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ISSN 1827-8817 90129

Nei loro giochi, i bambini fanno tutti quei movimenti per convincerci che le loro immaginazioni sono realtà

di e h c a n cro

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Joseph Joubert

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Papa rigetta le tesi negazioniste

Un consiglio a Williamson: rilegga Köstler

LO SCONTRO TRA DI PIETRO E IL QUIRINALE

La piazza porta male all’ex Pm. Attacca di nuovo il Capo dello Stato, perché non sarebbe super partes sui temi della giustizia. Napolitano risponde duramente assieme a tutto il mondo politico. Il Pd censura il leader dell’Idv, che gioca a trasformare l’Italia in una perenne “Insultopoli”

di Renzo Foa uando si parla di negazionismo di fronte alla Shoah bisogna andare a rileggersi alcune pagine inaspettate dello Yogi e il Commissario, una raccolta di saggi di Arthur Köstler. Sono pagine in cui si parla dell’atteggiamento degli uomini davanti alla guerra: non tanto di trincee e incursioni, quanto piuttosto di coloro che dovevano capirne le ragioni generali, leggerne il filo, spiegarne lo svolgimento.

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s eg u e a pa gi n a 5 se r vi zi a p a gi na 4/5

Il fallimento del finto bipartitismo

Forza Panebianco, un passo ancora e siamo d’accordo di Rocco Buttiglione n un recente articolo sul Corriere, Angelo Panebianco riconosce e denuncia lo stato di avanzata decomposizione in cui si trova il bipolarismo all’italiana per la disomogeneità delle componenti confluite nei due grandi pseudopartiti. Questa realistica constatazione è accompagnata dalla preoccupazione di non tornare indietro e da una valutazione negativa di sistemi politici non bipartitici. Panebianco è una delle voci più competenti ed intellettualmente oneste che intervengono nel nostro dibattito pubblico.

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Ahmadinejad gli risponde picche

Barack Obama è un profeta o un utopista?

L’arbitro e il provocatore alle pagine 2 e 3

Mai così in basso il pil globale. L’Onu: 50 milioni di nuovi disoccupati

Allarme Fmi: siamo come nel ‘45 E l’Italia litiga sul sostegno all’industria automobilistica di Alessandro D’Amato

L’economista Carlo Secchi

ROMA. È la peggior crisi del dopo-

«Aiuti pubblici? Sì, al mercato»

n vecchio adagio cita: «Chi ben comincia è a metà dell’opera». Molti osservatori, tra i quali il sottoscritto, erano perplessi sull’impreparazione che il neo presidente americano avrebbe potuto dimostrare in virtù di un cursus honorum internazionalista scarso. Probabilmente, lo stesso viaggio in Europa che Obama ha svolto prima delle elezioni deve avergli fatto comprendere che non si poteva fare a meno di interessarsi dei problemi del mondo.

guerra, e il pil globale crescerà dello 0,5%: il ritmo più basso da 60 anni. Il Fondo Monetario Internazionale, traccia previsioni a tinte fosche per il 2009 e il 2010, rivedendo al ribasso i numeri annunciati a novembre. Che vedono un pessimo risultato per l’anno in corso e una ripresa per il 2010, ma soltanto per alcuni paesi. Tra i quali non c’è l’Italia. Ma è l’Onu a lanciare l’allarme più drammatico: nel 2009 ci saranno 50 milioni di nuovi disoccupati. I dati sono terribili, soprattutto perché l’intero mondo risente della crisi, economie consolidate o emergenti che siano.

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di Andrea Margelletti

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seg2009 ue a p•agEinURO a 9 1,00 (10,00 GIOVEDÌ 29 GENNAIO

CON I QUADERNI)

di Gabriella Mecucci entre il Fondo monetario internazionale rende ancora più pesanti le sue previsioni sulla crisi, in Italia si discute di sovvenzioni all’industria automobilistica e l’aiuto di Stato viene letto come diretto a un’unica azienda, la Fiat. Negli Stati Uniti molti hanno criticato le sovvenzioni pubbliche, ma nessuno ci ha visto un’elargizione monopolistica.

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Mentre il Fondo monetario e l’Onu lanciano l’allarme disoccupazione, in Italia la Fiat ha chiesto a Tremonti più aiuti per il settore auto

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NUMERO

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19.30


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Antipolitica. Polemiche per la piazza dell’Idv contro il Colle: «Sul lodo Alfano non è arbitro»

Lo psicodramma di Tonino Prima infiamma la sua folla attaccando i silenzi del Quirinale Poi, dopo la risposta dura di Napolitano, tenta la marcia indietro di Marco Palombi

ROMA. «Il post partito». Pino Pisicchio, che dell’Italia dei Valori è deputato, ha definito così il movimento di Antonio Di Pietro in un suo saggio uscito alla fine del 2008. Il post partito perché, al pari di Forza Italia e del costituendo Pdl, nasce sul carisma del leader, con incompiute regole partecipative, su assi d’opinione decisamente ridotti rispetto ai partitimondo del Novecento, ma anche, e forse soprattutto, perché Idv pare sempre oscillare tra il desiderio di strutturarsi all’interno delle istituzioni e la sua anima movimentista, quella che l’ha portata ad identificarsi nei girotondi prima, nel “grillismo” poi. Quel che è accaduto ieri mattina in piazza Farnese a Roma non deve sorprendere: è il prevalere dell’istinto “piazzarolo” del leader, la sua naturale connessione con gli umori della massa che si trova davanti.

Si dirà: Di Pietro ha attaccato il presidente della Repubblica a freddo. È vero, ma in realtà l’ex pubblico ministero è stato come trascinato in questo gorgo dalle sue stesse intemperanze e dall’equivoco di fondo della sua presenza in politica. Quel che sarebbe successo stava già nella ragione sociale della manifestazione, puro teatro da strada, un rito in cui applausi e consenso del pubblico avevano la funzione dell’amen nella liturgia cristiana. Gli organizzatori dell’happening di ieri mattina erano i meet up promossi da Beppe Grillo: era di un meet up napoletano lo striscione contro il capo dello Stato («Napolitano dorme, l’Italia insorge») rimosso in automatico dalla polizia; è stato un membro dei meet up ad incalzare Di Pietro sulla questione nel retropalco poco prima del suo comizio. Tutte queste sollecitazioni hanno finito per incendiare la speciale attitudine attoriale con cui il nostro sale su un palco: Di Pietro è diventato Tonino, s’è messo davanti al microfono ed è partita l’intemerata contro Napolitano, reo di apparire «poco arbitro e poco terzo». «Lo possiamo dire o no, rispettosamente, che non siamo d’accordo che si lasci passare il Lodo Alfano? Che non siamo

Lo striscione dello scandalo: «Napolitano dorme, il popolo insorge»

Le frasi di Insultopoli (e le reazioni) Ecco le frasi di Antonio Di Pietro al comizio «Consideriamo le offese fatte al presidente Nadi Piazza Farnese e le risposte del Quirinale e politano come offese a tutti i parlamentari, a dei leader dei partiti. tutti i cittadini che a lui guardano con fiducia. Sono certo di interpretare il sentimento unani«Vogliono farci ancora una volta lo scherzet- me della nostra assemblea nell’esprimere la più to di Piazza Navona. Ma in una civile piazza convinta solidarietà e il più profondo rispetto c’è il diritto a manifestare. Presidente Napo- per il presidente della Repubblica, oggetto oggi litano, possiamo permetterci di accogliere in di accuse offensive ed ingiuste. Il diritto di critiquesta piazza chi non è d’accordo con alcuni ca è uno dei pilastri su cui si fondano le nostre suoi silenzi?». Di Pietro prende come spunto libertà costituzionali e va quindi sempre garanla rimozione nella piazza di uno striscione tito e tutelato. Ma questo diritto non può concontro il presidente della Repubblica. La sentire che venga ingiustamente offeso chi rapquestura di Roma precisa che lo striscione presenta la nostra Costituzione, la nostra unità non è stato sequestrato ma solo rimosso do- nazionale, le nostre libertà». po un intervento della polizia. «Napolitano Renato Schifani, presidente del Senato dorme, il popolo insorge», c’era scritto. L’ex pm insiste e va oltre. «A Lei - prosegue rivol- «Credo che l’applauso corale con cui l’assemgendosi ancora a Napolitano - che dovrebbe blea ha salutato gli interventi dei colleghi in soessere arbitro, possiamo dire che a volte il lidarietà col Capo dello Stato sia la più evidensuo giudizio ci appare poco da arbitro e poco te manifestazione di come il Presidente della da terzo?». L’ex pm precisa che la critica vie- Repubblica rappresenti l’unità della nazione e ne fatta «rispettosamente», ma poi aggiunge: anche la dimostrazione di come il Parlamento «Il silenzio uccide, il silenzio è un comporta- ritenga il Capo dello Stato come il garante dei mento mafioso». diritti e doveri e il rispettoso e solerte difensore Antonio Di Pietro, leader dell’Idv delle prerogative del Parlamento». Gianfranco Fini, presidente della Camera «La presidenza della Repubblica è totalmente estranea alla vicenda dello striscione nella «Le espressioni usate da Antonio Di Pietro nei manifestazione svoltasi oggi in Piazza Farne- confronti del Presidente della Repubblica se a Roma a cui fa riferimento l’onorevole Di Giorgio Napolitano sono da stigmatizzare e da Pietro. Del tutto pretestuose sono comunque ritenersi offensive e pretestuose. Non è possida considerare le offensive espressioni usate bile denigrare in questo modo le istituzioni, dallo stesso onorevole Di Pietro per contesta- ancor di meno si ci si può rivolgere in quel more presunti silenzi del Capo dello Stato, le cui do al capo dello Stato. Di Pietro dovrebbe chieprese di posizione avvengono nella scrupolo- dere scusa non solo al Presidente, ma anche a sa osservanza delle prerogative che la Costi- tutti i cittadini che guardano al Presidente con tuzione gli attribuisce». fiducia». Ufficio stampa Presidenza della Repubblica Lorenzo Cesa, segretario nazionale Udc

d’accordo nel vedere i terroristi che fanno i saputoni mentre le vittime vengono dimenticate?». A questo punto del discorso Di Pietro, drogato dalla propria foga e dalle urla della piazza, è già completamente preda del suo personaggio: «Napolitano faccia un discorso coraggioso e noi lo appoggeremo, dica che i mercanti devono andare fuori dal tempio, che i condannati devono andare fuori dal Parlamento e noi lo appoggeremo». Infine, la valanga: «Noi non staremo mai zitti, perché il silenzio è un comportamento mafioso». Folla in delirio, applausi, grida di evviva. Sotto al palco sorrideva felice il deputato manettaro Francesco Barbato, proprio accanto al

profilo elegante di Aniello Formisano, il collega di gruppo che lo stesso Barbato ha

Grillo annuncia: «Alle comunali, liste con il mio nome. Ma non voglio candidati provenienti dai partiti: sono tutti morti» accusato di essere in strani rapporti con alcuni personaggi in odor di camorra.

A quel punto la rappresentazione, aperta dalle testimonianze di alcuni parenti di vit-

time della mafia, era pronta per il suo acme: dopo l’intervento dei giornalisti Marco Travaglio e Carlo Vulpio sui temi della giustizia, entrambi duri ma nel complesso sobri, è arrivato il momento dell’ostensione alla folla della reliquia vivente: Beppe Grillo. Il comico ha fatto un breve show durante il quale ha avuto modo di definire Veltroni «uno scemo», Di Pietro «l’unico che fa un po’ d’opposizione» e sponsorizzare le sue liste civiche per le prossime comunali, all’interno delle quali non deve esserci «nessun iscritto ai partiti» perché «i partiti sono morti» (si presume, anche Idv quindi). A quel punto il pubblico è passato dal delirio al deliquio, la com-

penetrazione tra l’oggetto sacro e i fedeli era completa. E allora: la messa è finita, andate in pace. Come capita, però, in alcune performances estreme Antonio Di Pietro, passata un’oretta abbondante, era ancora preda della sua foga attoriale: «Non parlo con questa informazione italiana», replicava in un corridoio della Camera a chi gli chiedeva un chiarimento circa le parole rivolte al capo dello Stato. Il Quirinale, peraltro, non ha atteso chiarimenti e ha buttato lì una nota durissima, in cui definiva le parole del leader di Italia dei Valori «offensive» e «del tutto pretestuose». Sono dovute passare tre ore e mezza prima che Tonino tornasse Di Pietro e diffondesse una nota in cui tentava di accreditare la tesi che le sue parole avevano a che fare solo con la questione dello striscione rimosso e accusava di «oggettiva disinformazione» il comunicato della presidenza della Repubblica. La toppa peggio del buco.

Intanto Idv s’era presa le contumelie dell’intero mondo politico italiano e persino la dissociazione di Beppe Giulietti, deputato indipendente del partito. Questo, però, non è un problema per le antropologie politiche che Di Pietro sollecita con la sua presenza nell’agone pubblico: la sua ragione sociale è pescare consenso presso un pubblico che si percepisce attivo nella società solo attraverso l’indignazione, il “vergognatevi”, solo attraverso il rito collettivo del “vaffa”, il controllo censorio e vagamente maniacale della pulizia delle biografie altrui sul web. Sarebbe quella che si chiama antipolitica, se non fosse oramai da tempo una delle forme della politica. È accaduto ieri, tornerà ad accadere: se esiste lo psiconano di cui parla Grillo (Berlusconi), esiste pure lo psico-Tonino, attore agito dal suo stesso personaggio. Cadrebbe nel vuoto, con lui, l’invito con cui Winston Churchill ridusse al silenzio un deputato che continuava ad interromperlo: «Lei, signore, non dovrebbe secernere più indignazione di quanta non sia decentemente in grado di contenere».


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29 gennaio 2009 • pagina 3

Solo la Lega non prende posizione sulle parole dell’ex magistrato

Il Pdl torna unito. Contro Di Pietro di Francesco Capozza

ROMA. Il 10 maggio del 2006 non lo hanno votato, neppure al quarto scrutinio, quello che ha portato Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica. Da tempo, però, ogni qual volta c’è da difendere il capo dello Stato, il Pdl è in primissima linea e far sentire la sua voce. «La misura è colma. Il richiamo in aula da parte del Presidente Fini a Di Pietro che oggi è arrivato ad attaccare il capo dello Stato era doveroso. Non è possibile andare avanti così, il leader dell’Italia dei Valori a questo punto ha il dovere di riflettere seriamente sul suo modo di stare dentro le Istituzioni del Paese», afferma Antonio Leone, esponente Pdl e vicepresidente della Camera.

Gli fa eco Maurizio Gasparri, presidente dei senatori del Pdl: «Già in passato si è andati ben oltre il diritto di critica e dire che Napolitano dorme, tollerare striscioni con scritto: l’Italia insorge, o che il silenzio è mafioso, è un’offesa che coinvolge tutti e va oltre la critica». L’ex colonnello di An, oggi definito uno dei più berlusconiani dell’ex partito presieduto da Fini, ha poi edulcorato il suo messaggio: «lo dico da persona che ha avuto un percorso diverso dal presidente Napolitano, ma al quale ho potuto pubblicamente riconoscere di aver saputo sempre rappresentare un riferimento di saggezza per il Paese. Ci auguriamo che non ci siano ulteriori atteggiamenti di questa natura». Non è stato da meno Fabrizio Cicchitto, omologo di Gasparri alla Camera, il quale, prendendo la parola nell’Aula di Montecitorio ha affermato: «Manifestiamo

Veltroni: «Inaccettabile» Soro: «Distanti dall’Idv»

Eppure per il Pd la rottura con l’ex pm resta un tabù di Errico Novi

ROMA. Rompere o no? Il dilemma assilla Walter. Come se non bastasse la questione di coscienza, i dubbi del segretario democratico sull’alleanza con Di Pietro sono alimentati anche dalle diverse posizioni all’interno del partito. Che in realtà riflettono un rischio reale: consentire all’ex pm un’avanzata notevole alle elezioni Europee.Tenere l’Italia dei valori vincolata da un seppur flebile accordo con il Pd può consentire di attenuarne le intemperanze. Con l’assoluta libertà, e soprattutto con l’ulteriore alibi di essere lasciato solo nelle sue battaglie anche dal

maggior partito dell’opposizione, l’uomo di Mani pulite rischia di vedere effettivamente moltiplicato il proprio consenso potenziale.

A paralizzare, o quanto meno a rallentare di molto, le decisioni del Nazareno è il nodo dei conflitti interni. Veltroni sembra oppresso, come forse non gli era mai capitato nei mesi scorsi, dalla preoccupazione di ritrovarsi addosso la contraerea dalemiana subito dopo l’election day di giugno. Ne è prova l’intesa frettolosa raggiunta con la maggioranza sulla legge per il voto europeo. La formale sospensione dell’accordo con l’Italia dei valori è un’altra precauzione rispetto al pericolo del

solidarietà al presidente Napolitano davanti al volgare attacco di cui è stato fatto segno da Antonio Di Pietro».

Sulla stessa linea, anche il ministro degli Esteri Franco Frattini: «Il leader dell’Italia dei Valori dimentica, ancora una volta, il primato ed il ruolo delle istituzioni, e cerca nella piazza la provocazione contro il nostro Presidente. Un presidente che è, al contrario, quotidianamente interprete di correttezza ed imparzialità istituzionali, e mai è stato silenzioso nel difendere e promuovere la legalità e la costituzione repubblicana. Il coro bipartisan di apprezzamento che questo “delirio” ha provocato e sta provocando ne è la prova più sincera e più convincente». Insomma, ancora una volta il Pdl ritrova compattezza nella difesa del presidente della Repubblica: un’occasione utilissima, in fondo, perché serve a stemperare, almeno per un giorno, le divisioni più o meno manifeste che hanno segnato ieri il capitolo intercettazioni nell’iter della riforma della giustizia e la scorsa settimana il faticosissimo varo del federalismo fiscale. A questo proposito, comunque, c’è un singolare silenzio da segnalare: quello della Lega. Non ci sono state levate di scudi, ieri, da parte del Caroccio in difesa del presidente attaccato dalla piazza di Di Pietro. Sorprendente? Fino a un certo punto, per un partito che non solo non ha mai amato Napolitano, ma non perde occasione per mettere in discussione il suo ruolo. Federalista anche nei confronti degli insulti, insomma.

tracollo di consensi. Non sembrano disposti a lasciare altro margine al segretario Francesco Rutelli, Enrico Letta e Marco Follini. L’ex segretario dell’Udc è stato il più esplicito di tutti: «A questo punto è arrivato il momento che Veltroni dichiari finalmente chiusa la dissennata alleanza con Di Pietro: dopo l’aggressione al Capo dello Stato, predichette, richiamini e piccoli distinguo diventano un esercizio di tartufismo politico». A questo si riduce, secondo Follini, la reazione di Walter, che pure ha definito «inaccettabili e irricevibili» gli attacchi dell’ex ministro al Quirinale. Piero Fassino si è espresso con termini identici a quelli di Veltroni: «Le frasi di Di Pietro non possono che essere respinte da ogni italiano che ben conosca il rigore istituzionale e l’integrità morale e politica del presidente Napolitano». Già Vannino Chiti è più duro: «Ingiurie inammissibili: Di Pietro deve vergognarsi e scusarsi: il suo è un contributo al degrado della vita politica e al diffondersi della sfiducia nelle istituzioni. Dovremo tenerne conto nei rapporti politici con l’Idv».

Davvero se ne terrà conto? Alle Amministrative non cambierà nulla, questo è sicuro. La vecchia coalizione di centrosinistra sopravviverà quasi dappertutto, fatte salve impuntature unilaterali del Prc di Paolo Ferrero, mentre la neonata creatura vendolia-

na cercherà in ogni modo di restare abbarbicata ai democratici. Alcuni tra i meno severi con l’uomo di Mani pulite coltivano una preoccupazione diversa da quella del segretario: la definitiva archiviazione di qualsiasi residuo di antiberlusconismo e di giustizialismo. Rosy Bindi, per esempio, evita di sbattere la porta in faccia all’Italia dei valori: «Di Pietro farebbe bene a chiedere scusa al presidente della Repubblica anziché puntualizzare il significato di parole oggettivamente offensive», dice. Poi però aggiunge che l’ex pm «farebbe bene anche a interrogarsi sull’isolamento in cui si trova ogni volta che si abbandona a queste intemperanze: un isolamento che non è quello dei profeti ma di chi smarrisce il senso delle istituzioni, e chi ama davvero la democrazia non se lo può permettere». Secondo la Bindi dunque si può ancora supporre che il leader dell’Italia dei valori abbia a cuore le sorti della democrazia. Qualche dubbio ce l’ha il capogruppo del Pd a Montecitorio, Antonello Soro: «Trovo insostenibile che Di Pietro non perda occasione, quando va in piazza, per offendere il Capo dello Stato. Non possiamo non esprimere un fermo dissenso e misurare ancora una volta una grande distanza da lui». Che questa distanza è incolmabile dovrebbe dirlo però Veltroni. Non sembra intenzionato a farlo, almeno per ora.


mondo

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Polemiche. Nel corso dell’udienza generale, Benedetto XVI esprime piena e indiscutibile solidarietà agli ebrei

«Non si neghi la Shoah» Il Papa rigetta le tesi del vescovo Williamson E i rabbini di Israele apprezzano il passo avanti di Vincenzo Faccioli Pintozzi na «piena e indiscutibile solidarietà» con gli ebrei e il monito, rivolto ai vescovi lefebvriani perdonati sabato scorso, a «realizzare la piena comunione con la Chiesa, testimoniando così vera fedeltà e vero riconoscimento del magistero e dell’autorità del Papa e del Concilio Vaticano II». In pratica, un richiamo all’obbedienza che mette a tacere le scandalose opinioni negazioniste di uno dei quattro presuli ri-accolti da Benedetto XVI, Williamson, che nega la Shoah. Sono le parole che ha pronunciato ieri il papa davanti alla folla riunita in piazza S. Pietro per la consueta udienza generale. Prima del saluto ai pellegrini di lingua italiana, il pontefice ha ricordato: «In questi giorni nei quali ricordiamo la Shoah, mi ritornano alla memoria le immagini raccolte nelle mie ripetute visite ad Auschwitz. Mentre rinnovo con affetto l’espressione della mia piena e indiscutibile solidarietà con i nostri fratelli destinatari della Prima Alleanza, auspico che la memoria della Shoah induca l’umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell’uomo. La Shoah sia per tutti monito contro l’oblio, contro la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro

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un solo essere umano è violenza contro tutti».

Lo sterminio degli ebrei da parte delle truppe naziste, ha concluso Benedetto XVI, «insegni specialmente sia alle vecchie sia alle nuove generazioni che solo il faticoso cammino dell’ascolto e del dialogo, dell’amore e del perdono conduce i popoli, le culture e le religioni

Secondo Anna Foa, le parole di Joseph Ratzinger riaprono la strada del dialogo. E i vescovi tedeschi “esiliano” Williamson del mondo all’auspicato traguardo della fraternità e della pace nella verità. Mai più la violenza umili la dignità dell’uomo». Secondo la storica Anna Foa, «le dichiarazioni di Benedetto XVI sulla riammissione dei lefebvriani nella Chiesa e sul negazionismo della Shoah hanno sgombrato se non tutte certo molte delle nubi che negli ultimi giorni si erano addensate sul dialogo ebraico-cristiano. “Necessaria e benvenuta”e tale da contribuire “a chiarire molti

Parla Fiamma Nirenstein

«Ignorare l’Olocausto serve solo a prepararne uno nuovo» di Massimo Fazzi

equivoci sia sul negazionismo sia sul rispetto del Concilio”, la definisce il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni. Importante sembra innanzitutto che dal pontefice sia venuta, dopo le affermazioni di Williamson e dopo le deboli prese di distanza dei lefebvriani, una presa di posizione netta e senza equivoci su questi temi cruciali dell’antisemitismo che le vicende di questi giorni sembravano aver rimesso in discussione».

Per la studiosa, in quest’ottica, sono importanti anche «le dichiarazioni del Papa sulla riammissione del movimento lefebvriano, un passo che viene subordinato all’accettazione della linea della Chiesa e del concilio. Un passo iniziale, insomma, di un percorso ancora da compiere. Questo non può non rassicurare il mondo ebraico, che aveva giustamente temuto le conseguenze che la riammissione del gruppo scismatico nella Chiesa avrebbe comportato sul rapporto con gli ebrei e le altre religioni». L’antigiudaismo, spiega, «è infatti parte integrante, non marginale, del tradizionalismo dei seguaci di Lefebvre, almeno di una parte notevole di essi. La conseguenza poteva essere quella di restituire cittadinanza non soltanto nella Chiesa, ma

anche nella catechesi e nell’insegnamento religioso, ad affermazioni antiebraiche o a pressioni conversionistiche. Decenni di faticoso ed assiduo lavoro volto a diffondere le posizioni conciliari sugli ebrei potevano essere vanificate. Ora, le parole di Benedetto XVI sembrano sgombrare il campo da queste ipotesi catastrofiche e riaprire infine la strada al dialogo». Nel frattempo, nonostante le polemiche, il vescovo negazionista non torna sui propri passi. Dopo l’invito (restituito al mittente) a ritirare le proprie dichiara-

l negazionismo copre un antisemitismo genocida, che oggi più che mai deve essere contrastato. Perché non è più un vezzo da intellettuali, ma una minaccia guidata in primis dall’Iran di Ahmadinejad (che sta costruendo l’atomica) e portata avanti da tutto il jihadismo islamico. È l’opinione dell’onorevole Fiamma Nirenstein, che a liberal commenta le posizioni del vescovo Williamson e punta il dito contro il ritorno di «un’infamia senza giustificazioni». Onorevole, cosa pensa della polemica innestata dal re-inserimento dei vescovi lefebvriani in seno alla Chiesa, alla luce delle dichiarazioni antisemite di uno di loro? Nonostante sia evidente a tutti che la Santa Sede ha il diritto di fare le scelte che ritiene migliori, la questione di questo vescovo è stata terribilmente grave. Ci si deve rendere conto di un fatto: la questione della Shoah è la più sensibile del mondo attuale, che gli ebrei portano ancora sulla pelle, nelle loro famiglie, nella loro memoria viva. Una tragedia che ha un carattere gigantesco, una sofferenza indicibile. Inoltre, bisogna

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zioni sullo sterminio degli ebrei, il vescovo di Ratisbona gli ha proibito le chiese della città tedesca.

Secondo monsignor Gerhard Ludwig Müller, Williamson si è infatti «posto fuori dalla Chiesa e ha pronunciato parole inumane e sacrileghe». Le reazioni del mondo ecclesiastico sembrano aver convinto anche il Rabbinato di Israele, che - secondo il Jerusalem Post - aveva scritto una lettera al cardinale Kasper per annullare l’incontro con la Commissione per il dia-

sottolineare che in questi ultimi anni il negazionismo si è trasformato: non è più la bizzarria di una banda di idioti nazisti e lunatici, che si mettono a negare quella tragedia nonostante esista una memoria così chiara, una memoria sostenuta da ricordi, da archivi giganteschi, da milioni di fotografie. Il negazionismo si è trasformato fino a diventatare una bandiera politica, sventolata da chi vuole distruggere il popolo ebraico. Sventolata da un capo fila come Ahmadinejad, che viene seguito da tutti i movimenti di ispirazione jihadista e islamista con carattere radicale, primo fra tutti Hamas. In tanti hanno negato, diminuito o minimizzato l’Olocausto: lo fanno per dire che gli ebrei sono così abietti da mentire anche su una questione con un carattere morale così importante come lo sterminio. E che quindi devono essere distrutti. Si nega l’Olocausto per costruirne un altro. È la delegittimazione di tutto. Ma non è soltanto questo: i negazionisti accusano gli ebrei di essere come i nazisti. Da una parte, quindi, negano la tragedia e dall’altra usano continuamente questo pazzesco parallelo.


mondo

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Lo Yogi e il commissario, scritto nel 1944, arriva intatto ai giorni nostri

Un consiglio a Williamson: rilegga Arthur Köstler di Renzo Foa segue dalla prima

logo fra ebrei e cattolici, previsto per il prossimo 2 marzo, e minaccia una rottura ufficiale con la Santa Sede.

Fonti vaticane confermano l’esistenza di una lettera, ancora non recapitata. E Oded Weiner, direttore generale del Rabbinato, ha commentato in serata: «Le parole del Papa sono un grande passo in avanti per la soluzione della questione». La dichiarazione, ha aggiunto, «è molto importante per noi e per il mondo intero». Ricucendo lo strappo di poche ore prima.

Sopra, due rabbini di Israele e Benedetto XVI, che ieri ha ricordato gli orrori commessi durante la Shoah. A destra, Arthur Köstler, autore di una serie di saggi contro il negazionismo. In basso a sinistra, la parlamentare Fiamma Nirenstein

Oramai la negazione non è più un vezzo da intellettuali: è diventata una bandiera genocida di antisemitismo conclamato e attivo. Quindi non può essere annesso in seno alla Chiesa chi abbraccia queste teorie e ne fa propaganda, con intenti estremisti e palesemente antisemiti. Quindi, ora, qual è il vero pericolo che si corre? Voglio ricordare di nuovo che il negazionismo copre un antisemitismo genocida. Ieri poteva essere accolto con un’alzata di spalle e con disprezzo, perché non sarebbe potuto essere nient’altro che un’infamia. Oggi è diventato un movimento pericolosissimo, perché Ahmadinejad nello stesso momento dice che l’Olocausto non è mai esistito e che vuole distruggere tutti gli ebrei. Oggi nessuno si può permettere – dato che questa è diventata una minaccia molto seria, accompagnata dalla costruzione della bomba atomica e dall’organizzazione mondiale di una quantità di attacchi contro gli ebrei – di dare spazio a queste teorie, che acquisiscono un intento realmente omicida.

Chi ha vissuto o anche solo visto un moderno conflitto militare da vicino sa che esistono più livelli. Uno, il più raccontato, è quello del fragore. Cioè delle distruzioni e del sangue, dello scontro essere umano contro essere umano o macchina contro macchina. Un altro, il più indagato, è quello della discrezione. Cioè della strategia, della politica, delle alleanze, delle grandi e delle piccole mosse, dei tradimenti e dei compromessi. C’è poi il livello che potremmo definire dell’individualità, del rapporto tra l’individuo e la realtà: riguarda le risposte che ciascuno dà ad alcune domande. Perché si combatte? Cosa si difende? Dove si vuole arrivare? Che immagine si ha del nemico? Cosa è la conoscenza della guerra? C’è o non c’è un limite all’idea dell’orrore? Se Primo Levi quando raccontò se stesso nel Lager, Hannah Arendt quando fece la cronaca del processo contro Adolf Eichmann, e Aleksandr Solzenicyn quando descrisse la sua avventura nel Gulag, ci hanno lasciato dei veri e propri manuali, in Köstler c’è la premessa. Una premessa - qui sta la grande sorpresa delle sue pagine - che arriva intatta nel pieno dell’attualità che stiamo vivendo, nel pieno della nostra storia più recente, cioè l’ultimo decennio, tanto segnato da tragedie che il mondo ha fatto fatica a capire nel momento in cui si consumavano, ma della cui dimensione ha preso conoscenza quasi subito. E anche nel pieno se è consentito un riferimento che può apparire di routine - dei problemi così come ci si sono posti all’indomani dell’11 settembre. Cominciamo da uno di questi saggi di Köstler. È quello centrato sul rifiuto di accettare la dimensione dell’orrore. Era stato scritto nel 1944, quando già si sapeva tutto quello che accadeva nell’Europa occupata (anche se con il passar del tempo abbiamo assistito e continuiamo ad assistere a estenuanti discussioni, sempre più accanite, ora sulla consapevolezza di Roosevelt, ora su quella di papa Pacelli e così via, fino all’insopportabile atteggiamento del vescovo lefebvriano Richard Williamson). Il titolo era esplicito: Le atrocità non credute.

poi, l’altro giorno, incontro uno dei più noti giornalisti americani. Mi racconta che, secondo un recente sondaggio d’opinione, 9 americani su 10, quando si chiede loro se credono alle atrocità naziste, rispondono che si tratta solo di bugie della propaganda, di cui non credono una sola parola. Tengo già da tre anni conferenze ai soldati, qui in Inghilterra, e il loro atteggiamento è identico».

Sessant’anni fa? O ieri? O oggi? Ai campi di concentramento di allora, agli ostaggi fucilati, alle fosse comuni, a Lidice, a Treblinka o a Belsen - questi erano gli esempi citati - potremmo ora aggiungere un altro elenco infinito. Incredulità per istinto di sopravvivenza. Sotto questa voce potremmo, ad esempio, considerare il distacco con cui abbiamo seguito il genocidio in Ruanda, rifiutando perfino la verità delle immagini televisive che nel 1941 non c’erano. Incredulità per una più banale fuga dall’orrore. Sotto quest’altra voce potremmo inserire gli occhi che socchiudevamo quando derubricavamo l’assedio di Sarajevo nella categoria dell’ordinario disordine balcanico. Incredulità nel nome di un’ideologia. Cos’altro era la prepotenza con cui i milioni di morti provocati dalla rivoluzione culturale cinese venivano accantonati dietro al mito dell’uguaglianza? Incredulità magari per non rimettere in discussione se stessi, le proprie convinzioni, le proprie scelte e, sì, il proprio impegno politico. Come negli anni dell’autogenocidio cambogiano che si consumava in un silenzio che riusciva a soffocare tante voci e tanti testimoni. Incredulità per un malinteso senso di colpa. In fondo con questa lettura viene spiegata e in molti casi ancora giustificata la lenta e progressiva escalation del fondamentalismo islamista, dal terrorismo palestinese ai fiumi di sangue versati dagli integralisti algerini, fino ai talebani e ai loro simili. Possono essere ancora tante le varianti dell’incredulità, a cominciare dal quieto vivere. Ma ci si può fermare qui. Si corre il rischio di diventare prolissi. Restano comunque una domanda e una constatazione. La domanda è questa: quanto ha pesato l’incredulità nella storia di cui stiamo parlando e di cui Lo Yogi e il commissario è il punto d’inizio? Quanto ha condizionato il corso della guerra e quanto quello, molto più lungo, del dopo-guerra? E poi perché non ci siamo accorti della sua presenza o, se ce ne siamo accorti, nel peggiore dei casi abbiamo fatto finta di niente e nel migliore non siamo riusciti a scalfirla? Non credo che ci siano delle risposte. La constatazione è questa: se l’incredulità è stata una delle parole-chiave del secondo conflitto mondiale e se accettiamo l’idea che poi lo è stata anche nei decenni successivi, è difficile sfuggire alla conclusione a cui giungeva Köstler, poche parole su questo «grande vizio culturale della modernità» che coinvolge generazione dopo generazione: «Spesso è ciò che rende disonesto anche chi pretende di non esserlo».

La domanda è: quanto ha pesato l’incredulità nella storia di cui stiamo parlando? Quanto ha condizionato il corso della guerra e quello del dopo-guerra?

Il testo lo era ancora di più. Köstler vi si dichiarava pubblicamente pazzo per la sola ragione di voler cercare di raccontare - sì, in quell’anno - che tre milioni di ebrei erano stati già uccisi nelle camere a gas, fucilati o sepolti vivi, che era in atto quella che definiva «la più gigantesca esecuzione di massa che la storia ricordi», un’esecuzione che «va avanti ogni giorno, ogni ora, regolare come il battito del vostro orologio». In altre parole, si sapeva, ma non lo si accettava. Raccontava poi di scrivere tenendo sul tavolo alcune fotografie, spiegava che c’era chi era morto per averle fatte uscire clandestinamente dalla Polonia, perché pensava che ne valesse la pena. Aggiungeva che i fatti erano ormai noti grazie a pamphlet, libri bianchi, giornali e riviste. Ma ecco che alla verità dei fatti si contrapponeva un’altra verità, quella del rifiuto: «E


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politica

Ritratti. Giulia Bongiorno ha combattuto contro il premier sulle intercettazioni: e ha vinto

La donna che sconfisse Silvio di Gabriella Mecucci trana la vita. Lui, il sedicente e sevivente tombeur de femme sconfitto da una giovane signora. Una lavoratrice di ferro tutta tailleur e poco abiti da sera. Uno scriccioletto piccolo, magro e con gli occhi vispissimi. Il perdente è Silvio Berlusconi, la vincente è Giulia Bongiorno. Il campo di battaglia: le intercettazioni. È passata la linea della giovane avvocata: le telefonate potranno essere ascoltate per tutti i crimini che prevedono una pena superiore a 5 anni. Altro che taglio della “lista” voluto dal premier, che in sostanza pretendeva che le intercettazioni riguardassero solo i reati di terrorismo, di mafia e poco altro.

S

È entrata anche nel filone giustizia sportiva. Vi ricordate quando Francesco Totti sputò a un difensore danese, Christian Poulsen durante i campionati Europei? Arrivò da Roma lo scriccioletto in tailleur per salvarlo dalla mannaia che si sarebbe abbattuta su di lui. Il comportamento era così grave dal punto di vista sportivo che non riuscì a salvare il capitano della Roma da tre giornate di squalifica, ma ottenne una riduzione della

Strupri: il 60% delle donne si farebbe giustizia da sé Secondo un sondaggio realizzato da Swg per il settimanale “Donna moderna”sei donne su 10 dicono di essere d’accordo con la giovane vittima dello stupro di Capodanno a Roma e si farebbero giustizia da sole in caso di violenza sessuale. Il settimanale Mondadori ha proposto ai suoi lettori un altro sondaggio via sms: “Contro gli stupri servono più soldati per le strade?”. Il 72% delle donne ha risposto “sì”, mentre il 28% ha risposto “no”.

Caltanissetta: frana uccide due operai

La Bongiorno è l’unica esponente aennina ad aver dimostrato di saper tener duro. In un partito spesso incline a chinare la testa al volere del premier, lei è una delle poche a saper dire dei no pesanti. Ad aiutarla questa volta, più che Alleanza nazionale, è stata la Lega; anch’essa impegnata nel contenimento del Berlusconi antimagistrati. E alla fine hanno vinto loro. La Bongiorno per affondare le pretese del capo del governo non ha esitato a tirar fuori la sua leggendaria capacità di lavoro. Da brava “secchiona” ha passato tutto il week end della scorsa settimana chiusa in casa e, pur afflitta da una noiosa influenza, si è studiata, nella sua qualità di presidente della Commissione parlamentare, ad uno ad uno tutti gli emendamenti proposti per “tagliare” le possibilità di ascolto. E alla fine la mediazione raggiunta è vicinissima a ciò che lei voleva. Sorpresa? Un po’ sì, visto che doveva scontrarsi col Cavaliere in persona, un vincente che non molla mai. Ma anche lei non ha certo la postura della perdente. Ricordate? Diventò famosa per quell’esplosione di felicità davanti alla Corte di Giustizia di Palermo quando venne annunciata l’assoluzione di Giulio Andreotti. «E vai...!», gridò. E poi sbracciandosi: «Assolto, assolto, assolto». Ne sono passati di anni da quando incamerò la sua prima, splendida vittoria. Allora era una giovane molto promettente, 28 anni in tutto, dello studio del grande Franco Coppi e il vecchio senatore accusato di mafia nutriva per lei una simpatia tutta particolare. Intelligente, appassionata, competente, super lavoratrice, ma anche un po’ grande attrice, donna capace di “bucare il video”: non le mancava niente per emergere. E infatti da allora ne ha fatta di strada. Sono pochi i processi importanti che non passano per le sue mani. E nonostante sia ormai parlamentare, è più che mai una “principessa” del Foro.

in breve

È nata una nuova stella della politica. Ma con un passato di tutto rispetto nei tribunali di mezza Italia: dal bacio di Andreotti allo sputo di Totti, passando per l’omicidio di Perugia

pena. Sempre per restare al foot ball ha difeso anche il bel Bettarini, ex marito di Simona Ventura, accusato di scommesse illecite sulle partite attraverso sms. Sostenne che era un maniaco del messaggino telefonico e che ciò che scriveva non erano altro che «chiacchiere da bar smentite dai fatti». E contenne la condanna a cinque mesi di squalifica. Insomma, se c’è una grana di quelle quasi impossibili da risolvere, ci si rivolge a lei. E infatti di recente è entrata anche nel processo Meredith, la ventiduenne studentessa inglese uccisa a Perugia, uno degli omicidi più misteriosi e che più hanno colpito l’opinione pubblica. È L’avvocato di Raffaele Sollecito, uno dei due “amanti diabolici” presunti assassini. Il suo ingresso nel team della difesa ha provocato subito uno sconvolgimento. Ha ordinato sopralluoghi e perizie tese a invalidare in toto la tesi dell’accusa che si fonda sui rilievi del Ris. Secondo lei, ad uccidere è stata una sola persona entrata nell’appartamento dell’inglesina dalla finestra. Ma come avvocata, la Bongiorno non ha mai smesso di stare sotto i riflettori: è stata infatti anche protagonista in qualità di difensore della poco edificante vicenda che coinvolse Vittorio Emanule di Savoia.

Con tutto questo lavoro svolto in tribunale, si potrebbe sospettare che faccia il parlamentare solo per onor di firma. E invece si applica, e parecchio, anche in politica o in quei territori al confine fra il campo giudiziario e quello politico.

Basti ricordare la sua difesa della magistrata più discussa d’Italia: Clementina Forleo. Pur essendo ideologicamente agli antipodi, la Bongiorno ha sempre sostenuto le buone ragioni della Forleo. E del resto anche di recente ha affermato: «Sono un avvocato, ma non considero i magistrati avversari». E in tutto questo tourbillon giuridico-politico, la giovane signora ha una vita privata? Prima della notorietà e cioè del processo Andreotti – lo ha dichiarato lei stessa – «avevo storie che duravano duetre anni. Come succede un po’ a tutte. Adesso durano due o tre settimane. Quanto ad amori veri, per ora niente di niente». Gli abiti glieli manda la mamma da Palermo, sua città natale, perché lei non ha tempo e non ha nemmeno un gran buon gusto. Non le piacciono quelli da sera, troppo chic e troppo femminili. Col divo Giulio ha avuto un rapporto professionale, ma poi col tempo è nata anche un’amicizia. La mondanità non la interessa: solo qualche puntata in uno o due salotti romani per tenere un po’ di rapporti utili alla carriera. Ma, insomma, oltre ai successi nelle aule dei tribunali e in quella di Montecitorio, c’è qualcos’altro che questa donna vorrebbe davvero? La Bongiorno lo ha dichiarato più volte: «Desidero un figlio. Un marito no, ma un figlio sì. E molto». In bocca al lupo signora anche per questa impresa da donna-donna.

Una frana ha travolto e ucciso due operai che stavano eseguendo lavori di canalizzazione in a Caltanissetta. Le vittime sono Santo Notarrigo, 37 anni, e Felice Baldi, 32 anni, originario di Sommatino, un centro della provincia. Il corpo di Notarrigo è stato estratto subito dal fango, mentre quello di Baldi è stato individuato dai soccorritori solo dopo quasi un’ora di scavi. Nella stessa zona, già alcuni giorni fa, si era verificata un’altra frana e venti famiglie erano state costrette ad abbandonare le loro abitazioni sulla collina di Sant’Anna.

Immigrazione: tensione a Lampedusa Un gruppo di cittadini di Lampedusa ha bloccato ieri la strada che porta all’ex base Loran che dovrebbe ospitare il nuovo centro di identificazione ed espulsione dei migranti voluto dal governo e contestato dalla popolazione dell’isola. «Siamo delusi dalle parole del presidente della Regione - dicono i manifestanti - venuto a dirci che siamo in strada a protestare perché non abbiamo niente da fare. Il centro non lo vogliamo e non si fara». La folla, sotto a una pioggia battente, coperta da un telone blu ha ostruito la strada. I manifestanti sono stati raggiunti dal sindaco di Dino De Rubeis che ha cercato, invano, di convincere i cittadini a rimuovere il blocco.


politica

29 gennaio 2009 • pagina 7

Nella foto il presidente della Camera Gianfranco Fini, protagonista dello psicodramma della destra italiana sospesa tra identità e salto politico nel nuovo soggetto unitario guidato dal premier Silvio Berlusconi

Il Malessere di An. Lo storico Franco Cardini interviene nel dibattito aperto da liberal utti sanno che An non è l’erede pura e semplice del Msi ma è una formazione politica nuova nata “dalla fusione imperfetta” tra esso e vari elementi provenienti dalla vecchia Dc, dal mondo craxiano e altri cascami della politica dei primi anni Novanta. Non è però un mistero per nessuno che, per lungo tempo, è stato, in un modo o nell’altro, il pensiero derivato dal vecchio partito di Almirante a caratterizzare alcune scelte della nuova formazione. Con tutte le contraddizioni che in esso già c’erano, tra un’anima “d’ordine”e un’anima “movimentista”, fra istanze politiche “di destra” e istanze sociali “di sinistra”, fra giovani, spesso anche colti e intelligenti, che mordevano il freno e che talvolta erano di simpatie tradizionaliste e talvolta libertaria e vecchi arnesi parlamentari che gestivano questo strano e contraddittorio patrimonio e lo costringevano a tradursi in costante appoggio alla politica grosso modo conservatrice delle classi dirigenti della Prima Repubblica.

T

Metabolizzare questa eredità, tutto sommato anche ricca, ma molto confusa, era obiettivamente difficile. Adesso, gli ultimi nodi sembrano venuti al pettine alla vigilia della sparizione del partito nato dalla “svolta” di Fiuggi. Non mi meraviglia che Riccardo Paradisi si annoi dinanzi al “malessere” di An, o quanto meno di una parte di essa. Quella parte che si è sforzata di salvare la capra della propria coerenza e i cavoli della compartecipazione al potere berlusconiano e che oggi deve fingere di accettare abbastanza di buon grado la fusione con Fi in

Ma non è una fusione è un’annessione di Franco Cardini un nuovo soggetto politico. Tale parte di An finge altresì di non aver ancora ben capito quanto invece ha capito benissimo: che non di fusione si tratterà, bensì di assimilazione; e che all’interno del nuovo Pdl poco o nessuno spazio potrà restar affidato alla vecchia anima sociale, solidaristica, addirittura “terzoforzista” che An aveva, almeno in qualche sua nicchia, imperfettamente e timidamente ereditato dal Msi. È evidente che il Pdl altro non potrà essere che un partito liberal-liberista e occidentalista “di massa”, dall’animo, dallo stile e

sa di essere un gigante politico di fronte ai Cicchitto e agli Schifani e mira a sostituire il Cavaliere nella leadership. Potrebbe anche farcela. Ma i suoi colonnelli, che non condividono la sua felice posizione e non sono per niente sicuri del suo aiuto, stanno cercando attualmente tutti di salvarsi la carriera e possibilmente anche un po’di anima: chi insistendo su quel che resta del patrimonio identitario di An, che è sempre stato povero e confuso; chi cercando nuove strade che giungono perfino all’originale e fantasiosa attribu-

C’è chi cerca nuove strade che giungono all’originale attribuzione al ministro Tremonti di idee che stanno a cavallo di Corridoni e Pound: ciò che la destra non ha più la forza di essere dalla prassi profondamente berlusconiani; e che il solo suo autentico problema, tra qualche anno, sarà come sopravvivere al Cavaliere il quale, dopo averlo costruito a sua immagine e somiglianza e aver fatto intorno a sé tabula rasa di tutti i dirigenti che stimava in grado di ragionare con la loro testa, dovrà tirarsi indietro per sopraggiunti fisiologici limiti d’età. Lo psicodramma ha naturalmente un coprotagonista: Gianfranco Fini, il quale si è cautamente guardato attorno,

zione al ministro Tremonti di idee che stanno a cavallo di Corridoni e Pound, nell’intento di trasformare lui in ciò che essi non hanno più la forza o il coraggio di essere; chi mandando infine tutto allegramente in vacca e riciclandosi in un nuovo soggetto liberale e conservatore, tutto o quasi soltanto “Legge-e-Ordine”, del tipo che piace tanto ai ceti medi impoveriti e impauriti del nostro Paese e che può entrare magari in competizione con la Lega e strapparle dei consensi.

Non è una grande prospettiva. Tuttavia, c’è in An qualcuno che, pur malinconicamente disposto a disciogliersi per sempre nel melting pot berlusconiano, non ha ancora del tutto gettato la spugna della speranza e confida in un futuro nel quale il bambino ideologico più volte buttato via con l’acqua sporca del bagnetto, da Fiuggi in poi potrebbe venir ripescato e aiutato a rianimarsi. Un esempio. Su uno degli ultimi numeri di Area il periodico vicino a Gianni Alemanno il senatore Marcello de Angelis – uno dei più intelligenti tra i meno allineati nel partito candidato a scomparire – prospetta un paragone ardito.

L’attuale governo di Berlusconi sarebbe secondo lui una specie di nuova “dittatura del proletariato”, che, come nella Russia fra ’17-’21 avrebbe la funzione di eliminare le vecchie strutture e gli inveterati rapporti di potere e di interesse nel Paese per sostituirli con qualcosa di totalmente nuovo che gli consentirebbe di riprendere un normale e rigoroso cammino democratico. È noto che il comunismo non ce la fece: e la dittatura del proletariato si metabolizzò in una tirannide burocratica molto lenta a morire. Ma, sottintende de Angelis, un Pdl fisiologicamente “liberato” dal Berlusca ed ege-

monizzato dalla classe dirigente di provenienza An (quella di Fi è ridicola) potrebbe sul serio farcerla: e plasmare così una nuova Italia. Che de Angelis, personalmente, non immagina né liberal-liberista né post berlusconiana. Prospettiva interessante. Alla quale “sfugge” tuttavia il non trascurabile particolare che Berlusconi e i dirigenti del suo partito-azienda, a differenza di Lenin e dei suoi, non sono affatto degli hominens novi, feroci magari, ma disinteressati e persino onesti.

No. Berlusconi è entrato in politica per salvare i suoi interessi e ha inventato adesso un nuovo soggetto politico per continuare a tutelarli. Nel “Nuovo Ordine” del Pdl, con l’eccezione di Fini e di qualcuno dei suoi collaboratori di strettissima fiducia, i colonnelli di An si salveranno la carriera solo a patto di vedersela ridimensionare attraverso una parziale degradazione: sopravvivranno, sì, ma solo come capitani o come sergenti. L’alternativa? Non c’è. E allora colonnelli e portaborse perplessi e insoddisfatti navigano a vista facendo il possibile per ritardare lo spettacolo tragicomico del grande congresso fusionista da cui, per volontà dell’Autocrate e delle segreterie dei partiti morituri, uscirà la formazione neoberlusconiana. Una prospettiva che qualcuno, sotto sotto, spera fallisca. Ma, se fallisse, che cosa mai sarebbe di una An che per anni ha fatto di tutto per svuotarsi di contenuti originali e qualificanti, salvo poi il nicodemismo di bassa lega di quelli che giocano ai liberali alla luce del giorno per rivestire poi i malinconici panni neo fascisti quando si ritrovano tra pochi intimi fidati?


economia

pagina 8 • 29 gennaio 2009

Recessione. Il Pil globale è praticamente fermo: si rimetterà in moto solo nel 2010. E la ripresa dell’Italia è ancora lontana

Come una guerra L’Fmi lancia un allarme drammatico: «Dal 1945, mai una crisi come questa» di Alessandro D’Amato segue dalla prima Per l’area euro le attese sono di un +1% nel 2008, -2% nel 2009 e +0,2 nel 2010, mentre per il Giappone si stima -0,3%, -2,6% e +0,3% nei tre anni fra 2008 e 2010. Nel dettaglio del Vecchio Continente, la Germania per-

quest’anno e +1,6% il prossimo. Tra le economie emergenti precipita in territorio negativo la Russia, che vedrà il Pil scendere dello 0,7% quest’anno con un taglio del 4,2% rispetto a novembre. Mosca perde anche il 3,2% sul 2010 che resta però in positivo dell’1,3%.

po un calo del Pil dello 0,6% nel 2008, il Fmi prevede una flessione del 2,1% nel 2009 e dello 0,1% nel 2010. Nel precedente rapporto di novembre, gli esperti del Fondo stimavano per il nostro Paese una flessione del prodotto interno lordo dello 0,6% nel 2009 . «L’eurozo-

Il rapporto è impietoso: «Nonostante azioni politiche ad ampio raggio, le tensioni finanziarie restano acute spingendo al ribasso l’economia reale. Perciò le attese di crescita si sono ridotte ancora di più rispetto a novembre» derà il 2,5% prima di recuperare lo 0,1%, la Francia vedrà il prodotto scendere dell’1,9% e poi avanzare dello 0,7%. Doppio segno negativo per la Spagna: 1,7% e -0,1%. La Gran Bretagna sarà il peggiore tra i Paesi del G7 quest’anno con -2,8% seguito da un +0,2% nel 2010. In America sembra tenere il Canada: -1,2%

Revisioni al ribasso pesanti anche per India e Cina il cui Pil rimarrà comunque ampiamente positivo. Il prodotto del subcontinente asiatico salirà del 5,1% (-1,2%) quest’anno e del 6,5% (-0,3%) il prossimo, mentre la Cina crescerà rispettivamente del 6,7% (-1,8%) e dell’8% (-1,5%). Per l’Italia do-

na ha bisogno di una maggiore coordinazione politico-economica, altrimenti le differenze tra gli stati diventano troppo grandi e la stabilità dell’area monetaria viene messa in pericolo», ha detto il direttore genedell’Fmi, Dominique rale Strauss-Khan, in un’intervista al settimanale tedesco Die Zeit

in edicola domani, di cui è stata diffusa oggi un’anticipazione. Charles Collyns, vice capo economista del Fondo Monetario Internazionale, vede in particolare per l’Italia un futuro a tinte fosche: «Il pil continua a contrarsi e il Paese ha fatto il suo ingresso in questa crisi globale in una posizione già estremamente debole». L’Italia ora è colpita da un crollo nell’export e rispetto ad altri paesi ha uno spazio molto limitato di reagire con stimoli fiscali. Per questo, ha detto Collyns, «siamo parti-

colarmente preoccupati per l’Italia e vediamo il bisogno di riforme fondamentali e strutturali anche una volta usciti da questa crisi globale».

E così, ci troviamo con la crescita più bassa dal 1945. E la situazione non sarà tanto facile da sanare: «Nonostante il varo di azioni politiche ad ampio raggio - spiega il rapporto - le tensioni finanziarie restano acute spingendo al ribasso l’economia reale. Per questa ragione le attese di crescita si sono ridotte di 175

Gli aiuti pubblici al settore automobilistico, gli ammortizzatori sociali, i nuovi contratti: parla Savino Pezzotta

«Basta spot, ora serve una politica industriale» di Francesco Pacifico

ROMA. I dati terribili del Fondo monetario internazionale e dell’Onu da una parte e gli aiuti italiani alle auto dall’altro: ne parliamo con Savino Pezzotta. Onorevole, mentre il Fondo monetario preannuncia tre anni di recessione per l’Italia, il governo ritocca per la quarta volta il suo piano anticrisi... Il problema è che manca una politica industriale. Si interviene a spizzichi e bocconi. Il governo deve decidere quali sono le sue direttrici, quali sono le azioni per innovare il suo sistema produttivo. Soltanto allora potrà arrivare un piano omogeneo che affronti la questione della ricerca, degli ammortizzatori sociale e della competitività. Questo il metodo, ma il merito? Dobbiamo capire che sistema vogliamo avere tra cinque o dieci anni. E di conseguenza prima di lanciare linee di politiche industriali dobbiamo decidere se concentrarsi soltanto sul manifatturiero o, come spero, creare un mix tra questo settore, il terziario e i comparti avanzati. Parlo di quella riconversione che attendiamo da tempo e che sarà meno dolorosa se sarà fatta in una fase di crisi come questa.

Intanto per frenare la crisi dell’auto tornano le rottamazioni. E il conto va in carico allo Stato. Chiariamoci: se le sovvenzioni le danno gli altri Paesi, l’Italia non può fare diversamente. Altrimenti saranno le nostre aziende a restare schiacciate. Io, poi, andrei piano sulla questione dello statalismo. Aiuti di Stato o meno, saranno il mercato e gli investimenti a decidere chi resterà in piedi. Tremonti, per la sua gioia dei suoi colleghi, dice che non ci sono soldi. Sicuramente il ministro compie un’azione interessante richiamandosi, e richiamandoci, alla situazione del debito pubblico. Però mi permetto di consigliargli che dare un occhio ai conti non deve limitare quegli investimenti necessari per superare la crisi.

Concorda con chi dice che stiamo vivendo lo stesso scontro tra Economia e gli altri ministri, e lo stesso stallo, del 2004, che poi portò alle dimissioni del ministro? La convenienza politica mi porterebbe a dire altro, ma spero che questo scontro si concluda presto. E lo dico per il bene del Paese, non per quello di Tremonti. Credo che a chiunque guidi il dicastero dell’Economia salga qualche brivido lungo la schiena. Eppure qui manca quel pizzico di coraggio che serve per superare le emergenze come quella che stiamo vivendo. Nel 2009 la disoccupazione tornerà a livelli che avevamo dimenticato. L’Ad di Fiat, Sergio Marchionne, ha calcolato 60mila licenziamenti soltanto per l’automotive. Il problema è reale: ha impatti sociali fortissimi e temo non basterà la riforma

degli ammortizzatori sociali. Perché oltre alle aziende rischiamo di disperdere una capitale sociale che è alla base del nostro modello, che consente al made in Italy di essere competitivo. Soluzioni? Oltre ai sussidi per integrare il reddito, si deve intervenire sugli orari di lavoro, per fare in modo che le persone restino legate alla dimensione produttiva. Che impatto potrà avere il nuovo modello contrattuale? Sono sempre stato favorevole alla contrattazione decentrata. Era al centro delle mia ultima relazione da segretario della Cisl. Perché se si sposta il baricentro delle trattative a livello aziendale, si costringono le aziende a innovarsi. E si finisce per stimolare la ripresa così come s’incide sull’andamento della produttività. Temi che non si riescono a regolare con gli accordi nazioni. Detto questo resta un nodo da risolvere. Sarà mica la firma della Cgil? Bisogna trovare il modo per far rientrare al tavolo la confederazione di Epifani. Farle capire che se si sposta il livello di contrattazione sul territorio, un modello partecipativo sarà più conveniente di una dimensione conflittuale.


economia

29 gennaio 2009 • pagina 9

Interventi pubblici per le ristrutturazioni, non per la sopravvivenza: parla l’economista Carlo Secchi

«Guardiamo agli Stati Uniti, gli aiuti sono per il mercato» di Gabriella Mecucci segue dalla prima

punti base rispetto a novembre. Un rilancio sostenuto dell’economia non sarà possibile fino a quando la funzionalità del settore finanziario non sarà restaurato e il mercato del credito non sarà sbloccato». E perciò «sono necessarie nuove iniziative che producano una ricognizione credibile delle perdite sui mutui; una selezione delle società finanziarie a seconda della loro capacità di sopravvivere nel medio-lungo periodo; e il supporto dei poteri pubblici per le istituzioni in grado di sopravvivere con iniezioni di capitali e scorporare i bad asset».

L’Fmi rivede decisamente al rialzo i potenziali costi della crisi, che sono saliti a 2.200 miliardi di dollari, contro i 1.400 previsti in ottobre. Per affrontare e superare la crisi finanziaria ed economica in atto servono “risposte più aggressive”di quelle messe in campo oggi dai governi. Mentre «è tempo che le banche centrali pensino a strumenti non convenzionali di politica monetaria, anche se per alcuni istituti centrali c’è ancora spazio per ridurre i tassi di riferimento», secondo il capo economista del Fondo, Olivier Blanchard. Invece, l’intervento dei governi nell’industria automobilistica può essere un modo mascherato di avvantaggiare le aziende nazionali. Un capitolo a parte per le banche, sulle quali la critica dell’Fmi si fa aspra: «Per gli istituti di credito statunitensi ed europee le svalutazioni durante il 2009 e il 2010, bilanciate parzialmente dalle entrate previste nel periodo, saranno dell’ordine di almeno 500 miliardi di dollari. Questo implica spiega il documento del Fondo che un analogo importo in termini di nuovo capitale sarà necessario alle banche statunitensi ed europee soltanto per impedire un ulteriore deterioramento del loro patrimonio». Nel lungo periodo, però, tutto questo non basterà

Insomma, non è detto che le ricette statunitensi siano le migliori possibili anche in Italia, eppure dalla strategia obamiana in econimia dipendono anche i destini del resto del mondo. E, allora, che cosa deve fare il nuovo presidente? Lo abbiamo chiesto a Carlo Secchi, economista, ex rettore della Bocconi. Deve riuscire a compiere una sorta di miracolo: «Aumentare la spesa pubblica senza far crescere le tasse, anzi dando al cittadino su questo terreno qualche sollievo». Professore, quali sono i problemi economici che Obama deve affrontare? E su quali filoni dovranno muoversi le sue prime grandi scelte? Questa è una domanda da un miliardo di dollari. E di dollari Obama ha proprio bisogno. La crisi americana è prima di tutto di natura finanziaria. È esplosa per i ben noti motivi legati ai mutui, ma non solo a questi. La verità è che c’è stata una progressiva, smisurata finanziarizzazione dell’economia con operazioni spesso fine a se stesse. Sempre meno decifrabili da parte del mercato. Un eccesso, quindi, di indebi-

tamento da parte delle grandi banche. Alla crisi del sistema finanziario il governo americano ha già dato una risposta in termini massiccio sostegno agli istituti di credito e alla ristrutturazione da parte di questi. Le banche di investimento sono tutte diventate banche commerciali. O universali, secondo le nostre definizioni. Questo è ciò che è avvenuto ieri o l’altro ieri, ormai però la crisi è esplosa anche nell’economia reale. E questo rende le cose maledettamente più complicate.. Alcuni settori che già avevano grossi problemi sono precipitati in una situazione drammatica, vedi il settore dell’auto, che è una chiave di volta perchè attraverso l’indotto ha un impatto occupazionale molto forte. L’Amministrazione Obama deve quindi innanzitutto proseguire sulla strada già tracciata continuando ad intervenire nel salvataggio del sistema bancario perchè se crolla quello crolla tutto e i danni per i cittadini sarebbero molto rilevanti. Accanto a questo, occorrono misure in direzione dell’economia reale per evitare il rischio di fallimenti a catena.

A qualunque fase ciclica negativa ne segue una positiva. È sempre andata così e la storia non verrà ribaltata stavolta: non piomberemo in una depressione senza fine

Che fare per difendere l’economia reale: evitare il crollo di imperi industriali e una crisi occupazionale di portata storica? Quello che si può dire con certezza è che è indispensabile porre mano al portafoglio degli aiuti di Stato, aiuti però che siano finalizzati alla ristrutturazione e non semplicemente alla sopravvivenza dei settori interessati in modo che questi in un futuro il più prossimo possibile siano in condizione di operare, di tornare ad essere competitivi, di ritrovare la via dei profitti. Al momento non c’è altra via d’uscita: c’è bisogno dell’intervento pubblico, il mercato da sé non ce la fa. Dopo tanti anni in cui si è fatto l’elogio del liberismo, dunque,

bisogna ritornare allo Stato e ai suoi investimenti? Bisogna riuscire a coniugare il sostegno alle imprese, perché evitino il crack, con scelte da parte di queste che correggano le storture che hanno favorito l’attuale crisi. Quanto alla domanda che lei mi fa, l’aiuto pubblico in questa situazione è inevitabile, però deve essere tale da non ammazzare il mercato, ma al contrario deve muoversi per favorire la ripresa del mercato. Per rimetterlo in moto. Non si deve dunque andare verso una sorta di neostatalismo che ci metterebbe in guai ancora peggiori, ma come in tutte le emergenze agire per far sì che si rientri nella normalità. Non si tratta dunque di arrivare ad un cambiamento del modello economico ma di ripristinarlo correttamente, depurandolo dalle storture. Comunque ci sarà un aumento della spesa pubblica. Comporterà anche un aumento delle tasse? No, l’aumento della spesa non dovrebbe comportare una crescita delle tasse. Anzi, su quel piano sarebbe opportuno un qualche sollievo. Il problema è infatti di non deprimere i consumi. Anzi di sostenerli. È forse ipotizzabile qualche ritocco selettivo per i redditi più alti, del resto già ipotizzato da Obama in campagna elettorale. Nell’insieme però la leva fiscale non può colpire il cittadino medio, altrimenti ci sarebbero ricadute negative sull’intero sistema delle imprese. Quali saranno i tempi dell’intervento di Obama? Obama si trova in una situazione paradossale: da una parte la pesante crisi economica ne ha favorito l’elezione, perchè tutte le colpe sono state scaricate anche ingiustamente sull’amministrazione precedente, dall’altra però oggi tocca a lui fare i conti con questa drammatica situazioni e li deve fare presto e bene. Ne va della sua credibilità e del suo consenso. Detto questo, Obama gode di un vantaggio: l’economia americana è più snella, più flessibile di quella europea e quindi è maggiormente in grado di reagire in tempi brevi alla crisi. Non stupiamoci se saranno gli States a far ripartire la ripresa. Quando comincerà la ripresa? Entro la primavera riusciremo a fare previsioni meno fantasiose sulla ripresa. Qualunque fase ciclica negativa viene seguita da una fase positiva. È sempre andata così e la storia non verrà ribaltata da questa crisi. Non piomberemo in una depressione senza fine. Questa drammtica vicenda economica ci impone però di riflettere meglio e di più sulle regole e sul sistema dei controlli. Su come far sì che il mercato vada avanti in modo più funzionale agli obiettivi complessivi del sistema economico.


panorama

pagina 10 • 29 gennaio 2009

Proposte. Perché la costituente di centro è una grande opportunità per cambiare la storia

Da Letta a Pisanu, oltre l’Udc di Alessandro Sancino siste in Italia una significativa area politica che sogna un partito, non tanto di centro, ma che si pone l’obiettivo di rappresentare ed interpretare le seguenti cose.

E

1. Una cultura politica diversa dal berlusconismo e dalla sinistra postcomunista (che, tanto per non essere fraintesi, nell’immaginario collettivo è quella del Pd), ispirato in maniera laica alla visione antropologica cristiana, intesa in senso olistico e moderno, ossia capace di tenere insieme non tanto un generico riferimento alla solidarietà, ma la reale promozione in senso sussidiario di politiche volte a promuovere coesione sociale, e non tanto un richiamo vuoto alla libertà, quanto piuttosto una effettiva capacità di garantire le condizioni per il pieno esprimersi della iniziativa personale e privata, all’interno di un contesto pubblico in cui lo Stato si fa garante dell’affermazione di principi fortemente merito-

IL PROVINCIALE di Giancristiano Desiderio

cratici e dell’esistenza di un quadro di regole certe.

2. Uno stile di impegno nelle istituzioni pubbliche fatto di etica pubblica e competenza. Ciò significa, molto semplicemente, un partito che si rifiuta di candidare veline o conduttrici televisive, o meglio, senza offendere

lo scudo crociato o facendo anacronistiche sommatorie di spezzoni che con i loro personalismi hanno rotto le scatole a tutti e stanno violentando la tradizione che vogliono rappresentare. Dico di più: o l’Udc cambia in modo significativo, pure il nome, oppure muore. Se invece cambia, e conviene pure a lui, può sì

Ci vuole un partito nuovo capace di radicarsi nel mondo cattolico per incontrare l’abbraccio laico che si crea tra cristiani e non cristiani nessuno, che candida al Parlamento prima chi ha fatto esperienza nei consigli comunali, provinciali, regionali.

3. Insomma, un partito che vada da Letta a Pisanu, oltre l’Udc. Diciamolo chiaro, o sarà così, o non sarà. Con tutto il rispetto, l’Udc non è in grado - e se non cambia profondamente non lo sarà mai - di rappresentare questa grande area politica: siamo nel 2009, e se forse la costruzione di una democrazia cristiana è ancora una sfida attuale, di certo non la si vince solo con il simbo-

intestarsi l’operazione politica di ricostruire questa grande area politica, senza che nessuno ne sia geloso. Ma serve anche che da Letta a Pisanu, e dico loro per dire le persone che hanno la stessa cultura politica di cui sopra ma che ora stanno chi nel Pd, chi nel Pdl, si guardino in faccia e decidano se vogliano fare la storia di questa Paese o fare solo alcune comparsate di una storiella.

4. Non scappo dalla fatidica domanda: e con chi si allea? La gente in prospettiva vuole sape-

re, o si sta di qui o si sta di là. Beh, non ho alcun problema a dirlo: sempre con rispetto, questo partito non ha nulla a che spartire con tutta (dico tutta) la sinistra che sta oltre il Pd, con la Destra di Storace e con una parte molto consistente dell’attuale Idv e con una parte seppure meno consistente della Lega. Confermo che è un partito di un’altra cultura politica rispetto al berlusconismo e al postcomunismo, e che, con chiarezza e serenità, può decidere con chi allearsi, spiegando perché. E quindi, tanto per essere pratici, decide in base ai programmi con chi stare, depotenziando dunque ad esempio in un caso quell’ala della Lega distante dalla nostra cultura politica o nell’altro caso Di Pietro. Un partito che si preoccupa di spiegare chi è, cosa vuole fare, di radicarsi, di germogliare nel mondo cattolico dell’impegno associazionistico per incontrare l’abbraccio laico che si crea tra cristiani e non cristiani nel fare le cose per la città dell’uomo. Un partito che con i propri valori e le proprie proposte rende mobile e più mite il bipolarismo che già c’è, come è giusto che sia.

Una domenica con il calcio all’Olimpico e i bolidi all’Eur: un vero incubo per i romani

Signor sindaco, lasci perdere la Formula 1 a strada imboccata da Gianni Alemanno non porta da nessuna parte. Se non al disastro. Qualcuno glielo dovrà pur dire. Glielo dico con franchezza: «A Gia’, lassa perde la Formula 1. Le Ferrari, le Renault e le McLaren corrono bene a Monza, Imola e le altre piste internazionali, non certo sulla Cristoforo Colombo. E se vuoi fare il paragone con il circuito cittadino di Montecarlo sappi che non c’entra proprio nulla: lì c’è un Principato, e tu sei il sindaco di Roma, fai il sindaco e piantala». Duro? Ma per carità, anche troppo morbido.

L

Qualcuno di voi ha sentito parlare nella campagna elettorale di circa un anno fa dell’idea di trasformare l’Eur in un autodromo e di portare a Roma un Gran Premio di Formula 1? No. Perché allora un bel giorno veniamo a sapere che il sindaco Alemanno lavora a questo “progetto interessante”? Perché il nostro paese è senza capo né coda. Uno pensa che dovere di un sindaco sia quello di amministrare e bene. Uno pensa che un sindaco debba portare avanti la macchina amministrativa del comune: il bilancio, le tasse e quindi i servizi, gli uffici, i lavori pubblici, la manutenzione di strade, edifici scolastici, parcheggi, la viabilità, i vigili urbani, l’ordine pubblico (almeno la parte che compete a un sinda-

co), la nettezza urbana, l’ufficio assistenza sociale e persino il piano regolatore se vuoi fare le cose in grande. Questa è l’idea che, grosso modo, ognuno di noi ha di un sindaco quando pensa a un sindaco con i fiocchi. Ce n’è da fare, per un sindaco che vuole fare! Non c’è da dormire la notte per le tante responsabilità che un bel giorno ti piovono addosso perché hai avuto la stramba idea di candidarti a sindaco di Roma e i cittadini hanno avuto l’idea ancora più di stramba prenderti in parola e ti hanno detto: “Vuoi fare il sindaco? Va bene, eccoti servito”. Un primo cittadino che sta dietro a tutte queste cose, che ha su di sé la responsabilità dell’amministrazione di una città che un ministro se lo scorda, ebbene, un sindaco che lavora come un matto, dove trova il tempo di pensare che forse sarebbe una bella idea portare i bolidi della Formula 1 sulle strade di Roma? Soprattutto, perché?

Per la bellezza dell’idea? Per la eccentricità dell’idea? Per la pubblicità che ne deriverebbe in tutto il mondo nel sapere che a un passo dal Colosseo e da San Pietro si sfreccia a trecento chilometri orari? Perché Roma ha davvero bisogno di pubblicità? E quale sarebbero, in termini concreti, i benefici per i romani? Avrebbero più vantaggi o più svantaggi? Più agi o più disagi? Immaginate la giornata: in una stessa domenica a Roma ci potrebbe essere la partita di campionato della Roma o della Lazio all’Olimpico e dall’altra parte della città - neanche poi così dall’altra parte - ci sarebbe il GP di Formula 1.

Immaginate che bella domenica potrebbero passare i romani. Alemanno sta preparando una cosetta da niente. Lascia perdere, Gianni. Fai il sindaco e basta che ti basta e avanza. Se fino ad ora non si è svolta una gara di Formula 1 sulle strade romane lo si deve a Bernie

Ecclestone. Quando Maurizio Flammini - il manager che non dorme la notte per portare la Formula 1 a Roma - nel 1985 gli propose l’affare, Ecclestone lo guardò come si guarda uno che dà di matto. Questa volta Flammini, che punta a portare i bolidi nella Capitale per il 2011, ha fatto le cose molto meglio e ha presentato un dettagliato progetto che prevede il passaggio delle auto sul rettilineo della Cristoforo Colombo e chissà ancora dove. Il manager non si ispirato ad una sua suggestiva ipotesi, ma alla realtà. Su quel violone le corse di automobili si fanno, purtroppo, da tempo. Illegalmente. E pericolosamente. La notte. In stile gioventù bruciata. Ora, ecco qui un buon lavoro per il sindaco Alemanno: invece di trasformare la Cristoforo Colombo in un autodromo, si accerti che su quel lungo rettilineo non si facciano più notturne gare clandestine. Il suo “progetto interessante” è da capovolgere: niente corse automobilistiche a Roma. La città eterna ha bisogno di meno auto, non di più auto, ha bisogno di qualità, non di frenesia di massa. Inseguendo improbabili progetti per gli spettacoli di massa Alemanno dimostra soltanto di non avere buone idee per la sua città e ripropone in altra salsa politica la già fallimentare “bella politica”di Veltroni. Faccia il sindaco o presto si fermerà ai box.


panorama

29 gennaio 2009 • pagina 11

Polemiche. Il politologo denuncia il fallimento del finto bipartitismo, ma non riesce a trarne tutte le conseguenze

Caro Panebianco, fai ancora un passo... di Rocco Buttiglione segue dalla prima Per questo vale la pena di fare seriamente i conti con le sue posizioni. Intanto, vorrei invitare Panebianco a riflettere attentamente sulla preferibilità sempre ed in ogni caso di sistemi bipartitici. In fondo, né la Germania né la Spagna né il Belgio né l’Olanda hanno sistemi bipartitici, e non sembra che siano tanto mal governati. La Svizzera, poi, non solo ha diversi partiti, ma anche un governo di unità nazionale che dura da tempo immemorabile.Forse ha ragione Vincenzo Cuoco quando scrive che non esistono Costituzioni ideali in astratto, ma solo Costituzioni più o meno adeguate a regolare la vita delle nazioni alle quali devono essere applicate.

E se il modello bipartitico non fosse quello giusto per l’Italia? La politica, ha scritto Chiara Lubich, serve per unire gli uomini. Se la citazione di Chiara Lubich dovesse sembrare troppo bigotta, possiamo citare al suo posto Jean Jacques Rousseau, al capitolo «Del Legislatore» del Contratto Sociale: le istituzioni han-

poi, alla fine, per arrivare ad una decisione basata il più possibile sul consenso. Se un paese è relativamente omogeneo, socialmente culturalmente e geograficamente, per rappresentarlo possono bastare due partiti. Paesi più articolati e complessi, con una storia più accidentata, possono aver bisogno di un numero maggiore di partiti. Il tentativo di comprimerli a forza in due soli contenitori politici può generare più problemi di quanti non risol-

Un Paese articolato, con una storia accidentata, può aver bisogno di un numero maggiore di partiti per garantire ascolto e rappresentanza no il compito difficile, quasi impossibile, di trasformare tante volontà discordanti in una unica volontà collettiva. A questo serve la rappresentanza. Rappresentando in un luogo che si chiama Parlamento tutte le differenze del paese, noi cerchiamo alla fine, con il metodo dell’ascolto e del convincimento reciproco, di generare una convinzione comune. Anche la formazione di maggioranza e minoranza serve

va. La partecipazione politica può calare e con essa il senso di appartenenza alla comunità nazionale. I partiti possono essere immobilizzati dalla difficoltà di raggiungere una sintesi politica al loro interno. La decisione politica può venire presa sulla base di un ascolto insufficiente della società. Può capitare che i due soli partiti si radicalizzino e governino contro i loro avversari piuttosto che in nome di tutto il

paese. In generale, i sistemi bipartitici funzionano bene quando vi è un livello elevato di legittimazione e di fiducia reciproca, quando ambedue governano a partire dal centro (come, per esempio, negli Stati Uniti). Funzionano invece male quando ciascuno dei due grandi partiti governa a partire dalla sua estrema (come in Italia). In paesi così forse è bene che ci sia un partito che difenda le ragioni del centro e obblighi le estreme a convergere verso il centro.

Certo, in paesi con una pluralità di partiti la stabilità richiede la formazione di coalizioni e quindi una cultura di coalizione e regole di coalizione. E se fosse su questo che, adesso, è necessario concentrare la nostra attenzione? Ma immaginiamo anche che il modello bipartitico sia un modello assoluto, il migliore in questo ed in qualunque altro paese possibile. Un politico serio non può non porsi il problema dei costi della transizione verso il modello desiderato. È possibile, perfino probabile, anzi sicuro, che la Ferrari sia la migliore automobile del mondo, anzi l’automobile per ec-

Bologna. Il presidente del consiglio degli stranieri vendeva permessi di soggiorno. Da vero italiano...

Un caso di integrazione perfetta di Riccardo Paradisi veva ottenuto la residenza in Italia in virtù dello status di rifugiato politico il pakistano Raza Asif, eletto recentemente presidente del Consiglio provinciale degli stranieri a Bologna e arrestato martedì mattina alle 7 con l’accusa di falsificare e vendere i permessi di soggiorno agli stranieri. Second l’accusa, i pakistani vittime dell’organizzazione messa in piedi dal loro autorevole connazionale sborsavano tra gli 8 e i 15 mila euro per ottenere il nulla osta che si sarebbero poi dovuti trasformare in permesso di soggiorno. Decine di persone immigrate in cerca di lavoro che volevano ottenere a tutti i costi il nulla osta per restare nel nostro Paese a lavorare e che, sempre secondo gli inquirenti, sarebbero invece state turlupinate dal politico italo-pakistano.

A

collaboratore di Asif, un certo Munazam Rana, che al fianco di ogni nome aveva appuntato la cifra riscossa dai clienti pakistani. Per capire come si muoveva Asif basta leggere uno stralcio delle intercettazioni che lo riguardano: «Sono riuscito a trovare uno potente economicamente che ha quasi quindici persone. Sono già d’accordo con lui che, se vuole che io faccia, deve pagarmi in contanti». Gli avvo-

destrezza nella malversazione, la disonestà creativa eretta a sistema d’impresa. Ma anche il coté delle intercettazioni telefoniche, lo scenario politico, il polemico dibattito che puntualmente segue.

Con la destra ad accusare, per voce del consigliere provinciale di Forza Italia Fabio Garagnani. «L’irresponsabilità politica e l’immaturità civica della sinistra, messa a nudo nella sua ambiguità» e con la sinistra a replicare «che quanto è avvenuto non deve screditare in alcun modo il significato di partecipazione alla vita della comunità che il Consiglio degli stranieri ha saputo esprimere» come dice Beatrice Draghetti presidente della Provincia. La disonestà creativa, le intercettazioni, il teatrino della politica: Raza Asif, uno di noi.

Disonestà creativa, intercettazioni, teatrino della politica con scambio di reciproche accuse: così Asif è diventato uno di noi

A incastrare Asif sarebbero state le intercettazioni telefoniche ordinate per una precedente inchiesta partita dopo il ritrovamento di una lista di 46 nomi custodita in una cassetta di sicurezza in banca, copia esatta di quella trovata a casa di uno stretto

cati di Asif dicono che riusciranno a dimostrare la sua totale estraneità: «Conosciamo questo ragazzo da anni – dicono – è quasi un benefattore per gli stranieri». Una semplice storia di corruzione politica? Non proprio, o comunque non solo. Piuttosto e soprattutto un esempio di integrazione perfetta, una storia a tutto tondo italiana. Perché se le accuse dovessero essere confermate Raza Asif avrebbe recitato perfettamente il copione che ormai tiene banco nei casi di corruzione del nostro Paese. Non solo la

cellenza (Aristotele direbbe: kat’exochén).Altrettanto sicuro è che io non ho i soldi per permettermela. Mi conviene cercarne una forse non altrettanto buona ma che sia nelle mie possibilità. Noi stiamo pagando da quindici anni i costi di una transizione infinita. Si dice che i sistemi bipartitici abbiano tendenzialmente tassi di crescita più elevati, deficit più bassi e pressione fiscale inferiore. Ammettiamo che sia vero, anche se non mancano esempi contrari (ad esempio la Svizzera). È certo che in Italia quindici anni di sforzi per adeguarci a quel modello non ci hanno dato il raggiungimento di quel fine, ma sicuramente hanno visto tassi di crescita più bassi che nella fase precedente, deficit ancora elevati e pressione fiscale elevata. O quel modello non è adeguato all’Italia o, quanto meno, si è imboccato il cammino sbagliato per perseguirlo. In ambedue i casi si impone la necessità di una riflessione nuova e, forse, anche di una nuova generazione di politici. Quando si finisce in un vicolo cieco, l’unico modo per riprendere il cammino in avanti è fare, prima, un tratto a marcia indietro.


il paginone

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a prima parte della predicazione di Gesù si svolge in Galilea, dove si trova Nazareth e dove immaginiamo abbia trascorso la sua vita dopo il ritorno dall’Egitto e fino alla partenza per Gerusalemme, in occasione dell’ultimo viaggio di evangelizzazione al termine del quale fu crocifisso. Quasi a conclusione di questo periodo iniziale della missione pubblica del Cristo troviamo un episodio duplice di salvezza, due storie come sovrapposte di guarigione attraverso la fede e l’incontro con Gesù, che si sviluppano e vengono raccontate in contemporanea. Entrambe segnate in modo decisivo dalla forza della fede, che unisce l’esperienza dei protagonisti. Fatto raro, il racconto più completo e dettagliato delle due vicende si trova in Marco, il vangelo di solito più scarno ed essenziale. In Luca i passaggi sono più sintetici, mentre in Matteo abbiamo poco più di un riassunto degli eventi. Nel suo racconto il nome di Giàiro, uno dei capi della sinagoga, è addirittura scomparso, eppure è lui che occupa la scena all’inizio del racconto e che sarà presente alla sua luminosa conclusione. Nel vangelo di Giovanni l’episodio è assente, anche se possiamo rintracciarne l’eco in uno dei suoi passi più intensi e qualificanti. Marco e Luca ci dicono che non appena riuscì a raggiungere Gesù, in quel momento circondato da una turba di folla, Giàiro si gettò ai suoi piedi e lo supplicò di andare nella sua casa, dove gli stava morendo una figlioletta di dodici anni. Chiese a Gesù di andare a imporre la sua mano sulla fanciulla, perché essa continuasse a vivere. In Matteo la richiesta è più radicale, infatti in questa versione dell’episodio al momento dell’incontro con Gesù la figlia di Giàiro è morta. Non è quindi una guarigione che il sacerdote è venuto a chiedere, ma una resurrezione vera e propria. Nessuno degli evangelisti riporta una risposta di Gesù alla richiesta che gli viene fatta, che pure Marco e Matteo propongono nella forma del discorso diretto, virgolettato, come diremmo noi. Alle parole dell’uomo Gesù risponde in modo immediato, con l’azione: quello che gli è stato chiesto lui lo fa, immediatamente. Un gesto che corrisponde alla promessa «Chiedete e vi sarà dato».

L

Matteo scrive «Gesù alzatosi, lo seguì», Marco dice solo «E partì con lui». Luca trascura addirittura il momento nel quale la richiesta di recarsi alla casa di Giàiro viene accolta e passa a quello successivo per raccontare che «Mentre egli andava, le folle lo soffocavano». Non si tratta di un dettaglio, ma di un elemento determinante per la comprensione di quello che sta per accadere. È proprio in mezzo alla confusione e alla ressa che matura un altro gesto di fede profonda. Una donna malata, che da molti anni soffriva di perdite di san-

Gli episodi di guarigione raccontati dai Vangeli “in diretta” al termine della predi

Quei due miracoli che oggi aspettiamo anche noi di Sergio Valzania

gue e che aveva disperso il suo patrimonio in una serie di cure inutili si fa largo a fatica spinta dalla speranza a lottare per arrivare fino al Cristo. «Diceva infatti» secondo il racconto di Marco «se toccherò anche solo le sue vesti sarò salvata». Splendida ambiguità del participio usato, che indica insieme una salvezza fisica e una spirituale, riconosciute in questo passo come molto meno distinguibili di quanto si sia soliti credere. La morte aspetta tutti e il corpo non può trovare da solo la strada per una vita ulteriore, che senza la presenza della dimensione fisica resta però incompleta,

re la donna, anche se rosa dalla malattia che la debilita da dodici anni, riesce a rimontare la calca fendendola e a raggiungere Gesù da dietro.

Stende il braccio verso il Cristo e in uno sforzo finale riesce a sfiorarne le vesti con la mano. Possiamo credere che subito dopo la pressione della folla la rigetti indietro con qualche brutalità. Ma il miracolo della fede si è già compiuto, e lei subito se ne accorge. «Conobbe nel corpo che era guarita dal male», scrive l’evangelista. È avvenuto insomma un bellissimo cortocircuito tra fede ed

Giàiro, uno dei capi della sinagoga, invoca la resurrezione della figlia appena morta. Il Salvatore risponde in modo immediato, con l’azione: «Chiedete e vi sarà dato» monca, incapace di rispondere in modo assoluto alla promessa piena della resurrezione. In tutte le tradizioni la sopravvivenza fantasmatica di una componente spirituale senza l’accompagnamento di una dimensione corporea appare malata, dolorosa, desiderosa di estinguersi. È il dramma espresso da Achille a Ulisse, che è andato a incontrarlo nell’Ade. La stessa salvezza è desiderata quindi sia dal corpo che dallo spirito. Sollecitato da Giàiro Gesù cammina a passo svelto. La stessa pressione della folla, se non ne vuole restare prigioniero, lo costringe a muoversi spedito. Eppu-

esperienza concreta, un passaggio immediato dalla speranza all’appagamento.

Non abbiamo difficoltà a immaginare la scena. Appena sfiorate le vesti del Cristo e dopo aver sentito realizzare dentro di sé la guarigione, la donna è rimasta immobile, come paralizzata da un sentimento non di sorpresa quanto di pienezza gioiosa. Altre persone le passano a fianco, probabilmente la urtano, lei quasi non se ne accorge, forse rischia persino di venire gettata a terra delle spinte di quanti la seguono. Ma non è lei l’unica a fermarsi.


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icazione in Galilea, metafora della speranza di tutti i credenti Anche Gesù, che prima procedeva a passo svelto, si è arrestato improvvisamente. I più vicini a lui intuiscono che qualcosa è accaduto e si ritraggono, nonostante la pressione della massa, fino a creare un piccolo spazio libero, con il Cristo al centro. Si tratta di un momento di grande intensità: qualcuno è riuscito a stupire il Cristo con la propria fede, quasi a imporgli la necessità della salvezza. Gesù era già impegnato in una vicenda segnata da una richiesta avanzata con grande fede nelle sue capacità di governare le forze del mondo. Giàiro era venuto in piena fiducia a chiedergli la salvezza dalla malattia, forse la re-

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né tanto meno punirla.Vuole solo rendere completo il rapporto che si è stabilito con lei, portare a perfezione il suo gesto, e lo fa pronunciando una delle frasi più belle del vangelo, che ricorre spesso in tutta la sua forza e nella pienezza della speranza che arreca: «Figlia, la tua fede ti ha salvata», e perché il messaggio sia chiaro nella sua interezza aggiunge: «Va in pace e sii sanata dal tuo male».

La guarigione va considerata quindi un di più, un dono ulteriore che si aggiunge a quello della salvezza, o forse, e più probabilmente, il rapporto fra i due accadimenti salvifici è di una necessità che sfugge alla nostra comprensione umana. L’azione non si è però esaurita. Giàiro è ancora supplice a fianco il Cristo e le condizioni di sua fi-

L’emorroissa non aveva chiesto niente. Toccare il mantello del Cristo, o persino una frangia del suo mantello come scrive Matteo, le sarebbe stato sufficiente per essere salvata. E così accadde surrezione, per la figlia. Eppure, anche se credeva, aveva domandato un gesto, una presenza, un intervento consapevole e diretto perché la forza del Cristo divenisse salvifica per sua figlia. L’emorroissa non aveva chiesto niente. La sua fede era così grande che toccare il mantello di Gesù, o persino una frangia del suo mantello come scrive Matteo, le sarebbe stato sufficiente per essere salvata. E così accade. Ma appena avvenuta la guarigione anche Gesù, nella sua misteriosa pienezza di uomo e di Dio, si accorge che si è compiuto un miracolo, che la fede ha suscitato all’azione la potenza del Padre. Allora il Cristo si diverte a organizzare una scena destinata a stupire quelli che lo circondano, e i suoi discepoli per primi. Stretto nella ressa della folla che lo pressa da ogni parte, Gesù si ferma e affronta quelli che lo circondano con una domanda in apparenza assurda: «Chi mi ha toccato?». Cosa possono rispondere i poveri pescatori del lago di Tiberiade a questo interrogativo? Senza sapere cosa dire, gli apostoli guardano stupiti quell’uomo d’eccezione che li ha convocati non sanno ancora per quale missione e gli indicano le persone che da ogni parte premono per avvicinarsi. Nel racconto di Luca è Pietro a parlare per tutti e a dichiarare l’evidenza umana di ciò che sta accadendo: «Maestro, le folle ti stringono e ti schiacciano da ogni parte». Gesù intanto sorride. Sta vivendo un momento di gioia, ha incontrato una persona di vera fede e si guarda attorno per riconoscerla. La donna però si spaventa, teme di aver commesso una colpa affermando in modo così violento la propria ansia di guarigione. Come se avesse rubato la salvezza, sentendosi scoperta si fa avanti e si getta ai piedi del Cristo, dove confessa la propria fede. Gesù però non intende rimproverarla,

glia sono peggiorate in modo drammatico. La malattia è arrivata all’epilogo. Luca scrive che mentre Gesù ancora parlava con la donna un famiglio del maggiorente è arrivato sulla scena. Si è fatto largo nella folla per portare una notizia luttuosa: la fanciulla che giaceva gravemente ammalata si è spenta. Gesù avverte subito il padre: «Non temere, solo abbi fede e sarà salvata». Anche in questo caso la questione della salvezza, della guarigione e della salute, si propone nella sua complessità. Diversi sono i piani sui quali si manifesta l’effetto salvifico, anche se la via per il suo conseguimento è unica. La richiesta che Gesù avanza a Giàiro è certa e specifica, avere fede. Come la fede ha appena salvato l’emorroissa allo stesso modo potrà agire con sua figlia, se necessario addirittura richiamandola in vita dalla morte. Quindi il cammino riprende. Nonostante l’arrivo della notizia luttuosa, Gesù si reca ugualmente a casa di Giàiro, dove sono già iniziate le lamentazioni funebri per la morte della giovinetta. Parenti e servitù sanno che il capofamiglia si è recato da Gesù per chiedergli la grazia della guarigione, ma evidentemente non hanno creduto nell’efficacia del suo intervento salvifico. Si sono abbandonati all’evidenza della vittoria della morte. Hanno accettato la sconfitta della vita e piangono per questo.

Al suo arrivo il Cristo, per la seconda volta nella giornata, sembra voler andare intenzionalmente contro l’evidenza di una situazione. Come poco prima aveva chiesto chi era stato a toccarlo mentre si trovava in mezzo ad una folla, adesso fa un’affermazione quasi assurda, si rivolge a quelli che stanno lamentando la perdita della fanciulla e dice loro: «Perché fate chiasso e piangete?

La bambina non è morta, ma dorme». Sono parole quasi folli, ma sta lì il messaggio di Cristo, quando ci chiama a vivere una realtà più alta di quella che ci appare. Vero e falso convivono nelle parole di Gesù. Per gli uomini la fanciulla è morta, irrimediabilmente, ma non così per lui, che è divenuto complice della fede di Giàriro con l’obbiettivo di riportarla alla vita. La verità del Cristo è destinata a prevalere su quella che l’aveva preceduta, non illegittima, piuttosto lacunosa, manchevole. Una verità semplicemente umana e per questo imperfetta, dimentica del proprio fondamento. Di fronte all’affermazione in apparenza irragionevole di Gesù la maggioranza dei presenti si comporta come accade di solito quando la parola di Dio si manifesta con particolare urgenza e senso critico nei confronti del mondo: deridono chi la pronuncia. La realtà degli uomini è molto solida, e la loro fede in essa è robusta, il loro punto di vista difficile da intaccare. Gesù non si lascia distrarre, non tenta di convincerli, la grazia del Signore è a disposizione di tutti, ma la sua accettazione non è mai imposta. Il Cristo fa allontanare tutti i convenuti i rimane nell’intimità della famiglia di Giàiro e della ristretta cerchia dei suoi fedeli più devoti, Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre apostoli della trasfigurazione e poi della veglia nell’Orto degli Ulivi. Davanti a questi pochi testimoni si compie il miracolo della resurrezione. Finali diversi chiudono i tre racconti evangelici, a conferma della complessità del messaggio e della ricchezza di letture che ogni gesto del Cristo offre. Per Matteo la fama dell’accaduto si sparge subito per tutti i dintorni. Secondo Luca Gesù intima invece il silenzio a tutti i testimoni del miracolo, secondo un costume che gli è solito, soprattutto all’inizio della predicazione. Marco fornisce questa versione, ma la sua narrazione è arricchita da un dettaglio di tenerezza umana. Appena la fanciulla torna in vita, Gesù ordina ai presenti di darle da mangiare. Il suo corpo ha bisogno di tornare alla pienezza dell’esistenza. Un’ultima riflessione è necessaria, riguardo a questo episodio evangelico di particolare importanza, dato che contiene il miracolo della resurrezione, della sconfitta della morte, ossia il gesto esemplare del fine per il quale il Cristo è venuto sulla terra. La sua assenza nel vangelo di Giovanni ci costringere a paragonarlo al grande miracolo della resurrezione di Lazzaro. Le similitudini sono numerose, a cominciare dalle parole di Gesù, prima di mettersi in cammino alla volta della sua casa: «Lazzaro, il nostro amico, si è addormentato, ma vado a svegliarlo». Una frase nella quale è condensata per intero la speranza della nostra religione. Tutti noi ci aspettiamo di essere, un giorno, svegliati dal Cristo che ci accoglie nell’abbraccio dei suoi amici, della sua Chiesa.


mondo

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Medioriente. Iraq, Afghanistan, Iran, Israele, Cina: il nuovo presidente ha troppi fronti aperti

Obama, profeta o illuso? Mentre il mondo islamico resta incerto, Barack tenta di riconquistare il Pentagono Andrea Margelletti segue dalla prima Per questa ragione, le prime immediate decisioni paiono frutto non dell’ingombrante nuovo segretario di Stato Hilary Rodham Clinton, quanto piuttosto di sue scelte precise. Tematiche legate all’ambiente, certamente impopolari in una Nazione ove da sempre le grandi case automobilistiche rappresentano i grandi elettori, o per lo meno una voce ascoltata, mostrano come il nuovo inquilino della Casa Bianca abbia the guts to try. L’invio di Mitchell in Medio Oriente e la dimostrazione a un dialogo con l’Iran sono chiari segni di una politica in evoluzione. Certamente le parole del presidente iraniano fanno più sorridere che preoccupare, difficile che Barack Obama

sia il primo presidente degli Stati Uniti a volersi sedere sul banco degli imputati per le ingerenze del Medio Oriente.

È il mestiere delle superpotenze, c’è solo da auspicarsi che sappiano usare la loro forza in maniera avveduta. Quello che nella sostanza conta è che il dialogo, tra mille difficoltà, è ripartito. Certamente sarà interessante vedere, anche a fronte di un’eventuale continuazione del rapporto con Teheran quali potrebbero essere le reazioni di Israele. Già Israele, la recente operazione “piombo fuso” ha lasciato una Gaza distrutta, un arsenale di Hamas sensibilmente ridotto, ma una leadership palestinese, e questo è il vero punto, ancora più frazionata e divisa. La tormenta-

ta area palestinese è più che mai nelle mani del vertice del movimento ultra ortodosso islamico, l’auspicato distacco tra la base della popolazione e il vertice del gruppo militante non è avvenuto, per lo meno nella misura in cui il governo israeliano si augurava. Non esistono quindi altri interlocutori che quelli con i quali nessuno vuole parlare. Anche questo dovrà essere un qualcosa su cui la nuova amministrazione Obama dovrà lavorare. Da un Iraq in via di sganciamento ad un Afghanistan sempre più compresso, le forze armate americane dovranno cercare di rafforzare il potere dell’alleato afghano anche nelle aree più remote del Paese. Ma la vera sfida di Obama verso il Pentagono è un’altra, riacquistare un “controllo civile”

Non esistono altri interlocutori che quelli con i quali nessuno vuole parlare. E su questo l’Amministrazione Usa dovrà lavorare. Con idee chiare sui militari che il precedente segretario alla Difesa aveva allentato. Le stesse spese per gli armamenti dovranno essere politicamente sostenibili in un Paese che sta vivendo una crisi economica anche morale. Infine la Cina. Il continente rosso è il vero competitor globale degli Usa, ma ambedue hanno interessi coincidenti.

Pechino ha investito fortemente nel debito americano e vede oltre 800 milioni dei propri cittadini ancora lontanissimi da quell’immagine di “Shangai da bere” che tanto affascina gli investitori occidentali. Tante sono le sfide, ma dopo gli 8 anni di amministrazione Bush, ci aspettiamo non soluzioni ma piuttosto idee chiare.

In primavera il contingente Usa a Kabul raddoppierà tregati, ahimé, dalle folkloristiche manifestazioni inaugurali negli Stati Uniti, distratti dalle interpretazioni del messaggio presidenziale, in questi ultimi tempi abbiamo un po’ distolto l’attenzione da altri eventi significativi, che potrebbero riguardarci da vicino. Il teatro afgano ci sta preparando, per il 2009, eventi meritevoli di un “osservatorio”più attento e continuo. Ad esempio, è passata quasi inosservata la visita che giovedì 22 e venerdì 23 gennaio il Segretario Generale della Nato Jaap de Hoop Scheffer ha compiuto a Islamabad, dove ha incontrato il presidente Zardari, i ministri degli Esteri, della Difesa e il capo di Stato maggiore, generale Parvez Kayani. Il suo arrivo era stato preceduto di qualche giorno dal generale Petraeus, nuovo capo di Cincent e responsabile, quindi, anche dei teatri afgano, pachistano e iracheno.

S

Ma il vero problema si chiama Islamabad di Mario Arpino si “chiude” il transito attraverso il Pakistan, da cui passa attualmente oltre tre quarti del materiale diretto in Afghanistan, i contingenti - ancorché potenziati - rischiano l’isolamento. Da qui la forte determinazione della Nato e degli Usa a consolidare il rapporto con Islamabad con forme di collaborazione civile e militare da ricercasi anche in attività al di fuori del teatro,

nistan. L’ impegno è visibile, e proprio in questi giorni si sono avuti scontri, con morti e feriti, tra l’esercito regolare e le milizie dei Talebani “di casa”per mantenere sgombera la rotabile che attraversa il passo.

Per coloro che sono meno familiari con la geografia locale, è bene precisare che l’importanza strategica di Khyber deriva dal fatto che oggi, per chi vuol accedere all’anello di comunicazioni interno all’Afghanistan, non c’è una gran varietà di scelte. In effetti, chi controlla alcuni colli di bottiglia è in grado di controllare ogni traffico, lecito o meno, tra Pakistan e Afghanistan. L’accesso di maggiore portata, quello più usato sia dalla Nato che dagli Americani, è appunto quello del passo che da Peshawar apre la strada per Kabul, attraverso Jalalabad. Un tempo l’anello poteva essere raggiunto anche da sud, per il passo di

Kabul può essere raggiunta dal Tagikistan attraverso Kunduz, oppure dall’Uzbekistan attraverso Mazar-i-Sharif, con un percorso di 600 Km fino a Herat

Ragione preminente in tutto questo andirivieni diplomatico-operativo è l’esigenza di assicurare in modo certo il rifornimento logistico delle truppe Isaf e statunitensi nel corso di un 2009 che si preannuncia assai caldo. È noto infatti che, come appena confermato dallo stesso Barack Obama, in primavera il contingente Usa verrà raddoppiato con soldati ritirati dall’Iraq, mentre anche la Nato si sta riorganizzando in termini di “numeri” e di efficacia operativa. È chiaro a tutti che se

ma comunque di interesse comune. La frequenza di corsi negli istituti dell’Alleanza da parte di ufficiali pachistani è stata accettata volentieri da entrambe le parti, le visite di scambio, già in atto, verranno incrementate a tutti i livelli e Zardari ha promesso, in cambio di questo e di altro, di fare ogni sforzo militare per mantenere transitabile il passo di Khiber, la via più agevole per raggiungere l’Afgha-

Khojak, sulla direttrice Qetta-Kandahar, ma oggi questo percorso è stabilmente infestato dai Talebani e da al-Qaeda. In alternativa, sarebbe anche possibile evitare il passaggio per il Pakistan, ma su percorsi a basso potenziale, poco adatti ad alimentare contingenti che nell’arco del 2009 saranno significativamente aumentati. Kabul, infatti, potrebbe essere raggiunta anche dal Tagikistan attraverso Kunduz, oppure dall’Uzbekistan attraverso Mazar-i-Sharif, con un percorso di circa 600 chilometri fino a Herat. L’opera degli Italiani della base avanzata di Bala Murghab, 250 chilometri a nord di Herat, ha recentemente potenziato la portata di questo percorso, realizzando un ponte di 45 metri che consente il passaggio di carichi fino a 60 tonnellate.

Petraeus, che ha ottenuto ampie garanzie dal governo pachistano, ha messo subito le mani avanti. Infatti, in una conferenza stampa tenuta a Islamabad la settimana scorsa dopo un tour in Turkmenistan, Tagikistan, Kirghisistan e Khazakistan, ha informato di essersi già assicurato anche l’autorizzazione al transito per le vie di accesso attraverso questi Paesi, ricordando che la quasi totalità del carburante necessario alle truppe Usa e Nato proviene dalla Russia. Come si può notare, le variabili per un successo in Afghanistan sono più d’una e basta qualche intoppo, non solo logistico, perché la missione diventi “impossibile”.


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29 gennaio 2009 • pagina 15

L’Iran respinge la mano tesa di Obama e pretende scuse per i “crimini “ Usa

Vogliamo fatti, non parole: la risposta di Ahmadinejad G

li Stati Uniti devono ritirare le loro truppe dispiegate all’estero, rinunciare alle loro ambizioni imperiali e chiedere scusa a Teheran per i «crimini» commessi verso l’Iran, che non hanno mai appoggiato negli ultimi 60 anni. Ecco le condizioni poste dal presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad al nuovo presidente americano Barack Obama. Queste la risposta di fuoco del leader iraniano all’indomani della «mano tesa all’Islam», lanciata dal neopresidente nella sua prima intervista pubblica alla rete saudita Al Arabiya. In un discorso pronunciato ieri nella città di Kermanshah, e trasmesso dalla tv iraniana, Ahmadinejad, oltre a ribadire la sua volontà di andare avanti con il nucleare, ha esortato Obama a passare dalle parole ai fatti e a intraprendere un «profondo cambiamento» nella politica estera del suo Paese, ritirando tutte le truppe americane dispiegate nei teatri all’estero. Se il presidente americano parla di «cambiamento», ha detto Ahmadinejad, allora «deve mettere fine alla presenza militare americana nel mondo e restare all’interno dei confini» del suo Paese. Il presidente iraniano ha inoltre affermato che Obama deve «scusarsi con il popolo iraniano, per rimediare ai crimini commessi in passato dagli Stati Uniti contro l’Iran», ricordando alcuni precedenti, come l’appog-

gio di Washington al colpo di stato contro il primo ministro Mossadegh nel 1953, l’opposizione alla rivoluzione islamica del 1979 e l’appoggio a Baghdad durante la guerra negli anni Ottanta. Obama ha più volte espresso, anche durante la sua campagna elettorale, la volontà di cambiare atteggiamento verso l’Iran e di aprire un dialogo diretto con il governo iraniano. Ma ad Al Arabiya ha fatto un passo avanti affermando: «quello iraniano è un grande popolo, e la civiltà persiana è una grande civiltà (...). Sono disponibile a parlare con l’Iran, spiegare molto chiaramente quali sono le nostre divergenze e indicare le vie possibili per fare progressi. Come ho detto nel mio discorso inaugurale, se Paesi come l’Iran sono pronti ad aprire il pugno, troveranno una mano tesa da parte nostra». Il Pentagono intanto frena: l’amministrazione Obama «Non ha tolto alcuna opzione dal tavolo» nei confronti dell’Iran, e tra le possibilità resta «il ricorso alla forza militare. Anzi, è importante che ci sia»: a dirlo il capo degli Stati Maggiori Usa, ammiraglio Mike Mullen, parlando ieri alla stampa estera a Washington e precisando di non aver ricevuto alcuna indicazione, dopo l’ingresso di Obama alla Casa Bianca, che faccia pensare a un cambio di linea in questo senso.

Mike Mullen, capo degli Stati maggiori Usa, ha detto che l’opzione di un attacco militare contro Teheran è ancora valida

Foto grande, il presidente iraniano Ahmadinejad e, a lato, Barack Obama, contro cui il leader di Teheran ha rivolto parole tutt’altro che amichevoli. In basso, l’ex ambasciatore Usa all’Onu Zalmay Khalilzad

Da Hillary a Joe Biden: il presidente afghano non può garantire gli obiettivi Usa nella regione

L’America “scarica”Karzai e punta su Khalilzad di Luisa Arezzo Washington, ufficialmente, sono ancora rumors, ma somigliano sempre più al noto “segreto di Pulcinella»: Barack Obama vuole sbarazzarsi di Hamid Karzai. Il presidente afgano, che ha sempre goduto del sostegno di George W. Bush, sarebbe stato già messo con le spalle al muro: gli Stati Uniti si attendono molto di più da lui nella lotta alla corruzione che sta devastando il Paese. E sono pronti a un’iniziativa clamorosa: abbandonarlo al suo destino proprio a pochi mesi dalle elezioni presidenziali. I primi segnali del cambiamento sono già arrivati: Obama, che considera l’Afghanistan il nodo centrale della sua politica estera, non è soddisfatto. E la sua amministrazione considera Karzai come un «potenziale impedimento» agli obiettivi degli Stati Uniti nel Paese mediorientale, dove la corruzione è sempre più diffusa, i talebani hanno guadagnato terreno e il narcotraffico è stato ridotto solo parzialmente.Tra i più insoddisfatti ci sarebbero due esponenti

A

chiave della nuova amministrazione: il vice presidente Joe Biden e l’inviato speciale per l’Afghanistan e il Pakistan Richard Holbrooke. Lo stesso Karzai del resto, conscio di quello che sarebbe stato il nuovo corso, negli ultimi mesi ha moltiplicato le dichiarazioni che miravano a mostrare autonomia da Washington di fronte all’elettorato afgano, in particolare insistendo perché fossero interrotti i raid degli aerei statunitensi che spesso colpiscono obbiettivi civili. Già poco prima dell’insediamento alla vice presidenza degli Stati Uniti, Biden si è recato in missione a Kabul. Ufficialmente come presidente della commissione Affari Esteri del Senato, di fatto come emissario dell’allora presidente eletto Obama. Che da allora “l’aria” fosse mutata si era già capito dopo che il neo presidente aveva deciso di dare un taglio al briefing quindicinale con il quale Karzai era solito tenere informato Bush. A corroborare la tesi di un nuovo corso a Washington nei confronti di Karzai, c’è anche l’ar-

rivo nei giorni scorsi negli Usa di quattro figure chiave dell’opposizione afgana.

I colloqui con alcuni esponenti dell’amministrazione americana hanno avvolorato l’ipotesi di un ”dream ticket”, un pool di rivali di Karzai pronti a correre insieme per tenere unite le di-

verse anime del paese e sconfiggere l’attuale presidente alle prossime elezioni. Si tratta di Abdullah Abdullah, ex ministro degli Esteri, considerato il leader degli afgani tajiki; Ali Ahmad Jalai, ex ministro degli Interni, pashtun, tra i leader della resistenza antisovietica; Ashraf Ghani, ex ministro delle Finan-

ze, pashtun, alla Banca mondiale dal ’91 al 2001; Gul Agha Sherzai, attuale governatore della provincia di Kandahar, veterano della resistenza antisovietica (quando Obama si è recato in Afghanistan a luglio lo ha incontrato prima ancora di vedere Karzai). Presi individualmente i quattro politici rischiano di dividere la base. Insieme potrebbero vincere le elezioni. Dal canto suo Hillary Clinton, segretario di Stato, ha raffreddato anche lei le speranze di Karzai. La scorsa settimana ha definito l’Afghanistan un “narco-stato” con un governo “afflitto da una capacità esecutiva limitata e da una diffusa corruzione”. E l’ex ambasciatore americano all’Onu, Zalmay Khalilzad, ha confermato che «sembra probabile il prossimo abbandono del governo centrale e una maggiore concentrazione sulle aree locali». Detto da Khalizad sembra più che un avvertimento. Ora che ha ceduto il suo posto all’Onu a Susan Rice, il candidato degli Stati Uniti alla presidenza dell’Afghanistan potrebbe essere lui.


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pagina 16 • 29 gennaio 2009

Davos. Putin incontra il premier cinese Jiabao. Cerca un maxi prestito e lo ripaga in energia

Soldi in cambio di gas di Ilaria Ierep

in breve Usa-Russia:dietrofront di Mosca sui missili Il fascino di Barack Obama fa presa anche sull’orso russo: alla pausa di riflessione annunciata dal nuovo presidente americano sul progetto per uno scudo antimissile in Polonia e Repubblica ceca segue oggi la notizia che Medvedev sospendera’ l’installazione di missili Iskander nell’enclave baltica di Kaliningrad (ex Koenigsberg), a un tiro di sasso da Varsavia. Anzi, precisa il ministero della difesa russo, quel progetto non è mai stato avviato, perché si sarebbe concretizzato solo in parallelo con il piano dell’amministrazione di George W. Bush, rimasto sulla carta. L’auspicio di Mosca è che vi resti per sempre. Anche perché gli Iskander, ammette una fonte anonima della difesa, «bisogna prima produrli».

Gaza, la tregua non decolla ella lunga guerra del gas che fino a pochi giorni fa ha visto confrontarsi Mosca e Kiev, la Russia sembra avere un alleato“di riserva”, la Cina. L’opzione asiatica, caratterizzata dalla insaziabile domanda di idrocarburi, consente al gigante russo di mantenere il pugno fermo con gli ex Paesi satelliti del Patto di Varsavia e di trattare con la più docile Unione Europea senza troppe preoccupazioni. La Russia trova in Cina un terreno favorevole, precedentemente preparato dall’allora presidente Putin, per incrementare la già elevata cooperazione tra i due Paesi. Sempre Putin, oggi Primo Ministro, e il suo omologo cinese,Wen Jiabao, colgono l’occasione del World Economic Forum di Davos, in corso in questi giorni nella cittadina elevetica, per un faccia-a-faccia. Al centro dell’imminente incontro ci sarà la questione energetica. Pechino, che per i suoi consumi di greggio si rivolge soprattutto alla penisola arabica e all’Africa, ha bisogno di accrescere i rifornimenti da Paesi più vicini, oltre che suoi alleati nella Sco, in special modo la Russia.

N

Il gas continua a rappresentare un’arma efficace nelle mani di Putin, consapevole del forte consenso di cui gode in patria. La posta in gioco è la prospettiva di un accordo che preveda un maxi-prestito cinese alle compagnie russe in cambio della fornitura di lungo periodo di petrolio e della costruzione del ramo cinese dell’oleodotto East SiberiaPacific Ocean (Espo). Si tratta di un progetto ancora in costruzione che, una volta completato, raggiungerà i circa 4mila chilometri di lunghezza, battendo

Ora che la Russia sta diventando un suo fornitore di gas, Pechino potrebbe anche chiudere un occhio sulle manovre del Cremlino nel Caucaso e ammorbidire le sue posizioni ogni record per un’infrastruttura petrolifera. Proprio il tracciato è stato oggetto di un lungo braccio di ferro tra Mosca, Pechino e Tokyo. La dorsale principale, che servirà specialmente il mercato giapponese, partirà da Taishet, in Siberia, per arrivare al terminal di Kozmino, sulle coste russe del Pacifico. Invece, da Skovorodino, nell’Estremo Oriente russo, dovrebbe staccarsi una diramazione che andrebbe a innestarsi sul sistema delle condutture cinesi a Daqing. Il piano si svilupperà in due fasi. Nella prima, la realizzazione del tronco da Taishet e Skovorodino, con una capacità di 30 milioni di tonnellate annue, e la costruzione del terminal di Kozmino. Nella seconda, vedrà la luce il tratto da Skovorodino a Kozmino e la capacità dell’oleodotto passerà a 80 milioni di tonnellate. La tratta russa della diramazione verso la Cina si proietterà per 67 km con una capacità

iniziale di 15 milioni di tonnellate. L’intera questione coinvolge tre compagnie statali: la cinese China National Petroleum Corporation (Cnpc), e le russe Transneft e Rosneft.

La trattativa sembrerebbe aver già raggiunto un punto in senso tecnico. Il tassello che manca è il via libera politico. I nodi ancora da sciogliere riguardano i tassi d’interesse che Cnpc richiede per il prestito. Uno scoglio che, a fine 2008, pareva vicino a essere superato. Ma, a quanto pare, manca ancora l’imprimatur politico. Una decisione che potrebbe rivelarsi meno complicata del previsto proprio grazie alla recentissima crisi del gas che ha interessato il versante occidentale. Mentre la Cina cerca di stringere i tempi, Mosca getta acqua sul fuoco. Quello che non può passare inosservato è che la Cina non

ha intenzione di subire lo stesso tipo di dipendenza che il monopolio energetico russo è riuscito a creare lungo le sue frontiere occidentali. Anche il governo di Pechino può permettersi di pensare sul lungo periodo, mettendo in secondo piano il momentaneo calo del prezzo degli idrocarburi. Mentre esercito e poliziotti tengono a bada le crescenti proteste che dalle campagne si estendono alla classe operaia di recente inurbamento, licenziata in massa da un giorno all’altro, il ministero dell’Energia pensa di raddoppiare la produzione nazionale annua di gas fino a 160 miliardi di metri cubi entro il 2015.

Questo significa che il contesto orientale, in cui Mosca sta cercando di accomodare le sue mire espansionistiche nell’ambito delle politiche energetiche, è totalmente diverso. Fino a oggi, gas e petrolio sono stati utilizzati come strumento di pressione soprattutto nei riguardi dei Paesi vicini, che il Cremlino ritiene propria sfera di influenza, appunto gli ex membri del Patto di Varsavia e le ex Repubbliche sovietiche. Inoltre, ha sapientemente sfruttato gli spazi offerti dalla indecisa Ue. Con la Cina, si ha a che fare con uno scontro fra titani. Ora che la Russia sta diventando un suo fornitore di gas, Pechino potrebbe anche chiudere un occhio in merito alle manovre del Cremlino in Caucaso. Se a fine agosto 2008 la Cina aveva manifestato una certa riluttanza nell’accettare l’intervento russo in Georgia, ora le leggi del mercato potrebbero ammorbidire le sue posizioni. Analista Ce.S.I.

Torna la tensione nella Striscia di Gaza dopo il ritiro dei soldati isrealiani e la bomba che martedì ha provocato la morte di un soldato di Gerusalemme e il ferimento di altri tre: la scorsa notte aerei da guerra israeliani hanno colpito i tunnel al confine tra la Striscia e l’Egitto. Gallerie che sono usate per fare entrare a Gaza armi e rifornimenti per i miliziani. Intanto il ministro israeliano della Difesa Ehud Barak ha deciso di annullare il suo viaggio negli Usa (doveva partire ieri sera) durante il quale avrebbe dovuto incontrare il suo omologo americano, il segretario alla Difesa Robert Gates.

Francia, giovedì nero per Sarkozy Centinaia di migliaia di persone, soprattutto lavoratori salariati, oggi manifesteranno o incroceranno le braccia in tutta la Francia, aderendo allo sciopero generale indetto da tutti i sindacati per la prima grande mobilitazione sociale dallo scoppio della crisi economica e dall’arrivo all’Eliseo del presidente Nicolas Sarkozy. Lo sciopero generale è guardato con simpatia da buona parte dell’opinione pubblica: il 69% lo ritiene “giustificato”, secondo l’ultimo sondaggio in ordine di tempo (Bva-Orange-Express).


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29 gennaio 2009 • pagina 17

Referendum a Berlino Nonostante polemiche e documentari sulla alimentazione poco sana offerta dai McDonald’s, cresce la domanda. E tra i Paesi dove l’espansione dovrebbe avvenire in misura maggiore c’è proprio l’Italia, oltre a Francia, Spagna, Russia e Polonia

McDonald’s. La catena sta per aprire 1000 ristoranti e assume 12mila persone

Crollano borse e mercati si salva solo il Big Mac di Maurizio Stefanini ig Mac Index fu l’indice economico inventato nel settembre 1986 dall’Economist per misurare in modo grezzo ma efficace il potere d’acquisto delle varie valute mondiali, in base al prezzo del popolare prodotto della catena McDonald’s. Jihad vs. McWorld fu nel 1992 il titolo dell’articolo sull’Atlantic Monthly, trasformato in libro tre anni dopo, con cui il politologo Benjamin Barber prevedeva il futuro scontro di civiltà tra globalizzazione capitalista e neo-fondamentalisti localisti. “McDonaldizzazione” fu il termine che nel 1995 il sociologo George Ritzer utilizzò come sinonimo della stessa globalizzazione. Fu per aver sfasciato un McDonald’s che nel 1999 il con-

B

no contro gli yankees, ma che proprio dei loro sprechi energetici avevano bisogno per mantenere i prezzi del greggio alti. Ma la McDonald’s, invece, va a gonfie vele. Intendiamoci: non è che la buriana dei mercati sia passata proprio senza nessun problema. L’utile netto dell’azienda ha infatti segnato una contrazione del 23% in 12 mesi, dagli 1,27 miliardi di dollari a 985,3 milioni. E le vendite si sono fermate a soli 5,57 miliardi di dollari, con un incremento del 3,3%, contro i 5,75 miliardi attesi. Insomma, però, parliamo pur sempre di guadagni, in un momento in cui da tutte le parti per le imprese si profilano invece passivi spaventosi. Con le Borse che crollano, la

L’utile netto dell’azienda ha segnato una contrazione del 23% in 12 mesi, dagli 1,27 mld di dollari a 985,3 milioni. E le vendite si sono fermate a 5,57 mld di dollari, con un incremento del 3,3%. Senza perdite tadino francese José Bové assurse alla gloria di leader e guru del movimento no global. Mentre nel 2005 il documentario anti McDonald’s Super Size Me ebbe la gloria di un Oscar proprio sull’onda dello stesso movimento anti-George W. Bush che aveva portato al successo pure le pellicole di Michael Moore. Naturalmente, contro i McDonald’s del Venezuela si sono abbattute le sfuriate di Hugo Chávez. Adesso, con la crisi che si è scatenata, quel mondo della globalizzazione capitalista di cui i negozi McDonald’s erano diventati il simbolo sembra traballare. Nulla di più logico, in apparenza, che la McDonald’s entri in crisi anch’essa.

E invece no. In crisi, assieme agli Stati Uniti e alle Big Three dell’industria automobilistica di Detroit, sono magari finiti Chávez o Ahmadinejad: che tanto sparava-

McDonald’s paga pur sempre un dividendo pari a 87 centesimi di dollaro per azione: che è meno dell’1,06 dollari di un anno fa; ma qualcosa di più rispetto agli 83 centesimi previsti nel momento in cui si era manifestata l’ampiezza della crisi. Per il 2009, dunque, mentre in tanti chiudono e si ridimensionano, la società continua a espandersi, preventivando un investimento pari a 2,1 miliardi di dollari a livello mondiale: sia per aprire 1000 ristoranti nuovi, di cui 240 in Europa; sia per ristrutturare quelli esistenti. Mentre in tanti licenziano, la McDonald’s dunque assumerà: nella sola Europa si parla di 12mila persone. E tra i Paesi dove l’espansione dovrebbe avvenire in misura maggiore c’è proprio l’Italia, oltre a Francia, Spagna, Russia e Polonia. In effetti, nella sorpresa c’è poco di sorprendente. Proprio nel momento in cui la

crisi costringe in molti a rinunciare a mangiare al ristorante, a veder bene, è abbastanza logico che chi in casa si trova a non poter andare e non abbia a disposizione mense aziendali finisca poi per ricorrere a una catena che, con tutti i suoi difetti, resta comunque una delle più economiche a disposizione.

Basti pensare alla campagna promozionale sulla possibilità di mangiare spendendo un solo dollaro! Né bisogna dimenticare che proprio dalla crisi era iniziato tutto. Nel 1937 i fratelli Dick e Mac McDonald avevano aperto la loro bancarella di hot dog nell’aeroporto della californiana Monrovia e nel 1940 avevano creato il loro primo ristorante nella pure californiana San Bernardino. Due decisioni, quei due primi passi del futuro impero, prese in un’epoca di New Deal in cui erano ancora scottanti gli strascichi del crack del 1929, e ancora aperti i penny restaurants che erano stati aperti per permettere di mangiare con una monetina anche a quegli indigenti e disoccupati che si sarebbero vergognati a prendere le zuppe gratis delle soup kitchens. D’altra parte, una delle ragioni per le quali la McDonald’s era diventata un simbolo della razionalizzazione globalizzante era proprio per la sua efficienza quasi weberiana: tant’è che le critiche che la investono riguardano per lo più l’accusa di privilegiare le ragioni di questa efficienza alla salute dei clienti, o agli interessi dei suoi dipendenti, o alle ragioni dell’ambiente. Che sono pure problemi importanti. Salvo che, da Fannie Mae e Freddie Mac fino a Lehman Brothers e alle Big Three di Detroit, la crisi attuale nasce dal problema opposto: di società, cioè, che l’abc della razionalità economica weberiana lo avevano dimenticato, per correre appresso al virtuale, agli sprechi e ai debiti.

Etica o religione a scuola? di Katrin Schirner nsegnare ai ragazzi etica o religione? A Berlino infuria da anni una sorta di Kulturkampf arrivata oramai al culmine. A seguito di un’iniziativa popolare si chiede a tutti i berliner di decidere per referendum (probabilmente in concomitanza con le elezioni Ue di giugno), l’eventuale introduzione della religione come materia obbligatoria. Sin dal 1948 Berlino ha uno status particolare nel campo dell’istruzione. La religione, a differenza degli altri Laender (in Germania l’istruzione è competenza del singolo Land), è materia facoltativa (obbligatoria nel resto del Paese). Mentre, dal 2006 dopo che una giovane donna turca fu uccisa dal fratello e l’evento fu salutato come un “omicidio d’onore“ da alcuni studenti musulmani è obbligatoria l’ora di etica, dove si studiano le diverse confessioni e si analizzano i valori alla base della Costutuzione e della convivenza comune. Il “Pof” prevede che l’insegnante di etica sia affiancato anche dai rappresentanti di tutte le religioni, e questo per far sì che non venga confusa con una lezione di ateismo. Fatto sta che, in questa maniera, alle lezioni di religione - su base volontaria, come in Italia - non partecipava più nessuno. E su questo è lentamente divampato un incendio e un movimento che - come iniziativa popolare - ha raccolto più di 200mila firme per indire un referendum utile a far scegliere a genitori e alunni se preferiscono l’etica o la religione. E quindi: lezioni seperate per atei, cattolici, protestanti, musulmani, ebrei e via di seguito. Apriti cielo. Chi si oppone all’iniziativa teme che non sia questo il modo di assicurare quella comprensione tra le religioni e la costruzione di valori comuni necessaria al XXI secolo, soprattutto in una città multiculturale come Berlino. Nel 2007, poi, la Corte Costituzionale già aveva respinto una causa contro l’insegnamento di etica. La maggioranza dei deputati a Berlino è d’accordo nel non cambiare nulla. Al referendum si vedrà come la pensano i cittadini.

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cultura

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L’intervista. Parla la regista tedesca autrice di Sorelle, L’Africana e Anni di Piombo. In attesa del prossimo lavoro sulla vita di Hannah Arendt

Il “chirurgo” dell’anima Le passioni, i sogni, le illusioni e i disincanti A tu per tu con Margarethe von Trotta di Marino Parodi ersonaggio affascinante come pochi, Margarethe von Trotta. La grande regista tedesca è dotata di fascino e trasmette quella viva soddisfazione tipica di chi è riuscito a realizzare grandi progetti, pur restando una donna assolutamente “alla mano”. Porta assai bene i suoi sessantasei anni, è una donna di grande stile, discreta e schietta, assai riflessiva e sottile, gentile e precisa. Ci incontriamo nel bell’appartamento in cui risiede attualmente, nel centro di Monaco di Baviera (normalmente vive a Parigi, dopo aver cambiato tante volte città e Paese nella sua vita e dopo aver trascorso tra l’altro sette anni nel nostro Paese). Margarethe von Trotta conversa volentieri, anche se dai magnifici e penetranti occhi azzurri traspare un sottile velo di malinconia. Si sente una donna felice? Mi sento sicuramente soddisfatta di ciò che ho potuto realizzare e sono grata alla vita per aver avuto la possibilità di valorizzare i miei talenti. Ma felice non direi..Se mi sentissi felice, con tutta probabilità mi mancherebbero gli stimoli per evolvermi, per creare qualcosa di nuovo. Sono una donna che si è sempre sentita lontana anni luce dall’artista chiuso nella sua torre d’avorio, pago della sua arte e insensibile di fronte al mondo. Bene o male, ho sempre cercato di impegnarmi per il mio prossimo e mi chiedo come si possa essere felici in un mondo come questo. Sa, è possibile anche raggiungere la felicità e al tempo stesso impegnarsi nel mondo, senza però lasciarsi coinvolgere dalle sue sofferenze... Lo sostengono buddisti e sacerdoti, ma io non mi ritrovo in questa posizione. Qual è la sua posizione a proposito di spiritualità e religione? Sono sempre stata interessata all’una e all’altra..Come si può escludere una parte così fondamentale e determinante della cultura, della natura, della vita?

P

E ancora, che regista sarei se, disinteressandome, fornissi un quadro assai distorto della realtà? Sin da piccola, allorché, ricevendo una formazione protestante frequentando il Catechismo, invidiavo i miei amichetti i quali si confessavano regolarmente. “Voglio confes-

senza per questo cessare di interessarmi a ogni religione e forma di spiritualità.Cristianesimo, Buddismo, Islamismo. A quest’ultimo mi sono in particolare interessata negli ultimi tempi, anche sulla spinta dell’attualità e sono convinta che sia una religione assai ricca di spiritualità: mi pare assurdo ridurla alla sua versione becera e integralista.

nel quale si affronta tra l’altro il tema della guarigione spirituale, ma in fondo anche ad Anni di Piombo (il famoso film del 1981, ambientato all’epoca del terrorismo, che ha reso la Von Trotta famosa in tutto il mondo, ndr), dove, a ben vedere, la tragica scelta della ragazza-modello che abbraccerà la lotta armata parte da una disperata ricerca esisten-

Sono una donna che si è sempre sentita lontana anni luce dall’artista chiuso nella sua torre d’avorio, pago della propria arte ma insensibile di fronte al mondo

sarmi anch’io!”, dicevo a mia madre, donna religiosa, la quale mi spiegava con pazienza che noi protestanti non avevamo bisogno di confessarci. “Confessati da me”, concludeva per calmarmi. L’atmosfera che si respira in una chiesa mi ha poi sempre affascinato, per lo più quella della chiesa cattolica, così ricca di colori e di vita, mentre quelle protestanti sono così spoglie e fredde, occupate sempre e soltanto dal solito crocifisso. Da adulta ho poi lasciato la Chiesa Protestante,

la regista

Benché, pur amandole tutte, non mi identifichi con nessuna religione, avverto comunque la misteriosa presenza del Divino nella vita. Questo si intuisce anche osservando molti suoi film, nei quali la ricerca dell’Assoluto e la domanda esistenziale di fondo, pur in maniera discreta, è comunque sempre presente,in qualche modo. Penso ad esempio a Sorelle, a Paura e amore, all’Africana,

Dopo gli esordi come attrice in alcuni film di R.W. Fassbinder, Margarethe von Trotta passa dietro alla macchina da presa dirigendo con il marito V. Schlöndorff “Il caso Katharina Blum” (1975). Si fa apprezzare con i successivi “Il secondo risveglio di Christa Klages” (1978), “Anni di Piombo” (1981) e “Lucida follia” (1983), nei quali tratta temi forti come il terrorismo, la crisi sociale e il dramma psicologico con uno stile apparentemente freddo che lascia ampio spazio alla performance degli attori e al dipanarsi dell’azione drammatica. Con “Rosa L” (1985), sulla figura di Rosa Luxembourg, e “Paura e amore” (1988), sposta l’attenzione sulla coscienza civile, culturale e politica delle donne. In “La promessa” (1995) problemi e crisi d’identità allargano la prospettiva all’intera Germania in una fase storica tanto importante quanto difficile dopo l’unificazione tra Est e Ovest. In “Rosenstrasse” (2003), ambientato nella Berlino del 1943, dirige una strepitosa K. Riemann, premiata alla Mostra del Cinema di Venezia con la Coppa Volpi.

ziale. Non a caso, lei ha sempre riconosciuto in Ingmar Bergman un grande maestro. A proposito,

che pensa della vita dopo la morte? Penso che una sorta di energia sopravviva alla morte fisica. Se poi a sopravvivere sia anche la nostra identità, la nostra individualità, proprio non lo so... Certo, mi piacerebbe che così fosse, sarei ben felice di rivedere i miei genitori e i miei amici... Restando in una prospettiva meramente razionale, possiamo osservare che ricercatori e scienziati di tutto rispetto, analizzando tanti fenomeni della mente, sono giunti alla certezza della sopravvivenza della personalità individuale... Ho letto molto al riguardo, ad esempio i libri della KueblerRoss, trovandoli estremamente interessanti. Io stessa ho vissuto qualche esperienza significativa al riguardo: all’epoca della realizzazione del mio film Rosa Luxembourg incontrai a Torino una signora, la quale mi fornì numerose informazioni sulla vita della rivoluzionaria, poi rivelatesi assolutamente puntuali e precise. La medium in questione non avrebbe potuto attingere in alcun modo a tali notizie. E ancora, un mio altro film, L’Africana, dove tra l’altro si parla del percorso esistenziale di una donna segnata da una grave malattia, è stato appunto ispirato alla vicenda analoga di una mia cara amica, la quale, appunto, prima di trapassare era giunta alla certezza di un’altra vita, proprio come sostiene la KueblerRoss. Comunque penso si tratti di doni non alla portata di tutti.


cultura A sinistra e nella pagina a fianco, la regista tedesca Margarethe von Trotta. In basso e a sinistra, alcuni fotogrammi e locandine dei suoi film tra i più celebri e apprezzati: “Anni di Piombo” (1981); “Rosa L” (1985), sulla figura di Rosa Luxembourg; “Paura e amore” (1988); “Rosenstrasse” (2003)

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Per ora cerco di concentrarmi sulla vita presente, restando aperta, speranzosa e curiosa circa l’eventuale vita che forse ci attende dopo questa. Del resto, se proprio dovessi identificare una caratteristica che meglio contraddistingue la mia personalità, direi che questa è proprio la curiosità. Quindi Lei vede nella curiosità una importante leva che l’ha portata ad af-

que, direi che è stata sicuramente una grande regista, la cui principale preoccupazione era quella di realizzare le sue opere e disposta a tal scopo a ricambiare chiunque gliene offrisse l’opportunità: se al posto di Hitler vi fosse stato Stalin, penso che per lei sarebbe stato esattamente lo stesso. La Riefenstahl pagò sicuramente caro il suo errore, molto più di tanti intel-

losofa, sociologa, politologa di grande rilievo ed ebrea. Realizzare un film del genere costituisce una grande sfida, non solo perché si tratta di un personaggio dalla vita assai movimentata e avventurosa, ma anche e più ancora perché si tratta di rappresentare sullo schermo le sue idee. La Arendt visse tra l’altro il dramma di un grande e lungo amore col suo maestro, il filosofo Martin Heidegger, il quale appoggiò apertamente il regime nazista, mentre ella fu costretta a fuggire all’estero...

to, ma in fondo mi sarebbe piaciuto essere più dotata. Poi, forse, mi sposerei ancora una volta... (La regista è stata sposata e divorziata due volte, la prima con uno storico, padre di suo figlio, la seconda col regista Volker Schloendorff, ndr). Del resto, se consideriamo il punto di partenza della sua interessantissima avventura esistenziale, è facile ricevere l’impressione che basi così originali non potessero che dar vita a esiti speciali... Vuole accennare alle sue origini? Volentieri. Mia madre era una aristocratica russa, nata nel 1900, assai colta, poliglotta e dal temperamento artistico, di famiglia agiata, emigrata in Germania a seguito della rivoluzione che l’aveva privata di ogni bene. Una donna estremamente positiva, sensibile ed intelligente: il nostro rapporto fu sempre ispirato a grande confidenza. Tra l’altro, a differenza di certi suoi parenti, lungi dal provare qualunque sentimento negativo, cercava sempre di comprendere, senza mai giudicare, anche coloro che l’avevano depauperata e costretta all’esilio: pur senza mai approvare il comunismo, vedeva bene che la causa era in fondo da ricondursi a quello sfruttamento dell’uomo sull’uomo che aveva per secoli caratterizzato il regime zarista. Mio padre, pittore, quindi artista anche lui e di vent’anni più grande di mia madre e come lei uomo estremamente sensibile e generoso, nella realtà sicuramente distante dall’immagine un po’ severa che mi ero creata di lui, del resto morì quando avevo appe-

fermarsi in un campo ancora massicciamente dominato dagli uomini. Come è noto, nel passato vi è stata una sua connazionale, la Riefenstahl, pure lei coronata da successo mondiale come regista, almeno sino al momento in cui, a seguito del crollo del nazismo, venne accusata di aver fatto propaganda al regime. Lei quale idea si è fatta circa il discusso personaggio, ha avuto modo di conoscerlo? Non l’ho mai incontrata di persona, ma non perché non l’abbia voluto: semplicemente è mancata l’occasione. Comun-

lettuali, artisti e scienziati che diedero al regime nazista un contributo assai più determinante e sostanzioso di lei. Mi dicono che si pentì amaramente del suo grave errore, come ella stessa ebbe a dichiarare a più riprese, e non ho motivo di dubitare della sua sincerità. Lungi da me qualunque giudizio nei confronti del prossimo, comunque, anche perché non so proprio che cosa avrei fatto io al suo posto. Nello stesso periodo si svolge, almeno in parte, il film che lei sta ora realizzando. Vuole raccontarci di che cosa si tratta? Della vita di Hannah Arendt, fi-

C’è qualcosa di fondamentale che cambierebbe nella sua vita, se avesse la possibilità di ricominciare? Bisogna tenere presente che chi, come me, è nato durante il nazismo e durante l’ultima guerra mondiale, si è trovato fortemente influenzato dalle condizioni storiche. Chi lo sa, mi piacerebbe realizzare film migliori, oppure dedicarmi alla scrittura: per lo più io sono pure autrice dei miei film, ma mi sarebbe piaciuto creare anche saggi e romanzi. Ho scelto di concentrarmi su regie e sceneggiature perché sentivo che ciò corrispondeva al mio talen-

na dieci anni. I miei genitori si amavano moltissimo e mi hanno amata moltissimo. In particolare mia madre, alla quale io raccontavo tutto. Credevo che anche lei facesse lo stesso... Vuol spiegare meglio? Io avrei sempre desiderato avere una sorella e non a caso il rapporto tra sorelle è un tema costante dei miei film, e da bambina avevo immaginato di avere una sorella, che chiamavo Anna Maria - Anna e Maria si chiamano, non a caso, le due sorelle protagoniste di quello che rimane, tra i miei film, il mio preferito, ossia Sorelle). Bene, nel 1987, poco dopo la morte di mia madre, io scoprii

di avere davvero una sorella, nata quasi vent’anni prima di me, della quale sino ad allora non avevo mai saputo nulla! Mia madre non era sposata quando le nacque la bimba, che diede subito in adozione ed evidentemente per lei il dolore era stato così acuto da non riuscire ad aprirsi nemmeno con me, che ero la sua grande confidente, nemmeno a tanti anni di distanza. E’ stato comunque bellissimo scoprire di avere una sorella e conoscerla: con lei naturalmente il rapporto tuttora continua. Lei è uno dei pochi registi “d’autore”rimasti: le piace scavare nel profondo dell’anima. Pochi sceneggiatori e registi si sono rivelati capaci di scandagliare la ricchezza e la contraddittorietà dei sentimenti umani, di mettere a tema con tanto coraggio la ricerca della felicità, l’amore, la parentela, l’amicizia... La psicologia mi ha sempre affascinato. A diciotto anni, eravamo agli inizi degli anni Sessanta, mi trovavo a Parigi come ragazza alla pari e mi divorai l’intera opera di Freud in francese. Pur avendo mai smesso di apprezzare il padre della psicanalisi, ben presto mi innamorai però di Jung, di un amore che continua tuttora. Pensiamo alla sua apertura a trecentosessanta gradi nei confronti di ogni orizzonte della psiche, dai simboli alla spiritualità, dalla ricerca della propria identità alla dialettica tra animus e anima, tra maschile e femminile.Quest’ultima in particolare ha molto influenzato il mio cinema. Margarethe, prima di sa-

lutarci le chiedo di soddisfare una curiosità forse un po’ banale: è evidente che il lavoro la impegna molto, ma come trascorre il suo tempo libero? Mi piace osservare, riflettere, oltre a trascorrere il tempo con coloro che più mi sono cari. Poi, leggo incessantemente, di tutto: romanzi, saggi di storia, filosofia, politica, religione, spiritualità e altro ancora. Infine, amo dedicarmi al prossimo, principalmente in due modi: ascoltando coloro che vogliono confidarmi i loro problemi e attraverso il denaro, attraverso il quale posso soccorrere tanti casi umani.


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cultura

comunisti? Non mangiavano i bambini. O perlomeno non mangiavano solo loro. È vero: di episodi di cannibalismo trattano diversi rapporti dell’Unione Sovietica, in particolare quelli che danno conto di alcune deportazioni in Siberia durante la purghe staliniste. E tuttavia se proprio potevano scegliere, i proletari erano assai più di bocca buona, sebbene disprezzassero inutili infingimenti che oggi definiremmo da «nouvelle cousine».

Tra gli scaffali. Ristampato di recente “Il libro del cibo gustoso e salutare” voluto da Stalin

Ricorda Wladimir Kaminer nel suo saggio La cucina totalitaria (traduzione di Riccardo Cravero, Guanda, pp. 183, euro 14,50) che «quella russa è una cucina semplice, che ti sazia. È costituita da cinque piatti, con qualche variazione, che hanno un unico scopo: riempire in fretta lo stomaco. Per viziarci avevamo la cucina sovietica, con i suoi manicaretti totalitari. In mezzo secolo aveva sistematicamente ciucciato le migliori ricette delle quindici repubbliche dell’Unione Sovietica, riunendo in un’unica federazione tutte quelle tradizioni culinarie diverse: la piccante cucina ucraina, quella asiatica con i suoi esotismi, la sana cucina baltica e una dozzina di altre». A mettere la mordacchia alla creatività culinaria nella dacia, dunque, non c’era riuscito neppure il socialismo reale. Certo: Stalin & Co. ci avevano provato, ma l’esito, malgrado i primi incoraggianti segnali, non era stato tra i migliori. Eppure, come segnala Ljiliana Avirovic (Rivoluzione in cucina, Excelsior 1881, pp. 135, euro 24,50) un tentativo radicale era stato compiuto. A volerlo perseguire era stato il dittatore di Gori in persona, che a guerra in corso si era prodigato per pubblicare un manuale, Il libro del cibo gustoso e salutare (ora ristampato dall’editore milanese) che esaurì la prima edizione – oltre 500.000 copie – in pochissime settimane. Obiettivo? Dopo le istituzioni e l’istruzione, Karl Marx doveva arrivare anche a tavola. Magari travestito da pietanze semplici e povere, condite dalla melliflua propaganda comunista. A leggere le introduzioni al manuale, tutto ispirato ad una rude pedagogia domestica, la Mosca degli anni ‘30 sembra il paradiso terrestre: «Nel corso degli anni e dei piani quinquennali stalinisti, nell’Unione Sovietica è stata costituita una potente industria alimentare. Essa produce un’immensa quantità di prodotti atti a soddisfare i gusti più diversi e ogni necessità della popolazione, per grandi e piccini, per sani e malati». Tra un lode e l’altra, l’anonimo prefatore era però costretto a constatare che «ogni anno che passa cresce sempre di più, da parte della popolazione, la richiesta dei cibi ad alto valore nutrizionale». Per questo, la produzione e la diffusione di «prodotti precedentemente inesistenti e sconosciuti in tutta la Russia» era divenuta quasi

di Filippo Maria Battaglia

I

La dieta dei comunisti (oltre ai bambini) Di recente, la casa editrice Excelsior ha ristampato “Il libro del cibo gustoso e salutare” voluto da Stalin in persona (foto in basso). A guerra in corso, il dittatore si era prodigato per pubblicare il manuale, che esaurì la prima edizione (oltre 500.000 copie) in pochissime settimane. Obiettivo? Dopo le istituzioni e l’istruzione, Karl Marx doveva arrivare anche a tavola

Le ricette erano per lo più semplici e comuni: verdure, insalate e conserve, ma tra una barbabietola e un cavolo rosso c’era anche il tempo di dare qualche ricetta un po’ più elaborata

una necessità. A fine conflitto, infatti, arrivavano – almeno sulla carta – il ketchup e la maionese, ma anche i succhi naturali di frutta e di verdura e i nuovi prodotti a base di farina. Gli ultimi ritrovati alimentari sembravano spalancare nuovi

scenari in cucina. Impensabile, farsi trovare impreparati. Spazio dunque a un vero ricettario, tutto improntato – era Stalin a chiederlo - «sulla quantità, la qualità, l’assortimento dei prodotti nutritivi». Parole che, lette col senno di poi e considerata la diffusa povertà durante il regime stalinista, possono persino sembrare umoristiche e surreali. Ma che tra gli apparatchik erano prese assai sul serio.

Le ricette erano perlopiù semplici e comuni, verdure, insalate e conserve abbondavano, ma tra una barbabietola e un cavolo rosso c’era anche il tempo di dare qualche ricetta un po’ più elaborata: «La sossika o salsiccia è buona, se cotta con l’aggiunta di sale nell’acqua e viene servita

con senape e con rafano grattugiato. Presentata così, è una pietanza calda, “piccola”e gustosa. Le salsicce possono essere però servite anche in altri modi. Tagliatele longitudinalmente in 3-4 pezzi, fatele saltare nell’olio per 2-3 minuti, poi su una padella a parte disponete il pomodoro tagliato a fette sottili, salate e pepate. Mettete di nuovo tutto insieme e cuocete per 2-3 minuti. Disponete infine salsicce e pomodori in un recipiente e spargetevi sopra un po’ di prezzemolo tritato. A seconda dei gusti, si può aggiungere anche un pizzico di aglio tritato. Il pomodoro fresco può essere sostituito da quello in conserva, oppure da concentrato di salsa di pomodoro».

Nel “Libro del cibo gustoso e salutare” si trova poi il ricettario della cena offerta da Stalin a Tito, durante lo storico incontro nella dacia del segretario del PCUS il 21 settembre 1944: caviale rosso russo, storione e murena marinate, cetrioli leggermente sottaceto, gulas alla georgiana nel vino con gnocchetti, giovani pollastri allo spiedo alla russa, funghi conservati, frittelle e mirtilli. Che i due satrapi del comunismo, a guerra in corso, potessero mangiare simili prelibatezze non è difficile da credere. Ma immaginare che il povero proletario potesse assaggiare anche solo un quarto della cena trimalchionica consumata quella sera, questo era davvero troppo. Persino per i più zelanti esecutori dei diktat stalinisti.


spettacoli

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Musica. Grande successo per il sesto album del cantautore, in uscita dal 13 gennaio e registrato con la moglie Susan Tedeschi

Le nozze chimiche di Derek Trucks di Valentina Gerace utti i più grandi poeti, scrittori, pittori e musicisti hanno iniziato a esprimere se stessi attraverso l’arte fin dall’infanzia. Si parla di bambini prodigio, che riescono a sviluppare abilità tecniche e soprattutto creative visibilmente al di sopra della media. Nella storia della musica classica si incontrano tante di queste biografie. Ma non solo nella musica classica. Il percorso di Derek Trucks, oggi considerato un dio del Southern rock e della chitarra funky, è stato simile. A soli 9 anni adocchia in una vetrina quella che sarebbe diventata la sua prima chitarra. Un acquisto apparentemente illogico ma che gli cambia la vita. Sicuramente essere il nipote del grande Butch Trucks, leggendario fondatore e batterista degli Allman Brothers Band, lo aiuta a penetrare presto nell’affascinante mondo della musica e dei palcoscenici. Derek ha solo 10 anni quando inizia a seguire la band dello zio. Ma nonostante il percorso sia quasi già tracciato, Derek non si accontenta. Desidera creare un suo genere musicale, nuovo originale. E di certo le basi non gli mancano. A 12 anni forma la Derek Trucks Band, che diventa la sua formazione storica e lo segue per più di dieci anni. Formata da Todd Smallie al basso, Count M’Butu alle percussioni, Yonrico Scott alla batteria, Kofi Burbridge alle tastiere e flauto, e il cantante Mike Mattison, condivide con lui un percorso di vita simile. Tutti musicisti giovanissimi, che creano uno stile variegato, dinamico, passando gradualmente da “sognanti” parti soft a quelle più scatenate e viceversa toccando temi e colori di ogni tipo: funk, blues, country, jazz, R&B, ritmi africani, indiani e rock.

lmann Brothers. Una slide simile a quella di Ry Cooder, un soul come quello di Aretha Franklin. Ma il suo cavallo di battaglia è senza dubbio la sua band la Derek Trucks Band che negli ultimi 10 anni è stata la sua vita.

T

Per ascoltare Already free, il sesto album della Derek Trucks Band, uscito il 13 gennaio, è necessario liberarsi da ogni classificazione o schematismo di generi. Registrato in maniera del tutto informale e improvvisata nel suo studio di Jacksonville, in Florida, è un miscuglio di frammenti di storia musicale popolare americana. Una raccolta di cover e materiale nuovo che racchiude una varietà di stili e ritmi musicali, dal Southern rock, al soul e il jazz per risolvere tutto in uno stile funky-blues colorato da ritmi africani, indiani e impreziosito dalla favolosa slide di Derek. Preziosa la presenza della moglie Susan Tedeschi, il cui blues gutturale alla Bonnie Raitt e Ja-

“Already free” è una raccolta di cover e materiale nuovo che racchiude una varietà di stili e ritmi: southern rock, soul, jazz e funky-blues nis Joplin aggiunge valore a un album che rappresenta una pietra miliare del rock. Gli Allman Brothers, si incastonano e si alternano tra le cover di Bob Dylan e il gospel-blues degli Spooner Oldham-Dan Penn. E ancora tra il funky di Paul Pena, con Something to Make You Happy e l’intensa I Know dei Big Maybelle. Ma anche splendidi brani originali, dalla ballata cantata da Susan Tedeschi Back where I started al blues

alla John Hiatt di Get what you deserve, alla ballata soul vintage anni ’60 di These Days Is Almost Gone, caratterizzata dall’organo hammond B-3 dell’eclettico Kofi Burbridge. Per arrivare alle languide chitarre firmate Derek- Bramhall II di Maybe this time e Our love. Conclude il disco uno spiritual che vede la voce di Susan alternarsi a quella del marito per un duetto intenso e travolgente.

Un disco senza tempo che racchiude l’amore enciclopedico che Derek nutre per il blues e l’R&B e che immortala la band in un modo che nessun loro disco precedente ha mai fatto. A soli 29 anni Derek Trucks vanta una carriera ricchissima. Ha interpretato classici della musica americana, girato il mondo esi-

bendosi con la moglie, cantante e chitarrista blues Susan Tedeschi, e con gli Allman Brothers per un totale di circa 400 concerti solo nel 2000. Ha affiancato divinità del rock come Eric Clapton, Carlos Santana, Willie Nelson, Buddy Guy, Joe Walsh e Stephen Stills. E ha collaborato alla realizzazione di vari dischi con gli Scrapomatic, McCoy Tyner e la moglie Tedeschi. Il suo stile particolare è ormai leggendario. Cerca di mantenere il suono più puro possibile evitando effetti o pedali, generalmente non usa il plettro ed è diventato uno specialista nella chitarra Slide dove dal 1999, in coppia con Warren Haynes, si alterna alla chitarra solista negli Al-

In uscita dallo scorso 13 gennaio, il sesto album di Derek Trucks “Already free” è già un enorme successo internazionale, una raccolta di cover e materiale nuovo che racchiude una varietà di stili: southern rock, soul, jazz e funky-blues

Quando Derek incide l’album di debutto, The Derek Trucks Band nel 1997 non ha neppure 18 anni. Prodotto da John Snyder (che ha lavorato con Etta James, Dizzy Gillespie, e Ornette Coleman) il disco ha una impronta jazz e contiene classici di John Coltrane (Naima) e Miles Davis (So what), ovviamente in una versione del tutto creativa e originale, alternati a ritmi Southern rock boogie di impronta Allman Brothersiana come Out of madness. Un album decisamente originale in cui grandi standard jazz vengono riproposti in chiave del tutto nuova, moderna, grazie al particolare uso della slide di Derek. Segue l’album del 1998 Out of madness, in cui è evidente l’influenza dei leggendari Allman Brothers con cui Derek continua a suonare e esibirsi. Il 2002 è l’anno di Joyful noise a cui partecipano alcuni ospiti leggendari. Dal pioniere dell’R&B e blues man Solomon Burke (Home in your heart, Like anyone else) all’icona della musica latina Rubèn Blades, al cantante pakistano Rahat Nusrat Fateh Ali Khan (che dopo l’11 settembre, non potendo ottenere un visto per gli Stati Uniti, è costretto a registrare il disco a distanza). E come poteva mancare la carismatica Susan Tedeschi, che anche in questo disco sembra amalgamarsi perfettamente allo stile del marito. Nel 2006 la band accompagna Derek nel suo disco migliore, Songlines. Il giovane chitarrista riesce a creare un’atmosfera personale, calda, anni ’70.Dall’iniziale Volentered Slavery del multistrumentista nero non vedente Roland Kirk, alla successiva I’ll Find My Way attraverso il cantico indiano di Sahib Teri Band/Maki Madni dell’influente Nusrat Fateh Ali Khan, che immaginiamo dal vivo diventare un vero e proprio mantra corale, fino a Revolution del giamaicano Fred “Toots” Hibbert, leader dei Maytals, che nelle mani della Derek Truck Band assume toni da naturale inno del gruppo. Non ci sono dubbi. Already free conferma Derek un dio della chitarra. E come lo ha etichettato il pittoresco re del blues e del country Willie Nelson, uno tra i migliori chitarristi di questi ultimi anni.


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dal ”Washington Post” del 28/01/2009

Rush Limbaugh e il futuro del Gop di Chris Cilizza passata una sola settimana dall’inizio della presidenza di Barack Obama e il suo “arci-nemico” non è il leader della minoranza al Senato, Mitch McConnell, quello della minoranza alla Camera, John Boehner, o pergino uno della miriade di candidati interessato a sfidarlo nella corsa alla Casa Bianca del 2012. È il conduttore radiofonico Rush Limbaugh. Limbaugh si è attirato una straordinaria attenzione, nei giorni che hanno preceduto l’inaugurazione dell’amministrazione Obama, quando ha dichiarato di sperare che il nuovo presidente fallisse, come evento necessario a un generalizzato ripudio delle idee liberal negli Stati Uniti. Obama ha alzato la posta in gioco la scorsa settimana, quando in un meeting privato con i repubblicani, si è riferito al tipo di politica portato avanti da Limbaugh come a una delle ragioni per cui negli ultimi anni non è stata portata a termine alcuna riforma significativa.

È

Lunedì, poi il capo ufficio stampa della Casa Bianca, Robert Gibbs, ha provocato nuovamente Limbaugh. Alla domanda di entrare nel dettaglio dei commenti di Obama alle parole del conduttore radiofonico, Gibbas si è schernito e poi ha aggiunto: «Dite a Rush che lo saluto». Non sorprendentemente, Limbaugh ha accettato la sfida. Di Obama ha detto: «È naturalmente più spaventato da me di quanto non lo sia da Mitch McConnell. È più spaventato di me di quanto non lo sia, per fare un altro esempio, da John Boehner, che non è molto rappresentativo del nostro partito». Tutti questi“botta e risposta”tra Limbaugh e Obama arrivano appena qualche giorno prima che i membri del Republican National Committee si riuniscano a Washington per eleggere il prossimo presidente dell’orga-

nizzazione, un evento che è stato quasi del tutto oscurato dai primi giorni della presidenza Obama.

«Il partito attraversa una fase di transizione», dice Ed Rogers, un lobbyista repubblicano che è anche uno dei più stretti alleati del governatore del Mississippi, Haley Barbour. »I nostri leader non hanno ancora ritrovato la loro voce o una direzione univoca... e Limbaugh sta riempiendo questo vuoto, in un mondo che richiede un costante contrappunto mediatico». Mentre quasi tutti sono d’accordo sul fatto che Limbaugh stia riempiendo il vuoto lasciato dalla fine della presidenza di George W. Bush, se questa sia una cosa buona o cattiva rimane un punto di considerevole contrasto tra gli strateghi del partito. «Rush è un’arma a doppio taglio», dichiara Phil Musser, un consulente repubblicano che è anche stato il direttore esecutivo dell’Associazione dei governatori repubblicani. «Qualche volta lo ami, qualche volta vieni spaventato dalle sue battute totalmente antipolitiche (lui direbbe “oneste”)». Secondo John Weaver, un ex componente dello staff del senatore John McCain, invece, i repubblicani devono stare molto attenti nel non permettere ai democratici di dipingerli tutti con le “sembianze” di Rush Limbaugh. «I democratici e l’estrema sinistra faranno tutto quello che possono per strapparci una parte dell’elettorato», dice Weaver, «e una strada sicura, per loro, è quella di prendere una delle voci più controverse del mondo conservatore - come Rush Limbaugh o Sarah Palin - fingendo che essi parlino a nome dell’intero movimento del centrodestra americano». E i democratici stanno addirittura utilizzando Limbaugh per raccogliere denaro. Il Democratic Congressional

Campaign Committee ha mandato una email a tutti i suoi sostenitori invitandoli a «Reagire con forza contro Rush Limbaugh» donando soldi al partito democratico. «I colpi bassi di Limbaugh contro il presidente Obama», scrive il direttore esecutivo del Dccc, Brian Wolff, «possono essere la prima offensiva della “macchina da guerra”repubblicana di quest’anno, ma noi sappiamo che non saranno gli ultimi».

Se Limbaugh continuerà a giocare un ruolo predominante negli attacchi del partito repubblicano a Obama è una questione tutta da valutare. Se la storia può essere d’esempio, tutto spinge a credere che Rush non si fermerà. Limbaugh, insieme all’ex Speaker della Camera, Newt Gingrich, ha guidato la rivolta repubblicana che ha portato alla gigantesca vittoria elettorale nel 1994. E il suo quasi costante stato di “agitazione”nei confronti dell’ex presidente Bill Clinton è noto. Per dirla in soldoni: Limbaugh non scomparirà presto. La sua voce, e la sua influenza, diventeranno anzi ancora più forti con il Gop fuori dal potere. È un fatto positivo o negativo per i repubblicani? Solo il tempo potrà dirlo.

L’IMMAGINE

A Guidonia giustizia è fatta ma la gogna mediatica è inciviltà da evitare Le forze dell’ordine hanno fatto senz’altro un ottimo lavoro a Guidonia e hanno assicurato alla giustizia i quattro uomini accusati di aver partecipato allo stupro di una ragazza di 21 anni, dopo aver chiuso nel bagagliaio dell’automobile il suo fidanzato. Un ottimo lavoro, se si tiene presente anche la modalità dell’indagine e l’uso di strumenti tecnologici sofisticati. C’è però un piccolo neo che, se non sbaglio, è stato sottolineato dall’ex senatore dei Ds, Guido Calvi: «i quattro arrestati sono stati esposti come dei trofei alla gogna mediatica». Quello che è infatti accaduto a Guidonia, con la gente che voleva linciare gli stupratori, non è stato davvero uno spettacolo edificante. Lo stupro, non c’è dubbio, è un reato odiosissimo, tuttavia le forze dell’ordine compiono al meglio il loro lavoro se assicurano alla giustizia i colpevoli o i presunti colpevoli senza, consapevolmente o inconsapevolmente, suscitare nella gente sentimenti di vendetta e di odio che sono il contrario di una ferma e rigorosa giustizia.

Andrea Buongiorno

PATRIMONIO UNIVERSALE PER POCHI INTIMI «Questo è il Massimo!», avrà detto il ministro Renato Brunetta -lunedì 19 gennaio alle ore 20:20 - alla sua fidanzata ed ai suoi sette amici privati varcando il portone dell’ottocentesco museo di Palazzo Massimo a Roma. Il massimo del ministro, però, non si riferiva al «polveroso» – come lui di norma definisce i musei – complesso museale bensì alla tranquillità, al privilegio, alla prevaricazione, all’uso privato della cosa pubblica e molto altro ancora di cui ha goduto. Non è da tutti, infatti, avere la possibilità di visitare un museo statale, in esclusiva, a tarda sera e per giunta di lunedì, giorno nel quale il personale è “fannullone”, con licenza di esserlo, per l’obbligatoria chiusura infrasettimanale.

Chissà se questo sia stato un favoritismo riservato al ministro della Funzione pubblica in quanto spauracchio dei dipendenti statali o in quanto alto esponente della casta. Per certo sarebbe utile chiedere a Bondi e Tremonti chi abbia pagato la luce che inondava le sale di tutti e quattro i piani dell’esposizione e quanto siano costati gli straordinari corrisposti ai custodi richiamati in servizio per questo esercizio di pre-potere del ministro dinnanzi a fidanzata ed amici. Visto che, in fondo, l’amiamo per come è e per quanto è, ci piace pensare che l’antico patrimonio di bellezza e grazia, equilibrio e saggezza possa essergli stato trasfuso per ingentilirlo e migliorarlo. Quanto basta, e ad personam, naturalmente.

Gianfranco Pignatelli

Hai qualcuno nell’occhio La prossima volta che parlate con qualcuno, fissatelo dritto negli occhi. Poi aguzzate bene la vista e forse riuscirete a scorgere una persona riflessa. Siete voi in formato mignon. O meglio in formato “pupilla”. Proprio dalla sua caratteristica di restituire immagini di “pupilli” (in latino pupilla significa bambolina) ha preso il nome la pupilla, il cerchiolino al centro dei nostri occhi “APERTO DI DOMENICA” “Aperto di domenica”: questo è l’annuncio che appare sulla facciata o all’ingresso di molte, troppe aziende, supermercati, negozi, officine, eccetera. Ecco ciò che ha prodotto l’auri sacra fames cioè la maledetta fame di denaro e l’ingordigia vergognosa di fare affari e aumentare il proprio capitale. È questa è una violazione

di uno dei più sacrosanti e impegnativi comandamenti di Dio: «Ricordati di santificare le feste».

Lettera firmata

VIOLENZE NON PROTETTE Ancora una volta una frase del premier mette in subbuglio il Walter prima delle stesse donne: occorrono tanti soldati per quante belle donne ci sono. Conoscia-

mo la sensibilità del Cavaliere verso il gentil sesso, e non è certo la sua una maldestra ironia sulla pericolosità latente della bellezza. Perché Veltroni è attento alle donne solo quando parla Berlusconi? E tutte le altre volte che ci voleva un grido forte contro la violenza sulle donne, dov’era la sinistra?

Bruno Russo


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dai circoli liberal

LETTERA DALLA STORIA

Ali diventan le tue braccia quando arriva Scipio Scipio va via per tre mesi. Tornerà di luglio - il suo mese. Sono nato di luglio - terra calda, e chiare stelle in cielo. I fiori diventano frutti, e Gioietta è più gioietta che mai. Tu puoi già col pensiero preparare le ore dolci e forti e buone. Tutto sarà come tu vorrai. Io sento che l’avvenire si prepara dentro di noi ed è come il premio del nostro desiderio. Nasce il tempo dalle nostre anime. Ma è vero: torna la carta in mezzo a noi. Penso che questa non la leggerai seduta calma sulle mie ginochia e con i capelli nei miei. Ma non è interruzone di vita. È per godere tutto ciò che abbiamo sentito senza essere sopraffatti dalla gioia terribile, continua. È un riposo e un’altra lotta per un altro attimo divino. Per un bacio. Niente più nodi. Tutto è sciolto. Tutto? Gioietta, ogni dubbio tu mi devi mandare. È tanto buono il dubbio che diviene certezza nel nostro sangue. Io guardo avanti e vedo molti arrivi e tutti attesi. Sono arrivato più volte senza esser atteso che dalla gioia di mamma. Vedo le tue braccia alzate di scatto, per sollevarti tutta. Ali diventan le tue braccia quando arriva Scipio. Scipio parte. Tu sdraiata tutta nel sole e sentilo, respiro mio, Gioietta; guarda tante cose per raccontarmele coi tuoi occhi che diventan grandi come gemme aperte. Scipio Slataper a Gioietta (Anna Pulitzer)

ACCADDE OGGI

IL GOVERNO E IL CALO DEL CONSENSO Nei giorni dello storico insediamento di Obama a Washington e del mancato trasferimento di Kaka a Manchester, sono stati diffusi senza che suscitassero eccessivo clamore, i risultati di un sondaggio commissionato a Ipr Marketing dal quotidiano La Repubblica. Secondo i sondaggisti, il governo e il presidente del Consiglio avrebbero perso in un solo mese una parte - rispettivamente quattro e due per cento - del gradimento popolare di cui godevano. A voler ritenere affidabile oltre ogni ragionevole dubbio la ricerca, il dato non può preoccupare più di tanto i vertici del Pdl, considerata la relativa lontananza delle scadenze elettorali e il perdurare del momento “infelice” dell’opposizione parlamentare. Ciò non toglie comunque il gusto e l’utilità di qualche riflessione. L’erosione del consenso certo è parzialmente fisiologica per un governo in carica, vieppiù in un momento di profonda crisi economica. La gestione quotidiana di un potere mutilato dall’economia in depressione costringe infatti a mediazioni difficilmente comprensibili, a scelte obbligate e a ritirate clamorose. Tutti elementi in grado di logorare i rapporti fra un esecutivo e i suoi cittadini. Ma è l’atteggiamento di Berlusconi nei confronti della crisi, l’invito quotidiano ad un incondizionato ottimismo sostenuto fino allo scontro con le autorità europee (“Berlusconi l’ottimista smentisce Almunia”, liberal 21 gennaio), la variabile impazzita

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri, Bruno Tabacci

Ufficio centrale Andrea Mancia, Errico Novi (vicedirettori) Nicola Fano (caporedattore esecutivo) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo, Gloria Piccioni Stefano Zaccagnini (grafica)

29 gennaio 1933 Il presidente tedesco Paul von Hindenburg nomina Adolf Hitler cancelliere tedesco 1958 Entra in vigore la Legge Merlin, che abolisce le case di tolleranza in Italia 1964 A Innsbruck (Austria) iniziano i IX Giochi olimpici invernali 1990 Il processo all’ex capitano della Exxon Valdez, Joseph Hazelwood, inizia ad Anchorage (Alaska). Viene accusato di negligenza che provocò uno dei peggiori disastri ecologici della storia statunitense 1992 Inizia la discussione sui vantaggi e svantaggi dei microkernel tra Linus Torvalds e Andrew S. Tanenbaum 1996 Il presidente francese Jacques Chirac annuncia la «fine definitiva» dei test nucleari francesi 1996 Un incendio distrugge il Teatro La Fenice di Venezia 2001 Migliaia di studenti in Indonesia invadono il Parlamento e richiedono che il presidente Wahid si dimetta a causa delle accuse di coinvolgimento in episodi di corruzione

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Capozza, Giancristiano Desiderio, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria)

che può arrecare i maggiori danni al governo. Non c’è niente di peggio di un comico in un momento di lutto, ed è sufficiente una sensibilità comune per verificare quanto ciò sia vero. L’elaborazione poi, deve essere graduale e consapevole. Così anche i pregi più evidenti del premier - il pragmatismo e la fiducia - possono rivelarsi in questa fase, che a quella del lutto si avvicina molto, boomerang estremamente pericolosi. Eppure, la mancanza di empatia da sola non potrebbe condannare Berlusconi a una flessione di consenso degna di nota. Il premier scadrebbe rapidamente nel gradimento degli italiani solo se nei prossimi mesi non fosse capace di offrire loro le motivazioni in grado di prepararli a sostenere i sacrifici che secondo tutte le istituzioni economiche d’Europa dovranno affrontare. Con Obama, la storia in fondo ha rinnovato un fenomeno interessante: nel momento in cui quasi si rivelano insufficienti poderosi provvedimenti d’emergenza e non si nutrono aspettative nei collettivi istituzionali di ogni ordine e grado, c’è una forza irrazionale che spinge la società a convogliare tutte le riserve di fiducia su un solo uomo. Quest’uomo, se non abusa del suo potere, ha il compito principale di vendere una visione fatta di impieghi dignitosi, mercati efficienti, istituzioni razionali: in ultima analisi, la visione di un nuovo modello di società per il quale valga la pena sopravvivere alla tempesta.

Fabrizio Scarfone

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Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Angelo Crespi, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Alex Di Gregorio

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CONSAPEVOLI DI SÉ PER DIALOGARE CON GLI ALTRI L’immagine offerta da centinaia di fedeli islamici inginocchiati verso la Mecca sui sagrati di Piazza Duomo a Milano e di San Petronio a Bologna, al termine di due manifestazioni a sostegno della Palestina, ha riportato al centro del dibattito il tema dell’integrazione tra i popoli e del dialogo inter-culturale ed interreligioso. La pace e l’integrazione tra i popoli rappresentano una priorità da perseguire in ogni Stato di diritto e non c’è dubbio che il dialogo tra culture e religioni rappresenti un importante strumento di arricchimento reciproco, nonché una condizione essenziale per un corretto e pacifico cammino di integrazione. Mi risulta, quindi, di difficile condivisione la posizione di chi pone limiti alla possibilità di dialogo tra i popoli individuando nella “reciprocità” la condizione essenziale all’avvio di ogni confronto. Ponendosi di fatto sullo stesso piano di quegli Stati che, non distinguendo il piano religioso da quello civile, non concedono libertà di scelta e disponibilità al confronto. Il dialogo e l’accoglienza appartengono al sentire cristiano, e in quest’ottica resta nella mia mente l’immagine emblematica di Sant’Agostino battezzato a Milano da Sant’Ambrogio: un ponte tra l’Africa e l’Europa, tra due diverse culture. Allo stesso tempo, però, credo non sia possibile un dialogo tra popoli e culture diverse, se non nella reciproca consapevolezza di sé e nel rispetto reciproco delle diversità di chi si incontra e comincia un confronto. I popoli d’Europa fondano la propria cultura su alcuni valori fondamentali del Cristianesimo, quali il diritto alla vita, la libertà e la centralità della persona, la famiglia fondata sul matrimonio quale cellula primaria della società. Riconoscere ed affermare questi valori come propri ed essenziali non solo all’interno della sfera privata ma anche come fondamento del vivere civile, non equivale, come alcuni teorizzano, a discriminare gli altri. Al contrario è questa una condizione essenziale di ogni politica di integrazione fondata sul dialogo ed il confronto, ma anche sul riconoscimento e sul rispetto reciproco. Professare processi di integrazione fondati sulla rinuncia reciproca di parti fondamentali del proprio impianto valoriale, tentando così di creare un’indistinta cultura comune tra popoli diversi, significherebbe, invece, non avere il rispetto né di sé né degli altri, aprendo pericolosamente le porte all’impoverimento della persona all’insegna del nichilismo valoriale. Mario Angiolillo P R E S I D E N T E NA Z I O N A L E LI B E R A L GI O V A N I

APPUNTAMENTI 20 - 21 FEBBRAIO 2009 TODI Hotel Bramante via Orvietana VII Seminario di Cultura e Politica

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PAGINAVENTIQUATTRO Tv. Approda su Mtv “Reaper”, telefilm un po’ dannato e un po’ ambientalista

Se i genitori “vendono” il figlioletto al di Alessandro Boschi opo essere stato programmato dal satellitare Fox, è approdato al canale in chiaro Mtv, non certo un canale tra i più seguiti dal pubblico italiano, almeno dal grande pubblico, quello che per intenderci frequenta che so, Italia Uno o Rai2. Ed è un vero peccato che il suddetto pubblico non possa godersi Reaper (letteralmente “il mietitore”), ovvero la serie di telefilm che ha come protagonista un giovane i cui genitori, spinti pare da una necessità estrema, hanno venduto l’anima al diavolo. L’anima del giovane, badate bene, non la propria. Cosicché quando il buon Sam si trova a varcare la soglia dei fatidici 18 anni, trova il diavolo in persona ad aspettarlo e ad esigere il dovuto. L’anima quando sarà il momento e, nel frattempo, le anime di altri sciagurati. Per la precisione quelli che, già morti e passati in giudicato, sono riusciti a scappare dall’inferno e hanno ricominciato con ben altri poteri, esperienza e cattiveria, a imperversare nella comunità della cittadina. Per recuperare queste anime bi-dannate il nostro avrà a disposizione ogni volta delle armi micidiali e improbabili: un aspirapolvere, un tubetto per bolle di sapone, una palla da baseball ed altre, diciamolo, diavolerie simili.

D

Oltre al protagonista tra i cosiddetti “regular”della serie figurano i due amici del cuore. Il muscolare tombolotto Sock, clone dichiarato di Jack Black (stesso doppiatore), e Ben Gonzalez, dai tratti palesemente sudamericani e dal carattere adeguatamente remissivo. Andi è la donna dei sogni di R.: uno schianto, complimenti vivissimi. I tutt’altro che magnifici quattro sono colleghi, esercitando la professione di commessi in un grande magazzino. Basso profilo, insomma, e basse aspirazioni. Memorabile la motivazione con la quale Sam convince il protagonista a provarci con Andy: «Vedi, lei lavora come commessa, ciò significa che anche in fatto di uomini non può avere grandi aspirazioni, puoi riuscirci anche tu». Reaper, l’avrete capito, è una serie che vi-

ve sui paradossi facendoli apparire del tutto normali, sembra quasi un documentario sul soprannaturale come se questo soprannaturale fosse non solo accettato ma anche ignorato. Ricordate Buffy? Solo che questa sembra la sua versione proletaria: i ragazzi hanno abbandonato la scuola e si sono messi a lavorare. È un po’ come se i protagonisti di Clerks avessero avuto una deriva ultraterrena. Non per niente Kevin Smith, che di Clerks è regista, figura tra i consulenti della serie.

Ora, a parte la genialata di affidare il ruolo del diavolo al mitico Leland di Twin Peacks, Reaper potrebbe anche sembrare una serie in-

elettrico potente e intelligente, tanto intelligente da accendere il motore autonomamente per ricaricarsi quando la batteria si sta esaurendo. La Prius è la macchina preferita dai tassisti, per lo meno da quelli milanesi, che possono acquistarla contando sui contributi delle Istituzioni. Ma prima che questo articolo non diventi una marchetta, o non lo diventi in maniera ancora più sfacciata (ovviamente in favore dei tassisti

DIAVOLO A parte la genialata di affidare il ruolo del demonio al mitico Leland di “Twin Peacks”, la miniserie potrebbe anche sembrare interessante, ma niente più. Il protagonista però ha un’auto ecologica. E questo cambia tutto...

teressante ma niente più. Ma il protagonista ha un’auto ecologica, e questo cambia tutto. Il suo malgrado dannato, pilota una Toyota Prius, il modello più all’avanguardia in fatto di automezzi a basso tasso di inquinamento, essendo il motore a benzina coadiuvato da un impianto

milanesi), torniamo al nostro eroe, titolare di un’anima ecologica ma a rischio combustione. Forse il punto, il paradosso, è proprio questo. Come accidenti è venuto in mente agli sceneggiatori di inventarsi un protagonista che si preoccupa del buco dell’ozono quando invece dovrebbe preoccuparsi del buco dell’inferno?

Facciamo delle ipotesi: Sam è comunque un giovane con i suoi bravi principi; oppure: Sam ha ricevuto l’auto in regalo; oppure: Sam è un ex tassista milanese emigrato negli States. Ma adesso, proprio in questi ultimissimi giorni, tutto appare chiaro. Con l’avvento di Barack Obama che ha appena dichiarato la necessità della conversione ecologica delle automobili il mistero si disvela: non tutto il male viene per nuocere. Lo so, è una cosa forte da dire nei confronti di un Presidente che secondo Will Smith ha già fatto il 70 per cento di quello che deve fare solo facendosi eleggere. Ma i fatti sono questi. Reaper il senza anima e Barack il nero accomunati dalla missione ambientalista. Gli americani signori miei sono sempre avanti. Anche nelle situazioni più buie (buie, non nere) sanno trovare il lato positivo. Tutti, dal primo cittadino all’ultimo dei dannati, si chiedono, cosa fare per il proprio Paese. E lo fanno. In fondo il diavolo non è così brutto come lo si dipinge. Nemmeno se lo dipingi di rosso, oppure di nero.


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