento bancario ordinario a tasso di mercato, a garanzia della validità dell’investimento proposto dalle imprese. In più, il finanziamento pubblico agevolato potrà arrivare a coprire fino all’80 per cento dei costi, mentre nelle regioni del Mezzogiorno il contributo diretto alla spesa potrà arrivare fino al 40 per cento per le piccole imprese e per gli organismi di ricerca, al 30 per cento per le medie imprese e al 20 per cento per quelle grandi. La combinazione specifica di modalità e intensità agevolative verrà definita per ciascun progetto durante la fase negoziale. Nelle regioni del Mezzogiorno potrà essere utilizzata anche la sola modalità del contributo diretto alla spesa. Una serie di agevolazioni per il Sud che erano state annunciate nei giorni scorsi dal ministro Scajola all’interno degli interventi anti-crisi, e che adesso potranno costituire una spinta per l’economia del Meridione, che oggi ristagna sempre più dopo i rovesci del Pil nell’anno appena trascorso.

I progetti potranno avere una durata massima di 3 anni e si realizzeranno attraverso partnership tra pubblico e privato

deciso, su richiesta dei loro concittadini, di non intitolare più un parco a capoluogo umbro. Il sindaco Boccali scriverà al suo collega americano nella speranza di vedere ancora riconfermata l’amicizia e le relazioni tra le due città gemelle. Le relazioni non devono essere «compromesse da una vicenda che deve rimanere soltanto giudiziaria; le nostre due comunità - secondo Boccali - non c’entrano nulla». I quotidiani locali nei giorni scorsi avevano dedicano ampi spazi alla notizia. C’è da scommettere che anche l’arrivo del super avvocato Ted Simon, chiamato a togliere le castagne di Amanda dal fuoco del processo d’appello di marzo, riempirà altre pagine di cronaca.

clan camorristici del napoletano. L’operazione ha portato all’arresto di una trentina persone protagoniste di una sanguinosa faida contrassegnata anche da 16 omicidi. Il blitz è stato effettuato dai carabinieri di Castello di Cisterna, in provincia di Napoli, in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Tribunale partenopeo dopo un’attività di indagine svolta dai militari tra il 1997 e il 1999 nei confronti di 6 clan camorristici operanti sull’area a Nord del capoluogo campano. Le accuse vanno dall’associazione per delinquere di tipo camorristico a traffico di stupefacenti a estorsioni alle violazione delle norme sulle armi. In carcere sono finiti capi e

Scajola ha spiegato che «eccellenza, rigore e risultati in tempi certi sono le parole d’ordine su cui abbiamo puntato nei contratti di innovazione per consentire alle imprese italiane di conquistare nuovi traguardi nelle produzioni e nei servizi ad alto valore aggiunto. Siamo convinti che questo nuovo strumento aggiunga un altro elemento importante al quadro della rinnovata alleanza strategica tra imprese, sistema bancario e Stato per il rafforzamento della competitività del Paese». I progetti finanziati potranno avere una durata massima di 3 anni, e saranno innovativi «fuoriserie», di importo superiore ai 10 milioni di euro, che si realizzeranno attraverso le partnership tra pubblico e privato grazie ad un processo di negoziazione. In sostanza le imprese e gli enti di ricerca sottoscrivono un accordo con la controparte pubblica; lo stanziamento avverrà attraverso una combinazione di prestito agevolato e contributo diretto alla spesa; secondo il ministero, passeranno solo 4 mesi dalla presentazione

affiliati ai clan che nel tempo si sono fronteggiati per il controllo delle estorsioni ed il traffico di droga compiendo 16 omicidi.

I clan coinvolti sono: NataleMarino operante a Caivano, Legnante-Pezzella attivo a Frattamaggiore ed a Frattaminore, Russo-Ciccarelli nel Parco Verde di Caivano, Pezzella presente a Cardito ed a Carditello, Iavazzo operante a Frattamaggiore, Cennamo attivo a Crispano ed a Frattaminore. Le indagini sono state svolte dai carabinieri della Compagnia di Casoria durante le quali sono stati scoperti gli autori ed i mandanti di 16 omicidi avvenuti tra Caivano, Frattamaggiore e Frattaminore, Crispano, Cardito e Carditello nell’ambito di scontri tra opposti clan per il controllo delle estorsioni e del traffico di droga; sono state accertate diverse estorsioni ai danni di commercianti ed imprenditori della zona. Il provvedimento è stato emesso dal Tribunale dopo che ad ottobre le 29 persone coinvolte erano state condannate a pene varianti dai 6 ai 21 anni per associazione per delinquere di tipo camorristico, estorsione, traffico di droga e violazione delle legge sulle armi. Nove degli arrestati erano stati scarcerati per decorrenza dei termini.


ambiente

pagina 8 • 6 gennaio 2010

Ambientalismo & affari. Volevano salvare il mondo dal global warming, sono solo riusciti a dare visibilità ai black bloc

Il business dell’Apocalisse La “grande impostura” dell’ecologismo radicale dopo il fallimento del summit di Copenhagen di Carlo Ripa di Meana a Conferenza sul Clima di Copenhagen voleva salvare dal global warming gli orsi polari bianchi, ed è invece riuscita a far arrivare in Danimarca gli umani neri e incappucciati, i black bloc, che sfasciano le città storiche, concludendo così con un clamoroso fallimento. È stata una Conferenza partita male: preparata con atteggiamenti retorici e teatrali e, soprattutto, fondata su basi scientifiche controverse e manipolate, messe sotto accusa prima dell’inizio dei lavori dai dati emersi con lo scandalo del climate-gate dell’Università dell’East Anglia, falsità confermate durante i lavori, quando Al Gore, annunciando l’avanzato scongelamento del Polo Nord, ha citato una fonte che a distanza di poche ore ha smentito l’ex vicepresidente americano di quanto gli aveva attribuito.

L

La gestione della Conferenza da parte del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, dello stesso Al Gore, del principe Carlo e del consigliere del premier Brown, Nicolas Stern, è stata demagogica e imprudente. Un forte contributo in questa direzione

isterica e catastrofista è venuto anche per mesi e mesi dal presidente Barack Obama. Così, è accaduto che una capitale europea bene organizzata è stata messa in ginocchio per dodici lunghi giorni concludendosi con un flop planetario.

Comunque, è preferibile un fallimento ad un cattivo compromesso. Le parole di Obama hanno fatto altre volte miracoli, ma mi pare che la sua capacità di illusionismo climatico si stia ridu-

tano, in questo caso, di occultare gli altri mancati impegni degli Usa. Il problema non si risolve certo così. Non sono infatti le emissioni Co2 dei Paesi emergenti a costituire il maggior problema. Se si vuole abbattere l’inquinamento antropico del pianeta bisogna cominciare col farlo negli Usa, in Cina e, a seguire, in India, in Messico, in Brasile. La Conferenza ha svelato molte cose importanti di cui si dovrà tener conto. Prima di tutto è emerso che non è all’ordine del giorno

Anche in Italia, scienziati e divulgatori come Antonino Zichichi, Franco Prodi, Franco Battaglia e Folco Quilici hanno espresso le loro posizioni “scettiche” ma propositive cendo: nel caso global warming, infatti, il presidente non ha avuto dalla sua il Senato, e dunque, alla fine della recita, Hillary Clinton ha annunciato cento miliardi di dollari ai Paesi più poveri per abbattere le loro emissioni. Questa decisione priva di altri impegni fermi e vincolanti degli Stati Uniti si iscrive ancora nella politica dei“doni salva coscienza”che ten-

la fine della civiltà industriale basata sul carbone, che include la siderurgia, la metalmeccanica, la petrolchimica.

La società contemporanea carbon-free non è pronta. Il potere politico, è un’altra constatazione dopo la Conferenza di Copenhagen, non ha imboccato la strada del nucleare che è il modo diretto,

piaccia o no, per ridurre il Co2. Eloquente a tale proposito il silenzio della grande Russia nucleare. Si è inoltre visto che la green industry a oggi è molto esile: lo constatiamo con una punta di ironia proprio nel momento in cui ci propongono, con incorreggibile retorica, una nuova generazione di biciclette con pedalata assistita, messa a punto da un italiano negli Stati Uniti. Si deve riconoscere, da parte di osservatori onesti e realisti, che non si vive di reti digitali intelligenti, le smart grid, peraltro costosissime, che dovrebbero sostituire tutti gli elettrocondotti, le grandi reti energetiche, ecc.

so per parlare di una consistente green industry italiana. La Conferenza di Copenhagen è nata su attese sviluppate in modo abnorme nelle opinioni pubbliche che, sulla base di una cattiva cultura e di dati scientifici manipolati, per scolpire nel bronzo che l’uomo sta alterando il clima producendo il riscaldamento globale, e che a tal fine occorrono misure autoritarie e spese sovrumane per evitare l’Apocalisse, si attendevano la palingenesi onusiana. Al Gore e Ban Ki-moon hanno già proposto di fare un nuovo summit a fine 2010 in Messico, preceduto da un incontro preparatorio a Bonn verso la metà del 2010.

Non basta che l’Enel abbia delle tecnologie per chiudere nelle miniere dismesse il Co2 in ecces-

Anche lì, a Bonn e poi in Messico, si rischia di non concludere alcunché di efficace e reale, se non


ambiente

Centro Bruno Leoni hanno offerto una consistente e accuratissima argomentazione contro gli scenari estremi dell’Ipcc (Intergovernamental panel on climate change). Ci sono poi illustri scienziati e grandi divulgatori, come Antonino Zichichi, Franco Prodi, Franco Battaglia, Folco Quilici, che hanno anche loro detto e scritto parole pesate e autorevoli. Anche nel mondo politico non sono mancate posizioni scettiche e propositive. Scettiche verso i pareri adottati a maggioranza dall’Ipcc e intrisi di previsioni catastrofiche, grandi città sommerse, i poli geografici liquefatti, la fine dell’ecosistema. Basti pensare alla posizione, molto critica, assunta autorevolmente dal presidente della commissione Ambiente del Senato, Antonio d’Alì.

verrà rimossa la premessa, oggi ancora indiscutibile, che è alla base della teoria del global warming: è l’uomo che governa il clima e solo lui lo può modificare. Se si vuol fare davvero qualcosa per sbloccare lo stallo in cui la grande impostura climatica ha paralizzato le Nazioni Unite, come abbiamo visto a Copenhagen, quando decine di migliaia di giovani giunti da tutto il mondo hanno vissuto la frustrazione dello scacco, e l’inutilità degli scontri ripetuti contro la polizia secondo il piano dei black bloc, si deve – credo – compiere uno scrupoloso approfondimento scientifico del problema, senza più consegnarci agli apocalittici di professione. Abbiamo veramente bisogno prima di tutto di buona scienza, e non del piagnisteo, per giunta

violento, come a Copenhagen, sull’ingiustizia economica come capro espiatorio di tutti i problemi. In questo quadro fatto di dure realtà, l’Europa deve ripensare a chi affidarsi: non può continuare a mettersi nelle mani delle lobby apocalittiche che serrano il primo ministro Gordon Brown, con il maturo principe ereditario, gli enarchi a Parigi, Legambiente, Greenpeace e Rifkin a Roma. Così si crea solo frustrazione, temporanea retorica e nulla di fatto.

In Italia, ad esempio, un’opinione diversa esiste e si è rafforzata nel 2009, ma molti non la conoscono per il silenzio, non innocente, di una parte della comunicazione ufficiale. Parole di verità, invece, hanno scritto in particolare Il Foglio e liberal. Le analisi del

Lo stesso governo italiano è apparso tra i meno demagogici e dogmatici dell’Unione europea: penso ad alcune obiezioni che all’inizio dell’anno 2009 vennero dal ministro dell’Ambiente Prestigiacomo e dallo stesso presidente Berlusconi. Ciò nonostante, l’Italia a Copenhagen non ha giocato alcun ruolo. Non ha pesato. Vorrei ricordare, poi, che sul-

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che comprende la Spagna e il Portogallo. Non si può continuare a percorrere piste sbagliate. Ci si romperà la testa. Segnalo che il presidente della Repubblica ceca, Vaclav Klauss, ha impostato con chiarezza il problema che ci attende, tra i maggiori del futuro, in materia di energia e clima. Quel parere merita di essere studiato.

L’Italia dovrebbe prepararsi ad una stagione di accertamento della verità scientifica, affrontando il grande inganno che finora ha dominato la scena ufficiale. Dall’Italia dovrebbe venire una valutazione veritiera delle potenzialità della green economy, che al momento non sono quelle della sua supposta chimerica“travolgente espansione”. Anthony Giddens su Repubblica del 5 gennaio non si dà pace e citando il suo libro The politics of climate changes, pubblicato nove mesi fa - insiste nella sua tesi positiva e parla dell’accordo raggiunto che «potrà costituire un’intesa di riferimento da cui ripartire in seguito», anche se riconosce che ci servirà «oltre a ciò una molteplicità di accordi bilaterali e regionali, come pure - ebbene sì - delle coalizioni di volen-

Abbiamo bisogno prima di tutto di buona scienza e non del piagnisteo, per giunta violento, come a Copenhagen, sulla ingiustizia economica come capro espiatorio di tutti i problemi del pianeta l’eolico (la carta preferita dalle lobby italiane per le energie rinnovabili) è scoppiato uno scandalo sovranazionale. Basti leggere l’Herald Tribune americano di lunedì 14 dicembre, dove si racconta in prima pagina che al seguito delle rinnovabili arrivano le frodi. E si citano i Paesi dove sono avvenute prima che altrove queste illegalità: l’Italia guida il gruppo,

terosi». La babele programmatica. Molto più giusto utilizzare l’implacabile analisi di Carlo Bastasin del Sole24ore di domenica 31 gennaio, che, con una preziosa e documentatissima ricostruzione dell’ultima caotica giornata di lavori a Copenhagen, così riassume l’incapacità dell’Unione europea e singolarmente dei suoi Stati membri: «a rendere

inefficace il ruolo europeo non è stata la divisione tra i Paesi bensì l’incapacità di pensare in termini di influenza strategica, nonché la mancanza di responsabilità politica di fronte a un fallimento che ogni leader nazionale può scaricare sull’Europa anziché su se stesso». Prima di Copenhagen, alcuni di noi in Italia volevano organizzare, a Volterra, un incontro che ponesse la questione del futuro climatico e energetico del pianeta in modo diverso. Sì, volevamo invitare Vaclav Klauss, uomini politici aperti e problematici, come d’Alì, Bondi, Casini e Granata, numerosi grandi scienziati e tutti coloro che a livello internazionale non vogliono affidarsi solo alle vulgate terrorizzanti promosse anche da interessi non innocenti delle lobby economiche.

Quel Convegno avrebbe dovuto riaprire le pregiudiziali scientifiche dell’Ipcc, contestandone, dove vi sono, gli errori. Qualcuno ha pensato che non ce l’avremmo fatta a mettere in discussione i presupposti scientifici manipolati del Vertice sul clima, sostenuti ideologicamente e politicamente, senza riserve da una maggioranza dei Paesi partecipanti. I fatti hanno dimostrato che avremmo fatto bene a organizzare quel Convegno, anche se è molto faticoso e stressante chiamare un incontro internazionale in controtendenza, libero, indipendente, razionale. Rimango del parere che quello che non abbiamo fatto sarà bene fare in vista delle due tappe di Bonn e del Messico, dopo Copenhagen. La grande impostura è visibile a occhio nudo. Lo stallo egualmente. Ma i molti profeti dell’apocalisse, quelli naif e quelli del business, ci riproveranno. Sarebbe bene che questa volta fossero piegati dalla conoscenza e dalla razionalità.


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panorama

ragioni&torti di Giancristiano Desiderio

Meridionalismo leghista e leghismo meridionale l ministro Maroni sta facendo un buon lavoro nel Mezzogiorno. Bisogna riconoscerlo. Forse in Italia vale il principio che un ministro dà il meglio di sé fuori dalla sua regione di appartenenza elettorale. Senza uno spirito fazioso, infatti, è difficile criticare e dar torto al lavoro del responsabile del Viminale. Si deve prendere atto che tanto le dichiarazioni quanto, e ancor meglio, i provvedimenti sono a favore del Mezzogiorno proprio quando nulla risparmiano al Mezzogiorno. Le ultime decisioni di Maroni e l’ultima sua intervista rilasciata al Corriere della Sera vanno in questa direzione. I comuni di Maddaloni, Casal di Principe, Castelvolturno sono stati sciolti perché inadempienti nella raccolta dei rifiuti: un tanto elementare quanto giusto principio - se non amministri vai via - è stato applicato a delle amministrazioni comunali che con i fatti hanno ampiamente dimostrato di non essere in grado di garantire la pulizia delle strade e la raccolta differenziata dei rifiuti.

I

Se questa regola, allargata anche ad altri problemi, venisse applicata a molti altri comuni meridionali avremmo molto probabilmente la quasi totale delegittimazione della classe amministrativa, ma si affermerebbe anche in modo concreto quel principio di responsabilità che è la spina dorsale della democrazia: chi non garantisce buona amministrazione va a casa. È fin troppo evidente: da quando non c’è più alcun controllo sugli atti amministrativi di comuni ed enti locali la vita democratica e amministrativa del Mezzogiorno, che già non godeva di buona salute, è precipitata. Il “meridionalismo leghista”, però, non critica solo sindaci e amministratori, politici e classe dirigente, ma anche il Sud, ossia i meridionali. Nell’intervista al Corriere, Maroni ha detto che per investire al Sud «bisogna prima cambiare le regole perché c’è ancora chi non chiede lavoro, ma stipendio». È inutile rispondere con falso orgoglio. Le accuse di antimeridionalismo nei confronti di atti di governo che vengono incontro alle esigenze del Mezzogiorno e perseguono la criminalità organizzata arrestando boss e criminali risultano essere non solo ingiuste, ma anche non comprensibili alle orecchie degli stessi meridionali. Qui c’è un fatto nuovo e se si desidera esprimere concetti chiari e significativi bisogna prenderne atto: sia l’azione di governo sia la linea politica di quello che è forse il maggior esponente della Lega non contrastano ma favoriscono un miglioramento della vita civile del Mezzogiorno. Il “meridionalismo leghista” è un’occasione che il Meridione e i meridionali non dovrebbero lasciarsi scappare. Se è vero che il problema del Meridione è il problema dei meridionali, allora, ciò che conta è un cambiamento dell’atteggiamento del meridionale, ma anche della sua classe dirigente. Non serve, per intenderci - e Maroni non ce ne vorrà - un “leghismo meridionale”, ma senz’altro si pone un problema: dove sono gli interlocutori meridionali del ministro Maroni e del suo “meridionalismo leghista”?

I misteri atlantici di Telecom ed Echelon Sì al segreto di Stato sui rapporti tra 007 e compagnia telefonica di Ruggiero Capone on riferimento ai termini con cui la stampa dà notizia della conferma da parte del presidente del Consiglio del segreto di Stato opposto dal dottor Marco Mancini al Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Milano, la presidenza del Consiglio precisa che la tutela del segreto attiene agli atti di quel processo solo in quanto riferibili alle relazioni internazionali tra servizi di informazione e agli interna corporis degli organismi informativi». La risposta della presidenza del Consiglio toglie ogni velo sugli 007 Telecom, confermando che in Occidente tutte le compagnie telefoniche sono tenute ad avere in seno uomini della sicurezza “graditi” alle intelligence di Europa e Usa. La nota di Palazzo Chigi va presa come atto dovuto ed istituzionale, a seguito dell’articolo del Corriere della Sera in cui si riferisce che «il premier Silvio Berlusconi ha posto il segreto di Stato sulla natura dei rapporti tra Telecom e l’ex numero tre del Sismi (ora Aise) Marco Mancini». La presidenza del Consiglio non ha potuto far altro che confermare il segreto di Stato. Se Mancini avesse risposto alle domande del Gip, avrebbe rivelato segreti relativi ad accordi tra Cia, rinnovata cabina di regia Echelon e l’italiana Telecom.

«C

Pentagono all’intromissione nella vita privata delle persone e relativa captazione occulta di dati riservati. Echelon è il grande orecchio Occidentale, venne creato durante la Guerra Fredda. All’inizio degli anni ’60, grazie alle nuove tecnologie Nasa, vennero messi in orbita i primi satelliti spia, ognuno dei quali aveva il nome di una differente generazione tecnologica. Negli anni ’90 cambiava il sistema spionistico, la Guerra fredda era bella e tramontata, così venivano approntati sistemi tecnologicamente più evoluti. I centri elaborazione dei loro dati terrestri (telefonici) si trovano a Menwith Hill (Gran Bretagna) ed a Pine Gap (Australia).

Enorme la mole di dati, impossibile da analizzare a mano, così viene utilizzo un sistema di intercettazione dei messaggi sospetti (inviati via e-mail, telefono, fax...) basato sull’identificazione di parole chiave e loro varianti, in grado anche di rintracciare l’impronta vocale di un individuo. Su Echelon sono state sollevate negli anni ’90 numerose interpellanze al Parlamento Europeo che, pur avendo aperto una commissione temporanea sul caso, non potrebbero certo mettere fuori legge il sistema: significherebbe mettere al bando tutte le compagnie telefoniche dell’Ue. In parole povere non si può amministrare una società come Telecom, Tim, Wind o Omnitel senza fare parte del tavolo Echelon. Gli accordi telefonici Echelon sono blindati, obbligano le compagnie telefoniche occidentali ad assegnare la sicurezza delle aziende a uomini del controspionaggio. Per esempio, Bernardini (ex Sisde) controllava per conto di Telecom (Echelon- Cia) l’Antitrust ed i politici. Bernardini, tra l’altro, ha raccontato di un’intensa attività di spionaggio ai danni dell’Antitrust, dopo che Telecom aveva subito una multa molto consistente dal Garante della concorrenza e del mercato. Non a caso Bernardini ha ammesso l’accesso anche a dati sensibili di Vodafone e Wind. Di fatto Marco Tronchetti Provera potrebbe non aver mai ordinato delle intercettazioni, ma probabilmente era a conoscenza di chi operava intercettazioni per conto di Echelon ed intelligence varie.

Berlusconi ha secretato i rapporti dell’ex numero tre del controspionaggio militare, Mancini, con la società di Tronchetti Provera

Emerge che gli 007 Telecom Tavaroli e Ghioni erano tra i tanti uomini-ingranaggio del gigantesco meccanismo internazionale Echelon, lo stesso che durante la guerra fredda garantiva lo spionaggio telefonico per conto della Cia: dal settembre 2001 per conto della stessa intercettavano tutte le conversazioni e gli Sms per monitorare chi potrebbe operare spionaggio od ingegneria finanziaria per conto dei cosiddetti “nemici dell’Occidente”. Di fatto tutti i colossi telefonici occidentali fanno parte della rinnovata cabina di regia Echelon (quella ristrutturata a fine Guerra Fredda). E come funziona il giochetto? Appena un utente pronuncia le paroline magiche (ed in qualsiasi lingua) “armi, droga, soldi, sesso, contrabbando, terrorismo...”, la sede periferica di Telecom Italia allerta l’ufficio centrale di Echelon. Di fatto gli 007 telefonici hanno carta bianca dal


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Voci raccolte all’interno dell’entourage del governatore della Lombardia: «Forse c’è lo zampino di Tremonti...»

Aria di complotto al Pirellone? Per molti, dietro al continuo lavorìo della Gdf ci sarebbe un “boicottaggio” interno di Valentina Sisti

MILANO. «Formigoni è tranquillo, si sente sicuro». Negli ambienti vicino al governatore sono convinti che l’inchiesta milanese sul Pirellone, non lo scalpirà. Almeno, non direttamente. A condurla, il procuratore aggiunto Ilda Boccassini, che sul finire degli anni ’80 portò a termine l’inchiesta Duomo Connection sulla penetrazione mafiosa a Milano. Se dal punto di vista giudiziario Formigoni è tranquillo, il terremoto che sta colpendo ripetutamente molti uomini della sua squadra, prima il deputato azzurro Abelli, ex assessore alla Famiglia, arrestando la moglie Rosanna Gariboldi nell’ambito dell’inchiesta su Santa Giulia, poi l’ex assessore regionale al turismo Prosperini, finito in carcere per una presunta tangente sugli appalti televisivi, rischia di indebolire la sua posizione. Nei giorni scorsi il tribunale di Milano ha emesso un decreto di sospensione per sei mesi nei confronti di nove società immobiliari operanti tra Cesano Boscone, Buccinasco e Cisliano. Tutte vicende in cui sarebbero implicati esponenti delle cosche calabresi, alle quali aveva fatto riferimento lo stesso Grossi, titolare proprio di una queste società. «È solo la punta di un iceberg - dice l’assessore regionale dell’Udc Silvia Ferretto Clementi - Dal ’95 chiedo di far luce inutilmente sulle bonifiche della Regione». Ma gli uomini più vicini al governatore giudicano perlomeno strano e un tanti-

no a orologeria tutto questo attivismo della Guardia di Finanza, a pochi mesi dalle elezioni. Quasi che le tesi complottiste di Berlusconi stiano contagiando anche gli ambienti milanesi del Pdl. Sono in molti, infatti, a essere concordi nel vederci in qualche modo lo zampino del titolare del dicastero dell’Economia. Ritengono un segnale inequivocabile che l’attività investigativa sia partita proprio dagli uffici della

Guardia di Finanza, quegli stessi che avrebbero ordinato anche l’indagine sull’ospedale Niguarda di Milano. Quel che è certo è che tra Tremonti e Formigoni non è mai corso buon sangue. Fin da quando, durante il vertice a tre a Gemonio, con Bossi e Berlusconi, aveva contribuito alla bocciatura della lista del Presidente, alle scorse regionali del 2005, promessa dal Cavaliere ma avversata dalla Lega. E con Bossi ancora convalescente l’operazione non sarebbe riuscita senza il sostegno dell’amico Giulio.

Tra Formigoni e il titolare dell’Economia non è mai corso buon sangue. Sin dalle Regionali del 2005

Una sorta di resa dei conti all’interno del Pdl lombardo, insomma. E un tentativo per arginare la corrente formigoniana legata a doppio filo con il ministro ed ex coordinatrice regionale Gelmini. Tremonti sarebbe proprio l’uomo chiave per rinsaldare l’asse tra la parte del Pdl, che mal sopporta l’area formigoniana, e la Lega. Stando alle tesi del complotto, Tremonti avrebbe stretto un patto di ferro con il sottosegretario alle Infrastrutture Mantovani, dato come prossimo coordinatore regionale del Pdl, al posto del presidente della Provincia di Milano Podestà, uomo di Berlusconi e non troppo amico del governatore. Quello sulle infrastrutture in Lombardia è un grosso giro di appalti. Il viceministro Castelli ha fatto leva più volte sulla delega proprio alle Infrastrutture per l’Expo 2015, per gestire in prima persona

le opere Pedemontana, Brebemi e Tem, in aperta concorrenza spesso con la Regione. La Lombardia però è sempre stato il primo vero obiettivo del Carroccio. Bossi ci aveva provato, anche sull’onda della tempesta giudiziaria, ma scontrandosi con l’inflessibilità del Cavaliere, si è dovuto accontentare di Veneto e Piemonte. In Lombardia però ha portato avanti un’opera di progressivo accerchiamento del governatore, arrivando a chiedere una vicepresidenza unica, con Marco Reguzzoni, Leonardo Carioni o Davide Boni, e l’esclusione dell’Udc dalle prossime alleanze regionali. «Non possiamo stringere accordi con chi la pensa diversamente o non ci vuole - dice il segretario regionale dell’Udc lombardo Luigi Baruffi -. Se Formigoni fosse costretto a rinunciare al nostro apporto, che giudica positivo, sarebbe un brutto segno innanzitutto per lui». E l’ipotesi più probabile è proprio quella di una corsa solitaria dell’Udc, che in questi giorni sta decidendo se candidare Savino Pezzotta, Magdi Allam o LucaVolontè. Ma il Carroccio si sta già preparando a far man bassa di voti alle prossime regionali. «Certamente questo momento è più difficile per Formigoni che per noi. - interviene Stefano Galli, presidente del gruppo della Lega in Lombardia - Alle prossime elezioni contiamo di uscirne con un numero raddoppiato di assessori e con un numero maggiore di consiglieri». Suona come un ulteriore avvertimento a Formigoni.

Sgraditi ritorni. Il 37% dei cittadini russi pensa a Stalin come “modernizzatore” del Paese

Ma quale Baffone, meglio Putin di Luca Volontè a notizia del recente sondaggio tra i cittadini russi è tanto ghiotta quanto significativa: a 130 anni dalla nascita di Stalin il 37% dei russi gli attribuisce ancora il più grande ruolo di “modernizzatore”. A questi che apprezzano Stalin per la sua “simpatia, rispetto e ammirazione”, se ne aggiungono altri (29%) che ritengno auspicabile per la Russia l’avvento di un “dittatore”come lui. Lo scorso anno il la pubblicazione del libro di Francois Attali su Karl Marx aveva scalato le classifiche di tutti i Paesi d’oltralpe, dalla Germania alla Francia era risorta l’ammirazione per quel Karl Marx e per quel suo Capitale che sembravano aver ritrovato una seconda giovinezza.

L

Ora è il tempo di“baffone”che dalla Russia cerca di rientrare in Europa. Sarà per le continue esplosioni di bolle speculative (dopo Dubai ne verranno altre), sarà per il moltiplicarsi dei milioni di disoccupati nei Paesi Ocse, sarà pure per la inadeguatezza con cui molti governi hanno sanzionato speculatori e banchieri, fatto sta che l’Europa insegue

Marx e la Russia Stalin. In questi giorni sto terminando l’epopea dello stalinismo, quell’Arcipelago Gulag che meriterebbe d’esser letto e riletto nelle scuole di tutto il nostro continente.

Una narrazione scritta in condizioni incredibili da Aleksandr Solzenicyn, dimenticato e scomparso dai comodini della classe dirigente europea, ma rimasto impresso nel-

prosegua con maggior forza per sconfiggere lo spettro di Stalin. Presidente e premier russi infatti hanno già fatto scelte importanti per contrastare sul nascere il “mito di Stalin”e l’obbligatorietà dello studio, in ogni classe scolastica di ordine e grado, dell’Arcipelago Gulag è stata una scelta coraggiosa e fortissima. La sintonia importante tra le Chiese e lo Stato russo, il nuovo clima tra Chiesa Cattolica e Ortodossa sono tutti segnali concreti di una nuovo clima. La Russia di Putin sconfiggerà Stalin, ci rimane da sperare che questa vuota Europa, senza radici cristiane e in balia delle ideologie antiumane, possa trovare in sé le ragioni di combattere i propri fantasmi suicidi.

L’obbligatorietà dello studio, in ogni classe scolastica di ordine e grado, dell’Arcipelago Gulag è stata una scelta coraggiosa e fortissima le carni vive di molti popoli dell’Europa dell’Est. Se ormai la guida europea si giudica da sé, i fallimenti dell’intera classe dirigente attuale sono sotto gli occhi di tutti, il tandem di governo russo è tutt’altro che remissivo. Con tutti i limiti del sistema giudiziario, possiamo solo sperare che il piglio di Putin e Medvev


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Epifania ha mille volti: cristiano, pagano, celtico. E poi ci sono le “ibridazioni”: nei miti costitutivi della festa ce n’è uno che prevede persino l’incontro fra la befana e i re magi. La parola significa apparire, manifestarsi. Per chi crede è un presentarsi ai propri occhi della divinità. Tanto è vero che in Oriente la festa si chiama Teofania. I tre re provenienti da terre lontane, che s’inginocchiano davanti al bambino di Betlemme, rappresentano per i cristiani la “primizia gentium”, i primi fra i pagani ad aver riconosciuto ed onorato il Signore. Per questo il loro culto fu particolarmente fortunato, diffuso e radicato fra i convertiti. E per questo l’Adorazione è uno dei temi di più grande ispirazione per pittori e scultori. Il racconto dell’arrivo dei magi lo ritroviamo in un solo Vangelo, quello di Matteo. I tre viaggiatori, appena arrivati in Giudea, si recano da Erode. E a lui chiedono: «Dov’è il re dei Giudei che è nato; abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo». Erode, nell’udire il racconto, si preoccupò, riunì i sommi sacerdoti e gli scribi per saperne di più: a che cosa alludevano quei messaggeri, guidati da una stella verso Occidente? Gli spiegarono che il Messia secondo il profeta - sarebbe nato a Betlemme: «E tu, Betlemme, terra di Giuda - dice un testo sacro - non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele». Erode chiamò i magi, si fece dire il momento e il luogo in cui era apparsa la stella, poi li invitò a cercare il bambino divino. Appena lo avessero trovato, dovevano correre da lui per informarlo. Cosa quel crudele re intendesse fare è noto, ma Gesù sfuggì alla “strage degli innocenti” da lui voluta.

L’

I magi, guidati dalla stella, raggiunsero rapidamente la stalla di Betlemme: aprirono i loro scrigni, adorarono il figlio di Dio, lasciarono i loro doni. Nel sogno vennero, poi, avvertiti da un angelo di non tornare da Erode e quindi rientrarono nel loro paese. Questa è in breve la storia come la racconta Matteo. Ne parlano anche numerosi altri testi: in particolare i vangeli apocrifi. Fra questi, c’è quello armeno che riferisce anche i nomi dei tre re. Eccone lo stralcio più importante: «Un angelo del Signore si affrettò ad andare al paese dei persiani per prevenire i re magi ed ordinare loro di andare ad adorare il bambino appena nato. Costoro, dopo aver camminato per nove mesi, avendo per guida una stella, giunsero alla meta proprio nel momento in cui Maria era appena diventata madre... I re magi erano tre fratelli: Melchiorre, che regnava sui Persiani, Baldassarre, che regnava sugli indiani, Gaspare, che dominava il paese degli Arabi». La versione armena - come si vede - è parecchio diversa da quella di Matteo per il quale i tre arrivarono in 13 giorni e si recarono prima da Erode. La parola mago, che viene usata per indicare i personaggi provenienti dall’Oriente, deriva dal greco magoi che sta ad indicare i membri di una casta sacerdotale persiana (in seguito anche babilonese) che si interessavano di astronomia e di astrologia. Si tratta quindi di studiosi di fenomeni celesti:

il paginone

L’origine più autentica delle leggende sulla notte tra il 5 e il 6 gennaio risali

I Magi a spasso co

Le contaminazioni tra mitologia pagana e celtica con dell’Epifania: dal Vangelo di Matteo al mistero a di Gabriella Mecucci da qui il ruolo molto importante della stella in tutti i racconti. Nella tradizione persiana i magi erano i più fedeli ed in-

timi discepoli di Zoroastro:veri e propri custodi della sua dottrina. Rivestivano inoltre un ruolo di primo piano anche

nella vita politica. L’idea del tempo che ciclicamente si rinnova conduceva il mazdeismo (religione nella Persia preislamica) alla costante attesa messianica del “Soccorritore divino”. Il cui ruolo sarebbe stato quello di aprire ciascuna era di rinnovamento e di rigenerazione, dopo la fase di decadenza che l’aveva preceduta. In questa religione c’era l’attesa di tre successive, arcane figure di Salvatori, di rigeneratori del tempo futuro. L’ultimo di essi, il “Soccorritore” sarebbe nato da una vergine discen-

Per chi crede l’Epifania (che significa “apparire”) è un presentarsi ai propri occhi della divinità. Tanto è vero che in Oriente la festa si chiama “Teofania”

dente da Zarathustra e avrebbe condotto con sé la resurrezione universale e l’immortalità degli uomini. Molte leggende accompagnavano questa credenza, compresa quella che una stella lo avrebbe annunciato.

La prima ipotesi sui magi, sulla loro provenienza, sulla loro natura è questa. Ce ne sono poi almeno altre due. La seconda è che i tre viaggiatori provenissero da Babilonia, Mesopotamia, dove si studiava in modo particolarmente attento l’astronomia. Qui, dopo la distruzione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor nel 586 avanti Cristo, vennero deportati gli ebrei sopravvissuti. La cultura del luogo ne risultò fortemente contaminata dal messianismo ebraico, tantochè venne compilato un Talmud babilonese. Una terza possibilità per spiegare i magi è che provenissero dalla Media: lo afferma Erodoto che racconta inoltre della grande importanza che questi avevano a corte. Molto è stato scritto anche per spiegare


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irebbe ai riti (a volte violenti) dei Druidi, durante i quali venivano dati alle fiamme fantocci di vimini - siamo in un periodo di paure, di streghe, di potenti convinzioni religiose - e, grazie al rito dei falò, viene bruciata. Una strega molto attempata è ridotta in cenere simbolizzando così la natura che distrugge il vecchio e che si rinnova profondamente, che rinasce. L’etimologia del nome befana è strettamente legata alla parola epifania. Rappresentava infatti la deformazione dialettale di quel termine.

on la Befana

n la religione cristiana dietro la festa astronomico della stella cometa il mito della stella che guida i tre viaggiatori. Che cosa era? Tre le risposte che sono state date: una cometa, una “stella nova”, una sovrapposizione di satelliti. Le prime due sono largamente improbabili, mentre la terza venne sostenuta nientemeno che da Keplero. Il grande astronomo ricostruì che nel 6/7 avanti Cristo si verificarono ben tre sovrapposizione di Saturno e Giove. Questi eventi, assai rari, avvenivano in genere ogni 179 anni e segnalavano l’arrivo del messia o di una nuova età dell’oro. La Bibbia, a cura del Pontificio Istituto Biblico di Roma, sostiene invece che la stella fosse una meteora straordinaria, formata da Dio espressamente per dare ai popoli il lieto annunzio della nascita del Salvatore.

L’Epifania, dunque, da una parte per la tradizione cristiana - significa magi, dall’altra però - per cristiani e precristiani - richiama il mito della befana. Già gli antichi romani celebravano l’inizio dell’anno con riti in onore del dio Giano, e della dea Strenia (da qui l’origine etimologica della parola

Strenna). Queste feste erano chiamate “Sigillaria” ed erano attese con particolare ansiosa allegria dai bambini. A loro arrivavano in dono bamboline e animaletti di pasta dolce, i “sigilla”. Sem-

La parola “mago” deriva dal greco “magoi” che indica i membri di una casta sacerdotale persiana (in seguito anche babilonese) che si interessavano di astrologia pre secondo la mitologia latina, fra dicembre e gennaio, Diana, la dea della caccia e della fecondità, passava con un gruppo di donne in volo sopra i campi per renderli fertili e favorire il raccolto. I miti provenienti dal politeismo romano, si contaminano nel corso del Medioevo con altre culture. La bionda e bella Diana diventa una brutta vecchia

L’enciclopedia Treccani fa una lunga e sofisticata voce sul tema della befana. Scrive fra l’altro: «È per il popolo un mitico personaggio in forma di orribile vecchia, che passa sulla terra dall’1 al 6 gennaio. Nell’ultima notte della sua dimora nel mondo accadono molti prodigi: gli alberi si coprono di frutti, gli animali parlano, le acque dei fiumi e delle fonti si tramutano in oro. I bambini attendono regali; le fanciulle traggono dal focolare gli oroscopi sulle future nozze, ponendo foglie di ulivo sulla cenere calda; ragazzi e adulti, in comitiva, vanno per il villaggio cantando... In alcuni luoghi si prepara con cenci e stoppa un fantoccio e lo si espone alla finestre... I contadini della Romagna e della Toscana sogliono invece portarlo in giro sopra un carretto, con urli e fischi, sino alla piazzetta del villaggio dove accendono i falò destinati alla befana... Gli studiosi vedono nel bruciamento del fantoccio la sopravvivenza degli spiriti malefici che solo così vengono eliminati». In Germania la mitologia dell’Epifania prevede l’esistenza di Frau Holle e Frau Berghta. Entrambe queste “signore”hanno in sé il bene e il male: sono gentili, benevole; sono le dee della vegetazione e della fertilità (ricordano la Diana pagana, ndr.); sono protettrici e filatrici, ma al tempo stesso diventano cattive e spietate contro chi fa del male o è prepotente e violento. Si spostano volando o su una scopa o su un carro, seguite dalle “signore della notte”: le maghe, le streghe, le anime non battezzate. Anche nel mito delle due frau è forte la contaminazione fra la tradizione pagana e quella cristiana. Nelle leggende e nelle ritualità celtiche - secondo alcuni - si ritroverebbe l’origine più autentica della befana. La notte fra il 5 e il 6 gennaio, i Druidi, sacerdoti di questo popolo del Nord, celebravano riti molto violenti. Costruivano fantocci di vimini che venivano dati alle fiamme e che spesso contenevano al loro interno vittime sacrificali: animali, o, peggio, prigionieri di guerra. Dentro la festa dell’Epifania, c’è dunque

di tutto: il mito del viaggio per raggiungere la divinità, l’amore dell’Adorazione del bambino, la bellezza e la fertilità, ma anche il mito della natura che per rinnovarsi muore, nonché le terribile ritualità dei sacrifici propiziatori perché dalla sofferenza nasca la ricchezza e l’abbondanza per il nuovo anno. Le tradizioni diverse non hanno mai smesso di incontrarsi e di contaminarsi. L’episodio più singolare da questo punto di vista è quello della fusione fra il mito dei magi e quello della befana. Ne esce fuori una leggenda che poco ha a che vedere con la storia raccontata dai vangeli. I tre re stavano andando a Betlemme per rendere omaggio al bambino Gesù. Giunti in prossimità di una piccola casa, decisero di fermarsi per chiedere indicazioni sulla direzione da prendere.

Bussarono alla porta e venne ad aprire una vecchia. I re magi chiesero se sapeva la strada per andare a Betlemme perché là era nato il Salvatore. La donna non capì dove stessero andando i viaggiatori a cavallo, e non fu in grado di dare alcuna indicazione. Le venne chiesto di aggregarsi e di muoversi anche lei verso la grotta della natività, ma lei rifiutò. Disse che aveva molte cose da sbrigare e che non poteva proprio lasciare lì tutte quelle incombenze incompiute. Dopo che i magi se ne erano andati, capì che aveva commesso un errore: fece di tutto per raggiungerli e accompagnarli a Betlemme. Ma, nonostante cercasse per ore e ore, non riuscì a scoprire quale strada avessero scelto. Non li trovò più. Cominciò allora a regalare doni a tutti i piccoli che incontrava sul suo cammino. E così ogni anni, la sera dell’Epifania, la vecchia riprende la ricerca di Gesù e si ferma in ogni casa dove c’è un bambino per lasciare un regalo, se è stato buono, o il carbone, se è stato cattivo. La contaminazione eccessiva danneggia entrambi i miti. Sparisce la stella della speranza della tradizione cristiana, che guida il cammino verso il Salvatore; sparisce la metafora rinnovatrice rappresentata dal vecchio che muore, insita nel paganesimo; sparisce l’oscura violenza dei Druidi. Ne viene fuori una leggenda un po’ melensa che non rende giustizia ad una festa con radici profonde, avvolta da un fascino inquietante.


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Terrorismo. La più povera fra le nazioni arabe è anche la culla di bin Laden. E qui la sua rete ha messo radici e si muove liberamente

Scrivi Yemen, leggi al Qaeda Ecco come, da Sana’a, i fondamentalisti mirano all’Arabia Saudita, a La Mecca e al petrolio di Osvaldo Baldacci o Yemen è il paese di bin Laden. Certo, anche della regina di Saba, ma oggi come oggi è più interessante che sia la patria nativa della famiglia del superterrorista più ricercato del mondo. E non è questo l’unico problema di un paese splendido per storia e natura, ma anche messo continuamente a rischio dalla sua fragilità interna e da una condizione di povertà insolita per la penisola arabica. Integralisti islamici, indipendentisti del nord e del sud, ribelli sciiti, tribù e briganti: un calderone di insorgenti in ebollizione. Lo Yemen è il più povero dei paesi arabi, e basti ricordare che il 70 per cento del suo bilancio viene dal petrolio che si stima finisca in appena sette anni.

L

Motivi economici e motivi storico-culturali fanno sì che non è un caso che lo Yemen sia l’unico paese della penisola fuori dal Consiglio di Cooperazione del Golfo. Anche se nella visione locale, compresa quella degli integralisti qaedisti e wahabiti, i confni tra i vari paesi e soprattutto traYemen e Arabia sono solo un formale tratto di penna sulla cartina, senza alcun valore né riconoscimento, se non nel caso di una eventuale comodità logistica per meglio nascondersi e far sparire le proprie tracce. E infatti l’organizzazione di al Qaeda nella regione è su base regionale, e riunisce tutta la penisola arabica, cercando di col-

pire dove meglio può: in Yemen, se c’è un’occasione propizia, ma meglio ancora in Arabia o all’estero (come nel caso degli Stati Uniti) usando le propaggini meridionali della penisola come base logistica e per il rifugio e l’addestramento. In realtà i legami di Bin Laden con lo Yemen non sono poi così stretti, e sicuramente quelli ideologici e logistici dovuti alle specificità del territorio sono superiori a quelli familiari. Ma in una terra come la penisola

den, una siriana, che presto si separò da lei. A quanto risulta, Bin Laden in Yemen c’è stato pochissimo o forse per niente. Resta però il fatto che il paese è un terreno consono sia alla visione ideologica di Osama sia alle esigenze logistiche di un’organizzazione terroristica come la sua. Infatti il controllo del governo di Sana’a sul territorio è relativo, esistono diversi gruppi autonomi o persino in lotta con le autorità, comprese alcune insurrezioni armate di

Il paese è scosso dalle lotte fra integralisti islamici, indipendentisti del nord e del sud, ribelli sciiti, tribù e briganti: un calderone di insorgenti in ebollizione che il governo non controlla più arabica le origini familiari restano un importante elemento di legame.

Osama in realtà è nato a Ryad, dove la famiglia paterna, quella appunto originaria del sud dello Yemen, si era trasferita per i suoi affari divenuti sempre più prosperi grazie alla vicinanza alla famiglia reale saudita. Bin Laden però è un personaggio marginale del potente clan: diciassettesimo di cinquantadue fratelli e fratellastri è figlio della decima moglie di Muhammad bin Awad bin La-

fatto cronicizzate. Non è un caso quindi che in Yemen si siano verificati alcuni dei primi e più importanti attentati contro gli occidentali da parte di al Qaeda, ancora prima dell’11settembre 2001. Emblematico l’attacco all’incrociatore statunitense USS Cole, nel quale il 12 ottobre 2000 un attacco suicida con un barchino uccise 17 marinai statunitensi. Anche uno dei pri-

mi attacchi di al Qaeda in assoluto, poco noto, ebbe per teatro lo Yemen: il 29 dicembre 1992 due bombe vennero fatte esplodere presso il Movenpick Hotel e il Goldmohur Hotel uccidendo due persone.

L’obiettivo erano i soldati americani in transito verso la Somalia per l’operazione Restore Hope, ma morirono solo un turista australiano e un lavoratore yemenita: secondo molti un punto di svolta nella storia di al Qaeda, perché per la prima volta passava dagli attacchi contro i militari, come in Afghanistan e come pensava di fare contro i

soldati Usa, alla possibilità di bombe contro i civili. Da allora la lotta nella penisola araba tra al Qaeda e le forze di sicurezza è stata durissima, con numerosi attacchi e continui alti e bassi.

L’Arabia Saudita, i suoi luoghi santi e il suo petrolio restano infatti un obiettivo prioritario dei fondamentalisti islamici che peraltro proprio lì trovano base ideologica, sostegno, aiuto, finanziamenti. Nell’estate di quest’anno per la divisione di al Qaeda in Arabia Saudita congiuntasi con quella nello Yemen per la prima volta in decenni è arrivata a compiere un attentato (sostanzialmente fallito) contro un membro della famiglia reale saudita, il principe Muhammad bin Nayef, vice ministro dell’interno, alto esponente dell’antiterrorismo e responsabile della recente offen-


mondo duto all’esecuzione presso Marib di un ufficiale dell’intelligence yemenita che in precedenza aveva tenuto in ostaggio per mesi. Nello stesso periodo al Qaeda nelloYemen ha dichiarato il suo supporto all’insurrezione indipendentista del sud. Aspetto molti interessante che ci porta più addentro alla complessissima realtà yemenita, oltre quello che è il “semplice” quadro di un’organizzazione terroristica presente in un paese come un altro qualsiasi del mondo islamico.

Lo Yemen infatti è scosso da almeno tre o più diverse forme di ribellioni secessioniste. È infatti articolata la storia e la costituzione del Paese, che nell’antichità era una ricchissima terra di città-stato ciascuna sovrana nelle sue aree fertili e commerciali, più o meno isolate l’una dall’altra da vaste regioni desertiche. In tempi recenti lo

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avanzato, una repubblica presidenziale all’avanguardia nel mondo arabo in alcuni campi dei diritti umani. In realtà nessuna delle quattro forme di governo citate corrispondeva in toto né alla natura dello Yemen e della sua gente, e neanche rispecchia le specificità della zona in cui si sono attestate. Ecco quindi il continuo ribollire anche violento che scuote continuamente il Paese. Dicevamo del sud. Di recente si è riaccesa l’insurrezione nel sud: da maggio si sono susseguite numerose manifestazioni con migliaia di partecipanti, ma ci sono stati anche scontri armati che a luglio hanno fatto una trentina di morti. Nelle stesse zone nel 1994 si era combattuta una sanguinosa guerra civile guidata da ufficiali marxisti, seppur durata solo poche settimane nella sua fase acuta, ma poi cronicizzatasi. Il presidente Saleh è arrivato a fare un

Il greggio è la principale risorsa dello Stato: oltre il 70 per cento del suo bilancio viene da lì. Ma si stima che le sue riserve termineranno entro sette anni, trascinando l’economia nel baratro siva saudita antiterrorismo oltre il confine yemenita. Prova del ritorno di fiamma dell’organizzazione nella penisola.

E in particolare proprio a partire dalle sue basi nello Yemen, come indica anche l’addestramento fornito nei campi della zona al giovane nigeriano che ha tentato di far esplodere il volo Amsterdam-Detroit, nonché forse i legami almeno di ispirazione tra uno sceicco estremista yemenita e il medico militare che il 5 novembre ha ucciso 13 persone nella base aerea ameri-

cana di Fort Hood, in Texas. Anche in relazione a quest’ultimo episodio venne rafforzata la repressione contro le milizie di al Qaeda dislocate soprattutto nell’est e nel sud-est del Paese, e ad esempio il 24 dicembre un raid aereo (yemenita, pare) ha colpito una base dell’organizzazione uccidendo trenta terroristi. Da novembre d’altro canto gli attacchi dei guerriglieri qaedisti contro le autorità e le forze dell’ordine in Yemen si sono moltiplicati, e oltre a diversi attentati e scontri a fuoco l’organizzazione terroristica ha anche proce-

Yemen è stato diviso fino a un ventennio fa tra il nord e il sud e squassato da ripetute guerre civili. Le due parti infatti erano diversissime tra loro, ma in realtà anche al loro interno. Fino al 1962 il nord è stato un’imanato teocratico, poi rovesciato da un colpo di Stato militare. Nel sud invece, già colonia britannica, si insediò l’unica repubblica della regione, ma strettamente legata all’Unione Sovietica. Dalla fusione dei due paesi nel 1990 (alla fine della Guerra Fredda) nacque uno Stato politicamente abbastanza

paragone molto offensivo nella cultura islamica: la causa della ribellione del sud sta nel virus dell’influenza suina che si sarebbe impossessato del cervello dei nemici di Sana’a.

Come sempre succede in questi casi, la realtà è invece più articolata, con gravi problemi economici, un senso di discriminazione percepito dai sudisti rispetto ai cittadini del nord, un miscuglio di interessi locali e ideologici, questi ultimi a loro volta mescolati tra residui socialisti e fermenti fondamentalisti.

Il vertice. Intelligence e ministri a rapporto alla Casa Bianca dopo le falle nella sicurezza. Scattano nuove misure

I consigli (di guerra) di Obama entre veniva riaperta l’ambasciata Usa nello Yemen (ma non si è placata affatto la tensione fra i due paesi), e mentre il Times dava un’altra stoccata al presidente rivelando che almeno dieci degli ex detenuti di Guantanamo si sono trasferiti, armi e bagagli, nella capitale yemenita per rimpolpare le file di al Qaeda, ieri Obama ha convocato alla casa Bianca l’ennesimo Consiglio di guerra (questa volta straordinario, ma ne tiene circa uno al mese) per annunciare una serie di misure volte a rafforzare la sicurezza del traffico aereo. Il summit si è tenuto troppo tardi per gli orari di chiusura del nostro giornale, ma una cosa possiamo comunque dirla: a differenza delle altre volte, questa ha registrato il “pienone”. Nella residenza di Washington erano presenti praticamente tutti: dal segretario di Stato Hillary Rodham Clinton, al segretario alla Difesa Robert Gates, da quello per la Sicurezza Interna Janet Napolitano (accusata di “dilettantismo” e nell’occhio del ciclone), ai direttori della Cia e dell’Fbi,

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di Laura Giannone rispettivamente Leon Panetta e Robert Mueller. Ma all’appello non mancavano Eric Holder (ministro della Giustizia), Dennis Blair (direttore dell’intelligence), Michael Leiter (direttore del Centro Nazionale Antiterrorismo), James Jones (consigliere per la Sicurezza Nazionale) e soprattutto John Brennan, il principale consigliere del presidente in materia di terrorismo.

Quest’ultimo ha seguito l’inchiesta sull’indicidente di Detroit e ha riferito al Consiglio di guerra quello che ha scoperto (con Obama aveva già parlato lunedì sera, in un vertice a porte chiuse). Non è un segreto: è stato un “errore umano”, un clamoroso svarione dell’intelligence, a consentire a un estremista islamico schedato dal dipartimento di Stato, di salire a bordo di un volo intercontinentale con una quantità di esplosivo nascosta negli slip. L’incidente, nell’anno delle delicatissime elezioni di

mezzo termine, è anche e sopratutto un caso politico. Il dibattito a Washington, per settimane dominato dalla riforma della sanità, è ora tutto spostato sul terrorismo e sulle conseguenze del mancato attentato, tanto che alcuni addetti ai lavori vedono le condizioni per il primo minirimpasto della squadra di governo. Nel frattempo, molte cose sono già cambiate negli Stati Uniti. Le code negli aeroporti si sono allungate per i passeggeri diretti in Usa mentre per i cittadini di 14 Paesi (tra cui Arabia Saudita, Nigeria, Pakistan) i controlli sono ora strettissimi. Il mancato attentato ha anche dato una spallata alle cautele legate alla privacy che finora hanno impedito agli scanner a raggi x di essere utilizzati per i controlli all’imbarco negli aeroporti. I nuovi dispositivi potrebbero diventare ben presto la norma, mandando in pensione il vecchio metal detector. Attesa anche una revisione delle liste dei sospetti estremisti, che sono oltre mezzo milione: per loro negli aeroporti i controlli saranno severissimi.

Punto questo su cui si inserisce la convergenza con al Qaeda, in un paese dove si possono trovare poster di bin Laden e dell’attentato alle Torri Gemelle. E poi qui come altrove gli intrecci tra ribelli e pubblici ufficiali sono in realtà superiori alle presunte linee di demarcazione. D’altro canto lo stesso governo non si è fatto scrupolo di provare a usare gli insoddisfatti del sud, soprattutto fondamentalisti sunniti, contro i ribelli sciiti del nord. Perché l’altro grande ribellione è quella degli Houdi zaiditi del nord, eredi dell’imanato ora discriminato.

Gli zaiditi sono un setta yemenita dello sciismo, e sono in contrasto frontale e armato col governo centrale. Reclamano la loro indipendenza e vorrebbero ripristinare il loro potere se non in tutto il nord almeno nelle aree in cui sono maggioritari. Una guerra frontale che ha provocato migliaia di morti dal 2004, che ha avuto una fiammata in autunno, quando la guerra con le forze yemenite è diventata aperta, finendo per coinvolgere anche altre realtà. I ribelli sono sconfinati in Arabia Saudita (che sta costruendo un muro lungo il confine per impedire che dal povero Yemen si infiltrino migliaia di immigrati e qualche guerrigliero o terrorista) e Ryad ha risposto con un’azione militare in piena regola, con tanto di bombardamenti e incursioni oltre confine. LoYemen ha poi accusato l’Iran di alimentare la ribellione sciita, e ha reso pubblico il sequestro di un carico di armi di produzione cinese destinate ai ribelli. Inoltre secondo le autorità saudite e yemenite tra le fila dei ribelli ci sarebbero miliziani somali ed etiopi. Nel caso si tratterebbe di rifugiati e più o meno di mercenari, ma comunque aprono uno spiraglio su un’altra realtà temuta dagli analisti: la possibilità che due realtà opposte come i ribelli estremisti sciiti zaiditi e la realtà sunnita wahhabita di al Qaeda si saldino per un comune interesse tattico, lo stesso interesse che potrebbe portare dallo stesso lato gli insorti sudisti e nordisti. Lasciando isolato il governo centrale e il paese ancor più nel caos, rifugio ideale per estremisti e terroristi. A questo si aggiunge il problema delle tribù, largamente autonome e insofferenti ad ogni autorità, pronte a far valere i propri interessi in un paese dove non portare armi è considerato un disonore e il sequestro di persona, meglio se di occidentali, è una tradizionale fonte di profitto. Nello Yemen sono stati rapiti più di 200 stranieri negli ultimi 15 anni. Quasi sempre i sequestri si sono risolti con il pagamento di un riscatto o con alcune concessioni alle tribù locali da parte del governo di Sana’a. Ma quando c’è entrata di mezzo al Qaeda c’è scappato il morto.


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Allarme. Praticamente inascoltate le richieste di Etiopia ed Eritrea el Corno d’Africa, alle spalle della guerra dimenticata in Somalia, si sta consumando un’ulteriore crisi umanitaria alla quale sembra che nessuno sia interessato. Gli osservatori internazionali hanno lanciato l’allarme per la situazione di malnutrizione in cui versano Eritrea ed Etiopia. Le Nazioni Unite hanno denunciato che la popolazione locale priva di scorte alimentari sufficienti per il sostentamento è ormai giunta a 20 milioni di unità, su un totale di circa 90 milioni di abitanti della regione, Gibuti e Somalia compresi. Quello della fame nel Corno d’Africa è un problema costante che, a intervalli più o meno regolari, ha coinvolto la comunità internazionale fin dagli anni della decolonizzazione. Tuttavia, nessuno è riuscito ancora a definire una politica di intervento e di cooperazione fra i governi della regione per porvi rimedio. Nello specifico del caso eritreo, ci troviamo di fronte a dati estremamente imprecisi. Le stime riportate dal governo di Asmara parlano di malnutrizione diffusa su due terzi degli abitanti del Paese (4,4 milioni di unità circa). Tenuto conto che nel 2005, la Fao parlava del 66% della popolazione eritrea a rischio di fame, possiamo riscontrare l’attendibilità delle cifre fornite dalle autorità nazionali, per quanto aggiornate a cinque anni fa. Oggi però le organizzazioni umanitarie occidentali, governative e non, si scontrano quotidianamente con le controparti locali che hanno adottato un atteggiamento di “muro di gomma” nei confronti di tutti gli interlocutori stranieri. Ancora prima di Natale, Girma Asmerson, rappresentante diplomatico dell’Eritrea presso l’Unione Europea, ha

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Il Corno d’Africa vicino al collasso Tra la corruzione e gli sperperi di fondi il Continente Nero ancora in ginocchio di Antonio Picasso

fatti avrebbero messo a punto non tanto una strategia economica che favorirebbe la produttività nazionale, bensì un piano sistematico di confisca delle derrate alimentari, sia provenienti dall’estero sia prodotte sul suolo nazionale. Questo avrebbe come obiettivo quello di fare da deterrente al temuto lassismo collettivo, oltre che creare una riserva nel caso

L’Onu ha denunciato che la popolazione locale priva di scorte alimentari sufficienti per il sostentamento è ormai giunta a 20 milioni esplicitamente rifiutato le offerte di aiuto presentate da Bruxelles in quanto provocherebbero “lassismo e inoperosità” presso la popolazione del suo Paese. Una riflessione di questo genere potrebbe avere una certa validità. Gli aiuti umanitari infatti se non vengono supportati da un intervento di assistenza sul lungo periodo rischiano valere il tempo che trovano. Sconcertante è però la reazione del governo di Asmara alla disponibilità dell’Ue. Stando a testimoni oculari, le autorità eritree in-

la situazione dovesse precipitare. L’iniziativa però ha tutte le caratteristiche di un ostacolo a una qualsiasi possibilità di ripresa dell’economia. L’agricoltura, praticamente il solo settore produttivo del Paese, è piegata inoltre da una siccità di lungo periodo, che impedisce ai coltivatori di lavorare un terreno già di sua natura impervio. Secondo le dichiarazioni di molti emigrati oltre frontiera, per lo più in Etiopia, Asmara starebbe cercando di mantenere il controllo della situazione, onde

Ecco dove si soffre di più la mancanza di cibo

La mappa della fame Fare una classifica dei Paesi più poveri e quindi esposti alla malnutrizione dei propri abitanti non è facile. Spesso queste nazioni sono rette da regimi che non accettano di rendere pubblici dati così compromettenti riguardo alle loro problematiche interne. L’arretratezza economica e il tenore di vita di una società infatti sono proporzionali allo sviluppo delle istituzioni democratiche di un Paese e alla loro trasparenza di

fronte ai media. Sappiamo però che il 2009 si è chiuso con l’amaro record di un miliardo di persone che, secondo la Fao, è privo delle adeguate risorse alimentari per la semplice sopravvivenza giornaliera. Questo significa che oltre il 15% della popolazione mondiale non dispone delle 2.100 calorie pro

capite che i medici indicano come fabbisogno energetico medio quotidiano. In una mappatura sintetica del fenomeno, si può evidenziare l’epicentro della malnutrizione mondiale nel cuore dell’Africa congolese, dove le stime indicano che più del 50% della popolazione ne risulta vittima. Da quest’area il problema si diffonde a raggiera ma in modo discontinuo in tutto il continente. A est coinvolge il corno d’Africa, accentuandosi in Eritrea, prosegue verso il Sudan, ma soprattutto si sviluppa con virulenza in Ciad e nella Repubblica centrafricana. L’Africa sub-sahariana invece ne è relativamente colpita. In quella meridionale infine il solo Paese a esserne esente è il Sudafrica. In misura minore sono chiamate in causa anche l’Asia e l’America Latina. Entrambi i casi però presentano il fenomeno relativamente contenuto e sotto la soglia della media mondiale. (a.p.)

evitare il propagarsi di episodi di proteste e manifestazioni antigovernative. Tuttavia, i piani di intervento promessi dalle istituzioni locali non sono mai stati resi pubblici. Il solo dato noto riguarda l’introduzione di un sussidio governativo, pari all’8% dei prezzi dei generi alimentari, in favore degli agricoltori più indigenti. In pratica un intervento paternalistico le cui potenziali ripercussioni di lassismo e inoperosità non differiscono da quelle che Asmerson ha associato agli aiuti Ue. Una situazione simile è stata rilevata in Etiopia. Qui l’agenzia statunitense “Famine Early Warning System”, nata a metà degli Ottanta in coincidenza con l’ultima grave carestia che colpì il Paese africano, ha calcolato circa 5,7 milioni di casi di malnutrizione, su una popolazione totale di 76,5 milioni di unità. Il governo di Addis Abeba ha anch’esso negato il rischio di crisi umanitaria che graverebbe sul Paese. Al contrario l’Etiopia ha accusato gli osservatori stranieri di ingigantire il fenomeno che sarebbe invece sotto controllo.

Le reazioni dei due governi sono dettate da motivazioni palesemente politiche. Da una parte è evidente il rifiuto nei confronti di aiuti umanitari provenienti da nazioni occidentali temute come neo-colonizzatori. A riprova di questo vi è la dichiarazione del Segretario Generale dell’Ufficio di Coordinamento degli Affari Umanitari dell’Onu (Ocha), John Holmes. “La nostra offerta di aiuto è stata respinta con un secco no!” Dall’altra, Eritrea ed Etiopia – peraltro in constante attrito fra loro – preferiscono non mostrare le proprie debolezze di fronte ai partner regionali più forti di loro, com’è il caso del Sudan e dell’Egitto. In entrambi i contesti è percepibile l’orgoglio di chi non vuole ammettere le proprie debolezze. Infine non va dimenticato che stiamo parlando del Corno d’Africa, dove il fallimento delle istituzioni politiche in Somalia, la pirateria e oggi il ritorno di al-Qaeda in Yemen non permettono lo sviluppo economico dell’intera regione e tanto meno l’ingresso di capitali che ne potrebbero facilitare la ripresa. Una sommatoria di ostacoli, questa, che blocca la risoluzione del problema. Anzi, lo porta a essere sempre più drammaticamente evidente, a spese della popolazione, ma senza un intervento effettivo in suo favore.


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Voluta da Sarkozy, è una delle più repressive al mondo

Il 23 novembre scorso vennero uccise su suo ordine 57 persone

Francia, al via la legge contro la pirateria su Internet

Maguindanao, il mandante si dichiara innocente

PARIGI. Dopo un iter travaglia-

MANILA. Si dichiara “non colpevole” Andal Ampatuan jr. principale imputato del massacro di 57 persone avvenuto lo scorso 23 novembre a Maguindanao. È quanto emerge dalla prima seduta del processo a suo carico avvenuta ieri a Quezon City (Manila). Attraverso il suo avvocato egli ha rifiutato l’accusa di omicidio di 41 dei 57 sostenitori del clan di Ishmael “Toto”Mangudadatu. Grazie alla deposizione di 12 testimoni i giudici hanno bloccato il rilascio su cauzione chiesto dall’imputato. Ampatuan jr. resterà in carcere fino alla prossima sessione prevista per il prossimo 13 gennaio. Secondo i giudici il principale mandante del massacro è l’ex governato-

to durato quasi due anni, in Francia è entrata in vigore la legge Création et Internet, meglio conosciuta come Legge Hadopi, dal nome dell’autorità che dall’1 gennaio 2010 è chiamata a vigilare sui comportamenti degli utenti d’Oltralpe. Descritta come una delle più severe norme contro il download illegale, la legge prevede un percorso educativo basato su un sistema di risposta graduale in tre tappe: gli utenti scoperti a scaricare file protetti da copyright (musica, film e altre opere d’ingegno) saranno avvisati una prima volta via mail, una seconda volta attraverso una raccomandata cartacea e al terzo «errore» saranno invitati a comparire davanti a un giudice, che potrà decidere se applicare una multa o la disconnessione forzata. In tutti questi casi, a ricevere gli avvisi non è chi ha commesso il reato, ma il titolare dell’abbonamento.

A vigilare su tutto il processo, sarà l’Alta Autorità per la diffusione delle opere e la protezione dei diritti su Internet (Hadopi), i cui nove membri sono stati da poco nominati. L’Autorità farà da intermediaria tra gli aventi diritto (artisti, major) e i fornitori di connettività,

Kiev: vigilia elettorale, ombre sulle presidenziali Il Capo di Stato teme il pericolo di urne truccate di Pierre Chiartano ensioni alla vigilia del voto politico in Ucraina. Secondo il presidente ucraino Viktor Yushchenko, in lizza per essere rieletto, ci sarebbe un reale pericolo di pressioni indebite nel conteggio dei voti per le elezioni presidenziali che si terranno il 17 gennaio prossimo. «C’è una forte minaccia di pressioni amministrative» ha detto il presidente in una conferenza stampa a Buchach, nella regione di Ternopil. SecondoYushchenko i rischi maggiori di brogli al primo turno elettorale provengono dal Blocco il partito dell’attuale premier Yulia Tymoshenko, anche lei in gara per la poltrona di presidente. «Il rischio più elevato viene dal Byt» ha affermato Yushchenko. Ricordiamo che una delle promesse elettorali dell’attuale presidente ucraino – leader della rivoluzione arancione del dopo-Kuchma – è che la flotta russa abbandoni la base di Sebastoboli, sul mar Nero, entro il 2017. Una promessa fatta dal presidente all’annuncio della sua candidatura per un secondo mandato alle elezioni del prossimo 17 gennaio. Come riferiva l’agenzia Ria Novosti, il programma di Yushchenko prevede che «la flotta russa lasci l’Ucraina entro il 2017, conformemente alla Costituzione di Kiev e ai trattati sottoscritti».

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ortodossa, la parte occidentale con lo sguardo rivolto all’Europa e di tradizione uniate, una chiesa di liturgia orientale che però riconosce l’autorità del Vaticano. I candidati schierati agli estremi sono Yushenko e Viktor Yanukovich, la Tymoshenko ha invece giocato la carta della mediazione fra le due posizioni. Sempre secondo il presidente in carica «la questione dei brogli» non riguarda il candidato e leader del filo-russo Partito delle Regioni, Yanukovich, che è il favorito e dovrebbe comunque accedere al ballottaggio che si dovrebbe eventualmente svolgere il 7 febbraio.

Sullo sfondo del nuovo turno elettorale c’è un Paese che è vicino alla bancarotta. Nell’ultimo anno il Fondo monetario internazionale ha erogato a Kiev dodici miliardi di dollari, restando però deluso dalle insufficienti, per non dire inesistenti, misure di contenimento del deficit adottate dal governo locale. Per questo motivo ha negato, il mese scorso, un ulteriore prestito di due miliardi di dollari. La cifra è stata richiesta perché, come ogni anno, diventa un problema pagare il gas alla Russia, specialmente durante un inverno così rigido. L’Fmi ha comunque rinviato ogni decisione a dopo le elezioni presidenziali. Secondo un recente sondaggio Yanukovich riceverebbe al primo turno il 22 per cento, la Timoshenko il 18,Yushchenko solo il 3, preceduto anche da Arseniy Yatsenyuk (8%), Volodymyr Lytvyn (7%) Petro Symonenko (4%). Il partito più forte è sempre quello di Yanukovich con il 32 per cento, seguito dal Blocco della Timoshenko con il 15, dal Fronte per il cambiamento di Yatsenyuk (5%), dai comunisti (3,7%) e da Nostra Ucraina, il partito del presidente, con il 3,5 per cento.Yushchenko ha aggiunto di conoscere tecniche di brogli elettorali, come una procedura che si chiama «fiume» e che consiste nel falsificare le schede in vari sezioni elettorali in modo da raccogliere fino a due milioni di voti. Yushchenko ha aggiunto che i servizi di sicurezza ucraini stanno indagando sulla vicenda.

Per Yushchenko i rischi di brogli provengono dal Blocco, il partito dell’attuale premier Yulia Tymoshenko

chiamati a cooperare per denunciare gli utenti che scaricano file illegalmente. A differenza della prima versione della legge (bocciata dalla Corte Costituzionale)-, l’Hadopi non potrà disconnettere un abbonato senza il parere preventivo di un giudice. Fortemente spalleggiata da Nicolas Sarkozy, che l’ha presentata come una normamodello per altri Paesi europei, la nuova legge intende ridurre drasticamente il fenomeno della pirateria. Come ha spiegato il senatore Michel Thiolliere alla Bbc, «dopo il primo avviso due utenti su tre smetteranno di scaricare file illegali. Al secondo avviso il 95 per cento degli utenti abbandonerà del tutto questa abitudine».

Sebastopoli ospita le unità militari e navali russe in virtù di un accordo tra i due Paesi datato 1997. Un patto di durata ventennale che il presidente ucraino non intende rinnovare. Il trattato permette a Mosca di mantenere in Crimea un massimo di 25mila soldati e più di cento navi. Al momento, l’esercito conta 18.500 uomini, mentre la marina schiera 34 unità. Gli atriti con Mosca sembrano sempre aleggiare dietro le vicende politiche di Kiev. Il politico ucraino nel 2004 scampò per miracolo a un tentativo di avvelenamento attuato da uomini legati ai servizi russi. Riuscirono a fargli bere della diossina, i cui effetti, tra l’altro, gli devastarono la pelle del viso. L’Ucraina è fondamentalmente divisa in due, con la parte orientale legata alla russia e di cultura e religione

re della Regione Autonoma a maggioranza musulmana di Mindanao (Armm) Andal Ampatuan sr. Questi è padre di Andal Amputan jr. ed era il principale rivale di Mangudadatu nella corsa al governatorato della regione per le elezioni del 2010. All’inizio di dicembre la polizia ha arrestato Ampatuan sr. ed altri membri del suo clan con l’accusa di tentata ribellione. L’operazione è avvenuta dopo la legge marziale applicata nella regione dall’8 al 12 dicembre scorso. In questo periodo polizia ed esercito hanno scoperto circa 200 casi di omicidio riconducibili al clan degli Ampatuan. Essi non erano mai stati denunciati in passato dalle autorità locali. L’ex governatore e i suoi sostenitori sono ancora in attesa di processo.

Intanto la Chiesa chiede a tutti filippini di pregare per i giudici e per una rapida risoluzione del processo. «Apprezziamo e ammiriamo il coraggio e la determinazione del giudice Jocelyn Solis-Reyes che ha scelto di accettare questo caso controverso», afferma p. Rolando de la Rosa, rettore dell’Università cattolica Santo Tomas di Manila. La Reyes è cattolica ed è un’ex studentessa dell’ateneo. Ha accettato il caso nonostante le minacce di morte ricevute.


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Tra gli scaffali. Dopo un accurato studio, i due illustri matematici sono giunti a un’amara conclusione: «Il gioco fa arricchire l’erario, non il giocatore»

Le combinazioni pericolose Un libro-inchiesta di Ennio Peres e Riccardo Bersani sfata il mito della vincita facile con “Win for Life!” di Dianora Citi otocalcio, Totip, Tris, Gratta e Vinci, New Slot, Enalotto, Superenalotto, lotterie varie non bastavano. I giocatori della sorte volevano ancora di più, volevano qualcosa di diverso, qualcosa che desse loro una nuova e più forte emozione adrenalinica. Eccoli accontentati: dal 29 settembre scorso la Sisal si inventa il Win for Life (in realtà copia un gioco analogo già esistente in Olanda, Francia e Virginia in America), un concorso numerico con un’estrazione ogni ora, tredici volte al giorno, tutti i giorni compresa la domenica.

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Il nuovo “diversivo” ha incontrato un grande successo fin dal primo giorno: finalmente qualcuno ha deciso di “proteggere” il povero giocatore che, vincendo una bella cifra tutta insieme, molto spesso non è pronto alla gestione dell’improvvisa fortuna e si ritrova in breve tempo più povero di prima. Così con Win for Life, come dice la pubblicità, si è “spensierati e sistemati”: si ottiene una “rendita”, una sorta di “stipendiopensione” che può arrivare fino a 4.000 euro al mese per venti anni. Senza aver fatto null’altro che indovinare dei numeri estratti. Ingegno? No. Intelligenza? No. Intuito? No. Memoria? No. Solo caso, fortuna, coincidenza, sorte. Questi i fatti. E da qui possiamo dire che si dipanano due “scuole” di pensiero: la prima, formata dagli amanti del gioco inteso come «ricreazione della mente, occupazione piacevole che non ha altro scopo che se stessa, trastullo, svago liberamente scelto, attività

che sviluppa ed esercita, con la finalità di puro divertimento, le umane capacità fisiche, manuali ed intellettuali». Coloro che credono a una tale caratterizzazione del gioco diranno subito, per i giochi di sola fortuna o azzardo,

«no grazie!, non ci interessano!, ne facciamo volentieri a meno!, Win for Life è come gli altri giochi numerici ad estrazione, la nostra mente non si ricrea così!». C’è poi una seconda “scuola” di pensiero com-

posta invece da quei cittadini italiani che, nel 2009, hanno speso complessivamente 52 miliardi di euro per partecipare ai

vari giochi in denaro autorizzati dallo Stato, facendo registrare un incremento del 300% rispetto al fatturato del 2000. Gli italiani sono 60 milioni: considerando però che dalla categoria giocatori vanno esclusi i lattanti, i bambini e i sostenitori della prima “scuola” di pensiero, si evince che ogni anno un certo numero di persone è disposto a “investire” una bella cifra dei propri introiti (più di un migliaio di euro in media) all’inseguimento di evanescenti sogni di arricchiAlcune mento. volte i “sognatori” più tenaci, terminate le proprie disponibilità economiche, si “affidano” a qualunque tipo di prestito pur di continuare a giocare. Psichiatri e psicologi hanno riconosciuto nella sindrome compulsiva del giocatore d’azzardo, detta Pathological gambling, segnali e sintomi analoghi a quelli generati dall’alcolismo o dall’uso di sostanze stupefacenti, una vera e dipenpropria denza senza droghe. È adesso che possiamo introdurre Ennio Peres, matematico, ex professore di informatica e matematica, autore di libri di argomento ludico, ideatore di giochi matematici di ogni tipo, inventore della sfida via internet del cruciverba più difficile del mondo, in una parola, come lui stesso si definisce, di professione giocologo, cultore del piacere creati-

A sinistra, una schedina Win for life! e, in basso, tre vecchi biglietti Totip, Totocalcio e Enalotto. Qui sotto, la copertina del libro-inchiesta di Peres e Bersani “Win for life! La tassa sulla speranza”. Nella pagina a fianco, dall’alto: il logo della Tris; una schedina dell’attuale Super Enalotto; un’immagine di Slot machine; il logo di New Slot; due biglietti Gratta e Vinci. A fianco, un disegno di Michelangelo Pace

vo di giocare con la mente. Insieme al collega Riccardo Bersani (matematico, informatico, esperto di calcolo delle probabilità e teoria dei giochi) ha pubblicato, per l’Editore Iacobelli un prezioso testo: Win for Life! La tassa sulla speranza.

Il libro (il secondo della collana wiperes, 196 pagine, 10 euro), disponibile fino alla fine di febbraio direttamente sul sito della casa editrice (www.iacobellisrl.com) e successivamente in libreria, grazie al preciso e accurato lavoro dei due studiosi, analizza approfonditamente gli aspetti matematici del nuovo gioco: il criterio delle combinazioni, le probabilità (in una fondamentale appendice sono “ricordati” in modo abbastanza elementare i concetti basilari del calcolo combinatorio), il rendimento, la valenza dei sistemi. «Credo che sia importante che chi vuole tentare la sorte con il Win for Life lo faccia con consapevolezza», ci dice Ennio Peres. «Abbiamo studiato con scrupolosità il gioco, come si gioca e come si vince, il regolamento, i casi della quota fissa, quando conviene giocare e quanto. Abbiamo ipotizzato il gioco con una schedina da 2 euro o con 2 schedine da 1 euro. Abbiamo applicato i sistemi integrali e le ipotesi delle vincite multiple.

Abbiamo stilato tabelle su tabelle con tutti i casi della quantità dei numeri indovinati abbinati alle probabilità di indovinare e di incasso in base alla posta giocata. È stato soppesato il rendimento dei premi minori e le anomalie del “Numerone”. Abbiamo anche valutato i rischi economici e patologici che possono derivare da una pratica non libera e meramente ludica del gioco. Il nostro fine è dare il maggior numero di suggerimenti possibili a chi vuole tentare la sorte con Win for Life, rendendolo informato che comunque, a dispetto di quanto dicono in molti, non esistono indicazioni matematicamente valide per vincere con sicurezza. D’altronde coloro che non spenderanno mai un centesimo in un gioco d’azzardo ritrovano nei nostri calcoli delle ottime argomentazioni per continuare a non giocare!». Parlare con Ennio Peres equivale a essere travolti da un mare formato di


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zioni. Certo per il 90% non hanno significato, ma anche scartando quelle in cui restano grumi di vocali o di consonanti se ne può trovare tantissime altre. Gli stessi concetti si possono esprimere con lettere diverse. Già con 13 lettere si arriva a circa 6 miliardi di combinazioni. È come lavorare con una macchina scrivere da senza alcuni tasti». Un esempio?, gli chiedo. «“L’anno duemiladieci è arrivato!”/ “Trilla una voce: da ieri è domani!”». Torniamo al Win for Life. «Già nel 2000 scrissi un libro, in seguito al boom di fine anni ‘90 per il Superenalotto. Fu pubblicato da una piccola casa editrice vicina alle posizioni del CICAP, il Comitato Italiano per il Controllo sulle Affermazioni sul Paranormale, fondato negli anni ’80 da Piero Angela, cui hanno aderito personaggi con Rita Levi Montalcini, Carlo Rubbia, Margherita Hack, Umberto Veronesi. Come esperto di giochi probabilistici fui invitato a mettere nero su bianco come matematicamente i sistemi di vin-

matematica in tutte le forme, fogge e salse: partiti dal concetto del calcolo combinatorio, elemento basilare della matematica, che, a suo parere, dovrebbe e potrebbe essere insegnato in Italia a scuola fin dalle elementari, passando dal concetto di zero e infinito, siamo arrivati a parlare della musica che, sostiene Ennio, «non è altro che una matematica sonora. Non per niente ho scritto un libro, Concerto pitagorico, sulle basi matematiche della musica». La cosa strana è che in fa-

miglia è l’unico “dedito” a questa scienza: il padre era maestro elementare e si laureò in pedagogia a 54 anni. La madre era professoressa di lettere e inoltre si dedicò alla famiglia e ai 4 figli.

«Forse ho preso da uno zio, ingegnere, che era appassionato di enigmistica e me la fece apprezzare. Ormai mi dedico in particolare ai rebus, alle parole incrociate e agli anagrammi». Su Linus ha una rubrica da oltre 10 anni e ogni nuovo anno

ne anagramma il nome. «Con l’arrivo del “duemila” l’unica parola di senso compiuto anagrammabile con quelle lettere era “laidume” e quindi preferii usare “terzo millennio dopo Cristo”. Fare un anagramma è come una fare una torta in cucina. Quando hai gli ingredienti giusti come farina, uova, zucchero (come consonanti e vocali), e non peperoncino o aglio, misceli secondo il tuo gusto. Con abbondanza di ingredienti le possibilità di impasto sono infinite. Così, ad esempio, quando si hanno una ventina di lettere dell’alfabeto senza ripetizione si possono fare un numero sterminato di permuta-

cita sicura sono leggende. Insieme a Riccardo Bersani, abbiamo ripetuto gli studi e i calcoli per il Win for Life. Siamo partiti dal concetto di rendimento per dare indicazioni di quanto denaro resterebbe in tasca giocando per un lungo periodo sempre allo stesso gioco. Applicando questo a tutte le forme di gioco a premi, dalla tombola al mercante in fiera e oltre, abbiamo dimostrato come non esiste nessuna possibilità di vincita sicura se le regole sono affidate al caso. Tutt’altro ragionamento se invece si introduce nel concorso l’ingegno». Non per niente i giochi d’azzardo sono tutti quelli dove il fattore primario è la fortuna, mentre giochi di competizione sono quelli in cui si impegnano le capacità sportive fisiche e mentali. «Per dare delle risposte precise alle chances ventilate con il Win for Life abbiamo fatto tutti i calcoli possibili. Non possiamo che confermare: il gioco d’azzardo fa arricchire l’erario, non il giocatore». Riprendiamo il concetto di gioco come attività spontanea senza scopo di lucro, che può essere interrotta quando vogliamo e senza danni da “astinenza”.

«Credetemi», ci dice infine Peres, «il gioco assoluto è bellissimo. Il cervello va allenato con tante occupazioni diverse, mai con la medesima in modo ossessivo. Sempre lo stesso svago non dà più arricchimento o distrazione: diventa dipendenza. Può creare dipendenza anche il sudoku: crea schiavitù la soddisfazione momentanea che ti dà trovare il numero giusto. Rivalutiamo i passatempi come il monopoli o lo scarabeo o infiniti altri vecchi giochi in scatola o da tavolo di un tempo, che rimanevano nell’armadio e potevi giocarci e giocarci per tutta la vita, da bambino e quando ormai eri nonno… Chi spende 1.000 euro per un gioco d’azzardo oggi non ne ha più disponibili 20 per un gioco in scatola. Lo spostamento del denaro del gioco d’azzardo, inoltre, non genera produzione di beni. La perdita dei soldi impoverisce le famiglie e, salvi i pochi, rari e spesso sprovveduti vincitori, il denaro rientra al gestore senza un bene prodotto». Forse è il caso di seguire Ennio Peres: è matematicamente provato, nel gioco di puro azzardo non c’è certezza di vincita con nessun sistema, parola di esperto.


società

pagina 20 • 6 gennaio 2010

ata di nascita: ottobre 2003. Utenti registrati: quasi 100 milioni. Settantamila nuovi visitatori al giorno. Classifica per numero di utenti: al quarto posto assoluto, dopo Yahoo, Microsoft e Google. Si tratta di MySpace, stella ormai consolidata del social networking online. Dedicata sopratutto a teenager e giovani adulti dai 12 ai 24 anni coinvolti o interessati alla scena musicale. 4 febbraio 2004: lo studente americano diciannovenne Mark Zuckerberg, dall’Università di Harvard crea un portale internet creato per far in mantenere contatto studenti di tutte le scuole del mondo. Ma Facebook, questo il nome del ciberspazio giovanile lanciato dal fortunato teenager, dal settembre 2006 diventa il social network più utilizzato in America. Aperto a tutti gli utenti di internet.

piacere di vedere un film o leggere un libro. Facebook, così simile eppure così diverso da è MySpace, oggi una nazione digitale, raggiungendo quasi 120 milioni di utenti mensili. Una volta si diceva che le ragazze magsono giornmente interessate a fare amicizia. Quella disinteressata. Mentre I ragazzi sono spinti dal desiderio di flirtare e andare a caccia di prede sessuali. Ma questo era vero forse vent’anni fa. O per lo meno nel mondo virtuale tutti, donne e uomini indistintamente sperano di trovare l’anima gemella. Sicuramente l’intento è quello di condividere passioni, hobby e gusti musicali con amici e nuova gente. Ma la “droga” di internet è anche nutrita dalla ricerca di approvazione e dal semplice gusto di divertirsi.

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E ancora Google, Skype, Messanger, Bebo, Sonico. Sono oramai i nuovi “spazi” virtuali dei giovani di oggi. Se una volta ci si incontrava in piazza o al bar per fare una chiacchierata, o si andava al parco o a casa di amici, oggi basta restare “connessi” per incontrarsi. Essere muniti di un pc, un nickname e una password per accedere al magico mondo delle conoscenze online. Si può sbirciare tra lo sterminato e variopinto ventaglio di profili personali che il social network ci offre, comodamente da casa, sorseggiando una calda tazza di caffè. Nome, città di nascita, musica preferita, hobby, desideri e fotografie di ogni tipo. Sono solo alcune tra le informazioni disponibili in rete. E sono più che sufficienti per invogliarci o meno a scoprire una persona più da vicino. Ogni membro ha un suo profilo individuale che è il suo spazio, da decorare e arricchire con foto, informazioni, poesie, disegni, slogan e musica, proprio come si arreda la propria stanza. Una pagina personalizzata dove si incontrano amici. O persone con cui non ci si riesce a incontrare di persona. Nuovo fenomeno virtuale a stelle e strisce. Myspace è un sito gratuito che si nutre dalle pubblicità. A differenza di molti altri siti “fratelli”, è di orientamento prettamente musicale. Permette di lanciare nella rete

Internet. Tutto quello che c’è da sapere sul mondo dei social network

La gioventù bruciata del “click et nunc” di Valentina Gerace brani musicali, video. E di ritagliarsi un piccolo spazio personale, che gratifica e permette di diventare famosi ancor prima di incidere un album. Come è successo alla fortunata Lily Allen, che oggi probabilmente non sarebbe su tutte le riviste musicali se non avesse inciso il suo singolo su Myspace, prima di diventare famosa. O ancora Arctic Monkeys, Skype, YouTube e Facebook non sono che colossi della realtà sociale virtuale, pagine aperte 24 ore su 24 sul portale di qualsiasi giovane dai 15 ai 30 anni. Se non

Procter&Gamble sono state le tra le prime a lanciare prodotti all’interno di queste reti e sponsorizzare specifiche aree e servizi comunitari. E sembrano anche le agenzie pubblicitarie, con il previsto boom delle inserzioni online, nonché i giganti mediatici tesi alla massima convergenza, vedi lo stesso arrivo di Murdoch, solo uno dei grandi capi di Myspace, nonché fondatore della News Corporation, uno

sato 580 milioni di dollari per avere MySpace, all’interno del budget di 1,3 miliardi di dollari spe-

Da “MySpace” a “Facebook”, oggi i siti del web 2.0 sono diventati il mezzo privilegiato dai ragazzi di tutto il mondo per conoscersi e rimanere in perenne contatto. Uno strumento utile, ma con qualche piccola accortezza oltre. Un trend che non poteva non attirare le grandi corporation, sempre ansiose di raggiungere al meglio questa promettente fascia di consumatori: Coca-Coca, Apple e

dei conglomerati più potenti e famosi del mondo dei media che comprende giornali come The Sun o agenzie cinematografiche come la 20th Century Fox. Rupert Murdoch ha sbor-

si finora per varie acquisizioni sul web. Per I giovani che sono nati nell’era del boom tecnologico senza aver conosciuto l’era pre-web, il ciberspazio è un luogo “reale” a tutti gli effetti. Ormai è una moda cui è difficile sottrarsi: l’appartenenza a questo spazio virtuale costituisce uno status symbol irrinunciabile per moltissimi teenager. Si tratta di un vero e proprio luogo di ritrovo per moltissimi adolescenti, di qualsiasi parte del mondo. Un rito, un culto che ha tristemente sostituito gli storici luoghi di incontro. O il

I giovani preferiscono la dimensione virtuale alla passività della fruizione televisiva o alla lettura dei giornali. È un fenomeno generazionale sempre più comprensibile. La comunicazione virtuale regala un riscontro immediato, che non richiede eccessive attese o impegno. Basta un click per entrare negli affari personali di una persona. E con pochi altri click si trasferisce dal web al nostro desktop l’ultimo album del nostro cantante preferito. Il tutto senza spendere una sola

moneta. Non tutti negativi, dunque, gli aspetti della “malattia del web”. Basterebbe utilizzare il pc a giuste dosi. Senza permettere che sottragga tempo ad altre attività molto più “sane”. O anche semplicemente ritrovare il gusto di rovistare in un negozio di libri o di dischi e sceglierne uno con le proprie mani, piuttosto che riceverlo a casa a scatola chiusa. Una sorta di realizzazione di un’utopia. Un luogo ideale dove incontrare gente coi tuoi stessi gusti, come e quando vuoi, senza interferenze o senza il fastidio di dover uscire di casa. Un mondo magico, dove non vi sono interferenze da parte di altre persone ma solo la libera e sterminata scelta di chi si desideri sia l’interlocutore. Semplice. Estremamente comodo. Ma forse si sta rischiando di perdere il piacere, il gusto e il fascino di capirsi con un solo sguardo, con un gesto, o con l’emozione di un sorriso.


spettacoli

6 gennaio 2010 • pagina 21

Musica. “Amchitka”, il doppio cd del concerto a Vancouver che nel ’70 segnò di fatto la nascita del movimento ambientalista

Il rock che generò Greenpeace di Alfredo Marziano

A fianco, Joni Mitchell. Sotto, l’“equipaggio” della nave di Greenpeace comprata nel 1970 con i ricavi del concerto “Amchitka”, a Vancouver. In basso, James Taylor e Joni Mitchell e, nella foto piccola, dj radiofonico Terry David Mulligan

ata: 16 ottobre 1970. Luogo: Vancouver (Canada). Orario: 8 della sera. Al Pacific Coliseum, la più grande arena da concerti in città, il disc jockey radiofonico Terry David Mulligan chiama sul palco Irving Stowe, un quacchero grande, grosso e barbuto che ha abbandonato la carriera di avvocato per dedicarsi anima e corpo alla causa ambientalista. Al microfono l’ecoguerriero ringrazia la folla da sold out e invoca una “pace verde”, facendo suo il felice slogan di un altro membro del comitato Don’t Make A Wave (DMAW), Bill Darnell. È il battesimo del fuoco di Greenpeace, neonato movimento carbonaro con una missione concreta e urgente: fermare gli esperimenti con la bomba H che il governo degli Stati Uniti ha disposto sull’isola di Amchitka, 4mila chilometri da Vancouver più o meno a metà strada tra l’Alaska e la Russia.

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I bottoni che la famiglia Stowe e gli altri attivisti del gruppo vendono per strada a un quarto di dollaro non bastano di certo a noleggiare la nave da pesca con cui i corsari verdi vogliono avventurarsi in mare aperto per raggiungere la lontana destinazione. Servono 18mila dollari, ne sono stati raccolti appena 500. Resta un’unica soluzione, rimugina Stowe, da sempre appassionato di musica e cultore di jazz: raccogliere fondi organizzando un concerto rock. Vincendo lo scetticismo dei figli, prende contatti con Joan Baez: la pasionaria del folk ha già un altro impegno, ma sostiene la causa con un assegno da 1.000 dollari

e procura un contatto con il management di Joni Mitchell. La bionda cantautrice dice subito di sì, e che ne direbbero Stowe e compagni se si portasse dietro anche l’amico James Taylor? Certo, rispondono quelli, senza avere la minima idea di chi stia parlando («Pensavamo fosse un cantante blues di colore, confondevamo il nome con quello di James Brown», ha ricordato divertita la figlia del compianto Stowe, Barbara, a un quotidiano di Vancouver). Aderiscono anche il cantautore militante Phil Ochs e la rock band canadese Chilliwack, il cartellone (su cui il nome di Taylor non compare) promette di attirare un pubblico da grandi occasioni e di il trasformare concerto in un evento da ricordare. Non solo nella memoria di chi c’era: quella sera un grosso Revox posto sotto il palco registra lo show e oggi quei nastri riemergono a sorpresa dai flutti del passato, consegnati al mercato dalla stessa Greenpeace sotto forma di un doppio cd, Amchitka, di quasi due ore di durata. Una capsula del tempo, una nitida fotografia in bianco

e nero che immortala un piccolo, grande momento storico: quasi perfettamente preservata grazie a un eccellente lavoro di restauro sonoro (nessuno, rammenta ancora la Stowe, sentì così distintamente la musica, quella sera, nel cavernoso e rimbombante antro di cemento armato del Coliseum). Ochs, il fratello di Dylan, di Tom Paxton e di Dave van Ronk, l’arrabbiato del Greenwich Village che pochi anni dopo porrà fine a un’esistenza sconfitta impic-

Protagonisti Phil Ochs, James Taylor e Joni Mitchell, il disco è come una nitida fotografia scattata in bianco e nero che immortala un piccolo, grande momento storico candosi nel suo appartamento, è armato di sola voce e chitarra acustica ma è elettrico, tagliente, combattivo. Galvanizzato e infuriato dalle notizie che parlano di carri armati sulle strade di Montreal e dello stato di polizia dichiarato dal primo ministro Trudeau per rispondere alle attività terroristiche di un gruppo separatista del Quebec. The Bells (un adattamento in musica di versi di Edgar Allan Poe), il manifesto di Rhythms Of Revolution, l’antimilitarismo di I Ain’t Marching Anymore, l’inno sindacalista di Joe Hill risuonano fiere e vibranti, ultimi rigurgiti di una canzone di protesta di cui la Baez, Arlo Guthrie e pochi altri sembrano voler raccogliere il testimone. Quando sale sul palco il giovane Taylor, la next

big thing che vola alto in classifica con Sweet Baby James, è tutta un’altra musica: dolce e malinconica, sognante e forse inconsciamente già rassegnata al declino delle utopie dei Sessanta. Something In The Way She Moves (che stregò e ispirò George Harrison), Fire And Rain, Carolina On My Mind e la title track accarezzano l’anima e le orecchie, immacolate e quasi identiche alle versioni che molti di noi conservano nella memoria. L’apoteosi si celebra con l’angelica Joni, cui è dedicato l’intero secondo cd. La signora del Canyon sale sul palco quando è quasi mezzanotte e parte nervosa (tanto da non concedere, oggi, il suo benestare alla pubblica diffusione del brano di apertura, Chelsea Morning); poi, accompagnandosi tra chitarra, pianoforte e dulcimer appalachiano, incanta distillando classe purissima, ipnotiche e imprevedibili sequenze di accordi, una voce da cristallo di Boemia melodiosamente squillante e capace di ardite arrampicate sul pentagramma. Anche lei incarna un cantautorato diverso, “moderno”. Ma da canadese del Saskatchewan gioca in casa, e i temi che canta sono in sintonia perfetta con la serata: l’ecologismo pungente e amaro di Big Yellow Taxi («Hanno pavimentato il paradiso/ e ci hanno costruito un parcheggio/ Hanno preso tutti gli alberi/ e li hanno messi in un museo») gioiosamente interpolato con il

rock’n’roll dell’adolescenza (Bony Maroney), gli sfondi naturalistici e guerreschi di Cactus Tree. Mentre Woodstock, celebrazione del festival di pace e musica ancora freschissimo nella memoria, interpreta i sogni dei tanti che vorrebbero vedere i bombardieri del Vietnam «trasformarsi in farfalle sulla nostra nazione».

Come Ochs, come Taylor e come Greenpeace, lei pure è a un bivio, a una svolta epocale: My Old Man, For Free e Carey, dall’album Blue ancora inedito, sanciscono la nuova stagione del cantautorato femminile intimista e introspettivo, ripiegato sul personale e deluso dal sociale. È un momento di transizione, Mitchell e Taylor intrecciano Carey con il Dylan già vintage di Mr. Tambourine Man prima del gran finale corale di The Circle Game, il primo cavallo di battaglia di Joni in piena tradizione folk che sfuma dopo due minuti e trentotto secondi perché il nastro ha esaurito il suo percorso. Un incidente involontario e quasi emblematico: un vecchio mondo che svanisce e un nuovo mondo che nasce. Ochs che soccombe all’alcol, alla fine dell’idealismo e ai demoni della sua mente, Taylor e la Mitchell che volano verso lo stardom e l’Arcadia dorata di Laurel Canyon, Greenpeace che nel febbraio del ’72 ottiene la sua prima grande vittoria costringendo Nixon e la U.S. Atomic Energy Commission a bloccare i test nucleari.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale a cura di Pierre Chiartano

dal ”Guardian” del 04/01/10

Ignoranza con le stellette di Richard Norton-Taylor l ministro della Difesa britannico non ha fatto in tempo ad annunciare al Paese il primo caduto del 2010 in Afghanistan che un ex generale del Royal Army ha attaccato frontalmente lo stato maggiore per l’incapacità che molti alti ufficiali hanno dimostrato nell’adeguarsi alle nuove strategie di combattimento. Un ”colpo basso”nei confronti di un esercito già vessato dalla crisi economica, dal calo negli arruolamenti e da due conflitti, in Iraq e Afghanistan, che ne hanno fortemente usurato gli uomini e i materiali.

I

Il soldato che per primo è stato pianto in Inghilterra nel 2010 apparteneva al Primo battaglione del Royal anglian regiment. È deceduto, domenica pomeriggio, a causa dell’esplosione di una bomba posta a lato della strada durante un pattugliamento a piedi nell’area di Nad-e Alì, nella provincia di Helmand. La sua morte porta il conto delle perdite umane nei ranghi dei militari a 246 dal 2001. L’accusatore degli altri gradi dell’esercito di sua Maestà , invece, è il maggiore generale ( equivale al grado di generale con due stelle, ndr) Andrew Mackay, che nel settembre del 2009 aveva improvvisamente rassegnato le dimissioni, ad aver attaccato i vertici militari. Li ha descritti come «strutturalmente incapaci di stare al passo con i cambiamenti richiesti da un conflitto moderno e contemporaneamente di non possedere neanche la volontà per adattarsi – e alla svelta». L’ufficiale ha anche aggiunto che l’esercito «ha fallito in maniera determinante» nel comprendere le motivazioni della popolazione locale. Le sue critiche sono apparse in un articolo – in realtà un rapporto di ben quaranta pagine – firma-

to assieme all’ufficiale di marina Steve Tatham e pubblicato sul sito della Defence Academy di Shrivenham, una struttura che dipende dal ministero della Difesa. «Si possono leggere concetti troppo schematici» alla base delle scelte degli alti comandi, come «oppio-cattivo, grano-buono» oppure «talibanmale, Isaf-tutto bene», spiegano i due ufficiali. «Abbiamo fallito nel comprendere come decisioni che sembrano per noi irrazionali hanno una loro logica nella testa di chi deve fare una scelta» (un approccio di mediazione culturale in cui i militari italiani sono degli abili precursori, ndr). Il loro documento conclude: «abbiamo cercato di proporre l’idea che, assieme all’uso della forza, può esserci un altro genere di approccio, più efficace che, a nostro giudizio, può incidere sulla volontà del nemico e può essere pari o auspicabilmente più utile dell’utilizzo della sola forza nei conflitti futuri».

E porta ad esempio l’operazione che ha permesso alla 52ma brigata la riconquista del caposaldo talebano di Musa Qala: «si è potuto attuare senza farlo a spese dell’efficienza militare» (si tratta di un caso emblamatico, «il modello Musa Qala» è un accordo tra talebani e britannici, mediato dall’allora governatore Daud – poi defenestrato dal presidente Karzai – andato di traverso al comando Nato,

ndr). Come ufficiale in comando delle truppe inglesi in Afghanistan dal 2007 al 2008, Mackay si sentiva come uno studente alle prime armi. Doveva gestire la sua presenza in Afghanistan, le tattiche anti-insurrezionali e l’organizzazione generale – molto complessa – di un dispositivo militare fuori-area. Era rimasto colpito dalla totale mancanza di direttive chiare e di ordini conseguenti. «C’era la sensazione diffusa che le cose prendessero forma strada facendo». Nelle intenzioni degli autori dell’intervento c’è la speranza di cambiare qualcosa nella mentalità dei militari inglesi. Vorrebbero che si attuasse una riforma radicale nella cultura strategica delle forze armate britanniche.

In un conflitto come quello in Afghanistan, ad esempio, servirebbe dare maggiore importanza agli ufficiali che si occupano di media e pubblica informazione. «È ridicolo» – affermano – che una posizione così importante e delicata venga affidata a gente senza alcuna esperienza.

L’IMMAGINE

L’ideologia comunista ha influenzato la cultura e la politica del Novecento Una interessante trasmissione radiofonica sottolineava come nella storia, l’avvento del mercato e cioè dell’economia, abbia rappresentato per la società un elemento esplicativo di libertà. Non a caso il principio liberale si basa proprio sulla possibilità di fare del mercato un’espressione di libertà intesa come libera collaborazione tra genti e popoli, che riescono ad affermare la loro capacità di accordo senza sopraffarsi fisicamente. La moderna diplomazia e una certa politica sono nate proprio da tale spirito e si sono rafforzate con la saldatura delle democrazia occidentali al territorio e alle leggi del mercato che lo regolano. Purtroppo come ogni processo involutivo, il limite superiore di tale sviluppo è stato posto proprio dalla possibilità dell’arricchimento dello Stato come inteso dalla ideologia comunista, che ha influenzato non poco la cultura e la politica del Novecento.

Bruno Russo

IL TEMPO RITROVATO Quante tempeste anteposte alla quiete dovranno passare, per far capire che il dialogo e la concordia in politica, premiano sia in pace che in guerra? I toni diversi da questi sono ormai improduttivi al Paese, e incarnano solo una lenta e spasmodica disaffezione della gente verso una politica chiassosa e volta solo all’affermazione del “tutti contro l’uno”, la vittoria di una nuova massificazione che è l’unanime giudizio che in realtà non esiste.

Gennaro Napoli

GESTI INCONSULTI Qualcuno ha messo in relazione il gesto contro il premier con lo spintone che il Papa ha dovuto subire proprio a Natale da parte di una squilibrata, che anche l’anno precedente aveva tentato

di raggiungerlo in qualche modo. Sono azioni che definiscono, purtroppo, la triste reazione che parte dai più deboli, che per non essere curati e assistiti come si deve, finiscono per rappresentare anche una mina esplosiva. Alla fine di essa, ci si scontra con la personalità di chi sembra comandare dal pulpito o predicare, mentre non ci si accorge che anche per loro, è difficile ogni giorno sentirsi veramente ascoltati.

Bruna Rosso

DOPPIO BINARIO PER RIFORME E LEGITTIMO IMPEDIMENTO Ci vuole un doppio binario per fare le riforme di cui l’Italia ha un bisogno estremo e anche per sciogliere il nodo giudiziario di Berlusconi. Si può immaginare un’Assemblea costituente per le riforme istituzionali e il normale percorso

Frecce multicolori Siamo a Pechino durante le celebrazioni per il 60esimo anniversario del People’s liberation army air force, la forza aerea della Repubblica popolare cinese. A disegnare nell’aria queste coloratissime strisce sono stati i 6 aerei della squadra acrobatica militare. La pattuglia acrobatica più numerosa del mondo invece, appartiene a noi: le Frecce Tricolori

parlamentare per una legge sul legittimo impedimento lasciando che sia la maggioranza ad assumersene la responsabilità, com’è giusto che sia. Il compito è difficile, ma una revisione costituzionale fuori dalla logica di un Parlamento di “nominati” e sganciato dallo

scontro tra politica e magistratura è possibile solo con un’Assemblea da eleggere col sistema proporzionale puro.Tra le modifiche potrebbe certamente trovare posto anche uno scudo giudiziario, pro tempore, non solo per il presidente della Repubblica ma anche per il presi-

dente del consiglio. Questa strada consentirebbe il confronto parlamentare sui provvedimenti del governo che interessano la vita di tutti i giorni, senza evocare ogni volta un Armageddon tra maggioranza e opposizioni.

Riccardo


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Perché fai confidenze a tua sorella? Ho passato dei momenti molto spiacevoli per motivi che puoi immaginare. Per di più sono due notti che non dormo, poiché l’angina mi procura una costante salivazione, e mi succede stupidamente di dover sputare ogni due minuti, il che non mi lascia riposare. Ora mi sento al contempo un po’ meglio e un po’ peggio di stamani: la gola mi brucia di meno, ma in compenso ho la febbre, che al mattino non avevo. È comunque un toccasana scriverti; sento che dopo riposerò per almeno tre o quattro ore filate. Non molto, ma non puoi sapere il bene che mi fa. Se il miglioramento si accentua, forse oggi stesso vengo in ufficio, ma senza trattenermici molto; e allora io stesso ti consegnerò la presente. Spero molto di poter venire, anche perché ho delle faccende urgenti da sbrigare, che posso trattare solo stando in ufficio, pur senza spostarmi in giro per la città. Non sarebbe prudente. Di qui, comunque, mi è impossibile occuparmene. Addio, mio angioletto Bebè. Ti ricopro di baci pieni di nostalgia. P.S. Cosa significa il fatto che non volevi andare... e poi invece sei andata... nella ditta Dupin? Perché all’improvviso decidi di fare confidenze a tua sorella? Fernando Pessoa a Ophélia Queiroz

ACCADDE OGGI

SPUMANTI E CHAMPAGNE Può essere considerato spumante o champagne un vino bianco al quale è stato aggiunto gas (anidride carbonica) e confezionato con tappo a fungo e gabbietta metallica? No certamente, ma in commercio se ne trovano a prezzi piuttosto bassi, il che può ingannare il consumatore convinto di aver fatto un affare! Come fare per evitare fregature Come al solito occorre leggere l’etichetta e in questo senso qualche consiglio è utile. Un buon spumante deve indicare le dizioni: metodo classico (significa che è fatto con il metodo champenois); doc (denominazione di origine controllata), docg (denominazione di origine controllata e garantita) o l’analoga sigla europea vsqprd, il che assicura che il vino è di una determinata area geografica; prodotto e imbottigliato da... (un produttore corretto tiene a garantire la qualità del proprio prodotto); la data della sboccatura, cioè dell’eliminazione del deposito che si forma nelle bottiglie. Per la scelta degli champagne, in genere, il consumatore guarda più alla marca che all’etichetta, anche perché nessun commerciante si sente obbligato a fornire informazioni precise, spesso si limita a decantarne le qualità. Per lo champagne valgono in sostanza le stesse indicazioni dello spumante. In più sulle etichette degli champagne dovrebbe essere indicata: la sigla Ay che sta ad indicare la zona con i vigneti migliori; la sigla R.m (lo champagne è fatto con uve dei produttori); la sigla N.m (lo champagne è fatto con uve di diversa provenienza); la

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

6 gennaio 1931 Thomas Edison presenta la sua ultima richiesta di brevetto 1940 Esecuzioni di massa di polacchi, commesse dai tedeschi nella città di Poznan 1942 La Pan American Airlines diventa la prima compagnia aerea commerciale ad avere un volo che compie il giro del mondo 1950 Il Regno Unito riconosce la Repubblica popolare cinese 1967 I Marines degli Stati Uniti e le truppe dell’esercito della Repubblica del Vietnam del sud lanciano l’Operazione Deckhouse Five nel delta del Mekong 1992 Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite vota all’unanimità la condanna del trattamento dei palestinesi da parte degli israeliani 1994 Nancy Kerrigan viene assalita e bastonata sulla gamba destra su ordine della pattinatrice rivale Tonya Harding 1995 Un incendio in un condominio di Manila porta alla scoperta dei piani del Progetto Bojinka, un attacco terroristico di massa

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

dizione pas dosé o nature (non è stato aggiunto sciroppo zuccherino); l’indicazione dell’annata (champagne millesimato).

Primo Mastrantoni

RICORSO CONTRO ERRORI DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Ogni cittadino può opporsi agli atti della pubblica amministrazione non solo con la loro impugnazione avanti alla giustizia amministrativa (Tar, Consiglio di Stato) ma anche con ricorsi non giurisdizionali rivolti alla stessa amministrazione. È il ricorso amministrativo, un tentativo “amichevole” di ottenere la riesamina degli atti, con loro annullamento o modifica. I motivi di impugnazione possono riguardare vizi di legittimità dell’atto, o vizi di merito. Un metodo di rivalsa che esiste da tempo e che fa capire meglio l’inutilità, nonché il lancio ad esclusivo uso mediatico, di quella che è stata chiamata la class action contro la pubblica amministrazione del ministro Brunetta. Entrambe non contemplano il rimborso del danno subito. Vediamo le differenze: la class action Pa potrà riguardare solo grandi e palesi disfunzioni: abbastanza rare, se non per motivi insiti a leggi e norme in sé che per essere modificate necessitano dell’intervento legislativo; il ricorso amministrativo riguarda la quotidianità dei rapporti del cittadino con la Pa: casi singoli, di singoli intoppi e difficoltà interpretative, nonché arroganze istituzionali, facilmente e direttamente impugnabili.

Aduc

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

TURISMO: SETTORE STRATEGICO MA SOTTOVALUTATO (II PARTE) A livello di meridione e di Basilicata, chi scoprì il sole e valorizzò il Mediterraneo fu un prete con il suo Grand Tour, che rappresenta ancora il primo e unico movimento turistico serio che si sia realizzato in Italia, caratterizzando una tendenza nella cultura del tempo libero e delle vacanze del tutto originale. Queste premesse per dire che cosa? Che è un errore evidente recintare le politiche del turismo nei circuiti istituzionali, quando invece esse vanno liberamente trasferite negli ambienti sociali culturalmente più inclini. Facciamo riferimento, come esempio, al grande contributo culturale che hanno offerto nel passato i viaggiatori, i pittori, gli scrittori, gli scultori, i medici, gli archeologi. Oggi, con l’avvento delle nuove professioni, alla bisogna potrebbero concorrere i sociologi, i fotografi, gli alimentaristi, gli operatori cinematografici, gli operatori della comunicazione e dello spettacolo, gli operatori turistici che, in riferimento alla loro competenza e sensibilità, potrebbero arricchire con nuove idee il settore del turismo, diventato burocratico e spesso coercitivo. Il turismo vuole informazioni “pluridisciplinari”aggiornate di un posto, non ha bisogno di ricette precostituite; diventi una materia dove la libera creatività personale possa esercitarsi in più direzioni con tutta la sua spontaneità. Più ci sono costrizioni, più ci sono mete obbligate, più le persone si adagiano, non seguono il loro istinto e penalizzano la libera iniziativa. Consigliamo, dunque, di rendere aperta una materia che interessa a molti e può coinvolgere tutti; e la politica, come l’economia, non può pretendere di creare tendenze e imporre comportamenti che, puntualmente, vengono messi in discussione dai dati statistici che si compilano a fine stagione. In Basilicata, dai dati ufficiosi che abbiamo in nostro possesso, rispetto alle previsioni del dipartimento regionale al Turismo, orientato verso i quattro attrattori regionali (Melfi, Matera, Metapontino e Maratea), le uniche aree positivamente suscettibili di incremento turistico sono le aree interne della Basilicata, a riprova che il turismo è affetto da patologie sociali difficilmente riconducibili ad una politica imposta dall’alto. Per queste motivazioni si chiede alla politica una visione ampia e capace di ascoltare frequentemente non solo gli addetti ai lavori ma anche quel mondo culturale, che non appare e che in modo tranquillo fa tendenza. In questo mese di gennaio, presenteremo agli organi di informazione il nostro lavoro che meglio specificherà, è il nostro augurio, ciò che abbiamo esposto in questo articolo. Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A

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PAGINAVENTIQUATTRO Origini. Mickey Mouse cronista di strada nella miniserie “Topolinia 20802”

Topolino va in città e (ri)diventa un giornalista di Alfonso Francia egli Stati Uniti si è scomodato persino il New York Times. Mickey Mouse, protagonista di un videogioco, ricorda le sue origini e torna il topo dispettoso e manesco creato da Walt Disney alla fine degli anni Venti. La notizia ha immancabilmente fatto il giro del mondo, ma in Italia non ha eccitato gli appassionati. Questo perché nel nostro Paese Topolino ha abbandonato già da qualche anno quella fastidiosa aura da primo della classe che lo aveva reso quasi antipatico a qualche generazione di lettori di fumetti. Grazie all’inventiva di nuovi sceneggiatori come Tito Faraci, Casty (al secolo Andrea Castellan) e Fausto Vitaliano, il topo detective si è fatto un po’ più egoista, ha imparato che la giustizia non sta sempre da una parte sola e spesso ha solidarizzato con il suo storico nemico Gambadilegno.

N

portante nella vita. Certo, dà una mano al commissario Basettoni quando la polizia è alle prese con qualche indagine di poco conto, ma non appena si deve risolvere un caso importante il suo apporto di “geniale dilettante” diventa inutile. Quando capisce che la sua giornata tipo (leggere il giornale al parco, dar da mangiare ai piccioni, gironzolare per il quartiere) è pericolosamente simile a quella di un pensionato, decide di andarsene. Risponde a un’inserzione pubblicata sul quotidiano cittadino e si trasferisce in centro, nel quartiere identificato con il

che informazione utile sulla spia che ha manomesso le rotative del suo giornale. Sta sempre dalla parte della giustizia, ma i suoi metodi avrebbero fatto inorridire il Topolino perbenista e un po’ bigotto che risolve le indagini unicamente con l’intuito.

Assieme al suo carattere, anche le strade di Topolinia si incupiscono. Dimenticate i vialetti ordinati, le villette a schiera e il parco pubblico dove il nostro eroe portava a spasso Pluto. Questa città è sporca, caotica, popolata di persone indaffarate e indifferenti. Il sole non riesce mai a far capolino, oscurato da grattacieli che si perdono nella foschia o da nuvole che restituiscono una luce livida e incerta. Le

MONELLO

Ci si è insomma allontanati un po’ da Sherlock Holmes e si è recuperato Philip Marlowe. Il più bel documento di questa conversione è stata la pubblicazione, avvenuta qualche anno fa grazie alla Einaudi, di Topolino noir, collana di storie in bianco e nero sceneggiate da Faraci. Con un gusto insuperabile nel costruire dialoghi da vecchio giallo hollywoodiano, l’autore si diverte a mettere in crisi le vecchie certezze del suo protagonista facendogli affrontare situazioni in cui la giustizia è ingiusta e la corruzione entra pure nella centrale di polizia. In una di queste avventure, intitolata “Dalla parte sbagliata”, Topolino riconosce con una frase fulminante l’importanza di Gambadilegno nella sua carriera: «Se lui non avesse perso sempre, io non avrei vinto sempre. In fondo gli devo una grossa fetta del mio successo…». Ma la trasformazione sarebbe rimasta incompleta se ci si fosse limitati a rivisitare il Topolino detective privato senza affrontare l’altra grande passione di Mickey, il giornalismo. La lacuna è stata colmata qualche settimana fa quando Topolino (il settimanale) ha pubblicato “Topolinia 20802”, una miniserie di quattro puntate dedicata alle avventure del nostro in veste di redattore praticante del Topolinia Daily. Nel primo episodio troviamo il nostro protagonista insolitamente frustrato; ha raggiunto l’età adulta da un bel pezzo, ma sente di non aver fatto nulla di im-

codice di avviamento postale 20802. Abbandona così la sua villetta in periferia e sperimenta la vita del cronista di strada. Batte i marciapiedi a caccia di notizie, accetta i servizi più umili e si adatta a dormire in un monolocale senza telefono e con i rubinetti rotti. Impara prima di tutto che per scrivere un pezzo apprezzato dal caposervizio potrebbe anche essere necessario aggiungere particolari inventati… La sua avventura finisce comunque in gloria: dopo essere stato licenziato per colpe non sue riesce a sventare il tentativo di scalata del suo quotidiano da parte di

Anche se il nostro eroe riesce a far bella figura, emerge qualche vizietto: gioca a biliardo con i colleghi, racconta bugie alla fidanzata Minni, si dimentica dei vecchi amici e finge di non vedere alcuni piccoli furti... un imprenditore corrotto che sta cercando di entrare in politica (chi cercasse particolari rimandi all’attualità politica italiana sappia che resterà deluso, stiamo pur sempre parlando di un settimanale per ragazzi).

Anche se il nostro eroe riesce a far bella figura, qualche vizietto comincia a emergere. Questo Topolino gioca a biliardo con i colleghi, racconta bugie alla fidanzata Minni, si dimentica dei vecchi amici e finge di non vedere le piccole ruberie messe in atto dal suo amministratore di condominio. Non esita poi a ricattare il povero Gambadilegno per ottenere qual-

enormi palazzine d’appartamenti in mattoni rossi nascondono alla vista qualche diner malandato dove i clienti mangiano soli leggendo il giornale. Non ci vuole molto per capire che il modello adottato dai disegnatori è la solita New York. Non la metropoli ripulita e alla moda di oggi, ma quella di vent’anni fa, appena prima della cura Giuliani, quando scendere in metropolitana dopo il tramonto era considerato un tentativo di suicidio.Topolino vi si muove all’inizio con qualche difficoltà, ma presto acquisisce la velocità e la scaltrezza del “cittadino”. Ma pure nel bel mezzo di un’ambientazione “americana” ricostruita con filologica esattezza, non possiamo dimenticare che questo soggetto è completamente italiano. Tutto il progetto di “Topolinia 20802”è stato realizzato all’interno della redazione del settimanale, da decenni una delle maggiori “fabbriche” di fumetti Disney. Mickey Mouse resta uno dei prodotti statunitensi più conosciuti al mondo, ma il lavoro fatto sul personaggio in Italia gli ha dato una vita nuova. All’estero Topolino è ormai poco più che un marchio, una faccia simpatica con le grandi orecchie buona per decorare magliette e orologi e accogliere i visitatori dei parchi Disney sparsi nel mondo. In Italia, ha ottenuto il diritto di parola, ha acquisito sfaccettature nuove e si è permesso una seconda giovinezza alla bella età di 81 anni.


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