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Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal

mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA

CENONE CON L’AUTORE Proposta per un Capodanno diverso

di Nicola Fano uest’anno a Capodanno vi invito (per una volta, eccezionalmente) a rifuggire la tradizione e invitare a cena, per la notte del 31 dicembre, Simenon o Beckett o Pratolini. Per parlare di libri, naturalmente, ma anche per poter preparare, per l’occasione, cibi acconci agli invitati, ai loro mondi e alle loro storie. Se li conoscete, capirete subito le ragioni delle mie scelte culinarie; ma se non li conoscete qualcosa si capirà strada facendo. Anche se a Capodanno quel che conta è chiudere bene i conti con il passato e cominciare ancora meglio i traffici con il futuro e in queste due operazioni la cura del palato può essere significativa: è quel che qui si tenterà. Partendo dal presupposto che i tre menù ruoteranno su altrettanti piatti: una cassoela variata per Georges Simenon, l’aragosta in emulsione per Samuel Beckett e un piatto di lessi per Vasco Pratolini. Andiamo con ordine.

Q

*** La cassoela è un piatto milanese tipico. Un piatto invernale perché è piuttosto impegnativo, e per questo capita spesso di trovarlo nei menù delle feste di fine anno. Se lo offro a Simenon non è solo perché il suo nome ha una vaga somiglianza con una delle sue pietanze preferite del suo Maigret (il cassoulet), ma per un’altra ragione meno nobile. E cioè che Simenon è non soltanto un buon mangiatore, ma ha anche eccellenti capacità di digestione: nel senso che non si spaventa di fronte ai piatti più impegnativi. E la cassoela è un piatto molto impegnativo. Come si prepara ve lo racconto nella scheda a parte, ma intanto cominciate a considerare che alla base di questa magnifica pietanza ci sono i cavoloverze, la cotenna e gli zampetti di maiale. Se vi sentite in condizione di affrontare questa sfida, andate avanti.

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Una cassoela per Simenon, ravioli di triglia e aragosta in emulsione per Beckett, bollito misto per Pratolini. Tre ricette per tre convitati eccellenti, con cui condividere storie, mondi e cibi non solo dell’anima…

9 771827 881301

ISSN 1827-8817 91231

Parola chiave Inverno di Gennaro Malgieri L’esordio di Florence: è nata una stella di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Lo scrigno magico dell’eternità di Roberto Mussapi

Il visibile parlare: gli Emblemi di Alciato di Mario Bernardi Guardi Cinema in famiglia con Hachiko e Amelia di Anselma Dell’Olio

BUON ANNO NUOVO

L’appuntamento con i lettori di Mobydick è per il 9 gennaio. A tutti, i nostri migliori auguri per un sereno 2010.


cenone con l’

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segue dalla prima È un piatto povero, come tutti i piatti della grande tradizione italiana, perché mette a giovamento non gli avanzi ma le parti meno pregiate del maiale (animale popolare e povero come pochi altri): solo di recente nella ricetta della cassoela è stata inserita la salsiccia, per renderla più presentabile nei ristoranti. In realtà si può ben fare a meno della salsiccia e usare al suo posto i ritagli di maiale. Senza esagerare. Quando si legge della Milano anni Sessanta, quella intrisa di cultura e turbamenti politici, di operai e burocrati della piccola finanza, ci si immagina sempre trattorie minute lungo via Bligny o Porta Ticinese o i Navigli. Luoghi fumosi, ma non fumosi di fumo di sigarette, come si penserebbe subito a far gli intellettuali, bensì fumosi di odori di cottura, di coperchi sollevati che lasciano evadere una sapienza antica e pervasiva, di quelle che ti viene da dire oh e da chiudere gli occhi. Ebbene, trattorie del genere ancora ce ne sono, a Milano, e lì si trova una cassoela notevole, perché è cotta, ricotta e alleggerita nella sua grassa imperiosità suina. Ne conosco uno, di ristoranti così, che m’appassiona anche per il fatto che, milanesissimo, sta in via Spartaco, che è il più romano dei nomi possibili. Insomma, Simenon mangerebbe la nostra cassoela variata socchiudendo gli occhi e studiando noi altri suoi interlocutori. Ma non per capire noi: per capire il meccanismo oscuro della vita che mette le cose in relazione una con l’altra. Perché questo studiava Simenon: i meccanismi. E cercava di registrarli e catalogarli e poi magari modificarli. I suoi romanzi (con o senza Maigret) sono meccanismi perfetti solo quando si inceppano: una deviazione, una variante, un’eccezione imprevista. È questo quello che fa la vita diversa dalla letteratura (e Simenon non faceva letteratura, come voi sapete bene): le eccezioni della vita sono incidenti e non trovate letterarie. Di fronte alle quali i personaggi di Simenon (non solo Maigret, ancora una volta) si arrendono. E si arrende con loro pure lo scrittore che sa di non poter descrivere certi slittamenti, ma solo registrarli. Be’, qual è lo slittamento che noi prepariamo a Simenon per questo Capodanno? Il forno. La trasformazione della cassoela in un cassoulet. Quel miscuglio di maiale e cavoli-verza (che la sapienza dice di far riposare per un giorno, magari due) prima di arrivare in tavola noi lo ripasseremo in porzioni singole per venti minuti in un forno a 220 gradi, così da lasciare in cima alla pietanza una piccola crosta imprevista. Vedrete che Simenon ne sorriderà: guarderà di lato e mentalmente prenderà appunti. Ragione per la quale lo avevamo invitato a una cena a piatto unico, del resto.

Beckett mangiava poco o niente. Ma quel niente lo mangiava con passione, dicono: io purtroppo non ho mai cenato con lui pur avendolo invitato inutilmente per anni. Ma per il nostro Capodanno gli preparerei una cena di pesce centrata su due portate: ravioli di triglia e aragosta in emulsione. I ravioli per stupirlo e l’aragosta per rassicurarlo. I ravioli di triglia sono quanto di più discreto si possa preparare, in una cena impegnativa di pesce: una pietanza che suggerisce un sapore-non-sapore, di quelli che se non ci stai attento ti passano di lato senza neanche sfiorarti e dopo, quando hai finito il pasto, ti dici che in realtà hai perso tempo a parlare o a fare chissà che ma non hai mangiato, non hai ascoltato la realtà vivente che ti si era sistemata nel piatto. Beckett non lo farebbe, ne sono certo: sicché i ravioli di triglia, benché lunghi e complicati da preparare, glieli farei volentieri. La soddisfazione del cuoco è anche vedere che l’interlocutore mangiante si accorge della nostra sollecitazione. Beckett parlava l’italiano: un italiano antico, ma lo parlava. Aveva letto da ragazzo la Divina commedia in lingua originale. Ne aveva tratto l’idea - veritiera - che il nostro fosse un popolo morto prima di nascere (o comunque fatto di sole individualità), e avvezzo quanti altri mai al comico. Quando si misurò con la narrativa (dopo aver scritto un saggio su Vico e uno su Proust e dopo aver studiato Dante in lingua originale), Beckett scelse come protagonista delle sue novelle intitolate Più pene che pane un certo Belacqua Shuah, studente dublinese che si lascia stupire dalla vita. Nel primo dei racconti della raccolta (che è anche formalmente il primo racconto di Beckett), Belacqua dopo aver interrotto la lettu-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

VARIANTE DI CASSOELA

Ingredienti: cavolo-verza, zampetto di maiale, cotenne di maiale, orecchie di maiale, salsicce, cipolla, aglio, olio. Fatto imbiondire l’aglio e appassita la cipolla in poco olio, aggiungere i pezzi di maiale tagliati a strisce piccole (salvo gli zampetti che si dovranno cuocere così come ve li darà il macellaio). Non è un rosolatura propriamente detta (nella cassoela tutto deve essere morbido), ma un arricciamento in senso stretto: ve ne accorgerete dalla reazione della cotenna e delle orecchie. Quando vi sembrerà il momento giusto, versate nel tegame il cavolo-verza che avrete tagliato a listarelle sottili. Dopo una prima fase di cottura a secco (sentirete frizzare gli alimenti nella pentola), versate mezzo bicchiere di vino bianco secco non aromatico (un trebbiano andrà benissimo) e fatelo sfrigolare finché non sarà evaporato per metà. Solo a questo punto coprite le pietanze nella pentola con un brodo di manzo che avrete preparato preventivamente cuocendo un osso per un paio d’ore. Da questo momento in poi, la cassoela dovrà cuocere per cinquanta minuti, non oltre. Dopo di che la farete riposare per un giorno, magari due. Solo prima di servirla a tavola la mettere dentro ciotole da forno monoporzione e porrete il tutto in forno, a 220° per venti minuti, in modo da rendere appena croccante ciò che è rimasto del cavolo-verza. Servite caldo con un vino rosso non molto impegnativo (è già abbastanza impegnativo il maiale).

RAVIOLI DI TRIGLIA

Ingredienti: triglie di media grandezza, pomodori pelati, canocchie, olio, cipolla e aglio. Per la pasta: farina 00, uova. Diamo per scontato che sapete impastare e tirare la pasta per i ravioli (un uovo per ogni etto di farina, mi raccomando) e passiamo direttamente al ripieno. Cuocete le triglie in poco pomodoro togliendole subito dal fuoco. Continuate a ridurre il fondo di pomodoro con cipolla e aglio e vino bianco fruttato (un grechetto o un vermentino). A parte, deliscate le triglie e lasciate i filetti quanto più possibile compatti. Alla fine, mettete tutto il pesce senza spine nel pomodoro ridotto e mescolate. Con metà di questo composto farete il ripieno dei ravioli che ritaglierete grandi e gonfi, in modo da prepararne due, massimo tre per persona. A questo punto fate bollire l’acqua e versatevi le canocchie che dovranno insaporire l’acqua di cottura dei ravioli. Dopo che l’acqua con le canocchie avrà bollito per una decina di minuti, togliete dall’acqua le canocchie e versate i ravioli. Cotti i ravioli, li scolerete e li metterete sul piatto accompagnandoli con il resto del fondo di triglia e pomodoro e con una canocchia di guarnizione. Servite con un vino non aromatico (in caso contrario rischierebbe di annullare il sapore dei ravioli, in sé già piuttosto delicati).

BOLLITO DI CARNI E TRIPPE

Ingredienti: un polpaccio di manzo, una lingua di maiale, mezza testina di vitella pulita e legata dal macellaio, trippa di tonno, mammella di mucca, una coda di manzo, un finale di noce di manzo con osso. Poi un ginocchio di manzo e tendini varii. Cipolla, aglio, carote, chiodi di garofano, ginepro e mirto sardo. Aromi. Il bollito ha un’unica regola fondamentale: ogni carne va cotta in una pentola diversa. In caso contrario, non pretendete che la carne abbia sapori diversi: niente di grave beninteso, ma non ci sarà bisogno di chiedere al macellaio carni diverse. Questa variante del bollito tradizionale prevede due aggiunte: la trippa di tonno e la mammella di mucca. La trippa di tonno si trova comunemente nella Sardegna del Sud (principalmente nell’isola di Carloforte): se non l’avete ordinata per tempo, pensateci per il prossimo anno, ne vale assolutamente la pena. E comunque, va cotta come la trippa di mucca (per meno tempo, naturalmente) con aromi a piacere. La servirete un po’dura. La mammella si può ordinarla da qualunque macellaio ben fornito. Ne basta poca. La mammella va cotta intera, per alcune ore, in acqua odorata di aglio. Magari un po’ d’alloro ma non altro. Quel che conta è l’olio con il quale ogni commensale la condirà direttamente sul piatto.Manzi e vitelli vanno cotti separati a propria volta, come pure vanno cotti separati dal resto ancorché insieme il ginocchio e i tendini. Ognuno insaporisce il bollito con ciò che crede, in fase di cottura. Io metto nell’acqua o mirto sardo (e nient’altro: il suo apporto è molto delicato e non può essere mischiato con altre suggestioni che ne annullerebbero il sapore) oppure cipolle con chiodi di garofano. Ma se avete altre predilezioni, fate pure. Quel che conta è che con il bollito non si può bere altro che lambrusco freddo.

ra di Dante cucina un’aragosta. E di questa operazione lo terrorizza soprattutto la necessità programmatica, quasi ideologica, di cuocere viva la bestia per ottenerne il meglio in termini di sapore. Belacqua è esterrefatto non tanto dai movimenti che fa l’aragosta prima di accettare la sua terribile fine, bensì dall’urlo vero e proprio che il crostaceo lascia alla sua vita terrena prima di affogare nel bollore di un pentolone che Belacqua, appunto, non sa gestire. Il nome del personaggio, Belacqua, viene da Dante: costui è un indolente, un individuo che l’Alighieri incontra nel Purgatorio (canto IV). E, fatto assolutamente eccezionale, è l’unico che nel corso delle tre cantiche faccia ridere il povero, seriosissimo Dante: «Li atti suoi pigri e le corte parole/ mosser le labbra mie un poco a riso», ciò che fa di Belacqua il patrono dei comici, a mio modo di vedere, benché non fosse in Paradiso, anche perché per i comici finire in Purgatorio anziché in Inferno è già il massimo che possano sperare. È un po’ come essere santi.

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano

autore

Insomma, questo involontariamente comico Belacqua di Beckett è sopraffatto dall’aragosta che lo aggredisce dall’ignoto. E proprio per questo noi il ricco crostaceo glielo cucineremo in emulsione. Ossia senza niente di rude o saporito o impegnativo da accompagnare. Emulsione significa solo olio, limone e sale (e pepe, volendo) mescolati insieme di fretta in modo da far lievitare il condimento e da renderlo univoco anche se olio, sale e limone di per sé detestano annullare se stessi in un mischio che assuma le caratteristiche dell’insieme invece che dei singoli. Come Beckett, appunto, che è rimasto singolo pur essendo stato mischiato a tanti grandi del Novecento. E che molto più di altri scrittori del suo secolo finirà con l’entrare nei secoli prossimi, come gli spetta. Noi lo accompagneremo per lo meno nel 2010, con i nostri deboli ravioli e la sua aragosta, in omaggio a quel suo primo racconto: Dante and the lobster è il titolo originale, anche se non è facile, recuperatelo perché ne vale la pena. E leggerlo sarà un buon modo per dare il benvenuto al nuovo anno.

In via de’ Serragli a Firenze, fino a pochi anni fa, verso l’Arno, c’era un trippaio. Quando incontraiVasco Pratolini per intervistarlo, prendendomi una gran libertà gli dissi che ogni volta che ci passavo davanti (e all’epoca ci passavo davanti spesso) pensavo ai suoi romanzi. Pratolini era un uomo severo e non mi sorrise nemmeno: pensò che le trippe potessero avere un senso solo nella prospettiva socialista dell’uomo, ossia in quanto alimento svelto, leggero e poco costoso. E questo mi disse. Io assentii perché la pensavo così. Dopo qualche giorno dalla pubblicazione dell’intervista nella quale tacevo la questione del trippaio, Pratolini mi scrisse un telegramma (usava così: era un altro mondo, vent’anni fa) che diceva «Perdonami l’imperdonabile ritardo con cui ti ringrazio». Lo perdonai al punto che nei successivi traslochi della mia vita persi quel prezioso telegramma: so che purtroppo qualcuno prima o poi mi chiederà conto di quella distrazione. Come del fatto che il trippaio di via de’Serragli non c’è più, come della prospettiva socialista dell’uomo. Ed ecco spiegata la ragione per la quale oggi come oggi inviterei Vasco Pratolini a cena per festeggiare il capodanno a suon di bolliti. Ci sono due scuole di pensiero a proposito dei bolliti. Quella emiliano-italiana dice che il bollito si fa con sette carni diverse (noce di manzo, lingua di vitello, testina di vitello, gallina, zampone di maiale, coda di manzo, polpaccio di manzo); quella triestino-italiana ne richiede addirittura venti, inserendo nella lista una quantità spropositata di tagli di carne di maiale che si potrebbe morire solo al pensarli, senza neanche mangiarli. C’è davanti alla Borsa di Trieste un locale povero, popolare e antico - ormai celebrato dal turismo internazionale - che sostiene di cuocere venti tipi di carne in acqua mai cambiata da decenni. Se proprio lo volete sapere, il segreto del bollito è lì: nell’usare brodo di carne per bollire le nuove carni, ma bisognerebbe essere un ristorante per fare simili evoluzioni: in casa è impensabile cuocere un bollito dopo l’altro. E comunque il nostro Capodanno con Pratolini sarà molto più leggero ed estemporaneo, perché noi faremo un bollito completamente diverso e nelle sette carni metteremo soprattutto trippe. Non solo fiorentine, beninteso. I trippai di Pratolini (Le ragazze di San Frediano) vendono su banconi di marmo calli lessi. Nel senso di stomaco, intestino e mammelle di mucca lessi. Una roba sopraffina. Sono cibi di consistenza dura ma non ostica, che cede sotto la pressione dei denti e che gli operai (non solo quelli di Pratolini) strappavano alla fame dai cartocci di carta oleata mentre noi altri giovani appassionati di Firenze di vent’anni fa portavamo in casa e poi coprivamo di pellicole di olio toscano il cui sapore sono tornato a riconoscere solo di recente grazie all’omaggio inatteso di un’amica cara. Credo che Pratolini sarebbe contento non tanto se gli preparassi le sue antiche trippe, ma se gliele combinassi con altre tradizioni (nella scheda a parte suggerisco di aggiungere anche la trippa lessa di tonno) a dimostrazione del fatto che se il socialismo non è più internazionale, almeno è interregionale. A dispetto della Lega, che questo nostro Capodanno poco tradizionale di sicuro disapproverebbe in nome di un semplice piatto di cotechino e lenticchie. Cotechino precotto e molle e insipido, e poi lenticchie sciape e incolori che però, secondo tradizione, fanno soldi. Lasciate fare: ai soldi ci penseremo dopodomani. Per ora, salutatemi Simenon, Beckett e Pratolini.

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31 dicembre 2009 • pagina 3

INVERNO a stagione del raccoglimento ci promette tre mesi di ovattata riflessione. Naturalmente dipende da noi se interpretare l’inverno con indifferenza o partecipazione. Propendo per la seconda ipotesi, naturalmente. Non soltanto perché mi è più congeniale, ma per l’oggettivo clima di naturale quiete che in questi mesi si instaura anche se non tutti se ne accorgono. L’inverno ci ghermisce leggero per poi farsi crudele. Ma il freddo che attanaglia la terra prepara l’attesa, la rinascita, la riapparizione sfolgorante dei colori. Ed è in questa prospettiva che lo si vive o, sarebbe meglio dire, lo si viveva almeno fino a quando questa stagione era riconoscibile dai segni sacrali e naturali. Oggi che tutto è stato snaturato, profanato, secolarizzato l’inverno è la stagione del trionfo dei consumi, delle settimane bianche o del caldo cercato a tutti i costi per assecondare una sorta di perversione psico-fisica. Esso non è più l’occasione per ricongiungersi con se stessi e scandagliare, almeno nel periodo natalizio, i recessi della propria anima al fine di situarvi, sia pure con ottime intenzioni che magari verranno disattese, promesse che dovrebbero contribuire alla maturazione di una vita interiormente più ricca. Lo si vive come una stagione qualsiasi, così come tutte le altre stagioni vengono vissute alla stessa maniera. Si è perso, in altri termini, il legame tra il tempo e l’esistenza. E la circostanza è tanto più vera per l’inverno a torto ritenuta una stagione di privazioni, ma non è così.

L

Raccoglimento e attesa sono i doni preziosi che possediamo senza saperlo. Il freddo li protegge, non li mortifica. Nel Grande Nord i mesi che sembrano non passare mai e soprattutto quelli in cui la luce non appare per sessanta giorni di seguito si coglie il significato di un’esperienza misteriosa che si confonde con il biancore circostante: è come se l’anima si fosse liberata in un universo posseduto dal nulla se non dal vento che batte forte come a sollecitare il riparo dalla materialità. E la preghiera, insieme con i ricordi, affiora spontanea passando lunghe ore davanti a un fuoco primitivo che non esclude riscaldamenti più sofisticati. Ad altre latitudini, per quanto meno intenso, il freddo non è un nemico, non induce alla tristezza. C’è semmai nel riparo che impone la ricerca gioiosa di un’intimità che si fa carne, passione, bellezza. Gli amori che nascono d’inverno deperiscono più difficilmente di quelli che fioriscono distrattamente d’estate, per esempio. Così come i pensieri che vagano nell’aria o si fermano sulla carta. Impossibile dire quanto c’è di ispirazione sacrale nei piccoli e misurati gesti che d’inverno si compiono. Ho sempre avuto la sensazione, fin da piccolo, che ogni movimento fosse commisurato allo scopo. E mi sono portato

È a torto ritenuta una stagione di privazioni. Ma il freddo che attanaglia la terra prepara l’attesa e la rinascita. È l’occasione per ricongiungersi con se stessi e scandagliare la propria interiorità. La sobrietà è la sua caratteristica più evidente...

Una carezza per l’anima di Gennaro Malgieri

D’inverno non c’è intemperie, per quanto forte, che possa spazzare un sentimento di prossimità che è fondamento dello spirito comunitario. Raccoglierlo vuol dire diventare più umani, a dispetto di chi vorrebbe che l’indistinto troneggiasse per tutto l’anno impedendoci di cogliere le stagioni delle nostre vite appresso, fin sulle soglie della nuova età che mi attende, questo desiderio di fare poco e di immaginare molto nei mesi invernali. Per non disperdere quella interiorità che si affaccia nella conversazione riparata, nella lettura in lunghe ore di ozio, nell’ascolto della musica mentre piove, tira vento, la natura si piega all’ascolto del canto che le intemperie producono tra gli alberi che quietamente assecondano anche lo scatenarsi degli elementi.

Insomma, si sta come rinserrati nella propria intimità accarezzandosi l’anima da proteggere di fronte alle pieghe tumultuose che la stagione può prendere. Si diventa più umani? È possibile. Tanto che l’inverno è la stagione della creatività per eccellenza, forse perché minori sono le sollecitazioni esterne che si abbattono sulle nostre attività. Non che in primavera, estate e autunno il cervello vada in letargo, naturalmente. Ma a tra la fine di dicembre e la fine di marzo

sento che se le membra si muovono di meno, il cuore, l’anima, lo spirito e la mente sono in attività quasi frenetica. E tutto ciò che è destinato a durare, credo che venga quasi sempre partorito d’inverno. La creatività accoglie la sobrietà che è forse la caratteristica più evidente dell’inverno. Nell’orto spuntano verdure povere, che si cucinano poveramente e hanno il sapore dell’autenticità. Nelle cantine, mentre il vino appena riposto nelle botti dorme il sonno del giusto per svegliarsi a primavera, maturano i succulenti frutti raccolti alla fine dell’estate con il preciso scopo di assaporarli nel corso delle festività natalizie: il melone bianco d’inverno, i grappoli d’uva appesi ai muri, le sorbe arrossate dall’ultimo sole di settembre, i fichi lasciati essiccare ad agosto per gustarli quando si sarebbero potuti sposare con le noci, e così via. È un fascino antico tutto questo mescolio d’estate con l’inverno attraverso i doni della terra. Oggi non c’è un bambino che rimanga incantato da tale «miracolo» perché si è perduto il senso del tempo e, dunque, il profumo delle stagioni.

Così come si è disperso il senso profondo del cuore dell’inverno: la celebrazione dell’evento più sacro. La Natività è stata strappata, lacerata, offesa. Le mille luci di città bugiarde l’hanno reinventata come pretesto per commercializzare qualsiasi cosa. Sullo sfondo della fatua ricchezza esibita con volgare sfarzo, resta tuttavia il sorriso di un Bambino venuto al mondo per ricordarci chi siamo. Ed è curioso che la sua apparizione sia coincisa con un evento che prima di lui i popoli occidentali festeggiavano come segno della rinascita che riprendeva: il Solstizio d’inverno. Davanti ai fuochi sacri s’accendono d’inverno le redenzioni sperate. Pochi le sanno riconoscere. Ma non per questo non vanno coltivate. Tanto più che l’inverno è anche il momento proprio al racconto, alla trasmissione delle tradizioni, degli usi, dei costumi che il freddo, nonostante tutto, preserva. E così sarà a dispetto di chi vorrebbe che l’indistinto troneggiasse per tutto l’anno senza poter distinguere nelle realtà la vitale mutazione che vive dentro di noi e che dovremmo comunque onorare, per quanto possibile, in relazione con le stagioni che attraversano le nostre vite. D’inverno non c’è intemperie, per quanto forte, che possa spazzare un sentimento di prossimità che è fondamento dello spirito comunitario. Raccoglierlo vuol dire sentirci vicini a chi conosciamo e a chi non conosciamo, ai nuovi arrivati che del nostro inverno non sanno molto, ma che, come noi, sono alla ricerca di quel raccoglimento e di quell’attesa che umanamente non possono respingere neppure alle latitudini da cui provengono e dove chiamano inverno l’estate.


MobyDICK

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cd

musica

L’esordio di Florence:

è nata una stella di Stefano Bianchi

l suo debutto s’intitola Lungs (polmoni). Si è subito piazzato al secondo posto nella classifica inglese degli album più venduti, spezzando nella Top 5 la leadership di Michael Jackson. Poi è arrivato il premio della critica ai Brit Awards e qualche settimana fa i critici italiani l’hanno premiato miglior opera prima nel referendum annuale della rivista Musica e Dischi. Sono tutt’altro che timidi, i primi passi della londinese Florence Leontine Mary Welch, ventitre anni, in arte Florence + The Machine (che è la sua band), madre scrittrice e habitué dello Studio 54 di New York, padre pubblicitario, nonno vicedirettore del Daily Telegraph. Lunga lunga, chioma rosso fuoco, un debole per l’ecstasy quand’era sedicenne, Florence era uno «strano personaggio». Lo dicevano i suoi compagni di scuola. Valli a capire. Che male c’era a leggere Edgar Allan Poe, appassionarsi ai delitti di Jack lo squartatore, ascoltare i pezzi nerofumo dei Velvet Underground, scarabocchiare qua e là disegni gotici? Discriminata? Chi se ne frega. Non lo sarò nella musica, s’è ripromessa. La voce c’è, i lungs sono più che tonici, non resta che perfezionare il torbido fascino da dark lady e sbatterlo in faccia ai media sempre a caccia della next big thing con una serie di foto un po’Tim Burton e un po’ Cure, con quel tocco «preraf-

I

faelita» che non guasta. Detto e fatto. E ora che s’è presa la rivincita, Florence ammette: «Mi piace cantare, ballare, suonare la batteria. E se qualcuno mi paga per farlo, è incredibile». Evviva la sincerità. E viva questo disco, registrato in una sinagoga dismessa con l’aiuto di due fra i più corteggiati produttori del momento: James Ford (già al lavoro con Klaxons e Arctic Monkeys) e Paul Epworth (Bloc Party). In più, nell’insidiosa fase di scrittura, c’è lo zampino di Devonte Hynes, alias Lightspeed Champion, già chitarrista dei Test Icicles. I tredici pezzi di Lungs fanno venire in mente

certe icone del dark & kitsch tipo Siouxsie Sioux o PJ Harvey. È inevitabile. Come non si può fare a meno di ripensare alla Björk di Debut, a certe fiabe viziose di Kate Bush e Tori Amos, alle claustrofobìe di Joan as Policewoman e Cat Power. Omaggiando più o meno inconsciamente le dive noir, bisogna ammettere che Florence tende a nascondersi un po’. Per pudore o chissà che, non svela del tutto la sua velenosa personalità. Ma tant’è. Che la voce sia da paura (in senso buono) lo dimostra la facilità nel farsi sci-

volare addosso folk e rock (Dog Days Are Over), la capacità di padroneggiare epiche atmosfere (Rabbit Heart Raise It Up), gorgheggiare e lanciare perigliosi acuti (I’m Not Calling You A Liar). È furbescamente mélo, la ragazza, quando afferra Howl per le briglie. E non si risparmia, quando spreme da Kiss With A Fist tutto il punk possibile, né quando cede alla tentazione d’un blues acustico (Girl With One Eye) concedendosi il lusso di clonare Janis Joplin. E se in una manciata di minuti riesce a imitare (bene) certe canzoni sulfuree dei Cure (My Boy Builds Coffins), fare il verso a Siouxsie and the Banshees (Drumming Song), roteare ritmi e folli orchestrazioni (Between Two Lungs), sbizzarrirsi con la pura teatralità e un accenno d’heavy metal (Cosmic Love), significa che forse è nata una stella. Garantito, se nel prossimo disco darà ancora più gas a certe sfumature soul (leggi Nina Simone e Annie Lennox). Allora sì, che molte rivali potrebbero decidere anzitempo di ritirarsi. Florence + The Machine, Lungs, Island/Universal, 15,90 euro

in libreria

mondo

riviste

GOCCE DI GIORGIA

I MIGLIORI ALBUM DEL 2009

ECCO A VOI... ELTON JOHN

«È

importante non perdere di vista quello che ti piace fare. Se vuoi durare nel tuo lavoro, credo che devi essere il più coerente possibile. Uno può fare due cose: o prendere il volo che ti arriva, vivere di quello e aspettare che si consumi, oppure pensare a quello che ti piace, concentrarti su quello che ti piace e seguire solamente quello, anche facendo spesso delle scelte

I

l nuovo anno incombe e in ogni critico musicale che si rispetti scatta in dicembre l’inevitabile bilancio dei mesi trascorsi. Non sfugge alla regola uno dei più celebri opinionisti inglesi, Neil McCormick, che nell’inserto Review del Daily Telegraph, mette in fila i migliori album del 2009. Con un’avvertenza: «Quest’anno ho deciso di offrire una lista totalmente personale e soggettiva, basata esclusivamente su-

a prima grande rockstar del pianoforte in un mondo dominato dai chitarristi è ancora lui. Cambiano le bizzarrie del vestiario e degli accessori, ma quando Elton John siede al piano e comincia a sfiorare i tasti, il pubblico si sente prendere per mano, trascinato da una tempesta di emozioni dentro la sala da concerto foderata di magia. Brani sempreverdi che hanno la fragranza

Dal debutto ai grandi successi, una biografia della cantante romana ne restituisce tutto lo spessore

La classifica “personale” del critico inglese Neil McCormick pubblicata sul “Daily Telegraph”

Presentato su “allaradio.org” il doppio concerto evento che la rockstar terrà a settembre a Roma

che sembrano agli occhi degli altri da pazzi». Giorgia Trodani, per tutti semplicemente Giorgia, ha iniziato a cantare a otto anni e da allora non è più riuscita a smettere. Dotata di qualità vocale sopraffina, di estro e grande capacità di mettersi in discussione, l’artista romana emerge in tutto il suo spessore nel bel libro che David De Filippi le ha dedicato: Giorgia - Gocce di vita (Aliberti, 121 pagine, 12,00 euro). Il primo vinile nel 1985, il debutto a Sanremo Giovani nel 1993, il drammatico rapporto che la unì a Alex Baroni, i grandi successi e molti aneddoti poco conosciuti. Ben scritta e ricca di spunti, la biografia brilla per ricchezza e piacevolezza della trama.

gli album che ho ascoltato maggiormente. Non so se li si potrà anche chiamare “album dell’anno”, ma se condividete alcuni dei miei gusti e delle mie passioni per la musica, allora non rimarrete delusi». McCormick considera ormai il mercato musicale troppo frammentario, una situazione che costringe la stampa a evidenziare sempre più la soggettività delle scelte. Ottime, quelle del critico inglese che pone tra i dischi più riusciti Nothing gold can stay di The Duke & The King, Kings & Queens di Jamie T, e Humbug degli Arctic Monkeys. Presenti anche gli U2 , A Camp, Felice Brothers, One Eskimo e Gurrumul.

della novità. La parata di successi ripercorre vicende di ogni singolo spettatore: storie di innamoramento, di oppressione, di solitudine, di gioventù, storie di tutti». Maria Domenica Ferrara presenta così su alla radio.org il doppio concerto che il 19 e 20 settembre del 2010 infiammerà l’Auditorium di Roma. Sul palco, protagonista indiscusso da ormai quarant’anni c’è ancora lui, l’artista inglese capace di riassumere in testi raffinati e sound colto una tradizione che va dal rock classico al blues. Ma ad affiancare Mr. John, ci sarà anche Ry Cooper, titanico percussionista che ne ha scandito i trionfi in giro per il Pianeta. Un concerto che è già l’evento italiano del prossimo anno.

a cura di Francesco Lo Dico

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danza

zapping

IL RINO GAETANO-PENSIERO in una graphic-novel di Bruno Giurato l fumettista ce la fa dove gli sceneggiatori falliscono. Il soggetto è difficile, si tratta di Rino Gaetano, il fiore strano del cantautorato d’Italia, oggetto di un revival che non si è mai spento dal momento della morte, nel 1981. Gaetano è un umorista amaro (spesso preso per un buonista), un cronista eccezionale dei tempi attuali, e infine un picaro surreale, un divino birbone dell’animo italiano. Un paio d’anni fa c’era stata un fiction su di lui, una storia un po’ freudiana di disperazioni e incomprensioni paterne. Cose poco fumettistiche, e poco alla Rino Gaetano. E invece Andrea Scoppetta (uno capisce subito che con un cognome così si può fare solo il fumettista), napoletano, con Sereno su gran parte del paese, appena uscito per l’editore Becco Giallo, corre subito nella direzione opposta. Non fa una biografia a fumetti. Inventa invece una graphic novel, una non-biografia geniale, nella quale tutti i personaggi sono derivati da figure inventate da Gaetano. Il protagonista è un cane (Escluso il cane), il cattivo è un Caimano Nero (quello di Ahi Maria, non quello di Nanni Moretti, ma forse...) e così via. È una storia di amore, lavoro e anche di potere, dove tutti i mezzi espressivi puntano in un’unica direzione. Ambiziosa: vogliono rappresentare il mondo espressivo, l’essenza della poetica di Gaetano, nientemeno. La cosa che ha stupito chi scrive è che ci riescono. Alla fine l’atmosfera c’è. C’e la filosofia di Gaetano, quella dell’eroe a tempo perso, quella del piacere del piccolo e del quotidiano, il gusto per le viste di scorcio sui caratteri, l’umorismo delicato e gridato. C’è anche un disegno che comincia col bianco e nero e finisce con un blu, sereno o misterioso che fosse.

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Omaggio all’arte totale di Bejart di Diana Del Monte l Natale del Teatro alla Scala, quest’anno, è stato di Maurice Bejart, uno dei coreografi più importanti del Novecento. La stagione scaligera di balletti, infatti, si è aperta lo scorso 16 dicembre con Serata Bejart, una produzione importante che impegna tutto il Corpo di Ballo, in scena fino al 5 gennaio. Sul palcoscenico milanese tre classici, tre espressioni della creatività del maestro nel suo legame con la Scala: L’Oiseau de feu, Chant du compagnon errant, Le sacre du printemps. Sul podio un grande direttore sinfonico e di teatro, Daniel Harding, per dare giusta luce ai tre capolavori della musica del Novecento che muovono le coreografie-capolavoro del trittico. Una scelta all’insegna di una classicità contemporanea che, nel periodo delle festività natalizie, permette di raccogliere il consenso di tutta la famiglia intorno a una serata a teatro. Figlio del filosofo Gaston Berger, Maurice Bejart, infatti, ha sempre saputo parlare al grande pubblico che, da parte sua, lo ha sempre profondamente amato. Corteggiato da cinema e televisione, il coreografo francese considerava il ballare una virtù del cervello, prima ancora che delle gambe, e di se stesso diceva: «Detesto il balletto, gli orrendi tutù e la volgarità dei fondali di cartapesta. Non sono un coreografo, ma un uomo di spettacolo “totale”: amo scegliere i gesti, curare le scene, le musiche, gli effetti speciali e ogni dettaglio, attingendo a qualsiasi forma d’arte». Un artista eclettico che, oltre all’arte coreografica nella sua lunga carriera ha sperimentato il linguaggio della narrativa e della regia, sia teatrale che di opere liriche, e ha collaborato a commedie musicali e operette. Nel 2002 il regista Marcel Schüpbach presenta B come Bejart al Festival del cinema di Venezia, un documentario che ritrae il coreografo al lavoro, durante la realizzazione di Lumière (febbraio-giugno 2001). La collaborazione tra il coreografo marsigliese e il teatro milanese venne inaugurata, nel 1971, proprio da Chant du compagnon errant, su musiche di Gustav Mahler e interpretato dalla coppia Nurejev/Bortoluzzi, e si concluse nel 2007, quando, pochi mesi prima della sua morte, par-

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tecipò con un balletto appositamente creato per l’occasione, alla serata per il decennale della morte di Gianni Versace. Poco prima, nel 2004, il teatro aveva dedicato una serata alle «nozze d’oro» del maestro con la danza che, per l’occasione, aveva ricambiato offrendo alla compagnia scaligera il suo Sacre. Noto per le sue rivisitazioni dei classici, Bejart in quest’opera trasforma la rivoluzionaria rappresentazione di Nijinskij dei riti pagani legati al ritorno della primavera nella celebrazione dell’amore fra un uomo e una donna, simbolo della primavera dell’anima ed esplosione della vita. La potenza del Sacre, il classico dei classici novecenteschi, con Emanuela Montanari e Francesca Podini in alternanza nel ruolo dell’eletta e Mick Zeni, ed Eris Nezha

in quello dell’eletto, ma anche l’energia vitale, la forza e lo splendore della continua rinascita della Fenice, con Antonino Sutera e Eris Nezha, il romanticismo confessionale e autobiografico di Mahler, che vede l’alternarsi della coppia Massimo Murru/Gabriele Corrado (in sostituzione di Roberto Bolle) con quella composta Oscar Chacon/Dawid Kupinski ospiti del Béjart Ballet Lausanne, sono il modo migliore per salutare il 2009, dare il benvenuto al 2010 e ricordare il grande maestro proprio in prossimità di quello che sarebbe stato il giorno del suo compleanno, il primo gennaio.

jazz

Amar Sunday, custode dei segreti del blues

di Adriano Mazzoletti uando domani, 1° gennaio 2010 Umbria Jazz Winter avrà spento i riflettori, a pochi chilometri da Orvieto si accenderanno quelli di Torre Alfina per la nuova edizione invernale del Blues Festival che fra il 2 e il 5 gennaio, vedrà presenti su Piazzale Sant’Angelo, appositamente coperto da una tensostruttura, alcuni esponenti del blues e del rock’ n’roll che Carlo Di Giuliomaria, presidente del festival, ha fatto giungere da ogni parte del mondo. Il bellissimo borgo risalente all’VIII° secolo al tempo in cui Desiderio era re d’Italia, ospiterà fra gli altri De De Priest, il Mathew Lee Show e Amar Sunday. La prima, proveniente da Austin (Texas), ha uno stile che può considerarsi un perfetto esempio di crossover fra blues e altri generi che fanno di lei cantante di notevole interesse.

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Matthew Gee è invece nato a Pesaro e può considerarsi un imitatore del pianista e cantante rock’n’roll Jerry Lee Lewis. Uno spettacolo quello di Matthew Gee nella tradizione del rock’n’roll nero e bianco degli anni Cinquanta, quando i maggiori interpreti del genere, da Fats Domino a Little Richard allo stesso Jerry Lee Lewis erano soliti esibirsi in spettacoli di grande effetto. Amar Sunday è invece uno dei rari blues-man nord-africani. Nato in Algeria da genitori Tuaregs, dopo essersi

trasferito in Francia tornò nel suo paese natale all’età di diciotto anni per ritornare in Francia quattro anni dopo. Da allora la sua vita ricorda quella dei blues-man neri di inizio secolo. Se Blind Lemon Jefferson o Robert Johnson percorrevano le strade del Mississippi e dell’Alabama, Amar quelle delle gallerie del metro di Parigi dove suonando musiche africane, incontrò un certo Sunday che gli fece conoscere l’immensa ricchezza musicale del blues nero. Cambiò il suo nome africano in Sunday in onore di quel

suo maestro e nel 1986 partì alla volta di Chicago, patria incontrastata del blues. Nei piccoli locali del South Side, il quartiere dove negli anni Venti suonarono King Oliver e Louis Armstrong, oggi non è il jazz che viene eseguito, ma il blues dei cantanti più reputati. In uno di questi club, «The Blues» appunto, Amar ha occasione di suonare con autentiche leggende come Otis Rush, Son Seals e Sugar Blue. Il suo nome diventa popolare e James Cotton, solista di armonica e leader di una eccellente blues band, lo vuole nella sua orchestra. I quattro mesi passati on the road attraverso gli Stati Uniti, sono di enorme importanza per il giovane musicista algerino che si impadronisce di tutti i segreti del blues. Altri grandi musicisti lo vogliono al loro fianco. Con Albert King compie due tournée europee e con B.B. King partecipa a diversi concerti.


libri della paura MobyDICK

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narrativa

L’assedio

di Maria Pia Ammirati ndubbiamente l’ultimo libro di Starnone è un libro duro e difficile, ostile per la materia trattata, pieno di fascino per una straordinaria qualità di scrittura. In uscita in giorni in cui la lettura pretenderebbe la leggerezza come pacco dono, la forza d’urto di Spavento dovrebbe mettere in moto ben altri desideri nel lettore che la spensieratezza, la leggerezza o la consolazione. Quando parliamo di letteratura parliamo soprattutto dei grandi temi dedicati alla vita e alla morte. La morte nel romanzo è lo spavento che apre la strada alla vera protagonista del testo, la paura (e a tutte quelle sensazioni legate al sentimento annunciato nel titolo) della malattia. Per questo motivo e per la forza realistica delle scene il libro di Starnone ha consistenza coriacea, grumosa. La complessità della struttura del romanzo viene rappresentata da due storie che all’apparenza corrono parallele tra loro, in realtà una è contenuta nell’altra. Un narratore onnisciente con tratti visibilmente autobiografici, scrittore cinquantaseienne, è impegnato nella stesura di un romanzo con al centro il protagonista, Piero Tosca, a sua volta scrittore e sceneggiatore, che scopre all’improvviso sangue nelle urine. In realtà il lettore troverà in apertura la storia di Tosca e sarà immediatamente calato nella spirale di paura e sconcerto che il personaggio vive dalla mattina in cui scopre che potrebbe essere ammalato. Solo quando la storia ci avrà avvolti nel senso di inquietudine, entrerà in gioco il narratore per svelare la finzione: Piero Tosca è un personaggio, la sua ma-

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lattia è frutto di un ingranaggio narrativo. A questo punto lo scrittore onnisciente ci porta nella sua vita quotidiana e nei suoi dubbi di scrittura, nella sua vita familiare scandita dalla vitalità della moglie. E per un misterioso, e non

meccanico rituale, anche lui si troverà a fare i conti con i segni evidenti della malattia. Ecco allora spuntare non tanto l’emulazione (l’artefice che crea la copia e ne è suggestionato) quanto la pietà, il senso di appartenenza al genere umano come una qualità dell’esistenza che non può prescindere dalla vecchiaia e, infine, dalla morte. Poca importanza ha la differenza dei finali delle due storie, più importante l’atteggiamento dei due personaggi di fronte alla malattia: Tosca si dà alla fuga, lo scrittore affronta supinamente (ma sempre con terrore) le cure ospedaliere. Lo scrittore, infine, assediato dalle cure e dalla paura, non chiude il romanzo di Tosca e solo dopo dieci anni, quando oramai si sente guarito, riprende in mano il canovaccio delle varie stesure della Morte allegra e sente che è necessario chiudere il romanzo perché «un racconto interrotto sembra una città straniera che è stata bombardata». Nella miniera letteraria che questo libro rappresenta, un posto di rilievo trova la riflessione sulla lingua e sul rapporto lingua-dialetto. Non nuova in Starnone l’indagine sul napoletano come lingua madre oscena e dura ma nella sua carnalità così vicina alla vita quanto alla morte. Domenico Starnone, Spavento, Einaudi, 290 pagine, 20,00 euro

riletture

L’agenda della filosofia e i propositi per l’anno nuovo di Giancristiano Desiderio eh, giunti anche quest’anno, grazie al Signore, alla fine dell’anno come fare a non rileggere l’anno che ci accingiamo a salutare? È un rito, un’abitudine che facciamo senza molta cura e sulla quale, invece, faremmo bene a spendere un po’ più di pensiero. Vi dedichiamo cinque minuti, facciamo un rapido bilancio e ci riproponiamo ogni buon proposito. Tutto si esaurisce nel cosiddetto veglione di capodanno. Ma, volendo fare sul serio un bilancio dell’anno che - si dice - ci lasciamo alle spalle - mentre, in realtà, gli anni passati sono sempre davanti a noi e sono quelli che verranno invece a essere alle nostre spalle, nell’ignoto futuro - che cosa davvero possiamo fare? Io vi suggerisco una rilettura un po’

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strana perché tanto rilettura non è e, a dire la verità, non è neanche una lettura nell’idea ordinaria della parola. Si tratta di un’agenda, la seconda Agenda della Filosofia edita per il secondo anno dalla Bompiani a cura di Massimo Donà e Raffaella Toffolo e per l’anno 2010 il filo conduttore è il corpo: perché noi siamo spiriti incarnati (o idee incarnate o pensieri incarnati, fate voi, siamo l’unico modo, forse, in cui possano esistere il corpo e l’anima che sono la stessa espressione ma li pensiamo come due in uno). L’Agenda della filosofia nasce sulla scia di altre iniziative editoriali del genere: la prima fu l’agenda letteraria che poi è stata imitata in altre «discipline». Ma a cosa può servire un’agenda della filosofia? Non bastano forse i problemi ordinari di ogni giorno ad arricchire e movimentare la nostra esistenza? Davvero servono an-

che i pensieri, le riflessioni, gli aforismi, i brani delle opere dei filosofi (ma non solo dei filosofi) di ogni tempo: da Platone a Heidegger? Un’agenda della filosofia sa tanto di filosofia «alla bacio Perugina»: scartocci un cioccolatino e leggi la frasetta d’amore mentre affondi la lingua nel cioccolato e nelle noccioline. E in parte, non lo si può nascondere è così. Tuttavia, cosa dovrebbe davvero essere secondo noi la filosofia? Davvero pensiamo che il pensiero filosofico - o semplicemente il pensiero - sia qualcosa che si trovi nei grossi tomi dei pensatori o dei professori? Davvero pensiamo che l’intelligenza appartenga al mondo dell’università e delle cattedre? La filosofia - amava dire Croce - è un castello con cento porte e per entrarvi bisogna imboccare una di queste porte: una qualsiasi. Non c’è una strada obbligatoria per entrare nel cosid-

detto mondo della filosofia, ogni strada è buona se è una strada che nasce da un problema sofferto in noi -nel corpo, direi, non solo nello spirito - e ogni strada è sbagliata se nasce da una ripetizione pappagallesca di parole altrui. Ma cosa c’entra tutto ciò con la rilettura dell’anno passato da cui son partito? Ho ripreso in mano l’Agenda del 2009. Ho riletto il mio anno insieme con i filosofi che mi hanno accompagnato. Accanto a molte frasi della «filosofica famiglia» ho annotato miei pensieri: non per forza cose profonde o abissali, ma più normalmente cose umanissime: passare in lavanderia, ricordarsi di chiamare l’idraulico o la casa si allagherà, andare a cena con Graziella. Leggere i grandi pensieri alla luce dei piccoli pensieri è un’esperienza davvero filosofica. Lo farò anche per il 2010.


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storia

In trecento scatti l’impresa di Fiume

di Giancarlo Galli ue storici di alto livello ma dotati di un’eccezionale sensibilità mediatico-divulgativa (Mimmo Franzinelli e Paolo Cavassini, ormai affermatisi per le loro ricerche sul fascismo e l’Italia fra le due guerre), ci hanno regalato uno straordinario documento: la ricostruzione, in larga misura fotografica, e come tale ineccepibile, ancorché poco conosciuta, spesso distorta, di un evento all’epoca memorabile: l’«impresa di Fiume», concepita da Gabriele D’Annunzio. Colui che il futuro Duce finse di amare, ma che in realtà profondamente detestò, temendone la «concorrenza». Sino a propiziarne il ritiro nel dorato esilio di Gar-

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narrativa/2

done, dove è sorto il Vittoriale, monumento alla più pura retorica che il poeta-guerriero meglio di chiunque altro incarnò. I fatti. Vinta la guerra, gli Alleati concessero all’Italia Trento e Trieste. Non Fiume (oggi Rjeka), assegnata al neonato Regno di Jugoslavia, nonostante la maggioranza degli abitanti fosse italiana. Al grido di «Vittoria mutilata!», il mitico poeta-soldato D’Annunzio guidò fra il settembre 1919 e il dicembre del 1920 una «spedizione per liberare» la città. Sino a creare uno Stato autonomo, indipendente da Roma. Avventura solitaria, folle, di un antipolitico? Semmai il contrario. A Fiume, il Vate (D’Annunzio) condusse, oltre che reduci, arditi disillusi, personaggi destinati a lasciare le loro orme

nella storia: da Guglielmo Marconi ad Arturo Toscanini al banchiere Raffaele Mattioli. La «Reggenza del Carnaro» divenne inoltre punto di riferimento dei futuristi. Con un codazzo di avventurieri, spie, belle maliarde. L’utopia dannunziana si concluse con un bagno di sangue. Il premier liberale Giovanni Giolitti, d’intesa con casa Savoia, tacitato Mussolini, mosse l’esercito. Dopo cinque giorni di lotta, la resa. Fiume verrà spartita, e sino alla morte D’Annunzio denuncerà il «tradimento», mancandogli però il coraggio di chiamare direttamente in causa Duce & Fascismo. A novant’anni da quegli eventi, Cassini e Franzinelli rievocano, con una doppia chiave di lettura, l’impresa fiumana. Trecento foto-

grafie testimoniano di un entusiasmo nazionalistico certo irrazionale ma caratteristico di un’epoca; un accurato testo (prefazione, commenti) c’introduce in quel clima di forti passioni. Quelle che poi, il fascismo che non aveva mosso un dito per D’Annunzio, fu lesto a cavalcare, appena Mussolini conquistò il potere. Puntando il dito contro le «plutocrazie» che avevano «mutilato» l’Italia di Vittorio Veneto. Un volume prezioso, sin qui unico, dunque, per capire (col testo) e vedere (con le immagini), un momento dell’Italia di novant’anni fa. Mimmo Franzinelli - Paolo Cavassini, Fiume. L’ultima impresa di D’Annunzio, Mondadori, 238 pagine, 23,00 euro

Vivere ai margini nella sfarzosa Edimburgo di Pier Mario Fasanotti introduzione ai tre racconti ambientani a Edimburgo è di J.K. Rowling, l’autrice della saga di Harry Potter. La bestellerista abitò, nel periodo più difficile della sua vita, a Edimburgo, e qui ricevette l’ok dell’editore che le cambiò la vita. Si considera figlia adottiva della città e vi è tornata a vivere. Ricorda quei tempi.Viveva in un caseggiato destinato a madri sole. E affrontò un ambiente fatto di violenza ed emarginazione: a pochi passi dal centro, che è ricco ed è il quarto polo finanziario d’Europa. I tre racconti, scritti da Alexander McCall Smith, Ian Rankin e Irvine Welsh (famosissimi), parlano di gente sfortunata, o comunque di persone che fanno fatica ad ambientarsi, «che si sentono isolate dagli altri e dai vantaggi della città», bella, au-

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personaggi

stera e algida. Rankin, giallista di fama, si misura con maghi di strada, sempre a corto di soldi e di solidarietà (qualcosa che somiglia alla magia). Racconta del Tigre, giovane che frequenta un dormitorio e cerca di farsi largo nel mondo dei prestidigiatori. Realtà e fantasia si mescolano quando incontrerà un grande maestro dell’illusionismo, in grado di insegnargli i trucchi-base del mestiere. Saprà poi che in realtà si tratta di una controfigura che rimanda a un personaggio da circo dell’inizio secolo. Il racconto termina in modo enigmatico: ma questo è il viatico (comico o tragico?) per l’affermazione. Welsh, con una scrittura nervosa e a volte istericamente moderna, s’inventa una tigre assassina: probabile allegoria dell’estraniazione. Delicatissimo il racconto di McCall Smith. Si racconta di un giovane medico indiano che è alle

prese con la decifrazione del lessico mentale e comportamentale dei britannici. Non tutto gli pare semplice, in quella terra certamente «pulita», ma «priva di colori», dove la gente spesso dice una cosa solo per cortesia o per significare una cosa diversa. Fa amicizia con una vicina di casa, si frequentano. È lei a incoraggiarlo a fare gite e andare al cinema. Lui è contento ma esita, immaginando il desiderio di lei. E riflette sulla propria «totale assenza di desiderio». Per nostalgia, sfila dall’album fotografico della famiglia (dono di sua madre) l’immagine di sua cugina, poi la incornicia e la pone su una mensola della cucina. Lei la vede, vuole sapere, ma l’indiano è evasivo. Durante una cena fuori Edimburgo, intenerito dalla donna e finalmente (e sinceramente) contento di starle accanto, le rivela che la bella ragazza della foto «è stata mangiata da una tigre». La scozzese capisce e ride. Alexander McCall Smith, Ian Rankin, Irvine Welsh, Storie di una città, Guanda, 122 pagine, 13,50 euro

Zanotti Bianco, protagonista di un’Italia migliore di Gabriella Mecucci mberto Zanotti Bianco è uno di quei personaggi che hanno reso grande l’Italia. Che ne hanno favorito lo sviluppo equilibrato e che hanno contribuito a formare una classe dirigente colta, efficiente, anticipatoria e straordinariamente onesta. Per questo il libro che Sergio Zoppi gli ha dedicato, vale la pena di essere letto. È un tuffo in un periodo in cui l’Italia era migliore. Lo diciamo a costo di sfidare l’accusa di passatismo. Zanotti è un uomo di stampo risorgimentale, ha come punto di riferimento Mazzini ed è di cultura liberale. Ha lavorato a lungo all’Animi, Associazione nazionale per

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gli interessi del Mezzogiorno d’Italia, a partire dal 1911, in qualità di presidente, portando avanti iniziative originali per lo sviluppo. Lui, piemontese, nutrito di spiritualità religiosa, tenacemente fedele alle istituzioni pubbliche, sceglie il Sud e i suoi interessi che porterà avanti per tutta la vita: la sua prima grande lotta è contro l’analfabetismo imperante. Durante il fascismo è intenso l’impegno di Zanotti per mantenere l’autonomia dell’Animi. Un’impresa quasi impossibile a partire dal 1925. Oltre a queste attività pratiche, ci sono gli studi sul Mezzogiorno, nonché gli importanti scavi archeologici. Sino a quando cominciano a farsi sentire le pesanti minacce squa-

dristiche. Zanotti riesce - evitando di esporsi troppo - a operare in modo efficace all’interno dell’Animi e a evitare gli atti di servilismo che il regime gli chiede grazie alla sua fermezza e all’attiva protezione della monarchia, in particolare della principessa Maria José. Mantiene ferme le sue impostazioni liberali e, con i suoi ideali, partecipa alla Resistenza. Nel dopoguerra diventa presidente della Croce Rossa alla quale dà una enorme spinta: riesce a mobilitare - grazie al suo carisma - migliaia di volontari, crea 56 unità di soccorso e di assistenza, ripristina o fonda ex novo i sanatori per i giovani. La Croce Rossa diventa così un’organizazione sempre più impor-

tante e perciò rientra negli appetiti clientelari della Dc. Zanotti non lo può sopportare: ritiene che la Cri debba restare apolitica, invia una durissima lettera a De Gasperi per stigmatizzare certi comportamenti, e se ne va. Nel 1955 partecipa alla fondazione di Italia Nostra di cui diventa un presidente appassionato, sempre in prima linea per conservare monumenti, territorio e paesaggio. L’ultima parte della sua vita passa fra questo impegno e quello di senatore a vita. Sergio Zoppi, Umberto Zanotti Bianco. Patriota, educatore,meridionalista: il suo progetto e il nostro tempo, Rubbettino, 247 pagine, 16,00 euro

altre letture Giuseppe Sermonti da molti anni si dedica a una serrata riflessione intorno alla scienza e alla sua pretesa di elaborare la realtà. Denunciando la sua presenza sempre più invadente compie una sorta di percorso a ritroso recuperando come termini di confronto i saperi che la scienza ha messo in disparte negli ultimi due secoli: la religione e la tradizione popolare, interpretazioni diverse ma coerenti della Natura e della sua sacralità. In Alchimia e fiaba un’opera ormai classica ora ripubblicata da Lindau (251 pagine, 18,50 euro) Sermonti, affascinato dalla struttura simbolica della vita, dalle sue leggi eterne e ordinate, mette in discussione il metodo scientifico quale unica via di accesso alla verità e rivitalizza il senso della fiaba, intesa come rappresentazione delle strutture profonde dell’universo. Un altro libro su

Fiume. Mito e simbolo dell’irredentismo, nella prima metà del Novecento la città fu un laboratorio di intensa attività politica e oggetto di numerosi e radicali mutamenti a livello sociale e istituzionale. Dopo essere stata modello di autonomismo sotto l’Austria-Ungheria, Fiume divenne con D’Annunzio simbolo della passione nazionale, per poi trasformarsi in «città di vita» nell’ambito di un progetto libertario, sindacalista e rivoluzionario che prese forma lirica e politica nella carta del Carnaro. In Mezzo secolo di Fiume (Cantagalli editore, 210 pagine, 14,90 euro) l’avventura di Fiume viene presentata sotto una forma originale. Nella complessità di una città contesa dai nazionalismi lo studio di Giuseppe Parlato evidenzia la situazione sociale ed economica dei fiumani nei cinquant’anni più drammatici della loro storia.

Sesso nel Rinascimento

a cura di Allison Levy (Le lettere, 316 pagine, 40,00 euro) è un volume collettaneo che propone un discorso critico sulla sessualità e sulla cultura visiva dell’Italia rinascimentale. I saggi raccolti tentano di fare luce su una serie di zone d’ombra, dando spazio a tutte quelle pratiche o preferenze considerate in genere come alternative o anomale e a un’ampia varietà di scenari scandalosi. Ne emerge un quadro completamente nuovo della sessualità rinascimentale svelando scenari inediti e volutamente nascosti. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

ANDREA ALCIATO GIURECONSULTO, CATTEDRATICO, FILOLOGO, ERUDITO, STIMATISSIMO DA SOVRANI E PAPI, È L’AUTORE DEL “LIBRO DEGLI EMBLEMI”, NODI SAPIENTI TRA “VERBA” E “IMAGINES”. UN NUOVO LINGUGGIO GEROGLIFICO, UN CONGEGNO CREATIVO PROPOSTO ORA DA ADELPHI IN UN PREZIOSO VOLUME A CURA DI MINO GABRIELE

Il visibile parlare di Mario Bernardi Guardi Emblema? È «visibile» e «dicibile». Composito e compiuto, ti consente di ascoltare l’immagine e di visualizzare la parola. Questa, la mirabile lezione di Andrea Alciato il cui Emblematum liber viene proposto per la prima volta da Adelphi in una edizione che accoglie, oltre il testo latino, criticamente stabilito sulla base del raffronto tra le due prime edizioni (1531 e 1534), la traduzione, le illustrazioni di altre due fondamentali stampe (1550, 1621) e un vasto commento che di ciascun emblema individua le fonti speculative e iconologiche (Il libro degli Emblemi, introduzione, traduzione e commento di Mino Gabriele, pp. LXXVI-731, euro 80,00). Un personaggio illustre, Andrea Alciato (Alzate, Brianza, 1492-Pavia, 1550): giureconsulto, cattedratico, filologo, erudito, «stimatissimo da sovrani e papi - ricorda Mino Gabriele -, conteso dalle maggiori università italiane e straniere per i suoi fondamentali e innovativi contributi sul diritto romano». Eppure deve la sua fama e la sua «attualità» a un minuscolo volume, scritto nelle ore libere da quelli che riteneva ben più gravosi impegni. Per l’appunto, l’Emblematum liber, volumetto in 16° di sole 44 carte nella prima edizione del 1531, che fin dal suo apparire cominciò una splendida carriera editoriale, in una rigogliosa fioritura di edizioni, riedizioni e traduzioni, in qualche caso seguite da note e commenti, in tutte le lingue europee, tanto da contare fino a oggi centinaia di stampe. E a tutto questo si aggiungano i numerosi saggi e studi dedicati a esso e alla letteratura di concetto che ne è derivata.

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Naturalmente, come si conviene a molte opere di rango, c’è all’origine e nella gestazione qualche mistero su cui gli studiosi indagano. Da una lettera del 9 dicembre 1522, indirizzata da Alciato all’amico libraio ed editore Francesco Calvo, apprendiamo infatti che il nostro illustre giureconsulto aveva già realizzato in quella data un volumetto

intitolato Emblemata e che gli Emblemi erano epigrammi senza illustrazioni. Concepiti in modo tale, però, da stimolare la vena creativa di pittori, orefici, fonditori ecc. per produrre insegne, imagines, signa, icones symbolicae. Insomma, Alciato proponeva, con i suoi versi, immagini allegoriche che offrissero al variegato mondo degli artisti occasione di cimento inventivo, al fine di realizzare dipinti, medaglie, anelli, monete, gemme che fossero impreziositi da un linguaggio allusivo e significativo.

Di questi Emblemata del 1522 e di un altro libellus previsto dall’autore per 1523 si è però persa ogni traccia. In ogni caso, questi testi rientravano in quella che potremmo chiamare una «moda» letteraria: sembra, infatti, che a Mi-

grammi. Come si spiega questa innovazione? E, prima ancora, come venne in possesso Steyner del testo alciateo da lui stampato? Su quale redazione si basò? Non fu per caso una operazione di «pirateria» editoriale?

Mino Gabriele ricostruisce scenari, ipotizza, puntualizza, arrivando alla conclusione che Alciato non solo non ebbe alcun controllo sull’edizione tedesca ma la ripudiò e avrebbe voluto distruggerla: infatti era piena di errori che potevano mettere in gioco la sua reputazione. Bisognava dunque creare un’edizione emendata da ogni possibile pecca, e il progetto si realizzò nel 1534 con la pubblicazione degli Emblemata presso il tipografo parigino Chrétien Wechel, alla quale seguiranno diciassette ristampe di cui

“Emblematum liber” apparve in prima edizione nel 1531 e immediatamente cominciò la sua splendida carriera editoriale. Come si conviene a molte opere di rango, c’è alla sua origine, e nella gestazione, qualche mistero lano, all’inizio degli anniVenti del Cinquecento, circolassero più operette con il medesimo titolo Emblemata, che raccoglievano epigrammi di questo o quell’autore, impegnati in una sorta di certamen lirico-intellettuale. Ma ecco che nel febbraio del 1531, ad Augsburg, in Germania, viene data alla luce da Heinrich Steyner quella che è ritenuta l’editio princeps degli Emblemata e che conoscerà in pochi anni quattro ristampe. Questa edizione presenta una novità rispetto alle raccolte del 1522 e del 1523 di cui Alciato ci parla ma che sono svanite nel nulla: infatti, essa è corredata da vignette tipografiche che illustrano gli epi-

l’ultima nel 1545. Ancor più intricato il dibattito sulle illustrazioni: quando furono inserite? Il connubio testo/immagine fu una scelta di Steyner? Oppure lo volle Alciato? Con ogni probabilità, si deve a Steyner «l’idea tipografica degli Emblemi, intesi non più come singoli epigrammi, bensì quale calcolata coniugazione di testo poetico e immagine». Ma Alciato fece propria questa soluzione iconico-tipografica e, nell’edizione del 1534, riprendendo in pugno il proprio libellus, ne escluse vignette, per dir così, di «basso profilo», dal punto di vista «emblematico», includendo altri epigrammi e nuove immagini di suo pieno gradimento.


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Perché gli Emblemi avevano nobili tradizioni che non potevano essere avvilite né tanto meno profanate. Andando indietro nel tempo e nella lingua, vediamo che il latino «emblema» significa, in senso proprio, «ciò che include per ornamento o si introduce in un’altra cosa, come accade nell’intarsio, nel mosaico, nel ricamo delle vesti, oppure nelle forme in rilievo applicate su altra materia, per esempio un tondo d’oro con effigie sbalzata fissato sopra un vaso d’argento». Ma c’è anche una valenza figurata, che Cicerone testimonia nel De oratore: al modo in cui in un pavimento a mosaico le sottili tessere sono disposte e incastrate ad arte, così, nell’arte oratoria e nella prosa, le parole vanno accomodate, accordate con grazia, eleganza e chiarezza, per trarne fuori un lucidus ordo. Lo stesso vale per l’Emblema, «visibile» e «dicibile», grazie al «nodo sapiente» di verba e imagines, a quella facoltà combinatoria da cui scaturisce il «visibile parlare» e che ha alla base il magistero degli antichi, a partire dalla celebre massima oraziana ut pictura poesis («la poesia è come la pittura»). Non siamo forse in grado di vedere lo scudo di Achille, descritto da Omero? E quello di Enea, descritto da Virgilio sulla base di siffatto modello? La morte di Laocoonte che Petronio illustra sulla base di un quadro? I dipinti raccontati da Luciano e quelli narrati nelle Immagini di Filostrato? E poi, nel fervore immaginativo e creativo del Rinascimento, non c’è forse un mirabile exemplum come l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (anch’esso pubblicato da Adelphi, a cura di Mino Gabriele, nel 1998), con le minuziose e preziose descrizioni di antichi monumenti?

Ora, con Alciato, lo strumento descrittivo deve dar vita a un congegno creativo in cui la parola sia «veicolo» dell’immagine e in cui l’immagine diventi «simbolo autonomo della stessa parola che lo descrive e da cui sgorga». Un nuovo linguaggio geroglifico? Nel commento al De verborum significatione, opera di Alciato edita soltanto nel 1530 per diversi ritardi editoriali ma scritta intorno agli anniVenti (il testo consiste nel sistematico commento alle 246 leggi che compongono l’omonimo titolo del Digesto) si legge: Verba significant, res significantur. Tametsi et res quandoque significant, ut hieroglyphica apud Horum et Chaeremonem, cuius argomento et nos carmine libellum composuimus cuius titulus est Emblemata, ovvero «le parole significano, le cose sono significate. Tuttavia anche le cose talvolta significano, come i geroglifici di Horo e di Cheremone, argomento sul quale anche noi abbiamo composto un libretto in versi, il cui titolo è Emblemata». Dunque, a offrire ispirazione agli Emblemata ci sono Horapollo e Cheremone. Il primo è

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autore dei Hieroglyphica, un trattato sistematico sui geroglifici - l’unico giuntoci dall’antichità - riscoperto dagli umanisti del XV secolo. Il secondo fu filosofo stoico e sacro scriba: tutte le sue opere, però, sono andate perdute e restano unicamente citazioni e frammenti sparsi in vari testi. Ma allora come poteva Alciato riferirsi a questa fonte? Probabilmente, il Nostro concorda con l’opinione di Erasmo che, negli Adagia, attribuisce a Cheremone i geroglifici di Francesco Colonna, il già citato autore della fascinosa Hypnerotomachia Poliphili. In ogni caso, quello dei geroglifici, insieme ad altre immagini e signa «di mirabile antichità e strabiliante bellezza», è un mundus symbolicus in cui figure e scritture si intrecciano e che forniscono agli epigrammi/Emblemi potenti suggestioni per comunicare e creare.

Trasmutazione artistica, certo, ma anche alchemica, con tanto di «perentoria esegesi ermetica», come quella di PierreVicot che nel 1536, in un suo commento all’opera di Ovidio - Le Grand Olympe ou philosophie poétique attribuée aut rès renommé Ovide, traduit du latin en langue française, prende in esame una ventina di emblemi alciatei. E cioè quelli che conten-

Milano e in cui la res picta (a un tempo stemma del Ducato e insegna viscontea) è «un bambino che balza fuori dalle fauci di un serpente sinuoso». Ebbene, secondo Alciato il blasone ha una genealogia olimpica. Facendo, infatti, riferimento alle Vite parallele di Plutarco, egli ne attribuisce l’origine ad Alessandro Magno che sosteneva di essere stato partorito dalla bocca di Zeus così come la dea Atena era nata dalla sua testa. Un parallelismo che voleva sposare emblematicamente le virtù guerriere del Macedone con la divina sapienza che gli era stata infusa. Evidente l’intendimento celebrativo: magnificare la città di Milano attraverso il divino archetipo dell’insegna che fissava una discendenza celeste e la rendeva attuale nella storia.

Quanto alla lettura di Vicot, essa vede nello stemma con il serpe - attributo di Ermes/Mercurio che ha una bacchetta alata con due serpenti attorcigliati - una sottile allegoria dell’opera alchemica, perfettamente compiuta nella sua forma «circolare». E con questo angolo di visuale si guarda ad altri Emblemi (nel Liber ce ne sono 113). Nel IV i due leoni del carro di Antonio rappresentano due gradini - gradi alchemici: il Leone Verde e il Leone Rosso; nel XV,

A offrire ispirazione per l’opera ci sono Horapollo, autore di un trattato sui geroglifici, e il filosofio stoico Cheremone, i cui lavori andarono perduti ma a cui si riferisce Francesco Colonna nella sua “Hypnerotomachia Poliphili” gono riferimenti mitici o eroici presenti anche nell’opera ovidiana interpretata alchemicamente. A questo punto il linguaggio degli Emblemi si arricchisce di ulteriori valenze: dietro la «tipologia tripartita» composta da inscriptio (succinta intestazione ovvero motto che dichiara il soggetto, tema o concetto dell’Emblema), pictura o res picta (visualizzazione del soggetto) e subscriptio (descrizione in versi del soggetto: un sonetto, un epigramma di varia lunghezza), si vela/disvela la trama dell’Ars Regia. Ad esempio, l’Emblema I, con dedica all’illustrissimo Massimiliano duca di

la pietra e le ali che caratterizzano le mani del personaggio alludono a un ammonimento ermetico: «rendi ciò che non si muove volatile e ciò che vola immobile»; nel LXII, «le tre dee del giudizio di Paride corrispondono ai tre gradi e alle tre nature dell’Opus: Giunone è la natura metallica e minerale perché dea di tutti i tesori, Pallade quella vegetale che distrugge e rigenera i corpi,Venere quella animale per la sua forza vivificatrice; il pomo d’oro simboleggia l’elixir»… Già, la pietra filosofale, l’oro alchemico, la bevanda della lunga vita. E della lunga «emblematica» ebbrezza.


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tv

video

In treatment Leggersi dentro grazie a una fiction di Pier Mario Fasanotti i può imparare qualcosa di utile sull’animo umano guardando la tv? Vista l’aria che tira, sull’etere della volgarità, verrebbe spontaneo dire di no, con alcune eccezioni. Imparare e appassionarsi alle immagini e ai dialoghi che scorrono sullo schermo: è possibile, dunque? Sì. Basta seguire la fortunata serie In treatment (la seconda), replicata in questi giorni sul canale Cult di Sky. Il merito si deve a una sceneggiatura ottima, redatta da esperti in psicologia, e da un attore, l’irlandese Gabriel Byrne, che è eccezionale nella sua sobrietà. Recita con lo sguardo, e non è poco. Burne è lo psichiatra-analista Paul Weston, con un passato difficile, una separazione burrascosa dalla moglie e un rapporto accidentato con la figlia adolescente Rosy (ma i due si abbracciano spesso). Nella sua casa-studio il dottor Weston riceve pazienti con varie problematiche. Il dialogo è serrato. Lo specialista non è di quelli che stanno zitti (vecchia scuola freudiana, ormai superata, soprattutto in America: altrove resiste, purtroppo), anzi fa domande, si espone alle critiche dell’interlocutore pur non facendo il muro di gomma. E così accelera la terapia.

S

April è una ragazza con un linfoma al quarto stadio, sfiancata dalla chemioterapia. È un esempio della «resistenza» alla terapia. Più volte fa cenno di alzarsi e andarsene, poi rimane e racconta di sé tra tante riluttanze. È prigioniera di una madre che pretendeva di sapere tutto, di controllare tutto, di dare voti, ma incapace di un rapporto affettivo leale, aperto. April tende a pensare che i punti di vista degli altri siano delle «cavolate». Si accorge, nel tesissimo dialogo con l’analista, di aver sempre lanciato indirettamente messaggi alla madre, alla quale però ha nascosto il suo stato di salute e il ricovero in ospedale. La ragazza «chiude i cancelli» e considera «deprimente» qualsiasi persona che le manifesta affetto. Poco alla volta il dottor Weston arriva al nodo del problema. April non vuole diventare adulta, continua a pensare alla madre come alla donna che le stava accanto quando era a letto

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la sera, quand’era bambina. Rivela di aver sperato che il cancro la «ripulisse» dal ribellismo. L’analista, agganciandosi a un sogno della ragazza, ipotizza per lei il desiderio di una rinascita, di una vita nuova. April: «Ora vado. Può aiutare ad alzarmi dal divano?». È un punto di partenza affettivo (fiducia), alla sesta seduta terapeutica. Poi c’è Walter, maturo manager che soffre di attacchi di panico. È un uomo gelido, razionale, diffidente, tutto d’un pezzo. scava Weston nella sua infanzia e scopre che il fratello morì annegato a soli 16 anni (lui ne aveva sei). I genitori di Walter nascosero la tragedia finché poterono, non mostrarono palesi emozioni. Domanda: quando è stato l’ultimo attacco di panico? Risposta: in ascensore, ma non c’era nessun nesso con quanto mi era capitato prima. Walter continua a negare i «nessi», ingessato com’è in una logica superficiale che, solo in apparenza, lo difende.

games

Così almeno crede. Il terapeuta verrà a sapere che quella mattina, prima di entrare in ascensore,Walter mostrò i documenti alla nuova guardia giurata dell’azienda. Weston insiste: e quello di prima che fine ha fatto? Walter, indifferente: è morto d’infarto. I «nessi» sono evidenti. Il panico sorge quando il manager teme, nell’inconscio, che la gente che si allontana sia condannata a sparire definitivamente. Come il fratello. Lontananza uguale lutto. Non è una formula, è la verità. Ma Walter continua, sia pure con increspature di dubbio, a credere che tutto vada bene, che tutto si risolva. Il paziente esce rigidamente dallo studio dell’analista, vuole continuare a pagare volta per volta ricordando gli insegnamenti paterni: «mai avere un debito». Ma alzandosi i suoi occhi hanno un lieve bagliore allorquando il medico gli dice che «reagisce in maniera sproporzionata rispetto all’evento» e gli ha ricorda che non è un caso che abbia cominciato a entrare nella gabbia del panico quando ereditò la camera del fratello scomparso, anzi «sparito» secondo il paziente in analisi. Un inizio difficile, ma un altro cancello (quanti muri ci sono nelle persone!) è stato quasi divelto.

dvd

GLI ORIGINALI AUGURI DI GOOGLE

ALTA TENSIONE PER SAW L’ENIGMISTA

MEZZO SECOLO DI MAFIA

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n occasione delle festività, Google mette a disposizione una serie di simpatici biglietti d’auguri disponibili per tutti gli utenti di g-mail nella sezione Docs. Auguri con foto, cartoline contenenti video clip, inviti, liste, elenchi di oggetti e molto altro ancora. C’è tutto l’occorrente per mandare un pensiero ai propri cari e agli amici, regalando loro qualcosa in più delle tipiche frasi

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ono passati cinque anni da quel 2004 che proiettò un film a budget risicato nell’olimpo degli scream movie. E grazie alla propensione videoludica della pellicola, e al buon successo che hanno riscosso fino a oggi i successivi capitoli, Saw l’enigmista approda su Playstation 3 grazie a un’azienda leader del settore come Konami. In terza persona, con telecamera al seguito, il player si av-

e pensiamo a dieci o dodici anni fa, è difficile vedere un progresso, ma rispetto alla Sicilia di prima di Falcone e Borsellino ciò è evidente: lento, ottenuto a caro prezzo tra lacrime e sangue, ma innegabile». Così scrive Alexander Stille nella prefazione del suo Nella terra degli infedeli, libro di inchiesta sulla mafia dal quale Marco Turco ha tratto l’intenso documentario In

L’azienda di Mountain View ha offerto a tutti gli utenti g-mail card personalizzabili

Approda su Playstation 3 il gioco ispirato al film entrato nell’olimpo degli scream movie

La Sicilia dallo sbarco americano a Borsellino nell’intenso documentario di Marco Turco

di circostanza.Visibili in comode anteprime, i biglietti vengono proposti in base all’ordine di popolarità e sono suddivisi per aree disciplinari e variano dalle icone più tradizionali a quelle più buffe e divertenti. Di facile utilizzo, e di compilazione rapida, i modelli grafici sono gratuiti e stanno all’interno di un vasto pacchetto di prestampati che comprendono agende, calcolatori, etichette, presentazioni e curriculum. Personalizzabili e coloratissime, le card vengono importate nei documenti di Google, per poi essere inviate con un semplice clic a tutti i nostri contatti. L’azienda di Mountain View ha deciso insomma quest’anno di sistemarci tutti per le feste.

ventura negli orrori e nelle gelide atmosfere che hanno fatto la fortuna dell’horror. La tensione è molto alta, perché il countdown scandisce da subito le vicende del protagonista che, al pronti via, dovrà tentare di svincolarsi da una serie di catene che lo tengono prigioniero in un antro poco raccomandabile. Molto curati i modelli poligonali che conferiscono alla silhouette dei personaggi una certa fluidità, e pregevoli le texture, che immettono nei dettagli più insignificanti angoscia e allusione orrorifica. Immancabili sono naturalmente i rebus più spietati e la missione salvifica ad alto tasso di sacrifici.

un altro paese. In parallelo con il saggio dello studioso americano, l’opera ripercorre gli ultimi sessant’anni del nostro Paese, a partire dallo sbarco americano, che insieme alle truppe rilasciò nella Penisola numerosi malavitosi incaricati di riportare l’ordine alla fine della seconda guerra mondiale. E poi, il pool di Rocco Chinnici, le tragiche vicende di Dalla Chiesa, Pio La Torre e Basile, Falcone e Borsellino, e i sanguinosi attentati che si succedettero terribili durante il 1993. Rigoroso e puntuale, il lavoro di Turco si tiene distante da semplificazioni e goffaggini propri della fiction, per consegnarsi a pieno titolo al giornalismo d’inchiesta più rigoroso.

a cura di Francesco Lo Dico

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cinema

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La fedeltà di Hachiko e il viaggio di Amelia di Anselma Dell’Olio ellini diceva: «Io non ho mai conosciuto un adulto. Tu?». Sopratutto a Natale, si apprezzano film che appaghino il bambino in noi, aperto e attento a ogni cosa. Non fatevi scoraggiare da critiche mosce su Hachiko. È la vera storia di un cane Akita, vissuto in Giappone negli anni Venti e diventato amatissima icona nel suo paese. Era un cucciolo di due mesi che vagava nella stazione di Shibuya. Un professore del Dipartimento di agricoltura all’Università di Tokyo, che faceva il pendolare da quella stazione, prende in carica il trovatello. L’Akita è una razza molto rispettata in Giappone, e il professore s’adopera per ritrovarne i padroni: va al commissariato, mette avvisi dappertutto. Al canile informano il prof che se lo lascia lì, dovranno poi «liberarsene» dopo pochi giorni se nessuno lo reclama. A quel punto il professore lo porta a casa, e la moglie (Joan Allen) non è contenta. Hachiko (otto in giapponese, un numero fortunato) resta e con il nuovo padrone si forma un legame solidale. Il cane lo accompagna la mattina alla stazione, e all’ora del suo rientro lo va a prendere. Moglie e figlia, prima un po’ gelose, alla fine lo accettano come parte della famiglia. Durante una lezione il professore muore d’infarto. Hachi (così lo chiamano) lo aspetta come sempre, ma lui non arriva. I venditori ambulanti nei dintorni della stazione cercano di spiegargli che il padrone non torna più. Hachi è portato in una città vicina dalla figlia del professore, ma riesce a convincerla che deve lasciarlo tornare a Shibuya. Per dieci anni, pioggia o vento, caldo o gelo, sereno o tempesta, Hachi è alla stazione all’ora deputata, senza mai perdere la fiducia che un giorno il suo amato salvatore uscirà come sempre dalla stazione per essere scortato a casa.

F

Toccati dalla sua dedizione, diversi cittadini gli portano tutti i giorni da bere e da mangiare. Dopo anni di paziente e vigile attesa, Hachi esala l’ultimo respiro, e tutta la città si commuove. In sua memoria, è stata eretta una statua di bronzo proprio dove stava di vedetta. Sono stati scritti libri su Hachiko, e questo è il rifacimento americano di un film giapponese del 1987, con Richard Gere nel ruolo del professore. È un film semplice, delicato e profondo. Nota bene: i due erano stati insieme per appena un anno, ma il cane ha aspettato il suo padrone per il resto della sua vita, dieci anni. Non si tratta di un’abitudine canina coatta o pavloviana, ma di un amore troppo oceanico per non essere onorato finché l’innamorato ha fiato nei polmoni. La catarsi, che fa nuovo il mondo, è garantita. Amelia è un film biografico sulla vita della prima donna che ha trasvolato l’Atlantico in solitaria, Amelia Earhart. Era dal 1927, quando Charles Lindbergh era stato il primo aviatore a

Adatto all’atmosfera festiva il commovente film sulla storia vera del cane che per dieci anni ha atteso il suo padrone. E anche la vicenda della prima donna che ha trasvolato l’Atlantico in solitaria è ben raccontata da Mira Nair. Poi c’è “Brothers”... compiere lo storico viaggio, che gli impresari cercavano una donna per ripetere l’exploit redditizio. «Il successo in America - dice l’anchorman David Frost nel film Frost/Nixon - non ha paragoni al mondo». Celebrità, adorazione della folla, libri autobiografici, sponsorizzazioni, servizi fotografici, interviste a catena, conferenze, spot pubblicitari, festeggiamenti, adulazione, inviti a conoscere e frequentare potenti, politici e altre star di prima grandezza mancano molto quando scompaiono. Si fanno tanti soldi e si hanno infinite opportunità. Amelia era una

ragazza del Kansas di famiglia agiata da parte di madre. Il padre era un alcolizzato d’alterne fortune che lei ha amato disperatamente, e che l’ha sempre delusa. Ma è lui che la porta a un raduno dove per pochi dollari lei fa la sua prima esperienza di volo, e trova il suo destino. Il brizzolato editore George Putnam era alla ricerca di un’aviatrice da lanciare (aveva lucrato parecchio con l’autobiografia di Lindbergh) e appena ha conosciuto la Earhart, ha capito d’aver trovato una nuova star. Era giovane, con una bellezza androgina alla Katherine Hepburn, molto,

molto ambiziosa e con una tale somiglianza fisica al pilota più famoso del mondo, da sembrare sua sorella e meritarsi il soprannome «Lady Lindy». La regista Mira Nair (Monsoon Wedding, Vanity Fair, Salaam, Bombay) ha girato un film divocentrico all’antica: esalta la protagonista (Hillary Swank) come le stelle di una volta. Abiti meravigliosi che ogni femmina vorrebbe avere, una pettinatura alla garçon, innocente e maliziosa insieme, ambientazioni d’epoca lussuose, circondano di glamour Swank-Earhart e fanno sognare. La sceneggiatura si concentra sull’ascesa di Earhart in mano a Putnam, tralasciando infanzia, formazione e alcuni dettagli scomodi. Si vedono un po’ troppe volte le pose eroico-sexy dell’aviatrice sull’ala di un aereo, o sdraiata in elegantissime e sensuali mises mentre studia mappe o perora la causa della sua prossima avventura aerea: la prima donna ad attraversare il continente americano senza soste, a volare sul Pacifico tra le Hawaii e la California, c’è sempre un nuovo primato da raggiungere. Nella storia d’amore con Putnam, che finisce con un matrimonio dopo vari rifiuti di lei, si tralascia che lui era sposato, e che ha divorziato per impalmarsi Amelia. Si è preferito mettere l’accento sul piglio femminista con cui l’efebica rossa respinge la monogamia e cancella la parola «obbedire» dal rito nuziale.

Richard Gere è un Putnam perfetto. L’attore con l’età diventa sempre più bravo e aumenta il suo fascino da matinée idol all’antica. Non c’è gara tra lui e Ewan McGregor, che è Gene Vidal (papà di Gore) l’altra punta del triangolo amoroso. È un attore bravo ma freddo, con poco sex appeal. Siamo felici quando Amelia decide di restare con il marito. I biopic sono notoriamente difficili da far bene, e i registi tendono a evitarli; noi siamo tifosi del genere. Il film finisce con un’impresa fallita - il giro del mondo con il navigatore Fred Noonan - che ha portato alla morte in volo la nemmeno quarantenne celebrità, consacrandone la leggenda. Si sentiranno critiche d’inadeguatezze, ma Nair ha fatto un movie-movie che sarebbe piaciuto a George Cukor, un regista che sapeva divinizzare un’attrice come pochi. Amelia dà molte soddisfazioni e ci si può portare la famiglia. Brothers parla di due fratelli contrapposti: Sam (Tobey Maguire) è un bravo padre e marito, ufficiale dei Marines, in partenza per un teatro di guerra per la quarta volta. Tommy (Jake Gyllenhaal) è uno scavezzacollo appena uscito di prigione: è affascinante e inconcludente, simpatico e inaffidabile. Sam precipita con l’elicottero in Afghanistan ed è dato per morto. Dopo il funerale, Tommy si ravvede e diventa un bravo cognato per la giovane vedova (Natalie Portman) e zio affettuoso per le nipotine. Ma Sam, finito in mano ai talebani, è costretto a subire un’indicibile tortura; quando rientra a casa, lo stress post-traumatico rischia di travolgere la famiglia. Le due scene su cui ruota il film - la tortura e una clamorosa bugia di una delle bimbe - suonano false e pretestuose, ma c’è ritmo e coinvolgimento. Jim Sheridan (Il mio piede sinistro, In nome del padre) dirige bene e gli attori sono perfetti. Buona visione e buon anno.


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poesia

Lo scrigno magico dell’eternità di Roberto Mussapi

Ode su un’urna greca è una delle più famose poesie non solo di John Keats, ma di tutta la letteratura d’Occidente, per la sua domanda assoluta a un magico reperto del mito, e specificamente di quella parte del mito che fu e rimase la Grecia. Ci soffermeremo sulla natura di quest’urna, che comunque ha un valore simbolico generale: l’urna custodisce qualcosa che non può essere perduto, qualcosa di prezioso che va difeso dal trascorrere del tempo. È uno scrigno, che non contiene però necessariamente tesori considerati tali per il valore economico, ma per quello spirituale: le ceneri, per fare un esempio semplice e immediatamente comprensibile. L’urna in generale custodisce, con qualcosa, il suo segreto: è chiusa, buia, ermetica, può parlare solo a chi con amore la sappia aprire. In questo caso è immaginata istoriata, in marmo, o forse su ceramica. Ma certo è una scatola magica e di pitente significato rituale. Per estensione è un’urna il cuore dell’uomo che ama, o che ricorda e custodisce nella memoria, e qui, nella famosa ode di Keats, il segreto custodito dall’urna pare adombrato, in qualche modo anticipato, come in un enigma, dal suo esterno, dalle immagini sulle sue pareti. L’ode inizia con la descrizione dell’immagine scolpita sulla pietra, o immortalata nella ceramica di un vaso: una scena preliminare a un rito, e arcadica nello stesso tempo. Uno scenario naturale, popolato di persone e animali, e nella sua apparente confusione (la confusione della vita nel suo accadere) in qualche modo misteriosamente agitato da una strana energia o presenza divina. Come strana, inquietante nella sua olimpica distanza, l’arte della Grecia classica, intatta da affettività umane.

L’

(…) Chi sono questi che vanno al sacrificio? A quale verde altare, oscuro sacerdote, conduci la vitella muggente al cielo coi fianchi lisci e segosi inghirlandati? Quale paese sul fiume o in riva al mare o ben protetto nella sua rocca di montagna si è svuotato di loro in questo sacro mattino? Le tue strade saranno eternamente mute, e nessuno mai ritornerà a dire perché sei stato abbandonato. Forma attica, elegante disposizione di uomini e ragazze ricamati nel marmo, calpestata dall’erba e dal fogliame, tu forma silenziosa ci sgomenti, come l’eternità, tu fredda Pastorale. Quando questa generazione sarà dissolta nel tempo tu resterai nel cuore di altri pianti e amica ancora all’uomo gli dirai «Bellezza è verità, verità è bellezza», che è tutto quanto sappiamo e dobbiamo sapere, sulla terra. John Keats (Da Ode su un’urna greca Traduzione di Roberto Mussapi)

Una ragazza, «narratrice boschiva» come se parlasse dal reperto, da allora e per sempre, uomini che paiono dèi o dei dal volto umano, ragazze, flauti, cembali, la musica rituale, inebriante, orgiastica, che si fa udire nel silenzio dalla lontananza del tempo. E qui l’intuizione lampeggiante di Keats, il giovane grande poeta romantico precocemente morto di tisi, in Piazza di Spagna, a Roma, dove si era recato sperando di guarire i polmoni con il clima gentile: quelle musiche sono infinitamente più dolci perché a me, ora, inudibili, e la musica più bella è quella silenziosa, eterna come le alte sfere, così il canto del giovane istoriato non può avere mai fine, perché le sue labbra si sono avvicinate a un millimetro da quelle della ragazza amata: il bacio non espresso, non concluso, dura eternamente. E così i rami, di quella vicenda istoriata, che scolpiti o incisi nel marmo non potranno mai perdere le foglie e dire addio alla primavera, e così non avrà fine l’ebbrezza del suonatore… E poi ecco i bovini condotti al sacrificio, siamo prossimi alla loro uccisione, al compimento, ma la mano dell’artista ha fermato tutto un attimo prima, un istante prima che l’evento avesse luogo. E ora, nei versi che qui leggete, l’esaltazione di quella forma che sopravviverà alla ge-

nerazione del poeta che la contempla come è sopravvissuta a tante, a partire da quella dell’artista che la concepì e realizzò. Fino al crescendo con cui l’ode, più che finire, inizia un’altra storia: quel grido gioioso e disperato, «verità è bellezza», così attuale anche ora, ad appena un mese dall’invito felice coraggioso del Pontefice agli artisti in nome della bellezza, manifestazione e prova del divino. A quale verità si riferisce John Keats? Credo a quella del perdurare, smentita dalla cronaca: l’esperienza terrena ci insegna che tutto muore, e da un certo punto di vista insegna il vero. Ma l’arte, in questo caso l’urna greca, indica una realtà evidente anche se non carnale che, grazie alla forma e alla bellezza, svela il segreto della sopravvivenza del tutto, il meraviglioso e inquietante paradosso dell’eternità. John Keats, che diceva di vivere con sulla spalla Shakespeare, ne riprende l’assunto tragico fondamentale pronunciato sugli spalti di Elsionore, all’inizio brumoso e gelido dell’Amleto: Stay, illusion, fermati, apparizione, grida il giovane al fantasma che dirà il vero e che sta dileguando.

Fermare l’apparizione, farla eterna nel suo manifestarsi. Ma non sarà possibile, nel tempo quotidiano. Come sa chi conosce l’Amleto, sarà un’altra apparizione magica a confermare le parole dello spettro, la verità sul regno di Danimarca e del mondo: la recita a corte degli attori. Il vero è detto da un spettro e confermato da uno spettacolo. Come, qui, da una storia scolpita nella pietra per resistere al tempo, e testimoniare le vicende che avvennero nel tempo e in esso si dissolsero. Il tema rovente dell’Ode è quindi il tempo, che è quello attorno a cui tutto ruota: il permanere o il divenire, la caducità della vita o la sopravvivenza eterna. Ma a partire da un reperto della civiltà greca, che più di ogni altra soffrì tristezza per una concezione del tempo che non lasciava speranza, se non nella memoria e nell’opera d’arte, uniche forme di possibile sopravvivenza. Concezione ripresa da Ugo Foscolo nei Sepolcri, ma superata in nome di una superiore fratellanza, grazie alla quale la vita si trasmette oltre i propri stessi limiti. È probabile che quest’urna, come oggetto mitico, sia un’invenzione di Keats, che assomma scene viste su un vaso e un’altra sui fregi del Partendone, creando dalla sintesi l’urna, lo scrigno magico dell’eternità, il segreto dell’oltretempo. Che è il sogno, da tempo indebolito nella sua vitalità antropologica, nella sua sorgiva realtà, del Capodanno: protrarre il tempo oltre se stesso. Forse Capodanno è la festa di quel brivido, per questo è quasi sempre deludente, per l’eccessiva aspettativa. Spesso si vuole strafare, si vuole tirare troppo tardi, prolungare il confine della mezzanotte, che significa doppiare la linea del tempo stabilito. Sono inconsapevoli segni di insofferenza al trascorrere del tempo, sogni di fuga dalla sua legge. Credo risalenti all’infanzia dell’uomo. John Keats indica un’altra via, un enigma nascosto nelle pieghe stesse del tempo.


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il club di calliope

UN POPOLO DI POETI ... Il vestito di un uomo, ... e la sua andatura rivelano quello che è... Siracide, 19, 27

Qui ti abitai. Qui ti generai. Ed è per questo che vivo urlando Sull’orlo di marciapiedi Coperti d’acqua e fracassi di lamiera. È dal tempo che quella mano ti squarciò la curva delle gambe che la mia pelle si disfa nella verticale e la mia schiena oscilla e tintinna la tua come due chiglie che si sfiorano. Ho messo l’ancora sopra l’orizzonte Quando il giorno era coperto dai fulmini. Non sono qui per restare. Aspetto che lo scoglio si apra al mare E la mattina che mi coprirà di blu la testa Sognando di farmi sole e pane fragrante Ti regalerò la mia mano fatta di incenso E ti prenderò, sì ti prenderò, per portarti dove l’acqua sfama la posidonia e lascerò buia la terra come le persiane che si toccano la sera e nell’ingenerato che fa fiorire i capelli pronunceremo bolle di speranza e nessun filo legherà i nostri cuori. Come piombo partoriremo oro nei petali di un geranio cobalto.

In una catena una rondella anche se appena incurvata non rientra più né nel suo loco né in un altro. Cade. Dapprima ondeggia, è una preziosa monetina, poi ferma, incollata al suolo sembrerebbe chiedere: «Ecuba, che ne sarà di me?». Passando una scopa ed una paletta la raccoglieranno e la riporranno in un cesto tra rondelle con altre originali menomazioni fisiche. Queste non si uniranno mai in una catena. Vincenzo Galvagno

Quando l’amore finisce per asciugarsi e tacciono i fulmini autunnali, resta, io dico, una donna che esamina scrupolosa i foglietti illustrativi di ogni nuovo farmaco che l’uomo che ha al suo fianco acquista per propria salute. È l’unico modo che adesso lei conosca per dirgli ti amo e non arrossire. Antonio Lanza «Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma

Michele Montorfano

otto anni di distanza da Sovraimpressioni esce per Mondadori una nuova raccolta di Andrea Zanzotto: Conglomerati (201 pagine, 14,00 euro). Nelle sette sezioni del volume si sviluppa uno stile dettato dal flusso di coscienza del poeta, con pause tra depressioni e ironie, amore per luoghi e panorami, dramma per la crisi del presente, attenzione alla materia terrestre e ansia di sublime. I temi della natura e l’ammirazione del paesaggio, il paese d’origine come «esile mito» (Sereni) dell’infanzia sono tipici di Zanzotto, ma l’esplorazione del paesaggio fisico della propria terra è anche un’esplorazione umana, segnata dal trascorrere delle epoche, da un’Arcadia perduta sino all’abbandono del presente, che «è crollo disarticolazione», «strappo di colori e forme del nulla», come si legge nei versi della prima poesia di Fu Marghera (?). Il linguaggio utilizza l’italiano tradizionale con il mai dimenticato «vecio parlar» della sua riva del Piave, filtrando citazioni dalle campagne di marketing, dalle canzoni pop e dai fumetti. E a volte inse-

A

ANDREA ZANZOTTO TRA APOCALISSI E ARCADIA in libreria

di Giovanni Piccioni risce liricamente persino i balbettii del prelinguaggio infantile, il petèl. Un’operazione di chi ha il gusto della sperimentazione, senza tuttavia cadere nel decorativismo delle avanguardie. Nell’apocalissi del presente, nella catastrofe climatica e ambientale prodotta dalla globalizzazione restano luoghi che ancora susci-

Farrò, Dolle, Mondragon, Grave, Zuel, Solighetto e così via. Senza ombra di localismo si costruisce un universo psichico e mentale italiano e non solo italiano. Il contrasto tra apocalissi e Arcadia costituisce il momento che più accende la forza espressiva del poeta: «Mentre tanfo e grandine e cumuli di guerra/ Mentre tut-

“Conglomerati”: nella nuova raccolta del poeta veneto, “i luoghi dove le Muse si danno convegno per mantenere l’eco di un’armonia...” tano poesia, presenze di un passato che persiste, caste bellezze di campagna, fedeltà all’autenticità del vissuto. I luoghi nominati sono tutti nei pressi di Pieve di Soligo, paese dove Zanzotto è nato nel 1921 e quasi sempre vissuto, ed evocano una vita spesa a «scavare nel linguaggio e nel paesaggio come una talpa», secondo una definizione di Eugenio Montale: ecco Ligonàs, Rio Fu, Crode del Padré,

to trema nel delirio del clima/ e la brama di uccidere inventa inventa/ Rari sono i luoghi in cui resistere,/ luoghi dove le Muse si danno convegno/ per mantenere l’eco di un’armonia/ per ricordarci ancora che esiste il sublime/ per riesaltare gli antichi splendori ed accogliere nuove vie di Beltà/ Raro pur sempre e sepolto nelle selve d’ombra di armi totali/ un Luogo: e ora rinasce e tenta di difenderci dall’ira

del cosmo». Ma qual è, in questo nostro tempo, il senso della poesia per Zanzotto? In una conversazione con Marzio Breda del febbraio di quest’anno (In questo progresso scorsoio, Garzanti, 127 pagine, 13,00 euro), rispondendo a una domanda sul rapporto tra ispirazione poetica e ascesi religiosa, il poeta sostiene che si tratta di cose diverse. La poesia «nasce da un atto d’amore verso la realtà, anche se è una realtà brutta, altrimenti non emergerebbe mai, un atto d’amore verso la bellezza e la bontà». In La Beltà aveva scritto: «Mondo, sii, e buono;/ esisti buonamente…». In Conglomerati non mancano momenti di riflessione, versi sul fare versi, in cui, ad esempio, anche il male e la bruttura esistenziali possono essere scavati da quell’atto d’amore: «Ma nelle immondizie/ troverò tracce del sublime/ buone per tutte le rime». E la poesia è comunque il dono più alto «…tirare la rete dal più blasfemo scrivere/ forse dal più vanto, più eternità, tra tutti i doni». È, direi, la sostanza della nostra stessa persona: «io, fatto parole, dissolto in parole fuggitive (o abortive)».


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mostre

Scatizzi e Sartelli

he brutta impressione, cercare su internet un’immagine di un pittore amato, e scoprire che è scomparso in questi giorni, nel quasi silenzio della stampa, salvo che in quella locale, fiorentina. Mentre la stampa nazionale, che dedica pur paginoni e paginoni a un ruttino di Bonolis, a una patetica esibizione nulla di Allevi o a qualsiasi sciocchezza mercantile del presunto sotto-artistume contemporaneo, non s’è accorta di nulla e ha trascinato tutto nel silenzio. Peccato, perché il fiorentino di adozione Scatizzi era un vero pittore, che se ne impipava di tutto il resto e si poteva permettere il lusso di fregarsene regalmente del glamour galleristico attuale e pure delle moine critiche, anche se pare avesse un fiorente commercio cittadino, che gli concedeva poi d’essere un raffinato cultore di pittura antica e raro collezionista di pittura secentesca toscana (quella stessa che attraeva il poeta Bigongiari e il critico Baldacci). E che giustamente quest’accesa retrospettiva di Pitti, che per fortuna egli ha ancora tenuto a battesimo e che ha galvanizzato i suoi ultimi giorni di vita, presenta nell’ultima sala con alcuni gioielli, allo spegnersi dei suoi incendiati exploits di puro colore. Con sontuose e concitate tele, per esempio di un non troppo frequentato ma interessantissimo Alessandro Rosi (magnifico il suo Sacrificio di Isacco) di Bilivert o di Fidani, di Cecco Bravo o di Ficherelli. Sempre opere contorte, turbate, melodrammatiche e contrite, accese di bagliori e di acrobatiche contorsioni anatomiche. Sbaglierebbe, infatti, chi non vedesse il segreto legame di questa pittura riformata e magniloquente, con la sua forza basale, incisiva e spavalda, con quel linguaggio libero e spatolato della sua pittura materica, che non avrebbe senso definire «soltanto» informale: e infatti, coerentemente, la mostra si intitola al suo Barocco Informale. Certo, nelle sue antiche incursioni parigine, questo pupillo di Rosai (che gli chiedeva di non lasciare la Firenze delle Giubbe Rosse, per tradirlo con il «parigino» De Pisis) ha visto e si è nutrito molto delle spatolate infingarde e decise d’un Soulages o di Riopelle, ma ricordandosi spesso di Soutine e di tutta quella stagione «fauve», che aveva frequentato. Conoscendo personalmente Vlaminck, come poi Colette, Cocteau, Genet, di cui parlava volentieri e con viva brillantezza (ma era anche impregnato della Firenze di Berenson e di Longhi, di Montale e di Bo, di Tobino e del poeta-critico Parrocchi, come dello squisito antiquario Bruzzichelli). Ed è incredibile la vitalità, che superati i no-

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arti

vant’anni, immetteva ancora in questi paesaggi che si bevevano freneticamente il cielo, che masticavano i rossi e i blu del paesaggio toscano, lui di origine lucchese, quasi fossero dei ciancicati sigari toscani, e poi i «ritrattacci» degli amici, e quelle nature morte sontuose di grigi, che parevano dei Morandi spadaccini e perentori, gladiatori, anzi. La firma come una coltellata armonica e gentile. E i mazzi di fiori, dai petali pesanti di sonno. Del suo maestro-mentore, Rosai, mai scordato, diceva: «brucia la visione». Ma anche lui arroventava i suoi cieli di rabbia felice. Incendiava la materia, abitato da una febbre dionisiaca, che lo trasformava anche in poeta. E così, lo ha spesso ricordato il suo amico esegeta Raffaele Monti (ma aveva avuto anche il placet di Ragghianti e d’altri critici esigenti), il suo orizzonte si solleva sempre più, cancellando il conforto illusorio del cielo, lasciando levitare la terra, ingolfando di luce terrestre ogni millimetro di respiro celeste. Ci piace chiudere l’anno di questa rubrica, salutando la vivacità indomita d’un artista autentico, che getta nel ludibrio i finti sforzi mercantili di tanti ridicoli giovani anemici, di cervello e di risultati. Ed è buona anche, l’occasione, per ricordare la giovanilissima verve combattiva d’un altro grande vecchio («soltanto» del 1925, lui) un ennesimo e valente eccentrico isolato, se vogliamo, della grande arte segreta italiana. Germano Sartelli, nato a Imola e che a Imola ha insegnato terapia artistica, se così vogliam dire, nel locale ospedale psichiatrico. Vicino all’art brut padana, d’un Ghizzardi e di Ligabue, o di uno Zavattini. Ma in lui non c’è fantasma di figura o ricorso a un bestiario visionario. Lui è sempre stato un grandioso raccoglitore di emozioni oggettistiche, un domatore di scarti randagi e un piegatore della fittizia «natura» dell’artificiale umano: ferri vecchi, chiodi, reperti dell’ormai-inutile, ma riscattato, dal suo fiuto estetico, ricostruttivo. O vetri che esplodono, come in una verde eiaculazione intrattenibile di champagne vetrificato. In queste ultimissime opere, ecco la zampata felice del non- rassegnato, che trasforma i pennelli in graffi, la pennellata in un’estrema unghiata, che s’appende alla visione e come un felino festoso ferisce e nobilita le sue tipiche carte assorbenti, che hanno una loro storia da cantare e che piangono lente la bellezza di un’arte spezzata.

omaggio a due Maestri di Marco Vallora

Sergio Scatizzi, Barocco Informale, Firenze, Palazzo Pitti, fino al 20 gennaio; Germano Sartelli, Bologna, Galleria de’Foscherari, sino al 20 gennaio

autostorie

Quando i servizi segreti si occupavano di corse di Paolo Malagodi rotagonista sin dal suo apparire di non pochi intrecci letterari di grande richiamo, dall’esplodere della crisi petrolifera di inizio anni Settanta, l’automobile ha perso progressivamente peso nelle pagine degli scrittori italiani. Parimenti, nell’ultima parte del secolo scorso, le tensioni legate a un traffico sempre più caotico hanno trasferito non pochi sensi di frustrazione all’obbligato utilizzo delle quattroruote. Merito della vena di Alessandro Baricco è stato, poi, quello di restituire - con un libro edito nel 2005 (Questa storia, edizioni Fandango, 288 pagine, 15,00 euro) - all’automobile il fascino di una sequenza di eventi che, dai primi del Novecento, accompagna per decenni il sogno di percorrere ad altissima velocità

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quella che il protagonista della vicenda chiama la «curva perfetta». Permettendo così al mondo delle corse di recuperare una dimensione letteraria, in cui talvolta capita oggi di imbattersi. Come avviene, ad esempio, con il primo romanzo del giornalista Luca Dal Monte, già preposto alle relazioni esterne della Ferrari negli Stati Uniti e ora responsabile centrale della comunicazione per la Maserati. In un lavoro (La Scuderia, Baldini Castoldi Dalai editore, 272 pagine, 18,00 euro) che sin dalla copertina rimanda alle vicende agonistiche degli anni Trenta, con un’Alfa Romeo distinta dal simbolo del Cavallino Rampante e inseguita da un’argentea Auto union, alla quale fanno da sfondo i vessilli con croce uncinata del Terzo Reich. Il cui fondatore è direttamente impegnato nel promuovere la superiorità dell’industria automobilistica tede-

sca, con il sostegno statale alla produzione su larghissima scala di una «macchina per il popolo», disegnata da Ferdinand Porsche e coinvolgendo lo stesso progettista nello sviluppo di un rivoluzionario motore a 16 cilindri. Da collocare al posteriore di una Auto Union da gran premio e con la possibilità di avere, insieme a Mercedes, una seconda squadra tedesca in grado di opporsi efficacemente alla superiorità allora dimostrata dalle italiane Alfa Romeo; gestite sui campi di gara da Enzo Ferrari, in una scuderia nata nel 1929 per assistere le auto della clientela privata. Ma con il successivo uso di vetture ufficiali della casa milanese, in un sodalizio durato sino al 1938 e con le Alfa spesso capaci di precedere Mercedes e Auto Union, vanto del regime tedesco. Tanto da suggerire a Luca Dal Monte una fantastica trama, legata al presup-

posto che «a metà degli anni Trenta, le corse automobilistiche appassionavano milioni di spettatori in tutta Europa. Il pubblico era affascinato dalla potenza dei mezzi e dal coraggio dei piloti, che erano gli sportivi più popolari. Le loro vittorie catalizzavano l’attenzione di un pubblico enorme, ma in ballo c’era anche l’orgoglio nazionale». Al punto da indurre i servizi segreti del Reich a sabotare, con il concorso di donne belle e fatali, le vetture della Scuderia Ferrari e in particolare quella di Tazio Nuvolari. Che nel 1936, come si narra nel finale del romanzo, a 44 anni e all’apice della popolarità trionferà sul circuito livornese dell’Ardenza, nonostante i freni manomessi e dopo un’incredibile gara commentata dall’asso mantovano con la serafica frase: «È stato tutto molto semplice. Perché, vedete, per andare veloce... i freni non servono».


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31 dicembre 2009 • pagina 15

architettura

Erik Bryggman: la tradizione è del futuro di Guglielmo Bilancioni

utta la Finlandia è di granito, un mitico durissimo scisto. Là dove pioggia, vento e neve gelata fanno il loro lavoro, occorre dotarsi di un rifugio dalla tempesta: edificare è necessario, e l’architettura deve unire bellezza e necessità. L’opera di Erik Bryggman (1891-1955) è ispirata da un freddo Pan, una tranquilla passione, che mostra come valori supremi severità, sobrietà, rinuncia contenuta e controllo del sentimento. E sa trasformare così gli alberi della foresta in lucenti levigate colonne. «Noi siamo tuona Nietzsche iperborei nell’Anticristo - sappiamo abbastanza bene di vivere in disparte». Oltre il Settentrione. «Formula della nostra felicità? Un sì, un no, una linea retta, una meta». Nella monografia di Silvia Micheli, edita da Gangemi, Erik Bryggman è un uomo solo, introverso, contemplativo, calmo, trattenuto nel manifestare le proprie emozioni; in una parola è un uomo elegante, un architetto che lascia il tavolo di lavoro solo per viaggi di studio in Europa, ed è capace di pervenire a una «umanità cristallizzata: qualsiasi cosa toccasse diventava viva». Classico, non neo-classico, è il suo funzionalismo animato: potente, persino monumentale, nell’omettere. «Il metodo non è l’antitesi dell’arte non ne è il nemico, ma ne è il prerequisito» aveva

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archeologia

scritto Aalto, che aveva un carattere diverso da quello di Bryggman ma idee affini. La ripetizione ritmica controllata è la qualità dei Laboratori Kemikum, qualità che il maestro sa variare in esili colonne binate o in scale di magnifica proporzione. Nella cappella funeraria di Parainen del 1929 Bryggman agisce sull’archetipo della casa bianca: nella assoluta unità tetto-parete vive il «quasi-nulla» della cosa in sé. Per il padiglione di Finlandia all’Expo di Anversa del 1930 un compensato di betulla, dalla texture sensibile, è disposto in severa orizzontalità razionale; l’idea originaria è la kyly, la sauna. Hitchcock afferma che, per questa opera, Brygmann fosse all’epoca più conosciuto nel mondo di Aalto. Il disegno per il monumento a Colombo evoca la lungimiranza geografica, nell’estetica nautica di una tolda altissima. Ma il capolavoro di Bryggman è la Cappella della Resurrezione, «opera sintetica», scrive Silvia Micheli. «La foresta è la mia chiesa»: si coglie in un istante il nesso fra natura, mistica e architettura. In quest’opera la luce è ma-

gicamente orchestrata in una retorica laconica che agisce nel criptico silenzio metafisico che sa evocare. «Il funzionalismo porterà al rifiuto della tradizione?» si domanda Bryggman. «Superficialmente potrebbe sembrare così. Ma la tradizione può e deve significare l’ampliamento del

nostro patrimonio culturale e non un timoroso attaccamento alle forme del passato». La tradizione è, sempre, tradizione del futuro. Una costellazione di architetti moderni nella quale possa brillare la stella di Bryggman comprende di certo Asplund, Scharoun, Häring, e Schindler, le curvature tese di Oud, il radicale rigore di Mart Stam. E la metafisica di Tessenow, come dimostra l’ultimo disegno pubblicato nel libro. Le colonne di Turku nascono, in un mondo streamlined e dissonante, da Tapio, l’aggraziato dio dei boschi del Kalevala, in una terra forte che sa estrarre «miele dalle nubi», sa forgiare il bronzo e che è capace di salvare l’estrema gioia, la gioia domestica: un «vestibolo lucente/ sotto il trave rinomato/ sotto il tetto celebrato», preserva l’umanità dal vento e dalle acque. Questa la grazia dell’architettura: consistenti convenzioni e alta Utilità. Silvia Micheli, Erik Bryggman 1891-1955. Architettura moderna in Finlandia, Gangemi, 176 pagine, 20,00 euro

Tra i templi di Nikko, capitale del primo Shogun di Rossella Fabiani a sua biblioteca sacra contiene oltre 7mila testi antichi tra pergamene e rotoli buddisti, ma non è visitabile se non con permessi speciali. Questo tempio del sapere, da poco restaurato, si trova all’interno del grande mausoleo Tosho-gu, costruito in onore di Ieyasu Tokugawa, il primo Shogun, nella città di Nikko, a nord di Tokyo, che è un importante centro religioso dove si possono ammirare templi e santuari. La città di Nikko diventa centro religioso nell’VII secolo dopo Cristo, quando il sacerdote buddista Shodo vi fonda il primo eremo. Resta un centro buddista fino alla costruzione del mausoleo Tosho-gu, in onore del grande condottiero Ieyasu Tokugawa che diede inizio allo shogunato. Costruito nel 1634 e restaurato più volte in seguito, il Toshogu è l’edificio più importante tra i santuari della città giapponese. All’interno del Tosho-gu, si può ammirare una pagoda a cinque piani costruita nel 650 e successivamente restaurata nel 1818, un recinto murato che contiene santuari shintoisti e templi buddisti (i giapponesi sono ed erano molto tolleranti in fatto di religioni) meravigliosamente decorati con intagli multicolori all’esterno e, negli interni, con pitture di dragoni e poi la vera e propria tomba del-

L

lo shogun, arroccata sulle pendici di una montagna coperta di cedri e accessibile attraverso una porta di legno istoriato con una piccola statua di nemuri neko (gatto dormiente, bianco e nero). L’Omoto-mon è l’ingresso vero e proprio che si incontra dopo la pagoda ed è presidiato da statue dei re Deva. Dopo l’entrata si trovano i Sanjinko, ovvero 3 magazzini sacri, e la Shinkyusha, la stalla sacra. All’interno si può anche ammirare la torre del tamburo e della campana. Ovunque ci sono alberi e fonti sacre, bardati con le tipiche funicelle shintoiste che segnalano la natura di sede di uno spirito divino di un albero o di una fonte. In certi punti, nel silenzio del bosco (dagli alberi altissimi e imponenti), si sente il rumore dell’acqua sgorgante delle sorgenti sparse ovunque; i draghi abbondano nelle pitture, negli intagli in

legno e nelle statue in bronzo. Magiche le scalinate che si inerpicano sulle montagne. Tutto questo venne fatto per Tokugawa Ieyasu, il primo Shogun e senza dubbio uno dei personaggi più famosi della storia del Giappone. Agli inizi del XVI secolo il Giappone era diviso in una miriadi di clan ognuno dei quali governava su una fetta di territorio. Tokugawa riuscì a riunificare e a pacificare il Giappone e a porlo sotto l’autorità dello Shogun che di fatto rappresentava il supremo capo politico e militare del paese; la figura dell’Imperatore era più che altro simbolica e sarebbe stato così fino al XIX secolo.Tokugawa avviò una dinastia che avrebbe detenuto lo shogunato per 250 anni e che avrebbe segnato molto profondamente la cultura, la società e la storia del paese del Sol Levante. Tra i fatti principali del suo regno, la persecuzione e l’espulsione dei cristiani dal Giappone, a favore del confucianesimo, e, in campo militare, l’assedio di Osaka in cui sconfisse le ultime resistenze del clan Toyotomi che si era rifugiato nel castello della città. Per gli stranieri, avere delle basi commerciali in Giappone divenne sempre più difficile e anche per gli stessi giapponesi diventò problematico uscire dal paese. I cristiani, per sfuggire alle persecuzioni, dovettero emigrare verso altri paesi come, per esempio, le Filippine. In breve, sotto il periodo Tokugawa, ci fu una chiusura del Giappone verso il mondo esterno che sarebbe terminato soltanto nel XIX secolo quando le pressioni esterne per aprire il Giappone al commercio internazionale divennero troppo forti per potervi resistere. (Per chi vuole saperne di più, si segnala il 5 gennaio su RaiUno in prima serata, per Speciale Superquark, una puntata tutta dedicata al primo Shogun).


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i misteri dell’universo

ei Magi, Sapienti venuti dall’Oriente, come si legge nella Bibbia interconfessionale, si parla solo nel Vangelo di Matteo, fra i quattro canonici. Seguendo una stella sarebbero arrivati a Gerusalemme, chiedendo dove era nato il bambino re dei Giudei. Erode, preoccupato, apprende dai suoi esperti che il luogo è Betlemme. Chiede ai Magi di ripassare da lui dopo avere incontrato il bambino. Ma questi se ne vanno per un’altra strada e lui scatenerà la strage degli innocenti. I Magi, raggiunto il luogo di Gesù infante, su cui si ferma la stella, portarono in dono oro, incenso e mirra. Assumendo che la storia sia vera - anche se il passo di Matteo solleva problemi, come quello che Betlemme, se era quella di oggi, è a soli sette chilometri dal centro di Gerusalemme, raggiungiubile a piedi in un’oretta, per non dire della identificazione della stella - è interessante chiedersi da dove arrivassero i Magi, chi fossero e perché portarono in dono oro, incenso e mirra. Sui Magi, alla luce delle interpretazioni tradizionali sino a quelle di Tucci e Bussagli, ha scritto su queste pagine un articolo ampio e istruttivo Franco Cardini il 3 gennaio 2009.

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Qui consideriamo un approccio nuovo, basato su ricerche di Mario Alinei e Kamal S. Salibi e su un documento ricco di informazioni anche su Giuseppe e Maria, ma poco considerato dagli studiosi. Si tratta di un vangelo apocrifo che chi scrive ritiene, con quello di Tommaso, il più importante; si può leggere nella traduzione di Luigi Moraldi, grande studioso dell’ebraismo da poco scomparso, per i tipi della Piemme (Vangeli,Tutti gli Apocrifi del Nuovo Testamento, 912 pagine, 19,90 euro). Fu scoperto nel 1948 in Egitto, a Nag Hammadi, in un’anfora contenente centinaia di papiri, quasi tutti con scritti sconosciuti, fra cui vangeli apocrifi e testi gnostici. Una delle più grandi scoperte di documenti perduti, come quella della stanza segreta nella sinagoga del Cairo, della nicchia murata nel tempio buddista di Dun Huang, e di Qumram (documenti su cui si è parlato più degli altri, anche se forse meno importanti). Tale vangelo sembra ignorato anche da Kamal Salibi, il maggiore studioso nel

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ai confini della realtà

I Re Magi? Erano magiari… di Emilio Spedicato mondo arabo, libanese cristiano, professore alla American University di Beirut, sebbene contenga conferme del suo scenario sulla geografia della vita di Cristo, che si sarebbe svolta principalmente non nella Galilea della Palestina, il Jalil, ma nella Valle di Galilea, il Wadi Jalil nell’Arabia settentrionale. In tale vangelo troviamo le seguenti informazioni sui Magi: - il viaggio fu lungo, durò un anno, e arrivarono nel secondo anno di vita di Gesù; - erano vestiti in un modo inusuale per il Medio Oriente, con calzoni.

gli Altai: terra di sciamani, dove ha forse le radici il sufismo, e dove vivevano popolazioni di pelle chiara (i tocari), giallastra (mongoli) e nera (i tibetani, che chiamano se stessi Bopas, ovvero teste nere, lo stesso nome che i Sumeri davano a se stessi). E terra dei Magiari, divisi in numerose tribù (in nove tribù entrarono verso il 900 in Transilvania), e che varie considerazioni indicano esperti nel lavorare i metalli, in particolare l’oro. Il loro nome può anche derivarsi dalle parole ungheresi (ovvero magiare) nagy, grande, (notando con il filologo Alinei

L’ipotesi è suggerita da un vangelo apocrifo che fornisce due preziose informazioni: che il loro viaggio durò un anno e che erano vestiti in un modo inusuale per il Medio Oriente, cioè con i calzoni. L’oro, l’incenso e la mirra spiegherebbero poi la loro abilità nell’arte orafa Il primo dato non si accorda bene con l’ipotesi che fossero sacerdoti zoroastriani della Persia, chiamati Magi. Dall’Iran, almeno dalla zona delle grandi città di Ecbatana e Persepoli, centri del potere dei Magi (e da Al Muqaddasi sappiamo che molti zoroastriani vi erano presenti trecento anni dopo l’arrivo dell’Islam), si raggiunge Gerusalemme in circa tre mesi. Un anno significa una distanza maggiore, sui 10.000 km. A tale distanza, esclusa una provenienza dall’Asia meridionale dove il calore non suggerisce l’uso di calzoni (e quindi escluderemmo l’ipotesi di Tucci e Bussaglia che fossero kushana, localizzati nell’attuale Pakistan e vicinanze), possiamo considerare la regione a nord del Tibet fra il Pamir e

che M e N nelle lingue ugro-finniche si scambiano facilmente) e arani, contratto in ari, parola che significa oro. Il fatto che i Magiari vivessero in tale zona è supportato da vari elementi. Qui notiamo che la loro migrazione verso l’attuale Ungheria e vicinanze fu limitata a parte delle tribù localizzate fra Pamir e Altai. I migranti andarono prima verso gli Urali, sotto controllo dei Kazari governati da ebrei, e poi verso la regione del Danubio e Tibisco, spopolata dopo che Carlo Magno ne aveva sterminato gli abitanti, gli Avari, che non vollero convertirsi al cristianesimo. E da Alinei ho saputo che i Magiari vi entrarono, vestendo calzoni, loro abito nazionale. E che dire di oro, incenso e mirra, tre sostanze su cui biblisti e padri della Chie-

sa di limitate conoscenze geograficometallurgiche hanno ricamato simboliche interpretazioni? Ebbene nelle tombe degli Etruschi si sono trovati gioielli tempestati di sferette d’oro attaccate alla lamina senza saldatura. Come? Una risposta sta nel libro, L’oro degli Etruschi, di Mario Pincherle, nipote del matematico Salvatore Pincherle e di Augusto Righi, lo scopritore con Calzecchi Onesti del coher (il cuore di un apparecchio ricetrasmittente; Marconi pagò il tecnico di laboratorio per procurarsene una copia). Pincherle ha notato che tali sferule si ottengono, come avveniva non molto fa per i pallini di piombo da caccia, fondendo l’oro e versandolo da una certa altezza in un contenitore di acqua (e osservando la loro superficie con il microscopio si vedono figure geometriche che cambiano ogni giorno e si ripetono dopo un anno).

Ora, fissate tali sferule sulla lamina con una colla di mirra, ricoprendole con cenere di incenso e cuocendo il gioiello in un forno, le sferule si uniscono perfettamente alla lamina. Una tecnica attribuibile agli Etruschi. E il cerchio si chiude osservando, con la tesi ampiamente sviluppata da Alinei, che la lingua etrusca è molto probabilmente magiaro antico. Gli etruschi arrivarono in Italia verso l’800 a.C. dall’Asia Minore. Qui erano forse arrivati, fuggendo la conquista degli Assiri di Nino e Semiramide, da Tharsis, in India, dove lavoravano l’oro di Ophir, proveniente dal sacro monte Kailas, venduto poi nel mondo dai Panis, i grandi navigatori indiani. Altro oro veniva certo portato a Nord e quello famoso degli Sciti era forse anch’esso in parte oro di Ofir…. Ora Gesù era figlio putativo di Giuseppe, discendente da Salomone. È probabile che la localizzazione di Tharsis fosse nota a Salomone che ne aveva importato oro a tonnellate. Fu una informazione trasmessa ai suoi discendenti, fino a Giuseppe, e da tenere segreta? E quindi Giuseppe, definito nel vangelo tecnon, parola tradotta con carpentiere da Messori, ma definito costruttore di edifici nel citato vangelo apocrifo, aveva forse conoscenze tecnologiche ad alto livello, ed era ben più che un modesto falegname…


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