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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

I film delle Feste

LA REDENZIONE IN 3D di Anselma Dell’Olio Christmas Carol (Canto di Natale) di Charles Dickens è del 1843; i bamdi regali, i pranzi conviviali, il misantropo brontolone ritiene essere tutte pure mistibini inglesi e americani lo conoscono a memoria. Non esiste dicemficazioni, riti fasulli, fandonie, un inutile e deprecabile spreco di tempo (lavorabre che maestri, genitori e bambini non rileggano ad alta voce il tivo) e di denaro. Fred Scrooge (Colin Firth), il nipote di Ebenezer e il suo Jim Carrey, più celebre racconto natalizio in lingua inglese. Il regista parente più prossimo, figlio dell’amata sorella Fan (Robin Wright irriconoscibile, Robert Zemeckis ha preso la redde rationem del tirchio al cuPenn) lo invita a cena per la vigilia, ma lo zio lo respinge con è Scrooge nel film di Zemeckis bo Ebenezer Scrooge (in inglese Scrooge è l’avaro - con il sdegno villano. È persino scocciato di dover concedere qualche ora di libertà al suo scrivano Bob Cratchit denaro e con i sentimenti - per antonomasia) e con ispirato alla più celebre favola natalizia (Gary Oldman) per godersi la vigilia in famiglia. la tecnica digitale performance capture trasforin lingua inglese. Poi ci sono “La principessa Un uomo buono e tollerante, l’impiegato lavora in ma attori veri in personaggi d’epoca in 3D, quella e il ranocchio”, il suggestivo “Canto un cantuccio freddo e mal illuminato dell’ufficio di che richiede occhiali speciali. In questo modo ha creaScrooge; con il suo stipendio da fame riesce a malapena a to figure molto somiglianti a incisioni inglesi ottocentesche delle spose” e “Welcome”, un bel i suoi tanti figli, tra cui un bimbo handicappato bisognofantasmagoriche, talmente diverse da quelle originali da essere film sull’immigrazione se di sfamare cure,Tiny Tim, ma non perde mai il buonumore. irriconoscibili. Jim Carrey è Scrooge, ma è impossibile scorgerlo nell’anziano scheletrico che liquida ogni sentimento festoso e fraterno esclacontinua a pagina 2 mando «Bah, scempiaggine!». Gli auguri, le visite tra amici e parenti, lo scambio

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Natale di Rino Fisichella Con La Capria e Stendhal alla Minerva di Leone Piccioni

NELLE PAGINE DI POESIA

Vittoria Colonna l'ispirazione che viene dalla Fede di Francesco Napoli

La nascita di Gesù nei quattro vangeli di Sergio Valzania Vi racconto il “mio” Dickens di Roberto Mussapi

AUGURI E ARRIVEDERCI AL 31 Sabato prossimo, 26 dicembre, giorno di Santo Stefano, liberal come tutti i quotidiani non sarà in edicola. L'appuntamento con i lettori di Mobydick è per giovedì 31 dicembre. A tutti, i nostri calorosi auguri di Buon Natale.


la redenzione in

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segue dalla prima

Myriam osserva con occhi sognanti e un po’invidiosi.Il fidanzamento è a rischio perché Khaled non trova lavoro, senza il quale non ci saranno nozze. Nel frattempo le famiglie ebree devono pagare una multa molto salata, e Tita riesce a combinare un matrimonio con un medico non più giovane e molto agiato per la figlia assai recalcitrante. È una storia che esalta una cultura femminile avvolgente, senza mai dimenticare che il corpo delle donne era (è) sempre proprietà maschile. Nel film si scopre cosa significa preparare «all’orientale» una donna per le nozze; un rito doloroso, antico e barbarico, che rende la sposa più somigliante possibile a una bambina: glabra,malleabile,indifesa. L’amicizia delle due ragazze è seriamente straziata dalle divisioni politiche. Gli arabi e i nazisti, com’è noto, avevano confidenza e affinità; il desiderio di sopravvivenza araba e la demagogia antisemita nazista fanno il resto. È una storia delicata e forte, con riti, usi e costumi che arricchiscono l’affresco di un mondo pieno di fascino e d’intimità femminile inter-etnica, oggi scomparso. Molto godibile.

Quella sera davanti al suo camino, il vecchio egoista riceve la visita spettrale di Marley, il socio solo un filo meno misantropo di lui, morto sette anni prima,condannato in eterno a trascinarsi in espiazione pesantissime catene. Annuncia punizioni ancora più severe per Ebenezer, se non cambia atteggiamento. Marley avvisa che arriveranno altri tre fantasmi: il Natale passato, il Natale presente e il Natale futuro. Il primo mostra come l’uomo gelido è diventato tale: orfano di madre, il padre lo dimentica in collegio, una sorella affettuosa sposata lo riporta a casa, ma muore di parto. Il giovane Ebenezer ancora di belle speranze si fidanza con Belle, ma la crescente passione per il lavoro e l’accumulo morboso la allontana. Il buontempone Natale del presente fa passare davanti agli occhi del vecchio malmostoso l’allegra serata in casa del nipote, dove si cambiano spiritose battute sul caratteraccio dello zio, e la serena armonia della famiglia Cratchit, povera e felice. La visione che il Natale futuro materializza davanti agli occhi di Scrooge è un colpo durissimo: il godimento di Fred per la pingue eredità dello zio finalmente defunto, il rovistare e rubare a mani basse della cameriera in cassetti e armadi dell’odiato padrone, e le sofferenze di Tiny Tim, che muore per mancanza di cure mediche.Ma è lo spettro del Natale Presente - godereccio e ridanciano come un’opera di Arcimboldo - che ha favorito la nostra tradizione di festeggiare con bonomia e spirito di fratellanza quello che fino ad allora era una ricorrenza sacra, sobria, dimessa e cupa. Il racconto morale, che denunciava la necessità di riforme serie nell’era industriale per lo sfruttamento della manovalanza minorile, la galera per i debitori, il padronato superbo e incurante della miseria dei lavoratori, per fortuna è d’epoca. Prima gli anglo-sassoni e poi l’Occidente tutto hanno imparato a onorare il cuore buio dell’inverno e invocare il ritorno della luce con musica, canti, campanelli, neve vera e neve finta, abeti grondanti luci e ornamenti scintillanti, focolari accoglienti addobbati e tavoli ricolmi di leccornie, e calze e regali da distribuire. Per questo, dobbiamo ringraziare Dickens; il suo invito alla larghezza di spirito e alla generosità verso i meno fortunati è sempre attuale (vedi anche articolo di Roberto Mussapi a pagina 10, ndr). Neppure l’Altissimo è dimenticato con il classico grido di Tiny Tim, vivo, allegro e pimpante mentre alza in segno di saluto la stampella e grida felice «Che Dio ci benedica, ognuno di noi!» (Il magistrale lavoro sulle voci italiane è merito di Maura Vespini.)

storante suo. La sua amica del cuore è Charlotte, la bianca Southern Belle (una Rossella O’Hara ironica e adorabile) ricca, viziata e talmente spiritosa che quando compare, ruba la scena a Tiana (che in questa versione diventa rana anche lei) e al principe Naveen. È una gran fortuna che le sequenze migliori e più ampie siano quelle con i due innamorati che zampettano verdognoli tra peripezie d’ogni sorta. La colonna sonora è in mano al sempre incantevole Randy Newman. Da non perdere.

Nel «Canto delle spose», Nour e Myriam sono vicine di casa in un quartiere popolare di Tunisi. Sono amiche strettissime con i romantici sogni d’amore tipici della loro età. L’ebrea Myriam al ritorno da scuola insegna quello che ha imparato a Nour, sedicenne araba alla quale lo studio è vietato. È il 1942 e l’esercito del Terzo Reich ha occupato la città, ci sono le leggi razziali e Myriam è cacciata da scuola. La regista Karin Albou ha scritto una storia ispirata alla sua famiglia d’origine algerina, sulle poco raccontate ripercussioni della seconda guerra mondiale in Medio Oriente, dove ebrei e musulmani vivevano in pace uno accanto all’altro. Ma i nazisti vietano agli ebrei la scuola e anche il lavoro, una catastrofe per Tita, la mamma ebrea vedova, interpretata dall’autrice Albou. La storia comincia con il fidanzamento di Nour con il cugino Khaled, che

Se il film precedente è il trionfo della tecnologia digitale, La principessa e il ranocchio segna il ritorno della Disney al disegno manuale splendido, fluente, lussureggiante. La fiaba dei fratelli Grimm narra che per un incantesimo un principe si trasforma in ranocchio, e solo il bacio di una principessa lo riporterà in forma umana. Ambientata nella New Orleans degli anni Venti, adattata a commedia musicale con canti, balli, vudù, animali parlanti, alligatori, appassionati jazzisti, una sdentata ed esilarante lucciola maschio innamorato, amicizie tra bianchi e neri, la favola che s’addice all’era obamiana è di puro godimento. Il doppiaggio delle canzoni e le voci non fanno rimpiangere (troppo) la versione originale. Tiana è la bella cameriera nera con capelli perfetti che lavora sodo e risparmia perché sogna di aprire un ri-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

3d

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano

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È giustificata la diffidenza verso film sull’immigrazione, un tema molto frequentato dal cinema di questi tempi, spesso con trame banali e prevedibilmente buonisti. Welcome è una rara eccezione alla regola; è la storia di Bilal, un curdo diciassettenne, fuggito a piedi dall’Iraq e diretto in Inghilterra, dove vive la sua amata. Il ragazzo si arena a Calais, come tanti altri immigrati clandestini speranzosi di attraversare la Manica con metodi per forza illegali, tutti pericolosi. Non è espulso dai francesi ma resta in una sorta di limbo sociale, poiché lo Stato francese punisce chiunque dia una mano a questi irregolari, con pene che arrivano fino a cinque anni di carcere. L’autore e regista Philippe Lioret ha costruito due belle storie annodate. Simon (Vincent Lindon, che non delude mai) è un ex campione, ora istruttore di nuoto in una piscina pubblica. Bilal ha già fallito un tentativo di attraversata nascosto con altri illegali dentro un camion, ma non resiste alla necessità di semi-soffocamento con una busta di plastica per sfuggire ai controlli. È un ragazzo atletico e dotato che sogna di giocare per il Manchester United. Si rivolge a Simon per un super allenamento: è convinto di poter attraversare quel tratto di mare gelido con correnti micidiali che lo separa dalla Gran Bretagna a nuoto. L’allenatore non riesce a scoraggiarlo. È in fase di dolorosa separazione dalla moglie, che lo lascia per un altro che lavora «nel sociale» come lei; alienato e individualista com’è, Simon non trova la forza di lottare per trattenerla, nonostante lo strazio per l’abbandono. Bilal ha fatto 4000 chilometri da clandestino per la sua ragazza, sa che il padre l’ha promessa a un altro, e intende tentare la folle impresa pur di non perderla. La sua determinazione scioglie la corazza congelata del francese, che decide di dargli una mano, alla faccia dei rischi e dei vicini spioni. In Francia Welcome è stato campione d’incassi, anche grazie alla provocazione al ministro dell’immigrazione francese Eric Besson. Lioret ha paragonato le sanzioni per l’assistenza agli immigrati illegali alle leggi razziali di Vichy, che vietavano qualsiasi soccorso agli ebrei perseguitati. Le nazioni non possono permettere flussi migratori incontrollati, e si può sbagliare nell’ardua impresa di regolarli. Il raffronto con la Shoah è assai improprio,ma il film è bello lo stesso.Buon Natale, e che dio ci benedica, ognuno di noi.

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parola chiave

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NATALE come Natale. Un giorno che parte della cultura di questi anni sta lentamente, ma forse inesorabilmente dimenticando o emarginando. La delibera presa dal comune di Oxford di proibire l’augurio Mary Christmas - tra l’altro una prassi usuale anche a New York - la dice lunga su come si prospetta il futuro di questa festa. Riproporlo nel nostro alfabeto ha il suono di una provocazione e di una sfida. Anzitutto, provocare a riflettere sul senso profondo che questo giorno possiede per la vita di ogni uomo alla ricerca di un senso da dare alla propria esistenza. Inoltre, una sfida per quanti vogliono creare una zona di oblio intorno a questo evento, perché rimanga nella cultura dei popoli come il richiamo a un fatto indelebile che ha creato progresso e sviluppo dove è stato accolto. Dimenticare il 25 dicembre equivarrebbe a non sapere più chi siamo e dove stiamo andando. Paradossalmente, l’uomo trasformerebbe la sua esistenza da «pellegrino» - perennemente in cammino verso una meta - a «errante», come un qualsiasi nomade che non ha fissa dimora, vivendo alla giornata senza preoccuparsi del domani e tantomeno progettando la sua vita. Questa condizione non ci appartiene; sarebbe un ferita mortale per la storia dell’umanità che ha ricercato senza sosta di costruire qualcosa di solido da trasmettere alle generazioni future.

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Natale è la data che dà origine alla storia dell’umanità. Da qui si iniziano a contare gli anni e gli eventi: prima e dopo la nascita di Cristo. Solo un banale senso del rispetto ma più verosimilmente una strategia ben studiata - può pensare che la celebrazione di questo giorno possa offendere qualcuno. È vero il contrario. Natale, infatti, indica la via dell’amore che si apre e si fa conoscere in pienezza. Questa è la verità del natale: Dio si fa uomo. Perché dovrebbe sentirsi offeso qualcuno all’annuncio di questa notizia? Anzitutto una verità, da qualunque parte dovesse giungere, non potrebbe mai offendere soprattutto se detta con carità come questa circostanza obbliga a fare. La verità non offende perché spalanca sempre un orizzonte all’intelligenza, permettendole di non addormentarsi nel solo calcolo dei numeri o nel rincorrere le quotazioni di borsa. La verità che ogni uomo ricerca è quella di amare ed essere amato. Nel giorno di Natale viene offerta questa possibilità; spalancare il proprio cuore e la mente per accoglierla è atto di libertà non facile ignavia. Che danno può recare l’annuncio che Dio si fa uomo ed entra nella storia? Nessuno. Quanto viene proposto, al contrario, è un’esigenza che l’uomo porta dentro di sé e che lo rende inquieto fino a quando non ha dato risposta.

È la data che dà origine alla storia dell’umanità. Dimenticarla o emarginarla, come la cultura del nostro tempo tenta di fare, equivarrebbe a non sapere più chi siamo e dove stiamo andando. È una verità che ci viene offerta, accoglierla è un atto di libertà

Un presepe per ricordare... di Rino Fisichella

Osservare quel bambino nella mangiatoia permette di farci stupire e di scoprire la realtà più profonda per la nostra esistenza: la gratuità e il dono. “Se lui non avesse la nascita umana - ha scritto sant’Agostino noi non potremmo arrivare alla rinascita divina. È nato infatti perché noi potessimo rinascere”

Da sempre l’uomo è andato alla ricerca di un rapporto con l’Assoluto e il Trascendente. Dai primordi della storia dell’umanità fino ai nostri giorni il senso di infinito, che abbraccia ogni nostro pensiero e azione, vuole diventare esplicito, palpabile e pronunciabile. Da questo desiderio nasce l’esigenza della religione come quel rapporto che lega l’uomo con la divinità. Lo troviamo nelle religioni primitive, nei giochi sacri degli antichi, negli spazi indecifrabili che ancora oggi suscitano grande fantasia, nei miti che hanno segnato la stagione di Atene e Roma e che sono stati spezzati per il sopraggiungere della ragione che voleva riflettere sulla realtà. Le religioni non sono altro che il cammino dell’uomo alla ricerca di Dio. Natale, tuttavia, indica che qualcosa di straordinario è avvenuto: Dio si è mosso lui stesso per andare alla ricerca degli uomini. La rivoluzione copernicana per la storia delle religioni è tutta qua. Non più l’uomo cerca Dio, ma Dio va incontro all’uomo. Si fa lui stesso uno di noi per farci conoscere il mistero della sua vita e della nostra esistenza. Solo nella misura in cui si è capaci di porre la nostra vita alla luce del suo mistero, allora l’enigma che rappresentiamo a noi stessi si scioglie come neve al sole. Nel Dio che si fa uomo si comprende l’inizio e la fine dell’esistenza; a queste colonne d’Ercole si può realmente dare significato e senso perché sono state vissute da Dio stesso.

Natale è il giorno in cui si scopre che si può realmente amare perché si è stati amati in modo libero e gratuito. Osservare quel bambino nella mangiatoia permette di farci stupire e di scoprire la realtà più profonda per la nostra esistenza personale: la gratuità e il dono. Spesso lo dimentichiamo, presi come siamo dalla frenesia del potere che tutto vuole possedere. Possedere perfino l’altro che vorremmo amare e che soggioghiamo in nuove schiavitù dell’egoismo, invece di permettergli di crescere nella libertà. Quel bambino posto nella mangiatoia è segno di un amore libero. Si dà a tutti senza escludere nessuno; chiede a ognuno di essere preso tra le braccia per portargli in dono la felicità vera e la pace del cuore. Un pensiero di S. Agostino aiuta a comprendere il senso profondo nascosto in questo 25 dicembre: «Fece il giorno e venne nel giorno; era anteriore ai tempi e contrassegnò i tempi. Cristo Signore è presso il Padre da sempre, senza inizio; tuttavia oggi ti domandi che giorno è. È il Natale. Di chi? Del Signore. Se lui non avesse la nascita umana, noi non potremmo arrivare alla rinascita divina. È nato infatti perché noi potessimo rinascere». Mi auguro che in ogni casa possa esserci un presepe per ricordare che questo giorno è «Natale».


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cd

musica Alessandro Magnanini MobyDICK

Easy listening doc di Stefano Bianchi meno male che ci ha pensato la Pantera Rosa, a fargli incontrare la Musica con la maiuscola. Sennò ce lo saremmo sognati un disco godibile come Someway Still I Do. Lui è Alessandro Magnanini, viene da Reggio Emilia, è chitarrista, compositore, produttore discografico e spesso ricorda di quando aveva cinque anni «e tutto intorno era buio. Un buio nero pesto. Mi trovavo in un vecchio cinema di quart’ordine, dove da anni non si proiettavano prime visioni. A un tratto la luce dello schermo si colorò di fucsia vivo e un suono improvviso mi prese allo stomaco. Era un accordo di pianoforte: troppo complicato per me. Era l’accordo che apriva il tema di The Pink Panther». Già. Il pezzo forte di Henry Mancini, anno di grazia 1963. La lounge music che tutt’a un tratto incontra l’Ispettore Clouseau. Apriti cielo. Folgorato sulla via dell’easy listening, Alessandro è un ragazzino quando comincia a comporre musica. Poi si concentra sul linguaggio del jazz: quello che si evolve ruotando attorno a Duke Ellington, Miles Davis, Bill Evans, John Coltrane, Stan Getz, Antonio Carlos Jobim, Wes Montgomery, Ella Fitzgerald… E che brilla negli accordi

E

in libreria

di Barry Galbraith, chitarrista della Pennsylvania. Non perde tempo, il talentuoso Magnanini. Dove c’è da suonare, suona: nei club e nei teatri d’Italia, è tra i fiori all’occhiello della Jazz Art Orchestra. E vola oltreoceano, al San Francisco Jazz Festival, a raccogliere applausi. Ma c’è da affinare, in sala d’incisione, il background tecnico-produttivo. E allora, nel 2005, si mette a collaborare col bolognese Cesare Cremonini che ha mandato in soffitta la 50 Special dei Lùnapop per fare il cantautore. Lo segue come strumentista e gli arrangia le parti orchestrali. L’anno dopo, s’inventa col catanese Mario Biondi il successo mondiale di This Is What You Are e dirige dal vivo i venticinque elementi della Duke Orchestra. Ora è pronto a far tutto da solo, pedinando quel «facile ascolto» anni Sessanta che rimeggiava col jazz: quello del tedesco Claus Ogerman, della saudade vocale di Astrud Gilberto, dell’ugola adrenalinica di Shirley Bassey. Quello che nei dodici brani di Someway Still I Do acchiappa la spontaneità del pop, coccola il mood orchestrale del jazz e presta orecchio a certe colonne sonore (The Pink Panther Theme, sbucato fuori dal buio di quel cinema emiliano, insegna). E bravo Alessandro Magnanini. Che oltre-

mondo

tutto hai proposto di interpretare la tua fior di lounge a un crooner come Liam McKahey dei Cousteau: spumeggiante nei refrain stile Burt Bacharach di Livin’ My Life e Someway Still I Do, bossanovista in But Not For You. Jenny B, invece, intona la «cinematica» Open Up Your Eyes, si dà alla bossa con So Long, Goodbye e sembra proprio la Shirley Bassey dei tempi d’oro, quando prende di petto Secret Lover. E poi altre donne, altre magie: Rosalia De Souza, che con L’estate è qua rispolvera il mito della «ragazza di Ipanema»; Renata Tosi, perfettamente sintonizzata col jazz-samba di Stay Into My Life; Stefania Rava, persuasiva e cool fra le pieghe di Something Fine, come la migliore Ornella Vanoni. Infine, i tre strumentali che sono un prodigio d’alta classe: Greetings From Here, che parte dal sussurro vellutato di una tromba per poi evolversi in bossanova; Suddenly..., avviluppante come un tango di Astor Piazzolla; Blind Date Blues, pianoforte da sogno, l’abbraccio dell’orchestra, un coro che scivola via immedesimandosi con Ray Conniff. Sublime, come tutto il resto. Alessandro Magnanini, Someway Still I Do, Schema/Family Affair, 18,90 euro

riviste

NELLA GALLERY DI LENNON

BUON COMPLEANNO MR.COBAIN

CON NEIL YOUNG NEL CUORE

«L

a vita è quello che ti succede mentre sei impegnato a fare altri progetti», cantava John Lennon in Beautiful Boy. E i momenti imprevisti, alcuni drammatici, altri gloriosi, che hanno determinato l’esistenza del grande beatle, sono raccolti in una preziosa biografia fotografica, John Lennon - Una rivoluzione in musica (White star, 272 pagine, 38,00 euro) a cura di

«Q

uando cominciarono a registrare il primo lp, gennaio 1988, i Nirvana non potevano contare su un nome definitivo, avevano solo una manciata di brani pronti da registrare e un batterista che sarebbe cambiato di lì a poco. La Sub Pop non era ancora una casa discografica e Kurt e compagni non possedevano il becco di un quattrino». La storiografia ufficiale presenta così il

merican rock-folk in un certo senso abbastanza classico, diciamo che sono un po’ le stesse coordinate su cui si muovevano anche alcune cose di O’Rourke, nonostante questo proprio le sporcature e qualche feedback ne farebbero la parte più interessante: è solo un peccato siano pochi momenti. La traccia conclusiva di questo lavoro che gli yankee descriverebbero

Banley cura un pregevole volume fotografico che racconta vita e opere dell’ex beatle

L’album di debutto dei Nirvana torna in edizione speciale arricchita da contenuti extra

Chris Forsyth & Shawn Edward Hansen danno vita a “Dirty Pool”, omaggio all’american folk

John Blaney. Un lavoro in cui le fonti di ispirazione del cantautore sfilano in pregevoli stampe capaci di rendere conto di una creatività unica e di un percorso che lo trasformò in un’icona del secolo scorso. Grazie alla consulenza della moglie Yoko Ono, che ha fornito utili consigli e immagini inedite, il book raccoglie frammenti significativi di una vita spesa al servizio della musica, della politica e della spiritualità. Alle classiche foto di famiglia, si alternano documenti che testimoniano i rapporti con gli altri di Liverpool, l’origine dei brani più famosi e le prese di posizione fortissime su Vietnam, pacifismo e droghe. Uno slideshow della nostra storia recente.

debutto di Cobain e soci, band da molti considerata come l’ultima capace di aggiungere qualcosa alla storia del rock. A più di vent’anni dal clamoroso debutto di Bleach, che costrinse a tornare sui suoi passi riviste come Rolling Stone e Melody Maker, che avevano passato il disco sotto silenzio, l’opera prima dei Nirvana torna negli scaffali musicali in deluxe edition. Per l’occasione, oltre all’intero album originale, l’edizione speciale integra il live tenuto dai Nirvana nel 1990 al Pine Street Theatre di Seattle. Per tornare a sentire l’ultimo grande rock che chiuse il Novecento.

decisamente come “guitar (ma anche organ) driven”manca solo della voce di Neil Young per avere tutto quello che serve a un pezzo per rifarsi a quello che potremmo definire “root”o ”vintage”». Andrea Ferraris presenta così su sodapop.it la nuova fatica di Chris Forsyth & Shawn Edward Hansen, intitolata Dirty Pool (Ultramarine, 2009). Composto da tre lunghe tracce, il disco del duo americano si apre con una ouverture che lascia campo aperto alla chitarra, per poi tuffarsi nell’aggraziata melodia di organo e sei corde che ribadisce i punti forti dell’american sound retro: solidità e vigore espressivo. Un omaggio alla tradizione ad alto tasso di qualità.

a cura di Francesco Lo Dico

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zapping

Calzini e metaforine SCRITTE COL LAPIS di Bruno Giurato anzoni scritte col lapis. Poetica inconsistente perché pare che la magia sia così, inconsistente, e in fondo anche la vita: inconsistente, come un profumo di stireria. Qui a liberal è capitato di scambiarci mail interrogative su Capossela, e proprio sulla canzone Il paradiso dei calzini, mail con un sottofondo ilare e ora sappiamo che, ebbene sì, ci sbagliavamo. Veniva un po’ da ridere a sentire versi come «chi ha trovato richiuso il cassetto / chi si butta alla cieca nel mucchio/ della biancheria». Il verso e tutta la canzone facevano venire in mente (a noialtri bruti) una famosa parodia del libro di Woody Allen Saperla lunga. Lì si raccontava che nelle liste della lavanderia di un famoso filosofo c’era il segreto del tormento, che il passaggio dal nero al blu dei calzini era una spia di un qualche cambiamento tragico-esistenziale. Allen è superato da Capossela, e l’intento parodico non c’entra niente. Capossela vorrebbe essere serio. Per lui il calzino spaiato è davvero la metafora più debole (quindi più forte) della solitudine dell’uomo - e di quella della donna se non porta i collant. E non solo per Capossela, c’è anche un libro che piglia la cosa sul serio: Matteo de Benedittis, Cantami o Dj. Lezioni parecchio alternative d’italiano (Kowalski). Lì Il paradiso dei calzini di Capossela viene citato con entusiasmo. Due indizi fanno una prova e insomma, la canzone di Capossela continua a sembrare a noi rozzi un manifestino un po’ scemotto, con l’umorismo spaiato di una melodia che assomiglia alla sigla di Popeye, ma evidentemente una certa presa sul sentimento generale ce l’ha. Canzoni scritte col lapis, poesia da stireria, da guardaroba di Nonna Speranza. Piccoli fanciulli che piangono mentre il carillon suona Braccio di ferro, sull’ondicella di un tormentino. Ci arrendiamo alle metaforine dei calzini.

C

teatro

L’adolescenza attraverso la lente di Andersen di Enrica Rosso arrivato il freddo e ci ha restituito La Regina delle nevi. Lo spettacolo creato su commissione del Setagaya Public Theatre di Tokyo nel 2005 è infatti reduce da un’importante tournèe che lo ha riportato a casa dopo aver raccolto consensi entusiastici in mezza Europa. Partita dalla favola di Hans Christian Andersen, Teresa Ludovico dà nuovo corpo alla scrittura e dirige con maestria i suoi sodali d’avventura. Diversi i linguaggi utilizzati per dare corpo alla fiaba: sul palcoscenico si incontrano acrobati, narratori, danzatori e maschere, avvolti o sottratti, a seconda dei momenti dalle scie luminose di Vincent Longuemare che attraversano e scompongono lo spazio scenico in infiniti piani immaginativi. Si susseguono così, sul palco pressoché nudo, immagini rarefatte destinate a risuonare a lungo nel nostro mondo interiore. Durante i 60 minuti della rappresentazione si narra dell’amorevole amicizia tra Kay e Gerda, due bambini prossimi all’adolescenza che vedono infrangersi il loro incontro privilegiato a opera della Regina delle nevi. Creatura straniante ed evocatrice di un altrove impalpabile e irraggiungibile, la regina-sirena catturerà con un artificio Kay sottraendolo al mondo dell’infanzia per godere in esclusiva della sua bellezza. La piccola Gerda allora rinuncerà alla sua esistenza dorata per tramutarsi, alla fine di un percorso iniziatico, in scintilla amorosa in grado di sciogliere il

È

gelido incantesimo che imprigiona Kay, costretto a crescere troppo in fretta. Un messaggio forte di ascolto verso un’epoca della vita in cui è facile perdersi e chiudersi cristallizzando i propri sentimenti, pensando così di proteggersi da un esterno tagliente come una scheggia di ghiaccio per contrapporvi la durezza fittizia di un involucro in formazione ancora troppo giovane per essere equamente strutturato. Tutto si scioglie quando si lascia fluire libero l’amore. I baresi Kismet Teatro OperA raccolgono i frutti delle loro scelte. Un’attenzione costante al sociale espressa con una sensibilità artistica che ha solide radici nella tradizione forgiata con la massima libertà usufruendo di tecniche miste contrappuntate con gusto e misura ma senza paura di stupire. La compagnia, diretta con gioiosa raffinatezza e cura minuziosa per la confezione da Teresa Ludovico, è arricchita da importanti presenze straniere perfettamente incastonate nel nucleo di base italiano; tutti fanno risplendere la loro luce interiore, tutti incantano per grazia e duttilità e contribuiscono a rendere magica la messa in scena. Indipendentemente dalla vostra età anagrafica non mancate quindi di farvi catturare da uno degli spettacoli più sognanti degli ultimi tempi. Diametralmente opposto, ma altrettanto sofisticato il secondo spettacolo che avrà luogo sempre al Teatro Valle per sole due repliche il 2 e il 3 gennaio. Un’occasione speciale a ingresso libero, che occorrerà prenotare, per dare la possibilità a 40 bambini di assistere seduti sulle tavole del palcoscenico a Piccoli misteri (vincitore del Premio Eti Stregagatto 2001). Nessun effetto scenotecnico per questo evento creato da Laurent Dupont, semplicemente la magia del grano che si trasforma in pane attraverso un rituale grato, pregno di vita e gioia che si sviluppa nel racconto di un fare antico.

La Regina delle Nevi, Teatro Kismet OperA, Roma, Teatro Valle, fino al 6 gennaio, info: 0668803794 www.teatrovalle.it

jazz

A Orvieto, omaggio a Django Reinhardt

di Adriano Mazzoletti al 30 dicembre al 3 gennaio come ogni anno da diciassette anni, si svolgerà a Orvieto, Umbria Jazz Winter, edizione invernale di Umbria Jazz. A Terni esisteva una edizione pasquale, ma quell’appuntamento è stato annullato ormai da diversi anni. «L’edizione invernale di Umbria Jazz negli anni si è conquistata un posto molto particolare nel panorama musicale italiano, non solo del jazz», scrive Carlo Pagnotta. «Merito della formula, che coniuga turismo, cultura e musica, con un cartellone che in ogni occasione propone soluzioni per tutti i gusti». Dei quasi cinquanta concerti che i diciannove complessi daranno nel corso dei cinque giorni del festival, solo una minoranza possono interessare vivamente gli appassionati di jazz. Quelli dei chitarristi John

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Scofield, Jim Hall e Bill Frisell, del pianista Monty Alexander e di Kurt Elling che renderà omaggio al suo concittadino Johnny Hartman, cantante e pianista che nel 1963 incise con il Quartetto di John Coltrane. Atteso anche il ventiquattrenne pianista e cantante di New Orleans, per la prima volta a Orvieto, Jonathan Baptiste che dopo il suo debutto alla Carneige Hall ha collaborato con Wynton Marsalis, Donald Harrison e con il clarinettista, anch’egli di New Orleans, Alvin Batiste. Un altro musicista già conosciuto dal pubblico italiano è il pianista Gerard Clayton accompagnato da suo padre il contrabbassista John Clayton che si esibirà anche in duo con l’altro contrabbassista, l’italo-americano John Pattitucci. La presenza italiana oltre ai sempre presenti Enrico Rava, Gianluca Petrella, Renato Sellani, il trio di Roma con Danilo Rea, Enzo

Pietropaoli e Roberto Gatto è arricchita da un nuovo gruppo di Enzo Pietropaoli che suscita curiosità. Concerto multimediale con interventi visivi cinematografici e la consulenza del critico Franco Fayenz. La ricorrenza del centesimo anniversario della nascita di Django Reinhardt, nato nel 1910 e scomparso a soli quarantatre anni nel 1953, lasciando un grande vuoto nel mondo del jazz europeo, sarà celebrata dal trio del chitarrista olandese Stochelo Rosenberg che assieme ai suoi due cugini si lancerà nella difficile e forse impossibile rielaborazione dell’inimitabile stile di Django. A Orvieto, come è ormai consuetudine nella stragrande maggioranza dei festival jazz soprattutto italiani, anche altre espressioni musicali più o meno legate al jazz, musiche brasiliane, caraibiche, rhythm’n’blues, funk, soul, gospel, pop e musica etnica.


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narrativa

di Pier Mario Fasanotti narratori irlandesi continuano a stupirci. Di Hugo Hamilton ricordiamo il best seller Il cane che abbaiava alle onde, tradotto in 15 lingue e vincitore del Premio Berto in Italia e del Prix Fémina in Francia. Il Times di lui ha scritto: «La voce anglo-irlandese è unica al mondo». Nel romanzo che proponiamo oggi, La maschera, c’entra la Germania. Raramente si è letto qualcosa di più esatto e commovente sullo spaventoso esodo nel nulla dei tedeschi nel 1945, tra fame, paura, stupore, desolazione, amore e morte. La vicenda inizia proprio a Norimberga, «all’ombra del posto in cui i nazisti avevano messo in scena la loro grande pantomima, il trionfo della volontà». Una bomba squarcia un edificio, una donna vede la stanza del figlio (tre anni) vuota. Percorre strade con il solo intento di trovare una traccia del suo Gregor. Con l’aiuto del padre, in un piccolo camion, riesce a uscire indenne dalla furia rancorosa della Gestapo. L’uomo le mette in braccio un bambino della stessa età dello scomparso e la invita a trattarlo come proprio. Un’adozione strana e difficile, ma prevale poi l’istinto materno. Da dove viene il «nuovo» Gregor? È uno dei tanti ebrei sfuggiti quasi per caso dal ghetto di Varsavia? Di certo non comprende la lingua tedesca. Ma crescerà come un tedesco, accanto a un padre tornato dalla campagna di Russia e ossessionato dalla regola della sopravvivenza, della lotta in una natura ostile. Gregor verso i diciott’anni, dubbioso sulla propria vera identità, lascia la casa e va all’estero. Campa alla meno peggio, trasferisce i suoi confusi sentimenti nella musica. Suona la chitarra e canta in modo sorprendente, come se fosse un retaggio familiare. Già, ma di quale famiglia? Ricordando una vecchia gaffe dello «zio» Max, sospetta di essere ebreo. Col tempo dichiara di esserlo davvero. Durante gli anni confusi e agitati della contestazione giovanile incontra Mara, che sposerà e dalla quale avrà poi un figlio. Sarà la moglie a insistere sulla necessità di «verificare» l’origine del marito, sarà lei a fare un’indagine minuziosa in quanto sa che «dietro Gregor ondeggia sempre un punto di domanda; in ogni sua affermazione c’è un’ombra del suo contrario; un filamento di dubbio dentro ogni annuncio». La domanda che si pone, anche da musicista affermato e girovago, è sempre la me-

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libri

L’album della memoria tra realtà e finzione

desima: chi sono io? Qual è il mio posto? Il rabbino non lo accoglie nella comunità, vuole «prove». Lui cerca dappertutto, ma anche a Varsavia si sente «un impostore». L’identità, scrive Hamilton, è memoria familiare ma anche fantasia attorno a quella memoria. La scombussolata «ricerca di appartenenza» va a creare una frattura coniugale, una nuova lontananza.Tuttavia Mara rimane, pur tra tanti dubbi iniziali, dentro il fortino di una memoria che è vaga ma possiede una forza difficile da respingere o azzerare. Gregor ricorderà di aver ricevuto dallo «zio» Max, poi scomparso, un disco di musica ebraica assieme all’augurio di succes-

so. Non è comunque un rimedio al suo sradicamento interiore. E nemmeno vale il brutale consiglio del figlio a verificare il Dna di Gregor con i resti della nonna. La famiglia si ricongiunge per l’accettazione di una verità: «Nessuno è reale a meno che non abbia testimoni della sua vita. Noi esistiamo solo nella fantasia: abiteremo anche il mondo fisico, saremo pure creature di carne e di sangue in questo luogo materiale, ma prendiamo vita sull’asse dell’immaginazione. Al massimo possiamo coesistere, riflessi nella sfocatura dell’interazione umana e degli eventi mediatici intorno a noi». Il centro di gravità di ogni esistenza è il riflettere sul fatto che la nostra identità è anche la nostra instabilità, «il desiderio, l’adattamento, il tentativo di rispondere alla domanda dalla quale proveniamo, la traccia di noi lasciata indietro». Scrive Hamilton che «forse il viso è una maschera eccessiva, una cosa sempre in movimento, una storia incompiuta, un travestimento, una rappresentazione piena di incoerenza in cui tiri a indovinare, più vicina alla finzione che alla realtà». Tra i tedeschi che scappano da una casa ormai inesistente o solo dalla paura del peggio, c’è un uomo che custodisce come se fosse un grande tesoro la macchina fotografica e alcuni rullini. Lì dentro ci sono le foto, accuratissime, della sua casa. Perfino quelle dei cassetti, del ripostiglio, del lucernario. È l’album della memoria. A questo ci si aggrappa per vivere. Hugo Hamilton, La maschera, Fazi, 291 pagine, 18,50 euro

riletture

Stendhal e Giovanni Urbani visti da La Capria di Leone Piccioni n una piacevole veste editoriale la Bur propone alcuni importanti testi che invogliano alla rilettura: da La festa delle donne di Aristofane a Sulla tolleranza di Voltaire, ai Sonetti di Gioacchino Belli, alle spassose 87 tragedie in due battute di Achille Campanile, fino ai Ricordi d’egotismo di Stendhal. Quest’ultima operetta con tutto il suo fascino, la sua ironia e autoironia (i «fiaschi», ad esempio, con più d’una donna corteggiata) ha una bella prefazione di Raffaele La Capria che ha dato recentemente alla stampa da Mondadori anche le belle pagine di riflessioni e divagazioni intitolate A cuore aperto e già indicato in un articolo di Mobydick (da Giancristiano Desiderio il 21 novembre scorso, ndr). La prefazione a Stendhal è anche riportata nel volume che abbiamo citato. La Capria nelle sue passeggiate romane passa spesso da piazza della Minerva davanti all’alber-

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go della Minerva che è di fronte al famoso elefantino e dove Stendhal soggiornò dal 1834 al 1836. «Penso che Stendhal - scrive La Capria - si sarà affacciato da quella finestra e avrà guardato l’elefantino. La sua presenza mi riporta all’amore che ho sempre avuto per i suoi libri e mi sento uno di quei lettori che lui diceva lo avrebbero letto negli anni futuri». A proposito dello stile di Stendhal si osserva che esso si trova precisamente «tra il nobile e il volgare (cioè quello della lingua comune)» e viene in mente il suggerimento leopardiano di attingere per un linguaggio stilistico al «familiare o al pellegrino». I Ricordi d’egotismo furono scritti a Civitavecchia in due settimane nel ’32, quando Stendhal era console in quella città e si riferiscono all’anno 1821-1822. La Capria ricorda la preferenza di Stendhal per la «precisione elementare» e per la sincerità del Rousseau delle Confessioni. «Non si sente - scrive - un letterato perché la vita è più vera e disor-

dinata della letteratura… quel disordine è comunicativo, è come assistere alla scorrevolezza della vita vera, non quella inventata in un romanzo». Ma con La Capria rimaniamo alla precisione e alla sincerità, in uno stile questa volta molto ordinato e spesso commosso con le poche pagine di Un amore al tempo della Dolce Vita (Nottetempo Editore). Questo libretto contiene il ritratto di un uomo e di un artista assai singolare e affascinante come fu Giovanni Urbani che ancora giovane era diventato direttore dell’Istituto del Restauro. L’amore è tra Giovanni e Kiki, una donna molto elegante, di rara bellezza, abituata alla vita nell’alta società. Urbani aveva molto sofferto nella prima gioventù per una tragedia familiare e si era poi ripreso unendosi a un gruppo di amici ai quali lui parlava con «spirito irriverente ma non saccente». Umile e modesto - ci dice La Capria -, nelle serate umile e modesto non appariva, e anzi a volte sembrava professare un dandi-

smo che la sua prestanza fisica e la sua eleganza accentuavano. «Era conservatore quando gli altri erano progressisti e viceversa e quasi sempre con buone e brillanti ragioni… La patria era per lui l’insieme di tutti i capolavori d’arte che gli avi ci avevano lasciato». Si ritrovava con gli amici alla trattoria di Cesaretto a via della Croce, luogo deputato per gli incontri con Flaiano, Maccari, Fellini, Parise, Arbasino e altri. Per lui l’eleganza non era un valore ma una qualità, «un’aura che avvolge le cose» e quanto all’eleganza pensava naturalmente a Kiki. «Era una donna che aveva sempre il tono del comando e la sicurezza di chi crede che tutto le sia dovuto e non avrei mai immaginato - conclude La Capria tanta sua tenerezza e tanto suo abbandono amoroso per Giovanni… Ma quando all’improvviso la fiammella si accese nel cuore di lei, lui inconsapevolmente la ravvivò, l’alimentò e la fiammella divenne un fuoco, una vampa che Giovanni non fu in grado di sostenere».


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informazione

Quando il “Giorno” era un grande giornale di Gabriella Mecucci opo aver raccontato la giovinezza, i primi rapporti con la politica, i mutamenti portati dal boom economico in Vitelloni e Giacobini, Vittorio Emiliani si cimenta ora con la straordinaria e complessa vicenda del Giorno in Orfani e bastardi. È una storia grande e triste quella della testata, voluta da Mattei e lanciata da due direttori: Gaetano Baldacci e Italo Pietra. Giornalismo d’inchiesta, moderno, aggressivo, comunque capace di raccontare la società e la politica in modo nuovo, di creare il caso: Il Giorno è probabilmente il giornale più bello d’Italia, un mito per tutti i giornalisti. La redazione è d’ec-

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narrativa/2

cezione: da Bocca a Pansa, da Del Boca a Valli, da Emiliani stesso alla Aspesi, da Forcella a Turone. E si potrebbe andare avanti a lungo. Per non dire dei collaboratori. Valgano per tutti i nomi dei due più acuti e illuminanti critici letterari: Pietro Citati e Cesare Garboli. Il Giorno insomma era un’esperienza orinale, ma a un certo punto si decise di «normalizzarlo». Neanche a dirlo, questa scelta venne fatta - diremmo oggi - dalla politica romana. In realtà probabilmente fu voluta dalla Dc, anzi da un parte della Dc. Nel 1972 infatti era cambiato il clima politico che aveva prodotto il Giorno, nato per favorire la nascita del centro-sinistra e per rafforzarlo e dargli respiro. Nel 1972 - come si

diceva - con il governo AndreottiMalagodi, l’asse della politica italiana si sposta invece verso il centro-destra. Segue il cambiamento di direttore. Italo Pietra viene infatti sostituito con Gaetano Afeltra. Nome illustre, proveniente dal Corriere della Sera, ma che «disinnescò» il quotidiano togliendogli la vivacità di un tempo. Come succede in questi casi la redazione resiste e cerca - talora riuscendoci - di conservare gli antichi splendori. Ma col tempo la «normalizzazione» avanza. Non contano né il mercato né la qualità del prodotto, ma soltanto le ragioni della politica. Il racconto di Emiliani - una parte viene ripresa da un suo precedente saggio uscito per Baldini e Castoldi, Gli anni del «Giorno». Il

quotidiano del signor Mattei, ripercorre anche la vita interna di redazione, gli incidenti che si susseguono, gli stop imposti ai giornalisti più vivaci, l’intreccio con le vicende politiche e sindacali. L’autore, che è parte in causa, ci mette, nel ricordare, anche tutta la nostalgia per un ambiente straordinario e la passione che entrò nello scontro. La svolta portò a un lungo declino e a una diaspora che allontanò i migliori giornalisti (tanti) e li portò in direzione di altri grandi quotidiani: dal Corriere, al Messaggero, al Sole 24 ore, ma soprattutto a divenire l’asse portante di un nuovo quotidiano: Repubblica. Vittorio Emiliani, Orfani e bastardi, Donzelli, 321 pagine, 23,90 euro

L’epica della guerra civile inventata da Pansa di Mario Bernardi Guardi iampaolo Pansa comincia a stupire con i suoi «effetti speciali» di revisionista nel 2002, l’anno in cui pubblica I figli dell’Aquila, storia di un bravo «ragazzo di Salò». Da allora gli storici «politicamente corretti», hanno cominciato a sparare palle di fuoco contro il giornalista monferrino. Il quale, tosto com’è, è andato avanti, confortato dalle migliaia di lettori che, grazie a lui, hanno scoperto che quelli della «parte sbagliata» non erano tutti brutti, sporchi e cattivi, ma avevano delle idee e dei valori. Il «revisionista» Pansa - è lui per primo a esibire lo scandaloso fregio svolge dunque una meritoria opera di educazione civica, scavando nell’«Italia che fu» (solo

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personaggi

ieri…), tirando fuori scheletri dagli armadi resistenziali, sforzandosi di far capire che non ha nulla a che fare con una democrazia matura un Paese ancorato alla storia ideologica, variamente replicata secondo i canoni marxisti o azionisti, dunque con i soliti eletti, i soliti reprobi e la solita vocazione all’ indottrinamento, come la «vulgata» dei vincitori comanda. Pansa del resto si occupa di Resistenza e Rsi da quando era uno studente (la sua tesi di laurea illustra le vicende della lotta partigiana nella Valle del Po), e certi interrogativi sui seicento giorni della guerra civile e immediati dintorni, se li è sempre posti. Costruendoci su delle storie che meritano di essere rilette. L’occasione è adesso offerta da questo libro che raccoglie tre romanzi validi non solo come significativi

«documenti», ma anche come intense prove narrative: Ma l’amore no (1995), I nostri giorni proibiti (1996), Il bambino che guardava le donne (1999). Dentro c’è un’Italia vecchia di sessant’anni e passa, ma ancora viva per il carico di emozioni che è capace di accendere visto che quell’odio non è smaltito, quelle verità scomode non ancora accettate, che «vincitori» e «vinti» debbono ancora imparare a scambiarsi parole che non siano pietre. Raccontando di un comunista eretico ammazzato per ordine superiore della «chiesa» Pci, del legame tra la figlia di un fascista e il figlio di un partigiano che fanno i conti con il peso del passato che non passa, e dell’innamoramento di un ragazzino per un’ex- ausiliaria «bella e dannata» della Repubblica Sociale, Pansa fa cronaca e storia. E anche epica: povera, ruvida, scabra, con dentro la carne e il sangue di gente vera. Giampaolo Pansa, Il romanzo della guerra civile, Sperling Paperback, 852 pagine, 19,90 euro

Ecco chi era mio padre Walter Tobagi di Mario Donati n un film di Wim Wenders c’è una frase struggente: «Cosa me ne faccio di un Padre che sta nei cieli?». Viene citata da Benedetta Tobagi, vissuta nel lutto incredulo (aveva tre anni quando suo padre, giornalista del Corriere della Sera, fu ucciso dai terroristi sotto casa), la quale, in un libro da consigliare a tutti ma soprattutto agli «uomini vuoti» che predicano senza mai pietas, cerca di ricostruire la figura paterna. Lavoro certamente doloroso, ma intriso di fatica anche perché Benedetta è vissuta «tra i fumi di incenso», sia in famiglia che altrove, tra celebrazioni più o meno strumentalizzate

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e distorte. Con abilità storico-cronistica (suo padre ne sarebbe fiero) la figlia di Tobagi (morto a soli 33 anni) vuole soprattutto capire. Tra migliaia di ritagli di giornali, cita senza malizia quel che molti dissero della vittima, «il cronista buono», il «socialista», «la pedina di Craxi nell’editoria», il cadavere che calzava una scarpa con la suola bucata (anche bravi giornalisti scivolano nel colorato buonismo da rotocalco), il «mediatore» cui venne appiccicato, quando lavorava all’Avvenire, il nomignolo di «monsignore», come se l’essere cattolico fosse da ridurre a tutti i costi al servilismo untuoso. In mezzo a tante commemorazioni, c’è la frase astiosa di Giorgio Bocca: «Un

giornalista medio, un brav’uomo che si dà da fare nel sindacalismo professionale…». Per fortuna scrisse anche Montanelli: «…era di carattere fermo ma mite, con la sua solida cultura, con la sua etica, da galantuomo». Benedetta ricostruisce un’epoca, che fu anche quella della perdita della sua innocenza. Si vergognino coloro che parlano del terrorismo come se fosse stato una chanson de geste e si soffermano sulla «perdita dell’innocenza» di chi aveva «ideali» e non dei condannati a un’esistenza di lutto. Benedetta fa bene a riprodurre il comunicato con cui la Brigata XXVIII Marzo rivendicò l’eliminazione del «terrorista di Stato Walter Tobagi». Qui cova un dramma

umano che si può leggere solo avendo ben presente la complessità del mondo. E l’autrice, giustamente, cita spesso Dostoevskji. A proposito del padre ricorda un passo di Omero, laddove il troiano Ettore si china sul figlioletto Astianatte, il quale però non riesce a riconoscerlo perché ha l’elmo, e allora piange. Ettore se lo toglie. Benedetta allunga le ormai mani adulte e sfila l’elmo di Walter. Lo fa da figlia e da storica. Ricordando una frase di Camus: «Lo smarrimento rivoluzionario si spiega innanzitutto con l’ignoranza…». Benedetta Tobagi, Come mi batte forte il tuo cuore, Einaudi, 300 pagine, 19,00 euro

altre letture Non era mai stata ricostruita, nella sua completezza, l’organizzazione e l’attività del Sim, il Servizio di informazioni Militare italiano, dalla sua istituzione nel 1925 alla caduta del fascismo. Una guerra segreta di Giuseppe Conti (Il Mulino, 555 pagine, 33,00 euro) lo fa ripercorrendo la storia del Sim analizzando il continuo processo di riorganizzazione a cui il Sim fu sottoposto per tutta la durata della seconda guerra mondiale. Conti fornisce anche un’accurata esposizione delle sue azioni di spionaggio, controspionaggio e propaganda nei diversi fronti di guerra e nel paese, così come della sua collaborazione con i servizi tedeschi. Alla ricerca del tempo perduto è uno dei grandi capolavori della letteratura del Novecento. Attraverso le pagine di quest’opera monumentale, articolata in sette romanzi (Dalla parte di Swann, All’ombra delle fanciulle in fiore, I Guermantes, Sodomia e Gomorra, La prigioniera, Albertine scomparsa e Il tempo ritrovato) ci viene rivelata un’intera società, nell’arco di tempo che va dal 1880 al 1920. Protagonista assoluta della Ricerca (che Newton Compton ripubblica nella collana dei mammut, 2528 pagine, 24,90 euro) è l’aristocrazia nel momento in cui si conclude la sua splendida parabola. Tutti i personaggi sono sostanzialmente dei vinti, a ognuno il tempo ha sottratto qualcosa. Soltanto la memoria sembra sopravvivere alla sua tirannia e solo nell’arte è possibile trovare un compenso al disordine del mondo. Oggetto di ammirazione appassionata ma anche di sospetto, la figura di Antoni Gaudì (1852-1926) incombe sul XX secolo come quella di un gigante, stupefacente, enigmatico, arcano. Le sue opere hanno cominciato da alcuni anni ad attirare gli studiosi e a suscitare una curiosità popolare di proporzioni inedite. Oggi Gaudì è forse l’architetto del Novecento più amato e controverso. Capostipite del modernismo catalano o scheggia impazzita dell’art nouveau, genio visionario o artigiano eclettico e privo di originalità? A questi dilemmi mai ufficialmente sciolti tenta di rispondere la biografia di Gijs Van Hensbergen (Gaudì, Lindau, 360 pagine, 28,00 euro). Biografia opportuna perché se i suoi capolavori (dall’immenso cantiere medievale della Sagrada Famiglia al Parco Guell, da casa Battlo a casa Milà) sono stati oggetto di analisi meticolose, la sua vita è sempre rimasta sullo sfondo. Ma è la sua vita a rivelare chi fosse davvero questo carnalissimo, eccentrico, geniale artista mistico. a cura di Riccardo Paradisi


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religione

ECCO COME IL RACCONTO DEL NATALE DI MATTEO E DI LUCA COINCIDONO CON L'INNO DI APERTURA DI GIOVANNI, A SUA VOLTA PERFETTAMENTE SALDATO CON IL SECCO INCIPIT DI MARCO, PRIMO EVANGELISTA. NEI VANGELI NON SONO PROCLAMATI ASPETTI DIVERSI DI UNA VICENDA, TUTTI PARLANO ESATTAMENTE DELLO STESSO EVENTO FONDANTE, POSTO ALLA BASE DELLA STORIA SALVIFICA DELL'UOMO, REALIZZATO UNA VOLTA E PER SEMPRE, PRIMA DEI TEMPI…

In principio era il Verbo Sergio Valzania nizio del vangelo di Gesù. Cristo, Figlio di Dio». Con queste parole si apre il vangelo di Marco, ritenuto il primo a essere stato redatto, anche se in seguito la tradizione lo ha posposto a quello di Matteo nel canone ufficiale. Subito dopo questo incipit viene introdotta la predicazione anticipatrice di Giovanni Battista. Delle circostanze relative alla nascita di Gesù non è detto niente. Il concetto fondamentale è pienamente espresso nella duplice affermazione «Cristo» e «Figlio di Dio». Il primo evangelista non ritiene si debba aggiungere nulla a questi concetti identitari per lui esaustivi. Maria e Giuseppe, l’annuncio, Betlemme sono persone, fatti e luoghi giudicati secondari per il racconto della salvezza rispetto alla predicazione, alla passione, morte e resurrezione del Cristo. Soprattutto gli ultimi due momenti costituiscono la parte centrale di questo primo vangelo, secondo gli studiosi del testo ne sono il nucleo originale, poi ampliato da aggiunte successive. La realtà abbacinante della discesa sulla terra del Figlio di Dio non ha bisogno di nessun dettaglio per venire affermata. Marco passa subito alla sua certificazione biblica, inserisce l’evento della discesa di Cristo sulla terra nel contesto dell’alleanza dell’uomo con Dio e presenta il passo di Isaia nel quale l’accadimento centrale della storia è anticipato attraverso la promessa dell’invio di un messaggero ad annunciarlo: Giovanni Battista. «Ecco io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada» (Is 40,3).

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Ben diverso è l’approccio di Matteo. Il suo vangelo si apre con la genealogia di Gesù, ragione questa per la quale è stato posto come primo nel canone. Essa parte da Abramo e si conclude con Giuseppe, padre terreno di Gesù stesso. Una lettura attenta del brano evidenzia l’importanza che in esso viene attribuita alla figura di re Davide. L’evangelista sottolinea come il numero delle generazioni non sia casuale. Da Abramo a Cristo ci sono tre gruppi di quattordici antenati, scanditi dalla presenza nella serie del grande re di Israele e dalla deportazione in Babilonia, acme e punto più basso della storia della discendenza ebraica, eventi anteposti persino all’esilio egiziano e alla liberazione da esso avvenuta sotto la guida di Mosè. A circondare la discendenza davidica troviamo la memoria di due figure femminili di grande rilievo. La prima di esse è Rut, la moabita, la straniera, alla quale è dedicato un intero libro della Bibbia, che viene ricordata come la nonna di Davide. Si tratta della seconda donna presente nella genealogia di Matteo, che non compare in quella analoga di Luca in 3,23-38. Attraverso di lei l’evangelista inserisce un elemento preciso di collegamento di sangue fra Davide, e quindi Gesù, e i popoli stranieri a Israele. Segnale del fatto che la salvezza annunciata non è un’esclusiva del popo-

lo ebraico. Due generazioni dopo Rut, Davide genera Salomone «da quella che era stata la moglie di Uria» (Mt 1,6), cioè Betsabea. Si ricorda qui la colpa più grave di Davide, l’aver mandato il fedele generale Uria a morire in battaglia per potersi impadronire di sua moglie, della quale si era innamorato e dalla quale aspettava un figlio, un peccato che aveva scatenato una grave crisi nei rapporti fra Dio e il suo prediletto. Eppure persino un atto tanto colpevole viene piegato dalla potenza del Signore e dalla sua misericordia fino a diventare parte del suo progetto di salvezza, dal quale quindi nessuno è escluso. L’aspetto più sorprendente della genealogia di Gesù con la quale inizia il vangelo di Matteo, replicato in quello di Luca, è il suo riferimento a Giuseppe, dato che il Cristo nasce da Maria senza che i genitori si siano conosciuti, circostanza ben presente in entrambi i vangeli. La sua è una paternità legale, non fisica, eppure la collocazione di Gesù nella discendenza di Abramo e in quella di Davide profetizzata nelle scritture dipende da lui, dalla sua accettazione del proprio ruolo nel progetto divino. L’importanza della figura di Giuseppe nella natalità di Gesù è subito confermata nel vangelo di Matteo dal racconto dell’annunciazione, che in questo testo è rivolta a lui e non alla Madonna, come sarà in Luca. È a Giuseppe che un angelo del Signore appare in sogno per avvertirlo del concepimento divino di Maria, che lui si preparava a ripudiare in segreto, dato che il figlio di cui era in attesa non era suo. Almeno non carnalmente. È ancora Isaia che viene chiamato a certificare la corrispondenza degli eventi che stanno accadendo con quelli annunciati dai profeti di Israele: «Ecco la vergine concepirà e darà alla luce un figlio» (Is 7,14). Il ruolo di Maria rimane come in ombra nel vangelo di Matteo, che dedica poche parole al parto e anche in questa occasione mette in evidenza la figura di Giuseppe: «ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù» (Mt 1,25). In questo modo la paternità di Giuseppe appare piena. Subito dopo Matteo passa a raccontare dell’arrivo dei Magi, della strage degli innocenti e della fuga in Egitto, episodi tutti che appartengono solo al suo vangelo.

Ben diversa la prospettiva che troviamo nel racconto di Luca, il cui vangelo ha un tono compiutamente mariano. Questo sembra dar credito all’ipotesi di una vita dell’evangelista in prossimità della Madonna, che al seguito di Giovanni sarebbe andata a vivere nei pressi di Efeso, in vicinanza dei luoghi nei quali si svolse la predicazione apostolica narrata proprio da Luca negli Atti degli Apostoli. Questa ricostruzione della biografia di Maria è così radicata nella tradizione cristiana che sul Monte Athos si conserva un’icona che la raffigura e viene attribuita, almeno

dalla devozione locale, proprio alla mano dell’evangelista. Nel pressi di Efeso si trova un piccolo edificio designato come Casa della Madonna, meta di pellegrinaggi interconfessionali, dato che alla Madonna è rivolto un culto devoto anche in ambito islamico. Le religioni del libro sono meno lontane di quanto si creda.

Nella narrazione della natalità fatta da Luca è la madre di Dio incarnato la protagonista, e non troviamo traccia di una comunicazione divina a Giuseppe. L’annunciazione è rivolta direttamente a Maria, in una scena che la pittura sacra ha riprodotto con continuità attraverso i secoli, mescolando arte e devozione nella realizzazione di capolavori assoluti. L’elenco degli artisti che si sono dedicati alla rappresentazione di quell’incontro decisivo è talmente grande che è difficile darne conto. Comprende il Beato Angelico e Leonardo da Vinci, Piero della Francesca e Giotto. Impressionante per la sua modernità è l’Apparita di Antonello da Messina, che si trova a Palermo, e ritrae solo la Madonna, quasi in primo piano, nell’atto di riceve-


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bolo si apre nel terzo vangelo la scena della nascita di Gesù a Betlemme, la cui localizzazione, indicata dalle profezie, è spiegata con la necessità di recarsi al luogo di origine familiare in occasione del censimento ordinato da Augusto. È solo nel racconto di Luca che troviamo gli elementi destinati a confluire nella tradizione del presepe, con il bimbo avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia mentre un coro angelico convoca per l’adorazione i pastori della zona lanciando l’invocazione «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14). Anche in questo vangelo mancano comunque il bue e l’asinello, presenze aggiunte nella pratica devozionale sotto la suggestione della nascita che avviene in una stalla. Quanto ai Magi, in Luca non compaiono e in Matteo, il solo a raccontare di loro, trovano Gesù in una normale casa, oikian in greco, tradotto in modo corretto in latino con domum. Subito dopo la narrazione della natalità, Luca si premura di raccontare che il bambino venne circonciso all’ottavo giorno dalla nascita, come già era avvenuto per Giovanni Battista, occasione nella quale suo padre Zaccaria aveva profetato annunciandogli il destino di precursore di Cristo: «andrai innanzi al Signore, preparandogli le strade» (Lc 1,76). Ai racconti della nascita terrena di Cristo, accennati in Matteo e dispiegati in Luca, segue cronologicamente la stesura del vangelo di Giovanni, che inquadra la vicenda in un contesto completamente diverso. I due testi precedenti avevano parlato della natalità di Gesù nelle vesti dell’incarnato, del Dio che si fa uomo, l’ultimo vangelo si apre invece con la dichiarazione della natura divina di Cristo, riprendendo l’ispirazione sulla quale si era basato Marco nel suo incipit. «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1,1). Giovanni apre il proprio vangelo con l’inizio dei tempi, che riprende il Berescith, l’«in principio» della Genesi, la prima parola della Bibbia, quella alla quale segue il racconto della creazione. Perché nella visione giovannea la nascita di Gesù non è interna alla storia dell’umanità, dato che egli preesiste alla creazione.Anzi, non si può neppure parlare di una sua nascita, dato che egli esisteva con il Padre, era consustanziale al Padre, prima di tutti tempi. «Tutto è stato fatto per mezzo di lui» (Gv 1,3) perciò la sua azione travalica la missione salvifica immediata, per costituire l’elemento fondante e necessario dell’intera creazione.

re l’annuncio. La scena dell’incontro e del dialogo fra la Madonna e l’angelo Gabriele è descritta con accurata tenerezza da Luca e non si svolge in sogno ma in piena consapevolezza. L’angelo apre il dialogo con un saluto destinato a diventare l’incipit della preghiera cristiana per eccellenza, insieme al Padre Nostro: «Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te» (Lc 1,28).

Il significato dell’incontro sta tanto nell’annuncio quanto nella disponibilità con la quale esso viene accolto. La salvezza richiede in ogni occasione la partecipazione dell’uomo al progetto divino, non è mai imposta, è offerta e nella sua occasione decisiva arriva attraverso l’accoglienza responsabile di Maria, che risponde alla chiamata «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). Solo dopo che queste parole sono state pronunciate la missione dell’angelo è compiuta, il patto fra Dio e l’uomo si è stretto. Questo è l’esempio più alto di quella che viene definita l’intercessione dei santi e non è diretta in modo principale all’ottenimento di piccoli aiuti

per la vita quotidiana e neppure di importanti grazie, per le quali pure capita di pregare, quanto al raggiungimento della salvezza attraverso un più stretto rapporto con la persona del Cristo. Nel momento decisivo della storia la Madonna intercede per tutta l’umanità attraverso l’accoglienza del dono di Dio.

Il racconto di Luca della nascita di Gesù non è lineare. Si inserisce in una vicenda più ampia, che comprende la gravidanza miracolosa di Elisabetta, la madre di Giovanni Battista, e l’incontro fra le due donne che culmina nel Magnificat, proclamato da Maria sulla traccia di una serie di annunci profetici della salvezza, che vanno da Isaia a Samuele, dalla Genesi ai Salmi per raccogliersi nella celebre sequenza che inizia «l’anima mia magnifica in Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore» (Lc 1 46-47). La conoscenza fra le famiglie di Giovanni Battista e di Gesù testimoniata in Luca ha indotto la realizzazione di moltissime opere pittoriche che li rappresentano insieme, ancora bambini. Dopo questo lungo pream-

Si tratta di un concetto sul quale il pensiero cristiano non ha dubbi, fin dalle sue origini. Era già stato affermato da Paolo in una delle sue lettere, i più antichi documenti del Nuovo Testamento, quella ai Colossesi dove troviamo affermato «tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui» (Col 1,16). Giovanni scrive con la consapevolezza della diffusione dei vangeli precedenti al suo e non intende contraddirli. Il suo scopo è piuttosto quello di allargare la ricchezza dei significati contenuti nella venuta di Cristo, nella sua predicazione e nel suo sacrificio; perciò si sforza di completarne l’intenzione, di creare una tensione concettuale in grado di avvicinare maggiormente i credenti al significato misterioso dell’incarnazione. In questo senso ogni natalità evangelica partecipa alla ricostruzione di un evento che trascende la capacità di comprensione umana, del quale possiamo conoscere alcuni aspetti, senza coglierlo nella sua interezza di significato. La nascita umana del Cristo, che porta in sé la sua accettazione della morte, biologicamente interna all’incarnazione in modo indipendente dalle sue forme, è il completamento di un progetto di amore insieme partecipe e donante che si trova al fondamento della creazione stessa. Nascita, morte e resurrezione di Gesù non si inseriscono in una storia umana che esiste anche altrove e in altri tempi, prima e dopo Cristo. L’incarnazione è alla base della creazione, è «in principio», solidale con il Berescith della Genesi, alla radice dell’esperienza cosmologica. Una verità che viene espressa in maniera figurativa nell’icona di Gesù Pantocrator, colui che sostenta nell’essere tutte le cose. Niente esiste al di là del Cristo e la natalità che celebriamo, misteriosamente identitaria con la Pasqua di resurrezione, è la nascita del mondo e dell’umanità. Per questo il racconto del Natale di Matteo e di Luca coincidono con l’inno di apertura di Giovanni, a sua volta perfettamente saldato con il secco incipit di Marco primo evangelista, non sono proclamati aspetti diversi di una vicenda, tutti i vangeli dicono esattamente dello stesso evento fondante, realizzato una volta e per sempre, prima dei tempi, posto alla base della storia salvifica dell’uomo, attraverso il contributo umile e decisivo di una giovane donna ebrea che risponde prontamente alla chiamata decisiva: «Eccomi».


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Scrooge, Jim & Ismaele di Roberto Mussapi o vedo, come allora, bambino. Il grande libro illustrato, copertina lucida sullo spesso cartone. Storie magnifiche per bambini. Riduzioni da capolavori. Così mi innamorai di Moby Dick, la lotta contro la balena bianca, e dell’Isola del Tesoro, l’avventura che spinge a salpare alla ricerca del segreto della vita, esistente, indicato anche da mappe. Ma sepolto, e bisogna saper leggere quelle mappe, partire. Che relazione tra quelle due mitiche avventure di mare e la storia del ricco avaro Scrooge, a Londra la vigilia di Natale? Perché due grandi vicende marine intrecciate nella mia psiche a quella di un ricco borghese nell’età aurorale della finanza e della City? Lo avrei capito trenta e più anni dopo, quando scrissi il Racconto di Natale, un libro di poesia (edito da Guanda, nel 1995) esplicitamente ispirato al lungo racconto di Charles Dickens. Imitatio, secondo l’accezione dei latini. Prendi un modello scrivi un’altra opera, tua, ispirata a quel modello, senza il quale non sarebbe stata concepita. Debito, tradizione, quella riconoscenza genetica che è alla base della poesia. In quegli anni scoprivo la ragione del mistero: mi occupavo di Melville e Stevenson, e scoprivo che Scrooge, il personaggio del racconto natalizio di Dickens, era un loro collega. Anche lui salpava, per un viaggio assoluto come quello per il Leviatano e l’Isola del Tesoro.

L

Esattamente come allora. Entra in scena in un pomeriggio nebbioso, giallo e buio, già sera: apri il libro e dalle prime righe appare la Londra ottocentesca caliginosa e opaca, popolata di una folla di fantasmi sciamanti per le strade. Entra in scena in una serata particolare, la vigilia di Natale. Ma per Ebeneezer

Scrooge quella data non significa altro che una fastidiosa occasione per difendersi da scocciatori, benefattori che chiedono offerte per i poveri, l’impiegato che bisogna lasciare a casa almeno il giorno di Natale, il nipote che immancabilmente gli si presenta per invitarlo alla cena con la famiglia, e che immancabilmente bisogna cacciare. Scrooge è solo, ricco, avaro, ha passato tutta la vita pensando al denaro, l’autore, Dickens allude chiaramente all’usura, inscindibile nella Londra vittoriana dal maneggio professionale del denaro. All’improvviso, quando quella sera di vigilia, mentre tutti sciamano festanti per le illuminate vie londinesi, dopo la solita cena rapida nella squallida taverna, si accinge ad aprire il portone di casa, vede riflesso sul batacchio il volto del suo socio Jacob Marley, morto sette anni prima. Terrorizzato non può sfuggire alla visita dello spettro, che gli narra della sua infelicità e della sua dannazione per avere vissuto come Scrooge, nell’esclusiva dedizione al danaro, rovinando tante persone. Gli annuncia la visita di tre fantasmi, che il vecchio avaro vorrebbe volentieri evitare. Ma non li eviterà, e tutti conosciamo la storia, divenuta leggendaria, della visita del fantasma dei Natali passati, quello del Natale presente e quello dei Natali futuri. Letteratura e cinema continuano a ispirarsi a questa favola straordinaria, di potente, attanagliante visionarietà e insieme di immediata popolarità. Scrooge non è precisamente un miracolato, poiché segue il primo spettro, vola con lui, e la stessa visione di se stesso bambino, dei lunghi giorni infelici, poi dei brevi momenti di felicità giovanile, lo spinge immediatamente alla compassione. Da quell’attimo di compassione per il povero se stesso, quel sentimento crescerà spontaneamente, riversandosi su tutti, poiché in quell’istante si bruciava l’io, perdendolo nella moltitudine dei volti e delle vite. Scrooge, di cui non possiamo dimenticare almeno la splendida versione animata di Walt Disney, diviene leggendario come i grandi navigatori nati nella sua stessa isola, come Jim, il ragazzo che salpa per l’Isola del Tesoro, perché come i grandi navigatori esce

libri

Una lettura inconsueta del capolavoro di Dickens

A destra, Charles Dickens Sotto, un’illustrazione dal suo celebre racconto “Canto di Natale”; una raffigurazione di “Moby Dick” di Herman Melville e la copertina di “L’Isola del Tesoro” di R.L. Stevenson

Che cosa c’entra il ricco avaro e misantropo di “Canto di Natale” con gli eroi che salpano per mare di Stevenson e Melville? Anche lui accetta di imbarcarsi in una traversata nel tempo e nello spazio, come spiega il poeta che lo ha fatto rivivere in versi italiani

dal proprio presente e salpa per orizzonti lontani. Non è più l’età dei navigatori, Scrooge non può essere uno di quegli uomini che, giovani e ardenti, vogliono partire per conoscere il mondo ignoto. Nella sua Londra di botteghe, fabbriche infernali, banchieri, mercanti, l’uomo può partire solo se qualcuno gli appare, nel sonno, e gli addita una rotta. Scrooge, recalcitrante, brontolone, diffidente, comunque la segue, e vola, e naviga nel mare cercato dai grandi capitani di velieri: nel nostro passato e nel sogno del futuro.

La scoperta è il presente: Scrooge si trasforma, la notte di Natale, non tanto per paura della dannazione, ma per il disperato rimpianto di non avere amato. La notte di Natale vede quindi la redenzione e la rinascita di Scrooge, che non è un eroe ma un uomo che ha saputo credere in ciò che gli è apparso in sogno, si è fidato dell’apparizione, ha saputo accettare ciò che vedeva, per quanto gli apparisse irreale. Come nella tragedia di Amleto, nella felice favola di Charles Dickens la verità giunge all’uomo dalla visione, dall’apparizione, dal sogno.

Credo che lo stupore che ancora oggi genera, all’improvviso, questa storia incantevole, sia lo stesso che colpì me, bambino: il miracolo della notte di Natale, certo, ma anche l’accettazione dello spirito come entità non ingannevole ma anzi buona, la fiducia nell’immateriale, e la vertigine del viaggio nel tempo e nello spazio. E l’accostamento che fece in me il bambino con i capolavori della letteratura di mare, che è essenzialmente metafisica. Oltre il mare c’è il mondo sconosciuto e l’anelito che ci spinge a imbarcarci, come dice Ismaele in Moby Dick, è l’archetipica attrazione verso l’acqua e il mistero della vita. Se qualcuno oggi, come me allora, nell’età di mezzo tra l’infanzia e la poesia, dura età purgatoriale, si domandasse che c’entra il ricco avaro e misantropo Ebeneezer Scrooge, nella sua Londra bancaria e usuraia, in pieno Ottocento, con gli eroi che salpano per mare, spero ora comprenda che non solo c’entra, ma è il loro erede: l’età delle scoperte e della pirateria, e dei tesori sepolti, e delle baleniere, è finita. Il mondo è borghese, non sogna isole del tesoro ma già presogna squallide e laide isole dei famosi. Scrooge è già nostro contemporaneo, direbbe il cronista. Ma è anche un nostro antenato, vivo in noi come lo sono l’origine e l’eredità, risponderebbe il poeta che lo ha rimesso in scena e fatto rivivere in versi italiani. La finanza, la banca, l’usura. Ma poi il sogno, lo spirito. L’uomo che si riscopre antico come ai tempi di Platone e Shakespeare, quando si credeva al sogno. Quando non era degradato a oroscopo, scommessa, lotto abusivo o di Stato, investimento finanziario. Quando adombrava un altro reame. Che, Scrooge comprese, era la sua vita, il suo passato il suo presente e il suo futuro che, nel presente, si stava rigenerando. In una notte di vigilia di Natale, tre spiriti. E l’uomo che pareva per sempre, e noiosamente perduto, che li guardò nella loro luce e disse: «Sì».


tv

video

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o chiamano disinvoltamente «il 36». Sta per Quai des Orfévres, numero 36, la mitica sede della polizia di Parigi. È di casa chi ha letto e riletto i romanzi di Simenon. È questo il perno della serie poliziesca, venata da tonalità noir, intitolata Flics (Fox Crime, lunedì sera) che in francese significa sbirri. Aria fortemente parigina. Strade notturne appena bagnate dalla pioggia, un accendersi di sigaretta dietro l’altro, aria da duri, un comandante vestito come Serpico, dal cognome non proprio di marca francese, Jachivili detto Jach (il nome: Victor), un agente di pelle scura che rimarrà ferito e poi coccolato dai colleghi, inseguimenti, spari, colluttazioni, pacche sulle spalle, uno strisciante bullismo da adulti che «sono la legge», il braccio armato, anzi armatissimo, della legge, intercettazioni sofisticate, appostamenti, inevitabili imprevisti per rendere meno scontate le azioni. La serie è inventata da Olivier Marchal, ex-poli-

L

ziotto, attore e regista che dopo aver scelto di cambiar vita e dedicarsi al cinema e alla televisione non ha mai però dimenticato i numerosi anni di servizio. Parigi è città multietnica e lo si vede anche negli apparati dello Stato. Che i malviventi, brutalissimi, siano ucraini e albanesi non è quindi un pregiudizio. È senza dubbio una realtà, che non desta scandalo a raccontarla visto che le etnie sono di qui e di là, sono buone e cattive. Protagonisti del-

web

Flics Ritorno all’azione di Pier Mario Fasanotti la storia due ufficiali di polizia con due modi diversi di vedere e vivere la professione, due uomini caratterialmente molto diversi: Victor Yachvili e Boris Constantin. Un tempo amici inseparabili, ora a capo di due diversi dipartimenti e in conflitto perenne per episodi del passato. La sezione affari interni, immancabile in ogni buon serial poliziesco, cerca di far luce su versioni diverse, su interferenze e su pericolose rivalità di uomini che dovrebbero essere sempre dalla stessa parte, e anche obbedienti alle formalità gerarchiche. Ma la storia narrata punta su questa tensione, che fa da volano a indagini sullo sfruttamento di donne dell’Est europeo da parte di ucraini in combutta con la mafia albanese. Christine è una delle vittime: si affida alla polizia ed elenca alcuni nomi. Il nemico pubblico ha finalmente un nome: Vladimir, già noto in Russia per la sua violenza, la sua perizia con gli esplosivi e perché ritenuto psicopatico. Follia e delinquenza: binomio classico del noir duro. Il ritmo di Flics è serratissimo, si sta incollati al video. Non importa se ci sono parecchi stereotipi. Per esempio: Jach, barbuto e fumatore accanito, con occhi fiammeggianti alla Al Pacino, ha una vita da lupo solitario, si apposta di sera sotto una casa e saluta quella che a prima vista pare la sua fidanzata, in realtà è sua figlia dalla quale è tenuto lontano, dopo il divorzio, da una sentenza del Tribunale. Non ha una vita privata. Sembra addirittura un borderline come gli uomini cattivi cui dà la caccia,

giorno e notte. Nel lavoro è refrattario alle regole, fa di testa sua, i suoi uomini lo seguono con abnegazione. Boris è il suo esatto contrario, uno ligio al lavoro, ordinato, restio a infrangere le regole, un uomo dilaniato dal dolore e dai sensi di colpa dopo aver perso la moglie in un incidente stradale quando erano separati di fatto. Una concessione alla modernità è una donna a capo dell’anticrimine, Léa Legrand, bene interpretata dall’attrice Catherine Marchal, moglie del regista ed ex protagonista del lungometraggio (ad alta tensione) L’ultima missione. A complicare la vicenda c’è l’inserimento nelle due squadre di giovani reclute da istruire e il passato che sembra aleggiare perennemente nell’aria sulle loro teste e coinvolgerli in una spirale di sangue, dannazione e morte dalla quale in pochi riusciranno a salvarsi. La rivalità tra Yach e Constantine sembra insuperabile, ma giustizia deve trionfare e l’unico modo per raggiungere l’obiettivo sarà affrontare

insieme le origini dell’odio che li divide. Tutti gli attori, già vicino al regista Luc Besson, recitano in modo credibilissimo. Spunta anche l’amore. Ma la tragedia dei giorni non può ritrarlo se non come tenerezza e corteggiamento. Un po’stanchi dei serial dove a fare da protagonisti sono la scienza forense, il laboratorio analisi, la comparazione dei dati, Flics ci restituisce la voglia di seguire gli uomini in azione (le donne non sono da meno, ovviamente).

games

dvd

LA GAIA SCIENZA DEL WEB VELOCE

ALLA RISCOPERTA DI DIVINITY

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i chiamano Dns e spesso ci si presentano come complicati geroglifici che presiedono per qualche oscuro motivo alle nostre connessioni internet. Si tratta in realtà di Domain Name System, sistemi usati dagli host che regolano l’accesso alla rete dei indirizzi Ip. E che possono essere variati, in base alla loro funzionalità, grazie a Namebench, un utile applicativo che in soldo-

A

sette anni dal primo eclatante episodio, arriva in console l’atteso sequel di Divine Divinity, che riporta il giocatore nel magico mondo di Rivellon. Tra incantesimi, mali originari, verità disvelate e pericolose leggende tutte da interpretare, il titolo ripresenta il mix di suspense e sorpresa che ha fatto le fortune del predecessore. Supportato da una totale esplorabilità e da una

«Q

“Namebench” è un applicativo che esamina i Dns e consente di trovare quelli più efficaci

Il secondo capitolo dell’action game nato nel 2002 regala un mix di suspense e sorpresa

Maria Arita Howard ripercorre i primi dodici mesi del presidente Usa. Tra luci e ombre

ni, ci consente di adottare la migliore connessione disponibile per il nostro pc. Basta scaricarlo e installarlo, lasciarlo elaborare per una decina di minuti, e valutare i risultati prodotti. Il programma fornisce inoltre le istruzioni che consentono di lavorare sotto la configurazione più efficace e ottenere quindi il massimo della velocità dal nostro abbonamento web. Gratuito e corredato da grafici piuttosto facili da interpretare, Namebench è un’ottima risorsa per quanti sono insoddisfatti della propria connessione, e mirano ad avere il miglior risultato possibile su una base scientifica capace di disambiguare la mitologia pubblicitaria.

trama non lineare capace di variare finalità e funzioni della storia sulla base delle scelte personali, il secondo capitolo di Divinity è scandito da una doppia fase. La prima, aderente ai canoni tradizionali dell’action, e la seconda che invece spiazza tutti e riserva esiti imprevedibili. Popolato di una fitta serie di sottotrame, personaggi e possibilità interattive molteplici, il gioco appassiona nonostante una grafica non del tutto omogenea nei risultati. Sono invece sempre all’altezza colonna sonora e dialoghi. Una ventina di piacevoli ore di gioco per accompagnare le feste.

un paese». È passato quasi un anno da quel 10 gennaio 2008 che vide Barack Obama lanciare la campagna elettorale nel New Hampshire. E immancabile, arriva un documentario che ne indaga l’attività presidenziale alla luce dei primi dodici mesi del suo mandato: Barack Obama - L’uomo e il suo viaggio, per la regia di Maria Arita Howard. Il conflitto in Medio Oriente, l’attivismo contro il global warming, la difficile risposta a una recessione economica senza precedenti, le inevitabili polemiche sul suo mandato, specie in riferimento alla riforma sanitaria. Lavoro ricco di opinioni influenti e immagini d’archivio, si distingue per equilibrio e ricchezza di spunti.

a cura di Francesco Lo Dico

OBAMA UN ANNO DOPO uando abbiamo superato delle prove apparentemente insuperabili; quando ci hanno detto che non eravamo pronti o che non dovevamo provare o che non potevamo, generazioni di americani hanno risposto con una semplice frase che riassume lo spirito di un popolo. Sì, noi possiamo. Questa frase era scritta nei documenti fondatori che dichiaravano il destino di


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poesia

La natività secondo Vittoria di Francesco Napoli l XVI secolo italiano vide fiorire un gran numero di poeti, molto lontani tra loro per origine e formazione però tutti indistintamente iscritti nel solco del petrarchismo. Ma c’è una novità assoluta rispetto la letteratura dei secoli precedenti: nel novero dei tanti autori rinascimentali prende corpo un cospicuo gruppo di presenze femminili equamente distribuite sull’intero territorio nazionale. Dalle città padane (Veronica Gambara) a Napoli (Isabella di Morra), dalla Roma papalina (Tullia d’Aragona) alla Firenze medicea (Laura Battiferri) fino alla Repubblica di Venezia (Gaspara Stampa), l’opera poetica al femminile si rivelò un po’ ovunque. Si potrebbe allora perfino provare a definire una top ten di uno dei fenomeni forse più interessanti della nostra storia letteraria caratterizzato prevalentemente da una produzione di versi di argomento amoroso, ma anche di ispirazione religiosa, brevi madrigali, sonetti o canzoni più complesse, rime talora intime, talora più appassionate, ma sempre di squisita, femminile sensibilità. In questa sorta di hit parade certamente ai vertici si può collocare Vittoria Colonna (1490-1547).

I

Qui non è a loco umil, né le pietose braccia de la gran Madre, né i pastori, né del pietoso vecchio i dolci amori, né l’angeliche voci alte e gioiose, né dei re sapienti le pompose offerte, fatte con soavi ardori, ma ci sei Tu, che Te medesmo onori, Signor, cagion di tutte l'altre cose. So che quel vero che nascesti Dio sei qui, né invidio altrui, ma ben pietade ho sol di me, non ch’io giungessi tardo; non è il tempo infelice, ma son io misera, che per fede ancor non ardo come essi per vederTi in quella etade.

Vittoria Colonna (dalle Rime)

Nobildonna di una delle famiglie più ricche e influenti della Roma dei tempi, Vittoria Colonna fu promessa sposa a soli quattro anni di Francesco Ferrante D’Avalos, marchese di Pescara e potente rampollo nella Napoli aragonese. Il matrimonio fastoso si tenne a Ischia, dove i D’Avalos risiedevano, il 27 dicembre 1509 alla presenza dei maggiorenti e soprattutto di alcuni letterati di spicco dell’Arcadia napoletana come Iacopo Sannazzaro. Seppure nato come matrimonio d’interesse, quella tra Vittoria e Ferrante resta una delle più appassionanti vicende d’amore di ogni tempo. Il loro è stato un sentimento vero e forte così come fu autenticamente struggente il dolore che colpì Vittoria non appena il consorte, valoroso capitano delle truppe di Carlo V, ferito gravemente in battaglia, morì prematuramente nel 1525 mentre la moglie cercava di raggiungerlo. Distrutta, Vittoria voleva rinchiudersi in convento ma la dissuasero il papa Clemente VII e l’amato fratello Ascanio. La donna sublimò allora il dolore di quella perdita con la poesia alla quale si dedicò con intensa passione e quando il suo nome era divenuto ormai noto in tutta Italia nella sua residenza ischitana aveva da tempo saputo costruire attorno a sé un’autentica corte letteraria, un cenacolo tra i più fiorenti dell’epoca. Questi anni la videro dunque musa di un circolo di intellettuali e letterati umanisti (Bernardo Tasso, padre di Torquato, Luigi Tansillo, Galeazzo di Tarsia, Girolamo Britonio, Capanio, Cariteo, Sannazaro) e le ispirarono rime amorose e spirituali composte per lo più in seguito alla morte dello sposo. Vittoria Colonna era entrata in contatto non solo con i letterati

della cerchia napoletana ma dall’Italia intera si rivolgevano a lei chiedendo pareri sulle proprie opere. Come Baldassarre Castiglione, ad esempio, che sottopose alla sua attenzione il Cortegiano o Pietro Bembo che sulle rime di Vittoria Colonna si sbilanciò fino a dire che erano «sì soavi e sì conteste,/ ch’a la futura età solinghe andranno,/ e schernir ansi del millesim’anno» e l’Ariosto giunse ad affermare ch’ella si è fatta immortale «col dolce stil di che il miglior non odo». La morte del marito la condusse a dividere la sua esistenza tra Napoli, Ischia e il patrio ostello romano dove, nel 1536, ebbe modo di conoscere Michelangelo Buonarroti. Nacque tra loro un’intesa spirituale e letteraria fortissima con Michelangelo avvinto da grande ammirazione nei suoi confronti. Per lei, infatti, eseguì diversi disegni di soggetto religioso, le regalò una Crocefissione che Vittoria portava con sé ovunque fosse e le dedicò varie rime, tra cui un famoso madrigale. Ed è altrettanto certo che proprio la relazione con Vittoria Colonna portò l’artista toscano ad approfondire la propria fede. «Un uomo in una donna, anzi uno dio,/ per la sua bocca parla,/ ond’io per ascoltarla/ son fatto tal, che ma’ più sarò mio./ I’ credo ben, po’ ch’io/ a me da lei fu’ tolto,/ fuor di me stesso aver di me pietate;/ sì sopra ‘l van desìo/ mi sprona il suo bel volto,/ ch’io veggio morte in ogni altra beltate./ O donna che passate/ per acque e foco l’alme/ a’ liei giorni,/ fate c’a me stesso più non torni» intonò per lei il maestro della Cappella Sistina in un famoso madrigale.

Nel 1538, seppur non autorizzata, uscì a Parma un’edizione delle sue poesie, «la prima raccolta a stampa apparsa in Italia di rime d’una donna» (Dionisotti), un nucleo originario di un corpus che a oggi conta oltre 400 componimenti dove le rime religiose sono prevalenti e delle quali fa parte il sonetto qui riportato dove si canta la natività del Signore. Tanto queste rime di carattere spirituale quanto le numerose dedicate alla memoria del marito mostrano sempre uno stile controllato e sostenuto, animato da un senso di severa dignità. Il modello del petrarchismo di Pietro Bembo viene come rafforzato da un rigoroso impegno di «virtù» e di fedeltà che sembra voler procedere, quasi elevato da uno sforzo di pura volontà, oltre i limiti dell’umano. Scrisse bene Giovanni Macchia in un articolo del lontano 1937 quando si occupò di quattro poetesse del Cinquecento, tra le quali proprio Vittoria Colonna. Il critico mise a confronto in particolare l’opera di Gaspara Stampa con quella della Colonna cogliendo da par suo come «all’amore ideale-sensuale di Gaspara si sostituisce in Vittoria Colonna l’amore e l’affetto per un nobile uomo morto, amore che è diventato idea e passione intellettuale, e all’amarezza e al dolore viene, soccorritrice e ferma, la fede».


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il club di calliope

UN POPOLO DI POETI Perché ti vedo in alto ma pure in basso ti vedo nudo e offeso ti vedo addobbato per il Natale ti sento triste come un adulto freddo e fragile come un uomo ma tu sei il solo che può darci la luce Gesù.

DICEMBRE Torna a turbare di questo mese la congiuntura dei silenzi rappresa in un grumo di buio.

Bianca Argilli

Nella strada da fare incontro spaesate attese, dagli altri separazioni.

Ti ritrovo al buio Come ci fosse uno specchio Come ci fosse una luce celeste Come se non fosse Aperto il baratro che congiunge Solo chi non ha una vicinanza Che è lontananza.

Dicembre, mese senile, quasi volgesse alla fine, più non parlasse, in un’accidia, il tempo del rigoglio della natura.

Franco Straini

Stagione che mi frughi e riguardi al passare di ogni passato.

Quando il cielo del mattino Volge il grigio di questa stagione Mi reco nella stanza del vento e guardo L'immenso del mio antico velo Guardo la stella della piana sul mare Penso a quanto siamo caldi nella voglia Che conduce al respiro, penso a quanto tempo Siamo costretti agli arresti.

Là dove in quella cosa che è la vita, ancora vita, tra quanto è mutato ed un filo spezzato spero.

Teresa di Donno «Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma

Giovanni Piccioni

indimenticabile Roberto Sanesi, uno dei maggiori poeti europei contemporanei e impareggiabile traduttore di Eliot, ha lavorato sulla rovine della parola costruendo intorno a essa un’esperienza assoluta. Sempre attento alla cronaca e alla Storia, Sanesi indaga il feroce equilibrio su un interno scenico dove la realtà è rappresentata nelle sue imperfezioni. Possiamo adesso riscoprire la sua fede nella capacità della parola leggendo Dieci poemetti (Edizioni La Vita Felice, 217 pagine, 18,00 euro). Si tratta di testi scritti tra il 1962 il 1980 che documentano la capacità incendiaria della poesia di Sanesi. Un lavoro progressivo in cui appare tutta la corporeità di un linguaggio che, nello stile e nel contenuto, non lascia nulla d’intentato. Giacinto Spagnoletti nella Storia della letteratura italiana del Novecento, parla di Sanesi come «un poeta emozionale, anzi, addirittura senza eguali per il modo in cui ricordi, sensazioni, tumulti interiori nella sua voce non si decantano mai, ribol-

L’

LA TERRA DESOLATA DI ROBERTO SANESI in libreria

di Nicola Vacca lono con un pathos continuo che è la materia chimerica, l’ansia morale dello scrittore». Nei Dieci poemetti troviamo questo Sanesi, insieme al poeta che scopre un linguaggio nuovo per interpellare le cose. «Come dire - scrive Vincenzo Guarracino nella prefazione - che l’esistenza della pa-

detto non appartiene all’io, bensì all’intera civiltà, al punto estremo della sua esperienza drammatica. Una poesia fatta di materia, e allo stesso tempo corale, nella quale si consumano gli strappi con il divenire e i suoi tragici mutamenti della e nella Storia. Sanesi apre il fuoco nella

In “Dieci poemetti” la cartografia di un mondo che sta perdendo la sua anima nella decadenza di una lingua orfana di ogni senso. Un paesaggio che rimanda a Eliot rola, non meno quella della formacolore, si pronunciano nello spazio di uno sfregio, di un’irritazione, che ricompone nell’atto della sua fluida e transitoria sparizione, nell’atto della catacresi di un’immagine come nell’addensarsi e dissolversi…». Tra elegia e prosa, in questi poemetti, si entra nel laboratorio magmatico di Roberto Sanesi dove si logora e si rigenera la sua arte, spogliata di ogni valenza autobiografica e la verità del

consapevolezza di scardinare il tramonto delle idee, e smascherare la realtà con le sue finzioni. «Acqua. Fuoco./ Un crepuscolo/ idiota, non c’è dubbio./ Sfumato con un fiammifero acceso sotto il mento/ rossiccio, puoi anche estendere un cenno/ funebre nell’immobile ritratto/ di questo tuo terrore pastorale./ Non facciamo che/ costruire rovine». Nei poemetti troviamo Roberto Sanesi, poeta di rottura, che disegna con le

parole giuste la cartografia di un mondo che sta perdendo la sua anima nella decadenza di una lingua orfana di ogni senso. «Nel tutto,/ molti di noi rispondono vivendo/ a tutto ciò che viene nominato, e ancora/ meglio rispondono al silenzio in cui/ ciò che non è indicato si nasconde, e ancora/ meglio rispondono alla stessa morte». Sanesi, così in Rapporto informativo, uno dei poemetti raccolti nel volume, mette a dura prova la parola poetica costringendola a evocare il vuoto della materia gremito di presenze. Non manca in questa rappresentazione la contemplazione del paesaggio, che somiglia tanto alla terra desolata raccontata dal suo amato Eliot. Il poeta scava nelle tenebre, senza mai dimenticare di nominare la realtà, informando il mondo che bisogna pensare un nuovo ordine, ricominciare da capo. Di fronte all’incertezza del suo tempo, Sanesi affida alla poesia un compito alto: avvertire che «il dialogo è l’unica risposta». Ancora oggi questa è la strada da percorrere per ritrovare un’anima nell’indifferenza in cui viviamo.


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mostre

er chi è rimasto, e giustamente, un po’ deluso, da questo prevedibile bailamme incontrollato di rassegne centenarie sul Futurismo, che in realtà non hanno fatto alcun punto ragionevole sul movimento, e si son soltanto irragionevolmente strappate i pochi capolavori e le scarse idee regionalistiche (raffazzonate le rassegne lombarde o bolognesi), e nella convinzione che molte di queste kermesse improvvisate sian servite come rischioso salvacondotto per far penetrare in prestigiose Fondazioni e accigliate Istituzioni dei potenziali falsi od opere più che dubbie… ebbene una certa qual nicchia intrigante se la sono invece ritagliata alcune mostre interessanti, dedicate a un’arte meno arata e sfruttata, come quella della fotografia futurista. Cui, come è noto, il sospettoso Marinetti, un po’ pre-corso dalla fotodinamica di fronda dei fratelli Bragaglia, che non incontrò subito il suo incondizionato favore, e più sensibile invece ai «drammi d’ombra» e ai «camuffamenti d’oggetti» di un «secondo» futurista e aeropittore quale Tato, dedicò negli anni Trenta un dettagliato manifesto. Che di Tato porta anche la con-firma e tutta la sua dottrina sperimentale. Per esempio una singolare e stimolante mostra a Napoli, all’Istituto Suor Orsola Benincasa, che già di per sé è un luogo magico e piranesiano, tramato di scalette, trabocchetti labirintici, patii arabeggianti e segreti, poco futurista nella sostanza, ma molto misterioso e intrigante (ricordate Che di Polanski?). Del resto, anche a guardarlo così, di primo sguardo, uno dei due protagonisti di questa mostra duale, Giulio Parisio, classe 1891, la prima impressione, tra quelle monachine d’origami e quegli spazi claustrali ricostruiti col cartone, risulta quella d’un voltatore del crepuscolarismo in depurate forme astratte di chiesastico bianco e nero, o grigio fumé, tra mistiche arcate bach-caselliane e un accorer muto e pigolante (all’occhio) di replicate suor angeliche, o di depurato narratore di favole architettoniche, para-littorie. In realtà Parisio, temprato soldatino ventenne, arriva agli scatti ufficiali per ordine militare, con funzione strategica nei servizi di rilevamento fotografico, ma ha modo di dimostrare il suo duttile talento, anche estetico, con una campagna di documentazione delle «vestigia di italianità esistenti in Dalmazia». E rimarrà un ottimo «documentatore» d’originali ed eccentriche inquadrature d’architettura (nello stile Pagano-Casabella) soprattutto per quel felice periodo di trasformazione, in cui Napoli si apre alle lusinghe

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Parisio e Roehrssen futuristi a Napoli di Marco Vallora

arti

del razionalismo europeo (basterebbe pensare al sublime risultato del Palazzo delle Poste diVaccaro, magnificamente immortalato dal nostro Parisio, tra altri esperimenti di montaggio a collage di fantasie urbanistiche, a mezzo tra Umbo e Heartfield). C’è molto di Bauhaus, in Parasio, più che non di vero futurismo dinamico, lui che tratta molto volentieri le ombre verticalizzate stile Moholy-Nagy e soprattutto lavora con le coordinate struttural-architettoniche, che si fanno fabula, racconto. Dunque più eternizzazione teatralizzata delle forme e delle ombre, che non simultaneità in movimento delle tracce cronofotografiche, alla Bragaglia-Boccioni. E nemmeno mai visionarierà surrealeggiante, alla Wanda Wulz. Il suo punto di contatto parrebbe piuttoso con i successivi Giuseppe Cavalli e il gruppo della Bussola: appunto, metafisica drammatizzazione di puri oggetti. Soprattutto pubblicitari. (Si pensi alla sua campagna per i pelati Cirio o per il liquore Strega, che non proietta già ombre di premi, ma temibili ectoplasmi di fasci littori. La commistione con il fascismo è inevitabile, anche se il nome Dux si svapora in un’evoluzione grafico-aerea di nuvolaglie programmate). Ma certo, nella sua biografia di giovane entusiasta, conta molto lo sbarco di Marinetti a Napoli, con tutte le conseguenze ben note, del «piedigrottismo» di Cangiullo & C. E nello stesso Parisio c’è un vasto momento di pittorialismo floupartenopeo, così come di ritrattismo alto-borghese, alla Luxardo (a proposito si segnala a Roma una divertente mostra, alla Galleria Carlo Virgilio, di scatti d’epoca boldiniana: tra dive dei telefoni bianchi e nobildonne altolocate). Certo Parisio dev’esser fatto della stessa sostanza, ironica e post-crepuscolare, di Palazzeschi e Marino Moretti, a guardare quegli scorci Rio-Bò e quelle sagome di carta lavorata, che anticipano i pupazzi-carosello di Armando Testa (anche se intelligentemente la curatrice Silvia Zoppi riesce a trovare nel Marinetti degli Indomabili un punto di convergenza con questo liliare purismo volatile). Di ben altra tempra, il compagno di strada Guglielmo Roehrssen, che tenta una sua scultura di gesti rappresi e di verbi materializzati (sciare, suonare, correre in motocicletta) molto più vicino alle forme intabarrate ed elastiche d’un Di Bosso o di Thayat che non di Boccioni.Tensione autonoma del futurismo napoletano, intensamente sviscerato da Stefano Causa.

Corrente del golfo, Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa, fino a fine dicembre

diario culinario

Quel sorbir d’agnoli assaporando il Natale di Francesco Capozza na premessa. Nei nostri viaggi, che siano di lavoro o di puro piacere, cerchiamo sempre la corrispondenza tra il nome e la cosa, il prezzo e il valore, l’intenzione e il risultato. Preferiamo un’onesta trattoria che fa bene quei tre o quattro piatti della tradizione locale al ristorante furbo che in nome di una pseudo-innovazione ne fa male venti (nei rari casi in cui c’è vera innovazione, tanto di cappello, invece). Non abbiamo la pazienza né l’interesse per carte dei vini pesanti come messali, tanto non ci basterebbero due vite per provare tutte le etichette di certe cantine-museo. Se dev’essere lusso, preferiamo quello che si tocca e che si vede (tovaglie, bicchieri, specchi, design…) rispetto a quello che giace imbottigliato e ingodibile nei sotterranei. Ecco perché, capitando due

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giorni a Parma per una lisergica convention di partito, abbiamo deciso di assecondare da un lato l’occhio e il tatto - cenando nel rinomato ristorante Parizzi - dall’altro la gola, visitando l’indomani a pranzo l’Osteria del Tribunale. Da Parizzi arriviamo, bisogna essere onesti, spossati dal lungo viaggio in macchina, da tre ore di discorsi politici e dall’amara sorpresa riservataci dall’albergo (di cui non faremo il nome per carità di patria) che si fregia di avere 5 stelle ma che poi ci stipa in una cameretta dalle dimensioni risibili dove la moquette ricopre ogni centimetro (pochi, a dire il vero) dello spazio vitale. Quindi, purtroppo, non proprio ben disposti. Appena varcata la soglia, invece, ci torna il sorriso. Eleganza declinata assieme a un moderno design (tutto italiano, vivaddio) e sorrisi veri, non quelli alla joker che poi quando ti giri ti mandano a quel paese.

Ma questa è un’altra storia, l’accoglienza padana ed emiliana in questo caso meriterebbero un capitolo a parte. Torniamo a Parizzi. Appena seduti in un confortevole tavolo apparecchiato con gran gusto, ecco subito arrivare grissini e pani caldi. Ottimo inizio. All’enciclopedia enoica che ci viene presentata preferiamo un vino locale e quindi ecco subito un fragrante Gutturnio dei colli di Parma fare alla bisogna. Poi, però, i piatti ci fanno calare l’entusiasmo: petto d’anatra con purea di finocchi (fredda) e puntarelle glassate; costolette di maialino allo spiedo con tortino di patate e salsa alle spezie (ma le spezie??); spiedino di stracotto con polenta fritta. Quest’ultimo, lo spiedino, invece, ottimo. Un’esperienza tutto sommato piacevole, nonostante si lascino sul tavolo 180 euro per due antipasti e due secondi, con un vino locale nel bicchiere. Molto meglio, invece, ci è andata l’indo-

mani a pranzo (e non solo per il prezzo, 53 euro in due), all’Osteria del Tribunale. Già all’ingresso del locale, dove i mille salumi e prosciutti appesi incontrano a pochi passi l’antica affettatrice, ci viene regalata l’emozione di essere tornati indietro nel tempo. E così è, infatti: scaglie di Parmigiano in varie stagionature, Culatello e prosciutto da svenimento accompagnate dal classico gnocco fritto. Poi il sorbir d’agnoli in brodo (la versione parmigiana dei tortellini) con una goccia di Lambrusco e un’ottima pannacotta fatta in casa. Lasciamo di lì a poco queste terre, consapevoli che qui sta la civiltà (e non solo dello stare a tavola) mentre noi torniamo verso la barbarie capitolina.

Parizzi, Strada Repubblica 71, 43100 Parma, tel. 0521 285952; Osteria del Tribunale,Vicolo Politi 5, 43100 Parma, tel. 0521 285527


MobyDICK

19 dicembre 2009 • pagina 15

moda

Parola d’ordine: andare sul velluto… di Roselina Salemi na delle correlazioni che il Financial Time non ha ancora stabilito è quella fra la crisi e il velluto. Se le borchie punk sono legate a periodi di relativo benessere, il velluto è sempre stato di moda, dopo il crack del 1929, durante la seconda guerra mondiale, nel lungo inverno del risparmio energetico, quando si andava a targhe alterne, come in quello seguito all’attentato alle Due Torri e in questo, tristanzuolo, nonostante il mantra sul «peggio che è passato».

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A insegnarci che il velluto fa sempre la sua figura è anche Rossella O’Hara, che trasforma in un abito elegante (da appuntamento con lo scapolo d’oro), le tende di casa, nappe comprese, e se lo ha fatto lei, figuriamoci noi. Così l’inverno del nostro scontento ha le sue morbidezze unisex: Santoni e Arfango hanno lanciato come must have scarpe da uomo in velluto quasi lucente per Capodanno, mentre Roger Vivier ha creato Queenie, una ballerina ispirata alla collezione del ’53 per l’incoronazione della regina Elisabetta II. Prada ha messo le sue borse vellutate nella campagna pubblicitaria, da D&G amano

architettura

molto una tracollina trapuntata con perline colorate e una nappa (da tenda, appunto), e un po’ tutti hanno rifatto le clutch colorate con decorazioni di strass. Quanto ai vestiti, non tutte potranno avere l’abito di velluto firmato di Dior che illuminava la già splendente Charlize The-

ron sulla copertina di Vogue. Ma ci sono ovunque giacche con le spalle appuntite (Ferrè) o (Voile morbide Blanche) e corpini (Prada). E c’è chi, con soddisfazione, tira fuori dall’armadio lo storico kimono di Armani, bordato di raso, che sembra disegnato apposta per questa fine decennio. Citazioni storiche a parte, ritratti rinascimentali con giovin signori ricoperti i gioielli, adagiati su troni, panche e cuscini, il rilancio del velluto era già cominciato con le giacche maschili e gli abiti interi disegnati da Tom Ford per Gucci. A Tom piaceva il velluto liscio, molto chic, forse troppo elegante, ma così dolce. E non era il solo. A una sfilata, Valentino ha osato uno smoking di velluto rosso, da diavoletto, che nessuna star aveva osato indossare. Dolce&Gabbana, nella collezione Napoleon-style, hanno inventa-

to divise con bottoni d’oro e borsine colorate di ogni dimensione con le foglie della corona imperiale ricamate sopra. C’è poi stata la tentazione del velluto lavorato, genere veneziano, imprimé, devorè, stampato, operato, sempre cacciata dai profeti del minimalismo. E oggi che al minimalismo ci siamo costretti e l’industria del lusso di massa esce un po’ ammaccata dallo tsunami economico, un uomo Ferragamo, con giacca e gilet di velluto, o uno sportivone di Emporio Armani con un morbido giubbotto color cacao rievoca la ricchezza evaporata e il piacere del tatto. Mentre comincia il conto alla rovescia, ultimi giorni, ultime ore di questo 2009, e si cercano ostinatamente ragioni serie per festeggiare, la parola d’ordine è una sola: andare sul velluto. Sperando di riuscirci, poi, anche nella vita. Magari l’anno prossimo.

Da Boboli a Ostia, i versanti nascosti del giardino di Claudia Conforti l giardino è luogo simbolico per eccellenza: dal mito biblico dell’Eden, che accoglie la creazione dell’uomo, ai giardini pagani delle Esperidi, dove maturano i pomi d’oro, e di Elicona dove abitano le Muse fedeli ad Apollo. Metafora dell’armonia tra uomo e natura, nel giardino la bellezza fiorisce senza sforzo e lo spirito dialoga senza contrasti con i sensi; in esso si esercita il governo dell’uomo sul creato e la natura si nutre delle spoglie di chi non è più, rinnovandone memoria e presenza. Ma chiunque abbia un giardino, fosse pure un fazzoletto di terra, sa bene quante cure e fatiche incessanti nasconda quell’ordinata bellezza di geometria di colori e di profumi, che allieta ed eleva lo spirito. Se dunque i giardini rinascimentali, barocchi e romantici, materializzano i simboli e le metafore della tradizione classica e cristiana, la loro conservazione è frutto di un tenace, costante e paziente lavoro che mette in campo la chimica, la fisica e la meccanica, oltre che la geometria e la botanica. A questo versante nascosto del giardino è rivolto il libro, di agile formato e di piacevole lettura, dove Massimo de Vico Fallani, architetto esperto di giar-

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dini storici italiani, ha trasfuso la sua trentennale esperienza di manutenzione, conservazione e restauro di giardini monumentali: da Boboli al parco archeologico di Ostia. Il terreno, come è felicemente anticipato dal titolo del libro, è la base materiale e conoscitiva da cui prende le mosse il giardiniere sagace. E dall’attenta illustrazione del terreno muove anche il racconto di de Vico che, con parole limpide ed esatte, ne illustra qualità e composi-

zione. Come si riconosce la natura di un terreno? Il suo aspetto, se lo si sa leggere, ci fornisce le informazioni basilari: sabbioso, argilloso o calcareo; ma per valutarlo e utilizzarlo correttamente occorre farlo analizzare dai laboratori agrari. E de Vico insegna come e da dove si prelevano i campioni; poi illustra il significato di humus, di dissodamento, di erpicatura, di sarchiatura e i modi in cui si eseguono. Chiarisce che cosa è lo «scheletro» del

terreno: la componente sassosa, utile al drenaggio, ma dannosa se in eccesso, nel qual caso si provvede alla rimozione dei ciottoli che vengono impilati nella macère, ovvero i muretti a secco che separano gli appezzamenti, oppure negli imbrecciati: le pavimentazioni ordite da piccole pietre allettate nella sabbia. I capitoli si susseguono affrontando con la stessa lieve maestria, le azioni base del giardinaggio: l’annaffiatura, i concimi, la potatura, la salute delle piante. Concise trattazioni sono riservate alle coltivazioni in vaso, alle rose, alle siepi e alla necessità, per i grandi giardini, storici o non, di dotarsi di vivai che producano le piante necessarie alla sostituzione e al rinnovo del giardino. La chiarezza didattica della scrittura è potenziata da immagini di attrezzi, sezioni di vasi con terriccio, gioiose fotografie di giardini in fiore, che testimoniano i diversi momenti della manutenzione, ma anche uno sconfinato amore per la bellezza senza tempo dei giardini. Massimo de Vico Fallani, Il vero giardiniere coltiva il terreno. Tecniche colturali della tradizione italiana, Olschki, 175 pagine, 19,00 euro


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fantascienza

l referendum dell’inizio di dicembre con cui la popolazione svizzera ha bocciato con una chiara maggioranza l’ulteriore costruzione di minareti (non delle moschee) ha prodotto un profluvio di reazioni, anche ufficiali, di tono singolare specie a livello europeo che ha finito col palesare un disagio fra la gente comune di fronte a un tipo di religione aggressiva e dedita a un diffuso proselitismo. Non ci si deve meravigliare allora che questa nuova situazione sociale sia stata avvertita da alcuni scrittori di fantascienza che prendono spunto dalla situazione contingente (sociale, politica, scientifica, economica ecc.) per estrapolarne le conseguenze in un futuro più o meno lontano portandola a conseguenze che, a secondo del loro modo di pensare, della loro sensibilità e della loro cultura, possono essere positive o negative. È quel che ha ad esempio fatto Pierfrancesco Prosperi, architetto di professione, scrittore di fantascienza per passione, sin da giovanissimo, quando firmava le sue storie semplicemente «Piero»: dagli anni Sessanta ha pubblicato centinaia di racconti, anche tradotti all’estero, e una decina di romanzi. Adesso, colpito e preoccupato da questa nuova situazione sociale, ha iniziato a scrivere quella che si sta presentando come una trilogia dell’Italia del futuro che parte proprio dalle premesse ora dette: con La moschea di San Marco (Bietti, 2007) e ora con La Casa dell’Islam (Bietti, 2009, appena uscito), Prosperi ci descrive cosa accadrebbe in Italia a partire dal 2015, anno in cui potrebbe vincere le elezione un Partito della Verità, cioè il partito degli islamici italiani.

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Prosperi aveva già immaginato nel suo primo romanzo che il Partito della Verità venisse creato - attenzione - non tanto da musulmani immigrati, anche se si rivolge in teoria a essi, ma soprattutto da italiani convertiti, che, come sempre avviene, sono «più realisti del re», più intransigenti, più fanatici. Con una tragica macchinazione, come rivela il doppio colpo di scena finale della Moschea di San Marco, il Partito della Verità vincerà le elezioni politiche del 2015 e governerà l’Italia. La situazione offre il destro a Prosperi per criticare e denunciare le vere cause di questa situazione: la debolezza, il conformismo, il buonismo esasperato e il feticcio del «politicamente corretto» che pervade la classe dirigente politica italiana, ma soprattutto gli intellettuali, i cosiddetti «uomini colti» che indirizzano l’opinione pubblica, ma anche la Chiesa cattolica: seguendo le Profezie di Malachia secondo cui Benedetto XVI è il penultimo pontefice della serie, sarà il suo successore, il cardinale Pietro Romani (si ricordi che le Profezie chiamano il papa degli «ultimi tempi» semplicemente… Petrus Romanus) ad abdicare l’autonomia della Chiesa cattolica di fronte all’islam.

ai confini della realtà L’homo islamicus? MobyDICK

Governerà l’Italia… di Gianfranco de Turris

È quel che immagina Pierfrancesco Prosperi, autore di una trilogia, di cui sono usciti finora due titoli, sul futuro del nostro paese. Uno scenario che ci vede dominati dal partito degli islamici italiani, vittorioso alle elezioni politiche del 2015. Una prospettiva non così inverosimile secondo l’analisi dell’autore... Quale l’origine di una simile resa incondizionata? È proprio la mancanza di «certezze», sia culturali che religiose ma soprattutto identitarie, che provoca nell’Italia del futuro immaginata da Prosperi una situazione politica che, in fondo, nessuno dei protagonisti dei suoi romanzi vorrebbe. Il mondo globalizzato, la critica aprioristica a ogni aspetto dell’Occidente, i sofismi ideologici, la tabe del politicamente corretto, il rinnegamento del proprio passato storico, la paura di «offendere» usi e costumi degli immigrati è ciò

che crea quella miscela che conduce alle conclusioni che Prosperi paventa e descrive. Perché, sia chiaro, l’autore non ce l’ha affatto con l’islam in sé in quanto religione e cultura, ma con gli aspetti fondamentalisti e assolutisti dell’integralismo musulmano, quello che inevitabilmente riesce a condurre il gioco su tutti i piani. I primi a rimetterci dalla presa del potere islamica sono le pacifiche sette italiane dei mistici sufi, infatti, oppure tutti i musulmani «collaborazionisti». Come ha affermato la sociologa svizzera Mi-

reille Valette, il processo di islamizzazione europeo (mentre al contrario non esiste alcuna discriminazione dei musulmani), con la sua «visione fodamentalista della religione ha creato una situazione drammatica che sta destabilizzando la democrazia. Basta osservare come l’islam sta penetrando nelle istituzioni: preghiere nelle aziende e nelle scuole, cibo speciale nelle mense, rifiuto di corsi e materie scolastiche» e così via. Cioè non sono gli immigrati islamici ad accettare i nostri costumi e valori stabilendosi qui, ma stanno imponendo a noi i loro costumi e valori basandosi sulla loro forza identitaria, che a noi ormai manca. Questa la situazione oggi da cui Prosperi effettua una tipica operazione di estrapolazione fantascientifica (o fantapolitica se si vuole). Nei suoi due romanzi, il punto di vista è quello di un commissario di polizia fiorentino, Visconti, disilluso dalla professione e dalla vita privata che, dal suo osservatorio privilegiato guarda impotente e con sgomento il progredire degli avvenimenti, quasi ineluttabile: nella Moschea di San Marco, un normale omicidio fra immigrati lo porta sulle tracce del complotto che favorirà la vittoria del Partito della Verità alle elezioni, senza poterlo impedire; nella Casa dell’Islam, un altro omicidio, quello del parente di un notabile del PdV, lo coinvolgerà in intrighi di potere in una Italia (siamo già nel 2020) separata in due: oltre il Po vi è stata la secessione del Nord-Est che non vuole sottostare alle nuove regole dettate dal potere italicomusulmano.

Prosperi, come spesso fa, ha impostato i suoi romanzi in una sequenza di capitoli brevi e brevissimi (99 come le sure del Corano) facendo muovere contemporaneamente molti personaggi le cui storie alla fine convergono nella conclusione, storie grottesche e anche tragiche perché non è facile trasformare lo spirito anarcoide degli italiani in un nuovo, ligio, oltranzista homo islamicus. Da alcuni anni, sotto le feste di fine anno, assistiamo qui da noi a un penoso rituale. Non bisogna «offendere» chi non è cattolico cristiano, e quindi via il presepe, via i canti natalizi, via anche l’albero, via il «Buon Natale» ecc., ecc. Docenti, presidi e provveditori sono disposti a mettere in minoranza una maggioranza perché ritengono che gli allievi di altre religioni si sentirebbero a disagio, e non pensano che il disagio potrebbe essere di tutti coloro i quali sono stati allevati secondo queste tradizioni. Queste élites intellettuali italiane, se vogliamo definirle immeritatamente così, vivono da tempo una loro inconsapevole crisi di identità culturale e religiosa, perciò agiscono in modo tanto demenziale.Tutto questo Prosperi porta alle estreme conseguenze nei suoi romanzi. In fondo, sembra dire l’architetto/scrittore aretino, possiamo anche essercelo meritato…


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