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SCRITTORI E CIBI

AMADO lo spizzichino spezzafame di Bahia Il menù delle sue opere è un tripudio di carni secche, fagioli, farine di manioca, frutta e acquavite di Filippo Maria Battaglia

I

nizia in sordina, matura con le prime opere, trionfa con i capolavori dell’età più adulta. Il legame d’amore tra Jorge Amado e la cucina non ha riscontri di pari livello nella letteratura sudamericana. Non ha paragoni sia per la spasmodica attenzione che lo scrittore di Itabuna dedica al cibo, sia per la ricercatezza del lessico nella descrizione di manicaretti e leccornie varie. È un tratto indelebile della sua produzione. Di più: insieme alla denuncia sociale e all’ambientazione bahiana, costituisce la nervatura narrativa della sua opera.

Non c’è vita senza cibo, sostiene Amado, ed infatti i piatti tipici brasiliani sbucano già alla prima occasione utile, sull’angolo di una strada di Bahia, nel primo romanzo Il paese del carnevale. Ma è solo una fugace apparizione, assai diversa da quella del secondo libro, non a caso intitolato Cacao. A comporre il mosaico culinario, stavolta è un tripudio di carni essicca-

te, fagioli, farine di manioca, frutta appena raccolta e acquavite di canna da zucchero. Una dimensione «domestica» del cibo, destinata ad eclissarsi nel successivo Jubiabà, palcoscenico ideale dove la cucina lascia il profilo più dimesso della gastronomia, levando ad un autentico rituale sociale. È qui che incontriamo una donna nera che «per strada gridava ancheggiando: “Noccioline tostate! Acarejé!”». Che sarà mai questo strano piatto, recitato quasi fosse un rito propiziatorio durante una delle più gravi carestie di Bahia? Uno stuzzichino, «uno spizzico, che si mangia lontano dai pasti per tappare il buco nello stomaco, o prima di cena per stimolare l’appetito». L’Acarejé è uno dei pezzi forti della cucina targata Brasile; la sua preparazione, però, non è affatto semplice. A spiegarlo è lo stesso Amado nel libro scritto insieme alla figlia Paloma (La cucina di Bahia, 1994). Diamo un’occhiata alla ricetta: «Una volta si preparava

pagina IV - liberal estate - 1 agosto 2009

Nel suo romanzo più noto «Dona Flor», anche quando è sola, resta comunque in compagnia del suo cibo. E la sua ricetta diventa il rosario laico di una civiltà nient’affatto incline alla solitudine e all’emarginazione l’impasto dell’acarajé levando la buccia ai fagioli dall’occhio, uno a uno, e grattugiandoli sulla pietra», ovvero un grosso arnese, a forma di parallelepipedo lungo cinquantatre centimetri e largo poco più di venti.

«La parte piana – prosegue Amado – non è liscia, ma viene picchettata per renderla porosa o increspata. Un cilindro della medesima pietra, lungo circa trenta centimetri, ha tutta la superficie ruvida. Questo “matterello”, fatto rotolare avanti e indietro lungo la pietra, trita con facilità il mais, i fagioli, il riso etc». Dunque, se c’è la «pietra» è meglio. Ma se non c’è, poco male: oggi – ricorda Amado –

si usa anche il frullatore e il tritacarne e «non sempre i fagioli risultano perfettamente sbucciati. Anzi, alle volte non si usano neanche i fagioli, dato che per togliersi la voglia di un acarajé si possono inventare mille cose». In Cacao Amado li cucina ad esempio con i fagioli bianchi. Tradizione però impone che per una quindicina di persone si debbano procurare poco più di un chilo di fagioli e di cipolle, un po’ di sale e quanto basta di olio di palma per friggere tutto quanto. Basta poi tritare grossolanamente i fagioli («per spezzettarli senza sminuzzarli») e «metterli a bagno nell’acqua in modo che restino coperti, per ventiquattro ore». Lavati e scolati,

si passano nel tritacarne e, una volta grattugiate le cipolle, si cucinano entrambi in una pentola «fino a che il tutto sia ben amalgamato». Subito dopo, tocca alla frittura: «In una padella versate olio di palma in abbondanza (in quantità tale che durante la frittura copra a metà l’acarajè), aggiungete la cipolla intera e sbucciata e fate scaldare bene. Con due cucchiai date forma agli acarejés e metteteli a friggere nell’olio (è bene sciacquare ogni volta i cucchiai per facilitare il lavoro). Quando una parte è croccante, girate delicatamente l’acarajé aiutandovi con una schiumarola. Può essere servito così o tagliato a metà e spruzzato di salsa di peperoncino, o ripieno di vatapà».

Già, il vatapà: altro piatto decisivo nei romanzi di Amado. La sua preparazione lenisce i dolori di Dona Flor nel romanzo più noto di Amado. Dopo aver chiesto di essere lasciata «in pace con il mio lutto e la mia solitudine», è la vedova di Vadinho a decide-


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