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Il disordine ha salvato migliaia

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di individui. In guerra basta una piccola deviazione da un ordine per salvarsi la pelle

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Bertolt Brecht di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 16 GIUGNO 2009

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il viaggio del Cavaliere a Washington

Tra Silvio e Obama vincono i nostri soldati di Stranamore a è possibile che esista ancora questo dubbio? I soldati italiani sono brava gente, dediti a salvare i profughi, a costruire scuole e a compiere opere di bene in occasione di catastrofi. Ma sapranno compiere il loro lavoro, combattere? Già, nel momento in cui Obama chiede esplicitamente a Berlusconi di aumentare l’impegno militare nella guerra in Afghanistan in termini quantitativi e qualitativi, ecco che si ripropongono domande semplicemente infamanti.

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MEDIORIENTE IN BILICO/IRAN Due milioni di persone in piazza con Mousavi per chiedere nuove elezioni. La polizia di Ahmadinejad spara e uccide

La guerra di Teheran alle pagine 2 e 3

MEDIORIENTE IN BILICO/YEMEN

Irrisolti i nodi di autonomia e sussidiarietà

Ecco l’ennesima e assai inutile riforma scolastica

Massacrati gli ostaggi rapiti venerdì. Fra loro anche bambini. Si sospetta la mano della rete di bin Laden

di Giuseppe Bertagna artirà dal 2010 la riforma dei «nuovi» licei. Formalmente, saranno sei. In realtà il numero sale a undici: classico, scientifico, tecnologico, linguistico, delle scienze umane, economico-sociale, coreutico, musicale, delle arti figurative, dell’architettura-design-ambiente, dell’audiovisivo-multimedia-scenografia. Ma questa riforma, l’ennesima riforma delle scuole superiori italiane, non risolve affatto i nodi dell’autonomia e della sussidiarietà.

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La barbarie di al Qaeda alle pagine 4 e 5

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La «grande scossa» dietro Berlusconi

Breve guida alla conoscenza del “complotto” di Marco Palombi ei cosiddetti corridoi del potere, tutti oramai tendono l’orecchio con ansia all’ormai famosa e annunciata “scossa”. Merito di Massimo D’Alema - che insieme a Francesco Cossiga, Gianfranco Rotondi, Fabrizio Cicchitto, ovviamente Silvio Berlusconi e qualche decina d’altri - da giorni non fa che girare attorno al “complottone”. Lo scenario fantapolitico è più o meno questo: una variegata congerie di personaggi e interessi trama nell’ombra per sostituire il Cavaliere.

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MEDIORIENTE IN BILICO/ISRAELE Dalla proposta del premier una doccia fredda per Obama e il Vaticano. Qualche timida apertura in Europa, ma resta la ferma opposizione dei Paesi arabi

L’azzardo di Netanyahu alle pagine 6 e 7

a pagina 15 seg1,00 ue a p agina 9CON EURO (10,00

I QUADERNI)

• ANNO XIV •

NUMERO

117 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Proteste. L’atteggiamento ambiguo della Guida Suprema della Rivoluzione scatena la rabbia della popolazione

Il Giorno del giudizio

A Teheran milioni di manifestanti in piazza con Moussavi per chiedere nuove elezioni. La polizia di Ahmadinejad spara e uccide di Gennaro Malgieri Iran è una polveriera. Dopo le elezioni presidenziali di venerdì scorso, niente sarà più come prima. La contestata vittoria di Mahmoud Ahmadinejad apre una stagione di instabilità i cui esiti si stanno già manifestando con una violenza inimmaginabile alla vigilia dovuta alla delusione soprattutto dei giovani, delle donne ma anche degli intellettuali e della borghesia che avevano sperato fino all’ultimo che la ragionevolezza prevalesse sull’arroganza. Niente è stato risparmiato a chi immaginava il cambiamento e lo vedeva a portata di mano. Repressioni, minacce, arresti, forse morti (impenetrabile la cortina della disinformazione a Teheran). Le giovani generazioni pretendevano un leader, si sono ritrovate un fantoccio. Ritenevano che l’apertura di una nuova stagione “rivoluzionaria” segnata da riforme strutturali e dall’irruzione di elementi di democrazia fossero alle viste, invece hanno sperimentato come la macchina del terrore sia ancora ben oliata. Ricominciare daccapo non si può, dicono i manifestanti. È necessario andare avanti sulla spinta di un moto popolare che sta contagiando perfino le aree più periferiche del Paese. Si è messo in moto un movimento di popolo che gli sgherri di Khamenei difficilmente riusciranno ad arginare. Quali potranno essere effetti di una rivolta che neppure i più pessimisti tra gli ayatollah prevedevano? Al momento nessuno è in grado di dirlo anche perché la “normalizzazione” non può prescindere dall’accettazione della richiesta di Mir Hossein Mussavi di annullare le elezioni. E questo la Guida Spirituale non può accettarlo essendosi già congratulato con Ahmadinejad per la “limpida” vittoria ottenuta. Ma il vecchio erede di Khomeini non si nasconde, insieme con tutto l’establishment, che sarà difficile avvalorare l’impostura dal momento che essa è stata “svelata” da alcuni autorevoli esponenti del regime ancorché avversari del presidente. A differenza di quattro anni fa, quando l’affermazione di Ahmadinejad, fino a quel momento sindaco di Teheran, fu nettissima sul concorrente Alì Akbar Hashemi Rafsanjani ed ampiamente prevista sia

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Aperto il fuoco sulla folla: almeno un morto

Le morse della repressione di Vincenzo Faccioli Pintozzi lla fine, la repressione ha fatto scattare le sue morse sui manifestanti pacifici che nelle vie principali di Teheran - chiedevano al governo una nuova tornata elettorale. Almeno una persona è stata uccisa fra le centinaia di migliaia, forse addirittura milioni, di sostenitori del candidato moderato Mir Hossein Mousavi scesi ieri in strada a Teheran per contestare le rielezione del presidente ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad. Alla manifestazione di protesta, vietata dalle autorità, era presente anche Mousavi, che ha chiesto - parlando dal tettuccio di un’automobile - una nuova elezione presidenziale. I manifestanti hanno invaso avenue Azadi, una delle principali arterie della capitale, per protestare contro la rielezione di Ahmadinejad, che ha vinto le presidenziali di venerdì con il 63 per cento dei voti, stando ai risultati ufficiali diffusi dal ministero dell’Interno ma contestati dai sostenitori di Mousavi. Pur di natura pacifica, la manifestazione ha un altissimo tasso di rischio. Secondo gli agenti di polizia presenti sul posto, almeno un milione e mezzo di persone hanno partecipato alla marcia. La gente ha urlato slogan come“Morte al dittatore” e “Martedì, sciopero”. Parlando alla folla riunita, Moussavi ha detto: «Se Dio vorrà ci riprenderemo i nostri diritti. Siamo pronti a partecipare nuovamente a una elezione presidenziale». Mousavi aveva annunciato già in mattinata che sarebbe intervenuto alla manifestazione per invitare i suoi sostenitori alla calma,

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ma la sua presenza rappresenta una vera sfida alla guida suprema della Repubblica islamica, l’ayatollah Ali Khamenei, il quale ha invitato Mousavi a contestare il voto «usando le vie legali». Il candidato moderato ha chiesto al Consiglio dei guardiani della Costituzione l’annullamento dello scrutinio per irregolarità. Il corteo di protesta è stato tenuto sotto controllo a distanza da agenti in tenuta anti-sommossa, mentre nella zona è stata temporaneamente sospesa la copertura per i telefoni cellulari. Anche la televisione, controllata dal governo centrale, non ha diffuso immagini della manifestazione, ignorata anche dalle agenzie di stampa locali. Alcune fonti parlano di almeno cinque morti: si tratterebbe di studenti rimasti uccisi negli scontri con la polizia avvenuti tra sabato e domenica nella capitale iraniana Teheran. Lo riferiscono fonti di PeaceReporter. Le vittime sono due ragazze, Fatemeh Barati e Mobina Ehterami, e tre ragazzi, Kasra Sharafi, Kambiz Shoaei e Mohsen Imani.

per la sfiducia dei borghesi che dei giovani (oltre il sessanta per cento della popolazione) che disertarono quasi in massa le elezioni, che per la forza non tanto del candidato quanto dell’apparato che riuscì ad imporlo, questa volta la sconfitta di Moussavi non verrà sopita facilmente perché palesemente“pilotata”dal regime degli ayatollah i quali, probabilmente, viste le conseguenze, si stanno già pentendo di aver appoggiato un uomo che sta costruendo una sorta di sistema politico parallelo a quello del regime teocratico. Ahmadinejad, sostanzialmente, è contro tutti. Se Khamenei non avesse tanto precipitosamente avallato la sua “vittoria”, la vicenda avrebbe preso forse un’altra piega.

Il presidente, infatti, scontentando quasi tutti, può contare su una sorta di “partito invisibile” del quale a Teheran tutti parlano, ma che nessuno riesce con chiarezza ad individuare per poterlo combattere adeguatamente. È un partito che si fonda su ricatti, corruzione, interessi privati che si mescolano a quelli pubblici, sulla violenza per costringere i più riottosi a non mettersi di traverso alla cricca che sta intorno ad Ahmadinejad ed è in grado di pilotare i voti quando occorre. Per quanto misterioso, si sa che può contare su quasi tutti i pasdaran, i basiji (la terribile milizia non inquadrata militarmen-

Teheran Nord (lo incontrai nell’inverno di quattro anni fa, un po’ dimesso e scettico sulle possibilità che l’allora sindaco della capitale potesse diventare presidente) oltre che consigliere di Khamenei per gli affari internazionali, lo stesso sindaco di Teheran Mohammad Bagher Qalibaf. Discorso a parte merita l’ex comandante dei pasdaran Moshen Rezai che il Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione e la stessa Guida Spirituale Alì Khamenei hanno candidato contro Ahmadinejad per contenerne la vittoria, ma ha raccolto briciole: comunque può annoverarsi nello stesso fronte ideologico. Al presidente si contrappongono in maniera frontale, appoggiando Mousavi, due ex capi della Repubblica islamica: Rafsanjani e soprattutto Mohammad Khatami il quale due mesi fa fece un passo indietro per lasciare il posto all’odierno sconfitto che, naturalmente, non si sente tale. Il clero, per la prima volta in trent’anni, si è dissociato dalla Guida Spirituale ed in particolare dalla città santa di Qom ha fatto sapere di non accettare il verdetto truccato. Khamenei, a questo punto, non sa cosa fare.

È consapevole che la vecchia guardia khomeinista si sta saldando con coloro che invocano il rinnovamento. Sa anche che tra i giovani nessuno mette in

Il presidente può contare su un partito fondato su ricatti, corruzione, interessi privati mescolati a quelli pubblici, violenza ed estremismo. Tutto il necessario per costringere i riottosi a cedere te), i bazarì che lo sostengono finanziariamente, l’esercito dei poveri che vivono dell’elemosina del regime. I capi di questo partito sono Mohammed Alì Jafar (leader dei pasdaran), Hojattoleislam Taeb che comanda tredici milioni e mezzo di basiji, il religioso MasbahYazdi. Gli“invisibili” (come vengono chiamati) non hanno buoni rapporti con altri“conservatori”che pure hanno appoggiato Ahmadinejad, ma già se ne pentono: il presidente del Majlis (il Parlamento) Larijani, l’ex ministro degli Esteri di Khomeini, Velayati il quale dirige un ospedale pediatrico a

discussione la rivoluzione islamica, né tantomeno ripudia il Corano, ma denuncia l’uso arbitrario, poliziesco e violento dell’applicazione della sharia. E pretende un’apertura all’Occidente insieme con la liberalizzazione dei costumi. Fino a qualche tempo fa sembrava impensabile, ma “l’onda verde” l’ha reso possibile trovando nei vecchi khomeinisti insperati alleati. Del resto Khatami ci aveva già provato, ma i tempi non erano maturi. Egli era più avanti della stessa società iraniana. Tra il 1997 ed il 2005, quando ricoprì la carica di capo dello


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Le posizioni di Washington sono «immorali»

Lo strano silenzio di Obama di Michael Ledeen e speranze riposte nella nuova amministrazione Obama si sono rapidamente infrante in seguito alle due dichiarazioni che la Casa Bianca ha rilasciato riguardo alle elezioni iraniane. La prima è giunta per bocca del Presidente stesso, con la quale egli prevedeva una vittoria di Mousavi (è troppo presto per lasciarsi andare ad interrogativi circa i motivi che hanno generato dei commenti così entusiastici); vittoria della quale Obama si attribuiva con fare narcisistico il merito: «Proviamo profonda emozione nel vedere ciò che appare ai nostri occhi come un sano confronto avente come teatro l’Iran; ed in seguito al discorso da me tenuto al Cairo, abbiamo ovviamente cercato di indirizzare chiari messaggi nei quali si evidenziava la nostra speranza circa la possibilità di un cambiamento. In ultima analisi, le elezioni rappresentano lo strumento con cui i cittadini iraniani sono chiamati a decidere del proprio futuro; e ciò che si è verificato in Libano, ciò che potrebbe verificarsi anche in Iran risiede nel fatto che le persone guardano ora con speranza ad una nuova possibilità, ed a prescindere da chi vinca le elezioni in Iran, il fatto che queste siano state precedute da un intenso dibattito ci induce ad auspicare che ciò migliori la nostra capacità di rapportarci in forme nuove con quel Paese». Mi sono riletto il Sermone

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Stato, i ragazzi che oggi infiammano Teheran e le maggiori città iraniane erano poco più che bambini. Adesso hanno l’età per comprendere, oltre che per votare, e sono decisi a far valere la loro volontà. Se un vecchio politico come Rafsanjani si è votato alla causa riformista non è per convenienza avendo ottenuto tutto e potendo al momento far pesare la sua carica di presidente del

ni iraniano ha detto che «il governo preparava da settimane i brogli, ed era arrivato a rimuovere i propri dipendenti di dubbia fedeltà, facendone arrivare altri più compiacenti e ‘flessibili’ da ogni zona del Paese».

Moussavi paventa apertamente l’insediarsi di una tirannia: gli ayatollah finora non lo hanno censurato, anche se qualcuno ipotizzava che fosse stato messo

Se il mondo libero e l’Occidente dovessero distrarsi da quanto sta avvenendo nel Paese, sarebbe la fine di qualsiasi speranza di rinascita. E l’Iran precipiterebbe nella sua notte più buia Consiglio d’esame rapida, praticamente l’uomo più vicino alla Guida Spirituale cui non manca di ricordare che la continuità della rivoluzione khomeinista è nelle mani delle giovani generazioni alle quali non può essere negata la speranza se non si vuole che l’Iran affondi nella palude dell’ingovernabilità e della guerra civile permanente. Quando a Khamenei e al Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione è apparso chiaro, nel pomeriggio di venerdì, che stava profilandosi un testa a testa tra il presidente uscente ed il suo principale competitore, con un leggero vantaggio di questi, un brivido ha percorso il regime sciita che è corso ai ripari terrorizzando elettori, invadendo alcuni seggi della capitale e probabilmente di altre città, falsando lo scrutinio come coraggiosamente stanno sostenendo coloro che sono vicini a Moussavi. Ma non è bastato, come stiamo osservando. Il risultato ottenuto da Ahmadinejad non viene preso per buono da nessuno. Il New York Times ha rivelato che una fonte interna al Ministero degli inter-

agli arresti domiciliari nella giornata di sabato, poiché i suoi quarti di nobiltà rivoluzionaria gli derivano dallo stretto rapporto che ebbe con Khomeini il quale lo volle quale suo primo ministro per circa nove anni. E poi l’appoggio esplicito di Rafsanjani e Khatami, oltre che del vecchio apparato khomeinista votatosi al come s’è detto al riformismo, fa di Moussavi un punto di riferimento morale in continuità con i principi che animarono il movimento di rinascita islamica sotto lo Scià culminante nella proclamazione della Repubblica nel 1979. Dopo queste contestatissime elezioni, insomma, la quiete non scenderà presto e facilmente su Teheran. Khamenei potrebbe ricorrere alla forza, impiegando ufficialmente l’esercito e le forze dell’ordine, per stroncare il nascente moto democratico e riformista, ma valutate le conseguenze anche sanguinose di una decisione del genere, probabilmente terrà fuori dalla mischia, almeno fino a quando potrà, i pasdaran che comunque sono già mobilitati, mentre è probabile che i più esposti tra i contestatori abbiano già imboc-

cato la via del tetro penitenziario di Evin. Potrebbe anche blandire Moussavi ed i suoi sostenitori promettendo un allentamento delle persecuzioni degli oppositori e concordare con loro un piano di riforme, ma ciò significherebbe sconfessare di Ahmadinejad e l’ala più intransigente che finora ha servito la Guida Spirituale con fedeltà e cinismo. La situazione è complicata dal fatto che l’Occidente non è rimasto a guardare. Si attendeva la discontinuità ed invece si è ritrovato davanti il solito copione. Obama, per dirne una, terrà ancora la mano tesa verso l’Iran, come ha fatto finora, oppure la ritirerà? Il presidente americano ha sbagliato tutto nel valutare la situazione iraniana. Ha sottovalutato il fanatismo di Ahmadinejad, ha incoraggiato l’islamismo (ben oltre le sue stesse intenzioni) nel suo discorso al Cairo, non ha tenuto conto dell’asse che si è stabilito tra Teheran e Pyongyang, non ha capito che la minaccia nucleare che il presidente iraniano e Kim Jong-Il è reale ed a temerne gli sviluppi non è soltanto Israele. Obama, insomma, si è rivelato un dilettante, mentre gli oppositori che hanno puntato su Moussavi, che hanno infiammato la campagna elettorale, che hanno invocato una nuova rivoluzione, trent’anni dopo la prima, democratica e riformista, si auguravano che l’Occidente non li avrebbe lasciati soli. Crediamo che non accadrà anche se la variabile Putin non è indifferente al processo di democratizzazione o di accentuazione della repressione in Iran. Il destino del Paese è nelle mani del suo popolo, naturalmente, ma i fattori esteri non sono secondari. Se il mondo libero, comunque, dovesse “distrarsi”, sarebbe la fine di qualsiasi speranza di rinascita. E l’Iran precipiterebbe nella notte più buia.

del Cairo, e non ho trovato una sola parola che facesse riferimento alla libertà per il popolo iraniano. Al contrario, le parole di Obama sull’Iran erano le parole di un penitente che chiede perdono per il ruolo ricoperto dagli Stati Uniti nel 1953 nel deporre ciò che il presidente ha definito un governo eletto (mi riferisco a Mossadeq. Se togliamo il fatto che egli fu nominato dallo Shah, per nulla eletto). Ma ormai sappiamo che la storia non è il suo punto forte. Quando è diventato chiaro che Ahmadinejad sarebbe stato riconfermato, la Casa Bianca, nonostante abbia espresso i propri dubbi circa la regola-

Le speranze riposte nella nuova amministrazione si sono rapidamente infrante rità del conteggio dei voti, ha preferito porre l’accento sul fatto che queste elezioni avrebbero rappresentato in ogni caso una buona notizia: «È opinione condivisa tra i funzionari dell’amministrazione Obama che il regime apparirà prostrato per avere in un primo momento alimentato le speranze di democrazia dei cittadini iraniani e per averle in seguito messe a tacere in virtù di uno scenario che obbligherebbe il regime a fornire una qualche risposta conciliante ai gesti di apertura da parte del Presidente Obama». Questa è la non-reazione più codarda ed immorale che io ricordi. Rassegnai le dimissioni dal Dipartimento di Stato nell’81, ed al tempo pensavo che fossimo sul punto di sedare la repressione sovietica in Polonia. Ma questo è molto peggio.


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Yemen. Giallo sul numero degli ostaggi uccisi. “Der Spiegel”: tutti e nove. Altre fonti: forse sette. Tre bambini fra i rapiti

La barbarie del terrore

Il governo yemenita accusa i ribelli sciiti del nord. Che replicano: «Non siamo stati noi». Prende quota l’ipotesi al Qaeda di Pierre Chiartano ove rapiti e nove cadaveri. È un epilogo cui non si è voluto credere fino all’ultimo. Dei nove ostaggi catturati nello Yemen, venerdì scorso, nessuno ritornerà a casa. Massacrati a colpi d’arma da fuoco senza pietà da un banda di predoni, oppure da un clan sciita, le notizie sono frammentarie in proposito e si possono fare solo delle ipotesi. Ieri, il primo pomeriggio è stato cadenzato dai lanci d’agenzia che, di volta in volta, aggiornavano il bilancio delle vittime. Una contabilità macabra dei corpi ritrovati, tant’è che il ministro degli Esteri tedesco non ha confermato fino all’ultimo la morte di tre degli ostaggi di nazionalità tedesca (quattro adulti e tre bambini). Probabilmente si voleva aspettare, visto che erano stati trovati i corpi mutilati di tre donne, già ieri mattina. Oltre ai sette tedeschi tra i rapiti c’erano anche un ingegnere inglese e un’insegnante sudcoreana.

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C’era ancora qualche speranza per i tre bambini del gruppo, poi per due soli. «Abbiamo trovato i cadaveri di sette persone sequestrate nei giorni scorsi», aveva detto una fonte che aveva chiesto di restare anonima. «Mentre due dei bambini che erano con loro, sono vivi e si trovano in buone condizioni», aveva aggiunto per poi essere smentito successivamente. La scoperta era sta-

Il solito silenzio dei leader musulmani e mediorientali di Luisa Arezzo una macabra prova del nove, ma nelle prossime ore si capirà se quello che a distanza di due settimane viene indicato come il momento di svolta nei rapporti fra l’islam e l’Occidente, il discorso di Obama al Cairo il 4 giugno scorso, sigla davvero il passaggio da un conflitto delle civiltà a una nuova era di rapporti oppure l’ennesima ipocrisia da parte delle leadership del mondo islamico. Perché se verità c’era negli applausi riservati al presidente Usa dalle autorità egiziane e mediorientali dell’Università del Cairo, è indubbio che quelle stesse autorità oggi dovrebbero condannare senza se e senza ma l’orribile esecuzione da parte dei terroristi islamici dei tre bambini, tre donne e tre uomini occidentali avvenuta nello Yemen. Fino a ieri sera questo non è accaduto. Così come mai in passato per qualsiasi attentato: da quello di Mumbai (27 novembre scorso, 195 morti) a Londra (52 vittime, 7 luglio 2005) e a Madrid (stazione Atocha, 200 morti, 11 marzo 2004), solo per citare i più gravi e non certo gli ultiperpetrati mi, continuamente non solo contro delle volontari Ong, ma anche cristiani, ebrei, hindù, buddisti, donne, bambini o i massacri fra sunniti e sciiti in Iraq. Non è una novità: le leadership del Medioriente, dall’egizia-

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no Mubarak al re del Marocco Mohammad VI, dal re saudita Abdallah bin Abd al-Aziz al siriano Assad, finanche all’afghano Karzai (e solo per citarne alcuni, dai cosiddetti regimi più vicini all’Occidente - Egitto, Marocco e Afghanistan, ai più lontani - vedi la Siria) tendono a sminuire, e il più delle volte a nascondere, il forte legame tra islamismo e terrorismo. Ma Obama,

nel suo discorso, ha chiesto di porre fine a questa ipocrisia. In maniera esplicita. Suscitando uno scroscio di applausi. Applausi che - in assenza di una presa di distanza da questo ennesimo, brutale, massacro - oggi rischiano di assomigliare più al suono di una campana a morto.

Perché fintanto che i musulmani cosiddetti “moderati” non denunceranno i propri confratelli, pubblicamente, nelle moschee e sui mass-media, finché non scenderanno in strada quando ci sono atti di violenza in nome di Dio, non potranno essere chiamati “moderati” né tantomeno essere credibili. Questo silenzio “assordante” delle leadership islamiche e, forse peggio ancora, dei musulmani “moderati”, mettono in pericolo ogni forma di dialogo e distensione fra Occidente e islam e continuano a dare ragione a Oriana Fallaci, quando denunciava: «Non illudiamoci: l’islam non riconosce mai le sue colpe e i suoi errori, si ritiene infallibile e non chiede mai scusa».

ta opera del «figlio di un dignitario tribale che ha informato le autorità locali», aveva spiegato la stessa fonte, precisando che le vittime «erano state uccise». Ma la natura dell’azione e la scarsa affidabilità delle fonti, consigliano di confinare ogni versione nel recinto delle ipotesi. I nove stranieri, sette tedeschi, un ingegnere britannico e un’insegnante sudcoreana, sarebbero stati sequestrati da uomini armati mentre facevano un pic-nic nei pressi di Saada, nel nord dello Yemen. I sei adulti uccisi erano membri di un’organizzazione internazionale che da 35 anni opera nell’ospedale di Saada, una città che si trova sugli altipiani nel nordovest del Paese. Domenica, le autorità delloYemen avevano accusato del sequestro una formazione di ribelli sciiti. Immediata era arrivata la risposta del gruppo guidato da Abdel Malak al-Hawthi, che ha negato ogni coinvolgimento e ha controaccusato il governo di San’a di voler screditare l’immagine dei ribelli. In un comunicato inviato all’agenzia di stampa Associated Press il gruppo ha affermato di essere vittima di «una cospirazione organizzata dal regime per lanciare una nuova guerra e offuscare l’immagine del fratelli di Saada». C’è da sottolineare come il Paese non attraversi un momento particolarmente felice della sua storia, tanto che molti lo considerano un territorio a rischio Somalia. Sarebbe sull’orlo di una guerra civile, come ha denunciato anche il suo presidente Alì Abdullah Saleh. Con movimenti indipendentisti del Sud che però non esprimo una cultura statuale, piuttosto dei puri fermenti tribali e una ribellione nel nord capeggiata dagli Zaidi. Lo Yemen è infatti un Paese ancora a struttura tribale. E spesso teatro di frequenti sequestri di stranieri da parte di tribù, che vogliono così spingere le autorità a soddisfare le loro richieste. Negli ultimi 15 anni più di 200 stranieri sono stati rapiti, ma la maggior parte dei sequestri si è conclusa con la liberazione degli ostaggi e il pagamento di un riscatto.

Nel gennaio del 2006, cinque turisti italiani erano stati sequestrati da una tribù yemenita. Dopo cinque giorni nelle mani dei rapitori Camilla Ruini, Maura Tonetto, Patrizia Rossi, Piergiorgio Gamba e Enzo Bottillo erano stati rilasciati. Non altrettanto fortunati i cooperatori a Saada e i bambini. Ricordiamo che Saleh è appoggiato dal partito Islah, espressione della Fratellanza musulmana che ha introdotto nello Yemen il Jihad salafita, una delle forme più radicali del fondamentalismo. Domenica, nel Paese era successo un altro episodio di un certo rilievo, anche se non sappiamo quanto sia legato al triste epilogo della vicenda degli ostaggi. Era stato arrestato un uomo descritto come il principale finanziatore di al Qaeda nello Yemen e in Arabia


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L’analisi di Claude Moniquet, “guru” dell’intelligence Ue

Vogliono controllare il Mar Rosso di Sergio Cantone

BRUXELLES. Il sigaro Havana tra le movimento marginale che finora ha labbra sovrasta il pizzetto di barba. Tira boccate, ma non aspira e immerge in una nuvola di fumo le sue riflessioni. Pondera e compara le informazioni in provenienza da tutto il mondo. È il francese Claude Moniquet, esperto di terrorismo internazionale, maître à penser del settore “bombe e affini” che grazie alla sua società Esisc (European Strategic Intelligence & Security Centre) basata a Bruxelles offre consulenze su “rischi & minacce”alle imprese che investono in luoghi inospitali o sensibili. Claude Moniquet, perché lo Yemen e perché degli europei sono stati uccisi così brutalmente? Già lo scorso 21 maggio il capo di al Qaeda nella penisola arabica, Abu Bassir Nasser El Wahishi, aveva minacciato di essere pronto a colpire interessi petroliferi e commerciali francesi, britannici e statunitensi nella regione. Nello stesso messagggio, il leader qaedista aveva anche invitato i “buoni mussulmani” a non avvicinarsi a luoghi occidentali, ambasciate imprese e, perché no? organizzazioni non governative. C’è quindi il marchio di al Qaeda? Non è detto. Certamente la brutalità è quella tipica di al Qaeda, ma sono gli obiettivi a lasciarmi perplesso: non hanno colpito degli ingegneri minerari, dei tecnici del petrolio, dei militari o dei diplomatici, ma dei facili operatori umanitari, probabilmente senza neanche farsi troppe domande sulla loro nazionalità. Tedeschi, britannici, si direbbe quasi che tutto faccia brodo per gli assassini. Se dovessi azzardare una conclusione direi che si tratta di un gruppo pre al Qaida. Qual è il loro obbiettivo? Un’analisi si fa in base al gruppo autore del misfatto. Nello Yemen ci sono tre ribellioni in corso. La prima è quella di una setta sciita, gli zaiditi, in guerra contro il governo locale perché sunnita. Ultimamente proprio questo gruppo ha alzato il tiro uccidendo con attentati soldati e poliziotti. Il massacro degli operatori umanitari è avvenuto nell’area di azione zaidita. Il loro scopo è far cadere il governo, ma tutto ciò non credo sia sufficiente ad accusare un

limitato i suoi colpi all’ambito nazionale e militare. Poi c’è la guerriglia secessionista del sud-Yemen, ma non vedo l’interesse da parte loro nell’uccidere occidentali. E in ultimo il terrorismo islamista, il responsabile più probabili, per odio anti-occidentale, per brutalità e per il loro interesse a indebolire il già fragile governo di San’a. LoYemen data la sua debolezza intrinseca è diventato un santuario per tutti i qadeisti e affini in fuga dall’Arabia Saudita, l’unico Paese al mondo che possa vantare un chiaro successo contro il terrorismo islamista. Tra il 2002 e oggi, Ryad è riuscita a sradicare quasi del tutto il fenomeno. Ma la vittoria è limitata al territorio nazionale del Regno. Niente di più facile per i fuggiaschi che trovare riparo nel Paese vicino più povero e diviso dalle lotte tribali. Il gioco islamista è di far cadere il governo di San’a e creare uno Stato a loro affine, un po’ sul modello dell’Afghanistan dei talebani, tra il 1996 e il 2001. Con diversi vantaggi comparativi di carattere strategico, politico e culturale, no? Certamente loYemen è sullo stretto di Bab-el-Mandeb (l’ingresso del Mar Rosso) proprio di fronte alla Somalia, dove ormai tutto è possibile per le organizzazioni terroriste. Se il disegno di conquistare lo Yemen riuscisse, al-Qaeda avrebbe una quasi continuità territoriale dal Corno d’Africa ai confini sauditi. Con il vantaggio di poter minacciare il traffico militare, commerciale e petrolifero del Mar Rosso. A quel punto altroché pirati… Lo Yemen sarebbe la prima linea e la Somalia la retrovia in grado di fornire uomini addestrati. Poche ore per attraversare lo stretto ed è fatta. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che gli unici colpacci da battaglia navale, con numerosi morti, inferti dal terrorismo islamista all’Occidente sono partiti dalloYemen, il grave danneggiamento del cacciatorpediniere Usa - Cole - e il quasi affondamento della petroliera francese Limbourg. Ma non dobbiamo scordare l’aspetto culturale. La famiglia Bin-Laden sebbene saudita, è di origine yemenita e lo Yemen, al contrario di Afghanistan e Somalia, è mondo arabo. Sarebbe la prima volta che al Qaeda controllerebbe un Paese, non solo islamico, ma anche arabo.

Se San’a capitolasse, il link con la Somalia, situata proprio di fronte, sarebbe dirompente per il mondo arabo

Sopra, il mercato di San’a, capitale dello Yemen. A destra, l’annuncio dei membri yemeniti di al Qaeda, Abu Hareth Muhammad al Awfi al centro, del patto siglato con i fratelli sauditi. A sinistra, milizie locali Saudita. Lo avevano riferito all’agenzia Reuters delle fonti legate alle forze di sicurezza yemenite. Le stesse fonti avevano affermato che Hassan Hussein bin Alwan, di nazionalità saudita, era stato arrestato due giorni prima nella provincia di Marib nell’est dello Yemen. E una delle ipotesi in campo porterebbe sulla pista dei membri qaedisti presenti nel Paese. Solo una settimana fa il direttore della Cia, Leon Panetta, aveva individuato Somalia e Yemen come oasi dei qaedisti. Da tempo la componente locale del movimento ha lanciato minacce ai turisti: «non venite nello Yemen o sarete dei bersagli». Ed è già accaduto che gli stranieri siano stati attaccati con tecniche kamikaze ed autobombe da una fazione che - sostengono fonti di intelligence - è in continua crescita. Inoltre alcune delle vittime appartenevano ad una missione evangelica, un aspetto che potrebbe averli trasformati in un doppio obiettivo.

Colpiti perché stranieri e perchè missionari. In un comunicato diffuso a marzo, dopo un attentato contro un gruppo di sudcoreani, i qaedisti avevano spiegato in modo chiaro la loro posizione: «portano la corruzione nella nostra terra e giocano un ruolo pericoloso nella diffusione del cristianesimo». La caccia allo straniero si è

legata a una campagna d’espansione del movimento, con l’afflusso di nuovi militanti dall’Afghanistan e dall’Arabia Saudita. Un tentativo di allargare la propria presenza rivolgendosi anche ad altre componenti del complesso mosaico yemenita. Il super ricercato Nasir Al Wuhayshi, alias Abu Basir, avrebbe di recente espresso appoggio alla rivolta degli Al Huthi in quanto «qualsiasi situazione caotica» nello Yemen può aiutare l’azione degli islamisti. A sotegno della pista qaedista ci sarebbe anche il luogo del ritrovamento dei cadaveri, la città di Al-Nashour. Secondo gli yemeniti un covo di seguaci di bin Laden. Ed il governo di Saleh, che teme che il Paese diventi un’altra Tortuga di quella regione dopo la Somalia, ha subito accusato il clan sciita ribelle degli Al Huthi. Non è escluso che il gruppo dei rapitori sentendosi braccato abbia deciso di disfarsi di una carico troppo scomodo, rinunciando stranamente a un possibile riscatto.


politica

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Israele. Bibi parla per la prima volta di “due stati” ma la sua soluzione convince soltanto a metà. E non piace a nessuno dei Paesi arabi

L’azzardo di Netanyahu Dal discorso del premier israeliano una doccia fredda per Obama e il Vaticano di Mario Arpino na doccia fredda quella che arriva da Bibi Netanyahu sulla testa di Barack Obama, e anche del Santo Padre. Si ai “due popoli e due stati”, ma uno – segnatamente quello palestinese – deve essere disarmato. Due buoni vicini, quindi, uno con la bomba atomica, e l’altro con i manganelli per l’ordine interno. Scarse reazioni, al momento, da Washington e dal Vaticano, che al Cairo e a Gerusalemme avevano ripetuto un mantra a cui ormai pochi credono, ma che è politicamente corretto sostenere comunque.

U

Soddisfatti a metà solo quelli abituati a mediare, ovvero l’Italia e la Ue. Secondo il ministro Frattini, infatti, l’uscita di Netanyahu, per quanto insoddisfacente, è comunque positiva. Per Javier Solana il discorso del premier deve esser considerato un «passo importante e utile» per favorire la ripresa dei negoziati – più volte iniziati e mai compiuti – mentre va tenuto conto che Israele per la prima volta menziona la soluzione “due stati”. Per Jan Kohut, ministro degli esteri della Repubblica

Ceca – che ha ancora la presidenza della Ue – si tratta di «un passo nella direzione giusta», mentre anche il francese Kouchner valuta positivamente la «prospettiva indicata». Nessuno si è soffermato più di tanto sulla “smilitarizzazione”, mentre tutti hanno posto l’accento sui “due stati”. Quelli, intendiamoci, che l’Onu aveva già proposto nel 1947, e che il mondo arabo, palestinesi inclusi, aveva rifiutato, muovendo tutta una lunga serie di guerre irrimediabilmente perdute. Le chiare condizioni poste da Netanyahu per la ripresa di un negoziato del tutto nuovo,

Riportano le Agenzie che Saeb Erekat, lo storico negoziatore tratto dal cassetto in ogni stagione negoziale, abbia esclamato che «...a queste condizioni Israele troverà un partner palestinese di pace solo tra mille anni». E probabilmente ha ragione, ma avrebbe comunque ragione a prescindere dalle condizioni, che rappresentano solo la parte visibile delle rivendicazioni palestinesi di sempre. Perché per fare la pace bisogna senz’atro essere in due, ma è sopra tutto necessario che entrambi la desiderino veramente. E qui sorge già la prima difficoltà, perché i

Qualche commentatore inizia sostenere che una vera soluzione del problema non può esistere proprio perché nessuno dei due opposti ha una reale convenienza a realizzarla smilitarizzazione palestinese, riconoscimento definitivo dello Stato di Israele, rinuncia al rientro dei profughi, ripristino dell’ordine a Gaza – assieme a un invito al mondo arabo a negoziati diretti nelle Capitali o a Gerusalemme, che dovrà restare sotto controllo israeliano – non poteva effettivamente sollevare entusiasmi in casa palestinese.

palestinesi, al momento e chissà per quanto ancora, difficilmente saranno un interlocutore valido. Temo che ciascuno dei due sappia sin d’ora che questa pace non ci sarà mai, e che per entrambi i contendenti qualsiasi approccio non potrebbe essere che di maniera, ovvero “atto dovuto” senza pratico seguito. Gli arabi hanno il concetto jihadisti-

co della “hudna”, ovvero la tregua senza durata predefinita – dieci giorni o cent’anni non fa differenza – mentre gli israeliani sanno che finché si tratta non si combatte, quindi è auspicabile che le trattative, magari interrotte ogni tanto da una“ridimensionata” dell’avversario, durino più a lungo possibile.

A ben vedere, tra le due concezioni non c’è grande differenza. Ci sono commentatori meritevoli di rispetto che sostengono, non per pessimismo innato, ma per intima convinzione, che una vera soluzione del problema israelo-palestinese non esista proprio perché non può esistere, perché nessuno dei due opposti ha una reale convenienza a realizzarla. I palestinesi, per-

ché non sono capaci di essere uno Stato vero e proprio secondo gli schemi classici della geopolitica, ovvero continuità territoriale – metà di loro si trova ormai in Giordania e nei territori, mentre per un rientro non c’è più né spazio né senso – risorse che consentano un sistema economico credibile, confini sicuri e difendibili. A questi fini sarebbe forse più conveniente una continuità etnica, politica, economica e territoriale con la Stato di Israele, cambiando il mantra in quello politicamente molto scorretto di “due popoli, uno stato”.

I palestinesi starebbero meglio e, migliorando le loro condizioni, forse smetterebbero perfino di combattere tra loro. Gli israe-

Reazioni. Critiche da Mubarak e dai palestinesi, un passo avanti per Frattini e l’Europa. Apprezzamenti da Washington

Il nuovo progetto di Israele divide il mondo di Franco Insardà

ROMA. Al momento l’unico risultato ottenuto da Benjamin Netanyahu è stato quello di dividere ancora di più il mondo. Le condizioni dettate dal premier israeliano - demilitarizzazione e riconoscimento dello Stato ebraico - hanno, infatti, scatenato reazioni sia in Medio Oriente, sia in Occidente.

Al di là dei prevedibili consensi israeliani e delle dure critiche della parte araba anche le risposte del mondo occidentale sono state molto tiepide. Così il presidente palestinese Abu Mazen ha lanciato un appello per isolare Netanyahu:

«La comunità internazionale dovrebbe affrontare questa politica attraverso cui Netanyahu vuole uccidere qualsiasi chance di pace».

La svolta nella politica estera del governo israeliano non ha convinto Hamas, che liquida il discorso del premier come un tentativo “razzista” di negare i diritti dei palestinesi. «Netanyahu vuole riconoscere la Palestina come terra ebraica, negando al popolo palestinese qualunque diritto», si legge in una nota del movimento estremista. «Ha tentato di giocare con le parole per confondere le

persone, sostenendo di volere la pace. Tuttavia i suoi comportamenti razzisti quando sostiene che i palestinesi riconoscono la Palestina come terra degli ebrei, indicano che Netanyahu è un bugiardo quando parla di pace».

Non meno duro di Abu Mazen è stato il presidente egiziano Hosni Mubarak, secondo il quale: «La richiesta di riconoscimento d’Israele come stato ebraico ignora la complessità della questione e fa abortire le possibilità di pace». Quindi il presidente egiziano ha poi esortato Netanyahu a riprende-

re il negoziato con i palestinesi «là dove è stato lasciato, senza indugi».

L’invito di Netanyahu «non troverà reazioni né dell’Egitto né di altri», ha aggiunto Mubarak, prevedendo che «il Medio Oriente resterà teatro di instabilità fino a quando non ci sarà una soluzione giusta e pacifica della questione palestinese. Il problema palestinese resta la chiave di volta per la soluzione di tutti i conflitti e le crisi della regione – ha concluso – che è ora davanti ad una reale possibilità di pace, che spero non si perda, come è già successo in

passato. La situazione in Medio Oriente è allarmante e lontana da sicurezza e stabilità...con ricadute sulla sicurezza regionale dell’Egitto». Anche il presidente libanese Michel Suleiman ha esortato la comunità internazionale «a fare pressioni su Israele ,perché accetti le precedenti iniziative di pace».

Apprezzamenti sono giunti, invece, dal vicepremier israeliano e ministro per gli Affari strategici, Moshe Yaalon e da Ehud Barak. Per il responsabile della Difesa il discorso pronunciato di Netanyahu rappresenta «un


politica rezza di Israele e la realizzazione delle aspirazioni dei palestinesi. «Il presidente – ha aggiunto il portavoce della Casa Bianca –, continuerà a lavorare con tutte le parti, Israele, Autorità palestinese, stati arabi e i nostri partner del Quartetto per far sì che rispettino i loro impegni e si assumano la responsabilità necessaria per giungere alla soluzione dei due stati».

Per il ministro Frattini (in basso), il discorso di Netanyahu (nella foto), è «insoddisfacente» ma «positivo». A destra, Bernard Kushner liani, già abituati a convivere con un milione o più di arabi nazionali, potrebbero abbattere il muro, come ha chiesto il Santo Padre, sviluppare business e benessere su tutto il territorio avvalendosi della mano d’opera e dei migliori ingegni palestinesi e, perché no, tentare perfino un’Entità federale con la Giordania. Se si deve trattare solo per trattare, tanto varrebbe farlo con il maggior numero di opzioni possibili. Qualcosa di utile alla fine potrebbe anche accadere. Israele, però, dal suo punto di vista fa bene a resistere, almeno

finché sarà oggetto di minaccia esistenziale. Paradossalmente, i risultati delle elezioni in Iran corroborano i suoi convincimenti. Nessuno sa cosa c’è veramente nella mente di Netanyahu, di Barak e della Livni. Certo è che giocano una strategia di lungo termine, che torna a loro favore finché permette di non risolvere il problema. Anche i palestinesi, presumibilmente, giocano sul lungo termine, ma per motivi diversi. Sanno che ogni soluzione in prospettiva danneggia Israele, che “perderà”qualcosa. Succede in tutti i compromessi. Loro, invece, non hanno nulla da perdere. E sanno che, se non altro per motivi demografici, il tempo finirà per giocare a loro favore.

passo molto importante, che permetterà nei prossimi due anni di compiere progressi sostanziali verso un accordo politico con la controparte palestinese. Il nuovo governo -– ha aggiunto Barak – sta entrando nel processo di pace con occhi aperti, sgombro da illusioni e determinato a cooperare con il presidente americano Barack Obama e i principali Paesi della regione verso un rinnovato negoziato con i palestinesi».

E proprio dalla Casa Bianca è giunto l’apprezzamento più convinto: «un passo avanti». Parole del portavoce Robert Gibbs che ha ribadito l’impegno del presidente Barack Obama per la soluzione dei due stati, «uno Stato ebraico d’Israele e una Palestina indipendente, nella storica terra di entrambi i popoli». Una soluzione, ha proseguito Gibbs, che tenga conto e assicuri la sicu-

Sul fronte occidentale le dichiarazioni del premier israeliano sono state giudicate «non sono sufficienti» dal ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner che era a Lussemburgo per partecipare al Consiglio Affari generali e relazioni esterne insieme ai colleghi della Ue. «Certo, salutiamo l’idea di accettare uno stato palestinese a fianco di Israele, ma non sono ancora soddisfatte le condizioni per arrivare a questo traguardo. In particolare – ha detto Kouchner – non ha detto niente sul fermo degli insediamenti, che è essenziale. La Francia, insieme ai suoi partner internazionali, gli Stati Uniti e l’intera comunità internazionale, chiede uno stop immediato agli insediamenti e la riapertura della frontiera di Gaza. Senza la creazione di uno Stato palestinese non vi sarà nessuna chance di pace nella regione». Per Frattini: «È sicuramente un passo avanti, ma è ancora a metà». Per il ministro degli Esteri italiano «è positivo il fatto di voler negoziare con i palestinesi, preoccupante è invece una sorta di precondizione sul ruolo di Gerusalemme che è materia di negoziato». Tra gli altri aspetti positivi Frattini ha citato «il fatto che Netanyahu va avanti con lo stop agli insediamenti. Ha detto solo che continuerà lo sviluppo nazionale, che è una dichiarazione promettente». L’Unione europea ha richiamato le autorità israeliane e palestinesi a «fare dei passi immediati per riprendere i negoziati di pace, rispettando i precedenti accordi». L’appello è contenuto nelle conclusioni del Consiglio dei ministri degli esteri della Ue, nelle quali si conferma l’appoggio europeo alla “soluzione dei due Stati”: da una parte Israele, dall’altra uno Stato Palestinese contiguo, indipendente e democratico. L’Ue, comunque, resta «profondamente preoccupata per le attività di insediamento, le demoli-

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zioni di case e gli sfratti nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est» E invita Israele a «smantellare tutti gli avamposti eretti dal marzo 2001», sottolineando come «gli insediamenti sono illegali per il diritto internazionale e costituiscono un ostacolo alla pace». Dall’altra parte, l’Ue invita le autorità palestinesi a «continuare a compiere ogni sforzo per migliorare la legalità e l’ordine». Entrambe le parti sono inoltre invitate a «fermare la violenza e l’incitamento alla

XVI nel suo viaggio in Terra Santa possa finalmente realizzarsi. «Non sarà - spiega una nota pubblicata ieri in prima pagina - la questione degli insediamenti in espansione demografica a incrinare le relazioni tra Washington e Israele». Il giornale diretto dal professor Giovanni Maria Vian minimizza anche i «distinguo del premier israeliano» riguardo alle caratteristiche dello Stato palestinese, che egli vorrebbe privo di forze armate. E in proposito cita l’opinione di anonimi esper-

Il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner ha giudicato «non sufficienti» le dichiarazioni del premier israeliano. «Non ha detto niente sul fermo degli insediamenti, che è essenziale violenza nei confronti dei civili e a rispettare le leggi umanitarie internazionali». Il ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, ha poi spiegato che «tutte queste cose le ho comunicate al ministro Liebermann, che ho visto, e le ho comunicate al presidente del Consiglio che incontra il presidente Obama e gli dirà che il 23 avremo il premier Benjamin Netanyahu a Roma come prima tappa della visita europea».

Dalle colonne dell’Osservatore Romano si registra la speranza che la soluzione dei due Stati caldeggiata da Benedetto

ti che ritengono vi sia in atto una «drammatizzazione ad arte». «Anche se Netanyahu - si legge nell’articolo - si è dichiarato d’accordo in linea di principio con la visione obamiana dei due Stati, egli deve comunque ostentare un certo attrito, una distanza. Il leader del Likud sta giocando una partita a poker, ma su tavoli separati. Deve aiutare l’inquilino della Casa Bianca a rinsaldare il credito finora ottenuto presso il mondo arabo e mantenere vivo il rapporto con le frange più oltranziste del governo e con il proprio elettorato».


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diario

Tra Berlusconi e Obama vincono i nostri soldati Il premier a Washington promette per l’Afghanistan più militari. In grado di combattere di Stranamore a è possibile che esista ancora questo dubbio? I soldati Italiani sono brava gente, dediti a salvare i profughi, a costruire scuole, pozzi, strada, a compiere opere di bene in occasione di catastrofi naturali, puliscono le strade dalla spazzatura, fanno anche i poliziotti come piace al Ministro La Russa, ma sapranno compiere il loro lavoro... combattere? Già, nel momento in cui il presidente Barack Obama chiede esplicitamente a Silvio Berlusconi di aumentare l’impegno militare nella “sua” guerra, quella in corso in Afghanistan, non solo in termini quantitativi, ma anche qualitativi (occorre cercare e eliminare i Talebani, non basta difendersi o accompagnare le truppe afgane), mentre crolla il velo di ipocrisie che contraddistingue da sempre l’impegno militare italiano all’estero, ecco che si ripropongono domande semplicemente infamanti. Ma che sono il frutto naturale di un approccio politico alle operazioni militari all’estero caratterizzato da un basso, bassissimo profilo. Questa situazione dura più o meno dalla fine del conflitto del 1999 contro la ex Yugoslavia. I nostri soldati sono diventati solo “soldati di pace”, sono impegnati nel peacekeeping, mai e poi mai vanno in battaglia, se proprio questo accade è solo per autodifesa. Naturalmente a livello internazionale facciamo la faccia feroce, ci impegniamo a partecipare alla guerra contro i Talebani, poi a quella in Iraq, ma sempre solo un “pochettino”: i nostri cacciabombardieri non possono colpire con le loro armi in Afghanistan, solo trovare bersagli... per gli altri.

M

Dopo Nassiriya di fatto viene ordinato di chiudersi nelle fortezze/caserme e non subire perdite. E così via. Cambiano i governi, Berlusconi prima, poi Prodi, poi di nuovo Berlusconi, ma il copione è sempre lo stesso. Non solo, nel decidere la struttura dei contingenti, quali sistemi d’arma assegnare, nello scrivere le regole di ingaggio, si deve rimanere al minimo livello possibile. Niente carri armati e se ci sono, che stiano fermi, niente artiglierie pesanti, niente aerei da combattimento, se li mandiamo devono solo fare fotografie. Poi, se ci scappa il morto, qualcosa in più si manda, ma sempre dopo e sempre poco, con l’ordine comunque di stare buoni, non cercare rogne, limitarsi a difendersi e senza esagerare se qualcuno spara addosso ai nostri soldati (sempre definiti “ragazzi”). Gli stessi comunicati stampa sono censurati: i nostri magari

La prima volta di Silvio e Barack La preparazione del G8 dell’Aquila e la rimodulazione della missione militare in Afghanistan sono i principali temi al centro del colloquio a Washington tra il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, e il premier italiano, Silvio Berlusconi. Il Cavaliere, arrivato domenica sera alla base di Andrews, ha incontrato Obama ieri mattina (ora locale) e poi la speaker del Congresso, Nancy Pelosi. Il premier è il secondo leader europeo, dopo Gordon Brown, a essere ricevuto alla Casa Bianca dal giorno dell’insediamento di Obama. Berlusconi oltre a discutere con Obama della preparazione del G8 dell’Aquila, ha presentato al presidente Usa anche il piano di rimodulazione delle nostre forze militari in Afghanistan, in vista delle elezioni presidenziali del 20 agosto. I due leader hanno discusso anche della situazione in Medio Oriente, dei rapporti est-ovest, di quelli con la Federazione russa, del Libano e l’accesso della Turchia nell’Unione europea. Sia Berlusconi sia Obama sono concordi sull’ingresso di Ankara nell’Ue. Sul fronte dell’economia, si è discusso dei rapporti commerciali Italia-Usa e dell’ingresso di Fiat in Chrysler. Per quanto riguarda il G8, infine, la questione cardine di cui Berlusconi e Obama hanno discusso sono le “regole” per l’economia globale, tema sul quale il presidente Usa è molto sensibile. Il concetto da cui si è partito è la necessità di trovare chiavi e formule per affrontare in modo strutturale le dinamiche della globalizzazione. A questo proposito ci sono diverse ipotesi tra cui la possibilità di rendere permanente lo schema del G14 (G8 allargato ad altri grandi paesi come Cina, India, Messico, Brasile, Sud Africa ed Egitto).

sparano, ma fino ad un mese fa apparentemente non colpivano nessuno. Mai una notizia sul numero di nemici uccisi, feriti, catturati. Pensate all’umore dei nostri uomini. Questa via minimalista risponde a esigenze di politica interna, ma certo non ci consente di raccogliere nella scena internazionale i frutti di un impegno comunque molto costoso e rischioso. E si arriva anche a fare il lavaggio del cervello ai nostri militari, che in qualche caso pensano davvero di essere stati arruolati e di girare armati in ogni parte del mondo per svolgere un compito a metà strada tra quello della protezione civile e quello della croce rossa. Stranamore ne ha avuto un saggio durante un seminario con giovani ufficiali. Poveri noi... e poveri loro.

Ma Obama non vuole la Croce Rossa in Afghanistan (posto che se l’Italia riuscisse mai a schierare un ospedale da campo in grado di trattare i feriti in combattimento, invece di mandarli sempre in ospedali alleati non sarebbe male), vuole soldati che invece di autodifendersi, vadano a cercare “i cattivi”e li eliminino, sparando per primi. Così magari i cattivi non riusciranno a organizzare troppi agguati e attentati. E certo ritirare i nostri soldati dagli avamposti al confine con la provincia caldissima di Helmand non è stato gradito né ai nostri soldati né agli alleati. Tanto più visto che missione Nato-Isaf è una sola, con un mandato chiarissimo, che i nostri politici fanno finta di dimenticare. Non è un caso se il segretario generale della Nato, venuto a Roma per un giro di commiato prima di passare le consegne, ha detto chiaramente «Isaf non è una missione di peacekeeping, Isaf è in Afghanistan per combattere i terroristi». Naturalmente in Italia abbiamo fatto finta di non sentire. Vedremo se anche questa volta il governo riuscirà ancora una volta promettere senza fare. Di certo la macchina militare italiana è perfettamente in grado di rispondere ad un cambiamento di missione, anzi. Quello che è concesso solo ai pochi delle forze speciali (ma anche li, con discrezione) della Tf-45 potrebbe tranquillamente diventare lo standard per tutto il contingente. Magari potremmo anche armare gli Uav Predator (che volano disarmati per scelta politica) lasciare che i Tornado sgancino bombe e mandare in teatro quei mezzi da combattimenti che invece restano imbelli in Italia. Non si tratta di “cambiare” la missione. Si tratta semplicemente di cominciare finalmente ad eseguirla.


diario

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Per Cardillo, Gambale e Di Mezza 6 anni, per Laudadio 5 e otto mesi

A Riva Ligure: si erano calati in un depuratore senza protezioni

Appalti a Napoli: i pm chiedono 10 anni per Alfredo Romeo

Ennesima tragedia sul lavoro: morti 2 operai

NAPOLI. Dieci anni di reclusione sono stati chiesti ieri per l’imprenditore Alfredo Romeo a conclusione della requisitoria al processo, con rito abbreviato, per gli appalti al Comune di Napoli. La richiesta è stata formulata al termine della requisitoria dai pubblici ministeri Vincenzo D’Onofrio, Raffaello Falcone e Pierpaolo Filippelli. I pm inoltre hanno chiesto anche la confisca dei beni sotto sequestro e l’interdizione per tre anni dalla contrattazione con la pubblica amministrazione. I pm hanno quindi chiesto sei anni di reclusione per gli ex assessori al Comune di Napoli, Giuseppe Gambale, Ferdinando Di Mezza ed Enrico Cardillo e cinque anni e otto mesi per l’altro ex assessore Felice Laudadio.

RIVA LIGURE. Ancora un inci-

Queste le altre richieste avanzate dai pubblici ministeri: sette anni di reclusione per Paola Grittani e sei anni ed otto mesi per Guido Russo, rispettivamente collaboratrice di Romeo e docente universitario. Tre anni sono stati chiesti per l’ex provveditore alle Opere pubbliche della Campania e del Molise, Mario Mautone, nei cui confronti è stata proposta anche l’interdizione per cinque anni dai pubblici uffici; due an-

Debito ed entrate, nuovo record negativo per l’Italia Strauss-Kahn: «Il peggio della crisi non è ancora passato» di Francesco Pacifico

ROMA. «Il peggio della crisi economica non è ancora superato». Mai come ieri mattina il direttore generale del Fondo monetario, Dominique Strauss-Kahn, ha saputo fotografare il sentiment dei mercati e dei governi. La curva della congiuntura, pur al livello più basso, non volge verso l’alto. E la consapevolezza di questa situazione si riflette sui listini mondiali, non soltanto quelli della cenerentola Europa: a Londra l’indice Ftse100 cede il 2,61 per cento, a Francoforte il Dax il 3,54, a Parigi il Cac40 scivola del 3,20 per cento. A Milano l’Ftse Mib registra un sonoro arretramento del 3,01 per cento, dovuto anche al crollo di St Microelectronics (-6,83), seguito alla decisione di Finmeccanica di cedere la sua quota del colosso dei microprocessori. E se a metà giornata a New York il Dow Jones perdeva il 2,25 per cento, lo S&P 500 il 2,48 e il Nasdaq il 2,7, la mattinata di quest’ottava era iniziata con il passo indietro fatto da tutti i listini asiatici: Tokyo -0,95 per Hong cento, Kong -2,07, Singapore -2,55 chiusa. Soltanto Shanghai, ma per il rally dei titoli bancari, ha chiuso in positivo e sopra il punto percentuale. Alla base di questa sequela di segni meno una ventata di pessimismo, che sembra aver spazzato via i pochi sentori positivi registrati finora, come il rimbalzo delle scorte, l’aumento dei prezzi delle materie prime e la flebile ripresa dell’attività finanziaria. Tensioni che finiscono per atterrare un Paese esportatore come l’Italia, che in questa veste rivedrà più tardi dei suoi diretti concorrenti la crescita. Il principale macigno resta il debito pubblico che segna un nuovo record: secondo quanto riportato nel supplemento al Bollettino statistico di Bankitalia Finanza pubblica, fabbisogno e debito, nel mese di aprile ha toccato quota 1.750,4 miliardi di euro. Nove miliardi rispetto al mese precedente e ben 87 rispetto a quanto registrato alla fine del 2008. E non si scostano da questa tendenza neppure gli enti locali: il loro debito ad aprile si atte-

sta a quota 109,5 miliardi di euro. L’incapacità di contenere la spesa potrebbe spingere l’Italia verso un rapporto debito-Pil superiore al 114,3 per cento stimato dal governo. E la cosa preoccupa non poco Giulio Tremonti che ha il fiato sul collo dell’Unione europea, non ha potuto finora rispondere alla crisi con una politica espansiva e non può far fronte all’alto passivo con una manovra restrittiva. A questi numeri si collega un gettito fiscale che è calato del 3,5 per cento nel primo quadrimestre dell’anno: la disoccupazione e il rallentamento dei consumi hanno causato, tra Irpef e Iva, un mancato introito all’Erario di 3,9 miliardi. Se non si frenerà questa tendenza, ha paventato il segretario confederale della Cgil, Agostino Megale, la perdita per le casse dello Stato, «a fronte di un calo del Pil del 5 per cento, rischia di tradursi in una perdita complessiva di oltre 15 miliardi di euro». Oltre che in un aumento indiretto della pressione fiscale.Se non bastasse, il peso della crisi morde sempre più i salari: nei primi quattro mesi dell’anno le retribuzioni sono cresciute, a livello congiunturale, soltanto dello 0,6 per cento. Una percentuale tenuta su soltanto da pubblico impiego e servizi e che diventa pari a 0 per quanto riguarda l’industria manifatturiera.

Nei primi quattro mesi dell’anno l’Erario registra un calo di 3,9 miliardi. Cresce il pessimismo che fa rallentare le Borse

ni e otto mesi per Vincenzo Salzano, dirigente del Comune di Napoli, sei anni e otto mesi per Antonio Pugliese, ex vicepresidente della Provincia di Napoli (con interdizione per cinque anni dai pubblici uffici); due anni e otto mesi per Luigi Piscitelli, funzionario del Comune di Napoli; un anno e quattro mesi per Biagio Vallefuoco imprenditore che risponde di un unico capo di imputazione. Il processo, che si è svolto davanti al gup Enrico Campoli, riprenderà con le arringhe difensive il 22 giugno prossimo. L’accusa principale contestata a diversi imputati è di associazione per delinquere finalizzata alla turbativa d’asta e alla corruzione.

dente sul lavoro in una vasca di depurazione. Due operai che stavano lavorando all’interno del depuratore di Riva Ligure (in provincia di Imperia) sono morti dopo essere caduti all’interno di una vasca di depurazione delle acque. La morte potrebbe essere stata causata dall’esalazioni provenienti dall’interno. Sul posto sono presenti vigili del fuoco, carabinieri, 118 e Croce Verde. L’intervento è stato reso difficile dai forti miasmi che provengono dall’interno. Il personale sanitario è entrato della vasca munito di mascherine di protezione. I due operai morti, uno di 36 anni e l’altro di 40 anni, facevano parte di una

L’Italia deve sperare in una veloce ripresa dei suoi mercati di riferimento: e con una Germania che a fine anno conoscerà un debito pubblico record, non resta che l’area dollaro. Al riguardo il Fmi ha rivisto al rialzo le stime di crescita degli Usa: il Pil nel 2009 calerà del 2,5 per cento – non più del 2,8 – e salirà dello 0,75 – non ci sarà crescita zero –. Eppure di ripresa vera e propria si potrà parlare del 2010. Al momento, quindi, si devono fare i conti con tutti gli indicatori negativi che registrano gli istituti econometrici: la contrazione delle materie prime, l’incapacità della Germania di dare segni di ripresa o l’apatia dei consumi america. Tutti segnali che ieri hanno sparso pessimismo e spinto al ribasso le Borse mondiale.

squadra di tre addetti della società C.I.E.M di San Biagio della Cima, specializzata nella pulitura di depuratori. Secondo una prima ricostruzione, sembra che i due siano entrati nel depuratore sprovvisti delle protezioni di sicurezza ed abbiano raggiunto la vasca delle acque reflue. Qui avrebbero perso i sensi a causa della rarefazione dell’ossigeno e dell’alta percentuale di anidride carbonica nell’aria. A dare l’allarme è stato il terzo operaio della squadra, rimasto all’eLa sterno dell’impianto. C.I.E.M. lavora per conto della Secom, società pubblica che gestisce gli impianti di depurazione di otto comuni dell’Imperiese. Sul posto sono intervenuti vigili, tecnici della Asl, il medico legale e il sostituto procuratore Francesco Pescetto, che sta valutando la possibilità di porre sotto sequestro parte dell’area. Le vittime sono Francesco Mercurio, 40 anni, di San Biagio della Cima, e Gianfranco Iemma, 36 anni, residente a Genova. Dall’ufficio stampa del comune si apprende che il depuratore di Riva Ligure è gestito da un consorzio di 8 comuni ed è stato sempre considerato un impianto efficiente, specie dopo i recenti interventi di ristrutturazione con una spesa di 3 milioni di euro.


politica

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Ecco cosa vogliono i protagonisti del centrosinistra

Generazione Pd: tra demo-scettici e demo-entusiasti di Antonio Funiciello

ROMA. In attesa delle scosse di D’Alema e al netto di ballottaggi che non invertiranno la tendenza di un esito favorevole al centrodestra, il Pd è ormai in piena campagna precongressuale. La riunione della direzione nazionale del 26 giugno sancirà il definitivo rompete le righe, ma ormai tutti gli ufficiali della fanteria si muovono in autonomia, attori di una commedia in cui sperano di recitare la parte principale. FRANCESCHINI: IL REGGENTE Dei tre Dario che tra il VI e il IV secolo a.C. regnarono sulla Persia, Franceschini non ricorda Dario I detto il Grande, che con un piccolo e scalcinato esercito riuscì addirittura a sottomettere l’Egitto. Eppure la battuta d’arresto di Berlusconi non lo fa somigliare nemmeno a Dario III, sbaragliato dal furore di Alessandro Magno. Franceschini ricorda, al momento, Dario II, sovrano di mezzo intorno al quale la storia non racconta granché. Ma è ambizioso e non intende rappresentare un passaggio grigio nella cronaca già poco variopinta

del centrosinistra. Si tratta di capire come. La soluzione gerarchica di un prolungamento del mandato di reggenza democratica fino alle regionali del 2010 vacilla, per quanto non sia ancora tramontata ed è la preferita del padre nobile dei popolari Marini. In alternativa, Franceschini dovrebbe stare in campo da capo dei demo-entusiasti che vogliono un Lingotto 2, contro i demo-scettici che si orienterebbero altrove. D’ALEMA: LO STATISTA Capo di quelli che vorrebbero una revisione profonda della linea politica e della forma partito del Pd, D’Alema è in grande spolvero. Non tanto nei termini della sua proposta politica, un’alleanza di centrosinistra che va da Vendola (se non da Ferrero) a Casini passando per Di Pietro, che solo lui può pensare di mettere e tenere in piedi. Quanto nell’ambizione di tornare a essere il grande timoniere del centrosinistra italiano, fino ad approdare al Quirinale dopo Napolitano, sogno di un’intera vita. Oggi dice di sostenere Bersani, nondimeno dubita nell’effettiva praticabilità di questa strada. Teme difatti che la candidatura di Bersani coalizzi contro di sé tutte le altre anime: popolari, rutelliani, parisiani, fassiniani e veltroniani. Con il risultato di andare incontro a una sconfitta. Ecco perché vedeva bene un prolungamento del mandato di Franceschini, come aveva meglio visto in pas-

sato una segreteria Letta. Si trattava di sottrarre a Veltroni l’accordo di ferro coi popolari, per tornare a essere lui il rappresentante degli ex comunisti deputato a siglarlo. Un percorso che potrebbe ancora inverarsi nel caso di un doppio passo indietro, di Franceschini e Bersani, e la scelta unitaria di un terzo candidato. PRODI: IL SEMAFORO In ossequio alla meravigliosa caricatura che ne fece Guzzanti, Romano Prodi intende restare il semaforo del centrosinistra italiano. All’incrocio delle scelte future dei democratici, s’incarica di continuare a esercitare la sua funzione di vigile elettronico. Tutti passano in gran fretta, suonano il clacson, si ingiuriano, si fanno le corna e Prodi fermo, impassibile: come un semaforo. Proprio in questo modo l’ex premier vuole esercitare una forte influenza esterna sulla scelta del futuro leader. Con l’odiato Veltroni fuori gioco, Prodi può tifare oggi Franceschini, anche se quelMASSIMO lo che appare per lui prioritario è D’ALEMA stravolgere il Pd partito a vocazione maggioritaria, subordiVorrebbe tornare nando la crescita di consensi del a essere partito alla strategia delle coaliil timoniere zione di una nuova Unione condel centrosinistra tro Berlusconi. italiano. Dice di sostenere BERSANI: L’ETERNO MARITO Bersani, Dostoevskij c’ha scritto un ronondimeno dubita manzo centocinquant’anni fa sul dell’effettiva cliché del personaggio eternautilità di questa mente in procinto di risolversi a strada compiere una scelta definitiva. Le analogie tra il suo Eterno ma-

Contropiede. Chiunque vinca la partita del congresso, farà i conti con i vecchi apparati. L’ex sindaco di Roma avrà invece le mani libere

L’anti-segretario Rutelli si oppone da solo all’intesa con il Pse e conquista l’esclusiva nella lotta alle correnti di Errico Novi

ROMA. È improbabile che attorno a Francesco Rutelli nasca un fronte del no. Difficile per lo meno che un simile colpo di scena si produca nella riunione del “caminetto” democratico prevista per oggi: l’ex sindaco di Roma si è augurato di non essere il solo a contestare l’adesione degli europarlamentari Pd alla neonata Adse (Associazione dei socialisti e dei democratici europei), ma quasi certamente il suo dissenso farà eccezione. La scelta di Dario Franceschini peraltro sa di antico, come il presidente del Copasir ha rimproverato esplicitamente al segretario nell’intervista al Corriere della sera di ieri: nasce da un accordo di conservazione che l’attuale numero uno del Nazareno si è visto costretto a stringere con il corpaccione ex Ds. Un’interpretazione poco coraggiosa del capitombolo accusato dalle socialdemocrazie di tutta Europa alle elezioni del 7 giugno, che sembra fare da

perfetta cornice a una stagione precongressuale confusa ma sicuramente poco segnata dal cambiamento.

Ci sono due partiti, sulla carta. Peccato che a decidere sia solo il primo, quello che occupa le cariche e si divide in correnti. L’altro immaginato da Rutelli e auspicato dai sempre più insofferenti capi del Nord – Penati, Bresso, Chiamparino e l’aventiniano Cacciari – dovrebbe spo-

dall’unica postazione utile, ossia dal centro, quando e se l’attuale centrodestra entrerà in crisi. Visioni troppo ambiziose per essere declinate dai probabili candidati alla segreteria – Franceschini e Bersani, appunto. Peraltro né Rutelli né gli amministratori del Nord (alcuni dei quali, come Penati e Zanonato, rischiano di perdere domenica anche il comodo riparo istituzionale) sono in grado di giocarsi una partita congressuale au-

Anche Veltroni torna sulla scena con una nota su Facebook che rilancia l’assemblea con i suoi d’inizio luglio e mette in guardia dal ritorno di «antichi richiami». Ma difficilmente potrà cambiare i giochi gliarsi del vecchiume cooperativista alla Bersani, smetterla con la protezione dei vecchi apparati, scegliersi una casa europea autonoma dall’internazionale socialista. E, in ultima analisi, candidarsi a governare il Paese

tonoma. Così all’ex presidente della Margherita restano due opzioni: la prima è lasciare il Pd per incrociare la Costituente di centro di Pier Ferdinando Casini; la seconda è accettare un ruolo singolare, per alcuni versi

vantaggioso almeno fino a quando il compromesso conservatore tra Franceschini e gli ex Ds starà in piedi, quello di antisegretario. Dai sondaggi che si possono condurre tra i moderati vicini a Rutelli e tra chi ne intuisce i piani, sembra chiaro che per ora non ci saranno addii. Resta così l’altra possibilità, quella della critica interna, della denuncia permanente contro il vecchio, dell’incitamento al balzo in avanti che però sembra

troppo faticoso a un organismo ancora pesante com’è il Partito democratico.

C’è una variabile che in apparenza potrebbe complicare il posizionamento strategico di Rutelli, ed è l’altrettanto singolare rientro sulla scena di Veltroni. Una ricomparsa condotta in realtà con passo piuttosto morbido, ribadita ieri da un intervento su Facebook: l’ex leader ricorda l’ap-


politica rito e l’eterno candidato alla segreteria Bersani sono molte. Ma l’ex ministro dello Sviluppo economico stavolta fa sul serio. Nel 2001 Massimo (D’Alema) lo convinse a rimandare le sue aspirazioni di leadership in favore di Piero (Fassino). Nel 2007 in favore di Walter (Veltroni). Oggi, checché ne pensi Massimo, Bersani assicura che non si tirerà indietro. È convinto, infatti, che una sua discesa in campo farebbe il pieno nel campo diessino demo-scettico e riuscirebbe a scardinare anche la compattezza della famiglia popolare. Non tanto Enrico Letta, che ha posto condizioni complicate. Quanto l’ala sinistra dei popolari, in particolare figure come Rosy Bindi. Una candidatura socialdemocratica, la sua, che si iscriverebbe coerentemente nel solco del socialismo europeo e in continuità con la recente storia della sinistra italiana. Che poi il socialismo europeo sia messo come è, e che quella della sinistra italiana non sia propriamente una storia esemplare, è un borioso dettaglio. FIORONI: IL DOTTOR SILENTE Avesse la barba lunga e la tonaca, Fioroni somiglierebbe anche fisicamente al Dottor Silente preside della scuola di magia e stregoneria di Hogwarts, frequentata da Harry Potter. Dall’elezioni di Franceschini, ha perso la guida dell’organizzazione del partito a favore del dalemiano Migliavacca, ma ha rafforzato il suo ruolo di capo della corrente popolare. È stato lui a far saltare il battesi-

DARIO FRANCESCHINI

mo dalemiano del prolungamento del mandato a Franceschini, argomentando che mai e poi mai Al momento i popolari sarebbero finiti nelle ricorda Dario II, grinfie di D’Alema. Fioroni punsovrano di mezzo ta alla compattezza dei suoi e a intorno al quale risultare determinante nella scella storia non ta del nuovo segretario. Intende racconta granché. giocare nel Pd tra le anime diesUn prolungamento sine in lotta, il ruolo che Casini del suo mandato giocherà nei prossimi ballottaggi fino alle regionali tra centrosinistra e centrodestra. del 2010 inizia Ad oggi, è fermo sulla ricandidaa vacillare tura di Franceschini. Ma quel che più gli importa è tenere i popolari nella maggioranza politica che governerà il Pd dopo il congresso. FASSINO: MALVOLIO Nella Dodicesima notte di Shakespeare c’è un personaggio meraviglioso che ricorda tanto Fassino: Malvolio. Uomo irascibile ma onesto e generoso, Malvolio si oppone al brigare cinico degli altri personaggi, alla ricerca di un senso generale che spieghi ogni cosa, anche a costo di rimetterci personalmente. È la vicenda di Piero Fassino, che non avrà la levatura dello statista come D’Alema, ma ha il merito di aver tirato la carretta quando gli altri pensavano solo a ricollocar-

In queste pagine, gli attori principali del Partito democratico: a sinistra, Francesco Rutelli. A destra, Walter Veltroni. In alto, da sinistra: Massimo D’Alema, Dario Franceschini e Pierluigi Bersani

L’ex presidente della Margherita si prepara ad avere grande spazio mediatico ma scarsa incisività sugli equilibri del partito. Non vuole lasciare, per ora: eppure per lui sarebbe l’unica vera soluzione puntamento del 2 agosto al Teatro Capranica di Roma, dove si svolgerà una sorta di assemblea celebrativa «a due anni dal Lingotto» (in realtà ne sono passati un po’ meno) e alla quale interverranno non

solo fedelissimi come Giorgio Tonini ed Enrico Morando, ma anche quella grande famiglia popolare che è pronta a giocarsi la partita al fianco di Franceschini ma non vuol essere del tutto annichilita in ca-

so di vittoria di Bersani. Walter interpreta come un segnale incoraggiante proprio l’accordo Franceschini-D’Alema sull’eurogruppo, e spiega: «Se ritengo opportuno tornare a dire quel che penso è perché avverto che il nostro progetto, il progetto del Pd, è messo in discussione». Scrive su Facebook di sentire attorno al partito «richiami antichi», tentazioni di «ritorno ad antiche e inesistenti certezze» anziché aneliti al «riformismo» e alla «modernità». I frutti della «parabola discendente del berlusconismo» si raccoglieranno «non tornando indietro ma andando avanti».

Sembra lo spartito di Rutelli. Ma Veltroni difficilmente potrà impadronirsene fino in fondo, perché le dimissioni gli sottraggono parte della legittimazione e della credibilità politiche necessarie. Sembra esserne consapevole lui stesso quando dice «vorrei essere chiaro, io sono e rimarrò fuori da un certo tipo di battaglia politica». Davanti all’ex presidente della Margherita c’è dunque un campo pienamente praticabile. Secondo fonti interne, soprattutto sul terreno delle proposte economiche: la piattaforma di Bersani difficilmente potrà prescindere dal vecchio schema fatto di Cgil e cooperative. «Ed ecco perché è di fatto impossibile che il corteggiamento rivolto ad Enrico Letta potrà produrre qualche risultato», rilevano gli aruspici.

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si. Attualmente i suoi limiti sono quelli della sua componente, integralmente formata da ex diessini a lui vicinissimi nel vecchio partito. Eppure i fassiniani hanno costruito intorno a loro confini friabili. La confinante componente dalemiana potrebbe così avere la meglio per i molti che si sentissero ammaliati dal richiamo identitario della candidatura Bersani. VELTRONI: L’UOMO CHE NON C’ERA Ha giocato e gli è andata male. Molto male. Forse pure troppo. A lui che ama il cinema, il Billy Bob Thornton del noir dei fratelli Coen si cuce addosso a pennello. I più malevoli sostengono che spera di essere richiamato tra un paio d’anni, quando le cose per il Pd potrebbero andare addirittura peggio di oggi. Esagerazioni. Quel che è certo, è che Veltroni a scrivere romanzi si annoia e difficilmente si tirerà fuori dalla partita congressuale. È chiaro che nessuno può credere che voglia affidare le sue speranze alla brava PIERLUIGI Serracchiani, che sarebbe forse BERSANI un’ottima vice capo delegazione dei parlamentari europei del Pd, Eterno mentre come vice segretaria nacandidato zionale si fa fatica a considerarla alla segreteria, seriamente. Potrebbe allora dare è convinto una mano al suo vecchio sodale che una sua Franceschini, per portare dalla discesa sua parte il maggior numero posin campo sibile di ex diessini e garantirgli farebbe un prolungamento del mandato il pieno sia tra su basi politiche più solide. Chisi diessini sia sà. Intanto fa finta di essere moltra i popolari to impegnato a finire di scrivere il terzo romanzo. Poi si vedrà.

L’invito del responsabile Welfare ad «abbandonare la socialdemocrazia» è dunque solo un segno di gentilezza.

Nella sua sfida da bastian contrario Rutelli spera di avere al proprio fianco una pattuglia teodem attiva non soltanto sui temi bioetici. Potrà avvantaggiarsi del supporto di Linda Lanzillotta e del dialogo con i veltroniani. Sul tema della collocazione europea conta sul parere autorevole ma poco influente di Marco Follini: «Dopo le parole di Rutelli spero ci sia un supplemento di riflessione», dice l’ex segretario dell’Udc, «per una forza che vuole essere così originale nel proprio Paese c’è il rischio di essere troppo tradizionalista a Strasburgo». Partita chiusa ma per questo utile alla classifica avulsa dell’ex sindaco di Roma: l’accordo con i socialisti rende più complicata l’unica prospettiva di evoluzione sul terreno delle alleanze, ossia il rapporto con l’Udc, di cui Rutelli potrebbe conservare la titolarità esclusiva.Rosy Bindi, erede dell’ulivismo prodiano, non a caso spera ora in «un ripensamento sul ritorno al centrosinistra» e nella «autonomia da chi pretende di essere il nostro unico interlocutore». Il fatto è che Rutelli potrà avere visibilità e appoggio in settori dell’opinione pubblica democratica, ma non può costruire dal nulla l’unica attrezzattura che, per paradosso, in questo Pd consente la competizione, ossia una propria corrente. Così l’opzione per il ruolo di anti-segretario potrà valergli un po’ di gloria, ma certo non lo spazio oggettivo che troverebbe al di fuori del Nazareno.


il paginone

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artono, dal 2010, i «nuovi» licei. Formalmente sei. In realtà 11: classico, scientifico, tecnologico, linguistico, delle scienze umane, economico-sociale, coreutico, musicale, delle arti figurative, dell’architettura-design-ambiente, dell’audiovisivo-multimedia-scenografia. Ben sei sono previsti senza latino e con sole due ore di filosofia nel triennio. La matematica è un sapere fondamentale, ovvero con ore adeguate per l’approfondimento concettuale e non per il solo apprendimento di tecniche più o meno algoritmiche, esclusivamente nel liceo scientifico. In compenso, lo stesso liceo che si chiama «scientifico» ha molte più ore di latino che di biologia, chimica e scienze della Terra messe insieme. Contro le 7 discipline e le 24 ore del vecchio triennio di liceo classico di Gentile, inoltre, quello attuale ha 31 ore, con 13 discipline che possono però salire anche a 16. In generale, infatti, si ha uno spezzettamento delle discipline con due ore settimanali per non scontentare troppo i sindacati giustamente, dal loro punto di vista, preoccupati delle cattedre. Due ore che le scuole potranno, però, anche in parte sacrificare a vantaggio dell’introduzione di altre discipline che, naturalmente, potranno godere di orari lillipuziani. Sarà interessante vedere, per esempio, in questo senso, come faranno i docenti di storia ad insegnare allo stesso tempo anche la nuova disciplina di «Cittadinanza e Costituzione» avendo però in totale a disposizione 66 ore annue. Contemporaneamente ai «nuovi» licei, dovrebbero partire, sempre dal 2010, i «nuovi» istituti tecnici con 11 indirizzi (contro i 39 vigenti) e i «nuovi» istituti professionali (con 6 indirizzi contro i 27 vigenti).

P

Potare per rinfoltire? Sembrerebbe, dunque, nel complesso, una vigorosa, più che necessaria potatura rispetto alla situazione attuale che vede quasi 800 prove per gli esami di stato conclusivi, il che vuol dire almeno 800 diversi piani di studio nella secondaria. In realtà, grazie al combinato disposto dall’inerzia di ciò che c’è dopo quasi vent’anni di cosiddette «sperimentazioni» e dai marchingegni dell’autonomia cucinata in salsa ministerialitalica, nessun piano di studi dei licei, dei tecnici e dei professionali, per nessuna materia, sarà uguale a un altro. Infatti, le scuole potranno modificare, diminuendo il peso di alcune discipline a vantaggio di altre o

Parte dal 2010 l’ennesima riforma delle superiori che non risolve i nodi dell’autonom

La vecchia Storia dei nuovi licei di Giuseppe Bertagna anche introducendo discipline non previste dai piani di studio ordinari, nei licei il 20 per cento del monte orario nel primo biennio, il 30 nel secondo biennio e il 20 nell’ultimo anno. Nei tecnici e nei professionali possono passare dalle percentuali di modifica dei piani di studio

prio il breve riassunto delle novità che si profilano, d’altro canto, rende esplicite tre fondamentali questioni che riguardano il processo riformatore.

Quale autonomia? La prima è che, forse per pigrizia mentale o forse per furbizia, non si è

Rispetto alle attuali 800 prove per gli esami di stato e gli 800 diversi piani di studio, l’operazione di viale Trastevere sembra migliorativa. Ma in realtà nessun percorso di studi sarà uguale a un altro

pari al 20 per cento nel biennio a quelle pari al 50 nel secondo biennio e al 55 all’ultimo anno. Alla fine, dunque, altro che gli attuali 800 piani di studio diversi: ne avremo almeno il triplo, a meno che una mano invisibile ispiri a tutte le scuole scelte armonicamente prestabilite. Pro-

riusciti ad andare oltre la concezione centralistica dell’autonomia, stipulata alla fine del secolo scorso, in epoca berlingueriana. Con tutte le modifiche ai piani di studio che possono essere introdotte dalle scuole, a dire il vero, l’osservazione può apparire stravagante. Lo è mol-

to meno, tuttavia, se si pensa alla singolare matrioska deduttiva in cui l’attuale autonomia scolastica è istituzionalmente collocata. Il ministero che paga, stabilisce infatti le ore massime possibili, scuola per scuola. Stabilisce anche il menù di consumazione che le può riempire, in questo senso precisando le discipline, le cattedre e le graduatorie possibili. Gli organi collegiali di ogni scuola poi introdurranno le modifiche che vorranno, ma senza fuoriuscire dai vincoli stabiliti da chi paga. L’autonomia del cane legato alla catena, insomma. Una volta un po’ più corta, adesso, per fortuna, un po’ più lunga. Ma la logica è quella. Siamo ancora ben lontani, tuttavia, da una visione dell’autonomia delle scuole (vedi Autonomia. Storia, bilancio e rilancio di un’idea, La Scuola, Brescia) che abbandoni il trascendentale centralistico (ministeriale e pure locale) e adotti ciò che, peraltro, avrebbe già imposto di fare, nel 1948, l’art.5 della Costituzione e, nel 2001, l’art.118 della Costituzione riformata (sussidiarietà). In particolare, siamo ancora ben lontani da un’autonomia che, finalmente, in primo luogo, distinguendo tra discipline fondamentali (poche, massimo 5), discipline opzionali e discipline facoltative, consenta agli studenti di costruirsi un piano di studio davvero personalizzato, e non alle scuole di offrire ai ragazzi piani di studio che sono stati decisi, per motivi di organico, dal collegio dei docenti e dai


mia e della sussidiarietà

il paginone presidi. In secondo luogo, che sia attenta al rigoroso e non propagandistico controllo della qualità dei risultati finali raggiunti dallo studente nelle discipline fondamentali e in quelle opzionali e facoltative, piuttosto che al rispetto amministrativo delle regole procedurali stabilite per raggiungerli durante il percorso.

Risparmi sicuri. La seconda caratteristica delle novità scolastiche annunciate è economica. La crisi globale e, soprattutto, la determinazione di Tremonti hanno reso possibile ciò che negli ultimi dieci anni nessun ministro (salvo un po’ Fioroni) era riuscito a fare: diminuire il numero degli stipendi pagati ai docenti in presenza di una diminuzione del numero complessivo degli studenti. Nei Licei, infatti, dalle attuali 30-33 ore si scende a 27 nel biennio e a massimo 31 nel triennio (salvo che negli artistici e nei coreutico-musicali dove si scende comunque rispetto alle 36-40 ore attuali). Nei tecnici e nei professionali, inoltre, dalle attuali 34-36 ci si abbassa a 32 ore. Per la verità, l’orario cambia poco in termini di minuti per gli allievi. Unici al mondo, infatti, avevamo creativamente inventato le ore di 50/55 minuti. Per cui, ad esempio, in alcuni professionali, 32 ore di sessanta minuti saranno più lunghe delle attuali 36 di 50. Cambierà molto, tuttavia, (e che molto!) per il numero delle cattedre disponibili per i docenti e per i risparmi che l’operazione renderà possibile a regime. Ogni ora in meno di lezione annuale, infatti, significa, tra personale docente e non docente, più o meno 25 mila stipendi risparmiati. Anche questa operazione, tuttavia, ha del singolare e dovrebbe essere l’occasione per qualche (ma improbabile) autocritica da parte dei sindacati e dei partiti. Dal 1996, cioè da quando l’esigenza di tagliare il bilancio della P.I. era apparsa improcrastinabile, essi, infatti, hanno sempre respinto ogni ipotesi di tagli-ma-con-riforma. Si sono bruciate due ipotesi tra loro tecnicamente quasi opposte (quella Berlinguer del 2000 e quella del Grl nominato dal ministro Moratti nel 2001) che convergevano, tuttavia, nel proposito di riformare dalle fondamenta il sistema di istruzione e di formazione, riducendo gli anni di studio preuniversitari da 13 a 12 (come in tutto il mondo, nel quale anzi stanno aumentando i Paesi che preferiscono addirittura 11, e con risultati migliori dei nostri). E hanno rifiutato anche la terza ipotesi, quella della legge 53/03. Tutte ipotesi certo non perfette, ma di sicuro esplicite nel connettere riforma, risparmi e aumenti delle possibilità di carriera e di stipendio dei docenti. Adesso partiti e sindacati si ri-

trovano con i tagli certi e con aumenti stipendiali solo promessi in base a un non ben definito merito, di cui tutti parlano ma di cui nessuno riesce ancora a dare coordinate spendibili e praticabili.

Tre filiere statali e un filierino regionale. L’ultima caratteristica delle novità scolastiche che partiranno il prossimo anno è una conferma di natura ordinamentale e una di tipo istituzionale. A proposito della prima, infatti, resteranno, come adesso, le tre filiere ordinamentali ereditate dal fascismo e consolidate dalla Repubblica negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Resteranno senza apprezzabili modifiche, con l’immaginario sociale e culturale che tuttora, purtroppo, le accompagna e che perfino grandi intellettuali marxisti come, per esempio, Aldo Schiavone (La Repubblica 13 giugno, p. 1) continuano a riproporre come insuperabile: i licei sarebbero istruzione di serie A, per la classe dirigente, l’istruzione portante dell’intero sistema di istruzione e di formazione; gli istituti tecnici sarebbero istruzione di serie B, per i tecnici che intendono diventare poi quadri andando in università, istruzione di complemento a quella portante liceale; gli istituti professionali sarebbero di serie C, per i tecnici esecutivi

Nella foto grande, una riunione di liceali. A sinistra, l’ex ministro della Pubblica istruzione, Luigi Berlinguer, e qui sopra Mariastella Gelmini che intendono immettersi subito nel mercato del lavoro, istruzione residuale delle prime due. Seconda conferma, quella istituzionale, tutte e tre queste filiere tra loro socialmente, culturalmente ed educativamente gerarchizzate resteranno, inoltre, rigorosamente statali, il che poi vuol dire gestite dall’attuale burocrazia ministeriale e sindacale centrale. Per i pueri cantores trasversali dello statalismo, questo basterebbe perfino a riscattare la loro gerarchizzazione sostanziale. Anche perché questi cantores tac-

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ciono che, per le qualifiche professionali inferiori e per i falliti delle tre filiere statali, resta sempre la «croce rossa» della formazione professionale regionale che essi, proprio perché non statale, non considerano nemmeno degna di essere chiamata «scuola» e di far parte del sistema di istruzione e di formazione.

La posta in gioco. Dal 1948 ad oggi, per la verità, sono stati ben trentaquattro i tentativi di cambiare in maniera più o meno radicale questi ordinamenti e queste afferenze istituzionali della scuola secondaria. L’ultimo tentativo è stato quello della legge n. 53 del 2003. Voleva prendere sul serio l’art.117 della Costituzione approvato nel 2001, traendone le conseguenze. E non più ragionare né in termini di statalismo e centralismo, ma di avvio del federalismo e del principio di sussidiarietà, sul piano istituzionale, né in termini di filiere gerarchiche su quello ordinamentale. Allo Stato sarebbero rimaste, infatti, due competenze: a) det-

bedue di pari dignità educativa e culturale: quello dei licei e quello dell’istruzione e formazione professionale (che naturalmente doveva nascere dalla riprogettazione unitaria e integrata, quindi senza duplicazioni, degli attuali corsi di formazione professionale regionale, di istruzione professionale statale e, in parte, di istruzione tecnica statale, introducendo una graduazione tra corsi di qualifica triennale, di diploma quadriennale o quinquennali, di diploma superiore da sei a nove anni). La legge, tuttavia, tra opposizione che minacciava sfracelli ideologici e maggioranza bloccata dai corposi interessi dall’apparato buroministerialsindacale esistente, ha suscitato tali e tante reazioni che, prima, lo stesso ministro che l’aveva proposta (Moratti) cominciò ad annacquarla, se non a stravolgerla, nei decreti attuativi e, dopo, il ministro Fioroni l’ha ritrattata del tutto.

Ma ecco il fatto nuovo che rilancia la questione. Facendo finta che il federalismo e la

Rimangono in vita le tre filiere ereditate dal fascismo: i licei per la classe dirigente, gli istituti tecnici per gli specialisti che si perfezionano in università, e gli istituti professionali per i manovali

tare gli ordinamenti dei licei (con l’indicazione dei saperi essenziali, non negoziabili per tutte le scuole) e i livelli essenziali di prestazione per tutta l’istruzione e formazione professionale delle Regioni; b) controllare poi con rigore gli apprendimenti finali di tutti gli studenti. Alle Regioni, sarebbe spettato, da un lato, il compito di dettare gli ordinamenti dei percorsi graduali e continui dell’istruzione e formazione professionale rivolta ai ragazzi dai quattordici ai ventirè anni, rispettando i livelli essenziali delle prestazioni stabilite dallo Stato; dall’altro lato, il compito di organizzare e gestire sul territorio il sistema educativo composto da due percorsi interconnessi tra loro ed am-

sussidiarietà disegnati nella Costituzione del 2001 fossero stati presi sul serio e non fossero ancora in cerca di una attuazione men che minimale, nel dicembre scorso, la attuale maggioranza di governo, con la benevola astensione di quell’opposizione che aveva finora impedito l’attuazione del Titolo V, ha approvato la legge delega sul «nuovo federalismo». Una domanda si impone a questo punto: questa legge delega è stata fatta solo per motivi di bandiera elettorale, per cui il suo destino sarà analogo a quello del Titolo V della Costituzione e della legge n. 53/03, oppure, all’improvviso, tra rinnovate determinazioni della maggioranza e conversioni della minoranza, si è deciso di dare davvero gambe ad un impianto federale e sussidiario del sistema di istruzione e di formazione del Paese? Se sono rose fioriranno. Vedremo. Ma una cosa è certa: quando fioriranno, anzi perfino quando saranno soltanto boccioli, sarà indispensabile una «nuova» forma (ri-forma) degli ordinamenti secondari e superiori che dovrebbero partire nel 2010.


panorama

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Equilibri. La nomina di un manager (e non di un imprenditore) alla testa della prima territoriale italiana

Assolombarda e il risiko di Confindustria di Francesco Pacifico ota uno dei “vecchi” di Assolombarda: «Alberto Meomartini è stato eletto presidente della prima territoriale italiana di Confindustria. Non credo servano ulteriori concessioni o azioni di riequilibrio a favore delle aziende dei servizi». Eppure i Paolo Scaroni, i Fulvio Conti o i Mauro Moretti, i nuovi “azionisti forti” di viale dell’Astronomia, non sembrano della stessa idea e sono pronti a battere cassa con Emma Marcegaglia. Con l’elezione del numero uno di Snam Rete Gas, catapultato dallo stesso Scaroni nella capitale morale del manifatturiero, entra nel vivo una stagione che potrebbe riscrivere pesi e contrappesi all’interno di Confindustria: perché aumentare lo spazio ai rappresentanti del mondo dei servizi – per giunta di aziende controllate dal Tesoro –

N

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

rimodula il perimetro delle azioni di lobbying e rende ancora più distante il Nord produttivo dalle ovattate stanze del potere romano. Certo, l’elezione di Meomartini è stata acclamata all’unisono nella giunta privata di Assolombarda, che ha gradito l’impegno «a un maggiore ascolto

mediare nello scontro sull’Expo tra la Moratti e Tremonti, quindi di respingere lo sbarco da Roma dell’ex ministro Lucio Stanca. Tutto questo però non basta a capire cosa sta avvenendo tra gli imprenditori e di cosa è foriera l’elezione di Meomartini. Si è detto e scritto che Paolo Scaroni sia tentato

Lo sbarco di Meomartini dà il via a una serie di movimenti che potrebbero finire con l’aumento del peso dei servizi in viale dell’Astronomia verso le categorie merceologiche» e verso le proposte della base. L’uomo poi, milanese doc, è un habitué di via Pantano, ne è stato il vicepresidente e ha negli anni messo le basi per raggiungerne la testa.

Senza contare che oltre all’appoggio di Paolo Scaroni – si vocifera che l’Ad di Eni si sia speso direttamente – Meomartini ha potuto contare sul voto di protesta contro il suo predecessore: quella Diana Bracco che ha candidato Andrea Spada e che la base considera troppo distante, espressione delle grandi aziende, incapace di

dal succedere alla Marcegaglia tra tre anni. Cosa che l’interessato smentisce. E gli si deve credere, viste le alte responsabilità attuali e le ambizioni che un personaggio simile può nutrire. Eppure sorprende che si sia attivato prima per il rinnovo dei vertici della territoriale di Venezia – lanciando Enrico Marchi – quindi per quelli di Milano. Fare da grande elettore nelle maggiori territoriali finisce per dare a Scaroni più armi di pressione sulla Marcegaglia. La quale non può ignorare che senza le quote di Eni, Enel o Ferrovie, farebbe molta fatica a chiudere il bilancio dell’asso-

ciazione. La presidente, finora, ha parlato al governo con gli stessi toni della piccola e media impresa. E da sempre le Pmi si lamentano per la difficoltà di accesso al credito, per le alte tariffe dei servizi, per i freni della burocrazia, per l’assenza di strutture in grado di facilitare la loro internazionalizzazione. Problemi per lo più sconosciuti ai grandi gruppi, figurarsi ai campioni nazionali nati sulle ceneri degli ex monopolisti. Come può una Confindustria controllata dai grandi fornitori di servizi lamentarsi per l’alta bolletta energetica o per le alte commissioni bancarie? È questa la domanda che si pongono le imprese. È questo che vuole evitare la Marcegaglia. Se Meomartini non vuole essere stritolato in questa contesa, dovrà evitare gli errori di Diana Bracco. Non a caso Giorgio D’Amore, presidente dei Giovani industriali di Assolombarda, dice: «Auspico un maggiore ascolto delle nostre istanze. Appena avrò l’occasione, parlerò con Alberto del nostro progetto sul venture capital, “Venture comunity”. Perché in tempi di crisi è decisivo far nascere belle imprese».

È un mezzo dal successo planetario. E ancora oggi la si vede “sfrecciare” un po’ ovunque

Elogio dell’Ape (o della casa ambulante) o provato a recuperare un articolo che avevo scritto tempo addietro per ripubblicarlo ma non l’ho trovato. L’articolo mi piaceva assai, non perché fosse da Pulitzer - al massimo da premio tipo Topolino Giornalista - ma perché parlava di un mezzo di trasporto, lavoro, piacere, svago, uso domestico ma anche aziendale, privato e pubblico e un’infinità ancora di usi e abusi ora qui non ricordevoli, che mi ha sempre incuriosito per la sua strana forma: il cosiddetto Ape. Volevo recuperare quel pezzo perché il libro che parla dell’Ape è una nuova edizione del libro da cui presi spunto per l’articolo: l’Ape di Franco La Cecla (antropologo) e Melo Mannella (fotografo). Sottotitolo: antropologia su tre ruote (edito da elèuthera).Volevo ritrovare quel pezzo perché credo possa essere all’origine di questa seconda riveduta e ampliata e nuova edizione del libro: più grande del precedente, più spazio alle fotografie, ancora più giocoso e tuttavia serio.

H

Quel mio pezzo diceva che il mondo lo si può vedere e affrontare non solo su quattro e due ruote, ma anche su tre ruote. Con La Lapa, appunto. Chi di voi non ha mai visto una Lapa (adesso af-

frontiamo anche la questione del nome, solo un attimo)? Ognuno di voi - di noi ha visto, anche distrattamente, l’Ape e si sarà anche sorpreso a pensare: vorrei farmi un giretto su questo strano coso.

Perché La Lapa è fatta così: te la trovi davanti nei posti più impensati: in un paesino, e va bene, ma anche nella grande città, che in Italia sono un insieme di tanti piccoli paesi. Te la trovi al mare ma anche in montagna, in campagna è scontato, ma su una superstrada no, e su un altopiano etiope ti sembra irreale, eppure La Lapa c’è. Su quelle tre ruote ci deve essere un equilibrio assai precario: e che sia così, del resto, lo si capisce anche ad occhio nudo, perché traballa, sculetta, a volte tende ad impennarsi, a volte a capovolgersi. Ma

questo suo equilibrio precario la rende ancora più affascinante. Il suo nome è un autentico mistero: l’Ape, Lapa, Tre ruote, Apetiello (come dicono dalle mie parti in Campania). In Egitto è il Tuk – Tuk, in India è il Riksha, ma c’è anche il Gua – Gua. Non c’è luogo al mondo dove non ci sia La Lapa che è universale perché ha presto perso la sua dimensione di prodotto industriale per essere soltanto un “mezzo” che l’uomo nelle varie latitudini ha saputo usare a suo uso e consumo infinito.

La Lapa è diventata praticamente subito un prolungamento del corpo umano. Una protesi. Il nome Ape dovrebbe richiamare l’operoso insetto, ma non è detto che derivi da lì, anche se la forma a triangolo dovrebbe richiamare proprio l’ape. La Lapa è una casa am-

bulante o una piazzetta mobile. Due o tre possono abitare l’abitacolo, mentre un numero imprecisato di umani - ma anche animali e il più delle volte soprattutto bambini - possono viaggiare all’aperto che è un vero piacere. Il mondo da quella piazzetta mobile mostra tutta la sua disarmante bellezza.

L’Ape è un veicolo dal successo planetario. La stessa Cinquecento non le sta a ruota. Guardate un po’ l’automobile che va per la maggiore nelle nostre città: la Smart. Come non vedere che è una semplice evoluzione, con tettuccio e senza piazzetta, della Lapa? Ma con l’Ape ci puoi fare di tutto e di più. Dalle parti mie i contadini la usavano - e la tradizione continua - non solo per il lavoro, ma anche per il dopo-lavoro: per uscire, per andare in centro, per andare a Messa. Addirittura c’è chi ne ha più di una per i diversi usi: il dovere e il piacere, il lavoro e la rappresentanza. Un’altra caratteristica dell’Ape è l’essere particolare: non ce n’è una uguale a un’altra. Ogni Ape è sempre se stessa e tende ad assumere la forma e lo stile del suo padrone. Con lui invecchia, perché La Lapa è indistruttibile. Forse, è sempre esistita ed esisterà sempre.


panorama

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Scenari. Contro le “insidie” di Lega e premier al Governatore della Lombardia, scende in campo la Compagnia delle Opere

Il tavolo di centro che può salvare Formigoni di Ruggiero Capone er comprendere quali giochi di potere si stiano consumando a Milano bisogna accettare un assioma: la figura politica di Roberto Formigoni non piace alla Lega ed è ormai ritenuta ingombrante (troppo visibile) da Berlusconi, che ha persino garantito la crescita politica del “ciellino” Maurizio Lupi nel Pdl affinché la Compagnia delle Opere abbandonasse Formigoni e puntasse su Lupi come nuovo esponente di Cl in Parlamento. Formigoni non è mai stato tipo da farsi soffiare il proprio dominio incontrastato nella potente lobby milanese, che intreccia molteplici interessi. Così, dopo le recenti bordate dei vescovi alla nave del Cavaliere, è giunta puntuale la stoppata alle manovre berlusconiane. Per Cl, Formigoni non si deve toccare, e certe gerarchie ecclesiastiche non gradiscono affatto che venga sostituito con l’ennesima pedina del premier e patron di Mediaset. Così dal grattacielo di via Achille Papa, prestigiosa sede della Compagnia delle opere, sarebbe partita la svolta di centro. Cioè permettere che Formigoni, pur rimanendo nel Pdl, venga aiutato

ni-Tabacci-Casini. E questo non è un gioco tra veline e sgrammaticati calciatori in vena di delirio politico, si tratta d’intesa con robuste radici nel mondo cattolico. Insomma il rapporto controverso tra il presidente della Regione Lombardia e Berlusconi (il Cavaliere mal sopporta i reiterati distinguo formigoniani in politica) è stato l’humus per una futuribile intesa di centro su Milano, cuore dell’impero politico del presidente del Consiglio.

P

La lobby ciellina permetterebbe che il Presidente, pur rimanendo nel Pdl, venga aiutato a favorire in Lombardia delle intese con l’Unione di Centro a favorire in Lombardia intese con Udc e formazioni che si richiamino allo scudo crociato. Questo perché se il Pdl è il primo partito della Lombardia lo deve a due effetti, l’indubbio berlusconismo della piccola e media impresa ma, per una buona metà, all’appoggio offerto dai formigoniani di Cl al centrodestra. Se Berlusconi remas-

se ancora contro Formigoni creerebbe una spaccatura nell’elettorato moderato milanese che, messo alle strette e sotto voto, per buona parte potrebbe votare Udc. Non è un mistero che le diplomazie di via Achille Papa lavorino da dopo le Europee (qualche malevolo sostiene almeno da un paio di mesi prima) all’intesa ombra Formigo-

E che Berlusconi intenda sopprimere Formigoni s’evince da come abbia premiato Alfano, la Gelmini e Lupi fin dal 2008, quando costrinse il Governatore a dimettersi da senatore e rimanere al Pirellone. A remare contro Formigoni ci si sono messi anche i leghisti Reguzzoni e Fontana (sindaco di Varese). Sarebbero stati i leghisti a consigliare al Cavaliere d’offrire a Formigoni una fumosa (e poco tangibile) poltrona da commissario Ue. La classica poltronissima in Europa che viene offerta al nemico (ponti d’oro...). Così la Lega detta l’agenda politica amministrativa locale, chiedendo per il Carroc-

cio la Regione Veneto e su Milano la defenestrazione di Formigoni. Nel Pdl c’è persino chi ipotizza una presidenza Pirellone in mano alla Gelmini o a Lupi. La cosa non soddisferebbe il salotto buono dell’economia milanese. Indiscrezioni parlano Giuseppe Rotelli, a capo delle 17 cliniche lombarde del gruppo San Donato e in Rcs Mediagroup (è proprietario dell’11% del Corriere della Sera), fortemente motivato ad appoggiare Formigoni. E poi c’è la Compagnia delle Opere che non vuole rinunciare al suo Formigoni. La Compagnia assomma 15mila imprese, 200mila soci, 32 sedi. È una superlobby che vota a destra, ma anche a sinistra quando conviene. Poi, presidente della Compagnia delle Opere a Milano e provincia è Massimo Ferlini (ex Bocconi, ex Pci, ex Pds, ex assessore nelle giunte Pillitteri). Non è un berlusconiano, e tramite i “ciellini” ha trovato il rilancio professionale. Oggi Ferlini è un «laico che crede nel dialogo cattolico». C’è da credere che il caso Lombardia vada a risolversi come quello siculo, con robuste intese di centro.

La scossa. Gli attori (e le voci) che si muovono dietro alle “oscure dinamiche” anti-Berlusconi

Guida alla conoscenza del complotto di Marco Palombi a “scossa” fino a poco tempo fa era una faccenda di pertinenza del conduttore tv Amadeus, adesso nei cosiddetti corridoi del potere tutti tendono l’orecchio a quella grossa, the big one, con un’ansia sconosciuta persino ai californiani, che pure ne hanno più motivi. Merito di D’Alema - che insieme a Cossiga, Rotondi, Cicchitto, ovviamente Berlusconi e qualche decina d’altri - da giorni sbatte le ali attorno al complottone come una falena attratta dall’abat jour. Lo scenario fantapolitico è più o meno questo: una variegata congerie di personaggi e interessi - le opposizioni, qualche Iago pidiellino come Fini, Tremonti o, addirittura, Gianni Letta, Murdoch, il gruppo Espresso e la nuova amministrazione Usa - tramano nell’ombra per sostituire il Cavaliere con qualche civil servant e istituire un “governo di sanità pubblica”. È il modello ’94, cui Berlusconi ha reagito minacciando l’ordalia del voto anticipato. Il Riformista, primo giornale a parlare esplicitamente della cosa, chiama i congiurati “la Ditta”, nome che dà al tutto un vago sapore alla “Tre giorni del Con-

L

dor”. Essendo coinvolto il governo americano, molto si dibatte sul ruolo dei servizi: per il ministro Rotondi dietro la trama anti-Berlusconi ci sono le intelligence private, mentre altri temono che l’inquilino di palazzo Chigi scateni quelli veri contro gli autori del presunto “piano eversivo”. Di cosa si stia parlando nessuno lo sa con certezza, ma la suspence, si sa, si nutre soprat-

Secondo alcuni, starebbe per saltar fuori una malattia del premier; secondo altri, ennesime prove di “divertimenti” privati del Cavaliere tutto del “fuoricampo” e delle oblique allusioni di cui abbonda il discorso pubblico. Domenica, in questo senso, è stata una sorta di D-day.

È il giorno della “scossa”di D’Alema infatti, ma pure quello in cui - in un pezzo sul Riformista - si poteva leggere la seguente previsione: «A parte foto, veline e Noemi, ci sarebbe qualcos’altro che inizia a bollire nel pentolone di questa storia. Riguarda sempre la vita privata del Cavaliere. Ma non è sesso. Di sicuro saranno mesi di grande inquietudine politica». Lo stesso

giorno l’editoriale di Ezio Mauro buttava lì che solo Berlusconi conosce la «sciagura che lo incalza» e che «non può rivelare in pubblico». E poco dopo il direttore scriveva della «personale tragedia» del premier «di cui lui solo (insieme con la moglie che di questo lo ha avvertito, pochi giorni fa) conosce il fondo e la portata». Insomma, vabbè che i giornali «sono un gruppo di potere che fa un discorso a un altro gruppo di potere» (Umberto Eco), ma così non si capisce niente. Per permettere ai comuni mortali di partecipare al divertimento, forniamo in italiano corrente le chiavi di lettura che vanno per la maggiore nel mondo politico-editoriale romano (solo voci, per carità): l’accenno a novità personali si riferirebbe a una non specificata malattia del premier, gli altri invece alle prove dei “divertimenti”privati del Cavaliere raccolte da Repubblica e non ancora rese pubbliche. Buon proseguimento.


società

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Ricerca. L’incremento dei casi viene ancora imputato alle vaccinazioni di massa, anche se questa teoria è stata ripudiata perfino da chi l’aveva proposta

La crociata anti-autismo Una campagna di pseudoscienza lanciata da un network di medici “non convenzionali” e celebrità assortite di Paola Vitali uando si parla di autistici, a tutti viene naturale ripensare alle espressioni facciali perplesse e alla recita a memoria di pagine intere dell’elenco telefonico del Rain Man che a Dustin Hoffman valse l‘Oscar nel 1989, oppure alle articolate teorie sul colore del ragazzino protagonista di un altro grande successo, il romanzo di Mark Haddon Lo Strano caso del cane ucciso a mezzanotte. Qualche tempo fa anche la fiction italiana ha offerto il suo contributo con la serie E poi c’è Filippo, in cui un Neri Marcorè un po’ troppo ispirato all’uomo della pioggia faceva il fratellone simpatico affetto da Sindrome di Asperger. Sono solo tra le più memorabili interpretazioni che la cultura contemporanea ha offerto dell’autismo, un soggetto ricco di spunti per la costruzione di storie e personaggi. Gli autistici rimangono mistero e fascino, nei casi più lievi, quando non sono la croce di famiglie ridotte a rivoluzionare la loro esistenza per convivere con i loro figli più difficili, quei bambini che a un certo punto si sono spostati altrove, anche se dove non si sa. Il bambino sembrava del tutto normale, cresceva e iniziava a fare tutte le cose che un piccolo d’uomo dovrebbe essere programmato a esercitare tra i due e i tre anni, poi ha iniziato a sfuggire, e se ne è andato per sempre.

Q

Alle famiglie è durissima spiegare che l’autismo è un disturbo che non si cura, che renderà sempre e comunque “altro” dai normodotati, che potrebbe migliorare col tempo e con un’adeguata e paziente riabilitazione e poi però peggiorare nuovamente, e di cui ancora non si conoscono le cause. Non che sia semplice accettare altre patologie che abitano quella scatola insondabile che è il cervello solo perché una risonanza magnetica lascia intravedere dove è localizzato un danno, ma certo è ancor più complicato venire a patti con un disturbo che non si ha proprio idea da dove parta e perché. E che quindi è estremamente difficile affrontare con cure mirate. Agli operatori è affidato il compito doloroso di spiegare alle famiglie che una vita sufficientemente autonoma sarà anche possibile in alcuni casi più fortunati, ma potrà comunque restare chiusa da qualche parte, dove solo il ragazzo autistico si è fermato, solitamente evitando il contatto con gli occhi, rifiutando di interagire, rispondendo con aggressività

alle sollecitazioni ambientali, facendo fatica a processare le emozioni, e nella metà dei casi complessivi non costruendo una forma di linguaggio o di comunicazione condivisibile.

Nel mondo occidentale (visto che in altre parti del mondo l’autismo inizia ad emergere soltanto adesso da tabù e stigma, in fondo non tanto più tardi di quanto sia accaduto da noi) il presunto e apparentemente inspiegato aumento dei casi negli ultimi anni, è andato di pari passo con una diffusione del credo popolare dell’“epidemica dell’autismo”. L’incremento verrebbe imputato prevalentemente alle vaccinazioni di massa o a non ben identificati elementi ambientali tossici che avvelenerebbero l’uomo causando danni al sistema nervoso (Pesticidi? Antibiotici? Ingredienti alimentari?) ma in realtà si spiega con la sem-

Il dottor Fitzpatrick cerca, con il suo nuovo libro, di convincere i genitori a non sprecare energie preziose cedendo alle lusinghe della medicina alternativa pre migliore capacità di identificare il disturbo sia da parte dei genitori che degli operatori sanitari, nonché evidentemente con l’espansione delle categorie diagnostiche. Eppure per incontrollabili

e del resto comprensibili meccanismi psicologici, a una notevole percentuale di genitori di bambini autistici appare più semplice e tollerabile accettare una causa esogena anziché fare i conti con una spiegazione ereditaria, o peggio ancora con nessuna eziologia. Le ormai superate teorie che cercavano ragioni nell’ambiente familiare o nella incapacità materna, unite al concentrarsi della ricerca su fattori genetici, hanno gradualmente sospinto l’inconscio di molti genitori a cercare la spiegazione in fattori esterni, o ad accusare la medicina tradizionale, restando sempre faticoso per la maggior parte di loro liberarsi del tutto dal senso di colpa o dalla vergogna. Così il presunto legame tra vaccini e insorgenza del disturbo non ha del tutto smesso di essere tirato in ballo, attivando un pericoloso screditamento dei sistemi di immunizzazione di massa. Si continua ad incolpare il thimerosal, conservante nella preparazione dei vaccini, al cinquanta per cento etilmercurio, definitivamente non più in uso allo scopo dal 2002. Se il thimerosal fosse davvero il responsabile principale dell’autismo, l’obiezione più spontanea è che la sua eliminazione dalla preparazione dei vaccini avrebbe dovuto comportare da subito una evidente diminuzione se non una scomparsa dei nuovi casi di autismo, cosa che invece non si è verificata. Nel frattempo, originata dagli Stati Uniti, ha iniziato a diffondersi una “crociata contro l’autismo”. Ai suoi seguaci - riunitisi in gran parte sotto l’ombrello del network “Dan” (Defeat Autism Now!), una sorta di comunità di medici e specialisti non convenzionali, leggi naturopati, ortomolecolari, funzionalisti, impegnati in pratiche biomediche non ortodosse di vario tipo - importa poco che ormai da tempo la stessa rivista americana The Lancet, che nel 1998 lanciò l’allarme sul legame tra il vaccino trivalente (contro morbillo, parotite e rosolia, per intenderci) e l’autismo, abbia fatto ammenda e screditato la teoria, ormai ripudiata da dieci dei tredici coautori dello studio.

Celebrità americane di vario genere hanno assunto il ruolo di testimonial di una veemente campagna di pseudoscienza, per cui anzitutto strillano perché si faccia ulteriore chiarezza su quelle infinitesime percentuali di mercurio nei vaccini, e poi non usano stessi pesi e

misure per verificare che i disparati trattamenti biomedici cui si affidano e incoraggiano gli altri ad affidarsi vengano sottoposti a controlli altrettanto rigorosi. In nome di tutti lotta la soubrette americana Jenny McCarthy, armatasi per la battaglia insieme al suo nuovo compagno l’attore Jim Carrey, la cui testimonianza di “madre guerriera” in Mother Warriors: a Nation of parents healing autism against all odds segue un primo best-seller sull’esperienza con il figlio autistico avuto dal primo marito. La McCarthy è un’autrice di successo di libri divulgativi su gravidanza e bambini, ma negli Stati Uniti è soprattutto un simbolo per moltissime famiglie con ragazzi affetti da disturbi pervasivi dello sviluppo, da quando scrisse il libro in cui raccontava come aveva “curato” Evan dall’autismo con tutto un regime


società Dustin Hoffman (nella foto insieme a Tom Cruise) vinse un premio Oscar nel 1989, con il film “Rain Man”, interpretando un uomo affetto dall’autismo. Gli autistici rimangono mistero e fascino, nei casi più lievi, quando non sono la croce di famiglie ridotte a rivoluzionare la loro esistenza per convivere con i loro figli più difficili

di dieta mirata, cocktail di vitamine, integratori e altre sostanze proposte dal Dan. I trattamenti alternativi che vengono raccomandati non sono proprio a buon mercato, ovviamente.

Una mamma che si racconta nel libro della McCarthy sostiene che una famiglia che decida di affidarsi alle terapie biomediche può spendere tra i trentamila e i cinquantamila dollari l’anno. Famiglie che passano tanto tempo a svolgere ricerche all“Università di Google”, pur di tentare il miracolo possono ricorrere all’utilizzo della secretina, alla terapia chelante, alla (meno pericolosa) dieta senza glutine, tutti metodi la cui efficacia terapeutica a compensazione di carenze o a contrasto di tossicità nell’organismo, apparentemente rilevate negli individui autistici, non è stata del

tutto provata. La comunità scientifica e molte associazioni di genitori di ragazzi autistici di regola si affrettano a smentire occasionali affermazioni fuorvianti, e lanciano allarmi perché le famiglie non si imbarchino negli innumerevoli e costosi programmi alternativi, praticamente efficaci quanto un placebo. Il dottor Michael Fitzpatrick, padre di un figlio autistico, ben noto in Inghilterra per l’impegno personale e professionale sul tema, ha scritto il suo ultimo libro sul tema, Defeating Autism: a damaging delusion per allertare sul rischio che un’impresa già tremendamente difficile come quella di crescere un figlio dagli “special needs” (o diversamente abile che dir si voglia, con espressione per l’handicap meno pratica e più fantasiosamente buonista) possa diventare un compito ancora più gravoso, psicologi-

camente ed economicamente, se si decide di cedere alla “guerra all’autismo”. Fitzpatrick è convinto che i genitori, con le loro aspettative di completamento della normalità disperdano preziose energie già compromesse dalla convivenza con figli così complicati, cedendo alle lusinghe nient’altro che ingannevoli della medicina alternativa, ingaggiando guerre sbagliate contro le persone sbagliate.

Cure inutili e talvolta dannose non solo aggiungono ulteriori stress a famiglie già segnate, ma quel che è peggio, impediscono ai genitori di venire finalmente a patti con la patologia, continuando a vedere nel figlio qualcuno da redimere, migliorare, perfezionare, in vane imprese che continueranno a esporli solo a frustrazioni, e a togliere all’autistico il riconoscimento amorevole e il supporto familiare armonioso di cui ha bisogno prima d’ogni altra cosa per migliorare la sua qualità di relazione con l’ambiente. Il figlio altrimenti finirà per diventare peso insostenibile e dannazione, la sua malattia il simbolo del loro fallimento e della loro incapacità di renderlo “normale”, la loro battaglia sen-

za fine un’ossessione. Per non parlare del fatto che passare tempo a dedicarsi a quel figlio spesso è più faticoso del cercare freneticamente cure miracolose che lo “restituiscano”. «Noi abbiamo finito per accettare che il nostro James non potrà mai condurre una vita indipendente, e i nostri sforzi sono tesi ad assicurargli ogni cosa di cui abbia bisogno per mantenere la migliore possibile qualità di vita. Cerchiamo di vedere gli aspetti positivi. Ci rallegriamo del suo piacere per piccole cose, della sua risata contagiosa, del suo meraviglioso sorriso, dei suoi riccioli rossi. Non dovremo mai preoccuparci dei suoi voti agli esami o dell’ora del rientro a casa dopo una notte fuori. Facciamo tutto ciò che è possibile per rafforzare il suo legame col mondo, cercando di impegnarci in attività comuni coinvolgenti per tutta la famiglia che possano sviluppare relazioni sociali, come nuotare, portarlo fuori, al ristorante». Con questo Fitzpatrick si guarda bene, e ci tiene che si sappia, dall’invitare alla rassegnazione; lo scopo del libro è incoraggiare i genitori a ricorrere a interventi di provata efficacia e sicurezza e tenersi alla larga dalle perdite di tempo e

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dalle strade senza uscita offerti da chi vuole “sconfiggere l’autismo”. Cosa resa certo più difficile a quei genitori i cui ragazzi hanno tassi di aggressività e di relazione con l’ambiente tali da rendere la vita di chi li accudisce un quotidiano calvario. Genitori come quelli le cui dolorose testimonianze sono state utilizzate per prendere posizione in merito a possibili futuri test prenatali per l’individuazione del disturbo, dopo le recentissime ipotesi sul legame tra livello di testosterone e autismo pubblicate sul British Journal of Psychology dal professor Simon Baron Cohen, direttore del Centro di Ricerca sull’Autismo di Cambridge. Secondo i suoi studi, il prelievo di liquido amniotico potrebbe individuare la possibilità di sviluppare la malattia. La testimonianza della coppia prontamente intervistata dal Daily Mail all’indomani della notizia, che praticamente non conduce più una vita normale, ostaggio di un bambino il cui rapporto con l’ambiente esterno è difficilissimo e rende impraticabili le più normali attività quotidiane, fa concludere alla giornalista che se i suoi genitori avessero potuto sapere in tempo grazie a un test prenatale a cosa sarebbero andati in-

contro, ammesso questo diventi possibile, sarebbero senz’altro intervenuti.

«Guardiamo in faccia la realtà» titola il dettagliato resoconto delle giornate insieme a un bambino per cui un numero infinito di stimoli dall’ambiente possono essere fonte di scoppi di violenza incontrollata e comportamenti ossessivi: «avere un autistico ti distrugge la vita». Fortunatamente la reazione delle famiglie con autistici non ha fatto attendere commenti e ha chiesto più baccano sulla necessità di ottenere supporto e aiuto collettivo per i propri cittadini più deboli e meno enfasi sulla possibilità di interrompere una gravidanza con il sospetto, il solo sospetto, di avere un bambino magari soltanto lievemente autistico. Fitzpatrick ha immediatamente fatto presente che l’ipotesi del test prenatale per l’autismo è ancora fortunatamente remota, mentre è invece concreto il pericolo attuale delle diverse ipotesi sul testosterone sulla salute dei bambini diagnosticati come autistici. I gruppi di intervento “alternativi” già stanno somministrando farmaci per l’inibizione dell’ormone, in un crescendo di trattamenti lesivi della loro salute e della loro dignità.


cultura

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La polemica. Un nuovo libro di Hitchens riaccende i riflettori sulla querelle tra la Grecia e il British Museum per i “reperti di Fidia”

Alla ricerca dell’Arte perduta Dai marmi del Partenone alla Monna Lisa di Leonardo: tutte le opere e i fregi finiti all’estero e ancora oggi reclamati dai Paesi d’origine di Maurizio Stefanini hristopher Hitchens, il polemista anglo-americano famoso per la sua polemica anti-religiosa e anche per il modo in cui negli ultimi anni è passato dall’estrema sinistra a un’adesione alle idee dei neocon, ha ripubblicato per la terza volta in vent’anni il pamphlet con cui chiede al British Museum di restituire alla Grecia i famosi “marmi del Partenone”. In italiano, lo ha edito Fazi (I marmi del Partenone - Le ragioni della loro restituzione, pp.165 Euro 19,50). E la battaglia ci aiuta forse a ricordare il modo in cui negli ultimi anni la questione delle opere d’arte finite all’estero abbia infiammato non solo gli intellettuali, ma anche la gente della strada. «E mo’ ridatece pure la Gioconda!», fu il grido lanciato nel 2006 dai tifosi italiani, dopo la vittoria nella finale di Coppa del Mondo con la Francia.

C

Monna Lisa versus la capocciata di Zidane… È un’atavica rivendicazione nazionale, che già portò nel 1911 al famoso furto patriottico dell’imbianchino Vincenzo Peruggia, poi celebrato in quattro film, l’ultimo del 2006 su Canale 5, oltre che in una canzone di Ivan Graziani. «Il custode si lamenta/ certamente vuole un’altra botta in testa…». In realtà, è leggenda che il dipinto di Leonardo sia stato portato in Francia da Napoleone: lo aveva invece con sé lo stesso Leonardo quando si recò a lavorare per Francesco I, e al sovrano lo vendette per 4000 ducati d’oro, che non era proprio uno scherzo. D’altra parte, dopo Waterloo la gran parte dei capolavori effettivamente predati dalle armate bonapartisti dovette essere restituito, ed è per questo che il Torso del Belvedere e il Laocoonte stanno oggi a Roma. Sono però così tante le opere d’arte italiane che sono finite all’estero, in modo legittimo o illegittimo, che la Leggenda della Gioconda è sempre sembrata alla maggior parte dei nostri connazionali verosimile, pro-

Di recente, nonostante imalcontenti, l’Italia ha restituito a Etiopia e Libia la stele di Axum e la Venere di Cirene prio in quanto simbolo di una situazione più generale. Di recente, però, il nostro governo ha restituito a sua volta all’Etiopia quell’obelisco di Axum già davanti alla sede della Fao, davanti al quale il Nino Manfredi di Straziami ma di baci saziami dava appuntamenti sul giornale per ritrovare la sua perduta Marisa. E anche la Venere di Cirene è stata ridata alla Libia: il che, fatto dal governo di quel Berlusconi che ha portato al governo gli eredi di quel fascismo propugnatore dell’Impero e delle imprese coloniali, è quanto meno curioso. Ma anche la prima guerra della Nato l’Italia la fece in Kosovo, sotto un presidente del Consiglio formatosi nel vecchio Pci… In fondo, anche sull’obelisco e sulla Venere pendeva un po’

una leggenda nera stile Gioconda: se si pensa al modo in cui il primo fu recuperato per portarlo a Roma nel mentre giaceva in terra e a pezzi; e la seconda era stata ritrovata proprio dai nostri archeologi, giusto un anno dopo la fine della guerra di conquista della Libia. Ma in effetti è vero che anche il nostro patrimonio artistico è zeppo di capolavori predati a altri: dagli obelischi che i Cesari portarono via all’Egitto, a quei Cavalli di San Marco che i veneziani portarono via da Costantinopoli (e che anch’essi erano stati poi prelevati da Napoleone e restituiti dopo il 1815…). È giusto restituire

queste opere? Italia Nostra, ad esempio, ha provato a fare le barricate contro il trasferimento della Venere di Cirene, ma altre associazioni culturali si battono invece per i rimpatri. Ad esempio, quella che dal 1986 raccoglie firme e organizza manifestazioni per chiedere al Museo di Etnologia di Vienna di restituire al Messico la corona in piume di quetzal già appartenuta al sovrano azteco Montezuma, e che è proprio un discendente di Montezuma a presiedere. Una curiosa guerra economica si è scatenata poco fa tra il governo di Pechino e Christie’s su due bronzi già appartenuti a Yves Saint-Laurent, e che la società d’aste ha venduto lo stesso, pur dopo la minaccia di vedere bloccata ogni propria attività in Cina. Secondo la Repubblica Popolare, infatti, trattare quelle due teste di topo e di coniglio, trafugate dal Palazzo d’Estate di Pechino dalla truppe franco-britanniche durante le Guerre dell’Oppio, significa non tener conto «dei sentimenti del popolo cinese e dei diritti storici della Cina sui suoi beni culturali». E la proposta dell’ex-compagno dello stilista Pierre Bergé, che avrebbe restituito le due statuette in cambio di un’apertura politica e della libertà per il Tibet, hanno se possibile reso i governanti di Pechino ancora più furibondi. Il bello è che, pur scolpite in Cina e in stile cinese, le due teste sono in realtà opera sette-

centesca di un artista italiano: il gesuita Giuseppe Castiglione. Potremmo essere noi a inserirci nella disputa per rivendicare i bronzi?

La storia diventerebbe altrettanto intricata del Tesoro di Priamo: insieme di oggetti preziosi che il tedesco Heinrich Schliemann portò via dal territorio turco senza permesso per darli ai Musei Imperiali di Berlino, e che nel 1945 furono portati via dall’Armata Rossa. Ufficialmente sparito, il Tesoro saltò però fuori nel 1993 al Museo Puskin di Mosca, e nel 1996 la nuova Russia di Putin iniziò le trattative per restituirlo alla Germania. Ma i direttori del Puskin e dell’Ermitage di San Pietroburgo, in cui è stata dirottata una parte dei pezzi, si sono opposti, sull’assunto che il Tesoro va considerato un indennizzo per gli immensi danni che l’invasione tedesca provocò al Paese, e d’altra parte anche la Turchia ha chiesto la restituzione. Si è inserita perfino la Grecia, sebbene i suoi titoli si limitano alla notorietà che il greco Omero ha dato al sito di Troia, spingendo il tede-


cultura

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sco Schlimann a farvi i suoi scavi; e alla nazionalità della moglie di quello stesso Schliemann che fu la prima a adornarsi con quei monili dopo oltre 5000 anni (perché in realtà il Tesoro è di almeno 1800 anni più antico di quella Guerra di

Troia dell’Iliade in cui l’archeologo tedesco li aveva collocati).

A sinistra, il Partenone rielaborato in computer grafica con a fianco i fregi esposti al British Museum. In alto, la stele di Axum e la Venere di Cirene. Nella pagina a fianco, la Monna Lisa di Leonardo e, sotto, la copertina del libro di Hitchens “I marmi del Partenone-Le ragioni della loro restituzione”

Ma se i titoli della Grecia sul Tesoro di Priamo sono per lo meno evanescenti, quelli sui marmi di Elgin sono invece altrettanto solidi quanto quello stesso marmo. È lo stesso Hitchens, prima di polemizzare, a fornire quella precisa ricostruzione storica che inizia dall’anno 432 a.C.: quando dopo 15 anni di lavori il governo ateniese di Pericle completò la costruzione del Partenone. Che, come sa chi ha studiato il greco a scuola, viene da Athena Parthenos: la Athena Vergine da cui la città stessa prendeva il nome, e il cui precedente tempio era stato distrutto dai persiani durante la loro breve occupazione. Sembra, perché la loro fede zoroastriana aveva un orrore iconoclasta per le immagini di divinità, almeno altrettanto feroce che non quella dei Taleban. A ogni modo il complesso in marmo, situato su quell’Acropoli che era la parte più alta della città, fu realizzato con la supervisione del grande Fidia. E in principio fu anche un mo-

numento ai caduti delle guerre contro i persiani, oltre che un modo per assicurare ai cittadini una piena occupazione antelitteram. Apogeo dell’arte greca, il Partenone non passò indenne ai rivolgimenti dei millenni a venire, trovandosi via via trasformato prima dai bizantini in cattedrale ortodossa; poi dai crociati in chiesa cattolica; dopo ancora dagli ottomani in moschea e deposito di munizioni su cui venne a cadere in pieno una bomba veneziana. Ma, come avrebbe spiegato Byron in uno dei Pellegrinaggi del Cavaliere Aroldo, «di tanti predon vili che fèro/ A questo che d’Acropoli sul dorso/ Tempio d’innalza, oltraggio, onde costretta/ Pella si dilungò del suo vetusto/ Dominio lamentando, il più feroce,/ Il più dannoso e l’ultimo qual fue?/ Caledonia arrossisci! Un de’ tuoi figli». Lo scozzese Lord Elgin, ambasciatore britannico a Costantinopoli, che nel 1802 riuscì a strappare al sultano un avventuroso permesso a portarsi via quanti più marmi riuscisse.

In effetti, racconta Hitchens, la sua idea originaria era addirittura quella di usare quei capolavori per adornarsi una villa. È andata dunque anche bene che poi il tutto sia finito al British Museum. E non c’è dubbio che la vicinanza di quei capolavori abbia fecondato la passione per la classicità nell’Inghilterra del XIX secolo. Anche se, ci testimoniano i versi di Byron, anche a quei tempi l’operazione fu vista da molti come un misfatto. Oggi, però, la principale conseguenza resta nel grottesco sparpagliamento di un’opera d’arte ovviamente concepita per essere vista nel suo insieme. Dei 115 pannelli originali del fregio, infatti, 36 si trovano oggi ad Atene, uno al Louvre, 56 al British Museum, vari frammenti sono sparsi tra Palermo, Vienna e Karlsruhe, e il resto è scomparso. Mentre delle 92 metope 39 stanno ad Atene e 15 a Londra. Da decenni il governo greco chiede di poter ricomporre l’unitarietà del tutto, e da decenni il British Museum si rifiuta. E uno degli argomenti principali per cui lo fa è appunto questo: che succederebbe se tutti i musei e le collezioni d’arte al mondo dovessero restituire i propri pezzi? Risponde Hitchens che «il Partenone è un edificio unico non solo per i greci ma per tutta la civiltà che si definisce occidentale e vanta una discendenza dalle illuminate epoche antiche», e che «anche se colpita dalle guerre e dal tempo, la struttura è rimasta laddove è sempre stata e conserva una forma perfettamente riconoscibile». Insomma, «questo distingue inequivocabilmente il Partenone da qualsiasi altro precedente, fortunato o meno. Semplicemente non esiste alcun altro caso nella storia che soddisfi tutti questi criteri».


pagina 20 • 16 giugno 2009

spettacoli

Tra gli scaffali. La vita e le innumerevoli trasformazioni dell’artista romano nel nuovo libro di Massimo del Papa “Ti vivrò accanto”

I migliori anni di Renato Zero di Matteo Poddi

A fianco, un’immagine dell’artista romano Renato Zero. In basso, la copertina del libro a lui dedicato “Ti vivrò accanto – la favola infinita di Renato Zero”, di Massimo del Papa (320 pagine edite dalla padovana Meridiano Zero)

icominciare da Zero è possibile e necessario a volte. Soprattutto per chi, come Renato Zero, ha scelto questo numero come nome d’arte per presentarsi al grande pubblico. Ricominciare da Zero per Renato vuol dire essenzialmente ricominciare da sé stesso per trovare la forza di reinventarsi. Ed è proprio quello che l’artista romano ha fatto in occasione dell’uscita del suo nuovo disco Presente, che si è autoprodotto in seguito all’ufficializzazione del divorzio dalla sua storica casa discografica Sony/Bmg. Ma questo è solo l’ultimo dei tanti colpi di scena che costellano una carriera lunga e ricca di soddisfazioni ricostruita minuziosamente da Massimo del Papa, editorialista de Il mucchio selvaggio, nelle 320 pagine del libro Ti vivrò accanto – la favola infinita di Renato Zero edito dalla padovana Meridiano Zero. E la favola di Renato Fiacchini ha inizio nel 1972 quando, a soli ventidue anni, firma il suo primo contratto discografico. Ma in realtà i primi semi di quello che poi sarebbe diventato in seguito, Renato Zero li getta in due locali-simbolo della Roma degli anni ’60: il Ciak e soprattutto il Piper.

R

Qui si incontrano gli artisti italiani e internazionali destinati ad imporsi nei successivi trent’anni: da Patty Pravo ai Pink Floyd, da Loredana Bertè a Jimi Hendrix. È proprio sul palcoscenico del Piper che Zero ha la possibilità di sfogare tutta la sua voglia di fare ed è proprio grazie a questi anni di gavetta che riesce a sviluppare il suo talento di artista poliedrico sempre pronto a stupire chi ha di fronte anche a costo di non essere compreso da tutti. E infatti pochi artisti come lui riescono a dividere il pubblico

così nettamente. Amore o odio. Nessuna via di mezzo. Da una parte gli “zerofolli” o “sorcini”, dall’altra chi lo accusa di essere la brutta copia di David Bowie. Ma in realtà, per Zero, piume e paillettes non sono altro che un modo per esaltare la sua naturale stravaganza e non un escamotage per attirare l’attenzione attraverso l’ambiguità. Quello che si evince dal libro, infatti, è che Zero ha

(1978) che rappresenta la sua consacrazione. Nel corso degli anni i suoi testi diventano più maturi e riflessivi ma i suoi concerti sono sempre caratterizzati da trovate strabilianti fatte a posta per lasciare a bocca aperta gli spettatori come quando nel tour “Senza tregua”del 1980 fa il suo ingresso trionfale su un carro trainato da un cavallo bianco. Per dirla con le parole dell’autore: «La musica

Il volume ricostruisce «la favola di Renato Fiacchini» dagli esordi del 1972, a soli 22 anni, fino al nuovo album “Presente”. Passando per gli anni Sessanta del Ciak e del Piper chiaro fin da subito chi è e quale direzione vuole seguire. Da qui l’intransigente rifiuto delle limitazioni imposte alla sua libertà dalle esigenze discografiche e dalle convenienze del momento. Renato è da subito consapevole delle sue potenzialità e determinato ad accaparrarsi il suo posto nel mondo. Così, a dispetto delle intenzioni dei vertici della RCA, il suo disco d’esordio No! Mamma, no! (1973) esce in formato live, cosa assolutamente inedita per l’Italia. Questa esigenza di distinguersi e questa insofferenza verso chi tenta di appiccicargli un’etichetta addosso è riscontrabile in tutti i lavori dell’artista, da quelli meno baciati dal successo come Invenzioni (1974) a Zerolandia

per Renato Zero è il lievito, ma non potrà mai essere l’unico ingrediente, non potrà mai fare a meno dei colori, delle invenzioni, dei sapori». Suggestioni che Massimo del Papa riesce a restituire attraverso le parole descrivendo a uno a uno tutti i brani della lunga discografia dell’artista e introducendo ogni disco attraverso la ricostruzione del momento storico e personale della vita di Renato nel quale quel determinato lavoro vede la luce. E la vita di Zero non è stata sempre facile. Anzi. Dopo gli ottimi risultati ottenuti da album quali Zerofobia, Zerolandia e EroZero contenenti veri e proprie canzoni-manifesto come Madame, Mi vendo, Il triangolo e Il carrozzone gli anni ’80 mettono Renato di fronte a una serie

di perdite proprio nella cerchia delle persone a lui più care e i suoi dischi non possono che risentirne. Al dolore per la scomparsa del padre Domenico infatti si aggiunge quello per la morte della soubrette Stefania Rotolo con la quale Renato aveva condiviso i difficili inizi nonché la dipartita di Rino Gaetano. Complesso il rapporto tra Renato e l’artista d’origine calabrese.

Il legame tra i due trae linfa sicuramente da un certo agonismo ma anche e soprattutto da una stima reciproca e dalla condivisione dello stesso gruppo di musicisti in studio. Di fronte a questa serie di colpi che la vita gli infligge Renato cambia. In apparenza appare sempre lo stesso ma nei suoi testi, specie in quelli di Artide Antartide (1981), appare distaccato, quasi frigido e il pubblico si sente disorientato da questo cambio di rotta. La cifra dell’artista romano, infatti, era sempre stata fino a quel momento la capacità di comunicare con il pubblico con immediatezza e passionalità. Zero diventa di colpo consapevole di quanto pericoloso sia il suo atteggiamento di apertura totale e incondizionata verso gli altri. E in qualche modo si ritrae. Non si dona più completamente ai fans come in passato. Ma questo allontanamento dal pubblico non può che essere temporaneo. E infatti negli anni Novanta Renato Zero si ripresenta al pubblico completamente rigenerato e più dedito all’introspezione piuttosto che alle stravaganze degli esordi. Simbolo di questo ennesimo rinnovamento la canzone I migliori anni della nostra vita. E chissà che per Renato gli anni migliori siano proprio quelli a venire dal momento che ora può esprimersi ancora più liberamente di prima.


spettacoli

16 giugno 2009 • pagina 21

ltre 11 milioni di copie vendute nel mondo, 600mila solo in Italia, dove ha esordito al numero uno in classifica con tutti gli ultimi album pubblicati: questo è Ben Harper, artista unico nel suo genere, grande performer e musicista che torna con un nuovo album, White Lies for Dark Times, nono disco della sua carriera, e questa volta con una nuova formazione, i Relentless 7. Dopo la felice esperienza con gli Innocent Criminals, Ben Harper si rimette in gioco, questa volta esibendosi non da protagonista ma insieme ad altri tre musicisti, tutti fenomenali e con diverse esperienze professionali.

O

Tutto inizia qualche anno fa durante un suo tour. Ben Harper che in genere ama isolarsi durante le trasferte, questa volta scambia due chiacchiere con l’autista che insiste per fargli ascoltare un suo demo. Ne resta affascinato. Diventa amico della band con cui nasce una chimica musicale che ben non può ignorare. Nascono così per caso i Relentless 7 di cui Bene ha fatto in poco tempo la sua band principale. Quattro musicisti affamati di musica, che non possono restare fermi senza suonare. Il formidabile chitarrista Jason Mozersky, il batterista Jordan Richardson e il bassista Jesse Ingalls la cui combinazione musicale ha permesso a Ben Harper di tirar fuori il suo lato più heavy-rock che mancava nei suoi precedenti dischi. E sicuramente questo aspetto li accomuna al grande artista soul-raggae che adesso non rimpiange i tempi in cui era il centro dei suoi dischi. Ora è solo «l’angolo di un quadrato», come si è definito ultimamente in un’intervista. E

Musica. Nuova formazione (i Relentless) e nuovo disco (White Lies for Dark Times)

I «magnifici 7» di Ben Harper fiero di intraprendere questa nuova esperienza musicale. Ben segue le orme del vero rock, ritmi alla Rolling Stones, Lenny Cravitz, Jimmi Hendrix, per creare un disco impregnato di purissimo rock, senza mezzi termini. Enorme l’influenza che il chitarrista Mozersky ha avuto sull’artista californiano.

Di origine texana, si rifà ai suoi miti musicali, primo fra tutti Steve Ray Vaughan, un dio del blues. Durante la sua collaborazione con gli Innocent Criminals Ben Harper che ha avuto occasione di suonare con musicisti come John Paul Jones, bassista e tastierista dells leggendaria band anni Settanta i Led Zeppelin, e ancora Ringo Starr e John Lee Hooker, i R.E.M. I Pearl jam. Ma non finisce mai di imparare e rimettere in discussione il suo stile, la sua tecnica da chitarrista e compositore. White Lies for Dark Times sorprenderà molte persone. Intriso di rock, chitarre elettriche e sonorità distorte, ipnotiche, avvolgenti proprio come la sua voce, si allontana visibilmente dallo stile dei suoi album da so-

pezzi migliori del disco) sembrano usciti da Brothers and Sisters della Allman Brothers Band, mentre su Lay there and hate me si vola al Dylan di Slow train coming e nella ballad Blues skin thin ci si ispira ai Black Crowes (She talks to angels però resta lontana). Non manca neanche un tocco di U2 nel riff iniziale di Boots like these e una srizzatina d’occhio ai Kings of Leon in Up to you now probabile secondo singolo. Il brano migliore dell’album è comunque Keep it together con spruzzate psichedeliche di vaga matrice hendrxiana (anche se Jimi resta su un altro pianeta). Fly one time e Word suicide non aggiungono molto all’economia del lavoro al contrario dell’ultimo brano Faithully remain che restituisce ai fans di Diamonds on the inside il loro eroe. La collaborazione con Jason Mozerky fa nascere un nuovo Ben Harper capace di cimentarsi in un soulblues-rock con la classe e l’eleganza che lo contraddistingue da sempre, ma con una nuova energia, un nuovo vigore e la freschezza di un gruppo di “sconosciuti” come proprio i Relenteless 7.

Emozionato e pieno di trasporto di pari passo con la svolta politica del suo paese il chitarrista spiega come anche in musica almeno nella sua sia arrivato il momento di portare una ventata di cambiamento. Ma non tutto ruota attorno alle note. Ben Harper insieme a un di Valentina Gerace collettivo di designer ha presentato a New York la sua prilista (come Diamons on the inma collezione da stilista. L’uniside del 2003, Both sides of the ca cosa che per ora non le integun del 2006, Lifeline del 2007). ressa è il cinema, che definisce Up to You Now poteva essere la come una finzione. A differenparte melanconica di Monster za della musica che è anima, dei REM. Shimmer & Shine, il realtà. Ben Harper & Relenprimo singolo, ha colpi secchi e tless 7 si candidano come l’eprecisi e un ritornello trascivento musicale di questa annanante. Dopo una partenza così ta. Dal vivo sapranno irradiare fulminante nel resto dell’ altutta l’energia e la carica posibum la cura dei dettagli, semtiva delle grandi rock band. pre maniacale, a volte supera Dal concerto di Roma che in la scrittura dei braaprile ha registrato ni. Trattasi difatti di un altissimo numero un’opera che paga di fan, e in cui la band un forte tributo alla ha interpretato tra grande tradizione l’altro alcune cover rock e blues ameridei Rolling Stones e cana. L’intro di batLed Zeppelin, sono teria del singolo pronti a suonare a Shimmer and shine Berlino, Monaco e a è un chiaro richiaLondra dove è attesismo ai Pearl Jam di simo a giugno. Per poi Evolution e anche il tornare negli States e resto del brano è girare in lungo e in ampiamente accolargo il Paese della stabile alla produtradizione rock-blues. zione della band di Un trio che lascia poSeattle di cui Harco spazio all’immagiper anni addietro è nazione. Blues, rock, stato gruppo spalla. svisate di chitarra anProseguendo nelle ni ’70, riff energici e In alto, Ben Harper (anche a sinistra) citazioni l’opener aggressivi senza tropsi esibisce nel luglio 2007 in una manifestazione Number with no napi fronzoli. White per la raccolta di fondi a favore della me e Why must you Lies for Dark Times è candidatura di Obama. Sopra, la copertina always dress in sicuramente un disco del nuovo album “White Lies for Dark Times” black (uno dei due da non perdere.

Intriso di rock, chitarre elettriche e sonorità distorte avvolgenti proprio come la sua voce, si allontana visibilmente dallo stile dei suoi album da solista


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog L’OCCHIO DEL MONDO - Le opinioni della stampa internazionale

da ”Al Hayat” del 12/06/2009

I conti di Nasrallah di Walid Choucair el discorso post elettorale, il segretario generale di Hezbollah ha fatto una personale analisi degli esiti delle urne (che ha visto vincere il fronte filo-occidentale, ndr). I voti dati da chi appoggia il movimento della resistenza islamica «è un messaggio al mondo, che significa che la resistenza armata non è né la scelta verso un partito armato e neanche verso una banda armata. Ma una scelta popolare che deve essere trattata con rispetto». È una realtà, soprattutto se si parla del voto sciita nel Sud del Libano, nella valle della Bekaa e nella parte meridionale di Beirut. Questa forte base di consenso, espressa nel voto, è uno dei motivi principali della scelta libanese di proteggere il sistema dei partiti. Indipendentemente dal risultato elettorale, o dal tentativo – per niente utile – di mettersi a contare da che parte stia la maggioranza del popolo libanese. Un tentativo di distogliere l’attenzione dal fatto che l’opposizione ha fallito nel compito di diventare maggioranza di governo e che avrebbe conferito vera autorità e legittimità al partito di Dio. Durante la campagna elettorale Hezbollah era riuscito a compattare l’opposizione, mettendo insieme varie liste e partiti, in molti distretti dove il movimento di Nasrallah non aveva un forte radicamento. Una buona macchina elettorale che si è trasformata in eccessiva sicurezza. Hezbollah era circondato di un alone di eccessiva fiducia, di invincibilità e si dava per scontato fosse destinato a una sicura vittoria. Dove non c’è alcun dubbio che la mobilitazione della comunità sciita nel Libano abbia svolto un ruolo determinante nella mobilitazione del partito di Dio, è altrettanto necessario che i suoi supporter si rendano conto dell’urgenza di rispondere a ciò che i vertici di Hezbollah hanno definito una campagna della stampa interna-

N

zionale per demonizzare il movimento sciita. Un’iniziativa che, in ultima analisi, avrebbe dovuto compattare il partito per dimostrare invece che godeva di un reale consenso popolare. Anche non fosse stato in grado di diventare maggioranza e di poter quindi governare il Libano avrebbe conquistato certamente una legittimazione popolare. Circola l’opinione che questo risultato elettorale non cambi nulla nel panorama politico libanese, perché sull’altro fronte i partiti di governo hanno mantenuto la forza parlamentare già conquistata negli ultimi quattro anni.

Avere una legittimazione costituzionale avrebbe significato una grande vittoria per il partito di Nasrallah, soprattutto nei confronti di Siria e Iran. Negli equilibri della politica regionale avrebbe potuto dare un tono diverso a negoziati e ai confronti sugli interessi contrapposti. C’è chi pensa invece che Hezbollah non abbia voluto vincere, perché le responsabilità di governo gli avrebbe fatto perdere il contatto con la base, dove ora può meglio operare, evitando la prima linea degli eventi. Una visione che è contraddetta però dalla eccessiva autosufficienza con cui Hassan Nasrallah e i vertici del partito hanno dimostrato. Senza dimenticare il crollo in popolarità dell’alleato e leader del Free patriotic movement, il generale Michel Aoun. Una forza politica che ha fallito anche in un altro importante settore: hanno mancato la conquista di voti nella comunità sunnita che in gran parte è rimasta fedele a Saad al-Hariri, che può considerare il risultato delle urne come una

vittoria personale. E i suoi alleati non possono dire altrettanto. Insomma un riallineamento tra voto sunnita e sciita a favore di questi ultimi c’è stato. Con tutte le considerazioni che ciò potrebbe portare nel futuro del Libano. Al presidente in carica Suleiman, Hezbollah manda un avvertimento, avendo vinto anche nel distretto di Jbeil, roccaforte del presidente. Quella zona ti appartiene solo geograficamente, politicamente è nostra. Al generale Aoun, Nasrallah fa notare come la sua carriera politica ora sia nelle mani del movimento sciita. Per ultimo un messaggio interno al movimento diretto a Nabih Berri, visto che Hezbollah non è più disposto a sopportarne una certa indipendenza di scelte. Poi anche verso Jumblatt e la sua ultima riconversione politica: il suo passato non può essere dimenticato e dovrà passare le forche caudine del partito di Dio.

L’IMMAGINE

Un’altra sconfitta per la sinistra mentre l’Italia dei valori guadagna consensi Non c’è che dire, la sinistra ha fatto la magra figura di dimostrare a tutti gli italiani l’iniquità della propria politica che, basandosi solo sulla campagna denigratoria del premier, adesso si dice contenta anche se ha perso sonoramente, solo perché le previsioni sul 40% del premier non sono state rispettate. I voti persi dal Pd non sono rimasti a sinistra, nelle formazioni oltranziste o radicali che nel Parlamento europeo sono praticamente scomparse, ma sono addirittura andate a destra e nell’Idv, che si è sempre voluto configurare come l’alter ego di una sinistra in frantumi. La gente per le strade diceva in questi giorni che le illazioni sui fatti privati del premier, si sarebbero trasformati in un ulteriore flusso di voti verso il Pdl, ma forse è successo il contrario. Su certe cose non si scherza, e bene farebbe il premier a sporgere querele; per fatti che comunque non sono neanche bastati a reggere il tracollo di un Pd che adesso si regge solo sulle fantasie politiche e sui miraggi futuri.

Bruna Rosso

LA GIUSTA LETTURA

LA RABBIA ABBANDONATA

Dalla Chiesa ai cittadini comuni, si è richiesto una maggiore attenzione ai valori morali nell’espressione politica del proprio giudizio e, aggiungerei, anche nella conseguente lettura. Nel parlare di etica e morale, è come tuffarsi in un mare dove la bussola però può anche impazzire in determinate situazione e portarci lontano dai porti rassicuranti. Fin quando non si darà una corretta lettura del messaggio che la gente vuole dare ai politici, non si andrà mai avanti e questo è il primo principio morale in rispetto dell’altrui dignità, di cittadino, di contribuente. In sintesi, smettiamola con il passato e abbracciamo le riforme che un nuovo conservatorismo vuole fare ovunque, dall’Italia all’Europa intera.

Tremonti ha detto che le banche non hanno adoperato bene i bond e ciò ha penalizzato i finanziamenti alle imprese e anche le speranze di tanti cittadini che speravano in maggiori aperture del credito. I problemi economici provengono da una errata gestione del denaro proprio da parte degli istituti di credito; nessuno può porvi rimedio.

BR

Giacomo Salerno

OBAMA, ILLUSO VANEGGIATORE All’università del Cairo, l’unto del Signore Obama, nella duplice veste di neo messia cristiano e neo profeta maomettano, ha pronunciato secondo alcuni osservatori, uno storico discorso. In realtà l’irenico presidente americano, non ha fatto altro che ripetere vecchi

Ridere come una scimmia Chi ha riso per primo l’uomo o la scimmia? Forse la scimmia. Se finora si pensava che i primati ridessero solo per imitazione, ora non più. Grazie a uno studio condotto da alcuni ricercatori dell’università di Portsmouth, che hanno fatto il solletico a una ventina tra oranghi, gorilla, bonobo e scimpanzé, hanno scoperto che le scimmie non solo ridono come noi ma anche per gli stessi motivi: quando provano un’emozione

slogan pacifisti, come democrazia, libertà e diritti umani, che come l’11 settembre e i plurimi fallimenti di Camp David, Oslo e Ginevra hanno dimostrato, sono serviti unicamente a far sbellicare dalle risate gli adoratori della mezza luna. Non a caso, neppure il tempo di dispensare l’ennesima minestrina a base di buonismo e “volemose ben”, Bin Laden lo ha

minacciato, al Qaeda ha sgozzato un ostaggio britannico e in Italia sono stati arrestati 5 terroristi islamici. Barack Obama e i pacifisti occidentali, non sono ancora riusciti a ficcarsi in testa che il Corano in nessuna summa, parla di uguaglianza, di ecumenismo, di dialogo interreligioso, di pace e di rispetto per gli infedeli. Per converso, il libro vergato dal poliga-

mo Allah, incita all’odio e alla conversione forzata dei nemici. Peccato che l’ambizioso idealista, o più probabilmente, furbetto Obama, non passerà alla storia come il sensale che ha interrotto lo scontro di civiltà iniziato con la nascita dell’islam, ma come il più grande illuso vaneggiatore dei presidenti americani.

Gianni Toffali - Verona


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

È ora di andare a letto… in una stalla gelata Sono successe molte cose. Ieri a mezzogiorno nella casa vicino a noi una granata è entrata dalla finestra: un morto, un ferito grave. Stamane alle otto e mezza un compagno di squadra mentre era al lavoro ha riportato una grave ferita al ventre: vive ancora. Ieri a mezzogiorno uno shrapnel è scoppiato proprio sul mio capo, mentre discorrevo nel cortile del quartiere col luogotenente: una pallà danzò fra noi due, io l’ho raccolta per terra. Ci troviamo in un casolare vicino alla foresta della Dvina; grossi pezzi di artiglieria tedesca, che fino a ieri stavano densi attorno a noi, avariati per aver tirato troppo a lungo. Noi lavoriamo “di notte”, cioè usciamo alle quattro e mezza del pomeriggio, verso le cinque arriviamo all’ingresso delle trincee tedesche, per tre quarti d’ora corriamo nella oscurità attraverso il labirinto di quelle, inciampiamo, strisciamo, finché giungiamo al nostro posto di lavoro. Si lavora un’ora, poi per due ore di marcia di ritorno dall’ingresso della posizione fino al quartiere: si arriva alle tre. Si prende il caffè. Quindi a letto: naturalmente in una stalla gelata: paglia, mantello, coperta. Oggi c’erano due gradi di freddo. Karl Liebknecht a Rosa Luxemburg

ACCADDE OGGI

PIPER, CHE SPASSO! Mi ha molto entusiasmato, divertito, persino commosso. Erano forse anni che non si vedeva una commedia così in televisione: pulita, priva di volgarità, a tratti irriverente e persino romantica. Sto parlando di Piper, che Canale 5 ha trasmesso nelle ultime settimane con sei puntate magistralmente dirette da Francesco Vicario. Ambientazione perfetta: i mitici anni Sessanta vissuti dento e fuori dal mitico locale giovane ed alla moda dell’epoca tanto amato da Patty Pravo. E così Piper ci ha offerto una miriade di storie condensate (e persino intrecciate fra loro) in ogni puntata: un Teo Mammucari meno gigione del solito alla direzione di un autosalone a rischio fallimento ed una Anna Falchi che ritorna in tv, interpretando la sua determinatissima e romagnolissima neo-consorte; una Valeria Marini attrice ed amante del potente onorevole democristiano di turno; un giovane sognatore amante della musica ed il suo gruppo di Demoni, che vuole sfondare come cantante armato solo del suo entusiasmo, ma supportatissimo da una famiglia semplice e che fa un sacco di sacrifici per tirare a campare; un borghesissimo ed integerrimo giudice della Censura interpretato da un volutamente invecchiato Maurizio Casagrande, che finirà per innamorarsi di Alessia, una peperina piperina ben più giovane di lui ed interpretata da una magistrale Valen-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Stefano Zaccagnini (grafica)

16 giugno 1961 Rudolf Nureyev chiede asilo all’aeroporto Le Bourget di Parigi 1963 Valentina Tereshkova diventa la prima donna nello spazio 1972 Inaugurazione del New York Jazz Museum 1973 Apartheid: rivolte studentesche a Soweto, Sudafrica 1979 Nasce Antenna Sicilia a Catania 1981 Ken Taylor viene decorato per aver aiutato la fuga di sei americani dall’Iran 1983 Yuri Andropov diventa presidente dell’Urss 1998 Prima tornata delle elezioni presidenziali in Russia 1999 Thabo Mbeki viene eletto Presidente del Sudafrica 2000 A Roma parte l’hackmeeting 2000 2002 Papa Giovanni Paolo II proclama Padre Pio santo con il nome di San Pio da Pietralcina 2006 Viene arrestato con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, alla prostituzione e al falso, Vittorio Emanuele di Savoia

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

tina D’Agostino. Per finire una storia romanticissima, a tratti tragica, ma pur sempre romantica: un giovane artista fotografo che si innamorerà della bella Azzurra (Nathalie Rapti Gomez), ma alla quale finirà per rivelare di aver avuto una relazione precedente con sua madre, la Marchesa Cafiero (Carol Alt). È il sogno dei giovani degli anni Sessanta che percorre e pervade Piper ed anche il Piper, quello vero, di quell’epoca. Giovani ribelli, neoanticonformisti, riluttanti a scelte comode e borghesi, come si sarebbe detto un tempo. E forse è proprio il più borghese dei personaggi che alla fine lo dice, lo afferma con forza, persino con un megafono e nella situazione scomodissima di trovarsi sul conricione di un condominio. È infatti proprio il giudice della Censura Giampaoli che urla che forse ci siamo sbagliati a dare addosso alle piperine, ai capelloni, alle minigonne troppo corte, agli sconciati, ai sognatori e via discorrendo sarà proprio lui a scegliere una vita di ribellione, mandando a farsi benedire il suo borghesissimo matrimonio senza amore, per correre dalla giovanissima ed innamorata Alessia È una scena che, a parer mio, racchiude tutto il senso della commedia. Così come il perdono di Azzurra nei confronti del suo ragazzo, evitando così di scegliersi una vita comodamente borghese, ma senza sogni, senza vero amore.

PENSIERI DI FINE CAMPAGNA ELETTORALE Si è conclusa una campagna elettorale che, da qualsiasi lato sia stata vissuta, è stata sicuramente un’esperienza intensa per chi l’ha vissuta con impegno diretto e con passione. In questo momento di analisi delle percentuali, dei voti, dei risultati vorrei un po’ controcorrente ricordare che alla fine, se si è in buona fede, in qualità di candidati, sostenitori, simpatizzanti o semplici cittadini si è tutti alla ricerca, pur per strade diverse, della stessa cosa: la partecipazione alla vita democratica nelle nostre istituzioni. Vorrei così condividere questo pensiero con tutti gli uomini e le donne di buona fede. Una volta un amico mi disse se ne valeva la pena di ”contaminarsi” con la politica...di rovinarsi per intenderci. Spesso mi chiedo anch’io se ne valga la pena. Vale la pena di distogliersi dal proprio lavoro, dagli affetti, dalle pratiche quotidiane? È difficile dare una risposta sincera è capire dove finisca la passione civile e dove pericolosamente possa insidiarsi, invece, la vanità personale. Per questo penso ci sia bisogno di condivisione e di unità perchè da un lato ci si può tirare sempre indietro ma dall’altro il fardello può essere troppo pensante per uno “solo”. C’è bisogno di unità, di passione e di condivisione per far sì che l’impegno politico, inteso come forma più alta di volontariato al servizio del bene comune, possa essere l’unico faro di riferimento della nostra azione. Troppo spesso, infatti, deleghiamo al voto l’esercizio della nostra rappresentanza e lasciamo soli i nostri rappresentanti. Bisogno essere, invece, vigili ed al tempo stesso sentinelle, grilli parlanti, dispensatori di consigli e di tirate d’orecchie per far in modo che chiunque, per un certo periodo di tempo, riscontri nell’impegno pubblico la propria missione lo faccia in modo da portare questa ricchezza nella società. Siate lievito nelle masse....dice il Vangelo ed a chi spesso ricorda i De Gasperi, i Moro, i La Pira offriamo la speranza, che non vive solo di ”icone” ma di persone vive e vegete perchè la loro anima ed il loro pensiero solo così sarà veramente immortale. Dobbiamo essere cercatori perché è questo il senso della nostra fede e della speranza, in modo tale da scoprire che i De Gasperi, i Moro e i La Pira sono ancora in mezzo a noi, bisogna solo cercarli. Ignazio La Grotta C O O R D I N A T O R E RE G I O N A L E CI R C O L I LI B E R A L PU G L I A

APPUNTAMENTI GIUGNO 2009 VENERDÌ 19, ROMA, ORE 11 PALAZZO FERRAJOLI - PIAZZA COLONNA Riunione nazionale dei Coordinatori Regionali e Provinciali e dei Presidenti Comunali dei Circoli liberal. VINCENZO INVERSO, SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

Luca Bagatin

Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Aldo G. Ricci, Giorgio Israel, Robert Kagan,

Supplemento MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Filippo La Porta, Maria Maggiore,

Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti,

Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Gabriella Mecucci, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo,

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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