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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Intellettuali e politica

LEGGI ALLA VOCE

TIRANNIA di Pier Mario Fasanotti

a notizia è d questi giorni. A Beirut il brutale e rozzo pugno degli blicata una raccolta di saggi, anche a forma di dialogo, di Fernando Pessoa Hezbollah (fanatici islamici) è finito sul Diario di Anna Frank. (Sulla tirannia, Guanda, a cura di R. Mulinacci, 135 pagine, 12,00 euro). Gli Lo si può leggere in francese, per i cristiani, o in inglese, per Lo scrittore portoghese inizia con l’esprimere scetticismo verso la interrogativi pochi ovviamente. La motivazione pone in risalto l’otcosiddetta opinione pubblica che, alla fine, si risolve in una tusità della tirannia: «È una narrazione teatrale e dramsubdola tirannia della maggioranza. Pessoa è molto critidi Pessoa sui mali matizzata dell’Olocausto… è emotiva». E per questo co nei confronti dell’altare ideologico su cui si pone della democrazia, l’esaltazione non adatta alle folle musulmane del Libano. la democrazia. C’è un passo del saggio che pone di Camus della “ribellione consapevole”, Inevitabile ricordare i libri buttati sul rogo in luce la sua critica, filosoficamente sottile, dai gerarchi del Terzo Reich: la tirannia colverso una certa democrazia che «è il sunto di gli avvertimenti di Aron sui pericoli pisce duro il pensiero, la diffusione del pensiero, tutto quanto è antipopolare, antisociale e antipadella rivoluzione... Alcuni percorsi triottico». Al poeta e narratore risulta che «gli esiti di nella convinzione che ci debba essere un «pensiero possibili fuori dai canoni unico». Se il fascismo sopportava le vene frondiste, il naziun’elezione provano soltanto il potere dittatoriale che hansmo riassunse in sé la pratica tirannica. Di fronte alla quale il no acquisito i pochi dirigenti del partito vincitore». della retorica potere assoluto del Re Sole, per fare un esempio, pare quasi una cacontinua a pagina 2 ricatura cinematografica. E a proposito della tirannia è appena stata pub-

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Pandemia di Gennaro Malgieri Otto pezzi facili per Casablancas di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Le strategie di Metastasio fra verità e finzione di Filippo La Porta

Eugène Ionesco cent’anni dopo di Nicola Fano Il metafilm di Pedro Almodòvar di Anselma Dell’Olio

Meraviglie del Tromp l’oeil di Marco Vallora


leggi alla voce

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Cesare e il pugnale di Bruto di Francesco Napoli ui era un Cesare! Ne avremo mai un altro?», lo grida il Marc’Antonio di Shakespeare e noi lo vediamo ancora lì, vibrare le sue parole a corpo caldo del (presunto) despota ucciso e ha le fattezze di Marlon Brando nella trasposizione cinematografica del 1953. La figura del tiranno conserva un sottile fascino, perché ha in sé l’ambiguità tra bene e male che il dittatore, alla quale spesso viene associata, non conserva affatto avendo un solo volto, sempre truce e negativo. Nell’immaginario letterario la fine di uno come Cesare è quella più saldamente impressa, forse perché da subito all’assassinio vennero associati presagi funesti e straordinari, quasi messianici, come ricorda Plutarco nelle sue Vite: «Tra i prodigi mandati dagli dèi si annovera una grande cometa che apparve per sette notti consecutive dopo l’eccidio di Cesare, ben visibile in cielo, e che quindi scomparve. I raggi stessi del sole si oscurarono: per tutto quell’anno il suo disco si alzò pallido e smorto al mattino, ed emanò un calore fioco e tenue». E Bruto, l’uccisore di cotanta speme per Roma tutta, di quel Cesare che stando a Svetonio ripeteva spesso come «la sua sopravvivenza fisica non era di suo personale interesse, al contrario interessava soprattutto la Repubblica. […] La Repubblica - precisava -, se a lui fosse accaduto qualcosa, sarebbe precipi-

«L

segue dalla prima Una frase permeata di attualità e spunto di riflessione in Italia, vista la posizione «eretica» di Gianfranco Fini che si rifiuta di vivere nell’atmosfera «da caserma» instaurata dal Pdl di Berlusconi. A prima, e distratta, vista pare che Pessoa sia un reazionario. Sbagliato: è un conservatore illuminato che s’interroga, fuori da qualsiasi canone retorico, su «quanto male» possa fare la democrazia. Non molto, precisa. E cita Lord Hugh Cecil, figlio del marchese di Salisbury, autore del saggio intitolato Conservatorismo. Il nobile inglese esce dalla sua flemma e non si risparmia nel criticare la Camera dei Lord: «La verità è che né il popolo ha voce attiva nella Casa dei Comuni, né un controllo definito su di essa, una volta prescelta». E malinconicamente conclude che «il fatto formidabile è che l’autorità suprema del nostro Impero immenso e senza uguali è alternativamente nelle mani di due bande di uomini veementi, intransigenti e squilibrati». Hugh Cecil esprime un viscerale patriottismo, di stampo fortemente aristocratico.

Anche Pessoa mostra antipatia verso «la forza del numero», convinto com’è che in molti casi a esercitare la tirannia è la maggioranza eletta. Perfidamente, e con il passo platonico che regola i suoi dialoghi, arriva a dire che «la tirannia è democratica». Per quanto riguarda i privilegi, Pessoa muove fendenti concettuali rivalutando la concezione medioevale della libertà («va vista non come un diritto, ma come un privilegio») e discetta sulla forza che il Destino (oggi meglio leggibile anche con le scoperte sul Dna e sull’ereditarietà genetica) per arrivare a dire che «il privilegio è l’unica forma di libertà possibile al mondo, essendo impossibile la libertà assoluta». Il Destino come traccia fortemente greca e araba, maturato in civiltà essenzialmente fataliste. Il portoghese così lontano dal conformismo ideologico s’interroga in modo profondo e «scomodo»: «A quale tirannia vuole sfuggire chi ritiene il tempera-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

Marlon Brando nei panni di Marco Aurelio in "Giulio Cesare” di Joseph Leo Mankiewicz tata in guerre civili di molto più gravi delle precedenti», ha avuto anche i suoi momenti di gloria. Non tanto in antichità, Cicerone, magister del cerchiobottismo nel casoCesare, scrisse ad Attico sui cesaricidi che si erano comportati «con coraggio da veri uomini, ma con cervello da bambini», quanto con Shakespeare che lo definì nel suo Giulio Cesare come «il più nobile tra i Romani» così da riscattarlo dall’Inferno nel quale Dante, convinto fautore del potere temporale dell’Imperatore, senza esitazione l’aveva scaraventato. E se Antonio fu abile nel gestire l’immediato dopo Cesare, consacrando il corpo dell’ucciso con i massimi onori a Campo Marzio e a furor di popolo, come ricorda Svetonio - «In seguito il popolo alzò nel Foro una colonna di marmo numidico alta quasi venti piedi con l’iscrizione “Al padre della patria”. E in quel luogo per molto tempo continuò a offrire sacrifici, a fare voti e a dirimere controversie giurando nel nome di Cesare» -, ben presto si vide oscurato dal vero erede del cesarismo quell’Augusto che istituì a suo favore né dittature né tirannie, semplicemente il Principato. E uno che di queste cose se ne intendeva quale Napoelone Bonaparte, quando per lui erano ormai già battute le ore finali sul quadrante della Storia, su Bruto chiosa con estrema lucidità dall’esilio di Sant’Elena: «Immolando Cesare, Bruto ha obbedito a un pregiudizio educativo che aveva appreso nelle scuole greche. Lo assimilò a quegli oscuri tiranni delle città elleniche che, col favore di qualche intrigante, usurpavano il potere. Non volle vedere che l’autorità di Cesare era legittima perché necessaria e protettrice, perché era l’effetto dell’opinione e della volontà del popolo».

mento stesso una tirannia immediata?». Originale è poi l’interpretazione che dà all’Inquisizione: «L’unica inquisizione che c’è oggi è la stupidità». Non esiste per Pessoa tirannia religiosa (che semmai ha forme sottili di depravazione), bensì politica. Sempre politica, tanto è vero che la tirannia più diffusa viene «esercitata in nome della religione». Riflettere sul fondamentalismo islamico è pressoché automatico, a questo punto.

A parziale e soprattutto indiretto sostegno delle tesi di Pessoa, vale la pena ricordare quanto scrisse Voltaire, l’illuminato per eccellenza: «Si chiama “tiranno” quel sovrano che non conosce altre leggi che il suo capriccio, che ruba gli averi dei suoi sudditi e poi li arruola per andare a rubare quelli dei suoi vicini. Di tali tiranni, in Europa, non ce ne sono». In seguito appare un ragionamento che agli occhi dei moderni potrebbe apparire ideologicamente fastidioso: «Si distingue la tirannia di uno solo e quella di molti. Questa tirannia di molti sarebbe quella di un corpo che usurpasse i diritti degli altri corpi, e che esercitasse il dispotismo per mezzo delle leggi da lui corrotte.\\u2028 Sotto quale tirannia preferireste vivere? Sotto nessuna; ma, se bisognasse scegliere, detesterei meno la tirannia di uno solo che quella di molti. Un despota ha sempre qualche momento di buonumore; un’assemblea di despoti non ne ha mai. Se un tiranno mi fa un’ingiustizia, potrò disarmarlo per mezzo della sua amante, del suo confessore o del suo paggio; ma una compagnia di cupi tiranni è inaccessibile ad ogni seduzione. Quando non è ingiusta, è per lo meno dura; e mai concede grazie. \\u2028Se vivo sotto un solo despota, me la cavo scansandomi contro un muro, appena lo vedo passare, o prosternandomi o battendo la fronte in terra, secondo i costumi dei vari paesi; ma se al governo c’è una compagnia di cento despoti, sono costretto a ripetere la cerimonia cento volte al giorno, il che alla lunga è assai noioso, quando non si abbiano le giunture pieghevoli». L’intellettuale che più lucidamente intervenne sulla tirannia fu Albert Camus, il quale si pose la domanda su

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

tirannia

che cosa fare davanti all’antica tragedia dell’ingiustizia. Rispose con uno dei più bei libri del Novecento, L’homme revolté, L’uomo in rivolta (1951). Contro la tirannia non c’è che la rivolta, facoltà più nobile dell’uomo in quanto «rifiuto di essere trattato come una cosa». Camus esalta «la ribellione consapevole» a un destino puramente fisico, meccanico (lui lo chiama «storia»), in cui la potenza decide le sorti, nel quale gli uomini non si dividono più in giusti e ingiusti, ma in signori e schiavi. Condizione ripugnante, per il francese. Insomma: o si sceglie di vivere da uomini, o ci si abbassa a vivere da oggetti. Chi nega la dignità umana, costringe altri uomini a rinunciarvi. Questa è la colpa sociale, il peccato originale delle società che, in ogni tempo, hanno prodotto sofferenze indicibili.

Per Camus il compito principale dell’uomo è quello di «diminuire il dolore del mondo», rifiutare l’idea che la violenza sia uno strumento «usuale». Se Pessoa guarda alla società non tanto come soggetto in grado di esprimere un’opinione pubblica, ma come azione, Camus invita tutti a ridurre o cancellare «lo scandalo dell’ingiustizia». Come? Trasformare in azione la dignità umana. Attraverso la solidarietà. E aggiunge che è pura follia pensare a un nobile fine qual è fare il bene dell’uomo con un mezzo che è l’esatto contrario; la rivolta «non può fare a meno di uno strano amore», questo: «coloro che non trovano quiete né in Dio né entro la storia si dannano a vivere per quelli che, come loro, non possono vivere: per gli umiliati. È questa la pazza generosità della rivolta, che dà senza indugio la sua forza d’amore e rifiuta senza dilazioni l’ingiustizia». L’obiettivo, in assoluto il più liberale, è quello, come diceva Raymond Aron (in Etica della libertà) di opporsi alla «presunzione di pochi oligarchi di conoscere la verità sulla storia e sull’avvenire: cosa insopportabile». E Aron avvertiva anche che «un potere rivoluzionario è per definizione un potere tirannico» (L’oppio degli intellettuali) perché «rivoluzione e democrazia sono nozioni in antitesi».

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parola chiave

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PANDEMIA andemia. Da dove viene questa antica mostruosità che ha fatto irruzione nella nostra esistenza impreparata al Male Assoluto? Dalle nebbie dell’imprevisto di tanto in tanto si fanno strada incubi che ci soggiogano. Ci nutriamo di dimenticanze. Perciò ignoriamo, fin quando possiamo, che qualcosa di oscuro, misterioso, inafferrabile può, senza preavviso, trascinare i nostri destini in un gorgo al quale non c’è ritorno. E ci culliamo nella certezza che nulla, in fondo, è irreparabile. Nel momento in cui l’irreparabile si manifesta non abbiamo parole per pregare, né fedi da invocare, né illusioni da coltivare. Abbiamo bruciato tutto nel braciere dell’effimero. Ci rimane soltanto l’umano terrore a cui tenerci aggrappati. Ma alla disperazione non si sfugge. E se c’è un Dio che ci possa salvare, per lo più non è alla nostra portata poiché i miracoli li abbiamo relegati nel capace armadio delle tradizioni incapacitanti, miti che sviano, distolgono, distraggono. Poi, però, qualcuno che ricorda c’è. E ci avverte che le civiltà di cui non ci prendiamo più cura sono state distrutte da venti maligni che si sono insinuati nelle vite pur solide di genti avvezze a parlare con le divinità, a frequentare il sacro, a espiare quand’era il caso. E a rassegnarsi che dal cielo piovevano catastrofi. Ma oggi, nel trionfo del razionalismo, dopo che abbiamo sacrificato ogni cosa, a cominciare dall’anima, alla divinità più sconcia, la Ragione, come facciamo a spiegare a noi stessi che quel che ci accade e si sovrappone alle nostre esistenze fragili non è spiegabile? Magari ci si porrà rimedio, i danni saranno limitati, la catastrofe che si dispiega sotto i nostri occhi si arresterà. Certo, rimarranno frantumi e lutti, ma la vita continuerà a girare, sia pure attorno a un dolore che coinvolgerà l’umanità intera. Resta il fatto che siamo impreparati.

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Pan e demos. Tutto e popolo. Pandemia, appunto. Che appartiene a tutto il popolo. Una malattia, un cataclisma, una catastrofe? Si ammalano i corpi, illividiscono le anime, perfino le pietre non hanno più i colori che avevano. L’ora della disperazione è la più nera. E si ritorna così, ai quattro angoli del mondo, a guardare in faccia al dolore. Negli occhi di un bambino che se ne va senza salutare, nelle mani di un anziano che si ritraggono, nelle rughe di una donna vecchia che si distendono e di tanti ammalati ai quali nessuno aveva pronosticato una fine diversa da quella per la quale si erano preparati. Non si può dire dove arriverà, a quale porte busserà, quali palazzi inonderà il Male oscuro che terrorizza il mondo. E perché, dunque, se l’umanismo ci assale all’improvviso, dovremmo meravigliarci, vergognarci, nasconderci? Siamo, per nostra fortuna, creature bibliche, nel senso di partecipi di storie primordiali scandite da dolorose figurazioni e trionfanti rinascite. Non dovremmo dimenticarlo. Eppure, quando anche la pandemia sarà passata, fare-

Ha fatto irruzione nella nostra esistenza impreparata al Male assoluto, incapace di rinunciare alla certezza che nulla è irreparabile. Dietro la paura che ci assale c’è l’impossibilità a penetrare il mistero. Ma lo spavento è anche motivo di speranza

Epifania di una rinascita di Gennaro Malgieri

Abbiamo immolato tutto sull’altare della ragione, bruciato tutto nel braciere dell’effimero. Il rischio è che nel momento in cui il pericolo passerà faremo in modo di dimenticarlo. Fino alla prossima volta, quando ci sarà nuovamente qualcosa da temere e Dio riprenderà le sembianze di un antidoto

mo di tutto per dimenticarla. Fino alla prossima. Fino a quando un’altra volta tutto il popolo sarà coinvolto. E Dio avrà le sembianze di un antidoto, di un vaccino, di una cura, di un camice bianco svolazzante. Dio come speranza profana? Meglio di niente. Anche il vecchio Heidegger sarebbe stato soddisfatto: l’Essere si può trovare perfino in una malattia che tende ad annientarci. Le mani alzate di Cioran di fronte a un «funesto demiurgo» non dovrebbero indurci alla rivalsa contro il nulla, ma alla pietà che si deve alle anime piegate, come lo sono tutte, quelle di «tutto il popolo»: pandemia nel senso proprio. Nei giorni in cui ci guardiamo con insolita curiosità, cercando di frugarci fin dentro le fibre più nascoste, la domanda che ci poniamo non riguarda soltanto la salvezza di tutti e di ciascuno, ma la resistenza di ognuno di noi di fronte al Male. Non sarà un’influenza a spazzarci via, ma l’infezione che penetra ovunque come faremo a tenerla sotto controllo, a debellarla, e chi ci dice che non si ripresenterà in forme ancora più aggressive? Negli occhi di ognuno leggiamo la paura. Come è scritto nell’Apocalisse. Ma l’eterno ritorno di un sentimento che ci pervade, nascosto tra le luminescenze false della modernità, è segno che l’umanità non è perduta, che la speranza ancora può tenerci in vita. La pandemia è una meditazione sulla morte, ma anche sulla vita. Sul silenzio di cui abbiamo un disperato bisogno e sulla preghiera da ritrovare. Sul Dio nascosto e sulla blasfemia della riduzione di un canto a rumore. Non è la vendetta del Maligno, ma l’epifania di una rinascita. Con il rispetto che si deve alla paura e con la gioia con cui si accoglie la speranza.

Ho visto nei giorni della grande decomposizione mondiale, affannarsi attorno a un incubo le teste migliori del nostro tempo. E mi sono chinato sul lettino ordinato di un bambino febbricitante, capace ancora di regalarmi un tenero sorriso per cercare nella mia apprensione una carezza che gli desse un po’ di sollievo. Due estremi di una medesima tragedia. Che cosa c’è al di là della soglia della preoccupata tenerezza di un padre o di un nonno e delle decisioni che le autorità mondiali devono assumere? Non una febbre, non un raffreddore apparentemente banale, non gli interrogativi di «tutto il popolo». C’è la nostra impossibilità a decifrare l’essenziale, a penetrare il mistero, a raccogliere nelle nostre mani destini provvisori. Perciò siamo spaventati. Ma se questo spavento sarà un ritorno al passato, al riconoscimento di una umanità più viva e più sobria e più incantata, credo, senza bestemmiare, che perfino la pandemia ci apparirà un giorno come l’unione di tutto il popolo nel fronteggiare il Male assoluto, quello contro il quale non c’è vaccino. L’anima non si perde per sempre. Essa ritorna, come il sacro che si nasconde, quando meno ce lo attendiamo. E dopo la tempesta…


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cd

Otto pezzi facili È per Julian

Casablancas in libreria

LE MILLE E UNA CANZONE

musica

di Stefano Bianchi

solo un pischello ma canta come Lou Reed. Il giovane Lou, per l’esattezza: quello che parte dai Velvet Underground e arriva fino al solistico Transformer. Ricordo di averla pensata così, a botta calda, dopo avere ascoltato Is This It. Era il 2001, e i newyorkesi Strokes debuttavano con un album di rock a nervi scoperti (all’indomani del The Modern Age EP e di un giro d’assaggio di concerti cittadini) dimostrando di aver imparato a menadito la lezione di Velvet Underground (quelli di Loaded, in particolare), Ramones, Blondie e Television. Accanto al singer/songwriter Julian Casablancas (quello che canta come Lou), compaiono i chitarristi Nick Valensi e Albert Hammond Jr., il bassista Nikolai Fraiture e il batterista Fabrizio Moretti. Pischelli come lui. E sdruciti, griffati e borghesi come lui, figlio di quel John Casablancas fondatore dell’Elite Model Management che ha lanciato in passerella Naomi Campbell, Cindy Crawford, Gisele Bundchen e Linda Evangelista. Julian è spocchioso. Spende, spande, esagera un po’ con l’alcol. Idem i suoi viziati compagnucci. D’altronde, noblesse oblige, hanno studiato al Lycée Français di Manhattan e all’Institut Le Rosey svizzero. Altro che sotterranei di New York. La Bowery Street del leggendario CBGB’s del punk e della new wave, tanto per dire, non l’hanno vista nemmeno col cannocchiale. Eppure, la nomea di band snobisticamente underground se la portano appresso anche nel 2003 e nel 2006, quando incidono Room On Fire e First Impressions Of Earth: non efficaci come il primo disco ma tanto basta, pur di restare sulla cresta dell’onda. Tre anni dopo, il trentunenne Julian Casablancas ha (provvisoriamente?) messo in naftalina gli Strokes. Spicca il volo solista e dichiara: «Mi piace sia lavorare da solo, sia con la band. Non faccio distinzioni. Diciamo, però, che in questo caso ho inserito nel disco le idee più pazze che mi potevano venire in mente. Cosa più difficile, quando si lavora in gruppo». Nell’azzeccata brevità di Phrazes For The

mondo

ATTENTI A QUEI DUE SOTTO L’ALBERO

Young (8 pezzi per poco più di mezz’ora), Julian canta ancora come Lou Reed. I suoni che gli girano intorno, invece, sono cambiati: «Ho provato a coniugare l’immediatezza della musica moderna con la serietà della classica e il fascino della “vintage”». Detto e fatto. Meno rockettara modello Strokes, ogni canzone parte coi sintetizzatori e si evolve nell’elettricità. Vedi Left & Right In The Dark: elettronica da videogioco (avete presente l’ineffabile Popcorn di Gershon Kingsley?) e strappi di chitarra che lambiscono il rock. Oppure 11th Dimension: percussioni campionate, tastiere sbarazzine, un muro di chitarre hard, qualche goccia di rhythm & blues. Si sbizzarrisce eccome, il Casablancas: frulla post punk, rock and roll e country & western (Out Of The Blue); lascia alla chitarra elettrica il compito di scandire un ritmo marziale (Tourist); disegna un’avvolgente ballata elettronica (Glass) per poi cucirle addosso un retrogusto sinfonico; utilizza la technomusic come uno specchietto per le allodole, dal momento che saranno i muscoli del rock a vincere (River Of Brake Lights). Ipotizza un futuro schiettamente cantautorale, quando approccia senza problemi il gospel (4 Chords Of The Apocalypse) ma soprattutto quando libera un valzer dalle bizzarrie country/cabarettistiche (Ludlow St.). E riesce a depistarmi, in entrambi i casi: perché Lou Reed non c’è più, ma in compenso c’è una voce che somiglia a quella di Rufus Wainwright. Vallo a capire. Ma mi piace lo stesso. Julian Casablancas, Phrazes For The Young, Cult Records/Rca/Sony Music, 15,90 euro

riviste

L’ITALIA CHE PIÙ INDIE NON SI PUÒ

E

siste davvero un Heartbreak Hotel? È vero che Il cielo in una stanza è ispirata a una casa d’appuntamenti? Perché Losing My Religion dei Rem è stata censurata? A queste e decine di altre curiosità risponde il nuovo libro di Ezio Guaitamacchi, 1000 canzoni che ci hanno cambiato la vita (Rizzoli, 992 pagine, 21,50 euro). Un’opera dal sapore enciclopedico, che abbina al

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on mi piace il country e non mi piacciono i western. Non mi piace la musica rock, in particolare i rockabilly o il rock’n’roll. Ma quel che mi piace davvero, però, lo amo proprio e mi appassiona sul serio». Il Chris Lowe pensiero, gemello di quello anticonformistico e caustico di Neil Tennant, suggella al meglio la scanzonata erudizione dei Pet Shop Boys, duo che ha sempre

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Guaitamacchi raccoglie i brani più significativi degli ultimi sessant’anni in un’opera preziosa

Si chiama ”Christmas” il nuovo mini-album dei Pet Shop Boys in arrivo il 14 dicembre

Sulle scene da 15 anni, provocatori, bravissimi, i Zen Circus si raccontano su “musicboom.it”

fascino catalogativo anche il piacere di una scrittura frizzante e ricca di aneddoti e osservazioni acute. Dal pop al rock, lungo sessant’anni e passa di storia musicale a partire dagli anni Cinquanta, le pagine dell’autore mettono in fila le canzoni indimenticabili che hanno scandito incontri e scontri generazionali, ma anche gemme dimenticate e brani che rispolverati ripresentano oggi una grande freschezza. Impreziosito dalla prefazione di Zucchero Sugar Fornaciari, e dalla nota introduttiva di Renzo Arbore, le mille canzoni di Guaitamacchi si candidano a essere un prezioso reference book per tutti gli amanti della buona musica.

concesso pochissimo ai desiderata del mercato discografico, e ancor meno alle mille lussurie del rock. Fedele alla linea, la coppia british più famosa della pop dance, 50 milioni di dischi venduti in tutto il mondo e decine di successi nelle hit-parade degli ultimi vent’anni, torna su piazza il 14 dicembre con un mini-album natalizio. Intitolato Christmas, il lavoro si compone di una tracklist di quattro pezzi: It doesn’t often snow at Christmas, My girl, All over the world,Viva la vida/domino dancing (cover dei Coldplay) e My girl. Poche ma buonissime, si dice in questi casi.

ta intervista a musicboom.it. Pisani, attivi da quindici anni, gli Zen sono un interessante agglomerato di folk e cow-punk, contaminato nel tempo dagli influssi dell’indie puro che ha trovato nella collaborazione con Brian Ritchie dei Violent Femmes le sonorità più mature. Messisi in luce nel 1999 con l’album di debutto About Thieves, Farmers, Tramps And Policemen, di recente il gruppo ha firmato uno degli episodi della compilation Il Paese è reale, seguito da un nuovo provocatorio album che abbonda nei testi di stilettate e ironiche punzecchiature all’Italia contemporanea più becera. Originali e trascinanti, degli Zen Circus sentiremo parlare sempre più spesso.

a cura di Francesco Lo Dico

no sogna una stanza piena di vinili e poi ha una scatolina così, una scheda di memoria, è una cosa orrenda. Posso capire che quando vai in aereo per esempio è comodo l’mp3, ma vuoi mettere la bellezza di arrivare a casa toccare un vinile?». Karim e Ufo, componenti dell’indie band italiana Zen Circus, analizzano temi e problemi della musica nostrale in una disinvol-


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zapping

Gli Elii inciampano SUI GATTINI di Bruno Giurato ediamocelo, sentiamocelo, ma soprattutto diciamocelo. Gli Elii sono un po’ stufi. Il loro ultimo Gattini è, ebbene sì, una minchiata. Rifanno i loro classici, il loro pene mi dà il pane, ma vediamocelo, sentiamocelo e diciamocelo, erano meglio le versioni originali. L’orchestra non aggiunge, toglie un tot di forza alla loro vena, e anzi ci mostra il punto debole degli Elii. Sin dall’inizio Elio e le Storie Tese hanno vissuto in bilico su una doppia rotaia, da una parte il punk italiano, che si chiama Rock Demenziale ed è la rotaia Skiantos, Squallor (sic!) e perfino Sandro Oliva and the Blue Pampurios. Dall’altra parte la rotaia del turnismo milanese, i musicisti tecnicamente ineccepibili, i suoni pittati e leccati. E il meglio di Elio viene fuori quando i funambolismi e la capacità istantanea di clonare un sound si mischiano con l’umorismo cinico del demenziale. Zappiani solo per tangenza, gli Elii sono dei decostruttori perfetti. Anzi dei distruttori: di luoghi comuni, di buoni sentimenti di correttezza civile. Se chi scrive fosse femmina sarebbe ancora arrabbiata a morte per Cara ti amo, manifesto del maschilismo più bieco, per non parlare del testo di Essere donna oggi «vivere il prodigio del tuo ciclo mensile/ostentando sicumera [...] non più cagafigli bensì dolce e caparbia/cagatrice dei tuoi figli». Ma ora non si sa bene perché: sarà l’età, sarà che hanno raggiunto i vertici e che sono stanchini, la tendenza calligrafica ha preso il sopravvento. Gattini è splendidamente suonato, discretamente arrangiato (gli archi li usava in modo più originale Prince una trentina d’anni fa), e inutile. Forse è che a ballonzolare da una rotaia all’altra si rischia di cascare in mezzo. Su quella striscia che ci fa capire perché in stazione sia proibito l’uso della toilette. Vediamocelo, sentiamocelo, ma soprattutto diciamocelo.

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teatro

Il troppo di “Magick” fra dolore e ironia di Enrica Rosso a seconda prova della regista-drammaturga Lucia Calamaro, Autobiografia della vergogna (Magick), arriva a Milano dopo essere stata ripresentata al Teatro di Roma che l’aveva inserita, producendola, all’interno del progetto speciale-giovani «Oggi Verso Domani» della passata stagione. Seconda prova dopo il primo, più convincente Tumore - uno spettacolo desolato. Non traggano in inganno i due titoli, Lucia Calamaro esplora nelle sue scritture il dolore della parola è vero, ma non risparmia, non si risparmia nessuno spunto ironico. Non solo, in fase di allestimento accentua quei dettagli che soli potrebbero essere mortiferi e che improvvisamente diventano tracce di una riflessione caustica seppure rispettosa di un vissuto che si evince difficilissimo. «Il sottotesto centrale di Magick è la vergogna. Emozione complessa, transgenerazionale, sociale, epidemica e virale, penosa, distruttrice, isolante, non verbalizzata, gemella del segreto, devastante. La vergogna non è senso di colpa, ci si vergogna di essere, non di fare, è un disaccordo metafisico con se stessi», ci segnala la giovane autrice. Un’autobiografia di famiglia in cui si accavallano le narrazioni, mai dialoganti, dei vissuti del padre, della madre e soprattutto di lei, della figlia. Quattordici sequenze per un raccontare continuamente interrotto, un vivere spezzato tentando di restituire, di dare un senso a eventi cardine di un’esperienza consumata ai bordi della vita di due genitori invadenti tentando di costruirsi un percorso sano. Questa la prima frazione dello spettacolo a cui seguono l’incontro della Figlia con il mago Georges e il brevissimo, esilarante, «Delirio della Santa». Un torrente di parole che si apre come il vaso di Pandora e che ci investe prima ancora che il sipario, una cortina di pensieri fumosi, ci metta in contatto visivo con le interpreti. Si intercettano frasi - faccio, faccio tutto come tutti -, si isolano pensieri - la mia vergogna c’era prima di me io ci sono solo caduta dentro -, si dissezionano le situazioni date - il mio monologo interiore che parte avanti da solo, anche in strada, me ne accorgo dallo sguardo dei passanti -, si snocciolano verità - in generale siamo esseri senza silen-

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zi -, ritmate da un andamento di circostanza, vissuta e non goduta, comunque dissipata - qualche cosa me la ricordo e mentre me la ricordo non ne vedo il vantaggio. Le tre presenze in scena sono la stessa Lucia Calamaro, Benedetta Cesqui e Monika Mariotti, disperse in un campo di libri: citati, lanciati, recuperati, strapazzati. Parole scandite, parole subite, parole che confortano o che volano. Parole simulacri. Luci che scontornano e che indicano percorsi, che sugge-

riscono intimità e che intimano rispetto, gabbie d’ombra in cui tutto può accadere. La confezione è mossa, elegante e curata, ma il risultato finale risulta essere sovrabbondante: troppe caotiche riflessioni, troppo estenuante salmodiare non giovano alla tenuta dello spettacolo (un’ora e mezzo abbondante), che risulta eccessivamente ricco, nonostante la bravura delle interpreti e l’indubbia personalità della scrittura. Ci pare che il secondo blocco, quello del mago, sia decisamente in più e che crei uno strappo troppo ardito che si fatica a legare. Come dire: con lo stesso materiale di spettacoli se ne potevano fare due.

Autobiografia della vergogna (Magick) di Lucia Calamaro, Teatro Litta di Milano dal 17 al 22 novembre, Info: www.teatrolitta.it tel. 02/86454546

jazz

Clifford Brown, un grande anche al piano

di Adriano Mazzoletti l grande cruccio di chi si occupa di jazz con serietà è quello di veder andare dispersi, o per incuria o per ignoranza, documenti di grande importanza storico-musicale: registrazioni di concerti, di interviste, di jam session o di esecuzioni realizzate privatamente per studio da singoli musicisti. Oggi non sapremmo nulla o quasi sull’origine del bop se l’appassionato Jerry Newman non si fosse recato, munito di un registratore, al Minton’s Playhouse di Harlem e non avesse registrato le jam di Thelonious Monk, Charlie Christian, Kenny Clarke e dei loro occasionali compagni. Sembra però che tutto non sia andato perduto. La piccola etichetta discografica Rlr, acronimo di Rare Live Recording, ha recentemente pubblicato un doppio album di uno dei più grandi musicisti della seconda metà del secolo scorso, la tromba Clifford Brown. L’inte-

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resse risiede in diciotto tracce, di cui nove dov’è possibile ascoltare per la prima volta Clifford Brown al pianoforte. Si era a conoscenza che il musicista di Philadelfia, scomparso nel 1956 alla giovane età di 26 anni per un incidente automobilistico, oltre alla tromba avesse anche studiato pianoforte, contrabbasso e vibrafono, ma le sue doti di pianista erano fino a oggi assolutamente sconosciute. Ecco dunque apparire ben nove esecuzioni di celebri standard (Al God’s Chillun Got Rhythm, They Can’t Take that Away from Me, Night and Day e altri), registrate a casa sua nel 1954, in

cui sorprendentemente Brown si rivela pianista eccellente dallo stile personale. Ma le sorprese di questo doppio disco che raccomandiamo vivamente soprattutto ai musicisti e agli studiosi non finiscono qui. In due altre tracce sempre registrate nel 1954 nella sua abitaziosi ascolta ne, Clifford Brown esercitarsi, improvvisando senza l’ausilio di nessun altro strumentista, su due celebri temi, Cherokee e Dizzy Atmosphere. Senso dello swing, tempo perfetto, rispetto assoluto dell’armonia. Il tutto senza accompagnamento alcuno. In un’ulteriore traccia ascoltiamo sempre

per la prima volta, il mai toppo compianto «Brownie», suonare Ornithology - celebre tema di Charlie Parker - con il suo maestro Robert «Boysie» Lowery, oscuro ma interessante sassofonista che non risulta abbia mai preso parte a incisioni ufficiali. La registrazione è stata effettuata su disco pronto ascolto a Wilmington, nel 1949 o 1950, quando il diciannovenne Clifford Brown studiava matematica al Delaware State College. I due dischi comprendono inoltre una rarissima esecuzione radiofonica (Chicago 1952) di Come from Jamaica di Brown con i Blue Flames del batterista Chris Powell, che può essere messa a confronto con lo stesso titolo inciso in studio pochi mesi dopo e inserito anch’esso in questo straordinario dopo cd.

Clifford Brown Plays Trumpet & Piano - The Complete solo Rehearsals, 2 cd, RLR Records, Egea Distribuzione


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narrativa

libri

Le tesi di Pico dal ’400 al terzo Reich di Maria Pia Ammirati

dola. In quell’anno Pico della Mirandola aveva fatto stampare dall’ebreo Eucharius un testo che poneva le basi di un ipotetico concilio da celebrare a Roma il febbraio del 1487 con la partecipazione di saggi delle tre religioni monoteiste: cristiani, ebrei, musulmani, attraverso i quali poter riconoscere l’unicità di Dio. È chiaro che un pensiero di questo tipo fosse bollato come eretico, e che nella corte papale di allora, fondata su prebende e meretricio, fosse considerato come un vero e proprio principio di sovvertimento che avrebbe minato alla base lo Stato pontificio. La forza e il fascino di Pico, uomo bellissimo e ricco, amico e protetto di Lorenzo il Magnifico (amico del Poliziano e del Savonarola), erano però per la Chiesa e il Papa un ostacolo, almeno fino a quando il giovane filosofo non sfida apertamente il potere ecclesiastico con le nuove Tesi, le 99, che contengono una verità più scomoda e oltremodo pericolosa: quella legata al potere mariano, Maria come madre di Dio e non di Gesù. Sono le 99 Tesi che fanno scattare la caccia all’uomo. La Mirandola fugge da Roma inseguito dagli sgerri papali, portando con sé una copia del testo che affiderà al suo amico e protettore de Mola prima di essere

ra le varie definizioni usate per il libro di Carlo Martigli, 999 - L’Ultimo custode, la più calzante è sicuramente thriller storico, perché il corposo romanzo che segue le peripezie storiche (e avventurose) dell’ultimo anno di vita del conte Giovanni Pico della Mirandola, si costruisce sulla suspense e una varia quantità di delitti. Il romanzo di Martigli ha molti pregi, il lavoro di scavo storico su Pico della Mirandola e sulla corte papale di Innocenzo VIII, la capacità romanzesca di ricamare sulle biografie storiche, una lingua e uno stile sostenuti e puliti, e il difetto di voler costruire in parallelo una seconda storia ambientata cinquecento anni dopo la vita del pensatore fiorentino. Nella lettura la storia intricata e piena di sorprese di 999, in realtà, comincia con una data a noi contemporanea e cioè l’appena trascorso settembre 2009, un punto per andare a ritroso alla caccia di un manoscritto (meglio un testo a stampa uscito da una stamperia romana) di cui non sono mai state trovate copie, intitolato 99, ovvero l’integrazione alle Conclusiones nongentae. Le novecento tesi dell’anno 1486 di Pico della Miran-

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avvelenato. Sarà la famiglia de Mola a custodire fino al Novecento le 99 Tesi. Il romanzo è quindi costruito in due grandi parti storiche che, ognuna per sé, racconta due poteri all’acme del delirio d’onnipotenza: l’anno in cui seguiamo la vita di Pico tra il 1486 e il 1487, e l’anno in cui un discendente di Ferruccio de Mola cerca di proteggere le 99 Tesi dalle grinfie dei nazisti, tra il 1938 e il 1939. Questi due blocchi storici si guardano, in verità, con una certa difficoltà, tanto è corale negli scenari e nelle geografie la parte tardo medievale, tanto è ingessata la parte moderna dedicata al terzo Reich e ai rapporti con l’Italia fascista. C’è il fascino di una continuità storica e di un discorso sulla religione come filo rosso che lega il tutto, ma c’è anche il limite di un sistema che ingloba troppe notizie e troppe cose, come se il corpo del romanzo si gonfiasse per bulimia. Il thriller supera i valichi temporali e giunge alle soglie del nostro tempo, per ricordarci come il mondo sia ancora pericolosamente in bilico su questioni mai superate come quelle religiose, quelle razziali o quelle che alludono alla libertà di pensiero e di scritto. Carlo A. Martigli, 999 - L’ultimo custode, Castelvecchi, 470 pagine, 18,50 euro

riletture

Lasciare il lavoro con la complicità di Seneca di Giancristiano Desiderio

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uesto articolo, se fosse letto dai giornalisti della redazione di liberal - tutte care persone: Errico, Francesco, Riccardo, Gloria, Luisa, Antonella, Vincenzo, Pierre, Clara, Nicola, Andrea, Franco, Mario -, potrebbe dar loro sui nervi. Indirettamente si sostiene, infatti, che io abbia capito tutto o quasi o che comunque sia un privilegiato perché lavoro e scrivo per il giornale ma me ne sto dove voglio, mentre loro devono andare ogni santo giorno in redazione. La vita di redazione non è la vita dell’azienda. La redazione non è un ufficio, ma dei punti in comune ci sono. La vita del giornalista è molto più libera rispetto alla vita di un impiegato o di un dirigente. La battuta la conoscete: «Sempre meglio che lavorare». In realtà, non

è così: un giornalista lavora eccome, non a caso il giornalismo è «il mestieraccio». Da quando poi tutto è cambiato con l’avvento della tecnologia agenzie, posta elettronica, internet non è mica detto che tutto sia cambiato in meglio. Per chi è in redazione, si capisce. Ma perché vi sto parlando del mio lavoro? È uscito un libro. In una settimana ha fatto due edizioni (almeno così dice la striscetta in copertina). S’intitola Adesso basta, edito da Chiarelettere. L’autore è Simone Perotti che ha fatto il manager per 19 anni, poi non ce l’ha fatta più e ha ripreso la sua vita in mano, così oggi vive tra Milano, La Spezia e il mare, scrive, naviga e fa qualche altro lavoretto. Soprattutto vive. Nietzsche da qualche parte ha scritto: «La felicità non è fare ciò che si vuole, ma è volere ciò che si fa». I termini del problema agitati nel libro di

Simone Perotti - un libro scritto bene, piacevole, anche pratico, solo a volte un po’ ripetitivo: se ne potrebbe fare una versione ridotta - sono esattamente questi: volere il proprio destino. È un’esperienza che abbiamo fatto tutti nella vita: mollo tutto e vado via, vado in Sud America e apro un piccolo bar sulla spiaggia e sto tutto il santo giorno a non fare niente e a godermi il mare. Alzi la mano chi, dopo giornate di lavoro e stress e netta sensazione dell’inutilità dell’utilità, non si è ritrovato a fare ragionamenti di questo tipo con gli amici. Ma come si fa? Ecco, il libro di Perotti dice come si fa non il bar, fa i conti, dimostra che è possibile, trasforma il sogno di piantare tutto e cambiare vita in possibilità ma soprattutto fa due cose decisive: svolge una critica della vita moderna tutta improntata al successo e alla car-

riera o anche solo alla ricerca del lavoro e, secondo, sottolinea un concetto fondamentale: c’è una sola vita ed è questa e chi rimanda sempre a domani non sa cosa sta dicendo e facendo. Dunque, se volete smettere di lavorare e cambiare vita non basta dire «mollo tutto e vado a mare», ma bisogna trasformare il sogno in una possibilità concreta e per farlo la prima cosa da realizzare è la coscienza di sé. Cosa c’entra tutto ciò con lo spazio di questa rubrica? Il libro di Perotti altro non è (ma lo ha fatto bene) che una rilettura di alcuni testi: Ozio creativo di De Masi, Consumo, dunque sono di Bauman, Sul buon uso della lentezza di Sansot e soprattutto De brevitate vitae di Seneca. Rileggervi è utile, ma potrebbe essere anche «pericoloso» perché potreste decidere di lasciare il lavoro e cambiare vita.


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personaggi

Con Nelly, la cameriera, nelle stanze della Woolf di Pier Mario Fasanotti n carattere non facile. A volte molto spigolosa, capace di colpire con le parole, come rasoiate. La grande Virginia Woolf quando scriveva sapeva cogliere particolari e sfumature delicatissimi. Con la cameriera Nelly si scorda sovente che la vita quotidiana non deve distare molto da ciò che scrive, visto che lei si batte per i diritti delle donne. Eppure, leggendo i diari (inventati: «un mero artificio letterario» rivela l’autrice) di Nelly, la donna che divide il suo tempo tra la scrittura e l’attività editoriale assieme al marito Leonard, non ce la fa a nascondere una viscerale avversione per il «popolare». Spiritosamente e ne-

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scienza

vroticamente snob, capace però di instaurare con Nelly, una delle sue due cameriere, un dialogo che va oltre la verdura da comprare e altre incombenze. Per esempio è Nelly che, con grande trasporto, informa la padronascrittrice che la Camera dei Lord ha approvato la legge sul voto alle donne. Virgilia è acidamente puntuale, ed elenca, una dopo l’altra, le restrizioni della norma. Poi si lascia andare a una critica spietata: «Che gioia! Finalmente i padri della patria si sono degnati di dare una caramellina alle bambine, ringraziamoli tutte in coro e baciamo le mani. Bah! Questo non è che un sotterfugio per tenerci buone, quando in realtà ci disprezzano». I dialoghi tra Virginia e Nelly sono l’occasione per

entrare nel cuore del famoso gruppo di Bloomsbury, antenato del movimento sessantottino perché anticipò «un sogno che coniuga la dimensione personale con quella sociale… il sogno della libertà. Libertà sessuale, di pensiero, di creazione. Libertà nei rapporti umani, nel modo di vivere, libertà dalle convenzioni».Tutto questo tra splendori e miserie. Ma al di là di questo, il personaggio di Nelly va oltre la mera presenza fisica. Leggiamo nel diario di Virginia Woolf: «Se queste pagine non le avessi scritte io e un bel giorno dovessero cadere nelle mie mani, cercherei di scrivere un romanzo su Nelly, suo suo personaggio. Tutta la storia fra noi, gli sforzi miei e di Leonard per liberarci di lei, le nostre riconciliazio-

ni».Virginia sapeva essere difficile, in casa. Il marito sopportava le donne che si innamoravano di sua moglie e le scrivevano lettere, le crisi e le malattie di Virginia, la sua isteria quando s’accorgeva che un libro non le veniva bene o quando non si sentiva ispirata o non aveva tempo per scrivere, colpa degli ospiti. La depressione e il timore di un’altra guerra la spinsero a togliersi la vita gettandosi nel fiume Ouse. La trovarono giorni dopo alcuni bambini: un corpo gonfio, deforme, i lobi delle orecchie mangiati dai pesci. A Nelly un giorno disse: «Bisogna avere dignità». Alicia Giménez-Bartlett, Una stanza tutta per gli altri, Sellerio, 336 pagine, 14,00 euro

Darwin: un vecchio dogma ancora da discutere di Lorenzo Stella a scienza si approssima al vero per «prove ed errori», affermarne le tesi quali «verità» assolute è pertanto un ossimoro epistemologico. Invece gli assiomi naturalistici abbondano: dal clima all’energia, fino alla più radicata tra le «ipotesi dogmatiche», come la definisce Roberto de Mattei, l’evoluzionismo darwinista. A guastare la festa delle commemorazioni per il bicentenario della nascita di Charles Darwin e per i centocinquant’anni dalla prima pubblicazione dell’Origine delle specie è stato appunto de Mattei, che prima ha organizzato un convegno presso la sede centrale del Consiglio nazionale delle ricerche, di cui è vicepresidente, poi ne ha raccolto gli atti

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società

in Evoluzionismo: il tramonto di un’ipotesi, infine li ha presentati in un’altra location emblematica: l’Hotel Columbus a Roma, accanto a San Pietro. Il successo dell’incontro testimonia quanto in questo settore ci sia bisogno di un pizzico di eresia. La particolarità del libro sta nel collazionare non asserzioni fideistiche ma critiche poste da scienziati di varie discipline: paleontologi, biologi, fisici, chimici, medici. Il fatto che i coautori siano tutti stranieri è indicativo: del resto, l’unico studioso italiano di rilievo che abbia osato compromettersi su questo terreno è il genetista Giuseppe Sermonti (presente al convegno ma non nel volume). Solo per citare uno dei contributi, il biologo Pierre Rabischong dell’Università di Montpellier, ex direttore dell’unità di biomeccanica dell’Inserm, obietta come la

ricerca mostri percorsi evolutivi «all’interno di una stessa specie, ma non tra specie differenti». Mentre per ridimensionare l’importanza darwiniana basterebbe ricordare come il naturalista britannico non conoscesse la trasmissione genetica, che sarà collazionata a posteriori alla sua tesi, e come l’intuizione evoluzionistica fosse diffuse all’epoca, tanto che Alfred Wallace precorse l’Origine delle specie. A ragione, de Mattei parla di una «tesi ottocentesca». In sostanza, al volume va riconosciuto, al di là del merito, il coraggio intellettuale di aver insidiato «una cosmogonia che - come spiega de Mattei - pretende di descrivere la storia del mondo partendo da postulati scientifici inverificabili», una dottrina spesso imposta e «che invece dovrebbe essere sottoposta al rigoroso vaglio della critica nazionale e scientifica, attraverso un libero confronto tra gli studiosi».

Evoluzionismo: il tramonto di un’ipotesi, a cura di Roberto de Mattei, Cantagalli, 260 pagine, 17,00 euro

Gli strali di Salìngaros contro il modernismo di Angelo Crespi alìngaros, greco di origine statunitense d’azione, un’incipiente calvizie, le sopraciglia nere folte, l’abito demodé come solo quello di un professore americano, è una sorta di Don Chisciotte dell’architettura contemporanea. Piuttosto che con i mulini a vento, ha iniziato una sua particolare battaglia contro gli edifici a torto ritenuti più chic del globo firmati dalle più celebrate archistar, convinto che siano l’esempio realizzato e tangibile del nichilismo che ha colpito la nostra ci-

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viltà. In questa sua personale e solitaria sfida non risparmia neppure le gerarchie ecclesiastiche, ree di aver ceduto al contemporaneo facendo progettare e realizzare chiese senza spirito che assomigliano più a supermercati che a luoghi di culto. Ovviamente le critiche di Salìngaros, professore di matematica all’Università di San Antonio Texas, non si basano solo su giudizi estetici soggettivi, bensì trovano fondamento da un lato nella storia dell’architettura, dall’altro negli studi appunto di matematica, considerato che ogni civiltà e ogni religione hanno svi-

luppato metodi di rapporto con lo spirito attraverso la forma costruita che hanno sempre avuto una base comune matematica. Non a caso, Salìngaros è convinto che l’armonia e la bellezza delle architetture antiche promanino dall’utilizzo di particolari strutture frattali che si ripetono a scale differenti nell’edificio. Un modo di costruire completamente dimenticato dai modernisti che evitano inconsapevolmente, talvolta coscientemente, l’utilizzo di scale frattali. Ma quale è la causa di questa deriva nichilista? Salìngaros è convinto, e come dargli torto guar-

dando l’orribile chiesa di Foligno disegnata da Fuksas, che al fondo ci sia un programma di ingegneria sociale, di totalitarismo disumano, cioè di costruire una società utopica e antiliberale, di cui le archistar sono parte attiva: si tenta di convincere le persone che ciò che ripugna è bello, mentre ciò che attrae e incoraggia la relazione (cioè il vecchio bello) è contro lo sviluppo e il progresso, il tutto in nome di un futuro sempre meno adatto all’uomo. Nikos A. Salìngaros, No alle archistar, Libreria editrice fiorentina, 348 pagine, 18,00 euro

altre letture I reality show hanno creato il loro pubblico e hanno mutato l’humus culturale di una generazione. I concorrenti di reality sono diventati esempi e quindi la realtà diventa lo specchio del reality e non viceversa. È una delle tesi che Paolo Mosca espone nel suo Reality. Dal Grande fratello all’Isola dei famosi (Bompiani, 128 pagine, 15,00 euro). Una ricognizione scritta dall’interno del mondo dei reality visto che Mosca è stato un’autore di questi format. «Stimoli e reazioni sono i due cardini della realtà dei reality. L’unico intervento aurorale che entra nella vita dei concorrenti è proprio lo stimolo. Si interviene per indire una prova da preparare per il prime-time, si interviene per mostrare a tutti il confessionale di un eliminato che sparla dei presenti. Tutti stimoli. Le reazioni agli stimoli sono il vero succo dei reality show. Vi siete mai chiesti perché nei reality non ci siano telefoni o libri da leggere? Perché stimoli e reazioni non devono avere distrazioni». Il Trattato di scherma con bastone da passeggio di Giannino Martinelli (Il Cerchio, 160 pagine, 20,00 euro) è forse la testimonianza più importante delle arti marziali italiane della Belle époque. In questo manuale è illustrata la scherma di bastone sia come esercizio schermistico sia come utile sistema di difesa contro il coltello. L’approccio e la struttura tecnica sono squisitamente nuovi e moderni, così come anche l’esigenza di salvaguardare nei grandi contesti urbani attuali la propria intangibilità personale. The Vampire di John William Polidori, apparso nel 1819 su New Monthly Magazine, primizia della letteratura macabra inglese, si presenta come l’archetipo di ogni futuro vampiro, come un perfetto repertorio degli elementi tipici del racconto dell’orrore. Tuttavia l’originalità maggiore di questa creatura letteraria, ora riproposta dalle Edizioni Studio Tesi (149 pagine, 8,90 euro) sta nella movimentata storia della sua pubblicazione, fatta di smentite e di attribuzioni contestate. In questo volume oltre a The Vampyre il lettore potrà trovare il Frammento di Byron da cui Polidori elaborò il suo racconto. a cura di Riccardo Paradisi


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NELLE SUE OPERE - “IL RINOCERONTE” IN TESTA HA DENUNCIATO, CON CINQUANT'ANNI DI ANTICIPO, GLI EFFETTI DEVASTANTI SULLA SOCIETÀ DELLA DITTATURA DELLE APPARENZE E DELLA TELEVISIONE. PRONTI A SACRIFICARE LA NOSTRA INDIVIDUALITÀ PER UNA COMPARSATA O UN ABITO GRIFFATO, SIAMO TUTTI RINOCERONTI… A UN SECOLO DALLA NASCITA DEL GRANDE DRAMMATURGO, UNA RILETTURA CRITICA NE RIPROPONE LA PREPOTENTE ATTUALITÀ

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anticipazioni

Circo Ionesco

di Nicola Fano Per gentile concessione dell’editore Gaffi, anticipiamo alcuni brani del volume di Nicola Fano Ionesco, Eugène, a giorni in libreria. onesco concepì la «filosofia del rinocerontismo» nel pieno del delirio nazifascista dell’Europa degli anni Trenta del secolo scorso. Il testo teatrale che nel 1958 egli trasse da quella filosofia (Il rinoceronte) è relativamente semplice da raccontare. In una cittadina di provincia, cominciano a comparire dei rinoceronti. La comunità ne resta colpita, ma alcuni - via via sempre più numerosi - cominciano a scovare un certo fascino in quei pachidermi che comunque mostrano una loro agilità; in quella pellaccia dura ma resistente agli urti e alle offese del freddo e del caldo; in quei corni che manifestano forza e producono sicurezza in chi li indossa. In questa comunità assolutamente normale e qualunque, gli spettatori hanno imparato a riconoscere un certo Bérenger (nome ricorrente in Ionesco) che viene sempre definito un «poco di buono». Un mezzo in-

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pria forza. Ragazze che diventano rinoceronti perché in fondo tutti fanno così… Alla fine restano solo Bérenger, Daisy e un loro amico, uomini e non rinoceronti: l’amico sarà il primo a perdersi mentre di Daisy intuiamo che forse uscirà di scena per farsi rinoceronte e così sopravvivere. Di certo, Bérenger cercherà di resistere.

La metafora fascista è evidente, ma fin troppo facile da identificare. Ma è anche possibile che egli pensasse a qualcosa di diverso, di più universale. E, seppure non lo pensava, è un fatto che quella metafora possa prendere colorazioni diverse a seconda di come la si legge. Questa è la sua grandezza, infatti, e qui adesso vedremo come è possibile interpretarla in modo incredibilmente attuale. La prima messinscena del Rinoceronte è del 1960: la televisione è agli albori della sua vita, ha una diffusione popolare ancora piuttosto limitata. E comunque i talk-show non erano ancora stati inventati. Nel Rinoceronte, invece, Ionesco imbastisce alla perfezione un talk-show, un salotto televisivo d’oggi (cin-

Veline e tronisti, politici insultanti e amministratori bugiardi, violentatori e madri assassine in cerca di un posto in un talk-show: il nostro mondo di individui senza identità era già stato descritto in quel terribile copione nel 1958 tellettuale, spesso propenso a contraddire gli altri e a vestirsi male, con gli abiti sgualciti e la cravatta mal annodata. I suoi compagni di lavoro lo biasimano e gli segnalano che così com’è, irregolare e individualista, non riuscirà mai a far carriera. Bérenger si difende dietro alla circostanza che a lui piace vivere così, ragionando con la propria testa. E poi la tenerezza che gli indirizza Daisy sta lì a significare che non è proprio solo ma che qualcosa di buono può costruirlo anche lui. Nel frattempo i pachidermi aumentano, senza che se ne capisca l’origine: ma sono sempre più belli e potenti. La comunità ormai è in preda al fascino rinocerontesco: infatti capiamo che il loro numero aumenta perché via via le persone si trasformano in rinoceronti. Uomini che diventano felicemente rinoceronti per far carriera. Donne che diventano rinoceronti per affascinare gli uomini. Ragazzi che diventano rinoceronti per dimostrare la pro-

quant’anni dopo) nel quale ogni argomento viene sezionato e rimontato in modo da essere reso inerte, incapace di intaccare le coscienze che, del resto, negli anni si sono abituate a dormire e ad accettare ogni idiozia televisiva come una legge inappellabile. Ecco perché la vicenda pensata da Ionesco fin dai tempi del fascismo rumeno può svolgersi in un’altra epoca rispetto a quella della commedia (la provincia francese degli anni Cinquanta) e farsi metafora di altre situazioni sociali. Io vorrei proporre qui una sola delle tante letture possibili: proseguiamo sul terreno del talk-show. Ancorché pesanti e oggettivamente brutti, questi rinoceronti possono essere anche veline e tronisti. Ossia giovani divi di nullità televisiva: tutti quei personaggi i quali, sopraffatti dalla povertà della cultura e della curiosità che le generazioni dei padri hanno trasmesso loro, sanno solo che apparire è una scorciatoia magnifica per so-

pravvivere. A quale prezzo non lo immaginano, naturalmente, poiché non hanno strumenti per immaginare. Ma certo il loro destino non sarà differente da quello di rinoceronte: la comparsata televisiva li farà sempre più coriacei ma anche più brutti. Il fatto, però, è un altro: è che tutti, ma proprio tutti, non solo gli aspiranti tronisti e veline, finiranno presto per farsi rinoceronti, forti e brutti. Lo saranno quelle madri che in diretta tv ritrovano i figli o quegli uomini che in diretta tv ritrovano colui che lo salvò in epoca lontana: ogni trucco è buono per andare in televisione e illudersi di esistere. Ossia di essere diventato forte e brutto: proprio grazie a quel piccolo pianto in primissimo piano davanti alle telecamere, o a quel seno lasciato intravedere, o a quel pantalone rigonfio ostentato, o a quella mano nodosa di vecchio lavoratore lasciata scorrere sopra al proprio volto addolorato. Siamo tutti rinoceronti, non c’è dubbio. Perché la legge dei rinoceronti è suadente e facile: meglio essere dalla parte di chi non deve faticare per darsi domande (è l’assunto finale del testo di Ionesco). Meglio essere uguali agli altri senza dover difendere a forza le proprie differenze. E la propria identità. Negli anni Cinquanta e Sessanta i grandi drammaturghi d’avanguardia puntavano a svelare il conflitto tra identità individuale e identità di massa: ecco, Ionesco qui ci dice che alla fine tutti propenderemo per una massa senza identità profonde ma la cui immagine condivisa sarà quella di un abito griffato. E di una pellaccia dura, di un corno per aggredire e di una bruttezza infinita.

Ma, ecco un altro punto in questione: chi dice che i rinoceronti sono brutti? Lo dicono esseri diversi da loro: se siamo tutti rinoceronti e tutti guardiamo il mondo attraverso i canoni di «bellezza» rinocerontina, ebbene siamo tutti belli. Ciò che conta è l’apparenza condivisa: se tutti piangono in tv, piangere in tv è una cosa bella. Se tutti si spogliano davanti alle telecamere, spogliarsi davanti alle telecamere è una cosa bella. Se tutti offendono e alzano la voce in tv, offendere e alzare la voce in tv è una cosa bella. Questi modelli, ovviamente, hanno travalicato i comportamenti esclusivamente televisivi e hanno invaso tutti gli altri contesti di vita pubblica e privata. In politica, ad esempio, conta l’annuncio e non l’effettiva introduzione di un provvedimento. Ma è pure normale ed elettoralmente fruttuoso urlare, insultare, piangere o spogliarsi in pubblico. Nelle professioni vale la stessa regola. Ma - quel che è peggio - le stesse re-


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A sinistra, l’immagine della copertina del libro di Nicola Fano “Ionesco, Eugène” (Gaffi Editore). Alcune immagini e una caricatura del commediografo. In basso, una scena del “Rinoceronte” e di “Chairs”

gole valgono nei rapporti interpersonali dove l’apparenza conta più della sostanza e un pianto finto produce maggiori benefici di un sorriso vero.Tutto questo era stato previsto da Eugène Ionesco nel Rinoceronte. Veline e tronisti, politici insultanti e amministratori bugiardi, violentatori e madri assassine in cerca di un posto in un talk-show: insomma il nostro mondo di «individui che appaiono e non hanno identità» era già stato descritto da quel terribile copione cinquant’anni fa. Ed è davvero sintomatico il fatto che nessuno, in teatro, l’abbia ripreso in queste recenti stagioni. Perché di quella verità amara abbiamo paura: la nostra società fallace conserva comunque una paura ancestrale nei confronti della verità, come se avere improvvisamente davanti ai nostri occhi qualcosa di vero potesse indurci a riconoscere le nostre menzogne. Non abbiamo controprove (nessuno s’azzarda a mettere in scena, su qualunque scena pubblica, la verità), ma io credo che noi si sia già andati oltre questo possibile, eventuale antidoto. (…)

condizione di sfruttati. In una parola, al capitalismo classico importava trarre beneficio (a ogni costo) dal lavoro degli individui, il resto non era di suo peculiare interesse economico. Bastava che le classi subalterne navigassero in una sana ignoranza del mondo e di sé. E così abbiamo avuto la splendida Opera da tre soldi, per esempio, dove l’uomo diventa in modo chiaro e netto «energia» da lavoro, senza altre mediazioni. Abbiamo avuto la corruzione di Arturo Ui; abbiamo avuto il grido di dolore di Galileo che denuncia se stesso per non aver messo la conoscenza al servizio del popolo. Abbia-

politiche proprie ribellandosi alla vecchia formula dei protettorati), ma al tempo stesso ha limitato almeno in un primo momento il margine di accumulo capitalistico. Ecco che il capitalismo si è evoluto e ha cominciato a trarre guadagni anche da altre forme di sfruttamento: ha preteso di guadagnare anche dalla gestione diretta dell’immaginario delle persone che si è trasformato lentamente in una grande e autonoma sorgente di guadagno per i grandi capitalisti. Non sto dicendo qui che hanno guadagnato i produttori di cinema o gli impresari che hanno finanziato reti televisive commerciali o quanti hanno investito in software (cosa comunque vera): mi riferisco a un più generale mercato dell’immaginario dove un modello comportamentale induce determinati consumi. Quello che sfrutta direttamente anche l’immaginario e i comportamenti non più per indurre al silenzio il proletariato ma proprio per guadagnarci in modo diretto è ciò che possiamo chiamare capitalismo evoluto e che negli anni di Ionesco (i Cinquanta e i Sessanta del secolo scorso) non si affacciava nemmeno negli studi degli economisti politici più lungimiranti. È qualcosa, semplicemente, che forse poteva essere anteveduto in certi eccessi di comportamento ma che di sicuro non era all’ordine del giorno degli individui, neanche sotto la voce all’epoca un po’ generica e onnicomprensiva di «consumismo» (il consumismo veniva denunciato soprattutto come strumento che portava a una radicale perdita dei valori di provenienza).

Ebbene, Ionesco ha combattuto espressamente contro il capitalismo evoluto, contro coloro che pensavano e pensano di poter trasformare in capitale da accumulare le coscienze, i comportamenti e l’immaginario delle persone. Lo abbiamo visto molto chiaramente qui nel Rinoceronte, ma ci siamo avvicinati ai contorni di questa battaglia anche nel Re muore: Ionesco mette in pratica una personalissima forma di brechtiano straniamento teatrale per combattere il capitalismo evoluto. Che i suoi comportamenti pubblici e che le sue dichiarazioni e le sue frequentazioni fossero avverse a Brecht - allora - è del tutto evidente. Ma è altrettanto chiaro a questo punto che il suo teatro ha avuto una funzione parallela a quella di Brecht: semplicemente ne ha aggiornato il paradigma politico dalla prima metà del Novecento alla seconda. Perché questo è l’unico discrimine: se Brecht è morto nel 1956 e ha scritto i suoi successi maggiori intorno alla seconda guerra mondiale, Ionesco s’è affacciato al teatro, come abbiamo visto, con più compiutezza nella seconda metà degli anni Cinquanta, di fatto raccogliendo il testimone politico che l’altro aveva lasciato libero.

Come Brecht, il commediografo franco-rumeno ha cercato di rompere l’assedio e di testimoniare la verità. Lo ha fatto denunciando quel capitalismo evoluto, manipolatore di coscienze, intento a convertire in mercato l’immaginario

***

Questo è il teatro: la capacità di descrivere una situazione tipica in grado contenere la contemporaneità di varie epoche. Ma Il rinoceronte ci dice qualcosa di nuovo a proposito di Ionesco. Forse qualcosa che egli stesso non avrebbe mai immaginato. E per capire di che si tratta, bisogna tornare a Brecht, l’autore contro il quale spesso e volentieri Ionesco ha lanciato i suoi strali. Parte della critica internazionale ha usato Ionesco come arma contundente contro Brecht: il commediografo franco-rumeno ha finito per adattarsi a questo ruolo. Brecht nei suoi testi, dai migliori ai meno riusciti ai più didascalici, comunque denunciava il capitalismo classico. Ne denunciava le ingiustizie e sottolineava gli squilibri che da quel sistema sociale derivavano. Il capitalismo classico, nella visione ottocentesca di Marx e in quella protonovecentesca di Brecht sfruttava gli individui in quanto produttori di energia a basso costo che si erano sostituiti ad altre fonti di energia prive di costo (gli animali e gli schiavi tradizionali). Ossia: sfruttava il lavoro degli altri per accumulare capitale, appunto. Oggetto dell’ingiustizia sociale era il lavoro e, per continuare a trarre profitto dal lavoro altrui, il capitalismo doveva occuparsi di non far percepire agli sfruttati la loro reale condizione: doveva tenerli all’oscuro, mantenerli ignoranti e felici ma sempre e solo per la ragione che in caso contrario essi avrebbe percepito la propria

mo avuto tanti altri copioni mirabili, mirabilmente chiari in questo contesto. Perché l’obiettivo di Brecht era proprio quello di intervenire direttamente nello spazio vuoto attraverso il quale il capitale intendeva mantenere il proletariato nell’inconsapevolezza del proprio stato di classe sfruttata. Brecht ha cercato di rompere questo assedio e di dare consapevolezza (e intelligenza) tramite emozioni. Anzi tramite quelle lezioni emotive che chiamava teatro epico. Se sia riuscito nel suo intento non è facile dirlo oggi, quando abbiamo la sensazione sempre meno chiara di una storica sconfitta del comunismo a opera del capitalismo: ma certo a suo tempo e nei suoi luoghi, il teatro di Brecht ha contribuito a rendere la società migliore e più consapevole di sé. Questo, del resto, era il solo obiettivo del drammaturgo.

Oggi però il capitalismo è cambiato: chiamiamolo capitalismo evoluto. Non si limita a sfruttare il lavoro degli altri o, per meglio dire, la loro forza energetica, anche perché altre fonti di energia si sono sostitute agli operai e ai contadini e hanno imposto vincoli di mercato e ruoli di potere del tutto differenti rispetto a quelli del capitalismo classico. L’irruzione delle fonti energetiche fossili ha di fatto trasformato il capitalismo: intanto lo ha costretto a una dimensione globale (i maggiori produttori di fonti energetiche fossili hanno elaborato

Brecht e Ionesco hanno percorso una medesima strada scenica con uno stesso obiettivo: che era quello rompere l’assedio, di porsi come delatori (testimoni della verità) in una società chiusa, menzognera e solida al suo interno. Il primo ha propugnato gli ideali del collettivismo, della presa di coscienza comune per combattere l’ignoranza e lo sfruttamento ricercati dal capitalismo classico. Il secondo ha difeso (fino alla discussa conversione religiosa in punto di morte) le ragioni dell’identità individuale come uno strumento di lotta contro l’annullamento delle identità funzionale solo alla trasformazione delle coscienze (e dell’immaginario e dei comportamenti) in mercato, patrocinata dal capitalismo evoluto. Tutti e due, Brecht e Ionesco, sono stati sconfitti. Non dalla caduta del Muro del 1989 né dalla rivoluzione che l’Occidente ha subito in quell’occasione, ma da un reality show; da una campagna politica in cui i leader contano più delle ragioni pratiche e degli ideali; da una cultura in decadenza assoluta (quella dell’inizio del Terzo millennio) che pur di sopravvivere al suo vuoto trasforma cuochi e sarti in artisti. Effettivamente, in tutto questo, il grido di dolore gemello di Brecht e di Ionesco non ha più molto senso e questo è il segno della loro sconfitta. E della nostra di ex comunità pensante con loro.


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tv

e il ministro dell’Istruzione prendesse in considerazione l’ipotesi di far circolare nelle scuole il programma ideato e condotto da Valerio Massimo Manfredi (Impero, La 7) la Storia, per gli allievi, diventerebbe appassionante come un romanzo. Lo scrittore e studioso emiliano è esatto e brillante nella ricostruzione delle grandi vicende che hanno portato l’umanità a una svolta. La più recente puntata l’ha dedicata alla «rivoluzione tradita», ossia alla rivoluzione bolscevica in Russia. Manfredi inizia il suo cammino davanti e dentro il magnifico Palazzo d’inverno di San Pietroburgo, voluto da Pietro il grande e soprattutto da sua figlia Elisabetta (l’architetto è l’italiano Bartolomeo Rastelli). È una scelta «occidentale» in contrapposizione con l’«asiatica» Mosca. Sopra le cancellate dell’ingresso ci sono le aquile bicipiti romane: lo zar Ivan IV detto «il terribile» si vantava di discendere da Augusto, e considerava Mosca «la terza Roma». Oltre la vastissima piazza c’era però un popolo sempre più sofferente. Pietro detto «piccolo padre» (stesso nomignolo attribuito poi a Stalin), perde gradualmente, e in maniera ottusa, il sostegno della popolazione. Il 9 gennaio del 1905 l’equilibrio si spezza, dopo il licenziamento di due operai nell’industria siderurgica più grande del mondo. Duecentomila operai sfilano chiedendo riforme. È una domenica mattina. Nessun astio palese contro lo zar, solo richieste di riforme. Che vengono negate. Lo zar non è in città, ma impartisce l’ordine alle guardie imperiali di assalire i manifestanti, con le sciabole sguainate. È «la domenica di sangue»: dopo quel giorno nulla sarà più come prima. Anche lo zar Nicola II, che sarà l’ultimo della famiglia Romanov, non si concede all’abbraccio con la gente, preferisce l’isolamento. La situa-

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Impero La storia raccontata come in un romanzo

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zione sociale precipita, lo zar istituisce la Duma, il parlamento. Ma l’abolisce l’anno dopo restaurando l’autocrazia imperiale. Segue una terribile ondata repressiva. Intanto Lenin torna dall’esilio, mentre il capo di tutte le Russie organizza celebrazioni militari e feste. La prima guerra mondiale, come disse Lenin, porta la Russia sul baratro. Quindici milioni di soldati vanno in guerra, in modo disciplinato, e pure i bolscevichi appoggiano il conflitto contro i tedeschi. Pietroburgo cambia nome: diventa Pietrograd, preferendo la matrice slava e cancellando quel burg germanico. L’internazionale socialista è a fianco dei militari, ma l’intellettualità insorge e segue il pensiero di Lenin. Lo zar parte per il fronte lasciando il controllo del paese nelle mani della zarina Alexandra, tedesca di nascita quindi vista con diffidenza. La donna sul trono minimizza nei suoi rapporti al marito la portata delle proteste. Parla di «monelli per strada». Il paese è in ginocchio, il costo della vita è aumentato del 300 per cento. Mancano pane e carbone. 23 febbraio 1917: le cinque giornate di Pietrograd. E la caduta dello zarismo. La folla parla con i soldati e questi daranno poi ai manifestanti migliaia di fucili. Nasce il primo Soviet operaio. Il governo è ora dei menscevichi, liberal-demoratici. Il leader Kerensky compie un errore madornale: chiede l’appoggio dei rossi che non perdono tempo e occupano i punti nevralgici della città. E poi l’assalto al Palazzo d’inverno, con l’arresto di tutti i ministri. Nel 1918 Mosca sostituisce Pietrograd come capitale. I soviet comandano all’interno del Cremlino. 17 luglio 1918: i Romanov sono fucilati nella loro residenza di campagna. La guerra civile tra bianchi e rossi dura trenta mesi. La miseria attraversa la Russia. Il socialismo non piace ai contadini, che vorrebbero ricavare profitto dal loro lavoro. Lenin vara la Nuova Politica Economica(Nep), e concede una certa libertà di commercio. Il padre della Rivoluzione è favorevole a un passaggio graduale verso il socialismo, tanto è vero che ferma le nazionalizzazioni e chiede l’appoggio ai «tecnici borghesi». Ma quattro ictus allontanano Lenin dal potere reale. C’è l’ascesa di Stalin. Il nuovo «piccolo padre» elimina gli avversari, sia fisicamente sia nelle foto, dove rimane solo lui, accanto a un Lenin artificiosamente rimpicciolito. Propaganda e terrore. È il tradimento di una rivoluzione che aveva scopi umanitari. (p.m.f.)

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MOUSE A STILE LIBERO

PICCOLI STATISTI CRESCONO

AVVENTURA NEL GRANDE NORD

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ar vita a sofisticati disegni senza stringere in pugno una matita che corre su un foglio, è impresa davvero disperata per chi tenta di adeguare i suoi talenti alla rotellina del mouse. Gli artisti più esigenti possono disporre però di un ottimo software gratuito, LiveBrush. Basata sulla tecnologia di Adobe Air, l’applicazione consente di adeguare i movimenti del palmo e i clic del-

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imentarsi con i delicati equilibri della democrazia conciliando la gestione della res publica con la realpolitik senza fare troppi danni. Il sogno di ogni governante può essere oggi condiviso dai comuni cittadini grazie a Democracy, intelligente game che mette alla prova le nostre qualità di statista. L’accesso alle massime cariche dello Stato è quanto mai semplice: basta

a notte polare e le tormente, tutto si trasforma in un problema tecnico: nessuna cinepresa era pronta a sopportare tali condizioni di lavoro… sono stati necessari molti mesi di preparazione per mettere a punto il materiale. Ogni elemento è stato riconsiderato: le ottiche, le macchine da presa, le pellicole». Artista innamorato della natura, che si è avventurato in proi-

“LiveBrush” è un software che permette di realizzare disegni con grande precisione

“Democracy” proietta il giocatore nella difficile gestione di potere e compromessi

Nella splendida cornice dello Yukon Nicolas Vanier filma le imprese di un cacciatore

le dita alle movenze di un pennello. Molto calibrato, il programma di disegno si rivela molto efficace nella creazione di loghi, sfondi o minuziose costruzioni grafiche che ambiscono ad avere dignità artistica. Ricco inoltre di una vasta gamma di stili predefiniti, e di effetti applicabili ai vivi tratti impressi dall’utente, LiveBrush è di facile utilizzo e naturalmente permette la stampa dei propri lavori come il loro salvataggio in formato Png. Disponibile per il download sotto l’indirizzo omonimo, l’uso del programma prevede una semplice registrazione. Per gli incontentabili, è presente anche una versione professional, che incrementa le meraviglie del programma.

scegliere tra dodici nazioni, dagli Stati Uniti all’Australia, per ritrovarsi sbalzati sulla poltrona presidenziale. Ma i privilegi si fermano qui, perché trama e meccanismi del gioco fanno stridere di continuo i principi del buongoverno con piccoli e grandi concessioni al senso pratico. C’è da appianare le divergenze interne, mediare politiche eque tra le parti sociali, consolidare il consenso e rischiare la faccia sulle misure più impopolari. L’obiettivo è conservare il potere il più a lungo possibile. Con un occhio al bilancio e uno agli oppositori che tramano nell’ombra.

bitive spedizioni in Siberia, Canada e Alaska, Nicolas Vanier commenta così le enormi difficoltà incontrate nel girare Il grande Nord. Ispirato dall’incontro con il cacciatore Norman Winther, personaggio che sembra tratto di peso da un romanzo di Jack London, il regista filma uno Yukon straordinario, fatto di spazi immensi e cime maestose. Campi totali e panoramiche, primi piani su volti ghiacciati in cui traluce il riflesso di un’umanità eroica, dettagli e silenzi: qui il cinema ritrova il suo grado zero. Nel restituire agli occhi l’invivibile e lo straordinario, l’aurora boreale concilia lo spettatore ai suoi genomi primordiali, in uno spettacolo di magnifica potenza.

a cura di Francesco Lo Dico

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cinema di Anselma Dell’Olio enelope Cruz, dopo il meritatissimo Oscar per Vicky Cristina Barcelona di Woody Allen, torna a lavorare con il regista che l’ha lanciata sulla scena internazionale, Pedro Almodòvar. Il personaggio di Magdalena in Gli abbracci spezzati, è uno di quei ruoli che gli attori sognano ma Lena (Cruz) è assente dalla prima parte del film, e ci torneremo. Esplode in un flashback, marchio di fabbrica che spesso connota trame e metatrame del regista della Mancia. All’inizio presenta lo sceneggiatore Harry Caine, nome d’arte di Mateo Blanco (Lluis Homar) che era un regista prima di perdere la vista quattordici anni prima. Diventato cieco - dobbiamo aspettare il flashback per sapere com’è successo - l’ex regista considera morta la sua identità anagrafica e assume l’alias a pieno tempo. I mestieri dei protagonisti sono la prima spia che siamo in un metafilm; se normalmente si evita di «spiegare» troppo per non guastare il piacere di scoperta dello spettatore, sapere qualcosa in più sulle intenzioni del regista (che non le ha nascoste) in questo caso può aumentare il godimento, anziché diminuirlo.

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Gli abbracci spezzati contiene i migliori trucchi, marchi, vezzi e malizie che contrassegnano le opere di Almodòvar: una gamma cromatica di colori primari saturi pop, da lecca lecca, repentini cambiamenti spazio-temporali, linee narrative che appaiono diversissime, partono da lontano e poi s’intrecciano, un forte penchant per colpi di scena melodrammatici (s’ispira a Douglas Sirk, re del genere negli anni Cinquanta a Hollywood con Magnifica ossessione, Lo specchio della vita, Come le foglie al vento) corretti con toni comici o innesti di commedia che possono prendere il sopravvento, come in Donne sull’orlo di una crisi di nervi (tra l’altro omaggiato con Ragazze e valigie, il film che Lena gira nel suo debutto da attrice, solo uno degli esempi di «cinema nel cinema» di cui la storia pullula). Ma in Gli abbracci spezzati c’è un terzo genere - il noir - innestato nel melodramma, con pedinamenti, spiate furtive, presagi torvi, tentato omicidio: i diversi toni si omologano. Ebbene sì: questo è un film che parla dell’amore per il cinema, e che si prende gioco di noi con la sopraffina abilità di un artista acclamato. Ci sono inquadrature dentro inquadrature: attori incorniciati da porte e specchi, una videocamera che inquadra la scena che si svolge su un set allestito davanti a una macchina da presa; il tutto contenuto nel rettangolo dello schermo per noi spettatori, destinatari ultimi di tanta grazia doppia e tripla. Saperlo da subito dovrebbe rendere gustoso il divertimento. Si ha il vantaggio di cogliere e identificare la manolesta dell’autore burlone in azione, di partecipare al gioco invece di subirlo, e soprattutto si evita la delusione finale e il senso che il regista ha menato il can per l’aia per due ore.Viene il dubbio che il finale «forza cinema» sia dovuto alla mancanza di un’idea migliore. Ora il ruolo della Cruz: Lena ha tre, anzi quattro personalità su cui l’attrice ha modo di arrotare i denti artistici. Inizia come l’elegante, splendida, professionale e affranta segretaria di un potente uomo d’affari, Ernesto Martel (José Luis Gomez, untuoso e repellente a dovere). Poi è la figlia amorevole di una madre disperata e di un padre con un cancro terminale

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Penelope formato

Almodòvar

Quattro personaggi per l’attrice spagnola in “Gli abbracci spezzati”, metafilm-divertissement tra commedia e noir del regista che l’ha lanciata. Mentre in “Good Morning Aman” spicca l’interpretazione di Anita Caprioli. Buono anche “Un alibi perfetto” che non può pagarsi le cure necessarie, e all’occorrenza una bella di notte molto richiesta e d’alto bordo. La quarta è la femme fatale, con la escort trasformata in mantenuta dell’ex datore di lavoro/cliente, coperta di gioielli e abiti firmati ma insoddisfatta. Aspira a fare l’attrice come una velina qualsiasi. All’inizio si stenta a capire perché queste quattro personalità elaborate da un’artista dotata non riescano a fondersi in un unico personaggio memorabile, se non indelebile. PenelopeMagadalena, invece, è evanescente. Non resta impressa come la sua Maria Elena nel film di Allen, ritratto d’artista vulcanica, incontrollabile, riconoscibile; e forse è

proprio questo il punto. È concepita per essere finta, l’incarnazione a turno di Audrey Hepburn, Gloria Grahame, Barbara Stanwyck e altre star amate da Pedrito, in un tourbillon di parrucche e travestimenti senza un vero centro emotivo. È come se l’autore si divertisse a farsi beffa di noi per esserci quasi cascati. Almodòvar è talmente padrone nello sceneggiare e dirigere scene drammatiche, melodrammatiche e comiche (un po’meno nel noir) che ci coinvolgono e ci avvinghiano al racconto, che scoprirci vittime di una burla nel finale ex abrupto è una delusione. Si può desiderare di sapere come fa il mago a tirare fuori il coniglio

dal cilindro, ma se ci accontenta, il trucco è guastato per sempre. Se la prima parte sembra la trama di una scanzonata, spregiudicata commedia di costume, con uno scrittore cieco che si fa aiutare dalle belle donne ad attraversare la strada, e poi con la scusa che ha bisogno di una lettrice le invita a casa e le seduce sul divano, la seconda è un melodramma-noir da fotoromanzo di lusso, zeppo di citazioni colte: Henry Hathaway,Vincente Minnelli, Nicholas Ray (e molte altre) ma esplicitamente con spezzoni veri (un altro «film nel film») solo il Roberto Rossellini di Viaggio in Italia, che serve a spiegare il titolo. N.B. Ascoltare il lezioso birignao della celebre doppiatrice Lydia Simoneschi in bocca a Ingrid Bergman, fa fare salti sulla sedia. È vero che era la voce di tutte le grandi dive (non solo straniere) della sua epoca, ma colpisce che un innovatore come il neo-realista di Roma città aperta e Paisà non abbia insistito per una dizione meno artefatta.

Good Morning Aman è una sorta di buddy movie all’italiana, la storia di un’anomala amicizia virile tra Aman, un ventenne somalo cresciuto a Roma sin dall’infanzia (Said Sabrie) e Teodoro, un ex pugile quarantenne (Valerio Mastrandrea) depresso, smarrito e solitario. Il primo lungometraggio di Claudio Noce, che ha partecipato alla sceneggiatura, era nella selezione ufficiale della Settimana della critica all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Il film parla anche dell’amicizia tra Aman e il su miglior amico Said (Amin Nour) che poco dopo l’inizio parte per lavorare in un ristorante a Londra, stanco di lavoretti senza futuro a Roma. Aman è deluso dalla partenza dell’amico, al quale racconta frottole sulla sua «carriera», nascondendo la sua reale condizione di neodisoccupato quando si parlano al telefono. Aman dorme poco, e durante una notte insonne incontra sul tetto della casa che dà sull’Esquilino Teodoro. Il boxeur che fu prende farmaci, passa la giornata semi-catatonico nella sua casa borghese, va a trovare i vecchi colleghi in palestra, e prende a benvolere Aman. Si mantiene con l’affitto dei locali di un ristorante cinese. Prima di nascosto, e poi in modo diretto, regala soldi al ragazzo. La sospetta e misteriosa generosità di Teodoro, e le criptiche telefonate tra Said e Aman, sono i due binari su cui s’appoggia la curiosità di vedere come andrà a finire il racconto. Anita Caprioli è emozionante nel ruolo di Sara, una donna fragile e ferita, legata a un reclutatore di immigrati illegali, di cui s’innamora il ragazzo somalo. Un alibi perfetto è un noir di routine del competente Peter Hyams ma con due atout che lo rendono interessante. È il remake di un film di Fritz Lang del 1956 con Dana Andrews e Joan Fontaine e vanta la brava Amber Tamblyn, che dimostra come si nobilita un ruolo banale di love interest. Jesse Metcalfe (il fusto giardiniere di Casalinghe disperate) è C.J., un giovane, premiato reporter tv che indaga su un convinto procuratore distrettuale con ambizioni politiche elevate (un cotonato Michael Douglas) che ottiene una catena ininterrotta di condanne a morte con prove false, fabbricate ad hoc. C.J. decide di incastrarlo usando i suoi stessi metodi, falsificando prove che indiziano il reporter stesso come principale accusato di un omicidio. Un altro gradito aspetto è il finale a doppio fondo, ben dissimulato fino alla fine.


poesia Le strategie di Metastasio MobyDICK

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di Filippo La Porta

oleva scrivere tragedie e partorisce commedie in forma tragica. Aspirava alla poesia e finisce in musica. Intendeva ritrarre l’eroismo ma non evita il comico-grottesco. Quanto ci somiglia Pietro Metastasio (Roma 1698-Vienna 1782), bambino-prodigio e insuperabile improvvisatore di versi, poeta popolare e specchio fedelissimo del suo pubblico, come lui incline all’elegia e facile alle lacrime! Quanto riassume, nel bene e nel male, l’essenza del carattere degli italiani! Almeno così pensavano De Sanctis e Carducci (che ne sottolinea proprio la «meridionalità»). Metastasio, oltre la estenuata artificiosità e lo spettacolo sontuoso del barocco, e anzi educato ai valori della classicità (primo fra tutti la semplicità, la medietas oraziana: tutto «esser dee semplice ed uno»!)), benché lettore attento di Tasso e Marino, esprime in totale buona fede la vita del suo tempo, vivace e convenzionale, fatta di «prosaica e volgare realtà», di piccoli intrighi, miserabili scaltrezze, amori pettegoli e bravate (come dice De Sanctis). Se il pubblico settecentesco manifesta una certa disaffezione alla parola letteraria e invece esprime una netta opzione verso le arie musicali, cantabili e memorizzabili (e infine meno impegnative), lui vi si adegua tempestivamente mostrando una straordinaria sintonia tra produttore e fruitore (ne scrisse oltre un migliaio!). Ora, bisognerebbe evitare confronti superficiali e attualizzazioni corrive ma in fondo anche oggi la letteratura sembra cedere il passo, almeno nei gusti dominanti del pubblico, ad altri linguaggi, perlopiù immediati e di intrattenimento (in particolare il video, il cinema) e così molti scrittori vi si conformano subito scrivendo romanzi-sceneggiature e racconti che assomigliano a spot pubblicitari…

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SONETTO I Sogni, e favole io fingo; e pure in carte Mentre favole, e sogni orno, e disegno, In lor, folle ch'io son, prendo tal parte, Che del mal che inventai piango, e mi sdegno. Ma forse, allor che non m'inganna l'arte, Piú saggio io sono? È l'agitato ingegno Forse allor piú tranquillo? O forse parte Da piú salda cagion l'amor, lo sdegno? Ah che non sol quelle, ch'io canto, o scrivo, Favole son; ma quanto temo, o spero, Tutto è menzogna, e delirando io vivo! Sogno della mia vita è il corso intero. Deh tu, Signor, quando a destarmi arrivo, Fa’ ch'io trovi riposo in sen del Vero.

Pietro Metastasio (da Poesie, Aragno)

Eppure Metastasio, che raggiunse il successo in tutta Europa come drammaturgo e librettista (i suoi libretti furono musicati da Vivaldi, Handel, Pergolesi, Cimarosa, Mozart, Schubert…), scrisse 62 componimenti poetici, di vario tipo (galanti e mondani, di circostanza e su commissione, di ringraziamento e lode, per matrimoni, parti, monacazioni, feste, etc.) e prevalentemente su temi arcadici e mitologici, amorosi ed elegiaci. Ne venne raccolta una silloge, limitata però sole alle opere giovanili. All’Arcadia era stato avvicinato dal Gravina che lo scoprì a Roma e gli diede fama ellenizzandone il nome, oltre a spingerlo - vanamente - verso la forma della tragedia di orientamento storico-civile. Successivamente il poeta risiedette per svariati anni a Napoli e poi si trasferì nel 1830 e fino alla morte a Vienna, dove era stato chiamato come maestro di corte. A Vienna pur sperimentando generi diversi (cantate, oratori sacri…) e impegnato a supervisionare spettacoli, restò abbastanza impermeabile a inquietudini e innovazioni del secolo dei lumi, al verso sciolto, etc., tutto schierato dalla parte del «buon giudizio», come osserva Rosa Necchi. E non a caso oppose un diniego all’invito a collaborare all’Encyclopedie.

Vissuto perlopiù tra gli agi e tra generosi sponsor, amato e riverito ovunque (anche se era comunque escluso dai salotti esclusivi dei nobili austriaci, un po’ come Barry Lindon, parvenu però tragico!), cortigiano e poeta d’occasione, uomo affascinante e di modi incantevoli, non era privo di una certa integrità: rifiutò l’incoronazione poetica in Campidoglio e poi rinunciò coerentemente a una eredità poiché aveva respinto la donna che gliela aveva lasciata, la primadonna Marianna Bulgarelli.

Nella poesia la leggerezza e cantabilità di Metastasio, la chiarezza onesta e mai programmatica raggiungono quasi a sua insaputa alcuni risultati notevoli. Non tanto le celebri canzonette, con i loro lievissimi, giocosi settenari e ottonari (L’estate, La primavera, La libertà. A Nice, e poi la ritrattazione scherzosa Palinodia. A Nice…), quanto la misura breve del sonetto. Mi limito a trascrivere l’incipit del sonetto XX In Roma per una dimostrazione anatomica: «Illustre mano a esaminare eletta/ La spoglia, onde superbo è il nostro niente». Mi è venuto in mente il celebre quadro di Rembrandt, di un secolo prima, La lezione di anatomia del dottor Tulp. Si noti che il tema centrale della morte, poi definita «squallida, e dolente» viene trattato con una sobrietà e un equilibrio sconosciuti al barocco, senza metafore e immagini preziose, e così l’ironia quasi pre-leopardiana «onde superbo è il nostro niente», anche se poi la chiusa della poesia riconferma una certa fiducia nei progressi della medicina. Ma leggiamo per intero il sonetto che ho scelto, composto a Vienna nel 1730, un microsaggio su retorica e sentimenti. Metastasio confessa di commuoversi e indignarsi ai suoi stessi versi. Cosa significa? Che siamo più sensibili alla finzione e all’artificio? Vorrei citare un episodio recente. L’altro giorno vedevo un documentario al festival del cinema asiatico sui bambini di strada indonesiani. Mi hanno ovviamente colpito le loro condizioni di vita, l’indigenza e l’orrore. Ma restavo abbastanza indifferente. Poi ho visto un film - dunque opera di invenzione con dei bambini anch’essi indonesiani però attori -, e mi sono indignato e commosso fino alle lacrime! La realtà ha dunque bisogno di una sua messinscena per rivelarsi. Altrimenti da sola non ci dice quasi nulla. La verità richiede raffinate strategie retoriche per essere snidata e per riuscire a trasmettere una emozione. Poi nello stesso sonetto Metastasio scrive che «tutto è menzogna e delirando io vivo». Il tema non era certo nuovo. Pensiamo solo a Shakespeare o a Calderon de la Barca. Non dobbiamo però pensare che il grande riformatore del teatro in musica concludesse in un appiattimento di ogni cosa sulla fiction e in una opaca indistinzione di vero e falso. C’è finzione e finzione. Quando un’opera letteraria o teatrale suscita sentimenti potenti significa che muove da «più salda cagione». Alla fine poi la «verità», in cui trovare riposo davanti alla morte, Metastasio la vuole. Alla verità, al contrario di Marino, ci crede.


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il club di calliope IL LIMITE Starsene qui, nelle stagioni che mutano, è la norma comune: il dono estremo e l’uscita. A chi varcò la soglia non è dato tornare: solo forse nel sogno dice parole slegate troppo simili a queste dei nostri percorsi. E seguitiamo assorti, a volte sorpresi, ogni attesa è un gioco, ogni dubbio l’incaglio di una deriva, e diamo numeri ai giorni, piedi alle voglie, confini al vagare - sforniti di mappe, ignari del porto.

UN POPOLO DI POETI Guardo ’ste stelle di rugiada rifletter le luci lassù come cristallini lucenti a fregiar un manto d’indaco e sta fiamma che tende alla Luna vedo bruciar gioconda invogliata da un venticello che di fiori notturni trasporta il segreto fronde coperte dal buio sento scandir ogni folata e l’anima mia cullata vegliata dalla serpe e dal gufo riposa da Rovere (Albatros-Il Filo) Romano Claudio Boccanera

Tu sei come un uccellino, che vola nel cielo azzurro e cinguetta la sua felicità e allegria. Lascia perdere la gente che non ti ammira perché le persone che non sanno vedere oltre non possono ammirare la tua bellezza. Paziente come una nuvola, che impiega ore ed ore ad attraversare quell'immenso cielo che si stende sul mare e riflette tutta la tua bellezza.

Elio Pecora

Allegria Serghei Reggiani «Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma

in libreria

La forza delle piccole cose di cui è fatta la vita di Claudio Marabini on so esattamente che cosa possa significare L’incrocio delle mediane (Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova, 84 pagine, 14,00 euro), giusto il titolo del nuovo libro di poesie di Maria Luisa Spaziani. So per certo che sino dalla prima lettura questo libretto dà l’impressione essenziale di fortissima essenzialità: e non si tratta di un vano giuoco di parole. A parte l’incrocio delle mediane, l’esile libro dà la netta impressione di una fortissima maturità e soprattutto di un’esatta cognizione del valore delle cose: le quali cose prendono spazio nel valore delle cose essenziali della vita, mediane a parte, e prendono fortemente a nutrirsi del valore delle nostre giornate e di quelle cose che vanno direttamente, e subito, a certi valori nel vivere. Da qui il senso del vivere, il valore di certe cose, e queste cose viste e vissute dentro il cammino del nostro vivere, giorno per giorno. Non si tratta, pagina dopo pagina, di titoli di grande importanza come Cieli o Affetti o anche Arie cristiane, oppure Il tempo… Si tratta fondamentalmente di vita viva,

N

e vita anche piccolissima, ma in quella dimensione che prende la nostra quotidianità: il piccolo che si fa basilare, e diviene fondamentale e unico per noi e per il nostro destino. L’incrocio delle mediane lascia ogni geometria e diviene vita, e nella piccola vita quotidiana scopre il cammino delle sue piccole cose, su cui si fa nostra anche la minima vita insieme alle più piccole cose. La qualità più ammirabile della Spaziani potrebbe consistere nel vivere delle cose maggiori e uniche della vita, di farne oggetto di «grandezza», e nello stesso tempo di trasformarle in piccola quotidiana esistenza. Basterebbero i titoli, i quali vanno dalla Processione delle Palme a Vorrei essere in alto la Cometa, o Raccogli i tralci morti…, e Comprare a marzo un tailleur di Chanel. Forse l’incrocio «delle mediane» non è cosa agevole da controllare, o da collocare in qualche parte del nostro mondo quotidiano, pure con la collaborazione dell’intelligenza e dell’equilibrio di Stefano Vardino, che detta la prefazione. Fatto sta che nel cammino del pur breve libro, la parola si fa sempre più densa, più colma di significato e di inviti a condividere il

cammino, la riflessione e la visione di quanto ci offre il mondo. Che è poi il mondo della nostra scrittrice: le immagini del suo vero vivere, la sua vita intima, il frutto della continua scoperta di una realtà che via via si trasforma in vita segreta: vita segreta che si fa vita palese, oggetti e scorci d’immaginazione accesa o profondamente meditata e vissuta. «Su scalini e cristalli sale il chiaro di luna - Magia pura, il saliscendi è sogno - I deserti fioriscono, si è vivi - e morti insieme nel mistero…». Oppure, venendo alla più diretta e trasparente ricognizione di sé e della propria esistenza: «Il mio compleanno è solitario. - Nessuno se ne è accorto. È capitato - avvicinando al volto la gardenia, - il fiore che da anni offriva a me…». E coi ricordi tornano le immagini, gli oggetti e il colore di una vita che è perennemente viva. «Fu a Piazza Scala, accanto al giornalaio…». Seguono, una meglio e più viva dell’altra, le Poesie per Stelvio: «Se tu non fossi nato, Stelvio…». E più oltre: «Ma tu, Stelvio, - non sei mio figlio ma il sognato amante, - tre volte figlio…». «Insisto per salire sulla pira - del rogo…». E poco oltre: «Quel regalo reci-

proco si chiamava innocenza, - l’inconsapevolezza ci offriva il suo latte… - Massimo sogno è vivere come un frutto o un fiore - e fare della morte una cellula di vita…». E c’è una forte parte dell’agilissimo libretto che sosta su temi religiosi o fortemente attaccati alla nostra tradizione cristiana, dove la tradizione popolare fa viva breccia. Tenendo presente che il «lo» è fortemente in maiuscola, seguiamo le seguenti parole: «Di tutti i personaggi che Lo seguono - m’incanta, oggi, il Cireneo, un simbolo. Trovare all’ora giusta chi ci aiuti - a portare la Croce». E c’è anche qualche chiara parola sul valore del «tempo». «Ogni giorno si perde una foglia. - Lo scheletro, il nudo tronco, si profila. - Qualcuno, una spugna in mano, cancella dalla lavagna il mio viso. - Si concentravano nelle rughe - tutti i versi che ho scritto». E forse l’ultima sul dittatore e il Tempo: «Urlarono di gioia per l’avvento - del Dittatore. Incisero il suo nome - sopra lastre di marmo. - Non era marmo, era solo ghiaccio - e lo esposero al sole». E in questa icastica semplicità s’avvicina alla chiusura la grande forza di questa poesia.


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mostre

Tromp l’oeil

inevitabile che chi entri nella suggestiva e labirintica mostra dedicata al Trompe l’oeil, curata da Anna Maria Giusti, che non per caso ha diretto per anni l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, empireo degli inganni istoriati ed esempio massimo di come con la pietra «morta» si può simulare l’anguillesco fluire della vita e della ramificante natura, è inevitabile che sia subito intrappolato in un vero e proprio inganno «ad arte». Infattti, mentre l’occhio ti corre inevitabilmente incontro a quello «scugnizzo» spagnolo, che cerca di districarsi dall’invischiante gabbia-pellicola della pittura, visto che altro non è che impolverata pittura, e tenta e simula pittoricamente di fuggire dalla cornice del quadro (quasi fosse vivo, rabbiosamente in fuga dalle stoltizie decotte delle parole banali che ascolta, da una vita, su di sé) ebbene la stessa coda del tuo occhio non può non notare distrattamente quell’incauta signora, un po’ ciabattona, che spinge troppo la carrozzina con la sua bambina soavemente addormentata, per legere meglio la didascalia del quadro. E ti verrebbe istintivo avvertirla che è entrata nella zona-tabù dell’allarme: ma allo stesso tempo ti domandi, con un po’ di stizza e invidia, ma come mai, con lei, l’allarme non scatta? Ovvio: è uno dei sapienti effetti di illusionismo, che mette in gioco questa mostra così ben concertata e quasi fin troppo capillare (ma evviva, vista l’intelligenza che trapela dalle brevi esplicazioni e alla qualità altissima di opere: ci sono persino Mantegna, e che Mantegna, un insolito manipolato Velazquez, Veronese e il franco-belga Philippe de Champagne, con gli occhi di Gesù che paiono inseguirci pietosi, forando come una luminaria lo straccio santificato della Veronica). Effetti-trappola: anche per chi conosce bene l’opera illusiva e ingannevole dell’iperealista americano Duane Hanson, che ci ha abituato a sorprenderci, in musei e giardini, con sculture di resina così simiglianti alla persone vive, che davvero è difficile credere non siano veri. Eppure, immesso nel flusso cangiante della vita, finisce inevitabilmente vittima dell’effetto ingannevole: cade nella trappola. C’è di più: persino gli esperti curatori della mostra, che sono abituati da sempre a muoversi tra grappoli d’uva, che sono così succosi che ti vien istintivo sporgere la mano e rubare un acino, oppure fogli d’epoca

È

arti

falso più vero del vero, e c’è anche il piacere sottile di farsi ingannare. Come aveva intuito Bernini: «L’arte sta in fare che il tutto sia finto, e paia vero». Ma quasi tutte le frasi ben scelte, a corredo della mostra, da Boccaccio a Cartesio, da Plinio a Baudelaire, evocano questo tema classsico del rapporto tra vero/falso, imitazione/simulazione. È l’antichissimo desiderio dell’uomo di andare a vedere che cosa c’è dietro la porta di Barbablù, l’istinto assassino e mortifero di sapere qualcosa dell’al di là, cioè del retro del quadro. Qui c’è una magnifica opera inquietante che simula lo schiudersi dell’anta di una delle tante «scarabattole» d’epoca, armadi per contenere le meraviglie. Ma «l’asse» che trattiene tra i vetri impiombati una carta da musica, una piuma rubata all’aia, un’incisione millimetricamente simulata dal pennello, è una vera anta. Se tu ti prendi la briga di andare a vedere che cosa c’è dietro, scopri che il pittore ha meticolamente dipinto il retro di tutte quelle cose. Chissà che cosa si sarà domandato il pubblico aristocratico, di fronte a quel magnifico ritratto dell’Arcivesco Archinto del magnetico Tiziano? Perché la metà del suo corpo è velato in modo da confondere la fisionomia, dietro il cangiantismo nebbioso della mussolina? Che sia un’immagine di morte, di vanitas, di memento mori? Che sia il «ritratto» psciologico della sua parte intima, interiorizzata della pennellata (che dipinge il corpo ma insieme anche la deformazione dell’effetto velo, in un prodigioso virtuosismo)? Che sia il racconto visivo del riserbo di questo personaggio così segreto? Forse è solo un gioco culturale che evoca l’aneddoto di come Parrasio superò la capacità illusiva di Zeusi, dipingendo un velo così ingannevole che persino Zeusi cadde in errore, volendolo scostare. Si guardi il magnifico triplo dipinto di Wuempp, che si autoritrae. Sul cavalletto dipinto cè il ritratto (dipinto) di Wuempp, che ci si restituisce anche riflesso nello specchio. Ma il vero Wuempp (anche lui ovviamente dipinto) che si sta ritraendo, si è rappresentato di schiena, mentre aziona il pennello. Ci volta le spalle: non sapremo mai se il suo vero volto sia quello che ci è nascosto o quello rivelato dalla specchio e dalla pittura.

quando il finto si fa vero di Marco Vallora così ben arricciati che paiono crollare dalla parete dipinta, che vorresti stirarli per bene e rimetterli a posto, quando hanno estratto da una cassa - momento fatale uno di questi artefattissimi inganni, hanno provato un momento di rapida delusione e stizza, perché il preziosissimo trompe l’oeil rivelava una vistosa crepa nel vetro antico. Per accorgersi subito che anche questo era un ulteriore inganno, inganno nell’inganno. Incanto del

Inganni ad arte, Firenze, Palazzo Strozzi, fino al 27 gennaio

autostorie

Ferrari Bugatti e Rolls, vetture d’epoca con delitto di Paolo Malagodi a copertina è di quelle che non lasciano dubbi, con una maestosa decappottabile degli anni Trenta che ostenta la potenza del motore nel lungo cofano, mentre lo sfavillante radiatore trova degno complemento nel tappo di chiusura, sormontato dalla scultura di un uccello stilizzato. Uno dei tanti fregi che, come quello della Rolls Royce, hanno marcato produzioni di élite, destinate a essere negli anni oggetto di appassionato collezionismo. Genere che costituisce, a tutto tondo, il filo conduttore di una complessa trama che si snoda nelle pagine di un libro (Il contabile, Minerva Soluzioni Editoriali, 288 pagine, 17,00 euro) che Giuliano Musi, giornalista sportivo e autore di gialli, ambienta nel mondo delle vetture d’epo-

L

ca, affollato di personaggi non di rado disposti a tutto pur di arrivare all’oggetto dei sogni. «Un mondo a sé, perché la follia del collezionista non contagia solo chi ha i miliardi, ma anche la gente comune e sono proprio i piccoli quelli più determinati, quelli disposti a rischiare. I miliardari si consolano perché hanno in garage decine di Ferrari, non le muovono quasi mai, se le coccolano da soli, basta schierarle davanti alla villa durante le feste». Tuttavia, accanto alle vetture che alle aste di Christie’s passano di mano dopo offerte da capogiro e per pezzi unici conservati al top della condizione, non mancano i falsi. Abilmente realizzati sulla scorta dei disegni originali e con la punzonatura di numeri di telai ritenuti scomparsi, presentati dai malfattori come fortunati ritrovamenti in fienili o cascine e con una richiesta ri-

volta a chi dovrà certificare l’autenticità o meno del veicolo. Con in gioco colossali interessi, dipendenti dal giudizio di persone coinvolte anche nelle varie manifestazioni del settore e come accade, in occasione di un evento fieristico bolognese, al presidente dell’ente nazionale che sovrintende alla certificazione e registrazione dei veicoli d’epoca. Incaricato di «aprire l’esibizione dei dragster storici, mezzi dai colori sgargianti e capaci di accelerate da brivido, schierati in attesa del via ufficiale che doveva essere dato proprio dal presidente. Questi prese la bandiera a scacchi e l’abbassò con decisione: si udì un rombo insopportabile e il primo mostro partì a razzo, lasciando dietro di sé un’acre nuvola azzurra, un mix di benzina, olio e gomme bruciati». Corsa tragicamente conclusa dal bolide che travolge lo stesso

presidente, proteso con la bandiera a segnalare il fine gara. In un’apparente sbandata che nasconde, invece, il freddo agire di un inafferrabile personaggio che frequenta il mondo del collezionismo automobilistico di alto livello. Mettendo a segno, dopo il primo, una serie di altri delitti eccellenti, compiuti da un assassino così freddo e calcolatore da meritare un particolare soprannome: il contabile. Al centro di una complessa trama che approderà al sorprendente finale, in un romanzo giallo che da ampio spazio a pagine non solo su rare Ferrari, Bugatti o Rolls Royce, ma anche su altre delle marche che hanno fatto la storia del motorismo. Come nel caso di «un’Osca finita in Giappone per oltre quattrocentomila euro. L’acquirente era disposto a qualsiasi cifra: nella sua collezione mancava proprio quel pezzo».


MobyDICK

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architettura

C’è una luce che brilla nel quartiere delle Arti di Marzia Marandola partire dalla Koenigsplatz, la piazza neogreca disegnata agli inizi dell’Ottocento dall’architetto bavarese Leo von Klenze, con la classica Glyptoteca dove sono raccolti alcuni capolavori della statuaria greca e romana, si dispiega il quartiere dei musei di Monaco di Baviera. Esso aggrega numerosi edifici: alle spalle della Glyptoteca, distante poche centinaia di metri, sorge l’Alte Pinakothek, un lungo padiglione neo cinquecentesco che, costruito dallo stesso von Klenze, custodisce, tra gli altri, magnifici dipinti

A

di Albrecht Dürer, di Tiziano e di Rubens. L’arte del XIX e XX secolo trova spazio alla Neue Pinakothek, edificata negli anni Settanta da Alexander von Branca, mentre nella Pinakothek der Moderne, inaugurata nel 2002 su progetto di Stephan Braunfels, sono esposti i prodotti del design industriale, la grafica e l’architettura contemporanea. Le più recenti e innovative tendenza dell’arte trovano spazio nel recentissimo Museum Brandhorst, che espone l’omonima collezione, una delle più importanti

archeologia

Il Museum Brandhorst di Matthias Sauerbruch e Louisa Hutton a Monaco di Baviera

raccolte private di arte contemporanea e del XX secolo. Il progetto del museo è firmato dagli architetti Matthias Sauerbruch e Louisa Hutton, una coppia di progettisti che si sono formati a Londra alla fine degli anni Ottanta e che dal 1993 hanno aperto il proprio studio a Berlino come Sauerbruch Hutton Architekten, oggi uno tra gli studi più affermati della Germania, soprattutto nella

progettazione di architetture sostenibili. Il museo Brandhorst, edificato tra il 2005 e il 2008, è costituito da un semplice blocco rettangolare con un avancorpo trapezoidale, che ospita il foyer d’ingresso con bookshop, biglietteria e caffetteria a vista sul parco e sulla strada. Lo spazio espositivo è illuminato da un

sistema misto di luce naturale e artificiale, appositamente predisposto dallo studio londinese Arup Lightning, in modo da variare in rapporto alle dimensioni degli ambienti e da valorizzare al massimo il rapporto simbiotico tra architettura e opera d’arte. Proprio la perfetta sintonia tra le opere della collezione e l’edificio che la ospita suggerisce la sorprendente soluzione che caratterizza l’esterno mutevole e colorato. Le lunghe facciate regolari sono rivestite da un doppio rivestimento giocato su un caleidoscopio di sei colori declinati con diversa intensità. Una griglia esterna, formata da fitte sequenze sovrapposte di bacchette di ceramica lucida dai colori brillanti, è sovrapposta a un rivestimento composto da bande metalliche che hanno colori alternati e sono disposte secondo piani leggermente obliqui. Colpita dalla luce con qualsiasi intensità e inclinazione, la superficie architettonica si anima di vibrazioni geometriche sottili e mutevoli, sulle quali sfumano rapidi e scintillanti i colori iridati delle bacchette di ceramica. È un effetto optical che si coglie da lontano e che ha trasformato il nuovissimo museo nel segnale urbano più forte e attraente del quartiere delle Arti della capitale bavarese.

Alla scoperta di Ubar, l’Atlantide del deserto arabico di Rossella Fabiani bar, altrimenti detta da Lawrence d’Arabia «l’Atlantide del deserto», fu la più favolosa tra le città dell’Arabia antica, ricordata con il nome di Iram dal Corano per la grandiosità e la superbia dei suoi abitanti. Per questo le toccò la stessa fine di Sodoma e Gomorra: fu distrutta da Dio e venne sepolta dalle sabbie, che ne cancellarono le tracce, così che divenne l’Atlantide del deserto. Ubar secondo le leggende era stata distrutta o da un terremoto o da un’ uragano o da Dio; ma a parte le differenze sulla fine della città, in tutte le leggende si trova il profeta Hud che accusa i suoi concittadini di non avere fede in Dio per questo prova a convertirli al monoteismo perché se avessero continuato nella loro vita, Dio li avrebbe distrutti. E così avvenne. Visto che Hud predicava il monoteismo in una città dell’Arabia preislamica, alcuni scrittori ipotizzano che Hud fosse un ebreo. In realtà, l’importanza di quest’uomo è ancora così viva tra la gente dello Yemen che una volta all’ anno, ancora oggi, si riuniscono presso la sua presunta tomba. Esiste anche una cronaca dettagliata del pellegrinaggio alla tomba di Hud, scritta alla fine degli anni Quaranta dall’antropologo-arabista Robert Serjeant. Nel corso dei secoli molti tentarono di riportare alla luce la città di Ubar, fino a quando un documentarista molto, molto tenace, l’americano Nicholas Clapp, in una serie di manoscritti, scoprì che dal 1460 tutti i suoi predecessori erano stati

U

messi fuori strada da un errore compiuto da un amanuense che, nel copiare la mappa arabica di Claudio Tolomeo, aveva confuso l’87° di latitudine con il 78°. Molti, infatti avevano cercato l’Omanum Emporium in un punto dove non c’era altro che deserto. Si aprì così una nuova ricerca che, con l’aiuto della tecnologia moderna, portò una squadra di archeologi, geologi e scienziati della Nasa alla scoperta, dopo una lunga serie di vicissitudini, di una straordinaria città fortificata in cui furono rinvenuti manufatti risalenti a 4 mila anni fa. Gli scavi e le immagini satellitari riprese dalla navicella spaziale Challenger permisero

di individuare il sito. Gli studi mostrarono che Ubar era il più grande centro per la raccolta e lo smistamento dell’olibano nell’Oman meridionale. E proprio grazie all’olibano si spiegava la ricchezza degli abitanti di Ubar. Questo tipo di incenso, infatti, era molto ricercato sia in Grecia che a Roma per usi celebrativi e funerari e veniva considerato e pagato come fosse oro prezioso. L’olibano cresceva sui vicini monti del Dhofar al confine del Rub’ al-Khali, il deserto dell’Arabia. Ma come poteva una città sopravvivere in uno dei deserti più estesi del mondo? La risposta stava nel fatto che Ubar sorgeva nel luogo in cui oggi sorge Shisur; infatti Clapp e la sua squadra si accorsero che le torri dell’odierna città di Shisur erano costruite sopra delle strutture più antiche. E scavando, portarono alla luce la città scomparsa di Ubar in cui si raccoglieva il miglior olibano di tutto il mondo antico. Inoltre scoprirono che la fine della città fu dovuta allo smottamento del terreno causato dal ritiro della falda acquifera. Sulla costa c’era inoltre la città di Ain Humran che era molto simile a Ubar per costruzione; per questo è facile pensare che Ain Humran fosse un avamposto del popolo di ‘Ad sul mare, da cui veniva spedito l’incenso raccolto sui monti del Dhofar. Mentre da Ubar partivano e arrivavano migliaia di carovane che attraversavano il Rub’ al-Khali. Così finisce la leggenda di Ubar fondata nel 900 avanti Cristo e distrutta nel 400 dopo Cristo.


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controstorie

ono ormai dieci anni, dal 1999 quando il Corbaccio pubblicò Se le cose fossero andate diversamente, che l’editoria generalista, il grande pubblico e la critica hanno scoperto la storia alternativa o ucronia. Non che prima fosse ignota, ma la sua conoscenza era limitata ai lettori di fantascienza che la conoscevano sotto forma di viaggi nel tempo o di universi paralleli o di bivi nel tempo, il cui romanzo più noto è quello di Philip K.Dick La svastica sul sole. La descrizione di un non-tempo in cui la storia ha preso una piega diversa a causa, in genere, di un piccolo avvenimento differente dalla Realtà, è qualcosa che affascina un certo tipo di scrittori (e di lettori) ai quali piace immaginare una visione anticonformista del nostro mondo e della nostra società che però non è l’Utopia: non la descrizione del «migliore dei mondi possibili», ma una storia umana che non è quella nota, che parte da premesse leggermente diverse, ma tali da aver modificato invece profondamente il mondo che conosciamo. Il risultato potrà essere migliore, ma anche semplicemente diverso, a volte anche peggiore (ma allora, è da chiedersi, perché immaginarsi un percorso storico eterodosso per raggiungere simili risultati? Per mettere in guardia, potrebbe essere la risposta, come nelle antiutopie).

S

I nostri autori sembrano particolarmente attratti da questo singolare genere letterario, forse perché noi italiani siamo un popolo sempre insoddisfatto dalla Realtà, o anche perché siamo tra quelli che litigano di più sulle interpretazioni della storia del passato, lontano o vicino, o semplicemente perché ci piace abbandonarci a questi divertissement intellettuali. Che, peraltro, non sono facili da realizzare come potrebbe sembrare a prima vista: per scrivere una controstoria occorre conoscere benissimo la storia, non si può andare a caso pensando che tutto sia possibile: ci deve essere sempre una logica intrinseca nelle vicende di ucronia: Napoleone non può vincere a Waterloo perché aiutato dagli alieni, né le legioni romane vincere nella Selva di Teutoburgo perché fornite di fucili laser… E una ferrea documentazione storica, geografica, etnologica, antropologica, di storia delle religioni, militare e del costume sta alla base di un romanzo uscito in libreria questa settimana: Imperium Solis, pubblicato dalla Editrice Nord e scritto da Mario Farneti. Chi è Mario Farneti? È l’autore del più vasto affresco di storia italiana alternativa uscita negli anni scorsi con la trilogia Occidente (2001), Attacco all’Occidente (2003) e Nuovo Impero d’Occidente (2006), editi prima dalla Nord e poi dalla Tea come tascabili, che in oltre 1200 pagine complessive descrive come la storia dell’Occidente e del mondo intero sia cambiata perché l’Italia non è entrata nella seconda guerra mondiale in cui la Germania viene sconfitta, e abbia poi vinto la terza guerra mondiale contro l’Unione Sovietica a fianco degli Stati Uniti, da quel momento divenendo pian piano la nazione egemome del Vecchio continente e poi del pianeta. Ora Farneti, un giornalista con la passione della storia e di molto altro, con Imperium Solis, che si presenta anch’esso come primo romanzo di una

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ai confini della realtà

Se l’imperatore

Giuliano…

di Gianfranco de Turris trilogia, immagina che l’imperatore Flavio Claudio Giuliano non venga ucciso (anche se lo fa credere) nella battaglia contro i Parti nell’attuale Iraq, a Ctesifonte nel 363, ma in incognito e su missione divina decida di andare alla scoperta della magione dove il Sol Invictus, di cui è devoto, si reca alla fine di ogni giorno. Stabilisce, quindi, di dirigersi verso l’Estremo Occidente con una imponente flotta che parte dalla Hibernia (l’Irlanda), attraversa il Mare

Oceano e approda sulle sponde della mitica Meropide: ha scoperto il Nuovo Mondo 1100 anni prima di Cristoforo Colombo.

Non si tratta solo di una impresa di mera conquista, ma di una impresa culturale e religiosa: Giuliano ha con sé sacerdoti, storici, geografi, filosofi, scienziati. Lì prima combatterà e poi affiancherà a sé quelle tribù pellerossa che trova molto simili al senso profon-

...non fosse morto nella guerra contro i Parti, avrebbe finito con lo scoprire il Nuovo Mondo 1100 anni prima di Colombo. È quanto immagina Mario Farneti nel documentatissimo “Imperium Solis”, primo romanzo di una trilogia. Per il piacere degli appassionati (non solo di “romanitas”) do della romanitas, sia psicologicamente che moralmente che dal punto di vista spirituale e religioso. Sicché dopo molte complesse vicissitudini raggiungerà lo scopo della sua missione, acquisirà a Roma le nuove terre e infine creeerà un nuovo Impero. Cosa accadrà dopo, col suo ritorno in Europa mentre Roma deve subire l’assedio dei barbari, sarà argomento dei prossimi romanzi. Cosa caratterizza il romanzo di Farneti? Direi subito una eccezionale inventiva e la sua straordinaria leggibilità: lo scrittore ha una sua innata predisposizione agli intrecci avventurosi, anche arditi e complessi, e a proporli al lettore con una scrittura semplice e veloce, che non vuol dire affatto semplicistica e superficiale. Infatti, dietro a

molte delle trovate di Farneti si cela una profondità insospettata sia sul piano culturale che mitologico. La sua non è una fantasticheria, un semplice divertimento: ad esempio nell’avventura di Giuliano, Farneti parla del senso della romanità, di quel che volle significare duemila anni fa l’Imperium, quel che voleva dire essere civis romanus e quindi del motivo per cui genti in apparenza diverse si sentirono rappresentate dall’ecumene imperiale romana, servirono nelle sue legioni, si sacrificarono per esso. Così avviene nel Nuovo Mondo scoperto da Giuliano per le comunità Hopi che insieme ai militi giunti sulle galee alla fine si fusero e crearono un nuovo impero, una nuova nazione, una nuova lingua e una nuova religione che riunisce in sé quella romana, quella celtica e quella autoctona, ma sempre sotto l’egida dei valori della romanità.

Una serie di vicende personali e collettive che all’apparenza sembrano andare ognuna per loro conto a conclusione di Imperium Solis vengono a collegarsi e a sciogliersi: così, insieme al gusto dell’avventura si unisce quasi una sfida intellettuale, cui fa da sponda il gusto della ricerca e della invenzione linguistica che permette a Farneti di legare la Realtà Vera alla Realtà Alternativa, facendone una lo specchio dell’altra: basti pensare a come nascono nella sua Meropide il nome «America» o la Statua della Libertà… Insomma, un romanzo che è un esempio concreto di come si possa scrivere una storia «fantastica» tipicamente nostra senza alcuna imitazione di modelli stranieri.


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