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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Manuali e consigli per aspiranti scrittori

A SCUOLA DI BEST SELLER di Filippo Maria Battaglia grigento, tutti a scuola di scrittura. A pagamento». Provate a imma del debutto nelle patrie lettere, offrendo consigli di ogni tipo agli aspiranti maginare cosa succederebbe se un articolo così intitolato fiÈ il caso dell’americano James N. Frey, un sessantacinquenne Gli italiani narratori. nisse su un quotidiano o un settimanale. Probabilmennoto oltreoceano per aver pubblicato diversi testi sull’argomento. In sono assidui te, farebbe il giro dei media, provocherebbe dibatItalia, la casa editrice Le Fonti ha stampato l’ultimo suo saggio, titi, plausi e indignazioni, scomoderebbe sociologi e intelletCome scrivere un libro dannatamente buono, un manuale di frequentatori di laboratori poco meno di duecento pagine interamente dedicato tuali, finirebbe con l’essere anatomizzato in tutti i suoi di scrittura creativa e gli editori agli esordienti, che tratta persino della vendita e aspetti. La notizia non è vera. Eppure, qualcosa di della contrattazione della propria opera con simile è già successo in Italia. Anzi, accade ne approfittano per proporre testi ad hoc. gli agenti letterari. Nel suo libro, Frey sottintenquasi quotidianamente. Secondo i dati più agDa Frey a Enzensberger, indicazioni utili e inutili de che basta seguire quei semplici consigli per arrigiornati, infatti, nell’ultimo ventennio poco più di ai quali opporre una “ricetta” della cinquantamila italiani (dunque lo stesso numero di resivare alla migliore delle conclusioni possibili. La scrittura denti che abitano la terra di Pirandello) ha sborsato fior di conta - assicura lo specialista - ma ciò che davvero importa è Woolf: passione, ispirazione quattrini per seguire laboratori di scrittura creativa. Un dato sorla tecnica, oltre alla «paura del successo». e tante letture prendente, che non è passato inosservato agli editori: ammontano a più continua a pagina 2 di una dozzina i titoli in catalogo che affrontano con sinistra sicurezza il te-

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Educazione di Sergio Belardinelli Il soul bianco di Rod Stewart di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Con Keats nel regno incantato del sonno di Roberto Mussapi

Luca Pacioli, il maestro di Leonardo di Massimo Tosti L’altra faccia della rom-com di Anselma Dell’Olio

Pinacoteche squilibrate e retrospettive sbilenche di Marco Vallora


a scuola di best

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Come e perché si diventa scrittori di Pier Mario Fasanotti n ufficiale della dogana un giorno chiese al narratore cileno Luis Sepulveda quale lavoro svolgesse. E lui, candidamente: «Lo scrittore». Il funzionario obiettò: «Scusi, ma io le ho chiesto la professione». L’episodio riassume quel che in genere si pensa, ossia che, visto che tutti possono scrivere, l’iniziare e finire un racconto o un romanzo non è assolutamente paragonabile alla «normale» fatica di un ingegnere o di un idraulico. L’aneddoto viene giustamente ricordato da Francesco Piccolo in Scrivere è un tic (minimum fax editore). Le ragioni che inducono a riempire un foglio bianco sono numerose, e nemmeno così «nobili» o poetiche come ci piacerebbe credere. Ken Follett fu sincero: «Ho cominciato a scrivere perché mi si è rotta la macchina e non avevo i soldi per

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segue dalla prima «Vi accadono cose strane quando diventate celebri» sentenzia il prof, affrontando il tema con la certezza che sembra provenire dall’esperienza diretta. Quindi, prosegue: «La persona amata vi tratterà in modo ridicolo. I vostri amici che non hanno successo vi invidieranno. Gli sconosciuti vorranno introdurvi in discussioni. Chiunque vi porrà domande su dove abbiate attinto le vostre idee. Su quanti soldi guadagnate. Sull’argomento cui state dedicandovi attualmente. Vi citeranno i loro autori preferiti, e quando voi risponderete che non li avete letti, loro si comporteranno come se voi foste stupidi perché i loro autori preferiti sono dieci volte meglio di voi». Quasi una catastrofe.

Ma chi è James Frey? La quarta di copertina del libro assicura che è «tra i più famosi professori americani di scrittura creativa». Dopo una rapida ricerca sulla rete si scopre che lo specialista è al contempo un narratore, con una dozzina di fiction sul gobbone. Romanzi senz’altro «dannatamente buoni», eppure fa un certo effetto constatare che nessuno tra questi è stato mai tradotto in Italia. Dunque, il bestseller di Frey, almeno alle nostre latitudini latita, ma niente comunque è perduto. Tempo e occasioni per conoscere il suo talento narrativo non mancheranno, anche perché di editori l’Italia sembra abbondare più di ogni altra cosa. Solo in Sicilia, ad esempio, sono poco meno di duecento i marchi editoriali in condizione di stampare un libro, qualsiasi libro. E infatti, nell’isola alla penuria cronica di librai (circa un terzo di quelli della sola città di Milano) fa da fervido contrappeso una fioritura di pubblicazioni ad ampio spettro: dalla narrativa alla memorialistica, dalla poesia ai ricettari. La prontezza degli «editori» siciliani non è affatto isolata. La straordinaria ricettività isolana nello stampare libri (tutti possibili bestseller, ovviamente) non è un’eccezione: è

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

farla riparare». William Faulkner raccontò di quando viveva a New Orleans. Passava i pomeriggi a zonzo con Sherwood Anderson. Scoprì che prima di mezzogiorno l’amico non usciva mai di casa, dove rimaneva a scrivere. «Decisi - ricorda - che se era quella la vita dello scrittore, lo sarei diventato anch’io. Scoprii che era divertente». La passione narrativa viene a galla in tanti modi. Claudio Magris da bambino passava molto tempo a ricopiare interi brani dall’enciclopedia, poi scrisse un libricino sulle razze dei cani. Diffidiamo di chi si scusa dicendo che gli manca il tempo. Franz Kafka, a questo proposito, scrisse un appunto mirabile: «La mia vita consiste ed è consistita, in fondo, da sempre, in tentativi di scrivere. Il mio tenore di vita è organizzato soltanto in vista dello scrivere, e se subisce mutamenti, li subisce perché corrisponda meglio, possibilmente, allo scrittore, poiché il tempo è breve, le forze sono esigue, l’ufficio è uno spavento, l’abitazione è rumorosa e bisogna cavarsela con artifici, quando non è possibile farlo con una bella vita dritta». Ognuno ha poi il suo metodo. Proust scriveva di notte, a letto, in una posizione che ammetteva «scomoda». Fino alle sette di mattina. Gabriel Garcia Un ritratto Marquez fece propria la lezione di Hemingway: «Il di Gustave Flaubert lavoro di ogni giorno deve interrompersi solo quando già si sa come ricominciare il giorno dopo». Il «perdere tempo» può essere un lavoro. Anzi, molti lo considerano necessario. Flaubert sosteneva che per ottenere da se stesso tre ore ragionevoli di lavoro doveva stare seduto dieci ore. Raffaele La Capria è stato perentorio: «La mia giornata è una continua perdita di tempo in cui cerco di includere qualcosa di creativo». Pier Paolo Pasolini non a caso arrivò a questa conclusione: «Per essere poeti bisogna avere molto tempo».

solo l’avanguardia di un fenomeno assai diffuso. I cosiddetti «servizi di self-publishing» (o, più brutalmente, di marchi pronti a stampare tutto purché si cacci fuori un po’ di denaro) impazzano con la forza seduttiva di slogan irresistibili persino sulla rete, persino promossi da grandi e autorevoli gruppi editoriali.

Con simili premesse, pare inevitabile che, insieme alle case editrici, siano arrivati anche i manuali di scrittura. L’inarrestabile produzione ha fatto storcere il naso a molti; ad altri, più ironicamente, ha invece permesso di scrivere pamphlet sarcastici e paradossali. In Come scrivere un best seller in 57 giorni, da poco pubblicato da Laterza (122 pagine, 9,50 euro), Luca Ricci ha raccontato ad esempio le traversie di quattro beetles (in inglese scarafaggi, non è un refuso, ma un gioco di stile che canzona la quasi omonima band), alle prese con la stesura di un romanzo di successo per tirare fuori dai guai e dai debiti un frustrato narratore che abita in una mansarda parigina. La tendenza a dare consigli di buona scrittura ha però contagiato anche prime lame della narrativa e dell’intellighenzia occidentale. Con risultati certamente più credibili, ma sempre con la crescente sensazione di una certa inautenticità (e inapplicabilità) dei consigli e delle lezioni impartite. È il caso di uno dei più bei libri che siano stati scritti sull’argomento (Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, in Italia pubblicato da Minimum Fax) a firma della scrittrice Flannery O’Connor. Una vera chicca editoriale, che però finisce presto col trasformarsi in un saggio di estetica, peraltro piuttosto pessimista («A parer mio quasi tutti sanno cos’è una storia, fino a che non si siedono a scriverne una», annota la narratrice americana in uno dei saggi della raccolta). Sensazioni differenti provoca invece l’ultimo volume pubblicato in Germania a firma di Hans Magnus Enzensberger, che raccoglie gli interventi del noto intellettuale tedesco sul mondo letterario. Come ha notato Paola Sorge, nel suo libro Enzensberger finisce

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

seller

con lo stilare una sorta di decalogo all’incontrario, rivolto stavolta agli scrittori di professione e agli addetti ai lavori. Tutti consigli utili, accompagnati da osservazioni acute e condivisibili. Eppure, le note dello scrittore tedesco, che vorrebbero essere un invito all’anticonformismo, finiscono col tramutarsi in un prontuario geniale da dover seguire a tutti i costi, dunque castrante e, in qualche modo, omologante. Sono le stesse obiezioni che si possono muovere alla «narratologia», parola stonata e cacofonica che sta a indicare - la definizione è di Maria Teresa Serafini - la «disciplina che studia gli elementi costitutivi delle storie e le regole per comporli» e che già oggi può avvalersi di migliaia studi, alcuni dei quali assai accreditati.

Ma questa è solo la teoria. Quanto alla pratica, lasciamo che sia Virgina Woolf a farci capire cosa significhi davvero scrivere: «Provate a rievocare qualche evento che abbia lasciato una forte impressione dentro di voi - anche solo due persone che parlano all’angolo della strada. Un albero che ondeggiava; un lampione elettrico che vibrava; il tono di quella conversazione era comico, ma anche tragico; un’intera visione, un’intera concezione di vita sembrava racchiusa in quell’istante. Ma quando tentate di ricostruirlo a parole, vi accorgete che esso si frantuma in mille impressioni contrastanti. Alcune vanno attenuate; altre accentuate; e in questo caso potete anche perdere ogni presa sull’emozione iniziale. Provate ora a passare dalle vostre cartelle confuse e sparpagliate alle pagine iniziali di qualche grande romanziere: Defoe, Jane Austin, Hardy. Adesso potete apprezzare meglio la loro padronanza dello scrivere». Passione, ispirazione e tanta, tanta lettura: siamo decisamente lontani dai manuali di scrittura creativa griffati terzo millennio. Eppure, tra le idee di Virgina Woolf e quelle dell’anonimo «specialista del settore», l’intuito e il buon senso portano decisamente a preferire le prime alle seconde.

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EDUCAZIONE educazione in quanto istituzione pubblica non esiste più», lamentava Rousseau nel suo celebre Emilio. Eppure il ginevrino si sbagliava e si sbagliava di grosso a pensare che il compito dell’educazione fosse quello di trasformare il cosiddetto «uomo naturale» in «cittadino». Il fine dell’educazione non è questo; non è neanche quello di creare buoni cattolici o cose del genere. Si tratta piuttosto di aiutare a diventare uomini; uomini che sappiano intraprendere la propria strada in un mondo che altri ci hanno lasciato, che possiamo anche voler cambiare, ma nel quale dobbiamo sentirci in primo luogo a casa. Sentirci a casa nel mondo, appassionarci alla vita: questo è in ultimo il fine dell’educazione. Una certa pedagogia dominante in questi ultimi quarant’anni ha ridotto progressivamente l’educazione a mera socializzazione, proprio come voleva Rousseau, nonché a trasmissione tecnica di saperi e di particolari «abilità». Il risultato è stato fallimentare su tutti fronti. Abbiamo un analfabetismo diffuso, specialmente nelle cosiddette discipline di base, come italiano, matematica, storia e geografia, un interesse per lo studio che tende a decrescere, fenomeni di bullismo e di estraniazione civica da parte dei giovani che invece tendono ad aumentare. Ciononostante c’è ancora qualcuno che, in perfetto stile rousseauiano, crede che ci sia soprattutto bisogno di un’educazione alla cittadinanza e ai valori costituzionali.

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In realtà ci siamo come dimenticati della vera posta che è in gioco nell’educazione: un ideale di umanità, un ideale antropologico, tutta una tradizione, una storia, che ci interpellano e di cui dobbiamo farci carico, ognuno con la nostra libertà. Anziché puntare su un percorso formativo della persona, ci siamo affidati a una pedagogia che ha prodotto soltanto metodologismo, retorica solidarista, disinteresse psicologico e relativismo ideologico, ma nessuna vera formazione. Forse non è casuale che in questo processo siano andati in crisi sia il significato della tradizione, sia la figura del «maestro» chiamato ad attualizzarla con intelligenza, partecipazione e passione, sia la fiducia nel futuro. Di conseguenza ci siamo ormai assuefatti all’idea che a scuola non si debba mai chiedere a qualcuno di imparare qualcosa di difficile. Qualsiasi proposta educativa incentrata sulla «qualità» viene regolarmente liquidata come intrinsecamente «élitaria». Anziché indirizzare l’attenzione dello studente verso quello che all’inizio egli può forse faticare a capire, ma il cui fascino potrebbe anche afferrarlo, si preferisce ricorrere, tranne in rarissimi casi privilegiati, alla semplificazione, al livellamento, all’annacquamento, ossia ad atteggiamenti che George Steiner, in una pagina memorabile della sua autobiografia intellettuale, definisce non a caso «criminali» e dietro i quali vede nascondersi una «condiscendenza volgare» verso gli studenti stessi, giudicati a priori incapaci di migliorarsi. Sembra insomma non esserci più posto

Il suo fine non è la socializzazione, come voleva Rousseau, o la trasmissione tecnica di saperi e abilità. È formare individui capaci di abitare il mondo che altri ci hanno lasciato. Solo sentendosi radicati nella storia si può riconoscere il bene ed esercitare la libertà

Cittadino? No, uomo di Sergio Belardinelli

Anziché puntare su un percorso formativo della persona, ci siamo affidati a una pedagogia che ha prodotto soltanto metodologismo, retorica solidarista, disinteresse psicologico e relativismo ideologico. Forse non è casuale che in questo processo il significato della tradizione sia andato in crisi né per una vera «istruzione», né per una vera «formazione». In effetti, ridotta a «trasmissione» metodica di informazioni, la relazione educativa diventa sempre meno coinvolgente, viva, capace di appassionare. I nostri figli non solo non sanno più nulla di storia, ma non conoscono più nemmeno il passato delle loro famiglie, il nome dei loro nonni. Siamo così poco interessati alla nostra tradizione, che oggi non funziona più nemmeno quella vera e propria comunità di memoria storica, rappresentata per secoli dal-

la famiglia. I nostri giovani faticano a sentire di essere stati generati, di appartenere a una catena generazionale, di venire dopo qualcuno che ci ha preceduti e col quale siamo, diciamo così, legati. E questo è assai preoccupante: non soltanto perché non abbiamo più il senso del nostro passato, quanto piuttosto perché stiamo perdendo anche qualsiasi fiducia nel futuro. Proprio così. Se non siamo radicati da qualche parte, non ci poniamo neanche la domanda sul nostro destino. Non si tratta dunque di essere tradizio-

nalisti o, peggio ancora, reazionari; si tratta piuttosto della nostra libertà. Del resto soltanto coloro che si sentono radicati in una storia hanno la capacità di innovarla o addirittura di rifiutarla in modo creativo. Come dice Hannah Arendt, «la scuola deve essere conservatrice per preservare quanto c’è di rivoluzionario e di nuovo in ogni bambino». Ma anche questo radicamento aperto al futuro e alla novità, di cui tanto avvertiamo il bisogno, ha a che fare principalmente con relazioni educative capaci di farsi carico del «rischio» che è tipico dell’esperienza umana: la vera fonte generativa di altre e sempre nuove esperienze. Sta qui la libertà, il legame strettissimo che sussiste tra educazione e libertà. La libertà d’educazione, di cui tanto si parla, è soltanto una conseguenza di questo legame, il quale implica certo il sacrosanto riconoscimento del carattere pubblico della cosiddetta scuola «privata», quindi il superamento dell’erronea pretesa che tale riconoscimento spetti soltanto alla scuola «statale», ma esprime anche qualcosa di antropologicamente assai più rilevante: la consapevolezza che, contrariamente a quanto pensano i fautori del «pensiero debole», la libertà è l’esito di un paziente, faticoso percorso di scoprimento di sé, del proprio bene, che non ha nulla a che fare con le chiacchiere sulla spontaneità di fare ciò che ci piace e cose simili. Per essere liberi, occorre soprattutto sapere perché vogliamo fare una determinata cosa. E l’educazione è la strada maestra attraverso la quale impariamo questa libertà. Con le parole di Benedetto XVI, potremmo anche dire che «il rapporto educativo è anzitutto l’incontro di due libertà e l’educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà».

In questo senso, ben oltre i dibattiti asfittici tra scuola «statale» e scuola «privata», l’educazione appare di per se stessa come un bene essenzialmente pubblico; un bene che, riguardando la libertà delle persone, tocca un po’ l’umanità di tutte le relazioni sociali, non soltanto la famiglia e la scuola. Se ci pensiamo bene, tutti i sistemi sociali - dal mondo del lavoro, al tempo libero, ai media, allo sport - svolgono, seppure indirettamente, una qualche funzione educativa; assumono un modello antropologico e se ne fanno cassa di risonanza. Il loro stesso funzionamento «umano» finisce per dipendere dall’educazione di coloro che vi operano, la quale diventa per questo un bene pubblico di primaria importanza. In essa, lo ripeto, ne va di ciò che ci costituisce come uomini: il senso che attribuiamo alla nostra vita e alla nostra libertà, i legami con coloro che ci hanno generato biologicamente e quelli con coloro che ci hanno generato culturalmente, i legami con la nostra famiglia e quelli con la nostra comunità, con coloro che sono venuti prima e con coloro che verranno dopo. Una società che si cura poco o che non si cura affatto dell’educazione è una società che non ha a cuore l’umanità delle sue relazioni e, in quanto tale, corre il rischio di dissolversi anche come società.


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cd

musica

Rod Stewart

il bianco più nero che c’è di Stefano Bianchi lues, rock, pop, disco, swing. L’infaticabile ugola granulosa di Rod Stewart ha proceduto di pari passo col suo dongiovannismo un po’ cafone, da collezionista compulsivo di femmine. Londinese figlio di scozzesi, «Rod the Mod» (soprannome guadagnatosi per via dell’indole ribelle) è il maratoneta della musica che guai a fermarsi. Se sessantacinque primavere gli fanno il solletico, non ci stupiremo a vederlo ottantenne e passa, all’ospizio, impegnato a far ballare i pari età sbandierandogli che arzillo è bello. Spulciando nel suo curriculum che sembra l’elenco delle Pagine Gialle, lo troviamo negli anni Sessanta a cantare lo skiffle, far da corista al folksinger Wizz Jones e da armonicista e seconda voce nei Five Dimension. Poi entra ed esce dal British Blues esibendosi con John Paul Jones (futuro Led Zeppelin), Mick Fleetwood, Julie Driscoll e gli Steampacket di Long John Baldry. Entrato nell’orbita del Jeff Beck Group e incassato il successo rockettaro coi Faces, negli anni Settanta sfonda col pop a presa rapida di Maggie May e prosegue in solitaria fra ballate caramellose (Sailing, Tonight’s The Night) e la discotecara Da Ya Think I’m Sexy. È ormai una «superstar», Rod Stewart: meno rock e più melodica, con quella voce scartavetrata a far da contrappeso. Negli anni Ottanta ammicca furbescamente al pop elettronico, nei Novanta rispolvera suoni arroventati con When We Were The New Boys. Ma non è più aria, per il buon rock che fu. Rod, allora, pizzica il nuovo millennio trasformandosi in crooner che rivisita in chiave swing il meglio del canzoniere americano. E fa il colpo grosso, dal 2002 al 2005, con It Had To Be You, As Time Goes By, Stardust e Thanks For The Memory. In totale: 19 milioni di dischi venduti. Mancava solo il soul, nel suo pedigree. Ricordando ciò che dichiarò Elton John: «Non è se-

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condo a nessuno, fra i cantanti rock che ho avuto la fortuna d’ascoltare. Ma è anche il più grande vocalist di soul bianco». Approfittane, Rod. E così ha fatto, con Soulbook, rivisitando il meglio della musica nera. Dice: «Questo è l’album che ho sempre sperato di registrare. Dentro ci sono i pezzi con cui ho ballato, fatto l’amore, pianto. Quand’ero un ragazzino striminzito e impertinente, capace solo di parlare, scoprii l’abilità artistica di Otis Redding, Sam Cooke, Jackie Wilson, James Brown, Temptations, Four Tops e tanti altri. Erano i miei idoli e i miei eroi». Soul coi fiocchi, dunque. Un pugno di gemme anni Sessanta e Settanta giostrate con un timbro vocale che emoziona come ai bei tempi. Se What Becomes Of The Broken Hearted di Jimmy Ruffin, Rainy Night In Georgia (Brooke Benton) e If You Don’t Know Me By Now (Harold Melvin & the Blue Notes) sono puro velluto, Just My Imagination (Temptations) è maliarda e insinuante, Wonderful World (Sam Cooke) riproduce l’energia contagiosa dell’originale e Love Train (O’Jays) punta dritta al cuore del rhythm & blues. I duetti, poi, garantiscono il classico tocco in più d’eleganza: con Jennifer Hudson, in Let It Be Me, Rod Stewart ricalca le orme di Jerry Butler e Betty Everett. Con l’armonica a bocca di Stevie Wonder, My Cherie Amour si rivela una soffice carezza. You Make Me Feel Brand New degli Stylistics, in compagnia di Mary J. Blige, è un romantico tuffo al cuore. E Tracks Of My Tears? Ripensando ai Miracles, non poteva che riaffidarsi alla classe di Smokey Robinson. Non badate a certi arrangiamenti prolissi e al miele di troppi violini. Soulbook è anzitutto una voce: quella del bianco più nero che c’è. Rod Stewart, Soulbook, Rca/Jive, 16,90 euro

in libreria

mondo

FRANCESCO GIULLARE DI DIO

riviste

BON JOVI: ED È SUBITO HIT

IN VIAGGIO CON CAMMARIERE

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he tipo d’uomo oggi ascolta De Gregori? Qualcuno che sia capace, come Cristo, di essere straniero in patria (“folle” per i suoi familiari, secondo i Vangeli) e straniero a ciò che è scontato e uguale. Qualcuno che abbia il coraggio di essere “fuori posto”. Qualcuno che sia capace di usare gli occhi per vedere quel che non è scontato. Qualcuno che nondimeno, e anzi pro-

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iù di 130 milioni di dischi venduti in tutto il mondo, vent’anni di carriera, 2500 concerti in cinquanta nazioni del mondo. I Bon Jovi continuano a stupire, e con il nuovo album The circle, si prendono subito la vetta delle classifiche statunitensi. È la seconda volta negli ultimi due anni, dopo che Lost highway salì in cima alle hit del 2006. Ma nella top 10 a stelle e strisce, oltre

e carovane siamo tutti noi che ci interroghiamo sul senso dell’esistenza per camminare in questo mondo e sulla strada della vita senza perdersi nel caos, ma cercando la vera essenza delle cose». Sergio Cammariere racconta così il suo nuovo album su musicaitaliana.com. A tre anni di distanza dall’ultimo lavoro di studio, Il pane il vino e la visione, il cantautore calabre-

Paolo Jachia analizza le liriche di De Gregori alla luce dei numerosi riferimenti evangelici

La band del New Jersey guida la top 10 americana. Secondo Bocelli, quarto Jackson

Il cantautore dà alle stampe “Carovane”, colto album in bilico tra jazz e world music

prio per questo, sia capace di “raccontare, senza nulla inventare”, la luce di una verità segreta e ulteriore e che dunque non abbia “paura”del buio e della fantasia». È questa la tesi di fondo che ispira il colto saggio di Paolo Jachia, La donna cannone e l’agnello di Dio (Ancora, 160 pagine, 15,00 euro). Originale viaggio nel mondo del cantautore romano, il libro di Jachia scava nei testi ispirati di De Gregori, cavandone forti rimandi al messaggio evangelico che mettono in luce la portata filosofica del messaggio. Emerge dunque il ritratto di un artista senza padroni, che si segnala spesso come un delicato narratore di parabole in cui trovano spazio i deboli e gli oppressi.

al semitalico Bongiovanni, c’è anche un italiano puro: Andrea Bocelli si aggiudica infatti la piazza d’onore con il suo My Christmas.Al terzo posto si classifica Play on di Carrie Underwood, regina della scorsa settimana, mentre This is it di Michael Jackson tiene al quarto posto, trainato dal film. Al quinto posto c’è Fearless di Taylor Swift, ma va segnalato anche il settimo posto del più noto crooner contemporaneo, Michael Bublé e la colonna sonora del tormentone New Moon. Dati di vendita in calo: un meno 20 per cento di vendite, rispetto al 2008.

se ritorna con tredici brani attraversati da un fine intreccio pop-jazz venato di world music e classe da vendere. Carovane, questo il titolo del disco, aggiunge alla consueta perizia tecnica e al nitore delle liriche, il contributo di artisti italiani a tutto tondo. In collaborazione con Roberto Kunstler ai testi, Amedeo Ariano alla batteria, Luca Bulgarelli al contrabbasso, Bruno Marcozzi e Simone Haggiag alle percussioni, Fabrizio Bosso a tromba e filicorno, Olen Cesari al violino, Michele Ascolese e Jimmy Villotti alle chitarre, Javier Girotto al sax e Gianni Ricchizzi al sitar, Cammariere dà vita a un incantevole viaggio sonoro. Da non perdere.

a cura di Francesco Lo Dico

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teatro

zapping

RIHANNA E IL FASCINO dell’inorganico/organico di Bruno Giurato esibizione di Rihanna all’American Music Award fu un grande momento di spettacolo. La musica c’entra relativamente, ma in manifestazioni del genere, come del resto a Sanremo, la musica è uno dei tanti elementi impertinenti, e non è detto che ciò sia un male. Dunque la Rihanna interessapiace-cattura come icona, e ci fa capire dopo anni di meditazioni e di grattatine di capa cosa volesse dire Mario Perniola con l’espressione «fascino dell’inorganico». Sì, perché la statuaria barbadigna era avvolta in una delirante tuta a spirale bianca fatta di nastro adesivo. E la gabbia di plastica chiara intorno al corpo scuro era qualcosa di più del contrasto tra i tasti bianchi e neri del pianoforte. Era il vuoto a perdere della poesia. Sì perché il mistero stava tutto lì, in quel corpo così diverso da quello bioingegnerizzato di Madonna. Rihanna è ciccia, dunque, ed è meravigliosa per questo. Perché dimensioni e angoli dei fianchi parlano di una spettacolare ragazza normale. Nient’affatto postmoderna. Con la cellulite (testimone anche la foto uscita qualche tempo fa in cui la Rihanna si alzava da un sedile di una macchina e mostrava la buccia d’arancia), ma del resto la cellulite non esiste, è un’invenzione degli estetisti, delle case farmaceutiche, e delle donne che si sentono in competizione con le altre donne: il maschio, interlocutore naturale della bellezza femminile ne ignora l’esistenza, da ben prima di Botticelli in poi. Ogni fascino è uno svelamento, e anche un corpo nudo è qualcosa che ancora deve svelarsi, magari nel movimento (ma c’è chi trova seducente anche la goffaggine, non era Battiato quello delle strane inibizioni che scatenano il piacere?). Ecco Rihanna ci fa capire esattamente quale elemento interessa-piace-cattura nel fascino dell’inorganico. L’organico.

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Dieci storie in difesa dei bambini di Enrica Rosso l 20 novembre del 1989 venne siglata la Carta costituzionale dei diritti dell’infanzia. La convenzione Onu prevedeva 54 articoli (stilati in arabo, cinese, inglese, francese, russo e spagnolo) per garantire ai minori di tutto il mondo le basi di un’esistenza degna di essere vissuta. Dalla Carta risulta che i bambini non devono essere arruolati prima dei 15 anni, hanno diritto all’istruzione, alla libera espressione, alle cure e all’affetto dei genitori; hanno il diritto di giocare, riposare e divertirsi; devono essere protetti dagli abusi sessuali, dalle droghe e dai rapimenti ecc... Dal 20 novembre al Teatro di Documenti è possibile partecipare a un ampia rosa di appuntamenti per non dimenticare. Elena Fanucci presenta con il patrocinio dell’Unicef La ballata dei bambini rotti, una scrittura sobria che tiene conto delle crudezza delle realtà che andrà a descrivere, ma che non rinuncia a una vena malinconica e antica, cantilenante, ritmata. In scena dieci giovanissimi interpreti usciti dal laboratorio (condotto dalla stessa Fanucci) «I giovani per un teatro etico», per altrettante storie di vita. Immagini dal mondo dei grandi raccontate con la freschezza e lo sgomento di chi ancora non sa che di quel mondo non ci si può fidare. La regista disperde ad arte i suoi attori nelle grotte del Teatro di Documenti e ci affida a una ipotetica mater matuta che ci guida alla conoscenza dei suoi numerosi figli: tutti belli, tutti violati. Diventiamo così una sorta di gomitolo umano che srotolandosi, si lascia alle spalle una scia amara di rabbia e dolore. La madre indossa una collana di pietre come fosse un rosario profano. Una presenza forte che mostra i suoi figlininnolo con grazia: sa quando mettersi da parte, quando spronarli senza giudicare,

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quando consolarli con una ninna nanna per farli sentire meno soli: «dormi che si è fatta notte, tua madre è la luna, tuo padre le stelle». Per il resto nessun pietismo, nessuna concessione: solo delle facce pulite, l’energia di giovani corpi già incistati in un passato che li consuma. A ogni tappa, a fine racconto, resta in scena un corpo-involucro appassito, senza più sogni. «Vorrei non aver visto, vorrei non aver vissuto». Povere vite di bambini già vecchi costretti troppo presto a dismettersi dall’infanzia. Quasi tutti, increduli, invocano la mamma: anche quelle inutili, quelle assenti o quelle cattive, responsabili dei loro guai. Per non rimanere con l’amaro in bocca, per tutta la durata delle repliche sarà possibile, dalle ore 16.00 in avanti, esplorare l’installazione con performance animata di Verdiana Girolami dal titolo I bambini sono il seme del futuro. Ospitata nella sala superiore accoglie forme tridimensionali in movimento, dal forte impatto simbolico, ispirate ai singoli articoli della Carta dei diritti e nel medesimo spazio si può partecipare allo spettacolo interattivo per i più piccini Metti un giorno nel bosco di Sabrina Ceccobelli. Sono inoltre previste alcune proiezioni del film documentario Il primo giorno di Dio che esplora attraverso lo sguardo dei bambini i principi fondamentali delle religioni cattolica, ebraica e islamica per la regia di Gualtiero Peirce. Non ci rimane che citare l’articolo 3 della Carta: «Tutti quelli che comandano devono proteggere il bambino e assicurargli le cure necessarie per il suo benessere».

La ballata dei bambini rotti, regia di Elena Fanucci, Roma, Teatro di Documenti, fino al 6 dicembre, Info: 06. 5744034 www.teatrodidocumenti.it

jazz

Tutto su Charlie Parker (e i suoi assolo) di Adriano Mazzoletti in libreria una nuova biografia di Charlie Parker scritta nel 1996 da Carl Woideck, sassofonista e insegnante di storia del jazz all’Università dell’Oregon. Pubblicata dalla casa editrice torinese Edt - che ha già in catalogo ben cinque Schuller a cui se ne aggiungerà ben presto un sesto nell’accurata traduzione di Marcello Piras - anche se esce con notevole ritardo, racchiude più di un motivo di interesse. Nelle sessanta pagine iniziali dello «schizzo biografico» - definito così dall’autore - vengono inserite notizie inedite sull’adolescenza di Parker, sulla madre Addie e sul padre Charles sr., pianista e cantante in varietà di infimo ordine morto all’inizio degli anni Quaranta, sui primi strumenti, come il genis e il bombardino, che il giovanissimo futuro sassofonista praticò in anni giovanili,

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sul primo sassofono, che iniziò a suonare nel 1933 a tredici anni, quando sua madre, piegandosi alle insistenti richieste del giovane figlio ne comprò uno usato per 45 dollari. Un’altra notizia riportata da Woideck, desunta però da un articolo che Michael Levin e John Wilson avevano pubblicato nel 1949 sulla rivista Down Beat, riguarda il fatto che furono le incisioni del cantante Rudy Vallee a convincere Parker a suonare il sassofono. Questo cantante, oggi completamente dimenticato, fu per tutti gli anni Venti il maggior rivale di Bing Crosby. Ma Vallee oltre a cantare suonava il sassofono contralto con uno stile che non aveva paragoni con quello degli altri sassofonisti del tempo. È facile perciò comprendere come lo stile personale del vagabond lover, così era chiamato Vallee, abbia colpito il giovane Charles jr. Anche sul rapporto con gli stupefacenti, il cui uso condusse Parker a una prematura

morte nel 1955, l’autore asserisce che fu l’ambiente di Kansas City - città governata dalla malavita con il sindaco Gene Pendergrast - dove marijuana e altri tipi di droga erano venduti liberamente, a indurre il giovane sassofonista a iniziarne il consumo. La seconda parte, dedicata all’analisi dell’opera incisa, dalle trenta registrazioni realizzate da Parker prima del 1944 fino alle ultime del dicembre 1954, è la più importante e consistente. Nelle oltre 200 pagine, l’autore esamina quasi disco dopo disco, assolo dopo assolo, con una capacità che solo un musicista, in questo caso sassofonista, è in grado di compiere. Il volume comprende alcune appendici, fra cui una «discografia consigliata», una dedicata a Dean Benedetti, sassofonista e fan di Parker, passato alla storia per le registrazioni che effettuava clandestinamente durante le esibizioni di Parker nei club di jazz e un’ultima, la più im-

portante soprattutto per i musicisti, con la trascrizione integrale di quattro assolo di Parker: Honey and Body (forse del 1937), Oh Lady Be Good (1946), la quinta take di Parker’s Mood (1948) e il celeberrimo Just Friends. Carl Woideck, Charlie Parker vita e musica, Edt, 336 pagine, 20,00 euro


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narrativa

di Maria Pia Ammirati olpisce nella prosa di Milena Agus l’immediatezza della lingua, sciolta e concreta, così dissimile dal suo conterraneo Niffoi. Mentre la Agus imbastisce storie d’amore che si servono di tutto quello che hanno attorno, la lingua, la storia, la geografia dei luoghi in un’espressione unica diremmo la produzione culturale di un territorio, e servendosene espellono, deridono e superano le costrizioni del luogo stesso, Niffoi crea e ricrea sempre lo stesso mondo. Il risultato della Agus è quello di creare fantasticherie autentiche, microcosmi universali. Quest’ultimo breve romanzo, La contessa di ricotta (da considerare anche come un lungo racconto), mantiene le caratteristiche di stile e d’espressione oramai note della Agus: la carnalità incandescente dei protagonisti, l’eros in primissimo piano, la lingua aggiustata per deformazione dialettale e però controllata e letteraria. E poi ancora il male d’amore che coincide spesso col male di vivere, un senso di decadenza che s’apparenta a cose, animali e infine agli uomini. Protagoniste sempre le donne che posseggono teste finissime o vaghe ma estremamente sensibili ai fatti del mondo. Capaci di creare e di distruggere, e per questo cerniere tra i due mondi quello terreno e l’altro, quello sognato o desiderato. Gli spazi non sono certo scenari neutri, campeggia ancora Cagliari, città di mare e di montagna, acqua azzurra e terra di bestiame. Si rincorrono i temi della bellezza femminile e della durezza, la decadenza dell’aristocrazia vista attraverso la perdita dei beni, prima di tutto la casa.

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libri Miseria e nobiltà MobyDICK

(secondo la Agus) Inizia in una casa (palazzetto) aristocratica la storia della contessa di ricotta, terza sorella di piccola nobiltà decaduta che vive con le altre come in un moderno condominio la vita quotidiana. Il palazzo nobiliare è l’ultimo pezzo di una ricchezza che va disgregandosi e che vede fisicamente mescolarsi il nobile con il plebeo «il palazzo nobiliare si trova nel quartiere Castello… delle tre facciate ne sono rimaste alle nobildonne due». Le sorelle infatti devono affittare metà del caseggiato per non perdere tutto. E questo crea incontri fortuiti con la gente del popolo, con quelli che una volta servivano nelle loro case o allevavano le bestie nelle loro terre. In questa accezione il libro si legge secondo un principio di verticalità, la città alta e bassa come l’alto e il basso della scala sociale rappresentati dalla contessina Noemi (un nome moderno e stonato nel contesto arcaico che emerge a tratti) che si innamora di Elias (il nome della tradizione sarda), operaio e pastore. Le tre sorelle sono afflitte d’amore per mancanza o pienezza, Noemi sfruttata da Elias in una sorta di rivendicazione di classe; Maddalena stremata da un eros maritale senza tregua; la contessina, alla ricerca di un amore normale, si innamora dello sfuggente affittuario del piano basso.Tre storie d’amore dove la ricotta del titolo allude all’inconsistenza o inadeguatezza delle donne, sovrastate da uomini e case, e da dinamiche amorose inconcluse. Il libro, come tutta la produzione della scrittrice, è godibile, a tratti divertente, rischia però una ripetitività di maniera a partire dai temi e da una schematicità della struttura narrativa. Milena Agus, La contessa di ricotta, Nottetempo, 127 pagine, 13,50 euro

riletture

Per comprendere Severino occorre leggere Severino di Giancristiano Desiderio uggerirvi di andare a rileggere o, meglio, leggere - perché quanti saranno stati i lettori di questo libro che sto per proporvi di procurarvi? - il libro di Emanuele Severino Oltrepassare è un consiglio da non prendere alla lettera. Tuttavia, il pensiero del filosofo allievo di Gustavo Bontadini e poi a sua volta maestro di una schiera non piccola di filosofi, studiosi e docenti di buon valore è da prendere in considerazione. Non alla lettera, perché, credo, nessun filosofo va preso alla lettera e, forse, non è neanche possibile farlo. Almeno a senso, però, sì. E proprio qui è il punto: qual è il senso dell’opera ormai quasi cinquantennale di Severino? Pongo la domanda perché nelle cose che scrive Severino, nei suoi libri, negli interventi, negli articoli sulla stampa, nei discorsi di occasione, nelle lezioni, nelle comparse in televisione -sì, negli ultimi tempi il filosofo che parla nien-

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temeno che di Parmenide si è anche affacciato al piccolo schermo, e con buoni risultati, va detto - si percepisce che c’è in gioco un pensiero importante, ma se si dovesse dire in poche e chiare parole quale sia non si saprebbe dire. È tutta colpa del lettore e dell’ascoltatore o anche Severino ci mette del suo? Senz’altro c’è una responsabilità del lettore; e, tuttavia, siccome stiamo parlando di un’opera che può contare almeno quindici testi filosofici impegnativi (ho escluso volutamente i saggi di divulgazione) un po’ di responsabilità la si deve riconoscere anche allo stesso autore. Il quale, peraltro, è ben consapevole del problema di comprensione che pone il suo «neo eleatismo», sia per i testi sia per gli articoli. Infatti, proprio in Oltrepassare scrive: «La connessione tra i miei scritti rende sempre più complessa la lettura dei più recenti. Oltrepassare presuppone cioè la conoscenza di quelli da cui è preceduto». E aggiunge: «Non c’è altro modo, d’altronde, per rendere più

agevole la comprensione di questo libro, che richiamare via via il profilo e i tratti di fondo dell’intero discorso». Insomma, per leggere il suo ultimo li-

bro di rilievo - fu pubblicato da Adelphi nel 2007 - Severino dice che prima bisogna leggere o anche rileggere gli altri suoi libri. Non si starà chiedendo un po’ troppo al lettore? Intendo non solo il comune lettore, ma anche il lettore specializzato, quello che legge per dovere o per lavoro o per studio o per passione. È un problema che si dovrebbe porre lo stesso Severino ed è probabile che se lo sia posto se ogni tanto nei suoi libri cerca di proporre delle sintesi complessive del suo itinerario filosofico a partire dal noto saggio del 1964 Ritornare a Parmenide passando per Destino della necessità ed Essenza del nichilismo (tutti per Adelphi). Provo una sintesi in tre righe: l’essere (che è gli enti) è involontario e non dipende dalla volontà umana che trasformando le cose ritiene di dominarle e di possederle per salvarsi mentre è già salvo da sempre. Riassumere Severino in tre righe è da presuntuosi, ma è il rischio che si corre se non lo fa Severino.


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società

Storie di ordinario eroismo nella Malitalia di Franco Insardà n viaggio drammatico e affascinante nell’Italia della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta. Storie di uomini e donne di Sicilia, Campania, Calabria. Una guerra silenziosa che oppone i mafiosi agli onesti, i collusi ai coraggiosi. Con Malitalia Laura Aprati ed Enrico Fierro ci restituiscono una criminalità organizzata diversa dagli stereotipi. Un milieu dove i boss hanno smesso di sparare, perché il piombo rovina gli affari. E i fatturati sono da capogiro. E seppure vivono indisturbati nelle loro terre - poco importa se in baracche o in ville hollywoodiane, pasteggiare con ca-

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diari

viale e champagne - le loro organizzazioni hanno attraversato tutta la Penisola, scavalcato le Alpi e si sono ramificate in Europa: dall’Olanda, alla Germania, ai Balcani. Ma accanto ai capimafia ci sono i buoni. Innanzitutto carabinieri e poliziotti che hanno deciso di dedicare la loro esistenza alla cattura di Matteo Messina Denaro, considerato il nuovo capo di Cosa Nostra. O a battere palmo a palmo l’Aspromonte, come fanno i «cacciatori di Calabria». Più in generale figli di queste terre, che sono costretti ad andare via, a emigrare, e che quando hanno scelto di tornare, hanno dovuto subire il disprezzo dei loro vecchi amici soltanto perché hanno in-

dossato la divisa. È la storia del carabiniere Gennaro Nuvoletta, una lunga esperienza al fianco del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che lavora alla sezione antidroga del comando di Napoli con un semplice obiettivo: non far dimenticare suo fratello Salvatore. Giovane carabiniere, ucciso brutalmente su ordine di «Sandokan», il boss supremo dei Casalesi. «Nella lotta alla camorra ci sono i morti di serie A e di serie B e mio fratello, purtroppo, è di serie zeta», la sua amara conclusione. Ma in prima linea ci sono anche i giornalisti. Come la giovane Angela Corica, che dalle colonne di Calabria Ora ha denunciato il business delle discariche abusive. E l’ha fatto talmente bene che i

magistrati sono riusciti ad aprire un’inchiesta, mentre i padrini l’hanno «ringraziata» con cinque colpi di pistola alla sua auto. O gli imprenditori. Roberto Battaglia, piccolo imprenditore casertano, invece è finito nelle mani della camorra usuraia. Questo non gli ha impedito di far arrestare Francesco Bidognetti, cugino di Sandokan. Eppure le banche lo stanno portando al fallimento. Allegato al libro c’è un dvd che, forte delle analisi di don Luigi Ciotti e Dacia Maraini, racconta e mostra le «facce», le trame e le lotte quotidiane contro questa Malitalia. Laura Aprati, Enrico Fierro, Malitalia, Rubbettino editore, 179 pagine, libro+dvd 15,00 euro

Quella fiducia di Jünger per l’eterno di Angelo Crespi

onostante la solita accurata traduzione di Alessandra Iadicicco, qualcuno ha storto il naso per l’ennesimo Jünger, un ulteriore lacerto degli annosi diari che hanno accompagnato il filosofo tedesco fin oltre la soglia della mitica vecchiaia secolare. Eppure, riferendosi agli anni dell’occupazione, tra il 1945 e il 1948, in quella Germania devastata prima dal nazismo poi dalla guerra, essi diventano centrali per capire le vicende di un paese e di un continente attraverso lo sguardo di uno dei massimi pensatori del Novecento. E poi c’è quella gelida lucidità, quella capa-

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gialli

cità estetizzante - che molti credono un limite - che fanno della scrittura di Jünger una delle prose più acute tra tutte le memorabili. Come di consueto, come già accade nei diari della Prima guerra mondiale scritti in prima linea, l’analisi di Jünger procede dal piccolo al grande, dalla cosa insignificante a quella significativa, dal fossile trovato per caso tra le pietre che svela la forma costante nell’universo e rimanda al grande costruttore. Ed è per questo che l’estetismo, cioè il richiamo costante alla bellezza dei ciliegi che sbocciano sullo sfondo della tragedia avvenuta, dei gigli che rimandano ad altre primavere meno drammatiche di quella del 1945, non sono orpelli ma il vero contenuto del discorso e solo en passant come cose transeunti si

ragiona di Hitler e Goebbles, il coboldo e il dottore, perché «il sapiente non si riconosce dalla materia ma dal suo sapere», e dunque anche un semplice giardiniere può essere sapiente e alla fine i contadini tornano sempre ad arare i campi, e questo persistere offre un quadro «del perdurare dello sforzo umano tanto spesso deluso eppure tanto più importante, consolante, solidamente fondato del suo stesso progresso, che anzi se ne allontana. L’aratore ritorna sempre; lo vidi durante l’avanzata in Francia e si dice abbia scavato i suoi solchi perfino tra le armate in marcia su Waterloo». Questo scrive Jünger in prossimità del disastro e dopo, traendo dal presente insegnamenti sempre in perenne coltissimo raffronto col passato, di come la Storia sempre torna e duri la fiducia che l’eterno prevalga sul contingente. Ernst Jünger, La capanna nella vigna, Guanda, 280 pagine, 20,00 euro

Remo Bellini, un Marlowe a San Paolo di Mario Donati romanzi gialli di Tony Bellotto, brasiliano, sono diventati film e serie televisiva. Pare che qualche emittente italiana ne sia interessata. Il primo tradotto nella nostra lingua (ne seguiranno altri) ci fa fare un salto all’indietro. Non perché ambientato in un’altra epoca, anzi. Ma perché il protagonista, Remo Bellini, è un investigatore privato. Figura ormai in disuso, almeno in Europa. Inevitabile ricordare il Philip Marlowe di Raymond Chandler e l’inequivocabile impronta vetero-americana. Innanzitutto il personaggio: Bellini è divorziato, frequenta molte donne (alle quali piace molto), beve spesso alcolici, vive in una casa

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disordinata con l’inevitabile frigorifero o vuoto o con dentro delle mele ammuffite, ha una vita estremamente irregolare della quale si lamenta ma solo in apparenza: in altro modo ormai non potrebbe vivere. Inoltre ha la battuta pronta e canzonatoria, dialoga con se stesso e pare tutto preso dal lavoro, anche quando c’è una bella ragazza che lo aspetta e lui si mette a inseguire un cinese con il braccio tatuato (un sole rosso con raggi gialli: un clan mafioso?). Il cinese poi se lo ritroverà cadavere, all’obitorio. Ma l’americanità del romanzo - molto svelto e divertente - si nota soprattutto dal linguaggio. Un esempio: «….persino un cane pechinese avrebbe sospettato di lui». La vicenda si svolge a San Paolo, me-

galopoli multirazziale con 15 milioni di abitanti. Dappertutto ci si imbatte in cinesi, giapponesi, coreani, italiani. Bellini lavora nello studio di investigazione di Dora Lobo. All’inizio di gennaio la titolare trova una busta con cinquemila dollari e l’incarico di scoprire la verità sulla morte di un avvocato solitario e in ottima salute, morto durante la corsa di San Silvestro. Nessuna indicazione del committente. La grafia lascerebbe pensare a una mano orientale, oppure russa. O araba. L’avvocato su cui indagare non possedeva né televisione né radio, conduceva una vita fin troppo sobria e appartata e si teneva lontano dalle donne. La sua passione era lo spiritismo. E collezionava foto inquietanti di bambini morti. No,

nulla di morboso o patologico, spiegherà qualcuno a Bellini: tutto rientrava nel suo interesse per i trapassati, con i quali si metteva in comunicazione attraverso sedute spiritiche. L’anatopatologo, il giapponese Sato, scoprirà che il legale ingerì stricnina. Suicidio (in effetti era depresso) o finto suicidio? E poi chi poteva avercela con lui che, con i codici in mano, non s’arricchiva, anzi era un benefattore? Bellini, un po’ spaccone come Mike Hammer di Spillane, ci porta per mano, lasciandoci intuire ben poco almeno fino a tre quarti del libro. Non è poco per un giallo. Tony Bellotto, Bellini e gli spiriti, Cavallo di Ferro, 253 pagine, 15,50 euro

altre letture Come si relazionano oggi i giovani con il lavoro? Quali sono le loro aspettative e aspirazioni? Il lavoro è solo uno strumento di guadagno o anche occasione di autorealizzazione? A partire da un’indagine svolta a Torino, Piero Amerio in Giovani al lavoro (Il Mulino, 268 pagine, 24,00 euro) traccia un quadro articolato e multiforme del rapporto dei giovani con il lavoro. Amicizia, famiglia, successo, futuro sono i temi che nel volume vengono analizzati a tutti i livelli. Un’occasione di riflessioni più ampie sulla condizione giovanile, sui mutamenti dell’era postindustriale e post moderna e sulla relazione individuo società nel contesto odierno. Anno 1991: a Honolulu una bambina russa di nome Zoe si salva in modo rocambolesco da una strage nella quale rimane coinvolta tutta la sua famiglia. Qualche mese dopo a Zurigo viene ucciso un banchiere, e nella trama sono coinvolti sia i Servizi americani sia il Kgb in piena crisi per il golpe di Mosca che porterà al potere Eltsin. Tutti cercano di mettere le mani sui codici per trasferire i fondi dei traffici delle commodities russe gestite dalla squadra speciale del Kgb alle Hawaii. Quindici anni dopo Stefano, uomo ricchissimo, dedito allo sperpero di denaro, riceve a Roma una telefonata inaspettata. A Zurigo gli viene consegnata una valigetta che sconvolgerà la sua vita. L’epilogo di questa spy story di Amedeo Renzulli (Sottrarsi al cielo, Besa editrice, 234 pagine, 17,00 euro) si svolge in Sardegna tra barche a vela e flotta russa. La rivoluzione conservatrice (Rubbettino, 76 pagine, 10,00 euro) è un saggio dove Ernst Nolte traccia un quadro delle figure rilevanti della rivoluzione conservatrice nella Germania di Weimar: da Mann a Spengler, da Klages a Schmitt fino a Moeller Van den Bruck, Junger, Winnig, Scheler, Stadtler e Otto. Un movimento che poggiò la sua architettura filosofica sul rifiuto della concezione lineare della storia, sulla connessione dell’idea di popolo e nazione, sulla critica alla decadenza dell’Occidente. La tesi di Nolte è che questa galassia intellettuale non spianò la strada al nazismo. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

LUCA PACIOLI ERA UN FRANCESCANO, MA L’ABITO NON LO DISTRASSE DALLA SUA PASSIONE, LA MATEMATICA, CHE RIUSCÌ A TIRAR FUORI DALLA SPECULAZIONE TEORICA. TANTO CHE SI PUÒ RICONOSCERE IN LUI IL PADRE DELLA CONTABILITÀ AZIENDALE. ALLA CORTE DI LUDOVICO IL MORO CONOBBE IL DA VINCI, TOSCANO COME LUI, NON ANCORA UN GENIO NEI NUMERI E NELLA GEOMETRIA. DA QUEL SODALIZIO NACQUE L’IDEA DEL “DE DIVINA PROPORTIONE” PUBBLICATO CINQUECENTO ANNI FA…

Il maestro di Leonardo di Massimo Tosti no virgola seicentodiciotto. Non si tratta di un numero qualunque. I matematici lo chiamano phi e lo considerano più importante del pi greco (il famigerato 3,14 - incubo della geometria - indispensabile per calcolare la circonferenza). Il phi è la cosiddetta «sezione aurea», che fino a due secoli fa si chiamava divina proportione. Il corpo umano risponde alle proporzioni dettate da quel numero. Se moltiplichiamo per 1,618 la distanza che va dai piedi all’ombelico in una persona adulta otteniamo la sua statura. La distanza dal gomito alla mano (con le dita tese), moltiplicata per 1,618, dà la lunghezza totale del braccio. La distanza che va dal ginocchio all’anca, moltiplicata per il numero d’oro, dà la lunghezza della gamba, dall’anca al malleolo. Anche nella mano il rapporto tra le falangi del dito medio e dell’anulare è aureo. Molti capolavori dell’architettura antica rispondono alle stesse regole. La piramide egizia di Cheope ha una base di 230 metri e una altezza di 145: il rapporto fra la base e l’altezza è appena inferiore a 1,6. Nei megaliti preistorici di Stonehenge, in Inghilterra, le superfici teoriche dei due cerchi di pietre azzurre e di Sarsen, stanno tra loro nel rapporto di 1,6. Con un salto di quattro o cinque millenni, troviamo esempi di sezione aurea nelle schede telefoniche, nelle carte di credito e nei bancomat, nelle musicassette, nelle carte Sim dei cellulari e persino nelle patenti di ultima generazione: tutti rettangoli di plastica nei quali il rapporto fra base e altezza è pari a 1,618.

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Fu esattamente cinquecento anni fa, nel 1509, che Luca Pacioli pubblicò un libro - il De Divina Proportione - con il quale mise ordine nelle conoscenze acquisite sull’argomento. Un compendio di quanto era stato scoperto nei secoli precedenti (da Euclide a Leonardo Fibonacci, autore della famosa serie numerica nella quale ogni numero è pari alla somma dei due precedenti, e il rapporto fra le due cifre contigue è proprio 1,618) scritto in italiano e destinato quindi alla divulgazione. Quel trattato ebbe un gran-

de successo, anche perché Leonardo da Vinci accettò di illustrarlo con i suoi magnifici disegni. Descrivendo il suo famosissimo Uomo Vitruviano, Leonardo propose altre armonie del corso: «Vetruvio architetto mette nella sua opera d’architettura che le misure dell’omo sono dalla natura distribuite in questo modo. Il centro del corpo umano è per natura l’ombelico; infatti, se si sdraia un uomo sul dorso, mani e piedi allargati, e si punta un compasso sul suo ombelico, si toccherà tangenzialmente, descrivendo un cerchio, l’estremità delle dita delle sue mani e dei suoi piedi».

Leonardo e Pacioli si conobbero alla corte di Ludovico il Moro. Pacioli (toscano come Leonardo) era un francescano. L’abito non lo distrasse dai suoi studi preferiti: alle preghiere preferiva la matematica,

stifica un’illazione del genere. Ma è indubbio che i due si influenzarono a vicenda: Leonardo, quando incontrò Pacioli, era sostanzialmente digiuno di numeri; Pacioli fu sedotto dalla mente vulcanica dell’altro. E la loro amicizia si trasformò in collaborazione (o, forse, la collaborazione si trasformò in amicizia).

Leonardo - che, orgogliosamente, dichiarava «non mi legga, chi non è matematico, nelli mia principi» - aveva, in realtà, scarsa dimestichezza con i numeri, come dimostra un foglio (che si trova oggi nella Biblioteca Nazionale di Madrid), nel quale redige l’inventario dei suoi scritti: «25 libri piccoli, 2 libri maggiori, 16 libri più grandi, 6 libri in cartapecora, 1 libro con coverta di camoscio verde, uguale 48». Provate a rifare la somma, e scoprirete fa-

Scritto in italiano, e destinato quindi alla divulgazione, iI trattato di Pacioli è un compendio di quanto era stato scoperto nei secoli precedenti. Ebbe grande successo, anche grazie ad alcuni elementi di magia che vi sono contenuti che riuscì a tirar fuori dalle secche della pura speculazione teorica. Pacioli è il padre della contabilità aziendale: fu lui a inventare la partita doppia, un’idea che ha cambiato il mondo più di tante invenzioni che hanno garantito ai loro padri monumenti in tutte le piazze e citazioni in tutte le enciclopedie. Il fondamento della sua idea è racchiusa in queste due frasi: «Mai si deve mettere in dare che quella ancora non si ponga in avere, e così mai si deve mettere cosa in avere che quella ancora quella medesima con suo ammontare non si metta in dare. E di qua nasci poi al bilancio che del libro si fa: nel suo saldo tanto convien che sia il dare quanto l’avere». Sarebbe azzardato sostenere che anche nella partita doppia ci fu lo zampino di Leonardo: nessun documento, e nessun indizio, giu-

cilmente che il totale è 50. Il genio aveva bisogno urgente di qualche ripetizione, e Pacioli era l’uomo che faceva al caso suo. Era già molto famoso, quando si conobbero. Aveva pubblicato una Summa de arithmetica geometria proportioni et proportionalita che aveva convinto il duca Lodovico a invitarlo nella sua corte. Anche l’aspetto lo aiutava: un viso grande e forte (come si può verificare dal ritratto che gli fece Jacopo de’ Barbari, oggi conservato al Museo Nazionale di Capodimonte), lo sguardo ardito, saggio e persuasivo, l’aria di chi sa convincere e ispirare rispetto. «Il Pacioli ha scritto Serge Bramly, autore di una biografia di Leonardo - sembra il custode di un immenso sapere. Non c’è niente di più astruso di un’astrazione di cui non abbiamo la chiave. La promettente amicizia di


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Da sinistra, il celebre ritratto di Luca Pacioli conservato nel museo di Capodimonte; Leonardo da Vinci e “L’uomo vitruviano”. Sotto, le lettere disegnate dal da Vinci per il “De Divina Proportione” (in basso il frontespizio) e due figure-chiave: il poliedro e il dodecaedro

L’autore della Gioconda, su sollecitazione dell’amico frate, cercò inutilmente di risolvere il problema dei problemi. Riempì pagine e pagine di diagrammi, poi un giorno, all’alba, annotò: “Trovai il fine della quadratura del cerchio...” quest’uomo stimolerà la fame naturale che Leonardo ha per la matematica; all’improvviso, così come prima li ha riempiti di vocaboli italiani e latini, comincia a scribacchiare febbrilmente nei suoi taccuini estrazioni di radici quadrate, frazioni, cifre vertiginose, grossi numeri elevati alla terza o alla quarta potenza, postulati, assiomi, teoremi che lo inebriano, giochi geometrici pieni di entusiasmo in cui entrano e si uniscono il triangolo, il quadrato, l’esagono, come pure il cerchio e la sfera, beninteso scomposti, scissi, trasformati all’infinito». I due si affascinano reciprocamente. Pacioli spiega a Leonardo Euclide e Archimede; il genio da Vinci mostra al frate le proprie realizzazioni, la sua «meccanica», le proprie opinioni sull’arte, la sua personale concezione delle proporzioni e dell’armonia che, secondo lui, si possono applicare a tutte le parti dell’universo («La proportione non solamente nelli numeri e nelle misure fu trovata - scrisse - ma etiam nelli suoni, pesi, templi e siti e in qualunque potenza si sia»).

Il progetto del libro nacque così. Nella prefazione, Pacioli rende omaggio al «Fiorentino Leonardo da Vinci», «il più degno fra i pittori, gli studiosi della prospettiva, gli architetti i musicisti, l’uomo dotato di tutte le virtù», la cui «ineffabile sinistra mano» ha disegnato, nell’opera, i cinque corpi regolari definiti da Platone (il tetraedro, l’esaedro, l’ottaedro, il dodecaedro, l’icosaedro) oltre ai loro derivati, per un totale di sessanta illustrazioni, compresi numerosi capolettera. Giorgio Vasari (che non nutriva la minima simpatia per Pacioli) accusò il frate di aver scopiazzato le sue teorie a destra e a sinistra (il che era parzialmen-

te vero, come accade sempre in un’opera di divulgazione, che mette insieme considerazioni e risultati non necessariamente originali), ma si spinse ad accusarlo di aver saccheggiato Leonardo, «grande matematico, pittore e miniatore». E questo era falso.

Nella matematica e nella geometria Leonardo era un allievo, non un maestro. Qualche anno prima della pubblicazione del Divina proportione (educato dagli insegnamenti di Pacioli), Leonardo cercò inutilmente di risolvere il problema dei problemi (che gli era stato proposto sempre dal frate che gli aveva illustrato gli sforzi compiuti inutilmente da Archimede. Riempì pagine e pagine di diagrammi geometrici, fino all’alba. In margine al taccuino scrisse: «Trovai il fine della quadratura del cerchio, e ’n fine del lume e della notte e della carte, dove scrivevo, fu concluso. Al fine dell’ora». Il De Divina Proportione era originariamente diviso in tre libri. Nel primo (dedicato a Ludovico il Moro, e arricchito dai disegni di Leonardo) Pacioli enuncia le principali proprietà della Sezione aurea e si sofferma sui solidi platonici e su altri poliedri. Il secondo tratta le applicazioni architettoniche e anatomiche del rapporto aureo. Il terzo è la traduzione di un trattato di Piero della Francesca sui principali poliedri regolari. C’è un

aspetto magico e misterico - al quale Pacioli non era né estraneo né indifferente - nella serie numerica di Fibonacci (1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144, e così via), nell’applicazione delle regole auree nell’architettura e nella pittura, ma anche nella rappresentazione spontanea nella natura. Quella magia fu tra le ragioni che decretarono il grande successo dell’opera di Pacioli (che fu un bestseller nel Cinquecento). Ma non fu il solo: i mercanti veneziani si precipitarono in gran numero ad acquistare quel libro, convinti di potervi trovare le indicazioni e i suggerimenti giusti.

Oggi - a cinque secoli di distanza - magia e mistero tornano in primo piano, per motivi comprensibili (la matematica, anche nelle sue applicazioni concrete, ha fatto molti passi avanti, e quel trattato finisce fatalmente per apparire invecchiato). Chissà se qualcuno ricorda che - oltre a occuparsi del Cenacolo di Santa Maria delle Grazie, Dan Brown (nel Codice da Vinci) si occupava anche della Divina proportione. Nel romanzo, il professor Robert Langdon (quello interpretato sullo schermo da Tom Hanks) tiene una lezione sul numero phi - uno virgola seicentodiciotto - che definisce «il più bel numero dell’universo». Racconta Brown: «“L’onnipresenza del phi in natura” aveva detto Langdon mentre spegneva la luce, “va chiaramente al di là delle coincidenze e perciò gli antichi pensavano che fosse stato stabilito dal Creatore dell’universo. I primi scienziati la chiamarono ‘proporzione divina’”». Pacioli ci fece un libro, pubblicato esattamente cinquecento anni fa.


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tv

Il mostro di Firenze e l’Italia che non vorremmo

web

video

di Pier Mario Fasanotti tutto vero, non è fantasia. Con Il mostro di Firenze (ogni giovedì su Fox Crime) la telecamera mette a nudo, senza compiacimenti morbosi, non solo uno dei più grandi misteri criminali della storia mondiale ma l’Italia del vizio, del marcio morale nascosto dietro il perbenismo e l’ipocrisia di un gran numero di persone, come del resto è avvenuto anche con il sequestro e l’uccisione del ragazzino di Viareggio, Ermanno Lavorini (coincidenza: siamo sempre in Toscana). Le vicende narrate da Fox Crime (regia di Antonello Grimaldi) con il taglio della fiction-reportage privilegiano - un punto di visuale ci deve pur essere - l’angosciosa ricerca della verità di Renzo Rontini, padre di Pia (una delle sedici vittime del «mostro»). L’uomo non si dette mai pace, investigò per conto proprio, rimase senza soldi e alla fine si accasciò per un infarto sulle scale della Questura. La Polizia, scettica all’inizio, lo aiutò. Rontini, un tecnico di motori navali, benestante senza essere ricco, è interpretato dal bravo Ennio Fantastichini. La stessa pistola (con gli stessi proiettili Winchester serie H) sparò dal 1968 al 1985 su coppiette appartate in auto nella serenissima campagna fiorentina. Nessuno è mai riuscito a indicare con sicurezza l’autore, o gli autori, degli omicidi (accanimento sulle donne, cui venivano asportati pube e seno). Certo, fu processato e Pietro condannato Pacciani assieme ai famigerati «compagni di merende», ma rimane in piedi il sospetto che quel rozzo e brutale contadino sia stato in qualche maniera incastrato da chi voleva depistare. All’inizio della serie televisiva si fa cenno, e per fortuna, a un medico di Perugia: i cronisti sanno che questi aveva turbe

È

psichiche, che si tolse la vita in un lago, che probabilmente c’entrava in qualche maniera con gli accadimenti. E i cronisti sanno anche che apparteneva a una potente famiglia umbra. La quale alzò un muro di silenzio e di protezioni (anche di stampo massoniche). Si cominciò a parlare del mostro di Firenze all’inizio degli anni Ottanta, con una magistratura e una polizia presi in contropiede. Le indagini come si vedono fare nella serie Csi o Criminal minds erano ancora fantascienza. Il procuratore capo di Firenze Pier Luigi Vigna è interpretato da Bebo Storti. Il quale fa bene la sua parte, salvo che probabilmente gli hanno dato informazioni contradditore sulla personalità dell’alto magistrato che, sullo schermo, appare un po’ troppo gelido, quando sappiamo che non era, e non è, uomo di poche parole, anzi è dotato di facondia, è tenace, curioso e pure sensibile al protagonismo. Bebo Storti, che è un valido attore, appare un po’troppo ingessato. Fa una certa impressione, dopo trent’anni e passa, sentire la novità allora annunciata dalla Procura fiorentina: useremo i computer. Ovviamente, informatica a parte, le intuizioni spuntano per iniziativa del singolo investigatore solerte e sgobbone. Erano tempi in cui un «profilo» elaborato dall’Fbi contava molto. Ma gli americani procedevano per schemi, difficilmente applicabili alla realtà contadina e piccolo-borghese dei dintorni di Firenze. Le realtà criminali salgono sul palco una alla volta: sono ipotesi che si accavallano e si contraddicono. C’è la cosiddetta pista sarda (il clan che uccide, a partire da un delitto d’onore del 1968), ci sono i guardoni (ben 200 individuati dalle forze dell’ordine in quella zona: fa impressione!), c’è l’idea di delitti collettivi (un elemento bizzarro secondo la criminologia), e c’è l’ombra del maniaco di Perugia, probabile committente dei delitti a scopo di collezionare trofei «sessuali». La serie televisiva non ha dimenticato di citare una macabra filastrocca: «Cicci, il mostro di Scandicci….». Se i toscani hanno molti pregi, un difetto assai marcato vien sempre fuori: il gusto della battuta quando non è il momento, la canzonatura, anche macabra, il vernacolo usato con malizia e lontanissimo dalla pietas. Il regista Grimaldi ha certamente il merito di fotografare una società largamente infettata dal virus della patologia sessuale, a volte assai meschina nei suoi comportamenti: sussurri, lettere anonime, sciacalli, delatori, ripicche personali. Non è una bella fotografia italiana.

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edicato a tutte le iene dattilografe, i blogger, e quanti entrano in contatto con la scrittura a vario titolo, Fast-fingers è un ottimo portale in cui verificare la propria abilità nella scrittura. L’omonimo sito web consente infatti di misurarsi in una gara di editing che fa di velocità e precisione nella battitura le armi vincenti. Si hanno a disposizione circa sessanta secondi, per

F

atto il nuovo gioco, nasce o’ sistemone apposito. Appartiene alla tradizione culturale italiana, l’attrazione per i più sofisticati metodi di predizione del numero vincente. E così, l’arrivo di Win for life che sta affollando le ricevitorie italiane, coincide con la creazione di software annessi. Il più gettonato del momento è Mr. Win for life, un programma che permette di generare si-

apà è spirato tra le mie braccia il 13 novembre 1974 all’ospedale di Neuilly-surSeine, vicino a Parigi. Io recitavo in teatro a Milano. Mia madre mi ha chiamato. Sono arrivato all’ospedale, ho visto papà. Il vestito attaccato alla stampella. Quello blu. Gessato. Elegante. Non aveva più voce. Mi disse: “Christian, molla tutto e vieni via con me, mi faccio un ultimo ci-

“Fast-fingers” è un bel servizio di scrittura che permette di testare la velocità di battitura

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Mario Canale e Annarosa Morri ripercorrono vita e opere di uno dei padri del nostro cinema

stendere il maggior numero di parole possibili sulla tastiera, evitando di incappare in errori madornali. Il risultato ottenuto decreta il grado di perizia dello scrivente, che non dovrà disperare in caso di esito catastrofico. Fast-fingers si propone infatti come un valido sostegno per quanti intendono migliorare le proprie performance. Chi è particolarmente orgoglioso del risultato raggiunto, ha inoltre la possibilità di pubblicarlo sul proprio blog. Chi ritiene sia meglio nasconderlo, può semplicemente riprovare, rimandando i sogni di gloria a data da destinarsi. Servizio gratuito, grafica immediata, e un pizzico di sano spirito ludico. Scaldate le dita.

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clo della cura, poi torniamo a Montecarlo. Stai vicino a mamma”». La viva voce di Christian De Sica racconta così gli ultimi momenti del grande Vittorio, morto 35 anni fa in seguito a un intervento chirurgico. Maestro di cinema citato dai più grandi registi di ogni tempo,Vittorio D. rivive nel bel documentario omonimo firmato da Mario Canale e Annarosa Morri. Dal suo primo film da attore, Rose scarlatte (1939) ai successi in teatro, dai film di Camerini al neorealismo. Le testimonianze di Allen, Eastwood, Landis, Loach, Monicelli e tanti altri, rendono conto di una carriera inimitabile e di un’umanità irresistibile. Per riscoprire uno dei veri padri del nostro cinema.

a cura di Francesco Lo Dico

«P


cinema di Anselma Dell’Olio innovare la commedia romantica, senza stravolgerne senso e attese è possibile. Lo dimostra (500) giorni insieme, film originale e riuscito di Mark Webb, partito da Sundance lo scorso gennaio con un passaparola entusiasta. Un avviso scritto come preambolo dal protagonista Tom (Joseph Gordon Levitt) stabilisce subito il tono: «La storia che segue è di fantasia. Qualunque somiglianza con persone vive o morte è mera coincidenza. Questo vale soprattutto per te, Jenny Beckman. Stronza». È curioso che il film ha più in comune con i film di Judd Apatow (Molto incinta, Forgetting Sarah Marshall) di quanto non ne abbia La dura verità (l’altra rom-com uscita ieri) all’apparenza più indebitato col rinnovatore della commedia americana.

R

(500) giorni racconta la storia di un amore finito male perché sbilenco: Tom ama Sole (Zooey Deschanel) e lei si lascia amare. «Non è una storia d’amore» dice subito Tom in oversound. La voce fuori campo è un espediente che indica un fallimento di sceneggiatura o una mancanza di fiducia nel pubblico. Qui è tollerabile per l’enorme bravura e classe di Gordon Levitt, un «primo attor giovane» che sceglie sempre ruoli curiosi, anticonformisti, come il protagonista di Mysterious Skin di Gregg Araki, bellissima storia controcorrente di pedofilia e prostituzione maschile, presentato a Venezia nel 2004. Oggi ci siamo abituati allo schema «maschio assetato di sesso libero-femmina che brama fiori d’arancio» (27 volte in bianco, Sex and the City). (500) giorni mostra l’altra faccia della medaglia, più comune di quanto ci fanno credere, ossia un giovanotto innamorato perso con intenzioni serie e una donna abbarbicata alla sua libertà. Ecco il segreto aperto della sceneggiatura: i cuori infranti maschili. Il merito è di due sceneggiatori debuttanti, Scott Neustadter e Michael H. Weber, che hanno liberamente saccheggiato e shakerato le loro esperienze personali. La storia è raccontata con il senno di poi, ma con le ferite ancora aperte. Come nelle rievocazioni del passato, non c’è un ordine cronologico. Si salta avanti e indietro nel tempo (giorno 435, giorno 14, giorno 70 eccetera) nello spasmodico sforzo di domare il passato, snidarne il senso ed evitare pene future. Il film parla a tutti, perché nessuno/a è ufficialmente adulto se non ha il lasciapassare di un cuore spezzato. La letteratura è ricca di maschi romantici e passionali; il cinema di questi tempi, meno. Dà un po’ d’ebbrezza riconoscere nell’eroina la femmina gelosa della sua autonomia, con qualcosa sempre in riserva, senza essere per questo maledetta o manipolatrice. Sole fa impazzire Tom, perché nel rovescio del clichè, e lui che muore d’amore e vuole un impegno totalizzante e perenne. Alzi la mano chi non ha mai detto a uno spasimante insistente «ti voglio bene, ma non ti amo», o quelle parole devastanti, «non possiamo restare buoni amici?». Sono il fiume carsico di sofferenza maschile e lo sforzo di decrittare una ragazza ribelle e sfuggente che danno spessore al film. Si perdona lo scontato mestiere di Tom

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L’altra faccia

della rom-com

Ruoli rovesciati in “(500) giorni insieme” di Mark Webb: questa volta il cuore infranto è quello di un uomo con intenzioni serie innamorato di una donna abbarbicata alla sua libertà. Meno riuscito “La dura verità” mentre “Triage” risente di un inspiegabile errore di casting (perché nei film pullulano architetti?) perché non esercita: ha deviato per necessità su un impiego in una ditta che confeziona melense cartoline d’auguri, ed è lì che incontra Sole. Il film è esclusivamente dal suo punto di vista. Zigzagando tra i ricordi di Tom, seguiamo la sua evoluzione da tardo adolescente a uomo fatto, se non proprio finito. In controluce, con meno approfondimento ma qualche soddisfazione, c’è anche la formazione di Sole,

che prima è scettica - «L’amore? Ma esiste davvero?» - e poi convinta, quando la vita la sorprende con la risposta. Deschanel è adorabile come la sfuggente belle dame sans merci, ma Gordon Levitt è una rivelazione, anche quando canta e balla. Da vedere.

La dura verità di Robert Luketic dimostra che non bastano tre sceneggiatrici per dare nuovo respiro alla romcom alla Judd Apatow, dove si manten-

gono spregiudicatezza e turpiloquio del maestro, sostituendo il suo schema «femmina-schianto/maschio-andante», con un attore slurpy quanto l’attrice. La rom-com è riuscita a metà, con Katherine Heigl (nel ruolo di una producer tv programmatica e carrierista, come quella nell’assai superiore Molto incinta) e Gerard Butler (Re Leonida in Trecento) è lo strafottente Mike. Il programma soft news di Abby (Heigl) è in calo di audience, e per tirare su lo share, le impongono un opinionista supermacho impertinente, versione per i poveri del life coach Tom Cruise in Magnolia di Paul Thomas Anderson. In tempi migliori, i contendenti avevano dialoghi brillanti e spigliati e sparring partner come Spencer Tracy e Katherine Hepburn. Qui si sono messe insieme tre scrittrici tre per confezionare un uomo sboccato e scorretto che alza lo share ridacchiando sul fatto che ai maschi interessano solo tette e chiappe, e le donne devono solo correre in palestra per piacergli; «loro» sono sessuomani che vanno solo dove li porta il pene, ottusi e ingovernabili quanto un orangutango in calore. Abby abbozza reazioni indignate ma appena Mike offre consigli su stratagemmi acchiappauomini, del calibro «chi scappa vince», lei diventa un cagnolino obbediente e scodinzolante per conquistare un vicino medico blando e palestrato. Il contributo delle sceneggiatrici consiste nell’immaginare un tanga-vibratore che Abby indossa al ristorante mentre il telecomando scivola per sbaglio in mano a un ragazzino; un infelice tentativo di ripetere l’exploit dell’orgasmo finto di Meg Ryan in Harry ti presento Sally. Ci sono anche incresciose battute su vagine con ragnatele e poppe atrofizzate per mancanza di manipolazioni maschili. Sotto le macerie di battute inutilmente scurrili si nasconde un film migliore, che smaschera una falsa romantica comandina e control freak, e un maschilista incompreso. Dispiace pure che il sexy e aitante Gerard Butler di Trecento e La mia regina, sia totalmente privo di fascino nelle rom-com. Vedere per credere pure P.S. II love you con Hilary Swank.

La prima parte di Triage è un film di guerra emozionante e coinvolgente del premio Oscar Danis Tanovic (No Man’s Land 2001). Tratto dal romanzo dell’ex corrispondente di guerra Scott Anderson, racconta le avventure di Mark (Colin Farrell), un fotoreporter di azioni belliche nel Kurdistan, che torna a Dublino senza saper spiegare dove sia il suo inseparabile amico e collega David (Jamie Sives). I medici dichiarano Mark guarito dalle ferite che lo hanno costretto al rientro, ma lui zoppica peggio di prima. Sua moglie Elena (Paz Vega), in pena per il marito depresso e invalido, e per la moglie di David incinta del primo figlio, chiede l’aiuto al nonno, uno psichiatra specializzato nelle malattie post-traumatiche. Inizia un altro film, meccanico e didascalico, con un errore di casting inspiegabile. Il nonno collaborazionista del regime di Francisco Franco è Christopher Lee, il celeberrimo vampiro cinematografico ora ottantenne. Pronuncia la frase «un adulto che dorme sonni tranquilli è per noi un segnale d’allarme», sprigionando ilarità sconveniente in un film sulle devastazioni della guerra.


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poesia

Il sonno? È il Paradiso di Roberto Mussapi i potrebbe scrivere un libro sul rapporto tra sonno e poesia. Binomio che appare spesso nell’opera di non pochi poeti. I due termini designano realtà opposte e complementari. Il sonno è l’interruzione delle attività fisiche e cerebrali, una sospensione del tempo, una condizione di passività quasi assoluta. Anche i sogni che lo frequentano non sono controllabili dal dormiente. La poesia al contrario è la quintessenza della concentrazione mentale e, per chi la conosce e pratica profondamente, non per il letterato o il poeta occasionale (cioè il non poeta), è anche la quintessenza dell’attività umana. Senza supporti materici, con il solo pensiero, l’immaginazione, la visione, e successivamente nella storia dell’uomo, con la parola scritta, la traccia nera sul bianco del vuoto, nasce vita, nasce azione, prendono forma visioni e storie. Non solo: la poesia, intendo la vera poesia, ripristina altrove il movimento e il respiro essenziali dell’essere: la lotta buio-luce, caos-armonia, la pulsazione del cuore, il ritmo delle maree e del battito di ciglia: quella musica e quel tempo che nel Novecento Miles Davis e i Pink Floyd hanno mostrato di conoscere naturalmente e assolutamente, essendo la loro carne nutrita di quella sostanza sonora, pitagorica, metrica. La poesia è la quintessenza dell’espressione dell’uomo, un concentrato tremendo di vitalità, quando il sonno all’opposto è l’assenza, o sospensione, di tutti quegli elementi che concorrono a generare quell’esplosivo concentrato di stupori e visioni. Ma se non esistesse una violenta interruzione del flusso fenomenico del tempo, se non scendesse sul poeta un prodigioso e non necessariamente allegro incanto, la visione poetica sarebbe preclusa, il passaggio risulterebbe occluso, la rivelazione offuscata dal battere dei secondi: certo la visione è fuggevole per antonomasia, lo sancì, in due parole come era il suo solito, in due parole e per sempre, William Shakespeare: Stand, illusion! Stand illusion, tradotto «Fermati, visione!»: così grida l’uomo sugli spalti di Elsinore allo spettro del re danese che è stato assassinato.

S

AL SONNO Tu che imbalsami la quiete della notte, chiudendo con le tue dita premurose e buone i nostri occhi lieti del buio, e li proteggi dalla luce, avvolti all’ombra del divino oblio: o dolce sonno, chiudi, se ti aggrada, mentre ti canto, i miei occhi vogliosi, o attendi l’amen prima che il papavero diffonda le sue grazie nel mio letto. Poi salvami o splenderà il giorno passato sul mio guanciale generando pene, salvami dalla coscienza curiosa, che scava come una talpa e ammucchia contro il buio, e gira bene la chiave nella toppa oliata, sigilla il muto scrigno dell’Anima mia.

John Keats (Traduzione di Roberto Mussapi)

Shakespeare sancisce la natura epifanica e quindi fuggente della visione, fuggente, ma non effimera: il fantasma sugli spalti dice il vero, e quindi è vero, pur se incorporeo e svanente. Nell’opera con cui si congeda dal pubblico come drammaturgo, La tempesta, si rappresenta nel mago Prospero, esiliato e legittimo duca di Milano, potente stregone nella grotta dell’isola caraibica. Tutta la storia della Tempesta è un incanto: per scoprire se stesso, ognuno dei personaggi deve subire un incantesimo, cadere in una lunga illusione scandita da irruzioni del sonno. Il sonno quindi è un reame, ma particolare: il suo centro non è una sala reale, ma un vestibolo. È un reame, ma non definitivo, non originario e non finale: liminare, come rispetto al corpo è l’ombra.

Non è vero che il sonno è neutro e immobile, se come tutti sanno è custode del sogno. È uno spazio che può essere o non essere occupato, ma senza il quale non esisterebbe vita: la quale non si nutre solo dell’attimo inspirante ma anche parimenti di quello espirante, del riempimento e dello svuotamento. I poeti sanno intuitivamente che il sonno non si limita all’esperienza notturna, dove agisce trionfalmente, ma si distribuisce nelle ore di veglia in forma di improvvise sospensioni del tempo, incanti. La realtà dell’estasi, della visione, delle esperienze mistiche, non dovrebbe apparire tanto strana e straniera al poeta quale io lo intendo. Oggi siamo un po’ più liberi, in materia, ma vent’anni fa molti letterati attribuivano simili mie riflessioni a strane letture occultistiche, legate a un generico orfismo (senza sapere che attribuire orfismo a un poeta significa fargli un complimento). Purtroppo era difficile spiegare che le mie fonti non erano particolarmente esoteriche: queste riflessioni nascevano dalla lettura di Platone, di Plotino, di Shakespeare, di Goethe, autori che un tempo era considerato necessario o almeno consigliabile studiare. E che spesso anticipavano, o meglio vedevano sul piano archetipico, quanto poi Levi Strauss, Campbell, Kereny, Eliade, Bastide e altri avrebbero messo in luce e indagato.

Questa ode Al sonno di John Keats, uno dei tre magnifici ragazzi della poesia romantica inglese, con Percy B. Shelley e Lord Gorge Gordon Byron, oltre che una delle massime opere poetiche mai scritte, rappresenta un magico quanto doloroso incontro tra sonno e poesia. Il sonno è invocato come irruzione di un regno incantato, con un’esaltazione del suo ruolo per comprendere la quale non possiamo prescindere dalla condizione del poeta, giovanissimo, malato di tisi, sconquassato da sbocchi di sangue, ansioso di addormentarsi nell’essenza oppiacea, trovare la quiete. Ma i grandi poeti, e John Keats (Londra 1795 - Roma 1821) è un grandissimo, non soggiacciono al dolore, lo trasformano: così il poeta che precocemente morì a Roma, in Piazza di Spagna, dove era giunto sperando di guarire con il clima mite i polmoni malati, tramuta il sonno in una manifestazione terrena del Paradiso. Non la sospensione del dolore, ma la discesa dell’incanto celeste. Non sto dicendo che rimosse l’esperienza quotidiana della sofferenza e s’illuse che il sonno fosse il Paradiso. Sto affermando che la sofferenza gli dilatò occhi, orecchie e anima al sonno, e, facendo strumento e bacchetta magica del suo dolore, seppe vedere nella discesa del sonno l’avvento del Paradiso, e comunicarlo a noi, rendendo il sonno a noi divino e sacro per sempre. Sì, il sonno eterno, ma pieno di angeli e cori celesti, come altri promisero, Keats lo fece terreno, in questi versi. Per noi, lettori immedesimati, suoi simili, fratelli.


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il club di calliope PRIMA DELL’ALBA perché improvvisi nella notte fonda dove scarsa la luna nel folto delle querce entra e s’oscura o al breve lampione che s’innalza tra pettinati allori l’erbe uguali, i passeri si svegliano e rauchi gridi dentro quell’aria questa s’alzano, in radi istanti si disfanno? l’attesa della luce è che li desta, le tante, false albe nella notte Umberto Piersanti

POUND, INVENTARIO RAGIONATO DELL’ARS POETICA in libreria

di Nicola Vacca

zra Pound resta un autore fondamentale. La sua opera poetica ha ispirato gran parte della poesia del Novecento. Nei Cantos è riassunta la chiave della nostra modernità, la spiegazione dei feroci dilemmi della contemporaneità: in questi magnifici versi troviamo la nostra storia, il retaggio culturale di un’epoca, ma soprattutto la nostra realtà presente. La figura di Pound spazia a trecentosessanta gradi: poeta, critico d’arte, pensatore sociale, economico, politico, ma prima di tutto artefice del libero pensiero. Pochi scrittori hanno raggiunto il grado di unità tra arte e vita, pensiero e personalità, idea e azione. La critica letteraria era una delle passioni del grande poeta americano. I suoi scritti, precisi e argomentati, sono sorprendenti perché anticonvenzionali e antiaccademici.

E

esempio, le bellissime pagine sulla poesia provenzale, considerata da Pound il trionfo autentico della parola che si fa messaggio di autenticità e trasparenza. Il pezzo forte del corposo volume è il saggio di apertura L’arte della poesia. In cento pagine Pound espone la sua poetica e redige un inventario ragionato del suo modo di intendere la poesia. Egli crede in un ritmo assoluto che corrisponde esattamente all’emozione o alle sfumature dell’emozione da esprimere. Per scrivere bene il poeta deve scrivere esattamente ciò che intende, nel senso che non deve mai rinunciare alla chiarezza. La poesia,per Ezra Pound,deve essere la prova decisiva della sincerità di un uomo. Quando si scrivono versi si deve credere nel ripudio di ogni convenzione che impedisca e ottenebri la determinazione della legge o il rendimen-

I saggi più significativi dell’autore dei “Cantos” su parola e letteratura. Per lui, dietro versi degni di considerazione deve avvertirsi la speciale intelligenza di chi scrive Una parte rilevante della sua attività di saggista adesso la si può leggere in Ars Poetica (Nino Aragno editore, 525 pagine, 27,00 euro). Questo prezioso volume, da troppo tempo introvabile, raccoglie gli scritti più significativi di Pound sulla poesia e sull’arte di scrivere, sul rapporto tra parola e letteratura, sulla necessità di salvare la tradizione e l’opera dei suoi maestri. Il libro ha la prefazione di Thomas S. Eliot, che aiutò Pound nella scelta e nella raccolta dei saggi da pubblicare; nella prefazione,egli raccomanda il libro al lettore per il valore e l’utilità perenni dei testi. Ma Eliot apprezza questi scritti anche per un altro motivo: in questo libro, tenendo fede alla sua particolare irriverenza nei confronti del canone, Pound ha imposto all’attenzione di chi legge non soltanto singoli autori, ma intere zone di poesia che nessuna critica può ignorare. Per

to preciso dell’impulso. La poesia vera è quella dove l’emozione resiste, la tradizione è l’unica bellezza da conservare. Pound è convinto che il vaglio supremo della poesia è il sentimento, da parte del lettore, di un’intelligenza insolita che opera dietro le parole. «Vanno a pezzi le cataste di poesia artefatta che ogni decennio e ogni scuola e ogni moda producono. Talvolta è estremamente difficile trovare qualche altra ragione speciale per spiegare il fatto che tale poesia risulta così insoddisfacente. Ho scritto espressamente intelligenza, non intelletto. Non vi è intelligenza senza emozione.L’emozione,il sentimento non può essere anteriore o simultaneo. Vi può essere emozione senza troppa intelligenza, ma questo non ci riguarda». Aveva ragione Pound quando sosteneva che di veri maestri se ne incontrano pochissimi.

UN POPOLO DI POETI l’unghia corre sul dorso infiammato della terra due dita mie dita ne serrano la carne e schiudono il bordo palpitante delle stelle. E lì, io, Adamah, antecedente la vita degli insetti con in pugno il vento ne asportai la piastra sternale e vidi i vermi prendere fuoco e i lombrichi disertare il grasso dei loro colli. Affamato gettai le mani e strappai la calcina delle costole dove la storia riposa e si compie dietro le mie palpebre, dove la foresta allunga la gola e la mia bocca scivola sull’utero di mia madre strappandone il firmamento di madreperla. Ora, il collo pesa la cartilagine dell’erba dove la punta delle dita mineralizza il verbo. ma tra grumo e grumo è solo uno scintillio di bocche divoranti di sangue raggrumato di bestie che franano sul dorso dei sassi Le ossa sepolte Sono polpa di pesce trasformata in conchiglia È nella ferita del vento, in questo cono di carne e marrone che scoprii Amore. E il mare soffiando generò i miei occhi appendibili su una qualsiasi cascata di sogno. Michele Montorfano

Scossa intensa che mi svegli da laggiù in una notte senza stelle e senza luna non chiamarmi mai più. Hai violentato tanti uomini lanciandoli nella oscura e triste solitudine privandoli di tutti i loro sogni e donando solo aria pervasa da anelli di acredine. Ho deciso di non tornare più da te mia cara terra natìa miraggio di un’isola felice dove ripararsi dalla burrascosa vita. Addio sogno poetico di una lirica senz’amore in un vicolo chiuso dalla voglia di emergere da uno stato di allucinazione. Stato di allucinazione Francesco Milillo

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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pagina 14 • 28 novembre 2009

mostre

reve tour romano di mostre, assai nutriente. Di alcune, notevoli, parleremo, gocciandole via via, come si meritano. Ma talvolta sarà pur giusto e doveroso parlare anche delle brutte, o meglio delle insensate, per fare un po’ di sunto sulla situazione del mostrificio italiano, sempre quanto mai vegeto e talvolta zoppicante. Strombettata in pompa magna e tappeti rossi, a Palazzo Venezia, il Potere e la Gloria non è una brutta mostra, per carità, con tutti quei capolavori schierati, pur alternati a dei quasi-quadracci «sfunzionali», vera carrellata a briglie sciolte e tele «scosse», per bacco di van Eyck, Tiepolo, Mantegna, El Greco, Ambrogio Lorenzetti, Pachner, Caravaggio e Aldtdorfer, messi così alla rinfusa come si vedono in mostra. E poi, soprattutto, sei hai già un vertiginoso esempio di Stimmate del van Eyck, ha senso raddoppiarlo con un modesto e immotivato Antonio Pirri? Qualcuno ci spiega perché? Insomma, una vera pinacoteca squilibrata, ma non una mostra, o meglio, se ci si permette il termine, rispettosamente ma fermamente, una rassegna militare del tutto «insensata». Non che non si percepisca il senso del contrasto o assenso, catechistico, tra il potere e la grazia (ci sono tanti poteri, anche celesti, taumaturgici, onesti, insomma poteri che mantengono una certa grazia). Non che non si deduca il significato complessivo dell’operazione, chiarito ancor meglio e tardivamente nell’ultima sala, ove si fa il punto della situazione attuale, invocando laicità e tolleranza. Non che le didascalie non siano fin troppo semplici e un po’magre magari di storia: ma come si possono scomodare dei capolavori assoluti, così fragili e capitali (che mai altre mostre ben più scientifiche avrebbero potuto ottenere) come le Stimmate di van Eyck della Sabauda o il San Giorgio di Mantegna, dall’Accademia di Venezia, semplicemente per illustrare, more vignette didattiche, delle bisogna antologico-enciclopediche, tipo storia dei Santi-illustrati in edicola, che non necessitano certo di tali supremi supporti? Soprattutto se poi vengon miscelati insieme, senza nessun rigore visivo, la tela pompier ungherese ottocentesca di Santa-Regina, con le magnifiche tavole tardo-gotiche del Parentino, Murillo accanto a Lorenzetti, un bailamme dissennato. E con in più, a calce delle tele, dei riferimenti fotografici microbici, che forse avrebbero senso in un volume, a piè di nota, ma in questa sede inducono soltanto a confusioni varie e genuflessioni vane, tanto più che non si tratta di legittimi riferimenti ad altre soluzioni iconografiche, di santità o martirio, che

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arti

sarebbe idea pur interessante (vedere per esempio come tradizione occidentale e oriental-ortodossa trattino differentemente San Giorgio, per fare solo un esempio) ma riferimenti stilistici ad altri quadri dello stesso autore, tipo Caravaggio e il David, che non ne capisci il senso: ma per caso David era un Santo, si domanderà qualcuno? Boh. E sul capo delle tele, a soffitto, pure il cinema, che crea confusione animandosi, non tanto con la Falconetti che fa Giovanna d’Arco e risulta abbastanza «in stile», ma con Mel Gibson che dialoga con Mantegna! Ma non è che le cose vadano meglio con la chiassosa mostra dedicata a Niki di Saint Phalle, artista interessante e tollerabile, se presa con misura e con sapienza, ma che, in una retrospettiva sbilenca come questa romana, ne esce davvero come diminuita e ferita. La prova che le cose (e anche le mostre son cose, senza nessuna offesa) bisogna sempre verificarle e calcolarle, con lenti e bilancino. Anni fa, per esempio, abbiam recensito con immenso favore una vera, bellissima retrospettiva dell’artista franco-americana, chissà se da Vienna o da Nizza, no, probabilmente da Nizza, ove gli artisti del Nouveau Realisme son di casa. Lì c’era ricerca, c’erano sorprese, c’era la gioia di vedere un’artista rappresentata al suo meglio. Ebbene se uno fosse di quei critici che non vedono, se mi fossi riciclato parlando in generale dell’artista, come se tutte le retrospettive potessero essere eguali, avrei fatto una vera topica, perché per chi rispetta l’artista, ritrovarla in questa mostra è un vero collasso. È vero, non si può negare che certe cose le ha pur fatte lei, ma in momenti particolari della sua vita, e spesso in declino senile, non c’è nulla da fare, via dall’inflluenza più o meno sotterranea del compagno-stimolatore di tutta una vita Tinguely, scomparso prima di lei e che qui è liquidato con soltanto una foto folklorica. Ma poi certe cose (ne fa fede l’altra retrospettiva) possono ben avere un senso dal vivo, al Moderna di Copenhagen, o nel parco Caracciolo di Garavicchio, ma non possono diventare sostanza sostitutiva d’una mostra, ove nemmeno la prima parte della sua vita, di modella di Vogue, viene documentata a dovere. Queste mie note son mosse non tanto in polemica con una curatela che è difficile condividere (perché non si rifanno certe belle retrospettive riuscite, cercando invece di far da soli, in casa nostra, con scarsa conoscenza dell’opera?), ma in difesa di un’artista ben più rilevante, che qui viene umiliata tra tardive Nanà e mammozzi da Carnevale. Dove non tutto vale, nemmeno gli scherzi.

Pinacoteche

squilibrate e retrospettive sbilenche di Marco Vallora

diario culinario

Prove iniziatiche alla conquista dei tortellini di Francesco Capozza al vertice della ristorazione emiliana ma non è un vero ristorante. È l’affascinante retrobottega della Salumeria Giusti, fondata nel 1605 e oggi in mano all’ex garzone Adriano Morandi e alla sua laboriosa famiglia. Qui non ci si capita per caso, bisogna volerlo intensamente. Chiuso in agosto, chiuso in dicembre, chiuso in gennaio, nei restanti nove mesi è chiuso la domenica, il lunedì e tutte le sere escluso il venerdì. Andarci a pranzo non è poi così impossibile, basta prenotare in tempo perché i tavoli sono solo quattro. Andarci a cena, invece, richiede il massimo impegno. Non bisogna scoraggiarsi se il primo venerdì utile è fra tre mesi e voi che vivete orazianamente alla giornata non sapete dove sarete (e se sarete) fra tre mesi. Non sapete nem-

È

meno se a quella data sarete ancora carnivori, anzi suinivori (vegetariani e maomettani l’Hosteria Giusti devono lasciarla perdere). Poi bisogna mettere insieme minimo 18 massimo 24 amici, perché la sera Morandi chiede la prenotazione dell’intera sala. Non è cosa poi così facile. Inoltre, una settimana prima, bisogna capitare a Modena per farsi vedere in faccia, decidere il menù e fissare il prezzo (sui 40 euro, andandoci piano, ma molto, con il vino). Qualcosa ci dice che se telefona un cliente abituale come Schumacher, ma anche uno occasionale come De Benedetti, la procedura viene molto semplificata. Giunto il bramato venerdì (noi abbiamo trovato «la quadra» solo un venerdì di settembre, con una temperatura, per di più, ancora estiva…), si prende l’aperitivo in salumeria, la più antica del mondo e una delle meglio conservate. Prosecco

un po’ spento (sarebbe stato meglio un autoctono Pignoletto frizzante, ma noi siamo i soliti pedanti che spaccano il capello in quattro) per accompagnare alcuni piattini con l’ottimo gnocco fritto e i salumi - culatello di Zibello, pancetta, lardo, coppa di testa - appoggiati sul bancone. Passati nel retro, Morandi porta in tavola sublimi tortellini in brodo di cappone, i marubini (parenti degli stessi tortellini) asciutti con burro e Grana, il cotechino in galera (fasciato di prosciutto e fesa di vitello) e infine la squisita «tazzina», zabaglione con mandorle tritate, spezie e un velo di cacao, trovata nel ricettario dei conti Molza (un po’ tutta la cucina si basa sul vitto delle antiche famiglie modenesi). L’Hosteria Giusti è un locale dove, sulla scia del mitico Peppino Cantarelli, si passa da un Lambrusco corrente allo Château Romanée-Conti senza molte fermate

intermedie. Una di queste è il vino Nobile di Montepulciano della Braccesca, corretto come da solito stile Antinori. Con una simile cantina (visitabile) capita che un commensale sventato faccia stappare, a carico suo e di un altro paio di suicidi, bottiglie da svenamento: Châteauneuf-du-Pape bianco del ’99 e Château Margaux del ’91. Il primo è senz’altro buono, ma necessita di lunga masticazione e a noi il vino piace berlo, non mangiarlo. Il secondo è troppo freddo, bevuto in questo modo maldestro somiglia a certi Valtellina di Nino Negri comprati l’anno scorso al supermercato. Si rafforza la nostra convinzione che, nei ristoranti, le bottiglie sotto i 50 euro siano piene di vino, quelle sopra i 50, siano piene di chiacchiere.

Hosteria Giusti, Via Farini 75, Modena, 059 222533


MobyDICK

28 novembre 2009 • pagina 15

architettura

Edifici come ideogrammi… le visioni di Braghieri di Claudia Conforti ollaboratore per quindici anni dell’architetto Aldo Rossi, Gianni Braghieri ne ha cofirmato alcuni dei progetti più celebri e significativi: dal visionario cimitero di Modena (1971), alle colorate residenze di Kochstrasse in Berlino (1982), all’antesignano centro commerciale Le Torri di Parma (1985). Da questa lunga collaborazione professionale Braghieri ha tratto una

C

profonda esperienza culturale. Essa ne ha orientato la successiva ricerca progettuale e ne ha improntato la vitalissima attività accademica, che lo ha visto docente di progettazione nelle maggiori università italiane: da Venezia a Palermo, a Milano, a Bologna, dove è stato tra i fondatori della facoltà di architettura di Cesena, che ha diretto negli anni pionieristici degli esordi. Il profilo di questo architetto è

archeologia

anomalo: intellettuale a tutto tondo, Braghieri è dotato di uno straordinario talento grafico e visuale, che si manifesta in disegni minuziosamente incisi, dove campeggiano architetture immobili, talvolta allucinate e remote, senza tempo e senza luogo. I disegni dei suoi edifici esibiscono la ieratica fissità degli ideogrammi: volumi semplici e puri, geometrie violentemente elementari; talvolta colori acidi e squillanti sono associati ai taglienti e meticolosi reticoli grafici in bianco e nero, che evocano l’oggettività anatomica degli strumenti dei mestieri nelle tavole illuministe dell’Encyclopedie di Diderot e D’Alembert. Il confronto/colloquio con l’architettura, che si attesta come nucleo centrale delle riflessioni grafiche e dell’attività progettuale di Braghieri, non passa solo attraverso il disegno, variamente declinato, ma si misura anche con la traduzione tridimensionale. Alcuni stupefacenti modelli in ferro e acciaio, come quello del nuovo ingresso del cimitero di San Pietro in Casale, testimoniano l’attrazione materica e fabbrile che spinge da millenni l’architettura a tentare i domini della plasti-

ca. Tra progetto e rappresentazione, tra conoscenza e immaginazione infine si collocano anche le esplorazioni condotte da Braghieri attraverso l’obiettivo fotografico. Limpide e nette immagini, rigorosamente in bianco e nero, rifigurano l’essenza osteologica di forme e spazi di edifici esistenti. Le fotografie di Braghieri sono appunti visivi, «taccuini meccanici» che, nei fatti, danno conto di uno sguardo critico, capace di scardinare i luoghi comuni della fruizione architettonica, per sviscerare immagini segrete e sorprendenti, che suggeriscono inediti sentieri critici. All’opera di Gianni Braghieri, architetto e fotografo visionario, è dedicata una bella mostra allestita a Firenze nella nuova Galleria dell’Architettura Italiana. L’eleganza del luogo espositivo fa eco a quella della mostra. La Galleria ha infatti sede in un nuovo edificio, denominato «Casa della finestra», da un grande taglio panoramico che ne svuota la sommità. Il manufatto, contrassegnato da una forte persuasività architettonica e urbanistica, è su progetto di Paolo Zermani, Giacomo Pirazzoli e altri docenti della locale facoltà di architettura.

Gianni Braghieri - Architetture inattuali, Galleria dell’Architettura italiana «Casa della finestra», Firenze, fino all’11 dicembre, catalogo edizioni Diabasis

In un tesoro la verità sulla conversione dei Sassoni di Rossella Fabiani n enorme tesoro risalente al VII e VIII dopo Cristo è stato ritrovato lo scorso luglio, in un campo della contea inglese dello Staffordshire, da Terry Herbert, disoccupato cinquantenne che passa il suo tempo libero a scandagliare palmo a palmo le campagne intorno a casa con il suo metal-detector. Un hobby che in Gran Bretagna è una vera e propria passione nazionale. Come Herbert ci sono almeno trentamila appassionati di metal-detecting, un piccolo esercito di cacciatori di tesori sepolti. La maggior parte dice di farlo per il piacere di passeggiare, per il gusto della ricerca e la gioia della sorpresa. Nessuno per il valore del tesoro. Ma nel caso del «gruzzolo dello Staffordshire», come è stato battezzato dalla stampa inglese, si tratta di una collezione di almeno 1500 pezzi, per un totale di 5 chili d’oro e 2 chili e mezzo di argento che ha lasciato senza parole gli esperti. Una scoperta che ha eccitato anche gli storici e gli archeologi, professionalmente meno sensibili al valore economico dei ritrovamenti, perché potrebbe finalmente fare luce su uno dei periodi più bui della storia britannica. Per esempio, potrebbe svelare che i pagani Sassoni si sono convertiti al cristianesimo molto prima di quanto si pensi oggi. Gli esperti impiegheranno almeno un anno per pulire, analizzare e catalogare ogni singolo pezzo ritrovato. Ma già al primo sguardo la qualità della lavorazione e

U

delle decorazioni incise sugli elmi e sulle else delle spade ha stupito tutti. Il tesoro è composto quasi completamente da armi, oggetti prettamente maschili. Probabilmente si tratta di un bottino di guerra, ma per ora nessuno può dire se è una collezione di trofei raccolta durante un’intera carriera militare o il risultato di un singolo saccheggio. Neanche si può sapere chi fossero i primi proprietari, o gli ultimi. Ciò che interessa e anima gli storici è il luogo del ritrovamento: nel regno di Mercia, uno dei sette in cui era divisa l’Inghilterra sotto il dominio degli Anglosassoni (gli altri erano Wessex, Anglia Orientale,

Northumbria, Kent, Essex e Sussex). Dopo che i Romani lasciarono la Britannia, nel V secolo, le aggressive tribù sassoni provenienti dalla Germania invasero l’isola, dividendosi il territorio. Dei secoli successivi si sa poco o niente, perché fino al IX secolo nessuno si preoccupò di lasciare tracce scritte e anche le costruzioni, quasi tutte in legno, sono andata definitivamente distrutte nel tempo. Si conoscono i nomi dei re anglosassoni che regnarono tra il VII e l’VIII secolo (Wulfhere, Aelthelred I, Coenred, Ceolred), ma quasi tutto il resto è mistero. Mercia, il regno più a Nord, durante il VII secolo condusse una feroce campagna espansionistica e forse il bottino è stato raccolto proprio nelle battaglie contro la Northumbria e l’Anglia Orientale. Tra i preziosi recuperati nello Staffordshire, uno in particolare interessa gli storici: una striscia in lega d’oro, probabilmente proveniente da uno scudo o una cintura da spada, con inciso in tardo latino un brano tratto dall’Antico Testamento ( «Sorgi Signore, e vengano dispersi i tuoi nemici e coloro che ti odiano allontanali dal tuo sguardo»). Il tesoro dovrebbe risalire a un periodo compreso tra il 675 e il 725, ma, secondo gli storici all’epoca la popolazione di Mercia era ancora pagana. Il rifermento all’Antico Testamento fa invece supporre che il cristianesimo fosse già diffuso sul territorio. O forse che gli oggetti arrivano da lontano. Il dibattio è aperto.


pagina 16 • 28 novembre 2009

fantascienza

quanto sembra, pensare a come potrebbe essere l’Italia da qui a qualche decennio sta diventando una moda letteraria diffusa. Sono almeno tre i romanzi che di recente se ne sono occupati, di un politico e di due giornalisti, con risultati diseguali, comunque non del tutto soddisfacenti e sul piano letterario e sul piano inventivo. Un vero peccato, anche se dimostra che lo spunto «avveniristico», come modo per indagare e criticare la realtà corrente, attrae ancora in un momento in cui la narrativa fantascientifica non appare proprio sulla cresta dell’onda (gli editori privilegiano altri generi di letteratura popolare come il poliziesco, l’avventura, l’orrore e il fantastico). Romanzi diversi fra loro ma accomunati da una visione negativa del nostro prossimo futuro, spiegato in modi diversi e con toni diversi. Di certo il più originale (ma poteva esserlo assai di più, come si dirà) è quello di un autore poco noto: Il menu (Castelvecchi) di Sergio Sozi, giornalista culturale italiano che da qualche tempo vive in Slovenia: Sozi immagina che nel 2050 un certo Lukin Philippucci scriva un saggio-romanzo, Il menù appunto (ma con l’accento), in cui racconta la storia di Cesare Menicucci, a sua volta giornalista culturale del quotidiano Roma di Napoli, le cui carte ha trovate in un baule nella soffitta di casa sua. Si occupa di questa vicenda perché nell’Italia fra quarant’anni c’è un vuoto totale di memoria circa il proprio passato, esattamente a partire dal 2025 quando è iniziata l’Era Psicoteocratico-Borghese, ed è diventata il Buruguay, cioè la trentesima provincia statunitense extracontinentale. Prima il vuoto assoluto.

MobyDICK

ai confini della realtà

A

Nella ex Italia si parla l’angloitalo, ma il libro è scritto in italiano per renderlo comprensibile agli innumerevoli espatriati, le città hanno cambiato nome (Venize, Mailad, Florenz ecc. mentre Roma ha solo 5647 abitanti e si chiama New Miami). Dalle carte di Menicucci, che è un po’ un contestatore culturale di quanto avviene, si apprende che la causa del blackout mnemonico è un misterioso morbo causato da un virus di laboratorio che fa perdere ai cervelli la capacità di comprendere le parole altrui: talché gli italiani diventeranno «statue semoventi» non più capaci di memorizzare, creare e decrittare i linguaggi e la scrittura. Ai loro occhi giornali e libri diventano pian piano illeggibili, si perde ogni cognizione del passato e del presente: solo Menicucci per una inspiegata ragione ne resta immune e, grazie alle sollecitazioni epistolari di un misterioso Anonimo, inizia a ricopiare a mano i grandi classici della nostra cultura per non farne perdere la conoscenza. Ormai vecchissimo porterà solo in parte a termine questo compito. In cinque anni, l’amanuense ex giornalista riuscirà a trascrivere solo dieci testi… Satira curiosa e originale, in cui però Sozi spesso si perde in vaghe e inutili giravolte che complicano la comprensione della storia e soprattutto (lui che è amico e ammiratore di Diego Marani) non osa lì dove avrebbe potuto dare una bella prova della sua ingegnosità, anche senza strafare: vale dire esempi concreti dell’angloitalo. Sarebbe stata una curiosa novità lessicale di cui ci viene data un piccolo assaggio

L’Italia che sarà… di Gianfranco de Turris che faceva ben sperare, là dove nel sottotitolo del testo scritto da Lukin Philiuppucci lo si definisce Muvimentato narrative essèi, vritten in italian dialètt. Comprensibilissimo, ovviamente. Il che ci fa rammaricare dell’occasione sprecata. Non meno apocalittici, ma assai meno sarcastici, gli altri due romanzi che anzi virano al tragico, sebbene differentemente presentato. Il giornalista e saggista Massimo Fini, alla sua prima prova narrativa, con Il dio Thoth (Marsilio) ci descrive un Paese, chiaramente l’Italia, intorno al 2020, preda di un sistema informativo globale che permea di sé ogni cosa in mome del motto «la notizia è il fatto, il fatto è la notizia». Dunque, quel che non costituisce una

teo si accorge di vivere in un mondo falso in cui sono ricostruiti in studio anche i processi, mentre la guerra Oriente-Occidente è una bugia mediatica. Alla fine, dopo il suo suicidio, un improvviso e imprevisto blackout di ogni informazione causato da un guasto al cervellone centrale che il controllore di tutto chiamato la Grande Mousse (la Grande Schiuma) non riesce a impedire, fa cadere nel panico e poi nella follia suicida l’intera umanità. Ma la storia, ci racconta Fini, è ciclica: almeno un secolo e mezzo dopo un tale ricoprirà il linguaggio, la scrittura e la storia si riavvierà di nuovo, anche se proprio nella scrittura, come ammonisce Platone in un suo dialogo, si annidano tutti i mali.

Blackout mnemonici che oscurano il passato, una società dominata da un sistema informativo globale di cui non si può più fare a meno, ingenuità avveniristiche... Sono alcuni dei tratti che accomunano tre romanzi sul futuro del Bel Paese intorno al 2025 notizia, non diventa notizia da trasmettere via radio o tv, non è un «fatto», non è praticamente accaduto, come si rende conto il giovane idealista che è il protagonista della storia, Matteo, anch’egli, come tutti, «operatore dell’informazione». Tutti hanno una cuffia perennemente sugli orecchi per ricevere il flusso di infotaitment, tutti sono sottoposti alla accelerazione tecnologica. Sinché a un certo punto Mat-

Apologo anche qui amaro, scritto da un giornalista che della polemica antimoderna ha fatto da oltre vent’anni il suo cavallo di battaglia, e che il sistema dell’informazione conosce bene. Soprattutto il motto: troppa informazione, nessuna informazione. Scrittura abbastanza sostenuta, ma non poche le ingenuità «avveniristiche». Buon ultimo si pone, da molti punti di vista, il terzo romanzo futurologico,

Noi di Walter Veltroni (Rizzoli), sia perché all’Italia del 2025 è dedicata solo la quarta e conclusiva parte del libro (ed è l’unica che ci interessi), sia per il tono sommesso e banalizzante della sua vicenda, sia per lo stile vagamente sonnolento con cui ce la racconta. Chi conosce i gusti, i tic, le manie, gli odi e amori culturali del Veltroni uomo pubblico le troverà qui tutte codificate: il familismo, la cinefilia, l’americanismo, certa musica giovanile anni SessantaSettanta del Novecento, addirittura la Nutella. Questa sezione di Noi sembra il ripostiglio di tutti quegli oggetti, sentimenti e buone intenzioni del bel tempo che fu, alla Gozzano del 2025. L’unica bella idea «fantascientifica», il gioco «eversivo» Memory Crissing che mettono su certi ragazzi contro un governo che vorrebbe far vivere tutti «in un eterno presente» facendo dimenticare il passato, alla fine serve solo per mettere in primo piano i noti gusti veltroniani: vi pare possibile che nel 2025 i ragazzini debbano conoscere a memoria luoghi e personaggi di un film come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto? Futuro negativo anche qui: ma il sistema che regge l’Italia immaginata da Walter nel 2025 è una dittatura soft che «non proibisce ma vigilia», e in cui la gioventù, pur se ha raggiunto il traguardo del multiculturalismo, vive senza prospettive, mitemente, circondata da un sentimentalismo di maniera e la cui più grande ribellione consiste nel ricordarsi non del passato, ma solo di un certo passato, quello che viene considerato positivo dall’autore.


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