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Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal

mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

La Romania di Bobby Paunescu

IL SOGNO ITALIANO di Anselma Dell’Olio e polemiche intorno al film rumeno Francesca, presentato all’ultima Mostra caduta. Nei paesi a lungo soffocati nella libertà d’espressione, sciolti i bavagli, spesdi Venezia nella sezione Orizzonti, sembrano finite. Respinte le denunso esplode una fruttuosa creatività. Trattiamo solo alcuni dei film rumeni rePresentato ce dell’On. Alessandra Mussolini e del sindaco di Verona Flavio centi. Il primo segnale era La morte del signor Lazarescu (2005) di Cristi Tosi per le frasi irrispettose nei loro confronti, il film esce con Puiu, nato nel 1967, sul viaggio in fondo alla notte di un alcolizzato all’ultima Mostra i dialoghi intatti. Sono benvenute le scaramucce che fanno malato. Poi è arrivato A est di Bucarest (2006) di Corneliu Podi Venezia e accompagnato pubblicità a un piccolo film ben fatto, che altrimenti pasrumboiu, classe 1975, film a bassissimo costo sulla confuda roventi polemiche, “Francesca” serebbe inosservato. Da qualche anno il cinema rusione in una piccola tv di provincia quando cade la meno desta l’ammirazione di festival, critici e un dittatura. Il più noto dei giovani cineasti rumeni è un piccolo film, mai scontato, che affronta pubblico qualificato. Il New Cinema rumeno, coè senz’altro Cristian Mungiu, che ha vinto la Palil grande tema dei migranti in cerca me la movida spagnola (da cui nasce Pedro Almòdoma d’oro a Cannes nel 2007 con 4 mesi, 3 settimane e di riscatto sociale in terra straniera. 2 giorni, di una potenza indescrivibile. Chi non l’ha visto si è var) o il neo-realismo italiano, segna la rinascita creativa dopo un regime dispotico. Poco importa se in Italia e Spagna erano privato di un’esperienza rara e sconvolgente, qualunque posizioUn gioco di specchi tirannie fasciste, e in Romania comunista. Ci si chiede spesso perché il ne sull’aborto abbia, e anche se non ne ha alcuna. tra pregiudizi cinema italiano non riceva più dal pubblico l’apprezzamento, l’amore e la continua a pagina 2 stima di una volta. È più facile individuare le ragioni della sua gloria che della sua

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Nichilismo di Franco Ricordi Herta Müller e la patria che non c'è di Pier Mario Fasanotti

NELLE PAGINE DI POESIA

L’arguzia burlesca e lo spirito sottile di Ernesto Ragazzoni di Francesco Napoli

Il romanzo di Irène (vita della Némirovsky) di Gabriella Mecucci Cucchi e il confine estremo delle cose intervista di Loretto Rafanelli

A Modena la collezione di Don Miro Bettelli di Marco Vallora


il sogno

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segue dalla prima Francesca è il debutto nella regia di Bobby Paunescu, produttore e sceneggiatore, nato nel 1974 e cresciuto per dieci anni in Italia, a Sant’Angelo Lodigiano, paese natale di Francesca Saverio Cabrini. È in onore della santa patrona degli emigrati (morta nel 1917, il 22 dicembre, giorno in cui è caduta la dittatura rumena vent’anni fa) il nome della protagonista, una scelta indicativa dell’approccio mai scontato al ruvido percorso dei migranti in cerca di riscatto sociale in terra straniera. Francesca (l’ottima e bella Monica Birladeaneu) è una maestra trentenne che in Italia vuole aprire un asilo-nido per bambini rumeni. Ha da parte 2000 euro per pagare un «mediatore» e comprarsi un posto da badante a 900 euro al mese; con vitto e alloggio pagati, conta di risparmiare presto il sufficiente per realizzare il sogno: dare una formazione di spessore ai bimbi rumeni espatriati. È quello che ha fatto Madre Cabrini nel Nuovo Mondo, creando scuole per i figli degli italiani, perché Dante e Michelangelo servissero loro da armatura culturale contro il disprezzo e la discriminazione nel paese ospitante.

L’Italia era un vecchio sogno della mamma di Francesca. Il fidanzato Mita è entusiasta e conta di raggiungerla appena «conclude un affare»; ma quando la giovane va dal padre, che vive con una nuova famiglia, la musica cambia. Il padre le ricorda «quella troia della Mussolini che vuole uccidere tutti i rumeni» e «quello stronzo del sindaco di Verona che ha dichiarato la città libera dalla nostra gente», e la esorta a non partire. Il nonno, sentiti i progetti della nipote, commenta sardonico: «Una volta gli italiani venivano da noi per scopare le nostre ragazze. Ora gliele mandiamo direttamente a domicilio». I dialoghi rifletto-

italiano

l’età dell’oro (2009) sceglie di sceneggiare le «leggende» che i rumeni si raccontavano sulle disavventure d’altri poveracci, per illuminare i guasti degli anni di Ceausescu. Film collettivo a episodi, è una commedia nera che metabolizza il passato con sobria leggiadria, con consapevolezza e pietas per i soprusi comminati a un popolo intero.

Paunescu aggiusta ancora il tiro. Ha scritto di getto Francesca dopo che Romulus Nicolae Meilat, un rom della Transilvania, ha stuprato, rapinato e ucciso Giovanna Reggiani a Roma la notte del 30 ottobre 2007. Il desiderio di equilibrare lo sguardo sui rumeni non lo ha portato a fare un ritratto acido dell’Italia ed edulcorato della Romania, che sarebbe banale. Di noi elabora solo i pregiudizi, capovolti dai rumeni per difendere il loro amor proprio umiliato. Della sua patria disegna invece un quadro lucido, disperante. Una donna pretende l’affitto al posto della persona con cui Francesca ha firmato il contratto; una storia di proprietà contesa in un paese ex comunista. La nuova compagna del padre chiede allarmata dove andrà a vivere l’ex moglie se la figlia va in Italia. «Non so», risponde sadica Francesca, «forse verrà a stare con voi». C’è il guaio di Mita, il fidanzato bravo e scriteriato, che ha lasciato un buon lavoro per buttarsi in un dubbio e allettante affare (con la collaborazione sospetta di un dipendente comunale al catasto) con soldi presi da usurai. La burocrazia è lenta, l’affare non decolla e Mita non può restituire i soldi. Il ceffo che viene a riscuotere non gli spezza le gambe; lo stupra in pieno giorno dentro un’auto mentre un gorilla fa la guardia. Per aiutare Mita (senza conoscere i dettagli squallidi), Francesca va dal suo padrino per un prestito. È un uomo d’affari ricco e ambiguo, che la obbliga a sedersi sulle sue ginocchia in un’involon-

Bobby Paunescu, al suo debutto nella regia, ha scritto “Francesca” di getto, dopo lo stupro e l'assassinio di Giovanna Reggiani per mano del rom Meilat. Evitando letture prevedibilmente impegnate, disegna della sua patria un quadro lucido e disperante… no pregiudizi speculari a quelli italiani, forti e scorticanti. Nella foga di commentarle, approvarle o contestarle, si oscura l’altro e più aspro sguardo di Paunescu. Nelle interviste parla di «crisi d’identità» della Romania, uscita vent’anni fa dal cappio di un regime oppressivo che costringeva, per sopravvivere, alla corruzione dei costumi e dell’anima. Un precursore della nuova onda rumena era Pomeriggio di un torturatore, in concorso a Venezia nel 2001, di Lucian Pintilie, classe 1933. È la storia di uno dei 1700 aguzzini schedati di Ceausescu, ora apicoltore, che dà un’intervista accidentata a un giornalista, ex detenuto politico, sul suo raccapricciante passato. Il regista più anziano mette il dito direttamente nella piaga, mentre quelli giovani, come Cristian Mungiu con Racconti del-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

taria lap dance, e a recitare una filastrocca infantile; poi le fa firmare una cambiale con gli interessi. Il mosaico d’ordinari orrori, privo della lezioncina «impegnata» e ricattatoria, fa intuire perché i rumeni affrontano lo choc della trasferta, pur sapendo che l’arrivo non riserva loro un picnic alla spiaggia. Microcriminalità, umiliazioni, ambizioni frustrate e compromessi etici sono il pane quotidiano a casa. Almeno nei paesi ricchi forse si costruisce un futuro. I rumeni sono la principale comunità d’immigrati in Italia: da 600 mila a un milione, e secondo Paunescu, solo 900 sono i condannati. Gli ultimi sono ricordati nel film con un losco figuro insinuante e viscido, che s’introduce in casa di Francesca in cerca di Mita. Il suo nome è Romulus, come l’assassino di Tor di Quinto. Da vedere.

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

FRANCESCA GENERE DRAMMATICO DURATA 94 MINUTI PRODUZIONE ROMANIA 2009 DISTRIBUZIONE FANDANGO REGIA BOBBY PAUNESCU INTERPRETI MONICA DEAN, DORU BOGUTA, LUMINITA GHEORGHIU, TEODOR CORBAN, DORU ANA

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via di Santa Cornelia, 9 • 00060 Formello (Roma) Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938

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parola chiave

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NICHILISMO nsieme a relativismo, la parola nichilismo è oggi senza dubbio fra le più citate, anche nell’ambito delle prese di posizioni etiche o religiose. Papa Ratzinger ha più volte condannato il nichilismo, dall’alto della sua autorità teologica. E così il «più inquietante fra gli ospiti», in una accezione che va da Heidegger al nostro Umberto Galimberti, non ha cessato di risuonare sinistramente. E certo oggi nel nostro Paese, al cospetto di una crisi di valori sempre più evidente, non si può fare a meno di ripensare la sua storia ovvero la sua essenza. Il filosofo Franco Volpi, recentemente e prematuramente scomparso, ci ha lasciato uno dei libri più belli sulla storia del nichilismo e sull’evoluzione della stessa parola. Partendo dall’Ottocento con riferimento al danese Kierkegaard, Volpi ci conduce in un itinerario che spazia un po’ per tutta Europa, con Turgenev, Bakunin, Dostoevskij e i nichilisti russi, per la Spagna di Ortega Y Gasset, la Francia di Valéry e Bataille, l’Olanda di Huizinga, e l’Est europeo con Cioran e Kundera; è evidente come anche in tale occasione la parte del leone sia sostenuta dalla Germania, con Stirner, Nietzsche, Juenger, Schmitt, Heidegger, per arrivare infine al nichilismo in Italia, culminante secondo Volpi nel pensiero di Emanuele Severino.

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Certamente con Nietzsche inizia la fase più propriamente filosofica della riflessione sul termine, associato prima di lui anche al senso realistico del terrorismo. Con la sentenza di Nietzsche Dio è morto, si apre una nuova prospettiva di critica all’impianto di tutto il pensiero occidentale, anche nella comparazione tra platonismo e cristianesimo che Nietzsche intende superare con le sue dottrine. Così l’Eterno ritorno rappresenta la «forma estrema del nichilismo: il nulla (la mancanza di senso) eterno», il «caos per tutta l’eternità», un nulla caotico che però ritorna in eterno. E alla dottrina di Nietzsche ritornerà Martin Heidegger per esplicitare la sua stessa interpretazione del nichilismo. L’oblio dell’Essere a favore dell’ente, che dalla Grecia ha attraversato la civiltà occidentale, ha sostanzialmente posto sullo stesso piano il concetto di Dio con quello della tecnica moderna: se Dio rappresenta l’ente supremo, e lo sforzo di Nietzsche per superarlo si condensa nella dottrina della volontà di potenza, l’ente intramondano - la manipolazione dell’essere a favore dell’ente - ha condotto l’umanità alla pianificazione tecnologica del mondo intero. Così il nichilismo viene interpretato da Heidegger nel senso di un «oblio dell’Essere» - Seinsvergessenheit - al risveglio del quale può condurci una ulteriore sedimentazione dell’arte, della poesia e del linguaggio. In questo modo si può intravedere chiaramente come un antidoto contro il nichilismo europeo è proprio rappresentato, con Nietzsche e Heidegger, dalla possibilità di vicinanza e confluenza tra filosofia e poesia. Il pensiero poetante dei greci e di alcuni poeti tedeschi (anzitutto Hoelderlin, Rilke, Trakl) viene preso ad

Per indagare davvero le radici del “più inquietante fra gli ospiti”, si dovrà fare ricorso al Grande Bardo. Amleto contiene in sé già Kierkegaard, Heidegger e Cioran. E il suo autore rivela l’ultima, estrema fase di questa sinistra filosofia: la spettacolarità

Le premonizioni di Shakespeare di Franco Ricordi

È nell’impossibilità del loro stesso essere che i personaggi shakespeariani incarnano l’essenza del nichilismo. “Io non sono quello che sono” sentenzia Iago, rovesciando la formula di Dio dell’Antico Testamento che afferma: “Sono Colui che è”. Non a caso Nietzsche ha esaltato le figure di Bruto e di Macbeth... esempio e stimolo eminente. In questo modo inizia una riflessione parallela sul nichilismo che comporta, come riferimento di alternativa proposta in senso costruttivo, un binario filosofico-poetico che è stato sempre più indagato nella filosofia contemporanea; in Italia pensiamo in particolare alla ricerca di Giorgio Agamben. Ma lo stesso Severino, che si dissocia da Nietzsche e Heidegger sulla concezione dell’Essere - che per lui va fatta ritornare a Parmenide e all’impos-

sibilità di associarla con il divenire giunge poi nella fase matura del suo pensiero a una necessaria e quanto mai suggestiva interlocuzione con il maggior poeta italiano moderno, Leopardi, da lui considerato il massimo filosofo moderno. Nei due libri dedicati a Leopardi, Il nulla e la poesia e Cosa arcana e stupenda, Severino fa risalire al nichilismo leopardiano il discorso dell’alienazione verso Dio e la tecnica moderna, che avrebbe direttamente influenzato Nietzsche. E

in questo modo si ribadisce anche l’essenziale vicinanza fra filosofia e poesia che, come scriveva sempre suggestivamente Heidegger, sono vicinissime, sullo stesso monte, seppure in cime separate. Ma proprio in virtù di tali riferimenti si fa sempre più esigente un confronto sistematico, ancorché distinto, fra filosofia e poesia, arte e pensiero, per la determinazione più autentica del nichilismo contemporaneo. Ed ecco che, proprio in questo inizio XXI secolo, spunta da ancor più lontano la testa di chi a nostro avviso è stato il più grande premonitore, ma anche sistematico assertore, del nichilismo: costui è William Shakespeare. Nel libro di Volpi l’Inghilterra sembrava esclusa da tale indagine, relegata a culla della filosofia positiva, ovvero scettica e politica. Ma non è così: l’unico grande autore, poeta, drammaturgo e abissale filosofo in cui non è stato ancora sufficientemente indagato il senso del nichilismo, è infatti, e senza dubbio, William Shakespeare. Sfugge a Volpi - ma non solo a lui, diremo a quasi tutti gli interpreti di oggi - la potenza filosofica profondamente nichilista, ancorché ontologica, del grande drammaturgo. E i riferimenti ai poeti tedeschi, insieme al nostro Leopardi, sono in gran parte già presenti in Shakespeare. È un caso che Nietzsche, filosofo che potremmo definire eminentemente shakespeariano, abbia in tal modo esaltato le figure di Amleto, Bruto e, in particolare, Macbeth? Volpi fa notare come anche Thomas Mann considerasse Nietzsche una figura tragica, ovvero amletica.

Ma a maggior ragione sarà bene ritornare ad Amleto. La domanda sull’essere, che il giovane principe di Danimarca propone incessantemente, anticipa in maniera diretta non solo la figura del primo esistenzialista moderno conterraneo Soeren Kierkegaard, ma la stessa rivoluzione novecentesca compiuta da Heidegger. Il nichilismo, l’avvento del più inquietante fra gli ospiti, è anticipato non solo in Amleto, ma anche in tutti i più grandi personaggi shakespeariani che sono presi, per loro stesso costituzione, nell’impossibilità del loro stesso essere: un esempio calzante è fornito da Iago, l’antagonista di Otello: I am not what I am, io non sono quello che sono, afferma anticipando proprio la filosofia del nichilista Cioran, che rovescia la formula veterotestamentaria di Dio che afferma: «Sono Colui che è». E lo stesso Cioran l’ha detto espressamente: la verità è di Shakespeare. Pertanto è all’affascinante teatro shakespeariano che si dovrà fare ricorso, se si vorranno indagare le radici del nichilismo europeo. E se la maggior parte dei pensatori d’Europa lo ha citato in tal senso, ci dovrà pure essere un motivo. In Shakespeare si può rilevare quella che è a nostro avviso la terza fase, determinante, del nichilismo occidentale: la spettacolarità. Dopo «Dio e la tecnica», che secondo Severino sono le due fondamentali espressioni del nichilismo, la spettacolarità di oggi sembra averne riassunto pienamente le coordinate.


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cd

musica

Jamie Cullum il talento di un crooner di Stefano Bianchi a storia a sé, Jamie Cullum, nel filone d’oro dei nuovi crooner decollato anni fa con Harry Connick Jr. e proseguito in pompa magna con Michael Bublé e Peter Cincotti. Primo: perché è un ruvido inglese dell’Essex e non un mellifluo italoamericano. Secondo: ha un approccio punk, in tutto quello che canta e suona. Terzo: non scimmiotta lo swing jazzato di Frank Sinatra, Dean Martin,Tony Bennett e Mel Tormè. Da quattro dischi in qua (appuntatevi quelli da non perdere: Twentysomething del 2004 e Catching Tales dell’anno successivo), questo trentenne con la faccia da ragazzino gira intorno a un easy listening pepato con voce morbido/acidula e un pirotecnico pianoforte. Quand’era teenager, consumati i vinili di Miles Davis, Tom Waits, Herbie Hancock e Steely Dan, ha suonato ovunque: matrimoni, pub, navi da crociera. E quando gli capitava una serata in qualche bar mitzvah, non se la lasciava scappare pensando alla nonna paterna, rifugiata ebraica dalla Prussia, che cantava nei locali notturni di Berlino. Come se non bastasse, si è dato all’hip-hop e ha suonato la chitarra elettrica in un paio di «garage band»: Raw Sausage e The Mystery Machine. Il debutto discografico è del ’99, con le cinquecento copie di Jamie Cullum Trio - Heard It All Before oggi pressoché introvabili tranne una, acquistata da un fan per seicento sterline su eBay. Uno dei tanti. Devotissimi. E nell’elenco mettiamoci pure Clint Eastwood, che l’ha voluto nella colonna sonora del film Gran Torino: posizionato nei titoli di coda con una ballata gonfia di malinconia, musica di Clint e Jamie, parole di Jamie. L’ennesimo successo, per l’eclettico performer che in ogni disco passa con disinvoltura dal pezzo infiocchettato di pop, al jazz «sempreverde». Ma guai se non ci fosse

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in libreria

mondo

UN MISTERO CHIAMATO BLUES

Ben, suo fratello: «La mia ispirazione più grande. Ed è con lui che sempre più spesso scrivo canzoni. Dopo l’album Catching Tales e la relativa tournée, mi sono divertito a suonare con altre band, lavorare con altri artisti, fare il disc jockey e trastullarmi con la dance music. E ogni volta c’era Ben, al mio fianco. Anche a Londra, quando ho allestito il mio studio di registrazione. L’ho chiamato Terrified perché mi terrorizzano le nuove tecnologie. Ma per fortuna, c’è lui che coi computer ci sa fare. Credo si intuisca, ascoltando qualche passaggio elettronico del nuovo album». Che s’intitola The Pursuit, la ricerca, perché «nella vita ricerchiamo di tutto, ponendoci ogni volta nuovi traguardi». Ed è l’imprevedibilità della musica, che Jamie Cullum insegue: swingando a più non posso, quando riempie d’adrenalina Just One Of Those Things di Cole Porter; o lasciando che il ritmo scorra impetuoso nelle vene di You And Me Are Gone, con un affettuoso pensiero a Cab Calloway. Poi rallenta, il talentuoso ragazzo, nella melodia cheek to cheek (If I Ruled The World) e nella seduttiva Love Ain’t Gonna LetYou Down giostrata con enfasi da crooner. E dal pop scattoso (I’m All Over It e Wheels: un po’ Billy Joel, un po’ Elton John) al jazz notturno (I Think, I Love), il passo è davvero breve. E se oltretutto c’è Ben, a fargli superare le insidie del «facile ascolto» più scontato e patinato, il gioco è fatto: nell’irresistibile funky di We Run Things, nel poprock di Mixtape e nei sette minuti e passa finali di Music Is Through: elettronica stile Aphex Twin, capriole nella fusion, pianoforte a rotta di collo e quando meno te lo aspetti una bella serie di fraseggi orchestrali. Jamie Cullum, The Pursuit, Decca/Universal, 16,90 euro

riviste

IL RITORNO DEI MITICI WHO

I RONIN TRA PONENTE E LEVANTE

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li strumenti a corda, i preferiti dagli schiavi provenienti dalle regioni islamiche, erano generalmente tollerati dai padroni che li consideravano simili agli strumenti europei come il violino. Per questo motivo gli schiavi che riuscivano a procurarsi un banjo avevano più possibilità di suonare in pubblico. Questa musica solista degli schiavi aveva alcune caratteristiche dello stile di

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egli States lo chiamano Super Bowl halftime show. Un evento seguito ogni anno da 90 milioni di spettatori soltanto negli Stati Uniti. È il concerto breve che si pone all’intervallo del match più importante della National Football League e che ha già ospitato in passato star del calibro di Springsteen, McCartney e Prince. E anche per la prossima edizione, prevista a Mia-

album si apre con l’armonico suono delle cicale estive, che introducono il sound pensieroso della titletrack. Attraverso il suo arpeggio pensante, l’ascoltatore viene accompagnato verso un polveroso cammino, tra un zufolio western-leonino e sviluppi corali, che arrivano a raccontarci la Fuga del prete, con il suo cavalcante ritmo. Stoppate e mezze tinte conducono l’assolo, tra serpenti a

Vincenzo Martorella fa il punto su un genere musicale attraversato da molti interrogativi

Pete Townshend e soci saranno protagonisti della finale del Super Bowl prevista a febbraio

Bruno Dorella e soci realizzano “L’ultimo re”, album che fonde Tarantino al ritmo tzigano

canzone arabo-islamica che era stata presente per secoli nell’Africa centro-occidentale». La nota teorizzazione di Kubik, etnomusicologo tedesco che ha studiato l’origine del blues, rende conto di un genere sfuggente e non del tutto sviscerato dalla teoria musicale, perché ricco di apporti spesso contrastanti e mai univoci. Temi e poetiche, passate a setaccio anche da Vincenzo Martorella nel suo Il Blues (Einaudi, 250 pagine, 20,00 euro). Che cosa si nasconde dietro la musica a dodici battute che nacque poverissima e diventò l’icona delle élites aristocratiche bianche? Uno studio appassionante, che tenta di rispondere con puntualità a questa e altre domande.

mi il 7 febbraio, sono state fatte le cose in grande, perché sul palco salirà una band giunta all’invidiabile traguardo di 45 anni di carriera. Stiamo parlando degli Who, mitico gruppo londinese che nella vetrina sportiva metterà in mostra alcuni dei pezzi che li hanno consegnati alla leggenda. Pete Townshend e compagnia, giudicati dagli addetti ai lavori come la miglior band live di tutti i tempi, porterà sul palco di Miami quella My generation che diventò inno collettivo a metà degli anni Sessanta. Insieme ad altri successi, che vantano innumerevoli tentativi di imitazione.

sonagli e assolate steppe, su sviluppi sonici degni di menzione, per il palesarsi di un’evidente crescita progressiva della band». Luca Gualdi presenta così la nuova piccola gemma dei Ronin su musicontnt.com. Dopo due anni di silenzio, Bruno Dorella e soci tornano in pista con L’ultimo re, concept album di matrice cinematografica che coagula insieme surf-rock tarantiniano e assolato folk western. Autori della soundtrack di Vogliamo anche le rose per la regia di Alina Marrazzi, i Ronin hanno con il cinema un feeling naturale. Latori di testi per nulla convenzionali, trascinano in atmosfere intricate da contaminazioni in bilico tra Ponente e Levante.

a cura di Francesco Lo Dico

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zapping

PARODIE GRAMSCIANE su Sanremo e i dialetti di Bruno Giurato n magnifico effetto agglutinante, addensante, ipostatizzante, insomma un magnifico fruttapeck delle fesserie che girano intorno. È l’annuncio che a Sanremo potranno concorrere anche le canzoni in dialetto. Decisione sacrosanta per un sacco di ragioni. Ma ha avuto una funzione inaspettata, terapeutica: ha messo in moto commenti che manifestano la crema del diversamente intelligente italico. Per esempio il direttore dell’associazione dei discografici Enzo Mazza dice che col dialetto si vuole ridurre Sanremo a una sagra di paese. A parte che chi scrive frequenta sagre di paese e si sente un tantino offeso - evidentemente Mazza frequenta cene da roof garden e/o seminari di metafisica - Creuza de ma di De Andrè e U piscispada di Modugno sono roba, come direbbe Mazza, da sagra? Mazza potrebbe rispondere che sono punte d’eccellenza, e che a Sanremo non si vedono queste vette. Vorrebbe dire che Sanremo per Mazza è già una sagra di paese (complimenti), e allora la presenza del dialetto avrebbe il merito di svelarne la reale sostanza. Poi c’è una testa solitamente brillante, Giordano Bruno Guerri. Scrive che le canzoni in dialetto rischiano di allontanare ulteriormente gli italiani dalla lingua italiana. C’è di più. Per Guerri il dialetto a Sanremo è una strategia leghista per frantumare l’unità nazionale. Qui, Lega o non Lega, l’idea di contrastare il regionalismo con un’egemonia culturale fatta di testi di Sanremo (ripetiamo: testi di Sanremo) sembra una parodia gramsciana da zombie. E comunque sono canzonette, Giordano, spesso in dialetto vengono meglio per questioni di musicalità. Guerri dice perfino che gli studi sulla capacità dei computer di «comprendere» le lingue metteranno presto o tardi i dialetti fuori gioco. La risposta potrebbe essere I totally disagree (se parliamo tutti inglese i computer ci capiscono meglio). Ma possiamo ancora concederci un ma chi catenazzu dici?.

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classica

jazz

Diana, imbattibile anche nello stride di Adriano Mazzoletti on il trio Alboran di Fabio Palaga, Gigi Biolcati e Dino Contenti che si è esibito ieri al piccolo Teatro Studio dell’Auditorium sono iniziati gli ultimi concerti del Festival del Jazz di Roma che si concluderà domenica 29 e lunedì 30 rispettivamente con il Saint Black Quartet del sassofonista e clarinettista Dave Murray e l’«accordeonista» Richard Galliano, acclamato in Italia, molto meno in Francia tanto da non figurare neppure nel Dictionaire du Jazz dei francesi Philippe Carles, André Clergeat e Jean-Louis Comolli. E sappiamo quanto i nostri fratelli d’oltralpe siano accondiscendenti verso i connazionali. Il clou del festival ha avuto però luogo nella settimana 9-15 novembre con quattro concerti che hanno registrato il tutto esaurito o quasi: la «So What Band» e il Trio Brad Mehldau e Diana Krall alla Sala Sinopoli, il Sestetto di Sonny Rollins alla Santa Cecilia. Se il «successo di pubblico è stato superiore a ogni previsione» ha affermato il direttore artistico Mario Ciampà, non può dirsi altrettanto per quello artistico. Il concerto della «So What Band», che ha riproposto i brani incisi nel 1959 da Miles Davis, John Coltrane, Cannonball Adderly, Paul Chambers, Jimmy Cobb e dai pianisti Bill Evans e Wynton Kelly pubblicati nel celebre Kind of Blue, è stata una ben pallida copia dell’originale, con la mediocre tromba Wallace Roney, forse preoccupato del ruolo che doveva ricoprire e Javon Jackson nell’improbabile veste che fu di John Coltrane. Più a loro agio l’altosassofonista Vincent Herring, la cui foga sempre controllata, lo pone come il più intelligente allievo di Cannonball Adderly, il pianista Larry Willis e l’eccellente contrabbassista Buster Williams, l’unico assieme a Jimmy Cobb ad aver suonato con Miles Davis. Che dire dell’ottantenne Jimmy Cobb, uno dei grandi batteristi del jazz moderno, unico sopravissuto di quello storico gruppo che incise Kind of Blue? Impeccabile nell’accompagnamento ai suoi giovani colleghi, ma senza quel fuoco che lo contraddistingueva quando era il partner di Cannonball, Dizzy Gillespie, Miles Davis o co-leader di quello splendido trio con Wynton Kelly e Paul Chambers. Chi invece non ha nulla perduto delle sue enormi capacità è Sonny Rollins, l’ultimo dei grandi sassofonisti della storia

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del jazz. Malgrado i suoi settantanove anni compiuti il 9 settembre, ha suonato ininterrottamente per un’ora e quarantacinque minuti. E quando dico «ininterrottamente» dico che non hai mai smesso di suonare neppure durante gli assolo di Bob Cranshaw o del fedele trombonista Clifton Anderson. Dal 1956 anno di Saxophone Colossus, Rollins è stato il polo di attrazione per una infinità di suoi contemporanei. Ancor oggi continua a esser uno dei più avventurosi improvvisatori degli ultimi sessant’anni. La grande comunicativa, i cambiamenti improvvisi, le ripetizioni ossessive, l’humour portato quasi al sarcasmo al tempo stesso impetuoso e lirico, sono alcune delle caratteristiche della sua grande personalità. Dei quattro concerti solo quelli di Brad Mehldau e quello di Diana Krall hanno fatto il tutto esaurito. Mehldau è un eccellente pianista di formazione classica che ha iniziato la sua carriera di musicista jazz sotto l’influenza di Bill Evans, ma di questo grande pianista non possiede certo il genio. È stato anche paragonato a Keith Jarrett, ma è un confronto anch’esso non sostenibile. Ciò che colpisce è la straordinaria tecnica strumentale che deriva dalla sua formazione classica. Spesso è perfettamente in grado di eseguire una diversa melodia con ciascuna mano, utilizzando metriche diverse come 5/4 e 7/4. Successo previsto anche per Diana Krall. In una sala esaurita in ogni ordine di posti la pianista e cantante canadese ha affascinato il pubblico, non solo per la sua indiscutibile bellezza, ma per le doti di brillante pianista, in grado di creare linee che ricordano quelle che Nat «King» Cole era solito improvvisare con il suo celebre trio. Un repertorio di famosi standard nord-americani e brasiliani eseguiti con grande finezza sui tempi lenti e con foga su quelli veloci. Accompagnata con efficacia dal chitarrista Anthony Wilson, dal contrabbassista Robert Hurst e dal batterista Karriem Riggins, ha sorpreso esibendosi anche in uno stride che nessun pianista di oggi è in grado di affrontare. Brava, bravissima Diana Krall a cui possiamo volentieri perdonare quelle note scorrette che le sono sfuggite durante la «coda» di I’ve Grown Accostumed to Your Face, la bella, ma non facile canzone che Alan Jay Lerner e Frederick Loewe avevano composto nel 1956 per My Fair Lady. Diana Krall

L’opéra-comique di Donizetti con la claque e in italiano di Jacopo Pellegrini embrava di essere tornati indietro di cinquanta e più anni con la Figlia del reggimento andata in scena al Ponchielli di Cremona: una pomeridiana domenicale a teatro bello pieno, istigato all’applauso frenetico e continuo per l’opéra-comique di Donizetti da una claque insistente quanto entusiasta. Il tutto coronato dal bis della cabaletta di Tonio (Gianluca Terranova, sicuro se non irreprensibile), quella famosa coi 9 do acuti 9. In realtà, il salto nel passato valeva anche per la versione prescelta dal Circuito lirico lombardo per questo nuovo allestimento, visibile domani a Bergamo (città natale del compositore) e in gennaio a Pavia e Ravenna: come ai bei tempi di Valletti o dei giovani

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Kraus e Pavarotti la lingua impiegata dai cantanti era non l’originale francese, bensì l’italiano. Solo che, nel caso odierno, a rendere il piatto succulento, più che le voci - peraltro affidabili, in particolare la musicalissima protagonista Yolanda Auyanet, - contribuiscono le spezie della filologia, garantite sia dall’edizione critica dell’adattamento predisposto dallo stesso Donizetti nell’ottobre 1840 per la Scala di Milano, a pochi mesi dal debutto parigino (febbraio), sia dalle scelte in materia di strumenti (cornette al posto delle trombe, cimbasso invece della tuba) a loro disposizione (contrabbassi divisi in coppie poste ai lati) effettuate dal direttore e concertatore Alessandro D’Agostini. Il quale merita un elogio per non aver attenuato una strumentazione per nul-

la delicata (tranne pochi momenti solistici), anzi bruyante, fragorosa, la sua parte, com’è giusto che sia in un faux vaudeville militaire (son tutte espressioni tratte dalle prime recensioni). Peccato l’orchestra non sempre equilibrata e il coro mediocrissimo. Spettacolo agile spigliato zeppo di trovate estrose, prima tra tutte l’orsacchiotto di peluche, che dalle dimensioni normali dell’Atto I passa a occupare tutta la scena nel II. Meno indovinata la caricaturale festa conclusiva. Il tutto - regia scene costumi - reca la firma di Andrea Cigni (belle luci di Fiammetta Baldisseri). La nuova edizione musicale, a cura di Claudio Toscani, perde per strada un paio di numeri, ma ripristina i versi italiani originali (pessimi e zoppicanti) di Calisto Bassi, i recitativi cantati (in luogo dei parlati tipici del genere co-

mique: ma il corso drammaturgico non se ne avvantaggia, al contrario), un duettino finale in ritmo di polacca che fa molto Linda di Chamonix, e un’aria per Tonio nell’Atto I, proveniente dal Gianni di Calais, che a quanto credevo di sapere venne introdotta da Donizetti al posto della cabaletta coi do, mentre qui (come già con Kraus) convive pacificamente con essa. A non mutare, in definitiva, è il carattere della musica, che resta schiettamente transalpino in barba all’idioma adottato: andamenti metrici e ritmici, profili melodici, taglio dei pezzi (anche l’aria sostitutiva del tenore è in forma strofica, à la francese), potrebbero portare la firma di Adam, Hérold, Auber; anzi, alle volte mostrano già la cocasserie, il ghigno acre e ribaldo di un Offenbach.


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narrativa di Pier Mario Fasanotti

e lo dobbiamo proprio confessare: fino al giorno in cui è stato assegnato il Premio Nobel 2009, di Herta Müller non sapevamo quasi niente. Un coraggioso editore di Rovereto, Keller, ha scommesso reputazione e soldi nel pubblicare e diffondere quel che alcuni considerano il capolavoro della Müller, Il paese delle prugne verdi. Ma l’evento non ha smosso la critica italiana, anche perché la letteratura tedesca (Herta Müller, nata in Romania, vive a Berlino ed è di cultura tradizionalmente tedesca) continua a essere poco esplorata dai nostri editori (con eccezione della Feltrinelli). Nel 1992 l’editore Marsilio ha mandato in libreria In viaggio su una gamba sola. Ma anche allora le acque sono rimaste ferme. Ora l’editore veneziano l’ha subito ripubblicato, con tanto di fascetta in cui compare «Premio Nobel 2009». Colpisce subito, di questo romanzo, la prosa che non è tanto secca o asciugata, quanto visionariamente poetica, come se fosse una misuratissima antologia di istantanee. È la storia di Irene che lascia il paese natale, quello in cui il dittatore Ceausescu viene bollato come «il padre di tutti i morti», l’uomo che crudelmente plasmò la Romania iniettandole paura, ricatto, sospetto, terrore. Irene è la donna del disagio, anche dopo essere uscita dal centro per i rifugiati politici. L’autrice non indulge mai a descrivere la nostalgia o lo spaesamento secondo i consueti, e magari dolciastri, canoni narrativi. Si affida piuttosto alle immagini, che corrono svelte, una dopo l’altra. Ecco perché ho usato il termine «istantanee». A Franz, col quale potrebbe nascere una storia d’amore, Irene affida la sua angoscia di espatriata: «Lo so, non c’è pace in questo cortile, c’è solo silenzio». Franz a sua volta prova imbarazzo dinanzi a una finestra che non s’affaccia sulla strada. Se la giovane donna entra in un locale, «viene sopraffatta dalla goffaggine. Subito dopo essersi seduta a un tavolo, si chiedeva perché mai fosse entrata. Non per mangiare, non per bere, non per sedersi e nemmeno per parlare. Forse per passare dalla strada a una stanza».

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libri

Sulle spalle e sulla pelle di Irene grava l’ombra scura del passato della Müller. Nata nel 1953 a Nitchidorf, comune di 1500 anime della Romania appartenente alla minoranza degli Svevi del Banato (un ramo della più vasta famiglia degli Svevi del Danubio) conosce bene la «duplice oppressione». Prima c’era stata la violenza sovietica verso un paese fascista, che con Antonescu era stato alleato di Hitler: dal gennaio del 1945 tutti i tedeschi romeni tra i 17 e i 45 anni vennero deportati nei campi di lavoro per la riparazione dei danni di guerra; poi l’oppressione delle minoranze coabitanti, inasprita dal regime di Ceausescu, che beffardamente incurante della Costituzione portò il numero dei tedeschi presenti in Romania, tra il 1956 e il 1989, a rarefarsi fino a un decimo rispetto agli anni dell’immediato dopoguerra.\u2028Con Franz Hodjak, Werner Söllner e Richard Wagner (poeta e marito del Premio Nobel), Herta Müller fa parte di una costellazione di autori che dagli anni Ottanta ha aperto nella letteratura di lingua tedesca originali novità espressive. Non a caso si parla di «quinta letteratura tedesca» (Germania dell’Ovest, Germania dell’Est, Austria, Svizzera, e minoranze germaniche nell’Europa centro-orientale). La protagonista Irene è la persona-simbolo di un pendolo mai fermo, racchiude in sé l’ansia dell’andare e del rimanere. Il libro è un doloroso e indiretto interrogarsi su che cosa sia dove si colochi la Heimat, la madre-patria. Che non è solo prati, città e colline, ma luogo dell’anima, specchio dove verificare il nucleo della propria identità. Irene dirà a un funzionario tedesco: «Conosco solo destini sbagliati». Un suo conoscente, Thomas che vede dappertutto «angeli ambigui», le confida: «Ho sempre vissuto contro me stesso». Irene e Thomas raggiungono un grado inusuale di intimità. La donna lascia il letto e si accosta alla finestra: «La notte andava avanti e indietro… ebbe la sensazione che questa notte e questa città giocassero a guardie e ladri. Colpevoli e vittime, come lei».

Istantanee

di Herta Müller sulla Heimat che non c'è

Herta Müller, In viaggio su una gamba sola, Marsilio, 169 pagine, 15,00 euro

riletture

Cercare Dio (con Simone Weil) attraverso la sventura di Pasquale Di Palmo l cammino della grazia nei cuori è segnato e silenzioso» scriveva Simone Weil, la cui vicenda umana ed esistenziale si configura come una delle più emblematiche del Novecento, soprattutto in virtù della sua tormentata esperienza spirituale, documentata dalla pubblicazione di Attesa di Dio, definito da Cristina Campo «un immenso libro». E, in effetti, quest’opera postuma, pubblicata originariamente nel 1950, a cura di Joseph-Marie Perrin, il padre domenicano a cui furono indirizzate le straordinarie sei lettere che aprono il volume, costituisce forse l’espressione più compiuta del pensiero, pur variegato, della Weil. Dopo le edizioni offerte da Casini (1954) e da Rusconi (1972 e successive ristampe), esce ora una nuova versione di Attesa di Dio (Adelphi,

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XXXVI + 356 pagine, 25,00 euro), a cura di Maria Concetta Sala, che si segnala per lo scrupolo filologico e per l’attenzione riservata ad apparati e varianti, tra cui le primitive stesure di alcuni scritti, presentate per la prima volta in italiano. In queste lettere la scrittrice dimostra il suo bisogno di verità, esponendo, in maniera semplice e lineare, le ragioni del suo trasporto per il cristianesimo e la figura di Cristo, con accenti di una commovente delicatezza, e ponendosi a un passo dalla conversione, nonostante la sua origine ebraica e la sua temporanea adesione al credo socialista. Non è un caso che, nella seconda lettera, La Chiesa in quanto cosa sociale, la scrittrice avanzasse parecchie perplessità intorno all’operato della Chiesa, anticipando temi che saranno ampiamente dibattuti ai nostri giorni: «Alcuni santi hanno approvato le Crociate, l’Inquisizione. Ebbene, non

posso fare a meno di ritenere che abbiano avuto torto. Non posso ricusare la luce della coscienza. Se penso che io, così al di sotto di loro, su questo punto vedo con maggiore chiarezza, sono costretta ad ammettere che devono essere stati accecati da qualcosa di molto potente». Memorabili certi passaggi, soprattutto della quarta lettera, non a caso intitolata L’autobiografia spirituale, come quando si descrive la sofferta esperienza della liturgia: «Nel 1938 ho trascorso dieci giorni a Solesmes, dalla Domenica delle Palme al martedì di Pasqua, e ho seguito tutte le funzioni. Avevo fortissimi mal di testa, e ogni suono era per me come un colpo; eppure un estremo sforzo d’attenzione mi permetteva di uscire dalla miserabile carne, di lasciarla soffrire in disparte, rannicchiata in un angolo, e di cogliere una gioia pura e perfetta nell’inaudita bellezza del canto e delle parole».

Oltre alle lettere vengono presentati i quattro saggi che integrano il disegno primigenio dell’opera (i cui testi vanno ascritti al biennio 1941-1942), compreso L’amore di Dio e la sventura che si segnala per le acute argomentazioni da cui traspaiono una pietas e un’integrità morale sorprendenti. La sventura è considerata infatti una delle condizioni irrinunciabili per avvicinarsi all’entità divina, nonostante l’uomo sia «in balìa della gravità». Una lettura, questa di Attesa di Dio, che scuote e arricchisce le coscienze, come quando si legge nel saggio intitolato Forme dell’amore implicito di Dio: «Non stupisce che un uomo provvisto di pane ne dia un pezzo a chi ha fame. È invece stupefacente che sappia farlo con gesto diverso da quello con il quale si compra un oggetto. L’elemosina, quando non è soprannaturale, somiglia a un’operazione d’acquisto. Con essa si compera lo sventurato».


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religione

La libertà non si ferma sull’orlo del mistero di Irene Franco l cristianesimo non può ridursi a «pura ideologia morale e sociale», ma è l’incontro con Cristo. Non si può affascinare nessuno con il «Tu devi, tu non devi». È questa la frase centrale del libro di Alessandra Borghese e del cardinale Carlo Caffarra, La verità chiede di essere conosciuta. Una conversazione che mette al centro, nel primo capitolo, la fede in un mondo in cui non prevale tanto l’ateismo, una scelta pesante che costringe comunque a fare i conti con Dio in qualche modo, ma il «gaio nichilismo» del «purché funzioni». Incontrare la fede, invece, cambia la vita - sostengono i due autori - si sente il bisogno di tra-

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personaggi

smettere la bellezza e la gioia con coraggio e fermezza. Caffarra parla di libertà in questi termini: «Poniamo l’ipotesi che non esista Dio, e che siamo venuti al mondo per caso. La mia libertà, alla fine, si esercita solo fra realtà finite e contingenti. In ultima analisi che senso ha scegliere A piuttosto che B? Ma se c’è Dio devo confrontarmi con lui. E se l’io si misura con Dio cosa succede? Dentro questo confronto qual è la misura della grandezza dell’io? Infinita». Dio, la ricerca della verità - dunque - ampliano infinitamente gli spazi della persona e della libertà. Più le scelte sono importanti e radicali più si esalta il ruolo della libertà. «È poca cosa la libertà se si ferma sull’orlo del mistero», scrive Ales-

sandra Borghese. Se questo è il nucleo centrale del libro, ci sono altre due parti che riguardano La chiesa e il mondo e Il cristianesimo oggi e domani. I due autori si confrontano a lungo sull’importanza della istituzioni ecclesiastiche, sulle liturgie, riconoscendo a queste una centralità che per molti anni è stata negata, recuperata oggi da Benedetto XVI. Il libro indaga poi problemi giganteschi quali il significato del dolore, della sofferenza, del ruolo del cristiano. Ma qua e là è pervaso da un filo di pessimismo, che gli è stato rimproverato, quando si mette in evidenza che, eccettuati l’Italia e gli Usa, molti grandi paesi occidentali sono completamente scristianizzati. Luoghi dove ormai non

si assiste più alle conversioni. Forse i due autori hanno ragione, ma probabilmente gli ultimi due papi hanno provocato uno scossone e la situazione che descrivono Caffarra e Borghese sta lentamente cambiando. E le prime testimonianze di ciò vengono proprio da un paese profondamente secolarizzato come la Francia. La fatica di Caffarra e Borghese è quella di portare temi difficilissimi alla comprensione del maggior numero di persone. E in questo sono riusciti: il libro è interessante, gradevole, discretamente semplice. Alessandra Borghese, Carlo Caffarra, La verità chiede di essere conosciuta, Rizzoli, 171 pagine, 18,00 euro

Sciascia il “guastatore” secondo Camilleri di Mario Donati acume intellettuale di Leonardo Sciascia si riversò anche nella politica. Prima come consigliere comunale a Palermo (1975), indipendente nelle liste del Pci, poi, dal 1979 al 1983 in Parlamento assieme ai radicali. Andrea Camilleri raccoglie ora, a vent’anni dalla sua morte, i brevi e pungenti interventi del grande scrittore conterraneo, spiegando subito che comunista non lo fu mai stato, anzi alla fine verso l’apparato rosso nutrì avversione. D’altra parte i comunisti, con una buona parte di ottusità, non gradirono le sottigliezze profetiche contenute nel Contesto e in Todo modo. Sciascia tuttavia ricordava che il liberale Vitaliano Brancati aveva paradossalmente dichiarato che «in Sicilia, per essere veramente liberali, bisogna almeno esse-

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narrativa/2

re comunisti». Da consigliere, e amico di Achille Occhetto, si dimise l’anno dopo: «… pochi mesi per capire che il Pci non era predisposto a ricoprire quel ruolo di opposizione che era stato il suo consiglio comunale… il fatto è che non si poteva ingaggiar battaglia a Palermo e continuare il compromesso a Roma». Sciascia sente come dovere fare «il guastatore» al fine di cercare la verità. La stessa linea la mantiene nelle file dei radicali. In aula parlò pochissimo, ma quando lo fece, con voce lenta e roca, pareva mettere in imbarazzo l’oppositore o l’interlocutore con una logica stringente che si abbeverava nella memoria illuministica. Il suo sogno era quello di «rompere i compromessi e le compromissioni, i giochi delle parti, le mafie, gli intrallazzi, i silenzi, le omertà; rompere questa specie di patto tra stupidità e violenza che si viene manifestando nelle cose italiane». Una sua frase po-

trebbe essere ripetuta più volte oggi, vista la sua carica profetica: in certi casi la legge serve «a fare tabula rasa in questo paese dell’idea stessa del diritto». Affrontò, negli anni terrorismo, il tema della tortura. Dinanzi a chi subdolamente evitava di indagare sulla questione degli eversori torturati affermando che con troppo zelo difensorio si arrivava a convergere oggettivamente sulle loro posizioni, Sciascia risponde seccamente: «Personalmente di questa accusa ne ho abbastanza! In Italia basta che si cerchi la verità perché si venga accusati di convergere col terrorismo nero, rosso, con la mafia, con la P2 e con qualsiasi altra cosa». Dei politici Sciascia aveva una bassa opinione. E del proprio impegno politico, allora? Era improntato a coniugare etica e politica. E se questo qualcuno lo chiama errore, diceva, mi auguro che gli italiani caschino in questo errore, specialmente in questi tempi. Frase da commentare con due sole parole: anche oggi. Andrea Camilleri, L’onorevole siciliano, Bompiani, 189 pagine, 12,00 euro

A lezione da La Capria di “distrazione vigilante” di Giancristiano Desiderio a prosa di Raffaele La Capria è bella e suadente. Scorre via senza fatica, una parola dopo l’altra, come lo sguardo che si posa sulle cose e le accarezza.Vorrei quasi dire che il contenuto non conta, che ciò che conta è solo il modo in cui le cose sono dette. Ma so che non farei un complimento e sarei frainteso. Come quelli che - faccio un esempio - di Croce dicono: «Ma io leggo Croce soprattutto per la grandezza della sua prosa». Come se quella prosa così chiara non esprimesse anche un pensiero vero. Ecco, voglio dire proprio questo per La Capria: la chiarezza della sua

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scrittura, il piacere che se ne ricava dalla lettura, corrisponde al pensiero vero che esprime. Anzi, credo che lo sforzo della prosa perché lo stile chiaro è una conquista, una disciplina, frutto di un lavoro - abbia alla base proprio la volontà di voler esprimere bene il giudizio. L’ultimo libro di Raffaele La Capria si intitola A cuore aperto. Perché il racconto inizia dopo l’operazione a cuore aperto. Anzi, da poco prima, da quando lo scrittore entra in clinica ed esce dalla sala operatoria e, dopo qualche ora, comincia il risveglio. Lo scrittore è nel suo letto ed è assistito da una varia umanità che gli vive intorno e se ne prende cura. Perché? Ecco, da qui inizia il libro, dal biso-

gno di bere che non può essere soddisfatto subito dopo l’intervento a cuore aperto: «Uno di loro, un giovanottone romano, un certo Michele, mi si avvicinò e sentì che mi lamentavo e dicevo: “Avessi almeno una mentina!”. Stava preparandosi ad andar via per il turno di riposo… Passò un’infinità di tempo, infinito è il tempo dell’attesa, e quando quel ragazzo tornò il giorno dopo, venne dritto verso il mio letto e mi diede una mentina». A cuore aperto è un libro che ha per suo scopo la sincerità. Lo scrittore parla del sentimento della vita e delle cose, ultime o penultime poco conta, che realmente hanno valore. Lo scrittore ha ben più di ottant’anni e la morte sembra es-

sere il vero «pensiero dominante» di questo libro (in realtà, anche i libri precedenti di La Capria sono una riflessione su «sorella morte corporale» a cui nessuno «omo vivente può scappare»). È come se tutto venisse filtrato attraverso questa fine annunciata, ma mai conosciuta. La Capria chiama questo filtro «distrazione vigilante»: così i fatti del mondo, anche quelli rumorosi della quotidianità politica, sono sì annotati e considerati ma, appunto, con la «distrazione vigilante» che permette di graduare l’importanza delle cose. Raffaele La Capria, A cuore aperto, Mondadori, 111 pagine, 14,00 euro

altre letture Un Benito Mussolini inedito, ma sarebbe meglio dire poco conosciuto, quello che si presenta in veste di narratore con un romanzo d’appendice dal titolo L’amante del Cardinale. Claudia Particella apparso a puntate, dal 20 gennaio all’11 maggio del 1910 sul giornale socialista Il popolo fondato da Cesare Battisti. Un romanzo ormai introvabile che Salerno editrice ripubblica per cura di Paolo Orvieto (216 pagine, 13,00 euro). Imperniato su una vicenda accaduta nel Seicento - lo scandaloso amore del vescovo-principe di Trento, Carlo Emanuele Madruzzo, per la bella cortigiana Claudia Particella - il romanzo ricorre a tutte le classiche armi del feuilleton, mescolando abilmente horror ed erotismo. Il libro documenta anche le idee politiche del Mussolini di allora: anarchico, socialista e rivoluzionario. Il XXI secolo ha lasciato al nuovo millennio un’eredità tragica. La più radicale affermazione di autonomia - di liberazione - dell’uomo che la storia abbia conosciuto si è risolta nel suo esatto contrario, la riduzione in schiavitù e lo sterminio di milioni di esseri umani nei lager tedeschi, nei gulag russi e cinesi, nei massacri cambogiani. Dopo che tutto questo è accaduto l’idea di umanità non può più essere pensata in modo innocente. Essa ha bisogno di essere concepita in modo nuovo. Alain Finkielkraut in L’umanità perduta. Saggio sul XX secolo (Lindau, 148 pagine, 14,00 euro) sostiene che proprio questo è il compito del nostro tempo: ribaltare l’idea che tutto all’uomo sia permesso. «La scienza non

regge di fronte all’opera del poeta», aveva scritto Freud. Carlo Alessandro Ladini in Lo sguardo assente. Arte e autismo in Savinio (Franco Angeli editore, 200 pagine, 20,00 euro) esamina, sotto un profilo insieme psicologico e neuropsichiatrico, l’opera e il personaggio Alberto Savinio, fratello minore del più celebre Giorgio de Chirico, con un rispetto e una considerazione non mai disgiunti dal massimo rigore metodologico, col proposito di salvaguardare l’indispensabile autonomia dell’arte contro le pretese, qualche volta eccessive, della scienza medica. Nel caso di Savinio, l’istituto della creazione artistica si scontra talora con la diagnosi di disturbo della personalità da cui il pittore e letterato fu affetto, ma fra questo e quella non è mai così chiaro quanto il nesso, la ragione di causa ed effetto, sia profondo e necessitante e quanto, invece, occasionale e di circostanza. a cura di Riccardo Paradisi


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biografie

MINUTA, CON I LINEAMENTI TIPICI DI UN'EBREA, NON BELLA, MA PIENA DI FASCINO. COSÌ LA DESCRIVE L'EDITORE GRASSET CHE LA LANCIÒ IN FRANCIA. LA VITA DELLA NÉMIROVSKY, NATA IN UCRAINA, VISSUTA A PIETROGRADO, A MOSCA, POI IN SVEZIA E A PARIGI, CI RACCONTA, INSIEME AI SUOI LIBRI, I DRAMMI DI UN SECOLO, IL NOVECENTO, DEVASTATO DALLE IDEOLOGIE. OLIVIER PHILLOPPONAT E PATRICK LIENHARDT L'HANNO RICOSTRUITA…

Il romanzo di Irène di Gabriella Mecucci a biografia si fa romanzo. Leggere La vita di Irène Némirovsky di Olivier Phillipponat e Patrick Lienhardt, edito Adelphi (513 pagine, 23,00 euro), consente di rivedere in controluce le storie raccontate nei suoi libri. Una grande produzione letteraria quella di questa giovane scrittrice ebrea, nata in Ucraina, vissuta per un po’ a Pietrogrado, poi a Mosca, poi in Svezia e infine definitivamente esule a Parigi. Irène venne alla luce e mosse i primi passi nella splendida Kiev, figlia di una famiglia ebrea e benestante: con un padre uomo d’affari e una madre insopportabile, quella Fanny che fu un cruccio per tutta la sua vita. Passava sin da piccola - era nata nel 1903 - lunghi periodi in Francia. Abitudine che dovette ab-

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mentari e degli alcolici. Si uccidevano i proprietari di ristoranti e di cantine, si portava via tutto e nelle strade di Pietrogrado migliaia di persone bevevano e si ubriacavano. Quest’orgia di sangue, di vino e di vodka veniva spacciata per la riconquista della libertà. La quattordicenne Irène respirava quelle atmosfere altamente drammatiche, quegli odori forti, spesso nauseabondi, e li restituirà magistralmente, insieme alla paura e al fanatismo, in Fumées du vin.

Ma non sarà solo in questo il libro che racconterà la Russia impazzita. Ce n’è uno, uscito recentemente in Italia per Adelphi, L’affare Kurilov, che narra l’antefatto della presa del Palazzo d’inverno: il regime

Scriveva a ritmi intensi per poter vivere. Il suo capolavoro “Suite francese”, pubblicato solo nel 2004, doveva essere composto di cinque “movimenti”: fece in tempo a finirne solo due, prima che la Gestapo la spedisse ad Auschwitz bandonare con lo scoppio della prima guerra mondiale. La prima fase altamente drammatica della sua vita iniziò con la rivoluzione d’ottobre: con le fughe continue del padre e con la carestia che colpì Pietrogrado a un mese dalla presa del Palazzo d’inverno. La città era sfigurata dalle scorribande di feroci bande armate e avvolta dalla fame e dalla morte: i furti e le rapine imperversavano; per aver latte, zucchero, pane occorreva fare ore di fila sotto la pioggia, mentre si assisteva a un saccheggio continuo, giorno e notte, dei negozi ali-

degli zar, l’attività del terrorismo. La tragedia del novembre 1917 - ci spiega Irène - è anticipata da altre tragedie. Ancora una volta la giovane scrittrice fornisce una prova magistrale. Un romanzo bellissimo, scritto in modo secco, essenziale, ma capace di raccontare non solo con gran ritmo una trama da thrilling, ma di cogliere le più profonde pieghe dell’animo umano: quello del persecutore e quelle del giustiziere. L’Affare Kurilov si apre con la confessione di Leon B., un terrorista che il comitato rivoluzionario ha in-

caricato di uccidere il sanguinario ministro della Pubblica Istruzione dello Zar, Kurilov appunto, detto il Pescecane perché feroce e vorace. Nel gennaio del 1903 il protagonista, sotto il falso nome di Marcel Leogrand, riesce a entrare nella casa della sua vittima per preparare al meglio l’esecuzione. Ma l’ordine di uccidere tarda ad arrivare e Leon, imbevuto di Schopenauer più che di Lenin, scopre un uomo come lui convinto della senilità dello zarismo. Soprattutto prova compassione per quel vecchio malato, frastornato dal potere, terrorizzato dalla disgrazia e dalla morte, interessato all’arte e alla filosofia. Costretti a convivere, l’assassino e la sua vittima finiscono con l’addomesticarsi e stimarsi a vicenda.

La conoscenza della natura umana è il peggior nemico della purezza rivoluzionaria: è proprio questa la filosofia che sta dietro al libro e la Nemirovskj è interessata al carattere e all’anima dei due protagonisti che scandaglia con acume e partecipazione. Non la dà vinta a nessuno: né agli autocrati zaristi né ai piccoli burocrati bolscevichi, liquidati come divoratori di vite umane. Eppure, dietro un giudizio inflessibile, serpeggia anche la pietà. Questo romanzo uscì a Parigi nel dicembre nel 1932 e non fu un successo editoriale, o meglio, non lo fu nei termini sperati: vendette in tutto diecimila copie, mentre il romanzo precedente aveva superato le sessantamila copie. Irène ne rimase delusa anche perché scriveva a ritmi intensi per poter vivere. Aveva già una famiglia: un marito e una figlia. Circa due anni prima era uscito per l’editore Grasset David Golder. Il manoscritto era arrivato in casa editrice con la firma di Epstein, cognome di Irène da sposata, e sin dalla prima lettura si accorsero che sarebbe diventato


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Fu testimone della rivoluzione d’ottobre e nell“Affare Kurilov”, uscito di recente, narra l’antefatto della presa del Palazzo d’inverno. Con una morale: la conoscenza della natura umana è il peggior nemico della purezza rivoluzionaria quello che oggi definiamo un best-seller. Era un romanzo d’affari con protagonista un ebreo, amante del denaro, proteso per tutta la vita ad accumularne. Un racconto, al termine del quale, si odiano i soldi, e le «lordure» di un certo mondo finanziario. Il tutto narrato con un linguaggio forte, virile, trasgressivo, che lascia di stucco i benpensanti della critica letteraria e seduce i modernisti. Grasset decise di pubblicare il romanzo senza ancora averne conosciuto la sua autrice. La incontra alla fine del ‘29: una donna minuta - dirà con i lineamenti tipici di un’ebrea, non bella, ma piena di fascino.

David Golder esce poco tempo dopo e incontra il momento storico giusto: i francesi sono spaventati dal crollo di Wall Street e leggono tutta d’un fiato quella critica verso chi fa del denaro un feticcio da adorare e verso la corruzione del mondo finanziario. La gente lo compra, i critici fanno paragoni importanti. Il primo è con Balzac e in particolare con Le père Goriot, il secondo con La morte di Ivan Il’ic. Ed è questo l’accostamento che più piace a Irène. Due sono i suoi scrittori preferiti: Proust e, appunto, Tolstoj che giudica più grande di Dostoevskij («Il primo rappresenta l’umanità, il secondo la Russia», sosteneva).

Sopra, Irène Némirovsky e alcune immagini della sua biografia: da giovane con la madre e con il suo gatto; da adulta, con il marito a Fontainebleau e in spiaggia con la famiglia. Da destra a sinistra, le copertine dei suoi libri più celebri

Tutto bene dunque per David Golder? No, niente affatto. Il libro diventa il bersaglio di numerosi attacchi dei sionisti che vedono nella figura dell’ebreo ricco e tirchio, lo stereotipo agitato dall’antisemitismo, e non risparmiano attacchi alla Némirovsky. La vita parigina di Irène, comunque, è interessante, segnata sì dalle polemiche ma anche dai successi. La giovane scrittrice non è ricca, ma può permettersi una vita agiata: la servitù, una casa in campagna. Alla fine degli anni Trenta ad allietare la coppia Epstein arriva anche un’altra figlia. I drammi della rivoluzione bolscevica sono ormai lontani e quelli del nazismo e della soluzione finale non sono ancora arrivati. Irène scrive, scrive, scrive. Per passione e per soldi, di cui ha sempre bisogno.Vengono alla luce decine di suoi libri e tantissimi racconti. Fra gli altri: Come le mosche d’autunno, I cani e i lupi, I doni della vita, Il ballo, Il calore del sangue, Jezabel, La moglie di Don Giovanni e infine, il suo più grande capolavoro, Suite francese.

Il libro è uscito in Italia nel 2005 e in Francia solo un anno prima. Suite doveva essere composta da cinque movimenti. Purtroppo la scrittrice fece in tempo a scriverne solo due: Tempesta su Parigi e Dolce. Si tratta di una straordinaria carrellata di personaggi parigini in fu-

ga sotto i bombardamenti. Spesso quelle raccontate sono persone reali. Ritratti indimenticabili, come il profilo della famiglia Pericand, paradigma della buona borghesia francese, squallidamente conformista, ingessata nei suoi pregiudizi che Némirovsky ridicolizza, mettendone in luce i tic in modo indimenticabile. O come quello dello scrittore Gabriel Corte, un esteta preoccupato dei suoi manoscritti che ha orrore della povertà, e quello della ballerina Arlette, disposta a qualsiasi compromesso per la sua sopravvivenza. O i coniugi Michaud così saggi nella loro modestia e saggezza. Lampi di vita e di umanità, travolti dalla follia della guerra. La fiumana dei parigini in fuga è un’immagine epica che sarebbe piaciuta a Tolstoj. La seconda parte del libro, Dolce, ha tutta un’altra intonazione. Si passa dalle scene di massa di una folla spaventata e dolente al racconto della storia d’amore fra Lucile e il tenente tedesco che ha requisito la sua abitazione. Fra i due c’è una tale tenera affinità da far dimenticare a tutti che l’ufficiale è anche il nemico. In tutta la Suite convivono pietas e crudeltà, dolore e divertimento, indagine sui sentimenti individuali e potenti scene collettive. Un’opera - come dicevamo uscita solo nel 2004 perché il manoscritto, vergato con scrittura finissima dall’autrice e pieno di note, è stato custodito a lungo da una delle due figlie di Irène, Denise Epstein, che solo molto avanti nel tempo ha deciso di ordinarlo e batterlo a macchina. Per la pubblicazione occorrerà aspettare ancora: quando Suite uscirà, anche le due figlie saranno morte. L’opera non è un’incompiuta e i primi due «movimenti» sono stati composti mentre Némirovsky sta vivendo la sua tragedia personale. Poco dopo l’invasione tedesca, il governo collaborazionista di Le Pen iniziò a promulgare una serie di leggi contro gli ebrei. Irène e l’intera famiglia si erano convertiti al cattolicesimo, ma questo non salvò né lei né il marito. Vichy giorno dopo giorno diventava sempre più pericolosa e antisemita. La scrittrice se ne rendeva conto. Fuggiva, si nascondeva, ma il cerchio si stringeva, la Gestapo le era alle costole. «Ho paura, ho paura», diceva al marito. E aveva ragione. Lunedì 13 luglio del ’42 verso le 10 di mattina, un rumore di una macchina che si ferma davanti casa. Due gendarmi sulla soglia muniti di un mandato di arresto. Le lasciarono appena il tempo di gettare un po’ di roba in una valigia e la portarono via. Finirà ad Auschwitz dove morirà. Anche il marito morirà in un campo di concentramento. Le due figlie furono lasciate scappare da un ufficiale tedesco e riuscirono a impadronirsi del manoscritto di Suite francese. Michael Epstein l’aveva custodito sperando che la moglie tornasse e lo potesse terminare.

Una delle più grandi scrittrici del Novecento sparì nel gorgo dell’odio e dell’antisemitismo. La sua opera per molti anni è quasi del tutto scomparsa dalla circolazione, poi lentamente è riaffiorata restituendoci una donna che amava la vita, che sognava ancora la sua bellissima Kiev, ma che si era innamorata della Francia a tal punto da non volerla abbandonare nemmeno quando per lei diventerà pericolosa: «È il paese più bello del mondo», diceva. I suoi romanzi, i suoi racconti ci restituiscono i drammi di un secolo, il Novecento, devastato dalle ideologie. Irène avverte tutta la violenza che sta montando e non si tira indietro. Scrive cose molto dure con linguaggio sferzante e ironico. Osservava: «La solidarietà? Quando un naufrago si attacca alla tua mano devi tagliargliela altrimenti porta giù anche te». Eppure c’è tanta voglia di conoscere l’umanità sofferente nei suoi romanzi, ci sono pietas e partecipazione. La Suite è una sorta di Commedie humaine della paura e delle reazioni a essa. È il racconto di una tragedia, un attimo prima che la tragedia stessa colpisca chi la descrive. È una corsa contro il male, e il male purtroppo va più veloce. Jean-Jacques Bernard ha scritto nel 1946: «Nata a Est, Irène è andata a morire a Est. Strappata dalla terra natale per vivere, è stata strappata alla sua terra d’elezione per morire.Tra queste due pagine si inserisce un’esistenza troppo breve, ma brillante: una giovane russa è venuta a deporre nel libro d’oro della nostra lingua pagine che l’arricchiscono. Per i vent’anni che ha passato fra noi, piangiamo in lei una scrittrice francese». Per noi italiani quelle pagine sono arrivate in ritardo, ma anche oggi non hanno perso la loro attualità. Némirovsky è una scrittrice e una testimone del dolore del Novecento. Di quello di tutti.


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l’intervista

Incontro con il poeta milanese mentre esce la sua nuova raccolta “Vite pulviscolari”

Cucchi e il confine

estremo delle cose di Loretto Rafanelli uscito di recente Vite pulviscolari di Maurizio Cucchi (Mondadori, 108 pagine, 13,00 euro), autore tra i più importanti della poesia contemporanea, non solo italiana. Cucchi svolge anche una intensa attività come critico letterario e d’arte su La Stampa, su Avvenire e sul Corriere della sera, ed è curatore con Stefano Giovanardi della fondamentale antologia mondadoriana Poeti italiani del secondo Novecento. È traduttore e autore di teatro (Jeanne d’Arc e il suo doppio, Guanda, 2008) e ha pubblicato il romanzo Il male è nelle cose (Mondadori, 2005). In Vite pulviscolari c’è molto di più della normalità e della semplicità delle cose di una certa poesia lombarda, come è stato detto, perché questa raccolta fa pensare piuttosto a una poetica che si dipana in trame che potremmo definire cosmiche. Del resto sulla famosa linea lombarda, definizione di Anceschi, si dovrebbe iniziare a fare una certa chiarezza, perché pare che tutto ciò che c’è di poesia a Milano sia da riportare, impropriamente, a questa idea. Cosa ne pensa Cucchi, poeta milanese, di questa ormai abusata classificazione? «Linea lombarda - spiega Cucchi - è appunto il titolo di una piccola e non molto rilevante antologia uscita 57 anni fa. È diventata una categoria fastidiosa e semplificatrice, che mi ha sempre dato noia. Parlare, eventualmente, di “cultura lombarda”è qualcosa di molto più serio e complesso, che ci porta molto indietro nel tempo, che comprende figure di grande e grandissimo spessore, con la centralità del Manzoni e la forza di una tensione morale che arriva a increspare la lingua, a volte a farla esplodere. Penso a Rebora, a Tessa e a Gadda, parlando di Novecento. Per restringere il campo si potrebbe parlare di poeti operanti a Milano nel dopoguerra, come lo stesso Sereni presente nell’antologia di Anceschi e come anche Erba, ma ai quali vanno aggiunti, come decisivi, Raboni, Giudici, Majorino, Cesarano, Porta, Pagliarani. Ma questa è tutta un’altra storia. Quella che fu definita linea lombarda è come l’esile fotogramma di un film ben più ricco e articolato, ed è un’etichetta utile solo alla pigrizia intellettuale e all’ottusità di certa critica. Torniamo a Vite pulviscolari. Una raccolta dove troviamo temi personali (i versi bellissimi del ricordo struggente della madre, in Il bacio della buonanotte), dell’infanzia e

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temi che si protendono verso un «orizzonte/ al confine estremo delle cose». Ce ne può parlare? Ho chiuso il libro dopo aver scritto la prima sezione, Il bacio della buonanotte, che è dunque l’ultima in ordine cronologico. Ma era un progetto che avevo dentro di me da tempo, difficile, molto difficile da mettere in pratica a causa della commozione, del magone, che sapevo mi avrebbe causato. Ci sono altri temi che mi stanno a cuore, come quello del rapporto diretto e costante, fisico, con la realtà, un rapporto di cui oggi siamo sempre più espropriati, e che causa anche il nostro mutato senso nell’incontro, più indebolito, con le cose e la loro fisionomia. Poi c’è, diffusa, una sorta di ossessione per il valore minimo della presenza dell’individuo nell’economia dell’universo; una presenza, appunto, pulviscolare, e sempre più vicina a un orizzonte degli eventi che rischia di assorbirla annichilendola. Ma queste sono soltanto le prime cose che mi vengono in mente ripensandoci...

città, come amerei stare in un’altra se fosse il mio habitat. In questo nuovo libro, del resto, nella prima parte si parla più di Catania che di Milano. Ha senso che leggendo le sue poesie, io mi sintonizzi spontaneamente ad ambienti e figure del passato? Mi riappaiono straordinarie immagini del libro Cuore o versi del Pascoli o pagine di Praga, i pacati e modesti mondi di un tempo, irrimediabilmente perduti, temi, mi pare di poter dire, pur nel vitreo colore della finis, di un fascino unico, che lei riporta alla luce con una forza espressiva straordinaria… Se queste associazioni le sono nate spontaneamente hanno evidentemente senso. Io non ci avevo pensato. Gli autori a cui lei fa riferimento sono molto importanti e considero Pascoli un grandissimo della nostra poesia di tutti i tempi. De Amicis e Praga sono figure a me care. Può darsi che io ne abbia ripetuto suggestioni e modi. Non saprei. In una sua poesia, dice: «Dio, anima: parole,/ concetti remotissimi, inservibili,/ bolle svuotate, strutture/ di pensiero arcaico». Dunque il

Il rapporto diretto, fisico, con la realtà, che siamo sempre più incapaci a intrattenere. L’ossessione per il valore minimo della nostra presenza nell’economia dell’universo. La ricerca di strumenti espressivi non fossilizzati. Una poetica che si dipana in trame cosmiche... Recensendo, proprio su queste colonne, La traversata di Milano, il suo bel libro del 2007, rilevavo la sua partigiana appartenenza a questa città. Ora, allargando le considerazioni ai suoi libri di poesia e pure a Vite pulviscolari, si può dire, riguardo Milano, che questa città le risulti di una necessità cruciale, come un palpito naturale, che potremmo pensare sia paterno che materno; e c’è, sembra, una volontà profonda di viverci «dentro», di sentirsi «solo» attraverso essa, qualcosa quindi che va oltre un normale paesaggio dell’anima. Milano è la città dove sono nato, dove sono nati i miei genitori e dove ho sempre vissuto. Mi è cara come credo dovrebbe essere per ognuno il proprio luogo di origine. Nient’altro. Nella Traversata, seguendo la logica della lode di una città, e dunque di un quasi genere letterario, ne ho volutamente e ironicamente esagerato certi pregi. Ma lo faceva anche Bonvesin da la Riva. I paradossi, appunto, vanno presi come tali. Io amo stare nella mia

rapporto con il trascendente sta in questi termini? Il riferimento non è a un rapporto con il trascendente, ma ad alcune parole attraverso le quali, culturalmente, ci mettiamo in eventuale e velleitario rapporto con qualcosa che può essere il trascendente. Intendo dire che per muoverci in una dimensione meno culturalmente inerte, o già data, dovremmo cercare di fornirci di modalità concettuali diverse, nuove e conseguentemente di strumenti espressivi diversi, di parole meno abusate, meno pietrificate o fossili. Sappiamo che lei è un raffinato cultore di musica, quali sono i generi e i compositori da lei preferiti e quale rapporto intercorre tra poesia e musica? Ne ricava benefici per la sua scrittura?

Mi piace ascoltare la musica, e come tutti ho delle preferenze. Amo soprattutto la musica barocca, ho un debole, da qualche tempo, per Jordi Savall e per la viola da gamba. Mi piace questo strumento perché mi fa pensare alla forza solitaria della voce, alla sua capacità di ergersi senza visibili artifici retorici, alla nuda semplicità grave della sua presenza. Ma non credo che ci sia un vero rapporto tra questo mio dilettantesco ascoltare e godere la musica e la poesia. Né mi sento di entrare in un discorso teorico sul rapporto tra le due arti, del resto così labile. La musica arriva sempre prima della parola, è un dato di fatto. Anche con intenzioni opposte, se le si coniuga, la parola finisce sempre con l’avere una funzione ancillare, rispetto alla musica. Proprio per questo deve agire in proprio, indipendentemente. Solo così se ne possono davvero verificare il valore, l’autonomia, l’energia, l’incisività. E, se vogliamo, la … musica. Si pensa subito parlando di poesie d’amore ai versi di Prévert (che lei ha tradotto), o di Neruda, ma una sua poesia, che forse vela più che svelare, è per me, nel genere, tra le più belle che siano mai state scritte. «Dicono che l’amore si trasforma/ passando dal fuoco al più tenero abbraccio,/ ma più conta che le sue radici/ cieche insistano scavando/ tra parole e silenzi intrecciando/ nella pace i comuni destini,/ il calore commosso degli occhi,/ i cammini, la pietà, le carezze/ che per sempre, anche se un sempre/ che ha una fine, ci terranno vicini». Scrivere poesie d’amore è difficile, almeno per me. L’amore è, in fondo, il grande tema-non tema della lirica, un tema che può diventare come un immenso campo aperto variamente utilizzabile e disseminato di trappole. Qualche volta ho provato anch’io, con la poesia d’amore. Se ne sono uscito senza gravi danni sono contento. Specie per la persona a cui l’ho dedicata.


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Bonolis

di Pier Mario Fasanotti appiamo che Bonolis sul palco televisivo ci sa fare: in disinvoltura, in battute pronte, in arguzia. Quando poi, come quasi sempre, è affiancato da quella formidabile «spalla» che è Luca Laurenti, lo spettacolo risulta brillante. Laurenti ha il ruolo del pasticcione intelligente, della vittima salace. In questo segue e rinnova vecchi copioni cinematografici (vedi Totò e Campanini). Bonolis ha cominciato il suo cursus honorum televisivo in programmi per ragazzi, al pomeriggio. Ora, la sera di mercoledì (Chi ha incastrato Peter Pan, ore 21 circa) su Rai 1, ripesca, furbescamente, la carta infantile: ospita alcuni spiritosissimi ragazzini, massimo sette anni, e dopo alcune gag li fa sedere e affida loro il compito di interrogare i big invitati alla trasmissione. I quali, quasi sempre divertiti e con molta pazienza, rispondono alle domande dei bambini. Nel pubblico - le zoomate fanno testo - ci sono i genitori: trepidanti, orgogliosi, in gioiosa e affettuosa apprensione. Raffiche di domande e risposte tutte con il sorriso. Viene il sospetto che i quesiti dei piccoli ospiti siano suggeriti - non tutti, ma la maggior parte sì - visto che alcune domande sono un po’ troppo maliziose e comunque danno per scontato il sapere molto dei personaggi dello show business. Se è facile conoscere Alex Del Piero, campione della Juventus e della Nazionale Calcio, anche per-

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e i bambini:

più malizia che innocenza ché compare nella pubblicità con tanto di uccellino, il verso del plin-plin, e l’ex miss Cristina Chiabotto, più difficile interrogare Silvia Toffanin, fidanzata e convivente di Pier Silvio Berlusconi. I bambini di solito - perlomeno lo speriamo - non leggono Chi o Novella 2000. Ma la presentazione che fa Bonolis aiuta. L’«interrogatorio» viene inframezzato dall’entrata in scena dello stralunato Laurenti, nel ruolo del bizzarro inventore di congegni meccanico-elettrici. E qui si svela il rovescio della medaglia. Sempre la stessa medaglia, quella della

web

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malizia sessuale, sia pure porta in maniera indiretta (ma questa è la regola base della malizia). Ma i piccoli ospiti scemi non sono, e magari farebbero meglio a non ridacchiare - lo stesso vale per i compiacenti genitori in sala quando Laurenti accosta una specie di rilevatore elettrico ai genitali del conduttore. Oppure, nell’esperimento dei palloncini, lo spettacolo si risolve in un equivoco iniziale, poi accantonato e spiegato: ma è tardi, signori miei, il messaggio è già passato, è già stato digerito dall’infanzia allevata dal Luna Park delle tette, dei culi e delle allusioni al funzionamento dell’organo genitale maschile: roba vecchia, tra l’altro, ma ormai ingrediente creduto indispensabile per far ridere. Palloncini, dicevamo. Laurenti ne dà uno a Bonolis e uno lo tiene per sé. Quello del conduttore non si alza, anzi precipita a terra, mentre l’altro ha la sua bella erezione. Risatelle. Devo dire precoci. Risate aperte dei genitori in sala che confondono la normale pedagogia con l’ammiccamento - sempre il medesimo - che si fa a Zelig o a Colorado, sedi televisive dove i comici se non parlano di copule, di «quanto ce l’ho più lungo io», cadono a terra privi di copione, di repertorio. Non è questione di moralismo, è la constatazione che la fantasia oggi dev’essere per forza attaccata agli attributi primari e secondari della sessualità. Come le vecchie barzellette con la cacca. L’esperimento dei palloncini era legato alle leggi della fisica (l’elio li fa alzare, ecc.): ma c’era bisogno di far riferimento allo stato erettile dell’homo copulans? Ciò detto è comunque da elogiare l’approccio naturalmente affettuoso e ironico, anzi comico, di Bonolis con i bambini. Li mette a loro agio, addirittura qualcuno se lo stringe in braccio perché ha paura di un mostro d’acciaio che entra in scena con (inutile) concessione all’elettronico-spettacolare. Chissà quanta fatica a selezionare i bambini. Quelli che abbiamo visto e apprezzato sono estremamente spiritosi, disinvolti, pare abituati da sempre ai riflettori.

dvd

NAVIGARE CON LENTEZZA

GIOVANI MAMME IN CONSOLE

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a un parte i tempi risicati, dall’altra l’ampiezza dell’offerta informativa. È facile perdere il bandolo nel corso di una navigazione sul web, spesso a scapito dell’approfondimento. Per essere certi di ritrovare pagine preziose visitate in fretta e furia, o lette di sfuggita, nasce Read It Later, ottimo plugin gratuito disponibile per Firefox che consente di salvare le nostre scherma-

È

possibile coniugare l’istinto materno con un sano divertimento capace di trasformare le mille premure verso il nuovo nato in simpatiche prove d’abilità? È la domanda che si sono posti i cervelloni della Wii. E la loro risposta è The Baby and Me, videogioco che si rivolge alle bambine che non si accontentano di un bambolotto qualsiasi. Grazie a un piccolo altoparlante integrato

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“Read It Later”, un software gratuito che permette di salvare le pagine web preferite

“The Baby and me” è l’ultima frontiera dei giochi di ruolo disponibile per Nintendo Wii

Corben ricostruisce nel suo “Cocaine Cowboys” il malaffare di Miami che ispirò Scarface

te preferite con un semplice clic. Il piccolo software consente inoltre di aggiungere link ai post di nostro interesse direttamente da Google Reader, di salvare i nostri risultati on line in maniera da poterli visionare da qualunque pc, e di archiviare indirizzi url grazie a un comodo bookmarklet. Disponibile anche per telefonini di ultima generazione, Read It Later interrompe le battute a vuoto in giro per il web, regalando al lettore la rilassatezza di una lettura senza concitazione. Per installare il plugin sul proprio pc basta visitare la pagina degli addons di Mozilla Firefox, scaricare il software (di dimensioni ridottissime) e riavviare il browser.

nella console, la mamma provetta si troverà alle prese con un pargolo che piange, ride e gorgoglia con straordinario realismo. E che può essere cullato o addormentato grazie a una nenia ipnotica. La varietà di incarichi e modalità di gioco è riccamente assortita e fantasiosa, e il gioco pare avere stregato mamme e figlie nel Sol Levante, dove c’è particolare cura della simulazione e dei giochi di ruolo. Raffinata versione del tamagochi, The Baby and me è l’ultima frontiera dell’interattività made in Japan. C’è da scomettere che The Boyfriend and me sia in lavorazione.

dica anche Cocaine Cowboys di Billy Corben. Lontano da cliché finzionali, il regista costruisce un lucido spaccato sul commercio della polvere bianca oltreoceano. E lo fa interpellandone alcuni reali protagonisti: un pilota d’aereo, un trafficante, un killer al soldo dei colombiani e vari rappresentati delle forze dell’ordine. Al centro dell’indagine di Corben c’è Miami, divenuta in pochi anni da sorta di ospizio a cielo aperto che era, il più grande shopping-center illegale del Pianeta. Corruzione, sparatorie, poliziotti infidi, ricatti e omertà. La guerra tra bande, e l’incapacità dello Stato di ristabilire l’ordine, fanno della Miami di Corben, una Gomorra d’oltreoceano.

a cura di Francesco Lo Dico

GOMORRA D’OLTREOCEANO ccontentati tu, io prendo tutto, tutto quello che posso. E cosa vuoi tu? Il mondo, chico, e tutto quello che c’è dentro». Tony Montana, celeberrimo protagonista di Scarface, spiegava così all’amico Manny i suoi voraci appetiti nel film di Brian De Palma. E all’ascesa e alla caduta di molti signori della droga tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, si de-


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poesia

Se un povero biliardo soffre di malinconie... di Francesco Napoli crittore apparentemente facile» lo definisce Carlo Bo nel 1956, in occasione dell’uscita di un volume di Poesie, curate dall’amico Arrigo Cajumi, già edite nel 1927 ma che nell’occasione viene ulteriormente arricchita. È il primo tentativo di sistemare il canzoniere confuso e sparso di questo dissipatore di se stesso, degno emulo di Campana, che «ha consumato molto tempo per dare una forma alle sue fantasie, una forma che fosse in un certo senso un argine di difesa», sempre per metterla giù con Carlo Bo. Ernesto Ragazzoni nativo di Orta, nel novarese, classe 1870, da subito respira quell’aria della sonnolenta provincia piemontese che poi metterà alla berlina in un articolo del 1901 sulla Gazzetta di Novara («Il paese della muffa») quando ne era direttore, ma lo fu per poco. Dopo due mesi, proprio per quell’irriverente pezzo gli daranno il benservito. Eppure Ragazzoni aveva iniziato la sua carriera letteraria secondo i crismi del tempo, probabilmente credendoci. A sue spese aveva pubblicato una prima raccolta, e siamo nel 1891, Ombra, dove si palesano le letture giovanili: Carducci e Pascoli in primis, non poche reminiscenze scapigliate e con una naturale inclinazione al gioco delle sillabe in un’altrettanto evidente inclinazione alla ludicità del proprio fare: «Il rimorso mi pilucca/ come un dente una bistecca!/ Me ne andrò fino alla Mecca/ Tra la gente Mammalucca/ Mi hai chiamato: “brutta zucca”!!» (La ballata della brutta zucca).

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NOSTALGIA Oh, come sono lunghi i giorni senza te! Mi par che dentro a me nascano i funghi! I funghi, come quando piove, d'autunno e si muore dovunque di noia, e noiando. E non ci son che ombrelli su e giù per la città. Sembrano, in verità, funghi anche quelli… Funghi, cocciuta muffa viva, che vien da sé… Vedi, ove senza te l'uggia mi tuffa!

Ernesto Ragazzoni (da Poesie)

Ma non è solo questa la prima cifra della poesia di Ragazzoni che compartecipa alla poetica crepuscolare. A tal riguardo allora basta andare a leggere alcune quartine delle sue Rose sfogliate («Dal parco mi sento/ venire a folate/ un balsamo lento/ di rose sfogliate») e prestar fede a uno che degli autori di quest’area se ne intendeva: «I poeti a lui sincroni - i crepuscolari - avevano trattato con coraggiosa impudicizia una materia ch’era in fondo anche la sua. Andare oltre nella confessione diretta pareva impossibile. Ragazzoni portò al massimo la carica d’ironia ch’era già forte nel Gozzano, nel Chiaves e in altri» (Montale). Ragazzoni arriva poi a violare il codice crepuscolare, seppur blandamente, parodiando se stesso e i suoi consimili («I viali irrigiditi/ nell’argento delle brine/ s’allungavan senza fine/ come zuccheri canditi», I viali irrigiditi) e ad avere un occhio ben attento a quanto accadeva oltre le Alpi. Fine conoscitore di francese e inglese, capace di leggere giornali e riviste in tedesco e in spagnolo, nei soggiorni all’estero come corrispondente della Stampa entrò in contatto o, meglio, in sintonia con l’area bohémien, tra falots e fantaisistes, della Parigi inizi Novecento dove brillavano le stelle di Laforgue e di Corbière. C’era una tradizione piuttosto forte nella capitale francese allora, quella

dei monologhi fantaisies recitati in pubblico, un’oralità e una capacità di improvvisazione che erano nelle corde di Ragazzoni, noto nella Torino bene per queste sue qualità di recitazione oltre che per un’acuta ironia pungente. «Frottole in versi» definisce ai tempi la Stampa queste sue estemporanee letture; e sullo stesso giornale, in un altro rilievo anonimo ma certamente ispirato da Ragazzoni, si parla di poesia che «cammina fra il grottesco e l’humour, tra lo spirito sottile e l’arguzia burlesca (…) Per gustarla in tutto il suo bizzarro originale valore conviene seguirla da vicino», casomai in una di quelle performance pubbliche che Ragazzoni amava fare, «negli accostamenti improvvisi dei pensieri, dei ragionamenti logici più disparati, nell’uso di certi contrasti esteriori di forme» evidenti tanto nell’Elegia del verme solitario che nelle Malinconie e il lamento del povero bigliardo che non vuole più essere verde. Una verve creativa che fondava buona parte della sua riuscita su un canzonatorio metro breve, sul gusto per l’iterazione lessicale e la facile allitterazione.

Pubblicata Ombra e andato male un romanzo a puntate, L’ultima dea, da Novara Ernesto Ragazzoni si trasferisce a Torino dove, secondo l’aneddotica che di fatto copre i tanti vuoti della sua biografia, trova impiego alla biglietteria della stazione di Porta Nuova prima di essere scovato da Alfredo Frassati nel 1900 che lo portò con sé alla Stampa. Inizia un periodo di relativa stabilità e l’avvicinamento alle tesi di Friedrich Nietzche e che sulle colonne del quotidiano torinese lo spingeranno a scrivere «la sua filosofia, dunque, è anzitutto la storia dell’anima sua». Come la stragrande maggioranza della Torino letteraria dei tempi, anche lui segue le lezioni di Arturo Graf il sabato, all’aula VI, dove tutti i giovani di belle speranze sembravano darsi appuntamento: Thovez e la Guglielminetti, Gozzano e Oxilia, Pastonchi e Bontempelli, confermandosi la città sabauda vero polo d’attrazione per il nostro Ragazzoni che vi tornava sempre e volentieri anche quando il lavoro - era inviato della Stampa e trascorse molti anni tra Parigi e Londra lo teneva lontano. Ricomparso da un ennesimo soggiorno parigino lascia la Stampa e lavora prima per il Resto del Carlino e poi per il Tempo di Roma. Poco prima di morire tornò un’ultima volta a Torino e gli amici lo vedono sì molto mal messo ma senza immaginare che di lì a pochi giorni sarebbe scomparso, il 5 gennaio del 1920. Alla moglie, la giornalista Felicita Rey, era solito ricordare che in caso qualcuno avesse avuto voglia di raccogliere post mortem i suoi versi bisognava badare che non lo pigliasse troppo sul serio: «non vorrei, per esempio, una biografia che dicesse solennemente: E.R. nacque ai tanti del mese dell’anno tale, e morì…, come se si trattasse di un uomo celebre qualunque».


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il club di calliope RONZIO DI VESPE Raso volo di vespe incattivite, cantilenìo, ronzìo in attesa di altri ronzii più bassi, rallentati: a questo si sono ridotte le mie contrazioni terminali, il torso che una domenica prima di spaccarsi vibrava, tirava verso l'alto con più forza, sembrava pura euforia. Mario Santagostini

BEPPO E LA POESIA CHE RUZZOLA NELLA PROSA in libreria

di Giovanni Piccioni

enezia, il Carnevale, la gondola, Laura, dama di «certa età», ancora in fiore, che «… aveva usato/ al meglio del tempo, e il tempo in cambio/ era gentile con lei», sposata a Beppo, mercante che viaggia per mare, l’amante di Laura, un ricco conte cavalier servente, l’Italia dove si vede «il sole splendere ogni giorno» e la sua lingua «…latino bastardo/ morbido come il bacio di una donna»: sono questi le premesse, l’ambientazione e i protagonisti di Beppo, una storia veneziana di George Byron, a cura di Roberto Mussapi (Feltrinelli, 95 pagine, 7,00 euro). La produzione poetica di Byron si può dividere in due periodi: una prima fase romantica, rappresentata soprattutto da Il pellegrinaggio del giovane Aroldo, in cui

V

derata, ammirata, amata, ipnotizza ogni uomo che le si avvicini. Venezia è la città amata da Byron, perché è anche maschera e teatro: città costruita sull’acqua con la sua luce incantevole, le gondole, le conversazioni. Beppo è il marito di Laura, deuteragonista e attore al tempo stesso. Parte per un lungo viaggio, fa naufragio, scompare dal racconto, lasciando che la moglie si prenda l’amante, per ricomparire alla fine vestito da turco e adattarsi a convivere con il vicemarito, un elegante bellimbusto. Tutto è lecito nella vita veneziana di quegli anni finali del ‘700: «È noto, o dovrebbe essere noto/ che nei paesi di cultura cattolica/ prima che arrivi il martedì grasso/ fanno man bassa di divertimenti:/ che siano d’alto o basso rango tutti si buttano

Il poema di Byron in 99 ottave, pubblicato a cura di Roberto Mussapi, è una storia in versi che si fanno narrazione. Venezia, Laura e la bellezza incorruttibile, i temi centrali prevalgono il sentimento e i luoghi comuni al romanticismo, e una seconda fase in cui compone principalmente poemi di carattere burlesco, a imitazione di quegli italiani, raggiungendo la sua migliore espressione nel Don Giovanni, poema eroicomico e satirico, dove all’interno di uno schema picaresco si mescolano satira, epica e romanzo. Beppo, poema in novantanove ottave, ispirato in primo luogo dal Morgante maggiore di Pulci si inscrive in questa seconda fase: è una storia, versi che si fanno narrazione (una poesia che ruzzola nella prosa, per dirla con Byron stesso), percorsa da numerose digressioni. La figura centrale è quella di Laura, bellezza femminile che non sfiorisce, quasi incorrotta rispetto al passare del tempo. Di estrazione borghese, è vivacissima, la regina del Carnevale e sta al centro del poema: desi-

in danze, mascherate,/ feste, sbornie e violini a tutto andare,/ e ogni altro spasso, su richiesta», come recita la prima ottava. Una segnalazione particolare merita l’ampia, fine ed esauriente introduzione di Mussapi, che più che una semplice guida alla lettura del poema, indagando la natura del testo, narra la storia di Byron, quella del poema e soprattutto la storia della figura femminile intesa come bellezza incantatrice dell’uomo e ispiratrice della poesia. Si va dalla Mirandolina goldoniana, alla figura di Miranda, la figlia di Prospero nella Tempesta di Shakespeare, a Elena, alla donna angelicata degli stilnovisti, alla donna amata dal Cavalcanti, alla Beatrice dantesca e alla Laura di Petrarca, fino alla donna di Truffaut e Wenders. Il rapporto poesia-donna è al centro del discorso di Mussapi, e la specificità della Laura byroniana è colta con estremo acume.

UN POPOLO DI POETI E canto su quest'alba che mi ha dato Il sudore sui seni il felice congiungere Dei corpi su queste membra separate Dal mondo nel fondo di una discesa Senza parole nel solo felice congiungersi Dei sorrisi delle parole lasciate Sulla bocca e aperte all'infinito.

Terry Donni

Nel vento è lo spirito ma altrove è il tuo cuore: riposa nel cuore di Cristo come si dice nelle omelie dei defunti. Alle tue esequie il parroco del paese dove siamo nati e della chiesa dove siamo stati battezzati ha mosso le tue labbra a preghiera per dire a me quello che Sant'Agostino mette in bocca ad ogni cara scomparsa: non piangere perché vivo in un orizzonte senza fine con una luce che tutto investe e penetra. E come investito da un uragano penetro nella luce di quell'orizzonte… E in quella luce vedo una mano la tua mano che si prolunga tenera fino ai miei occhi stanchi di pianto.

In memoria della sorella Giuseppe Valli

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


MobyDICK

pagina 14 • 21 novembre 2009

mostre

Quel prete di campagna appassionato di Burri

he curioso prete, doveva esser, Don Casimiro Bettelli, detto da tutti: Don Miro. E c’è un omen, in questo nome contratto: la sua vita è stata solo contemplazione e ammirazione del creato. Prete, proprio così. Bernanosiano curato di campagna: non offendiamolo col termine più pretenzioso e seminariale di «sacerdote». Nulla di sacralmente sacer c’era in lui, di venerabile, ma tutto a portata di mano: la mano che giocava a briscola con gli amici di campagna, ma che poi accarezzava nel silenzio dotto della canonica un cretto di Burri o una litografia graffiata di Fontana: carta vissuta, ferita, come se il gatto di casa l’avesse arpionata. La mano artigiana e pienotta-pietosa della povera poesia delle cose. Il classico parroco di campagna modenese (Vignola) con la tonaca lisa e trascurata, così raccontano amici e le sue rare fotografie, pronto di battuta e di occhi, gl’occhiali lucidi dalla gola e gioia di vedere. Capace di dialogare con Emilio Villa e Ungaretti, Claudio Parmiggiani e Pascali, così come con la parrocchiana analfabeta. Poeta lui stesso e non trascurabile, in perenne dialogo con Mario Luzi, che gli scrive lettere bellissime, a commento ragionato dei suoi versi: «con una trepidazione non dovuta a stanchezza o a sola elegia, ma a rinnovato convincimento». D’un tratto par aver perso la fede nella sua ispirazione, dopo il Concilio Vaticano II. Tra protratte «ragioni» poetiche, «tanto più imperiose quanto più ineffabili, che discendono come secrezioni struggenti dagli anni, dalle vicende, dagli affetti», e allora si volge all’arte figurativa. S’incapriccia momentaneamente della Transavanguardia, causa l’amicizia con il gallerista modenese Mazzoli, però intanto frequenta anche altre gallerie, come la De Foscherari di Bologna o la San Luca, in cui ha la ventura d’incontrare Burri e di innamorarsene. E colleziona soprattutto Arp, Hartung, Mondrian, Man Ray, essendo la vena astratta quella a lui più calda e consona, d’uno spiritualismo lirico senza «immaginette». Anche se poi saprà subito cogliere la novità dirompente e liberatoria degli «stampini» della pop art, lui che era stato tra i primi a portare in Italia i nomi di Barnet Newmann e Rotkho. Collezionando in tempi precocissimi Warhol e Lichtenstein non proprio castigati e confessionali, così come pop artisti italiani inconsueti, come Mambor o Sergio Lombardo, oltre Schifano, Angeli, Festa e soprattutto Mario Ceroli, di cui possedeva carte-lignee assai notevoli. Ma è divertente sapere che un prevosto di campagna, quale lui voleva ri“Resurrezione” di Lucio Fontana

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di Marco Vallora

arti

manere, raffinatissimo di stile ma concreto d’impegno religioso, si tenesse in canonica un fiammente sberleffo americano di Fabio Mauri, la Statua della Libertà, che sotto la sua cappa austera e marmorea, nasconderebbe forme procaci e vernacolari, coscione felliniane e seni promettenti. Certo, a segnarlo definitivamente, era stato un viaggio americano, con la complicità del «cristianissimo» Carlo Cattelani, altro curioso, coltissimo personaggio modenese, e vanno per «verificare il giovanile sogno americano» nutrito di Pavese, Vittorini, Pintor. Ci piace citare uno stralcio illuminante, dal diario di Bettelli, dopo la scoperta bruciante di Newman, Rothko, Warhol, tuttinsieme: «Ero tanto pieno di immagini nel cervello che volevo scaricarle prima di dormire. Comincia a guardare verso Manhattan, ed ebbi forse per la prima volta di trovarmi vivo e non in sogno nella più grande città del mondo. Quella immensità fosforescente mi esaltava. Pareva che qualcosa di colossale, di imponderabile mi piovesse nell’anima. E quello strano rumore che avvertivo? Forse il respiro di New York, il suo sonno. Non avevo mai sentito la notte parlarmi così. Mi venne in mente qualche verso, ma no, sapevo che l’unica parola adatta per questo momento era la preghiera. Chiusi la finestra e mi inginocchiai». Un umile grande prete di Campiglio sopra Vignola, nutrito di Eliot, di Pound, di Rilke, che s’inginocchia per «pregare» New York: pare una figura di Melville. E allora si spiega perché un metafisico semplice che aveva detto, «non il possesso fa l’uomo, ma il vedere», incominci a nutrire le sue case, anche di vacanza, di fogli comprati a poco o scambiati per amicizia con gli artisti, infatti non può permettersi grandi tele, e poi le sue pareti non sono così generose (però possiede anche una magnifica ceramica «barocca» di Fontana, sventrata di fede e crollante, che s’intitola Resurrezione, forse l’unica iconografia religiosa del suo ricchissimo giacimento di oltre 600 opere). «Sono alla curva matura/ d’un’età che ha dolce/ il lume di una stanza/ di scaffali e di quadri/ una sacrestia di Sughi/ “interni”spirituali di Ferroni/ la luce che dai nudi/ muretti sprigiona/ bianchi fiori di cappero». Una vera sorpresa incontrare, ripuliti e addomesticati in una mostra curata da Gabriella Roganti, questi piccoli capolavori inediti, che preferiamo ricordare accatastati e ammuffiti nelle stanze di don Miro, essendo le Muffe di Burri la sua opera più cara.

La Collezione Don Casimiro Bettelli, Modena, Palazzo Santa Margherita, fino al 10 gennaio

diario culinario

Dove le cameriere sorridono (e il pane è sopraffino) di Francesco Capozza ’architetto Fuksas dice che è il più bel ristorante di Roma, il che è motivo di grande preoccupazione.Tutto lascia pensare che si tratti del solito obitorio giapponese e invece no, Roscioli riesce a essere fresco senza essere freddo (a questo punto bisognerebbe forse ammorbidire il nostro giudizio su Fuksas, ma è più forte di noi, sono anni che non riusciamo a staccarci dalla retina la visione del cimitero di Paliano). In via dei Giubbonari, a Roma, c’è parecchio vetro, ma anche legno (i soffitti) e mattone a vista (i muri). All’ingresso, sulla sinistra, un opulento bancone pieno di formaggi e di salumi ricorda che Roscioli durante le ore diurne è soprattutto una gastronomia. Poi la sera in cui abbiamo cenato noi c’era in sala la camicia Etro di

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Benedetta Lignani Marchesani, la più bella camicia mai vista addosso a una donna, strisce verticali multicolori che però non fanno arcobaleno (e sgradevoli annessi ideologici), fanno invece l’Emilio Pucci dei tempi d’oro o il Paul Smith di questi tempi qui (e quindi Capri, Cap d’Antibes, Lounge Music, Martini cocktail, macchine scoperte, sesso in spiaggia….). È insomma una camicia di buon auspicio per l’estate prossima ventura. Nel tavolo a fianco al nostro c’era Stefano Accorsi con un gruppo di attori della nouvelle vague cinematografica di periferia. Qualche sera prima Dagospia aveva avvistato Paolo Mieli cenante con Bambi (una cerbiatta?) Parodi Delfino e Laura Cesaretti del Giornale. Nomi snocciolati giusto per rendere l’idea che Roscioli è la vera alternativa al Riccioli Cafè, l’altro risto-

rante mondan-crudaiolo di Roma. Le differenze sono: 1) da Roscioli le cameriere a volte perfino sorridono; 2) da Roscioli le dosi non sono omeopatiche, ad esempio i nostri filetti di cernia sono in quantità sufficiente perché lingua e palato riescano addirittura a riconoscere il sapore di cernia; 3) da Roscioli si paga un conto quasi umano. Ma non è il caso di entusiasmarsi, si tratta pur sempre di ristorazione romana (e siamo a pochi passi da Campo de’ Fiori), e ci siamo capiti… Si fraternizza con Accorsi, che finisce per intonare il capolavoro di Alberto Fortis «E vi odio a voi romani, io vi odio tutti quanti » (purtroppo Fortis perde la credibilità appena conquistata con il seguente verso: «Oh Milano, sono contento che ci sei»). Ma torniamo a Roscioli. Problema numero uno: i piatti sono quadrati anzi-

ché rotondi, una giapponeseria vista dieci anni fa da Rinascente, dieci mesi fa da Coin, dieci giorni fa da Upim. Ciò quando è del tutto evidente che gli spigoli sono antierotici e anticonviviali. Problema numero due: la lista dei vini, pur lunghissima, è in pratica composta da innumerevoli versioni di un vino solo, il Sauvignon, il cui sentore secondo gente anche meno faziosa di noi ricorda la pipì di gatto. Scrutando molto si recupera in extremis un Tocai di Schiopetto, ma nemmeno questo funziona bene con la nostra cernia cruda. Dolci sublimi e pane (i Roscioli hanno un forno strepitoso, pochi metri più in là, in via dei Chiavari) tra i migliori in circolazione entro i confini del regno. Dai 30 euro in su.

Antico Forno Roscioli,Via dei Giubbonari 21, Roma, 06.6875287


MobyDICK

21 novembre 2009 • pagina 15

architettura

Con Jovanotti alla riscoperta di Capitan Francesco di Claudia Conforti Laparelli sono un’antica famiglia del patriziato di Cortona, da cui nacque nel 1521 Francesco, anzi Capitan Francesco, uomo d’armi e architetto militare, la cui fama è indissolubilmente legata al progetto della Valletta, la città fortezza sorta per ospitare sull’isola di Malta la sede generale dell’Ordine religioso e guerriero dei Cavalieri del Santo Sepolcro, scacciati da Rodi dalla furia ottomana. Tuttavia, nonostante l’importanza della sua azione progettuale che ha dettato l’impianto ancora perfettamente conservato e riconoscibile di Valletta, la memoria di questo architetto guerriero è rapidamente scolorita e quasi cancellata pochi decenni dopo la sua morte, avvenuta a Candia nel 1570. La figura e l’opera di Laparelli sono tornate vividamente sulla scena degli studi e della conoscenza per merito di un’iniziativa progettuale, connessa al recupero e alla riutilizzazione dell’antica fortezza del Girifalco, che fin dall’alto Medioevo difendeva Cortona, allora libera città. Nel Cinquecento, passata Cortona sotto il ferreo dominio dei Medici, duchi di Firenze, la fortezza venne ammodernata per ordine

I

del duca Cosimo I, che nel 1556 inviò a dirigere i lavori un nobile ingegnere militare e uomo d’armi lombardo, Gabrio Serbelloni, imparentato con il cardinale Giovanni Luigi Medici di Marignano, futuro papa Pio IV. L’azione di Serbelloni, già attivo in veste di condottiero nella guerra di conquista di Siena (1554), riunì nel cantiere cortonese esperti ingegneri militari come Giovanni Camerini e Bernardo Puccini, e un giovane di brillante ingegno e di nobile lignaggio chiamato Francesco Laparelli. Il destino del patrizio cortonese si legherà a quello dell’aristocratico ingegnere lombar-

do che, nominato da Pio IV Cavaliere di Malta e Priore d’Ungheria, oltre che capitano generale della Guardia Pontificia, condurrà Laparelli a Roma, dove quest’ultimo collaborerà fugacemente con Michelangelo alla fabbrica di San Pietro e verrà poi ingaggiato nella progettazione di Valletta. Un’eccentrica équipe di progettisti, di cui fanno parte Giacomo Pirazzoli, architetto professore alla facoltà di architettura di Firenze; Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti; Guido Guerzoni, professore e storico dell’economia delle arti alla Bocconi e molti altri, organizza un intenso work-

shop dove, insieme a un nutrito ed eterogeneo gruppo di studenti, si progetta il restauro e il riuso come Centro internazionale di produzione artistica e musicale, della fortezza del Girifalco. Da questa iniziativa è scaturita una messe sorprendente di risultati, esposti in una mostra all’Accademia Etrusca di Cortona e raccolti in un denso catalogo curato da Edoardo Mirri. All’intelligente e persuasivo progetto di riuso, che salvaguarda la fortezza e fa rivivere i suoi bastioni cinquecenteschi, si affiancano la messa a fuoco dell’attività progettuale di Laparelli, corredata da magnifiche piante di Valleta originali, donate nell’occasione dalla famiglia al Comune di Cortona, e da uno stupefacente taccuino di disegni, ancora di proprietà degli eredi; la ricostruzione biografica dell’architetto cortonese nel contesto cittadino e italiano, indagato con acuminata attenzione e testimoniato da quadri, manoscritti e altri documenti che restituiscono la ricchezza artistica e culturale di un piccolo, ma nevralgico centro dell’Etruria Medicea.

Francesco Laparelli architetto cortonese a Malta, catalogo a cura di E. Mirri,Typhis Edizioni, 127 pagine, 20,00 euro

moda

Cuissard, oggetto simbolo dell’era dei vampiri di Roselina Salemi hi aveva sperato in un estremo attacco di buonsenso, si è dovuto ricredere. Questo è davvero l’inverno dei cuissard, stivali che salgono sopra il ginocchio e si arrampicano ancora più in alto, a metà coscia e oltre, lasciando intravedere una striscia di pelle (nuda?) prima dell’orlo della minigonna o dei calzoncini corti, drammatici per chi non è abbastanza alta, non è abbastanza sottile, non ha abbastanza gusto o ha superato da un pezzo i trent’anni. Chloè li ha fatti morbidi con il risvolto, Cavalli inguinali, portabili con shorts a palloncino, idem Hussein Chalayan che elimina anche la gonna ritenendo sufficiente, per sfidare l’inverno, una maxigiacca, preferibilmente nera. Prada punta su quelli da pescatore, ironici, con le giarrettiere, Louis Vuitton ha un modello per le indecise: con opportune zip, il tronchetto si trasforma nel classico stivale e in cuissard. Non potendo sfuggire alla tendenza, già ribattezzata, con un pizzico di malizia cuisshard, celebs di ogni ordine e grado la interpretano, ognuna a modo suo, offrendo gratis molte utili indicazioni su che cosa evitare. Mai portare cuissard troppo stretti con gonne troppo corte: sexy in passerella, effetto insaccato per strada. Mai infilare pantaloni chiari dentro stivaloni neri: tagliano la figura (a meno di non superare il metro e 75). Mai osare abbinamenti con giacche da ussaro alla Michael Jackson, paillettes, mantelle piumate: fanno costume teatrale. Mai scegliere colori

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pericolosi (verde, caramello, viola, mattone): fanno escort. Mai comprarli di vernice nera con fibbie dorate (resistere, resistere, resistere): fanno sadomaso. Mai, assolutamente mai, lasciarsi tentare da frange hippy, nappe, ricami, borchie e citazioni punk: fanno trans. Nonostante tutti questi paletti, il rischio è sempre in agguato, come dimostrano alcune uscite di Lily Allen, di Audrina Partrige e anche della nostra Giusy Ferreri: dalla passerella alla vita quotidiana, il cuissard può far precipitare nel ridicolo anche donne bellissime. Si salvano: la principessa Clotilde Courau, con cuissard aderenti e lunghi come calze, Kate Hudson che li porta con i jeans, appena sopra il ginocchio, Mischa Barton che preferisce il cuoio naturale su leggins color castagna, Victoria Beckham in total black. E a Megan Fox, beh, si può perdonare tutto. Resta da capire perché sottoscrivere un mutuo, pur di infilarsi dentro cuissard neri, anche di Gucci o di Chanel, esteticamente ed economicamente impegnativi, e costruirci sopra tutto il resto, dalla calza al cappotto. In questa scelta dell’oggetto-simbolo (ogni stagione ne ha almeno uno), c’è il bisogno di suscitare desiderio che la moda intercetta e trasforma in shopping. Così la microborsa, il sandalo, la cintura, diventano l’obolo da pagare al mercato per ritrovare la leggerezza della vanità. Mentre gli alti stivali da soldatessa o da dominatrice, inseguono un modello sexy-aggressivo che sta diventando la caratteristica evidente del mondo femminile. Non più principesse, ma vampiresse. Canini aguzzi e cuissard si intonano benissimo.


pagina 16 • 21 novembre 2009

i misteri dell’universo

a questione dell’esistenza di vita fuori del nostro meraviglioso pianeta, ricco di milioni di specie molte delle quali ogni giorno scompaiono per le modifiche operate dall’uomo all’ambiente, è un problema di estremo interesse, su cui si è discusso da secoli. Ricordiamo che Giordano Bruno fu condannato al rogo fra l’altro per avere ipotizzato presenza di vita intelligente in altri pianeti (ma chi sono i Troni, Dominazioni, Virtù, Principati di cui parla Paolo specie nella Lettera agli Ebrei, e che un tempo erano ricordati nella messa di ogni giorno, dalla quale sono ora stati espunti?). Il problema della vita fuori dal nostro pianeta ha due diramazioni: vita in generale o vita intelligente, vita nel sistema solare o vita nella galassia o nell’universo intero. Qui ci limitiamo al sistema solare con riferimento a Marte, e facciamo qualche ipotesi sul tipo di vita che vi può esistere o essere esistita. A fine Ottocento l’idea che i pianeti potessero essere abitati e dotati di ricca vegetazione era alquanto diffusa, vedasi i libri del famoso astronomo francese Flammarion, molto venduti e ricchi di fantasiose immagini dei vari pianeti con le loro foreste e i loro animali. Il nostro grande astronomo Schiaparelli, persona di vastissima cultura anche umanistica, conoscitore di latino, greco, ebraico e sanscrito, autore di una grande storia dell’astronomia che da un’ottantina di anni giace alla biblioteca dell’Osservatorio di Merate con le pagine ancora intonse, divenne famoso per avere individuato al telescopio strutture canaliformi su Marte. Queste furono tradotte in inglese come canals invece che channels, parola la prima che indica un’origine artificiale, della quale Schiaparelli non era particolarmente fautore. Partì quindi una ricerca di tracce ulteriori di vita su Marte, a cura in particolare del ricco astrofilo Lowell, che fece costruire uno speciale telescopio in Arizona, dove il cielo era, allora, e in parte ancor oggi, estremamente limpido (una volta seguii per oltre 40 minuti da un bus Greyhound un aereo illuminato dal sole che procedeva nella mia direzione, quindi visibile anche da oltre 600 km!). La ricerca non portò a conclusioni a favore dell’artificialità, trattandosi in gran parte di un fenomeno ottico. Mezzo secolo fa si riteneva che Marte avesse le seguenti caratteristiche: - simile alla Terra nella composizione della crosta, nella durata del giorno (24 ore e mezzo), nell’angolazione dell’asse di rotazione sul piano eclittico; differente nella densità, circa metà di quella terrestre, nel campo magnetico, quasi inesistente, e nell’atmosfera, quasi inesistente; - sin dalla nascita qualche miliardo di anni fa si è mosso nella presente orbita, fra Terra e fascia degli asteroidi, geologicamente inattivo, privo di acqua, privo di vita oggi e in passato. Ora molto di più si conosce, sia grazie a telescopi più potenti, Hubble in particolare, che alla trentina di missioni inviate, la maggior parte delle quali hanno fallito il loro obiettivo, o esplodendo alla partenza o cessando di inviare segnali o schiantandosi su Marte. Alta percentuale di insuccessi ignota per missioni verso altri pianeti e che potrebbe avere una spiegazione tenuta segreta. Con questi nuovi strumenti ora sappiamo che:

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ai confini della realtà E Marte perse MobyDICK

i suoi oceani di Emilio Spedicato - Marte è tuttora geologicamente attivo, vulcani hanno eruttato per l’ ultima volta non miliardi di anni fa, ma qualche centinaio di migliaia di anni fa; e probabilmente si troverà che hanno eruttato solo qualche migliaio di anni fa; - Marte deve avere avuto acqua in notevoli quantità, forse pari a un decimo di quella terrestre, e quest’acqua è stata perduta catastroficamente, in un evento che ha scolpito immensi canyon. I bordi di queste strutture scolpite sono ancora netti, il che, essendo i venti marziani ricchi di sabbia e rag-

ciale, come accertato da analisi frattale con codici sviluppati per ragioni militari in Unione Sovietica. Queste consistono di un migliaio di piramidi, di varie strutture dal carattere di viso osservato frontalmente o di lato, di strutture a reticolo che sembrano indicare città, di almeno quella che appare essere una miniera a cielo aperto, di aperture che appaiono ingressi in pareti del monte Olympus, il gigantesco vulcano alto 27 km. esistente sulla faccia opposta a quella che appare essere una gigantesca depressione di decine di milioni di km quadri;

Un’ipotesi è che fosse satellite della Terra prima della cattura della Luna da parte di un grande corpo che sarebbe passato verso il 9.500 avanti Cristo. Ciò spiegherebbe l’affermazione biblica secondo la quale parte delle acque del diluvio di Noè provenissero dall’alto, cioè dal pianeta rosso giungendo anche 300 km/ora, indica un’origine recente, altrimenti sarebbero smussati e molti canyon almeno in parte riempiti; - un’ulteriore recente evidenza indica la presenza di acqua a piccola profondità e la sua occasionale emergenza, dedotta da recentissime tracce di scorrimento non esistenti su foto del luogo fatte tempo prima; - esistono strutture dal carattere artifi-

- sono state osservate strutture tubolari lunghe un centinaio di km e spesse circa 700 m. dentro le quali alcuni hanno ipotizzato potrebbero esistere forme di vita, anche intelligente; - un sensore sviluppato in Italia ha osservato presenza di metano e formaldeide, di solito associati a processi biologici. Quanto sopra indica che oggi, per la presenza dell’acqua, potrebbe esistere

vita microscopica nel sottosuolo; se esista vita intelligente all’interno del pianeta è solo interessante speculazione; ricordiamo che Sagan, ferocemente opposto alle idee catastrofistiche di Velikovsky, non ebbe però problemi a ipotizzare che i satelliti marziani Phobos e Deimos fossero vuoti e utilizzati da alieni. Per quanto riguarda il passato e la strana presenza di strutture artificiali, entriamo in un campo molto aperto. Spiegare la vita avanzata su Marte nell’orbita attuale, fuori della regione di abitabilità, non è facile. Tuttavia le cose cambierebbero se in passato Marte fosse stato nella regione di abitabilità. Una ipotesi (del sottoscritto) è che fosse satellite della Terra prima della cattura della Luna da un grande corpo che sarebbe passato vicino al nostro pianeta verso il 9500 a.C. Varie caratteristiche di Marte seguirebbero a questa tesi, e in particolare potremmo spiegare l’affermazione biblica secondo la quale al momento del diluvio di Noè si aprirono le fontane del profondo e dell’alto… Essendo quelle dell’alto costituite da parte delle acque degli oceani di Marte, perdute in quell’evento. E le particelle di acqua che colpiscono ancora la Terra, visibili come lampi nelle foto notturne del nostro pianeta analizzate per la prima volta dall’astronomo Frank, potrebbero essere residui dell’acqua degli oceani marziani.


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