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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Anselma Dell’Olio ichael Mann, regista e co-sceneggiatore di Nemico pubblico, appena uscito in Italia, è un ibrido forse più unico che raro, almeno ai nostri tempi: fa film d’arte per la grande distribuzione di Hollywood, con star acclamate. Il suo ispiratore è stato Stanley Kubrick con Il dottor Stranamore. Su quel film intona una rapsodia: «Ha comunicato a un’intera generazione di cineasti la possibilità di fare film di alta integrità, che potevano arrivare con successo anche a un pubblico di massa. In altre parole, non eri condannato a girare Sette spose per sette fratelli se volevi lavorare nel mainstream dell’industria cinematografica, oppure costretto a fare l’autore di nicchia se prendevi seriamente il cinema. A parte questo, Stranamore è stata anche una rivelazione». L’autore di Eyes Wide Shut non si è mai specializzato in un solo genere, ma ha spaziato dal filone dell’epica d’epoca, detto «sabbia e sandali», con Spartaco e dal film bellico con Orizzonti di gloria, alla fantascienza mirabolante con 2001, Odissea nello spazio, fino all’horror con Shining. Mann, invece, è fedele soprattutto ai film d’azione (unica semi-eccezione La fortezza del 1983, interessante commistione di film bellico e horror fantastico), curatissimi nei dettagli, fotografia smagliante, production design, art direction, costumi e È casting ricercati, e d’elegante composiformalmente zione forma-

M

“Nemico pubblico” di Michael Mann

ineccepibile il film con Johnny Depp protagonista, dedicato al rapinatore più celebre della storia americana. Anche se manca un’analisi approfondita della sua personalità, le. Fino al punla spettacolarità vale to che gran parte la visione delle singole inquadratu-

ARTE & MERCATO NEL NOME DI

DILLINGER 9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Sogno di Sergio Valzania Napoli andata e ritorno con i Pink Martini di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Alda Merini: caos e ispirazione di Francesco Napoli

re dei suoi film non sfigurerebbe se esibita sulle pareti di una galleria o di un museo in una mostra personale. Per verificare la sua vocazione a unire arte e mercato, basta ricordare titoli e protagonisti dei film principali di Mann, a partire dal primo che si è fatto notare dalla cinefilia: Thief - Strade violente con James Caan (1981), selezionato per il concorso principale al Festival di Cannes. Mann si è imposto poi all’attenzione di un pubblico più vasto con L’ultimo dei Mohicani, con Daniel Day Lewis (in collaborazione con il direttore delle luci, l’italiano Dante Spinotti, con il quale ha girato cinque film, incluso Nemico pubblico).

Georges Gurdijeff il Maestro dei risvegli di Marino Parodi Arbasino Graffiti (nei Meridiani) di Riccardo Paradisi

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Il Moderno ai tempi dell’Impero romano di Marco Vallora


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arte & mercato nel nome di

dillinger

segue dalla prima

ta del Federal Bureau of Investigation, la mitica Fbi intensamente voluta e diretta a vita da J. Edgar Hoover. Era diventata necessaria e urgente, dato il moltiplicarsi delle violente scorribande di un piccolo esercito di fuorilegge: star come Bonnie Parker e Clyde Barrow e la gang di Ma Barker, che attraversavano impunemente i confini statali con le loro diverse giurisdizioni e codici penali. Solo nella squadra di Dillinger c’erano soci criminali, noti anche loro: Homer Van Meter (Stephen Dorff), il rapinatore di treni Alvin Karpis (Giovanni Ribisi), Pretty Boy Floyd (Channing Tatum), Charles Makley (Christian Stolte) e «Faccia d’angelo» Nelson (Stephen Graham) e le due «spalle» principali del capo, Harry «Pete» Pierpont e John «Red» Hamilton, gli attori australiani David Wenhan e Jason Clarke. È proprio l’abbondanza di gangster che costituisce la debolezza del film, che dura due ore e mezzo durante le quali non si riesce a distinguerli a sufficienza perché non sono resi riconoscibili nelle loro diverse personalità ed efferatezze.

Poi Heat - La sfida con Robert De Niro, Al Pacino e Jon Voight, Insider Dietro la verità con Russell Crowe e Pacino, Ali con Will Smith (che lo ha preferito a Spike Lee per la regia del film biografico sul pugile Mohammad Ali-Cassius Clay), Collateral con Jamie Foxx e Tom Cruise, Miami Vice, con Foxx e Colin Farrell, stesso titolo della sua celebre serie tv con Don Johnson, ma con una storia tutta originale. (Secondo Mann: «Uno dei migliori segreti di Hollywood è che Johnson n.b. sempre considerato più bello che bravo - è un ottimo attore»). Nemico pubblico, con Johnny Depp nel ruolo di John Dillinger, il rapinatore di banca più celebre della storia americana, è tratto dal libro omonimo di Bryan Burroughs, una biografia collettiva dei più noti protagonisti dell’ondata di criminalità senza precedenti che ha colpito l’America durante la Grande Depressione. (Ecco perché sia il libro sia il film hanno come titolo originale il plurale Nemici pubblici). Ma Dillinger, un oggetto di culto sia per il cinema e la televisione (che gli hanno dedicato, con questa, ben diciotto opere) sia per gli appassionati di cronaca nera, è al centro della storia e la domina. La parabola pubblica dell’uomo che Mann ritiene «probabilmente il miglior rapinatore di banche americano», è durata appena tredici mesi (da maggio 1933 a luglio 1934), dopo una prima, esagerata condanna di nove anni e mezzo per una rapina giovanile minore. Se quando è entrato in prigione Dillinger era un dilettante, a fine pena è uscito laureato con trenta e lode, grazie agli amici «professori» frequentati in carcere. Il film si apre con un’inquadratura dell’Indiana State Prison, che abbaglia per la luminosa, stravolgente bellezza, composta dall’imponente edificio quadrato dalle mura grigie e piatte (che ricordano la pittura colourfield modernista) contro le quali si stagliano uomini in nero in movimento. Girato in digitale da Spinotti, che secondo Mann «è un artista che dipinge con la luce», forme e colori hanno la nitidezza della migliore alta definizione.

La breve carriera «da professionista» del bandito, bello, intelligente e più accorto degli uomini di legge che lo inseguono (almeno all’inizio), si spiega con l’evoluzione del momento storico in cui ha vissuto e operato. Da una parte si era abbattuta sul paese la tremenda crisi economica del ‘29, che rendeva difficile a chiunque trovare lavoro, figurarsi a un ex galeotto. Con la disoccupazione che aveva raggiunto il picco del 25%, le banche (ne sono fallite novemila durante gli anni Trenta) erano odiate dalla popolazione, e chi le rapinava era considerato un eroe populista, un Robin Hood, addirittura. Dall’altra, non c’era ancora una polizia federale degna di questo nome, e la valanga di crimini nel Mid-west (terreno preferito dai banditi) ha dato l’impulso propulsivo alla nasci-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

Per due ore, però, si resta incantati dall’immensa caratura visiva e dal ritmo dello spettacolo, dalla raffinatezza del montaggio con conseguente efficacia narrativa, e dalla straordinaria potenza carismatica di Depp. La storia mette a fuoco Dillinger, la lealtà verso gli amici, la ricercatezza sartoriale e la celebre agilità nel saltare i cancelletti interni delle banche, con scenografico svolazzo dell’ampio spolverino e il donante cappello a larghe tese calato sugli occhi penetranti. Ci fa conoscere anche la donna di cui s’innamora, la guardarobiera di nightclub Billie Frechette (Marion Cotillard, non particolarmente affascinante) e naturalmente i suoi principali avversari: Billy Crudup è un convincente Hoover con la mascella quadrata, e il suo capo agente operativo Melvin Purvis è Christian Bale, perfetto come uomo di legge silenzioso, cortese e determinato. Solo nell’ultima mezz’ora, pur zeppa di scene meravigliose da antologia (come quella nel cinema Biograph di Chicago, con Dillinger che guarda affascinato il gangster interpretato da Clark Gable in Manhattan Melodramma) si avverte la stanchezza per la superficialità dell’approccio all’eroe negativo. Sappiamo di lui alla fine poco più di quello che impariamo all’inizio, e nulla della sua formazione. È mai possibile che l’uomo non avesse più spessore, più sfaccettature di quello che Depp riesce a dargli con la sua magica presenza? Nel film, Frechette è un’innocente estranea alla malavita, ma all’epoca dell’incontro con il gangster era la moglie piuttosto rodata di un carcerato. I film basati sulla realtà giocano sempre con i fatti; si poteva fare lo stesso con il ruolo principale. Se Nemico pubblico non è perfetto, le coreografie sublimi delle fughe dalle carceri, delle rapine, delle sparatorie che si susseguono e le immagini tutte sono talmente ben fatte e spettacolari che sarebbe una sciocchezza perdersele.

NEMICO PUBBLICO GENERE DRAMMATICO DURATA 143 MINUTI PRODUZIONE USA 2009 DISTRIBUZIONE UNIVERSAL PICTURES REGIA MICHAEL MANN INTERPRETI JOHNNY DEPP, CHRISTIAN BALE, MARION COTILLARD, BILLY CRUDUP, STEPHEN DORFF

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

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parola chiave

utti sogniamo, ma dei sogni sappiamo poco. Le avventure che ci capitano nella vita parallela che ciascuno di noi conduce ogni notte sfuggono a una comprensione razionale. La scienza ha avanzato alcune ipotesi, senza però arrivare a nessuna conclusione definitiva. La natura e la funzione dei sogni ci rimangono ignote. In moltissimi hanno cercato di fornire interpretazioni di questa attività, rispetto alla quale il nostro volere ha una parte così piccola. Non si può decidere cosa sognare, quali abiti indossare, chi incontrare dopo aver chiuso gli occhi alla sera ed essersi distesi sotto le coperte. Già per questa semplice ragione il sogno ci dà un ammonimento di non poco valore. Forse un suggerimento per comprendere che anche quando abbiamo l’impressione di essere del tutto padroni del nostro agire - quante volte questo ci capita anche in sogno! - in realtà si tratta solo di una nostra presunzione. Spesso torniamo a una realtà imprevista emergendo da convinzioni e certezze che avevamo maturato con grande consapevolezza, sbagliandoci. Esiste la locuzione «è stato come risvegliarmi», oppure «è finito un incubo». Ai due estremi delle convinzioni relative all’essenza dei sogni si collocano la dietologia e la psicoanalisi. Per la prima le tipologie delle nostre storie notturne dipendono dal cibo consumato a cena, la cui pesantezza rischia di indurre un sonno, e quindi dei sogni, condizionati dalle difficoltà della digestione. Buoni sogni dipenderebbero dalla correttezza dell’alimentazione, capace del resto di indurre una buona vita. Siamo quello che mangiamo è un adagio non privo di saggezza. Sigmund Freud ha scritto L’interpretazione dei sogni partendo da convinzioni del tutto opposte. Secondo lui il sonno è un momento di libertà, di caduta delle inibizioni, di perdita delle capacità di controllo da parte dell’ego, così da permettere all’es, alla nostra identità profonda e più vera, di uscire allo scoperto e di vivere nei modi e nelle forme che preferisce. Di esprimersi con pienezza, di conseguenza l’analisi dei sogni può dirci molto delle nostre pulsioni profonde.

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Non so bene vicino a quale delle due scuole di pensiero si situino i cultori della Smorfia napoletana, che forse costituiscono una terza polarità a sé stante. Per loro il sonno è una condizione di particolare potenza, nella quale siamo collegati in maniera privilegiata con il mondo ctonio, con i defunti che possono venire a parlarci, e con le correnti che attraversano il tempo in ogni direzione. Il futuro, che già esiste dato che il trascorrere del tempo è un’illusione umana, incide poco sul passato, ma la sua attività può essere colta da antenne particolarmente sensibili. La percezione è possibile solo dopo aver abbattuto le difese che la veglia impone di tenere alzate. In qualche modo esiste un accordo fra il giocatore del Lotto e Freud: nel sonno cadono molte barriere. L’esempio migliore di divinazione attraverso il sogno lo troviamo della Bibbia. Il Faraone sogna sette vacche grasse e poi sette vacche magre. È Giuseppe, il figlio di Giacobbe in esilio in Egitto, a fornirgli la spiegazione giusta per le visioni che ha avuto durante il sonno: l’Egitto è destinato ad attraversare prima sette anni di grande prosperità e poi altri sette di carestia. Bisogna essere parsimoniosi nei primi per non morire di fame nei secondi. Il Dio degli ebrei e in se-

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SOGNO La natura e la funzione di ciò che ci capita durante il sonno sono tuttora ignote, benché la scienza abbia avanzato numerose ipotesi. Dalla Bibbia a Freud, passando per la Smorfia, il senso di un evento che è occasione di approfondimento non solo filosofico…

Riflessi in uno specchio di Sergio Valzania

Mentre dormiamo e nella veglia la nostra identità non muta: quando ci addormentiamo la vita semplicemente prosegue in un’altra modalità. Per questo il sogno è un ottimo strumento per cogliere elementi di una parte del mondo che non siamo in grado di vedere in modo diretto

guito quello dei cristiani ha la tendenza a mandare i suoi annunci durante il sonno. Già lo avevano fatto gli dei che Dante definisce falsi e bugiardi. Sia nel Vecchio che nel Nuovo testamento non sono in molti i fortunati a incontrare direttamente Dio durante la veglia, o almeno uno dei suoi emissari deputati a comunicare con gli uomini. Dio parla con Abramo, ma compare nel sonno ad Abimelech per avvertirlo che non deve giacere con Sara. Maria è ben sveglia in quell’occasione centrale per la storia dell’umanità e di tutta la creazione dalla quale deriviamo l’incipit dell’Ave Maria. Luca racconta all’inizio del suo vangelo la visita dell’arcangelo Gabriele alla Madonna per annunciarle la nascita di Gesù e richiedere la sua disponibilità al progetto della salvezza. Matteo ci dice invece del sogno di Giuseppe nel corso del quale l’angelo gli appare per dargli lo stesso annuncio e ammonirlo a «non temere di prendere con te Maria, tua sposa». Due apparizioni simmetriche, che le scritture collocano in due stati fisici diversi. Nella veglia quello di Maria e nel sonno quello di Giuseppe. Se avesse un senso farlo, verrebbe da domandarsi il perché di una tale differenza di comportamento. Né Marco, né Giovanni ci vengono in aiuto, dato che le loro narrazioni della vita di Gesù iniziano più tardi, al momento dell’incontro del Cristo con Giovanni Battista e dell’inizio della predicazione.

Forse la ragione per la differenza di stato fra Maria e Giuseppe al momento dell’annuncio consiste nel fatto che una vera differenza non esiste. Nel sonno e nella veglia la nostra identità non muta, quando ci addormentiamo la vostra vita prosegue in una modalità altra, come una macchina che lascia la strada asfaltata per imboccarne una sterrata e comincia a sobbalzare. In questo senso il sogno è un ottimo strumento di approfondimento filosofico, una sorta di specchietto sul quale scorgere i riflessi di una parte del mondo che non siamo in grado di vedere in modo diretto. Il sogno ci interroga sulla consistenza della realtà, sulle sicurezze che abbiamo, sul controllo che siamo capaci di esercitare sulla nostra vita presente e sulla possibilità di elaborare una progettualità rivolta al futuro. Nel sogno ci capita di essere avvertiti del fatto che non ci troviamo nella vita reale e ci stiamo invece muovendo in un mondo di ombre, che ci appartiene completamente e all’interno del quale non corriamo pericoli. Ci sono delle volte nelle quali invece questa consapevolezza è del tutto assente. Allora non sappiamo di sognare, al contrario siamo sicuri di essere ben svegli e presenti a noi stessi. Sono quei sogni che ci interrogano sulla nostra percezione di quel preciso momento. Non abbiamo alcun modo di dimostrare con certezza a noi stessi di essere svegli e coscienti e di non trovarci invece in una condizione diversa, magari di sonno indotto con dei farmaci, come viene raccontato nella saga di Matrix, nella quale gli uomini sono ridotti a corpi immobili tenuti in vita per carpire loro le emozioni cerebrali che proprio i sogni producono. È inutile darsi forti pizzicotti, forse stiamo sognando di farlo. Resta comunque la saggezza di Jorge Luis Borges, quando ci dice sorridendo che la vita di un re che sogna ogni notte di essere uno schiavo non è diversa da quella di uno schiavo che tutte le notti sogna di essere re.


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cd

musica

Napoli andata e ritorno con i Pink Martini di Stefano Bianchi

l succo dell’easy listening si concentra nel nome: Pink come rosa, cioè La pantera rosa e di rimbalzo le musiche di Henry Mancini; Martini come il ben noto aperitivo che James Bond, nei romanzi di Ian Fleming, ordinava shaken, not stirred (agitato, non mescolato). Si pensava fossero un vezzo modaiolo destinato a non lasciare traccia, i Pink Martini, quando nel 1997 intonarono Je ne veux pas travailler sonorizzando lo spot dell’auto francese modello Picasso. Invece, a quell’amabile ritornello la «little orchestra» di Portland (Ohio) fece seguire l’album Sympathique mescolando swing, bossanova, jazz e cha-cha-cha. Ne risultò una nuova lounge music, erede di quella «vintage» che negli anni Cinquanta non ebbe timore di fronteggiare il rock’n’roll di Elvis Presley e nei Sessanta il pop dei Beatles con specialisti tipo Esquivel, Martin Denny, Les Baxter, Arthur Lyman e Burt Bacharach. Da allora, i Pink Martini le hanno azzeccate tutte: incidendo pochi ma buoni dischi (Hang On Little Tomato, 2004; Hey Eugene!, 2007) e sfruttando il talento di Thomas M. Lauderdale (pianoforte) e China Forbes (voce). I due, un bel dì, si conoscono all’Harvard University. Lui studia storia, lei pittura e letteratura inglese. Fra una lezione e l’altra, China intona arie di Verdi e Puccini inframezzandole con qualche hit di Barbra Streisand. Thomas, con elegante discrezione, l’accompagna. Intascata la laurea, lei se ne va a New York a strimpellare folk-rock, lui la rintraccia per darle il benvenuto nei Pink Martini. E dopo aver arruolato una pattuglia di frizzanti strumentisti, si esibiscono alle manifestazioni di raccolta fondi per i diritti civili e gli alloggi ad affitto calmierato. «Se nel ’62 le Nazioni Unite avessero avuto bisogno di un’orchestra di supporto, avrebbero di sicuro scelto i Pink Martini», ha più volte di-

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chiarato Lauderdale puntando l’accento su un canzoniere di razza che da Sympathique in poi ha pizzicato nostalgie scritte in casa, romanticherie da musical hollywoodiani e pezzi forti da rivisitare in bella grafia, come Amado mio di Rita Hayworth e Andalucia del cubano Ernesto Lecuona. «L’imprevedibilità del nostro repertorio penso nasca dal fatto che sia China che io proveniamo da famiglie multiculturali e ogni Pink Martini ha studiato differenti stili di musica. Ascoltandoci, è come tuffarsi nel cuore di un samba di Rio de Janeiro, nel pentagramma di una commedia musicale parigina, fra i vicoli di Napoli». E proprio dal capoluogo campano, con la Ninna Nanna composta da Alba Clemente (moglie di Francesco Clemente, pittore della Transavanguardia) e cantata in dialetto verace, si dipanano le intriganti atmosfere di Splendor In The Grass: dispensando jazz latino (la strumentale Ohayoo Ohio), pop anni Settanta con un orecchio a Tchaikovsky (il brano che dà il titolo al disco), chacha-cha «francofono» (Oú est ma tête?), musica cocktail in rima baciata con Franz Schubert (And Then You’re Gone) e l’incantevole bossanova di Sunday Table. Poi ci sono i giochi di prestigio: Tuca Tuca di Raffaella Carrà virata in lounge col tocco finale del sitar suonato da Peter Sellers nel film Hollywood Party; il rutilante «vocalese» (molto Manhattan Transfer) di Bitty Boppy Betty; il duetto bilingue di China Forbes ed Emilio Delgado sulle note di Sing dei Carpenters; Piensa en mí, leggendario gioiello di Agustin e Maria Teresa Lara interpretato dalla ranchera Chavela Vargas. E alla fine, il ritorno a Napoli è inevitabile. Con la «reprise» di Ninna Nanna. Pink Martini, Splendor In The Grass, Heinz Records/Spin-Go!, 18,90 euro

in libreria

mondo

riviste

VASCO, PROFESSIONE RIBELLE

LONDRA CHIAMA ANCORA

LUCIO, ALDA E SAN FRANCESCO

«E

adesso che sono arrivato fin qui grazie ai miei sogni, che cosa me ne faccio della realtà. Adesso che non ho più le mie illusioni, che cosa me ne frega della verità». Recita così una delle più dolenti canzoni dell’ultimo Vasco, rockstar mai abbindolata dagli inganni del successo, che alla soglia dei sessant’anni traccia un bilancio esistenziale in bilico tra delusione e appassio-

«S

cordatelo fratello, possiamo fare da soli,smetti di resistere e fai un altro respiro. Non voglio urlare ma mentre parlavamo ti ho visto fare un cenno, chiedendo alla fine, dopo tutto questo, non vuoi rivolgermi un sorriso?». Sono passati trent’anni da quel 1979 che proiettò London Calling dei Clash nell’empireo rock del Novecento. E quella gemma che diede il titolo a un

obiettivo dello spettacolo è capire quali siano i motivi segreti che portano alla felicità nell’uomo, felicità che Francesco, fra l’XI e il XII secolo, trovò incontrando la fede, abbandonando un terreno fatto di ricchezze, mondanità e vita gaudente e aiutando gli altri, soprattutto i più deboli». Un evento speciale, quello presentato da amadeusonline.net. Perché il 27 novembre,

Michele Molina ripercorre carriera e pensiero del rocker di Zocca: da Sanremo al disincanto

Una edizione speciale festeggia i trent’anni di “London Calling”, capolavoro dei Clash

Poesie della Merini e musiche di Dalla: a Milano la celebrazione della carità francescana

nata rivendicazione della propria esistenza. Né smielato né cinico, né buono né cattivo, il cantautore di Zocca è stato un ribelle senza vezzi. Lo stesso che Michele Molina tratteggia nel suo Il Vasco che vorrei(Zorro Editore, 288 pagine, 15,90 euro). Dall’esordio sanremese che lo classificò all’ultimo posto nel 1982, alle canzoni sbarazzine piene di ironia e spirito caustico contro l’americanismo più sciatto che inghiottì gli anni Ottanta, dalle ballad amorose come non se ne erano mai viste ai tour storici che hanno polverizzato ogni record. Esistenzialista a progetto, adottato da un paio di generazioni a simbolo dei propri travagli, Vasco è parte delle nostre storie.

grandissimo omonimo album, il 14 dicembre torna nei negozi musicali. Incoronato come miglior opera rock degli anni Ottanta, London calling sarà disponibile con un dvd in allegato. Ma non si tratta solo di un’operazione nostalgia. Mick Jones e Topper Headon, si sono riuniti pochi giorni fa per registrare in studio, una nuova versione di Jail guitar doors. Orfana di Joe Strummer, stroncato da un infarto nel 2002, la band londinese che ha influenzato più di mezzo mondo postrock, dagli U2 ai Muse, non si rassegna, perché come un’idea non può morire.

presso la Chiesa dei Frati minori cappuccini di Milano, si incontreranno musica e poesia in onore dei cinquant’anni dell’Opera francescana per i poveri. La performance coniugherà infatti i versi dedicati al santo di Assisi della compianta Alda Merini in Francesco Canto di una creatura, e le composizioni musicali di Lucio Dalla, sul palco con il suo clarinetto a tradurre in note e legati la parola poetica. A fare da voce narrante, accompagnata dal Nu-Ork String Quintet e dal Kitaderium Ensemble, sarà invece l’attore Marco Alemanno. Degna celebrazione di un’opera di solidarietà, capace di offrire, tra le altre cose, duemila pasti al giorno ai più bisognosi.

a cura di Francesco Lo Dico

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zapping

CONCERTI LIVE in camera da letto di Bruno Giurato idea c’è ed è bella. Basta col gigantismo, basta col megaconcerto, è il momento del concerto in piccolo. In effetti pure gli U2 nel loro live in diretta su youTube facevano un po’ridere su quel palco/parco giochi per dinosauri. Lì in mezzo la voce moderata dall’età di Bono, e la batteria imbolsita di Mullen erano fuori luogo, arrivati a Sunday bloody sunday ci abbiamo messo una croce sopra. È il momento del concerto familiare, che si svolge a stretto contatto col pubblico, e mantiene benjaminianamente «l’aura dell’opera». Bella l’idea di Gianni Morandi, quindi, anche se simile a quella di un enigmatico ensemble che da qualche tempo frequenta gli appartamenti romani: si chiama Donna Julia and the D.O.P. (ignoto il significato della sigla), e si presenta al pubblico di nicchia come the first bedroom live band, proponendo classici rock in versione ricostruita. Morandi, che ha registrato il primo concerto a domicilio nei giorni scorsi, lo vedremo domani sera su Raiuno, nella trasmissione Grazie a tutti. E poi ci piacerebbe che tutti seguissero il suo esempio. Li vorremmo tutti nella stanzetta. A De Gregori chiederemmo solo cover di Bob Dylan, ovvio. I Bastard sons of Dioniso ovviamente nel cesso, perché le piastrelle riverberano e le armonie vocali ci guadagnano. Ma la vera rivoluzione sarebbe Roberto Maroni con il suo organo Hammond, per una volta su canzoni napoletane e non sui pezzi dell’amato Springsteen, accompagnato dalla chitarra di Mariano Apicella, per la serie evviva il localismo, la questione meridionale e pure il sole in tasca, anzi dint’a sacca. Il tutto, ovviamente, nella camera da letto famosa, anzi, in un posto preciso. Il lettone di Putin.

L’

classica

La Tosca, Puccini e il gioco delle varianti di Jacopo Pellegrini n uno scritto pionieristico e fondativo sul processo creativo di Giacomo Puccini, pubblicato nel 1993 e tradotto anche in italiano (in Puccini, il Mulino, 1996), lo studioso tedesco Jürgen Maehder, appoggiandosi a un’ipotesi del collega americano Allan W. Atlas, identificava le diverse fasi seguite da Puccini durante la composizione: «1) abbozza idee musicali su fogli isolati; 2) abbozza singoli pezzi in notazione ridotta […]; 3) redige l’abbozzo di un atto; 4) chiarisce dettagli della strumentazione su fogli staccati; 5) stende la partitura autografa [...]». Seguono ulteriori correzioni e aggiustamenti su autografo, manoscritti e bozze di stampa, persino molto tempo dopo il battesimo in teatro. Già Maehder faceva notare come spesso i primissimi spunti melodici e armonici si trovino a margine delle stesure preparatorie per il libretto (Puccini, si sa, assillava i suoi collaboratori letterari, obbligandoli a continui, tormentosi rifacimenti). Tuttavia, certo per la scarsità del materiale a sua disposizione, gli sfuggì la strategia seguita dal sor Giacomo fin dallo stadio iniziale del lavoro: seguace ed emulo di Wagner, egli organizzava le sue partiture in base a una rete di motivi conduttori legati a personaggi situazioni sentimenti specifici, e a un disegno tonale su larga scala. Vale a dire, il contrario di quanto sostenuto da vari esegeti che, a partire dagli anni Ottanta, si sono dedicati all’analisi dei melodrammi pucciniani. In essi, temi e tonalità sono difatti adoperate tutt’altro che a casaccio. Una prova schiacciante in proposito è offerta da una pubblicazione che schiude «nuove frontiere alla librettologia» (così si è espresso un lettore autorevolissimo): la edita Olschki, per le cure di Gabriella Biagi Ravenni, lucchese purosangue al pari di Puccini, nonché presidente del Centro studi a lui dedicato, con sede nella città toscana. Due volumi preziosissimi, che contengono una copia di lavoro, databile al 1896-97, dell’intero libretto per Tosca: il primo tomo, un nitido facsimile in quadricromia; il secondo, una trascrizione semidiplomatica del testo con introduzione e ampio, dettagliato commento. Ebbene, oltre alle frequenti annotazioni con le quali il compositore fissa il ritorno di un motivo («di Tosca», «dello scaccino», ecc.) in una data tonalità, accanto alla frase di Scarpia «ti mirai qual non ti vidi mai» (Atto II) spicca l’appunto «Motivone in sol bemolle» (la tonalità prediletta da Puccini per gli sfoghi lirico-sensuali): la pianificazione armonica precede

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addirittura l’invenzione melodica! Un altro commentatore d’eccezione ha ravvisato nei criteri editoriali adottati dalla curatrice una filologia «avanzata»: i vari apporti al manoscritto sono segnalati con colori diversi (rosso per Puccini, verde per Illica, turchese per Giacosa, blu per Ricordi, nero per le bozze di stampa - in genere didascalie - e per i copisti), mentre le pagine ripiegate, i foglietti colle varianti e le correzioni incollati alle carte del quadernone (31x21,5) sono riprodotti senza mutare una virgola: come in un dotto, eppur avvincente e spassoso gioco da bimbi cresciuti, è tutto un alzare pecette e quadratini per scoprire quali passi siano stati cassati, quali versi sostituiti. In questa redazione l’opera non termina ancora con il suicidio di Tosca (come in Sardou) ma con una sua «scena di follia», mentre «Vissi d’arte»

è già al suo posto, smentendo la leggenda che lo vorrebbe inserito all’ultimo minuto. Puccini si conferma il vero autore dei suoi libretti: pretende sintesi e pregnanza nel testo, escogita espressioni fulminanti («o dolci baci, o languide carezze» nell’aria di Mario, che - nota la Ravenni - «verrà radicalmente ripensata e modificata»), esige determinati metri poetici per musica già scritta o ancora da scrivere, come nel caso dei «versi 9ari» (non «pari», ma sfido chiunque a non confondersi con quella grafia) chiesti per ciò che, in endecasillabi, diventerà «Non la sospiri la nostra casetta».

Tosca. Di Victorien Sardou, Giuseppe Giacosa e Luigi Illica. Musica di Giacomo Puccini, a cura di Gabriella Biagi Ravenni, Olschki, 2 vol., 140+140 pagine, 120,00 euro

jazz

La passione di Clint? Vedi alla voce Rhapsody Films di Adriano Mazzoletti uò sembrare strano che in una rubrica dedicata al jazz si parli di Clint Eastwood, ma Eastwood, come Woody Allen è musicista di jazz anche se suo figlio Kyle, eccellente contrabbassista, dice che suo padre sa suonare al piano solo blues e boogiewoogie. A differenza di Allen, che ha sempre prediletto il jazz nelle colonne sonore, Clint Eastwood è stato l’autore del film Bird ispirato alla figura di Charlie Parker. Ma come Woody Allen anche Eastwood inserisce spesso sequenze jazzistiche in molte sue opere, quali Million Dollar Baby del 2004 o nel recentissimo e stupendo Gran Torino. Pochi però sanno che Eastwood, in collaborazione con lo storico del jazz Bruce Ricker è il più importante produttore americano di dvd dedicati al jazz. Il catalogo di «Rhapsody Films», la cui produzione è iniziata da oltre dieci anni, è ricco di oltre cento nume-

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ri dedicati non solo ai grandi del jazz, ma anche a personaggi considerati minori che Eastwood e Ricker hanno riscoperto e valorizzato, come il ballerino Baby Laurence, forse il più importante allievo di Bill «Bojangles» Robinson decano degli step-dancers. L’importanza di questi dvd risiede soprattutto nella regia di Eastwood che riesce a inserire con l’abilità che gli è propria vecchi e rari filmati di Art Tatum, Charlie Parker, Bud Powell, Danny Barker, Milton Hinton, in film dedicati alla storia del jazz di Kansas City o a quella del Bebop o all’influenza del jazz sul caraibico Calypso.Anche nei film sulla storia di singoli musicisti ripre-

si durante esibizioni pubbliche o nel corso di sedute d’incisione, la regia di Eastwood rende questi dvd unici nel loro genere. Nel dvd dedicato al clarinettista di Chicago Pee Wee Russell oltre alle parti strettamente musicali in cui si vede quel grande clarinettista esibirsi con Jimmy Giuffré e altri solisti della sua generazione, Eastwood lo ha ripreso mentre dipinge. Pittore che si riallaccia alla scuola cubista di Léger e Braque, anche Pee Wee Russell tende a ritrarre gli oggetti nei contesti più vari raffigurandoli da più punti di vista. I temi preferiti, gli strumenti musicali, il suo clarinetto soprattutto e immagini femminili. Fra i concerti

più riusciti sono quelli dell’Art Ensemble of Chicago, Shelly Manne, Zoot Sims, Lee Konitz, Bill Evans, Tony Bennett, Eddie Jefferson uno dei protagonisti del «vocalese», arricchiti con interviste e filmati d’epoca. Recentemente il catalogo si è impreziosito di altre opere difficilmente reperibili, come il cortometraggio Symphony in Riffs che Benny Carter realizzò nel 1938 con la sua orchestra, restaurato personalmente da Clint Eastwood. I dvd della «Rhapsody Film» sono difficilmente rintracciabili nei grandi negozi. Possono essere però richiesti direttamente a sales@rhapsodyfilms.com al costo di sei dollari.


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narrativa

libri

I bagliori borghesiani del giovane Borges di Pier Mario Fasanotti ra le accuse più idiote mosse a Jorge Luis Borges, che mai ebbe il premio Nobel, ci fu quella di esterofilia. Come se la cultura valesse qualcosa solo se protetta, o soffocata, da mura paesane. La sua conoscenza era sconfinata. Viveva e rifletteva di collegamenti, abbatteva le distanze tra le parole, gli idiomi e i pensieri dei vari continenti. E questo senza rinunciare a elucubrazioni sul «sé» e sull’«altro». Conosco, scriveva, «la realtà veritiera, immediata, dell’io, di ogni io quale osservatore diretto del mondo, e la realtà mendace, mediata, di coloro che non sono io, di quelli che appartengono alla classe dei diversi, come l’ulti-

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mo arrivato». Proseguiva, lasciando a noi l’impressione che si divertisse un poco, nel sostenere che «menzionare gli altri non è meno pretenzioso e assurdo di nominare “il marciapiedi di fronte”, poiché ogni altro è un io e qualsiasi “di fronte” è un “qui” non appena attraversiamo la strada». Il tema della distanza lo affascina anche quando affronta il groviglio dei sentimenti: «Io ritengo che qualsiasi amore e qualsiasi amicizia non siano altro che un giusto alternarsi dell’avvicinamento e della distanza. L’affetto possiede il suo emisfero d’ombra come la luna». Paiono, queste, le parole di un intellettuale maturo. In realtà si trovano negli inediti

(recensioni, appunti, lettere) che vanno dal 1919 al 1929, ossia quando Borges aveva da 20 a 30 anni. Straordinario nella sua precocità: compose un racconto a soli sette anni. Più avanti elaborò la concezione dell’arte e dell’esistenza, insistendo sul valore del racconto (Finzioni, o fiction) e mischiando carte vere e carte inventate, fino al punto di recensire opere di scrittori inesistenti. Di qui il significato di «borghesiano», che tanta influenza ebbe sia nel Sud-America sia in Europa. In questi scritti anticipa anche il percorso poetico. Da ricordare a questo proposito l’esatta definizione che Claudio Magris dettò del grande argentino: «La sua poesia manifesta l’incanto di un attimo in cui le cose sembra stiano per dirci il loro segreto». Un bagliore, un dettaglio, un’ombra: e noi sulla soglia, con le mani protese verso un impossibile profilo del tutto. In occasione dell’arrivo dell’amico Ramon scrive: «Da lui sapremo che quella luminosità della sera non è il tramonto, ma i riflessi rossi dei capelli di Nora Lange, che vive nell’Ovest». Ramon è

un uomo «dagli occhi radiografici e tiranni». Poesia anche nella prosa. Lo stesso vale quando parla della sua Buenos Aires. Come corteggiare questa città con la vista? Quali ore sono le più propizie? Non al mattino, non la sera, non di notte («Ormai convalescenti della sera, la notte è un miracolo tronco»). Forse l’alba? Nemmeno: «È sempre una cosa infame e subdola perché cela la grande congiura tramata per mettere in piedi tutto quello che era crollato dieci ore prima…». È meglio approfittare di una di quelle «ore orfane che vivono come spaventate dagli altri e delle quali nessuno si cura; per esempio: le due e qualcosa del pomeriggio. Il cielo assume qualsiasi colore. Nessun direttore d’orchestra ci impone il suo ritmo. La sinestesia fluisce attraverso gli occhi puerili e la città si addentra in noi. Così ci siamo impregnati di Buenos Aires». Borges accenna alla sua miopia. Non è ancora l’Omero cieco d’Argentina, ma sa che la cecità nella sua famiglia è minaccia ereditaria da ben sei generazioni. C’è poi, in queste pagine, il Borges polemico, che risponde agli attacchi lan-

ciati alla rivista cui collabora (Proa, in italiano «prua») e lo fa con vigore ironico, sarcasmo e anche allegria. Con un tale Juan Antonio Villoldo (ma sarà mai esistito?) che esprime «santa indignazione» si adira perché, risponde, è semplicemente sterile e sciocco lo scagliarsi contro i «fantasmi che non meritano neppure la promozione a mulini, vista l’assenza di Don Chisciotte». E continua dicendo che la cosa più grave è quella di informare il pubblico di cose che si ignorano. E stiano ben lontani quelli che «rinfacciano» la gioventù a coloro che scrivono e pensano. Jorge Luis Borges, Il prisma e lo specchio, Adelphi, 283 pagine, 25,00 euro

riletture

Caproni, i più bei racconti di un grande poeta di Leone Piccioni iorgio Caproni, uno dei maggiori poeti del Novecento, (Tutte le poesie sono uscite in una raccolta dell’83, pur se si devono ricordare almeno le bellissime Stanze della funicolare del ’52, Il seme del piangere del ’59, Il franco cacciatore dell’82) si è cimentato specie negli anni Trenta e Quaranta e poi tra il ’44 e il ’47, nel genere del racconto: racconti per lo più ritrovati in riviste ormai introvabili o inediti. Però nell’84 Rizzoli raccolse tre racconti di Caproni sotto il titolo Giorni aperti, già apparso in Lettere d’oggi nel ’42. Dieci anni dopo praticamente gli stessi racconti li pubblicò la Garzanti sotto il giusto titolo Il labirinto scritto tra il ’44 e il ’45. Giusto titolo perché Il labirinto era ed è rimasto il racconto più bello che Caproni abbia scritto. Ora, sotto il titolo per me un po’sibillino di Racconti scrit-

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ti per forza (Garzanti Editore) appaiono ben 45 racconti più alcuni frammenti di un tentato romanzo incompiuto intitolato La dimissione. Il libro è ottimamente curato da Adele Dei con la collaborazione di Michela Baldini. Fra tutti io seguito a prediligere Il labirinto, Il gelo della mattina del ’49, i capitoletti incompiuti della Dimissione e anche alcuni racconti di mare come il divertente bozzetto Messaggero del faro del ’63 o altre sue esperienze di Grande pesca nell’Atlantico del ’46 e il risuonare del canto delle sirene - sia pure con tanta ironia - di Sotto la luna mediterranea del ’61. Il libro si chiude con il lungo racconto La maliarda che partecipò inedito, senza vincerlo, al Premio Taranto del ’51. La dimissione è la storia di un impiegato del governo inviato in un luogo dell’estremo Nord per rimettere in ordine in un paese che rifiuta ogni disciplina e va avanti da sé tra faide, ingiusti-

zie, intolleranze. Il manoscritto si ferma quasi subito ma lascia intravedere molti spunti interessanti e traccia figure femminili assai belle, come quella di Olga. Alla morta di Olga, dopo un lasso di tempo non coperto dalla narrazione, si arriva con un capitolo che era apparso per suo conto, Il gelo della mattina. Il labirinto fa parte della raccolta interna intitolata Racconti di guerra e partigiani (la più bella!). È il racconto di un’azione partigiana che viene seguita da una ragazza di nome Ada, ritenuta una spia. Viene catturata, e suscita anche simpatia tra alcuni partigiani per il suo atteggiamento e specialmente in uno (Caproni stesso) che rievoca un suo importante amore con una ragazza che si chiamava, anche lei, Ada. Il gelo attanaglia i partigiani, i polpastrelli stanno per congelarsi: al partigiano Aladino la ragazza dà i suoi guanti, «ma siccome Aladino continuava a ge-

mere, allora gli prese una mano e se la infilò sotto la maglia sulla viva polpa d’una mammella. E ad Aladino si sparse sul viso un rossore che lì per lì non capii se di sollievo o d’impaccio. La ragazza, trasfuso in quelle mani di ghiaccio tutto il calore del suo sangue, era diventata pallida pallida». Alla fine in un clima di grande drammaticità, la ragazza viene fucilata come spia: «Era rimasta a bocca aperta e nel chiuderle gli occhi sentii sui miei polpastrelli gelati l’ultimo suo tepore, un tepore che si dileguava senza che nessuna forza al mondo potesse ormai trattenerlo». Intorno i morti partigiani: «Rimangono con la bocca aperta per esalare perfino l’ultima parola che è in noi. Quando non gli rimane dentro nemmeno una minima parola, è allora che i morti finalmente parlano. Bisogna cominciare ad ascoltarli quando l’ultima parola è esalata dalla loro bocca».


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società

La Roma de noantri, metafora dei vizi italiani di Angelo Crespi difficile dire quanto sia verosimile l’analisi sociologica compiuta da Aldo Cazzullo con la solita verve e ironia circa i mali del nostro Paese. Certo, ne esce un quadro suggestivo a tratti convincente sul «come siamo diventati tutti meridionali» e quanto questa meridionalizzazione abbia inciso sui nostri costumi, ma anche sulla nostra capacità di essere un paese moderno pronto alle nuove sfide della globalizzazione. Cazzullo con animo sabaudo, ricordando i tempi antichi dei propri nonni

È

costume

e il loro rigore piemontese, descrive la deriva italiana verso il Sud indicando nel detto «noantri» il simbolo di questa avvenuta romanizzazione. Essendo «noantri» una logica di vita, il modo provinciale e compiaciuto di ricondurre il mondo a noi stessi, alla nostra dimensione, al nostro cortile, tipico di certi ambienti della Capitale: il mondo dello spettacolo, della televisione, degli affari, perfino della politica dove, nonostante le schermaglie pubbliche, prevale l’accomodamento e il volemose bene della casta. «Perché escludere se puoi includere» è il motto della Roma de noantri che

impedisce di porre il sopra e il sotto, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, in fin dei conti di ipotizzare qualsiasi riforma, perché ogni riforma di fatto esclude qualcuno, mentre noi italiani, nella dimensione della famiglia, del campanile, del clan, del partito, della fazione, della corporazione, della curva da stadio, del mandamento mafioso, non vogliamo escludere nessuno. Roma, città geograficamente al centro della penisola, ma culturalmente ormai provincia del sud, è il luogo in cui si sublima, secondo Cazzullo, questo vizio. Roma col suo menefreghismo

atavico, con la sua capacità di sopravvivere a qualsiasi potere e a qualsiasi politico, di irretirlo e farlo proprio, Roma dove 3 milioni di abitanti si conoscono tutti, dove tutti hanno un cognato, un genero, un parente che lavora in un ministero, dove tutto si concentra, l’Alitalia, il festival del cinema, il Giro, tra poco persino la Formula Uno, e tutto cambia per rimanere uguale. Come si scriveva un tempo «capitale corrotta, nazione infetta», questa la sintesi amara di un saggio agrodolce. Aldo Cazzullo, L’Italia de noantri, Mondadori, 179 pagine, 18,00 euro

Se gli uomini preferiscono le brune di Mario Donati

autore del saggio di cui parliamo è anglosassone e, a meno che non si sia innamorato dell’Italia tutta intera, gli dobbiamo riconoscere l’obiettività storica. Questo a proposito della bellezza delle donne del nostro paese che, sugli schermi e sulle copertine dei giornali, hanno offerto «un’alternativa bruna e schietta alle impomatate figure hollywoodiane… prodotti artificiali degli “studios”». A stare bene attenti a certi segnali mediatici, è ormai dalla seconda metà degli anni Novanta che i canoni della bellezza anglo-americana hanno perso vigore. Se prima ad attirare era la donna dalla pelle chiarissima, capelli biondi, seno piatto e look un po’ androgino, oggi spadroneggiano le donne brune, «selvagge» ma anche tradizionali. Nel 1996 la rivista GQ (Gentlement’s Quarterly) dedicava la copertina a Maria Grazia Cucinotta in sottoveste nera. L’attrice s’era imposta all’attenzione mondiale nel film Il postino. L’anno dopo il periodico Maxim la ripropose accostandola alla lingerie più maliziosa. Lo stesso

L’

filosofia

dicasi per Monica Bellucci, erede, in quanto «bella italiana» (così si legge nei titoli di giornale), di Sophia Loren, Gina Lollobrigida e Claudia Cardinale. Invece Sabrina Ferilli, ha sempre avuto un destino casalingo. Il primo film del dopoguerra che propose le curve e la sensualità italiane fu Riso amaro. Protagonista una splendida Silvana Mangano, mondina del Vercellese. Di lei scrisse Italo Calvino: «È, parola d’onore, la più bella ragazza che io abbia mai visto… è romana, ha diciott’anni, il viso e i capelli della Venere di Botticelli, ma un’espressione più fiera, dolce e fiera insieme». E pensare che il regista, Giuseppe De Santis, inizialmente l’aveva scartata. Il caso volle che la vide un giorno percorrere via Veneto, senza trucco, spavalda: «Le rifeci il provino, che riuscì straordinario, e la scrit-

turai per il ruolo». Il film uscì nel 1949, tra le proteste dei sindacalisti, ai quali evidentemente non sembrava realistica una mondina così seducente e così scatenata a ballare il boogie woogie, e l’ostilità della sinistra, tradizionalmente puritana e ostile al sex appeal. Il New York Times la salutò invece come «un’Anna Magnani con quindici anni di meno». Capita che l’ideologia politica sia miope. Durante il fascismo la «signorina Grandi Firme» disegnata da Gino Boccasile, donna col vitino di vespa e gambe lunghissime, risultò «in conflitto con la complessa battaglia di retroguardia combattuta contro gli ideali di bellezza importati dall’estero». Già, come poteva far tanti figli una donna così sottile e sofisticata? Stephen Gundle, Figure del desiderio, Laterza, 442 pagine, 12,00 euro

La potenza della Tecnica secondo Severino di Giancristiano Desiderio iviamo nell’età della Tecnica o vivremo (o vivranno) nell’età della Tecnica? A leggere l’ultimo libro di Emanuele Severino intitolato Democrazia, tecnica, capitalismo, «la civiltà della Tecnica» è la destinazione di questa civiltà, ma proprio perché ne rappresenta il destino, ancora non vi siamo pienamente giunti. La tecnica è la potenza più potente per la manipolazione degli enti e il dominio del mondo che mai ci sia stata. Dunque, nulla può sfuggire alla sua affermazione in tutto il pianeta, che è quanto dire al suo destino. Anzi, Severino - che sul «tema» batte da molto tempo e, in pratica, è un’appendice del suo

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pensiero filosofico che batte e ribatte sul senso dell’essere che non si lascia dominare dall’ente umano - ritiene che la Tecnica altro non è che il sottosuolo della storia dell’Occidente, ossia lo stesso senso dell’essere. Ecco perché la «civiltà della Tecnica» - ossia l’unione tra Tecnica e pensiero della fine di ogni verità assoluta - non sarà l’ultima parola dell’Occidente. Ma perché il capitalismo? «Se domani la preghiera, che un tempo muoveva le montagne, muovesse la terra e producesse merci e ricchezza con una abbondanza e velocità sconosciute alla tecnica, il capitalismo si metterebbe a pregare e abbandonerebbe la tecnica al suo destino». Ma la tecnica non è e non sarà abbandonata al suo destino

perché proprio a lei si affida la salvezza dell’uomo sulla terra. Qui c’è l’inversione tra mezzi e scopo: la potenza dei mezzi - la Tecnica - è tale che è irrinunciabile sia per la democrazia sia per l’economia. La democrazia e l’economia (la sua forma più avanzata e efficace: il capitalismo) ritengono di potersi servire della Tecnica, ma in quanto la Tecnica è la più potente capacità di creare e realizzare scopi, il rapporto si inverte e la Tecnica diventa lo scopo della democrazia e dell’economia. La potenza della Tecnica è così illimitata perché neanche i limiti che la democrazia e il capitalismo, in quanto forze ed etiche vincenti del nostro tempo, dovrebbero porre possono essere mantenuti e rispettati, semplice-

mente perché sono oltrepassate dalla potenza più potente dell’etica della Tecnica. A cosa si affida oggi l’uomo se non alla scienza e alla tecnologia? E che cosa è capace di limitare la potenza della scienza e della tecnologia? La Terra vista con gli occhi della volontà di potenza della Tecnica e con il pensiero che riconosce che ogni Verità è crollata appare come il campo di conquista dell’esercito della Tecnica. Quando giungerà «la civiltà della Tecnica» forse l’uomo non sarà più quello che conosciamo ancora oggi. Almeno secondo Emanuele Severino. Emanuele Severino, Democrazia, tecnica, capitalismo, Morcelliana, 127 pagine, 12,00 euro

altre letture Le cronache di Narnia di C.S. Lewis sono state ben prima di Harry Potter e accanto al Signore degli Anelli dell’amico Tolkien, il fenomeno editoriale fantasy degli anni Cinquanta. La saga infatti affascinò milioni di persone e rimane tuttora uno dei libri più letti dal pubblico di lingua inglese. Il fascino esercitato da queste opere spinse molti piccoli lettori a inviare all’autore una serie di quesiti, cui questi volle rispondere, in molti casi, personalmente. Lettere ai bambini. Il magico mondo di Narnia nella corrispondenza coi giovani lettori (Edizioni San Paolo, 224 pagine, 16,00 euro) raccoglie un’ampia scelta delle lettere che Lewis scrisse in risposta a quelle inviate dai suoi numerosi fans; a loro Lewis volle svelare il significato della grande storia narrata nei suoi romanzi, e comunicare sentimenti ed emozioni dei suoi favolosi personaggi. Nelle appendici del libro è presente una sezione sulla pressoché sconosciuta serie televisiva e sui nuovi film. Le cattedrali

medievali sparse per l’Europa sono uno dei tesori più preziosi che i nostri antenati ci hanno lasciato in eredità. Anche l’osservatore meno attento prova un’intensa emozione quando si trova di fronte a una di esse. Facciate, campanili, sculture, capitelli, vetrate testimoniano di un’epoca nella quale l’uomo raggiunse uno dei punti più alti della sua parabola. Eppure – scrive Christian Jacq nel suo Il messaggio dei costruttori di cattedrali (Edizioni L’età dell’Acquario, 226 pagine,18,50 euro) – siamo abituati a confinare questi capolavori in una dimensione esclusivamente artistica e storica. Eppure essi parlano all’uomo a un livello assai più profondo perché racchiudono misteri e contengono simboli legati all’essenza stessa della vita spirituale.

La filosofia e la pratica dello zen, oggi così in voga in Occidente, derivano dall’insegnamento di un misterioso personaggio la cui vita e l’opera si collocano tra il V e il VI secolo dopo Cristo. Un personaggio tra i più indecifrabili, la cui vicenda Amanda Morelli cerca di ricostruire nel suo Bodhidharma (Red edizioni, 122 pagine, 8,50 euro). Le leggende su di lui sono talmente numerose quanto sono scarse le fonti storiche accertabili. Tra i pochi dati sicuri c’è la sua origine: proveniva da una famiglia nobile del sud dell’India. La sua filosofia arrivò in Cina, da lì in Giappone per poi dilagare nel mondo. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

GEORGES IVANOVIC GURDIJEFF FILOSOFO, SCRITTORE, TERAPEUTA, CONFERENZIERE, SI DEFINIVA “ESOTERISTA CRISTIANO”. LA SUA TEORIA E LE SUE PRATICHE, ELABORATE DOPO ANNI DI ESPERIENZE INIZIATICHE, AVEVANO LO SCOPO DI DESTARE LE COSCIENZE DAL SONNO LETARGICO PER RICONNETTERLE CON LA PROPRIA AUTENTICA NATURA, DIVINA E IMMORTALE. LA SUA FAMA SI DIFFUSE DOPO LA SUA MORTE, AVVENUTA SESSANT’ANNI FA…

Il Maestro dei risvegli di Marino Parodi i sono personalità enigmatiche, affascinanti e inquietanti, capaci di influenzare profondamente e addirittura trasformare tante vite: lavorando sottoterra come talpe, riescono alla lunga a orientare anche la cultura. Questo è sicuramente il caso di Georges Ivanovic Gurdijeff, morto sessant’anni fa, il 29 ottobre 1949 a Neuilly. Personaggio poliedrico e complesso al punto da rendere ardua qualunque definizione, in termini per così dire «professionali» - filosofo, scrittore, terapeuta, conferenziere, ma anche musicista -, amava qualificarsi come «esoterista cristiano» e «maestro di danze». La sua lunga esistenza - durata ottantacinque anni - è in buona misura avvolta nel mistero. Si sa che era nato nel 1864 ad Alessandropoli, nell’Armenia caucasica, regione prima soggetta all’Impero Ottomano e poi conquistata dagli Zar. Le restanti scarse notizie biografiche che precedono l’inizio della sua vita pubblica, risalente al 1912, si possono ricavare dal suo celebre libro Incontri con uomini straordinari (edito da Adelphi), opera in cui, mischiando realtà e fantasia, racconta tra l’altro i suoi nu-

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ma serie di viaggi iniziatici, insegnamenti di teologia e di medicina. Altro non è dato sapere della biografia di Gurdijeff, il quale, al di là di un’illustre finché si vuole ma pur sempre ristretta cerchia di iniziati, conoscerà fama assai maggiore successivamente al suo trapasso. Nel 1913, anno di inizio della sua vita pubblica, lo troviamo dapprima a Mosca e poi a Pietroburgo. A tale anno risale l’incontro col filosofo e teologo russo P.D. Ouspensky, altro personaggio di punta dell’esoterismo moderno, dal quale scaturirà una lunga e fattiva collaborazione. A incantare subito il «collega» russo, oltre a quello straordinario fascino magnetico che il misterioso caucasico non cesserà mai di esercitare su tutti coloro che lo incontravano, è la lucidità della visione di Gurdijeff, convinto della natura sostanzialmente illusoria e inconsistente della dimensione terrena, una visione tipica dell’Estremo Oriente al quale il nostro non cessò mai di rendere omaggio. Egli predicava la necessità assoluta di risvegliarsi dal sonno letargico attraverso la scoperta dell’anima, al fine di avviare una vita completamente nuova. Il carattere marcatamente pro-

Il suo insegnamento può considerarsi un severo apprendistato del corpo e dello spirito: comprende esercizi yoga, aspetti pitagorici, danze sufi, precetti cristiani e pratiche tratte da Ignazio di Loyola. Per far funzionare l’anima... merosi viaggi in Asia centrale, Persia, Turkestan, Monte Athos, Mongolia,Tibet, tutti paesi in cui a suo dire il futuro maestro ebbe accesso a biblioteche rare e ricchissime di insegnamenti iniziatici.

Durante questi anni decisivi per la sua formazione, Gurdijeff riferisce di aver intrapreso i vari viaggi in compagnia dei «cercatori di verità», un non meglio identificato gruppo di studiosi di varie discipline. L’iniziato riferisce ancora di aver trovato nel padre, figura centrale della sua vita, agiato proprietario di bestiame e ashokh, poeta e cantautore nella tradizione della cultura armena, il suo primo maestro; da lui Georges apprese affascinanti storie sui grandi popoli dell’antichità, su Dio, sulla natura nonché su ogni genere di «meraviglie misteriose». Il secondo e non meno decisivo maestro spirituale fu padre Borsh, arciprete della chiesa militare di Kars, la città in cui la famiglia si era trasferita a seguito di un dissesto finanziario. Il sacerdote impartì al giovane, che avviò presto un redditizio commercio di tappeti, per poi darsi alla sua lunghissi-

vocatorio della personalità e della pedagogia di Gurdijeff, inevitabilmente riflessi nella sua prosa, hanno causato non di rado vistosi fraintendimenti del suo pensiero, in particolare a proposito dell’anima. Il maestro armeno non ha infatti mai sostenuto che soltanto gli «eletti» o i «risvegliati» possiedano un’anima immortale (fraintendimento che tra l’altro si presterebbe per forza di cose a interpretazioni razziste). Egli sostiene invece che ben pochi, ossia, appunto, i «risvegliati», sono consapevoli di essere dotati di una anima immortale. L’immortalità è considerata da Gurdijeff un fatto «potenziale», nel senso che le straordinarie risorse che a essa ci conducono sono già presenti in noi, qua e ora: si tratta di scoprirle. L’insegnamento di Gurdijeff può considerarsi un severo apprendistato del corpo e dello spirito: comprende esercizi di yoga, aspetti pitagorici, danze sufi, precetti cristiani nonché pratiche tratte da Ignazio di Loyola. Su tale complesso sistema dominava il suo grande carisma personale. Il punto di partenza del complesso edificio consiste nel riconoscere la «nullità» della no-

stra personalità così come siamo abituati a concepirla, allo scopo di comprendere che «non vi è nulla da perdere», di sconfiggere così ogni paura, smettendo di «vivere come una macchina» per approdare a un più elevato stato di coscienza, alla consapevolezza della responsabilità. «Il modo migliore per cominciare a ricordare ciò che siamo veramente consiste nello smettere di atteggiarci a ciò che non siamo: inventiamo per nasconderci», per dirla con parole sue. Egli amava ripetere: «Prima di amare, prima di fare, occorre essere». Lo sviluppo delle nostre grandissime e sopite potenzialità dipende dalla volontà di comprendere l’interiorità. La nostra essenza è infatti divina. La nostra coscienza altro non è che una particella di Dio.Tale è il nucleo esoterico, essenziale a tutte le grandi religioni, le quali in fondo insegnano le stesse verità. Le differenze stanno a ben vedere soltanto nei riti, scelti dai diversi fondatori sulla base del grado di consapevolezza raggiunto dai popoli destinatari dei vari messaggi religiosi.

La metodologia di Gurdijeff, i suoi «esercizi» spesso complessi e impegnativi, ma tendenzialmente stimolanti - non a caso spesso ereditati dalla psicologia più avanzata, si pensi soltanto al famoso «enneagramma» di probabile provenienza sufi, riscoperto e rielaborato dal maestro armeno - «mirano a far funzionare l’anima, esattamente allo stesso modo in cui un pittore si avvale di colori e disegni per dare vita alla propria arte», come spiegava la scrittrice e giornalista americana Margaret Anderson, illustre allieva di Gurdijeff. Aggiungendo


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re le altre tre, sviluppando armonicamente tutti gli aspetti dell’essere. Questo senza chiedere al discepolo di rinunciare all’esistenza e di rinchiudersi in un monastero, ma, come insegnano i sufi, parafrasando il Vangelo, al fine di imparare a «essere nel mondo ma non del mondo». Senza mai menzionare esplicitamente una Quarta Via, Gurdijeff, nell’altra sua opera principale, Racconti di Belzebù al suo piccolo nipote, parla piuttosto di antiche vie basate su «fede», «speranza» e «amore», impulsi di origine divina presenti in maniera distorta e assai annacquata nell’uomo attuale. L’immaginario profeta Ashiata Shiemash, personaggio centrale del libro, scopre una nuova via basata sulla «coscienza morale obbiettiva», anch’essa di origine divina e tutta da riscoprire e risvegliare.

Spiegava una sua allieva, la scrittrice americana Margaret Anderson: “Nel momento in cui l’illuminazione penetra in te come un frammento di pensiero originale, ti pare che l’intero mistero dell’universo si sia svelato” che la «grande scoperta» dell’anima, sperimentata dai suoi allievi, «sembra talmente semplice da farti esclamare: come ho fatto a non pensarci prima?! Tuttavia, nel momento in cui l’illuminazione penetra in te come un frammento di pensiero originale, ti pare che l’intero mistero dell’universo si sia svelato». I primi passi verso questa libertà sono l’autosservazione e la conoscenza di sé. Il sistema di Gurdjieff inizia proprio con l’osservazione «scientifica e neutrale» di sé.

Critico implacabile nei confronti di ogni esistenza impostata su basi «normali», fiero profeta di un profondo risveglio della coscienza, Gurdijeff fece propria la metafora del «carcere», allo scopo di descrivere la condizione di sonno letargico in cui vede sprofondata la stragrande maggioranza dell’umanità, parafrasando il celebre mito platonico della caverna. L’uomo vive cioè tenden-

zialmente come un recluso. Tuttavia a tutti è possibile evadere: il primo passo consiste però nella consapevolezza della propria condizione di recluso. Proprio a causa di tale torpore l’uomo si ritrova a vegetare, privo di finalità: «Finché non abbiamo definito il nostro scopo, non siamo neppure capaci di agire nel mondo». La via di Gurdjieff è una via religiosa nel senso più propriamente etimologico del termine: religare, cioè riconnettersi, ricollegarsi alla propria autetica origine e natura. Negli ambienti gurdjieffiani l’applicazione dell’insegnamento viene chiamata «il Lavoro». Gurdjieff chiama questo percorso «Quarta Via», contrapposta alla via del «fakiro», centrata sul corpo; a quella del «monaco», focalizzata sulle emozioni; e a quella dello «yogi», esclusivamente orientato in direzione della mente. La Quarta Via invece si propone come la «Via dell’Uomo Astuto», capace di riassumere ed equilibra-

I primi «gruppi di lavoro» fondati da Gurdijeff tra il 1915 e il 1916, animati dalla presenza di intellettuali, esponenti della nobiltà e dell’alta borghesia, nonché uomini politici e finanzieri, si rivelarono un successo. A seguito della rivoluzione russa, il maestro si trasferisce dapprima a Istanbul con un gruppo di fedelissimi, per poi tenere una serie di applauditissime conferenze a Berlino, Londra e Parigi. Se ovunque il singolarissimo personaggio farà discepoli tra personaggi di spicco in ogni campo del sapere e della società, ciò è vero soprattutto in Inghilterra, dove fra tanti altri diventeranno suoi allievi gli scrittori Bernard Shaw e Orange, lo psichiatra Young (perfino C.G. Jung si dichiarò suo convinto estimatore) e Katherine Mansifield. Ecco la sua testimonianza: «Ho deciso di fare finalmente tabula rasa di tutto ciò che c’era di superficiale nella mia esistenza, di ripartire da capo per riuscire a giungere a quella vita reale, autentica e piena che sogno. Venire qui, chiedere al dottor Gurdijeff se era disposto ad accogliermi, permettendomi di soggiornare nella sua comunità per qualche tempo fu il primo salto nel buio. Qui è un vecchio castello bellissimo, circondato da un parco meraviglioso. Siamo circa una quarantina, soprattutto russi e ci dedichiamo a lavori di ogni genere: cura del bestiame, giardinaggio, danza. Occorre scoprire il significato profondo della realtà, invece di limitarsi a parlarne. Il dottor Gurdijeff è assai diverso dall’uomo che mi aspettavo di incontrare. Egli corrisponde veramente a ciò che si desidera trovare in lui. Mi sento piena di fiducia nei confronti di questo maestro e dei suoi metodi. Perché non abbandoni tutte le tue occupazioni in Inghilterra e non ti trasferisci qui anche tu?». Così scriveva Katherine Mansfield al marito; la celebre scrittrice sarebbe morta il giorno stesso dell’arrivo del marito al Prieuré de Avon (Priorato di Avon), la comunità fondata da Gurdijeff nel 1922 in Francia, presso Fontanebleau. Il centro, trasferitosi lì dopo esser nato in Inghilterra nel 1917, continuerà la sua attività sino al 1930, anno della sua chiusura avvenuta a causa dell’eccesso di lavoro e della carenza di collaboratori qualificati. Al Prieuré, intellettuali, scienziati e nobildonne, ma anche individui di ogni classe sociale, mungevano vacche, spingevano carriole, danzavano, si davano a pesanti lavori fisici, allo yoga e alla meditazione, accontentandosi di poche ore di sonno e di scarso vitto, sotto la supervisione di un maestro dai metodi burberi. La stragrande maggioranza dei suoi allievi ricorderà tale periodo come una fase estremamente formativa e felice dell’esistenza. Del resto, la selezione per essere ammessi al Prieuré era assi rigorosa: il «superiore» accettava soltanto coloro i quali, a suo insindacabile giudizio, erano in grado di superare la prova. Gurdijeff trascorse gli ultimi anni della sua parabola terrena a Parigi; lì organizzò vari gruppi di lavoro, recandosi spesso negli Stati Uniti dove i suoi corsi incontravano grande seguito. Nella capitale francese, il maestro fu soprannominato «Monsieur Bon Bon» per l’abitudine di regalare dolciumi a tutti i bambini che incontrava. Pur avendo guadagnato parecchio grazie ai suoi corsi, conferenze e terapie, preferiva un tenore di vita modesto per poter soccorrere folle di indigenti, mostrandosi in particolare generoso nei confronti di artisti in difficoltà. I funerali, celebrati nella cattedrale ortodossa di rito russo della capitale francese, videro la partecipazione di una folla immensa. Dichiarò il celebrante: «Mai, nel corso della mia lunga esistenza, mi è capitato di trovarmi di fronte a una emozione così intensa, di percepire una atmosfera così soprannaturale, sapendo che l’esperienza era condivisa da tutti i presenti».


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i Alberto Arbasino, ormai alla soglia degli ottant’anni, si può solo dire che è un venerato maestro. «Venerato Maestro», è la terza soglia fatale, ultimo momento dialettico della carriera intellettuale che dallo stesso Arbasino è stata ritmata nelle tre fasi di «promettente talento», «solito stronzo» e, appunto, venerato Maestro. D’altra parte a quale scrittore vivente, se non a un maestro venerato, si dedica un Meridiano Mondadori, anzi due? Il secondo volume con gli scritti di Arbasino uscirà a gennaio, ma in questo primo intanto ci sono Le piccole vacanze, alcuni racconti, L’anonimo lombardo, il primo Fratelli d’Italia, quello del 1963, e Certi romanzi. Venerato Maestro dunque. E del resto intorno a chi, se non a un maestro venerato, s’adunano così fitte schiere di ammiratori, di plauditori, di imitatori, di seguaci, di lettori indefessi, di affascinati, di promettenti talenti e, diciamolo, di soliti stronzi? D’altra parte è così maestosa l’opera di Arbasino, così confidenziale la sua monumentalità che entrare e aggirarsi nel cantiere sempre aperto del suo ambito d’osservazione dona un senso di vertigine e di empatia, come se Arbasino ci donasse attraverso le sue pagine lo sguardo caleidoscopico della sua sensibilità così ironica, così coltivata. Un cantiere sempre aperto dunque dove s’allargano le basi di un edificio che sempre più s’innalza sotto la spinta d’un’architettura sontuosa senza essere ridondante, piena di rimandi, di sottotesti, di allusioni e citazioni. «Navigando tra i libri di Arbasino - ha scritto Paolo Mauri su Repubblica - il lettore scopre presto che ogni libro sfocia nel successivo, come un’affluente che si getti nel fiume più grande». Di questo modo di raccontare, di rappresentare, di osservare, del grande reportage antropologico che è l’opera di Arbasino, Fratelli d’Italia (Feltrinelli 1963, Einaudi 1976,Adelphi 1993) è la creatura più esemplare oltre a essere il libro che lo accrediterà e che gli spalancherà le porte del Gruppo 63. «In esso l’autore cerca di conciliare i due corni del suo problema, cioè di portare, da un lato, a un’espansione inaudita l’accumulo, il descrittivismo, l’elenco; ma di assicurare, dall’altro, un minimo di struttura, di architettura, di criterio distributivo tra questi cerchi e gironi di una sua “commedia” all’altezza dei tempi» come ha scritto il critico Renato Barilli. A Fratelli d’Italia segue nel 1964, Certi romanzi (Feltrinelli, Einaudi 1977), sorta di journal che ripercorre i motivi teorici che stanno dietro Fratelli d’Italia. Il metodo di Arbasino è sempre lo stesso e si configura nell’osservazione beffarda e distaccata della realtà, un’osservazione piena di ironia, di dandismo intellettuale, diciamo pure, di snobismo. Una critica che non costruisce né distrugge - si è detto - ma è strumentale a un ipertrofico sfoggio di erudizione, un accumulo sfrenato di cultura, anche questo soggetto a ironia e sbeffeggio.

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Insomma nella prosa di Arbasino va preso sul serio solo l’impegno a non prendere sul serio alcunché, un distacco costruito e voluto, che fa di questo scrittore un’elegante sismografo del costume. L’occhio interiore di Arbasino prima s’avvicina al suo oggetto d’osservazione, pare addirittura parteciparvi, per poi ritrarsene con una battuta, come se nulla importasse. Eppure si può obiettare a un venerato maestro che negli ultimi anni, da Paesaggi italiani con zombi (Adelphi, 1998) dove Alberto Arbasino veste i panni del censore dell’Italia contemporanea, il dandy ha perso quella sua levigata levità, che quel suo

Due volumi dei Meridiani Mondadori celebrano lo scrittore

Arbasino Graffiti di Riccardo Paradisi

Sismologo del costume, reporter dell’antropologia, il suo metodo si configura nell’osservazione beffarda della realtà sostenuta da un accumulo sfrenato di cultura, a sua volta soggetto a ironia. Una cifra che conta schiere di ammiratori e detrattori

ironizzare sublime sulle mediocrità italiane, sul culturame prezzolato come sulla casalinga di Voghera travolta dalla postmodernità televisiva s’è fatto via via più acuminato, più risentito, più velenoso? Pietas per questa povera Italia, ci mancherebbe, Arbasino non ne ha mai avuta, passione per l’impegno civile tanto meno, ma insomma non solo viene il sospetto che Pasolini avesse ragione a dire che Arbasino avesse mutilato i suoi sentimenti ma che la sua distaccata ironia da entomologo settecentesco si sia trasformata con gli anni in asettica ferocia. Le pagine di Zombi sono rivelatrici: «Trentenni e quarantenni […] ingozzati e rimpinzati di un “junk food”di comici cattivissimi e camorristi fichissimi, cantanti e cannibali e buonisti, stilisti e rappers pulp e “in concert” (ma “fuori dal coro”, come tutti) per cause umanitarie con lancio di video e cyber di models e killers multimediali e multiculturali e multimiliardari politicamente corretti fra il conformismo della sniffata e della sfilata […]. Gli intellettuali in difesa del “casino”e del“macello”, sotto gli spray sempre più artistici di“KILLERS!”e“FUCKYOU!”e naturalmente “SHIT ON YOU!”…» (Paesaggi italiani con zombi, Adelphi, Milano, 1998, p. 244). E ancora: «Forse per la prima volta, la vecchia generazione non è più affatto austera, severa, dabbene, perbene.Vive di provocazioni e trasgressioni praticamente dalla nascita. La sua parole più frequente e automatica è sempre stata “vaffanculo”» (Zombi, p. 396). E anche: «il popolo della notte viene celebrato dai media alla moda alla faccia di quei coglioni che lavorano e prendono i treni dei pendolari» (Zombi, p. 237). La critica di Arbasino è poi

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spietata verso la nuova estetica del «degrado metropolitano», che trova i suoi fondamenti nella «liturgia delle provocazioni in serie, incominciando dai settori pubblicitari e modistici; […] le esaltazioni carnevalesche e cannibalesche e anarchiche per qualunque“devianza”- purché giovanilistica, demagogica e a carico della collettività - contro il “sistema” […]; la simpatia sistematica per tutti gli irregolari e gli arrestati, contrapposta a una decisa mancanza di solidarietà per le vittime dei loro reati. Soprattutto se povera gente comune, schiacciata dalle prepotenze e impossibilitata a invocare il Rock, il Rap, il Rave, il Pulp, il Noir» (Zombi, p. 239). Pagine dense, di indignazione estetica più che altro, come se il mostruoso non producesse dolore morale soprattutto. E dove può venire il sospetto che quelli che fanno i pendolari siano veramente dei coglioni. L’Alberto Arbasino raccontato da Andrea Tarabbia, uno di nazione indiana, suscita del resto qualche sospetto. «Due mattine con Arbasino, martedì 3 e mercoledì 4 maggio, all’Università di Bergamo: Discorsi intorno alla letteratura e alla musica e Discorsi intorno all’arte e al rap. Un’aneddotica cazzona e cazzeggiante, profondamente snob, figlia del dolce far niente e di un cospicuo conto in banca e della convinzione di essere uno spartiacque per l’Occidente. Stare lontano dai noccioli delle questioni, dai possibili approfondimenti e dalle ripartenze. Arbasino non parla della letteratura, della musica, dell’arte in generale; Arbasino si parla, motteggia, si sofferma sulla grana dei vestiti, sul chi-va-a-letto-con-chi, snocciola nomi e cognomi ed episodi inutili. Arbasino, appunto, sta intorno alla letteratura, alla musica, all’arte.

Arbasino ha condotto la vita, belmondo a parte, che ogni essere umano vorrebbe vivere: Milano, Roma, Parigi, Londra, New York, Berlino. Ha conosciuto e frequentato il Novecento. Ma il punto, secondo me, sta tutto qui: questo Novecento che lui ha attraversato, a cui ha offerto Brunelli di Montalcino e ostriche e sigari cubani, Arbasino non l’ha fatto, l’ha conosciuto e l’ha frequentato, con quel suo fare civettuolo… Ma ci sono personaggi che stanno al centro di tutti i vortici eppure con le cose che effettivamente fanno riescono, loro malgrado, a rimanere marginali, a non uscire da una forma di epigonismo, a non essere mai decisivi. Arbasino propina un’idea di culturachiacchiera da bar, di nullafacenza. Come ho detto: cazzeggio. A me è sembrato un parassita, altro che, come dice lui di sé stesso, l’erede di Gadda, stilisticamente parlando il suo continuatore».Anche il settimanale ciellino Tempi definì la sua opera «un vuoto esercizio di sputo sul mondo». C’è chi lo ha difeso subito: «È un osservatore. Di vizi, tic, manie, costumi e malcostumi italici. E se poi gli viene da sputarci sopra non sarà solo colpa sua». E per carità certe critiche possono anche essere il frutto del malanino. Ma un maestro, venerato per giunta, può anche consentire che qualcuno si permetta ancora di dirgli che in fondo è rimasto il «solito stronzo». D’altra parte non è questo l’inconfondibile segno che si è ancora vivi e vegeti e suscitatori di odi oltreché di adorazioni, malgrado si sia già dentro il monumento d’un Meridiano?


video Lettera

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tv

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aperta a Barbara D’Urso di Pier Mario Fasanotti entile Signora Barbara D’Urso,mi sono occupato già della sua trasmissione, Domenica 5 (ovviamente su Canale 5), e non sono stato granché indulgente, a parte un elogio alla sua avvenenza. Ora torno a lei e a quel caravanserraglio che è il suo show domenicale proprio perché lei si sente in dovere di spiegare, o giustificare, lo stile (parola inadatta, lei converrà) di quanto vediamo sullo schermo, presente lei, così dinamica come del resto impongono i canoni moderni a proposito delle donne in carriera, in continuo sudore adrenalinico per l’apparire dinanzi a milioni di persone, e questa è una sorta di droga che ha, come lei saprà, inevitabili effetti collaterali. Oggi, a seguire una certa tv, si potrebbe arguire che la vita dev’essere vissuta ad altissima voce, che la vita, per non essere miserevolmente uguale a tutte le altre, deve spiattellare turpiloqui, contese

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verbali, risse su ciò che i napoletani chiamano «cose e’ niente», sciocchezze insomma. Lei sostiene, con una «sociologia» che è in sintonia con chi le dà lo stipendio (Mediaset): «Non sono io che sono trash, è l’Italia che è brutta». Che sia involgarito il nostro paese è un fatto assodato. Ma, devo proprio farglielo notare, ciò dipende anche dal tono da bar, o da bettola, che le reti Mediaset spesso fanno salire sul palco conferendogli dignità di spettacolo. Molti non lo credevano possibile, ma ci hanno allevato così. E poi, chi l’ha detto che chi ha responsabilità televisive debba frugare per forza nella spazzatura comportamentale dell’Italia? Sì, lo so, questa è un’operazione facile, quasi automatica, è il risultato di un terribile incontro/scontro tra noi terrificati di stare indietro e una gestualità e un fraseggio da suburra. Perché compiacere sempre ciò che sta in basso? Lei mi dirà che

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l’arte, come annotava uno scrittore francese, altro non è che uno specchio portato per le strade, e quindi riflette ciò che ha attorno. Ma io obietto: perché questo «specchio» lei lo porta sempre nelle stesse vie? In Italia ci sono tante strade, mi creda, e quelle che conosco o immagino io magari sono quelle più vere, dove non si schiamazza e non si offendono le donne. Certo, lei ha tirato in ballo un episodio di cronaca tra i più tristi, ossia lo stupro di Guidonia. Ma come vigile che regola il traffico verbale televisivo, è troppo indulgente. Non è una consolazione l’appoggio fornitole da Alessia Marcuzzi che sul settimanale Chi ha dichiarato: «Il programma riserva sempre molte sorprese ed è uno specchio della nostra società».

Ma scusate, care signore, perché avete questa fatale attrazione verso gli specchi? Anche Pasolini descrisse il degrado in due mirabili romanzi, ma con la mediazione della scrittura, con quelle geniali intuizioni e con quella carica profetica che erano ben ficcate nel suo cervello. Ora non pretendiamo che lei debba raggiungere vette letterarie. Ma le faccio notare che c’è anche un fraseggio pacato che, non per questo, è o deve essere noioso, ammuffito, didattico, piatto. Sì, lo so: oggi scegliere il decoro e la ricchezza affabulatoria della via di mezzo può risultare faticoso. Tornando agli «specchi» non crede che basti l’osceno Grande Fratello, esaltazione del niente? Recentemente è stato pubblicato dalla Coniglio Editore un

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libro intitolato Crash Tv. A proposito dei reality leggo: «L’oggetto (ospite, intervistato, «fuoriuscito» dai reality che sia) è condannato-costretto a esternare ciò che non vuole, ciò che non gli appartiene, ciò che terrebbe al buio, ciò che vorrebbe o potrebbe essere e ancora non è…». Altro che specchio! Qui siamo al copione imposto o auto-imposto. Mi sa che alcuni ospiti vengono da lei con la conformistica ambizione di «dare spettacolo». Ma spettacolo di che? Mi creda: le urla e gli accapigliamenti sono cose vecchie. È un po’ come l’inquinamento visivo: le città sono così illuminate che per vedere il cielo si deve andare in campagna. E le stelle, lei sa, sono spesso, molto spesso, più affascinanti di un’insegna al neon.

dvd

WIKIPEDIA FUORI DALLA RETE

VIDEOGIOCHI OPERA OMNIA

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e Wikipedia vi riesce ormai indispensabile, ma talora la vosta passione enciclopedica si impiglia in una rete bizzosa o assenteista, non c’è migliore soluzione che consultarla anche a internet spento. Obiettivo raggiungibile in poche mosse e massimo della soddisfazione. Occorre scaricare e installare un software, dal nome complicato e dagli esiti snelli: Okawix. ll pro-

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ispettoso degli ultimi dettami che vogliono al centro della rivoluzione culturale digitale il sapere partecipativo, il Dizionario dei videogiochi è un progetto web che assomma competenze e passioni di centinaia di esperti dell’arte ludica. In ordine alfabetico, scorrono nelle pagine del progetto numerosi titoli che hanno fatto la fortuna di console antiche e moderne, e poi na-

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“Okawix”, programma gratuito per consultare la nota enciclopedia anche senza connessione

Nasce secondo le modalità del sapere partecipativo un “Dizionario” firmato da esperti

”La storia del cammello che piange”, eccezionale racconto dalla Mongolia di Falorni

gramma permette di importare il database, quello wikipediano come un altro di nostro interesse. Basta attendere che la procedura si compia, e la compulsazione dell’intera enciclopedia (attualmente valutata in un giga) sarà possibile attraverso lo stesso software che l’ha riversata sul nostro pc. Altrettanto efficiente e veloce l’opzione mobile,che porta sui cellulari dotati di sistema operativo Symbian S60 il database dell’enciclopedia libera per antonomasia. Per tutti gli utenti in possesso di connessioni fallate o mancanti, l’appuntamento è su okawix.com. Gratuito e di facile accesso, il servizio segna un passo avanti nella filosofia web 2.0.

turalmente anteprime, novità e curiosità raccolte in giro per il web. Preziosa risorsa per quanti se ne occupano in modo professionale e anche per semplici habitué del joy-pad, il Dizionario è una risorsa gratuita e libera, che si avvale però di precisi schemi compilativi atti a dare all’opera rigore e omogeneità. Presenti trame, personaggi, una breve recensione, copertina, e informazioni sulla casa di produzione di ciascun videogioco, il progetto è in evoluzione e si candida a diventare in breve tempo il punto di riferimento del mondo dei games.

commenta così l’esperienza nel deserto del Gobi, Mongolia del Sud, che gli ha permesso la realizzazione di uno dei più bei documentari a partire dal secondo Novecento, La storia del cammello che piange. Il regista racconta con limpidezza e poesia d’altri tempi le traversie di un’autentica famiglia di pastori alle prese con una terra ostica e avara, che li costringe a continue peregrinazioni in cerca di acqua e cibo. In parallelo, sono protagonisti anche una cammella e il suo piccolo albino, rifiutato appena dopo la nascita e poi riaccolto in una scena dai vertici emotivi ineguagliabili. Capolavoro misconosciuto, in Italia vergognosamente ignorato.

a cura di Francesco Lo Dico

UN CAPOLAVORO NEL DESERTO ono rimasto completamente conquistato da loro, io non avevo niente da dirgli ma ero fruitore e spettatore di questa grande cultura. E il film vuole raccontare l’animo, il modo di sentire di queste persone, non vuole essere un film di denuncia di una cultura da proteggere ma solo mostrare la loro vita e il modo di risolvere i problemi all’interno del gruppo». Luigi Falorni


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poesia

Alda Merini: caos e ispirazione di Francesco Napoli i sono in letteratura almeno due generi di poeti: quelli che hanno fondato la loro presenza sui testi, e sono anche quelli più riconosciuti dalla critica, quelli che danno fondamento scientifico all’attività di chi li legge perché si misurano sul medesimo terreno normativo della parola, tipologia che prevale nella nostra letteratura. Poi ci sono i dissipatori, coloro i quali non hanno espresso che in misura minima attraverso i testi la loro azione ma invece hanno dilapidato un talento e una volontà di scrittura diluendola nell’insieme complessivo della loro esistenza. Hanno dissipato, per l’appunto, la loro attitudine e la loro scrittura in rivoli di vita vissuta in modo decisamente controcorrente obbligando a inseguirli soprattutto su questo terreno, terreno per sua natura infido e per questo molto poco amato dalla critica. Il maestro massimo di questo tipo, attenendosi al solo Novecento, è di certo Dino Campana. Esiste poi un possibile terzo tipo, molto prossimo a quest’ultimo, quello di chi dissipa un’innata propensione poetica in un profluvio di scrittura che sfugge al suo stesso controllo e rende problematico un solido approccio in quanto la materia è talmente vasta da creare confusione e obbligare innanzitutto a un severo lavoro di cernita. In quest’ultima tipologia, posta al mezzo tra il poeta scientificamente probato sui testi e il dissipatore, si può classificare l’unico poeta forse davvero a se stante, non appartato sia ben inteso, anzi fortemente inserito nelle cellule vive della comunicazione, non solo letteraria, di questo paese, e della più recente poesia italiana, Alda Merini (Milano 1931-2009).

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IL TESTAMENTO Se mai io scomparissi presa da morte snella, costruite per me il più completo canto della pace! Ché nel mondo, non seppi ritrovarmi con lei, serena, un giorno. Io non fui originata ma balzai prepotente dalle trame del buio per allacciarmi ad ogni confusione. Se mai io scomparissi non lasciatemi sola; blanditemi come folle!

Alda Merini (da Paura di Dio)

Fu Giacinto Spagnoletti a scoprirla, giovanissima, inserendola nel 1950 nella sua antologia Poesia italiana contemporanea e poi ad accogliere in una collana da lui diretta per Schwarz Editore la prima raccolta, La presenza di Orfeo (1953), dove spiccano le due intense liriche dedicate al grande amore giovanile, Giorgio Manganelli, come quella eponima («giacerò nell’informe/ fusa io stessa, sciolta dentro il buio,/ per quanto possa, elaborata e viva,/ ridivenire caos…») e La notte. Da subito la sua poesia si dispone su due corde solo apparentemente opposte, quali eros e misticismo, ma in realtà le dimensioni più autentiche della Merini, e che si ripresenteranno, discrepanti e distanti, lungo l’intero arco della sua opera. Subito dopo pubblica la seconda raccolta, Paura di Dio (1955), cambiando editore, e ne avrà tantissimi nella sua vita. Non è poesia raffinata e colta, certo, ma si coglie da subito lo slancio vitale verso la misura del metafisico e quell’insistita frequenza del sacro che la connoterà di lì in avanti. La fede è un faro dei poveri, disse in un’intervista televisiva, e così l’avverte anche lei, nata in una famiglia di modeste condizioni. Ci sono dissonanze tematiche e contrasti piut-

tosto evidenti, con bagliori quasi tragici, «Queste folli pupille/ troppo aderenti al ciclo dell’Amore/ spengile Tu, Signore», e slanci sfioranti il misticismo, «o implacabili ardori riplasmati/ la già morta materia: in te mi accolgo/ risospinta dagli echi all’infinito». Nello stesso anno, poco prima di un lungo silenzio coincidente con il primo ricovero psichiatrico, pubblica Nozze romane, dove si coglie l’impossibilità della giovane Merini di sottrarsi all’angoscia e l’impotenza di una soluzione razionale, primi segni della futura follia: «Quando l’angoscia spande il suo colore/ dentro l’anima buia/ come una pennellata di vendetta/ sento il germoglio dell’antica fame» è il folgorante incipit di un testo alquanto esplicito col senno di poi.

Alle soglie degli anni Ottanta, liberatasi dall’internato, si ritroverà sola e dimenticata. Furono Maria Corti e l’ospitalità su Il cavallo di Troia diretto allora da Paolo Mauri a ridarle fiato e presenza. Su consiglio dei medici si era abituata a scrivere di getto e la sua poesia da allora risente di questa indicazione terapeutica, al punto di scegliere l’aforisma come sistema elettivo della sua creatività e al paradosso di dettare versi per telefono, irrisa per questo da tanti suoi colleghi. Il silenzio si rompe dunque con la pubblicazione di trenta testi selezionati dall’autrice, e da Maria Corti, per la rivista, prescelti in un corpus ben maggiore ma troppo frammentario e poco riflessivo, obbligando la curatrice a un discernere e a un’assistenza convinta e amorevole di lì a venire. Alda Merini si riaffaccia con prepotente originalità alla ribalta poetica italiana e si risposa con Michele Pierri, discreto poeta pugliese, che segue a Taranto. Scrive e pubblica con una certa abbondanza, ma stanno ritornando nuvole sulla sua vita, come si legge in un testo che suona, con misure compositive molto prossime a quelle d’esordio, «Tu, anima, a volte mi sospingi in avanti/ ancora perché io cammini da sola,/ come un bimbo che esiti a partire,/ e io cigolo come l’onda». Dopo un secondo ricovero, pressata da una vita tanto disordinata quanto ribelle alle convenzioni, Alda Merini si riaggancia alla nostra letteratura. Avrà altri sbalzi, ma il demone orale, quasi incontinente, si è impossessato del suo fare. Un’ultima impennata all’altezza della Volpe e il sipario (1997), raccolta segnata da un acceso contrasto vita vs morte dove l’amore per la prima componente del binomio è tutta in una «vita goduta a dispetto di quello che vanno dicendo sul manicomio», come disse in un’intervista del 1994. La pacatezza critica sull’opera di Alda Merini, già invocata a ragione da Pier Mario Fasanotti proprio sulle colonne di liberal martedì scorso, ripartirà, ne son certo, soltanto quando, spenti i riflettori sul personaggio, la statura dell’artista sarà più distinguibile dai suoi oggi ancor confusi contorni.


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il club di calliope SONETTO MUTILATO (Gole dell’Alcantara 1960: a Tano C.) Era un silenzio d’acque e di crateri - sfero perfetto senza turbamento tra i prismi di basalto era fulgore la vita nome di verità amore liquida rima in forma di sonetto a giochi d’acqua nel complice duetto. Sul fiume d’improvviso gli sparvieri fu lava incandescente rotazione d’ere a passo di soldato scrittura di tempesta il gorgogliare - scissura salendo il greto della mutazione. Notte fonda alla foce tra muraglie d’ossidiana sonetto mutilato. Perso. Maria Attanasio

IL LATO GIUSTO DELLE COSE IN FORMA DI AFORISMA in libreria

di Loretto Rafanelli icola Vacca nel suo recente libro di poesia (Esperienza degli affanni, Edizioni Il Foglio, 82 pagine, 6,00 euro), evidenzia una spiccata vocazione all’aforisma. La sua poesia è una moltitudine e un accavallarsi di aforismi e si rimane colpiti dalla sequenza di versi che giungono come una punta acuminata e paiono come arguti e incisivi graffi ai luoghi comuni e alle molteplici banalità che ci circondano. Versi che tuttavia non cedono ad alcuna supponenza e neppure trascendono in sicurezze eccessive di tipo sapienziale o ideologico, perché piuttosto il poeta rimane ancorato a quel «buonsenso» che dovrebbe reggere le sorti del nostro vivere. E di questa serie di testi-aforismi, risulta necessario dare un piccolo

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Ma nell’aforisma di Vacca, proprio perché poeta, non vi è alcuna traccia di quella freddezza spoglia e distaccata che anima tanti autori del genere, il suo percorso è più «umano» e comprensivo delle proprie e altrui debolezze, c’è infatti qui anche la ricerca del «lato giusto delle cose», nel senso semplice e migliore, cioè l’attenzione a ciò che si può raggiungere per un più sereno e civile vivere comune. E allora questo testo di Nicola Vacca, giornalista e critico letterario, risulta quasi un piccolo e prezioso libro delle ore, una plaquette che fin dal titolo, Esperienza degli affanni, evoca una misurazione, quasi chirurgica, di una condizione. E scorre come una amara melodia, efficace nella sua denuncia di estraneità e di collasso in cui viviamo, perché

L’“Esperienza degli affanni” di Nicola Vacca è quasi un piccolo e prezioso libro delle ore, dove si registra, con pacatezza e buonsenso, l’estraneità che ci circonda florilegio: «Dentro l’oscurità delle cose/ cerchiamo la nostra stessa ombra»; «Non capiremo mai la fine/ in cui precipitiamo/ se continueremo a bruciare/ l’intelligenza delle cose da donare»; «È una questione di millimetri/ l’armonia tra il palpito e l’istante»; «È agghiacciante il silenzio/ di un altro secolo di oscurità»; «Le parole sono sfinite/ perché forse si ama troppo poco»; «Nel bagliore del giorno/ siamo le sentinelle del buio». Il gusto per l’ossimoro è qui evidente, cioè il gusto per la figura che è poi, crediamo, il motore dell’aforisma, quel chiaroscuro che dà il tono del quadro.

l’autore è uno di quei poeti che ama guardare il volto ravvicinato di ciò che ci circonda, e trarne quindi le dovute indicazioni. La realtà gli è compagna e gli produce immagini, forti emozioni e amarezze (dalla bomba alla stazione di Bologna del 1980, ai terremotati e alla loro disperazione). È anche un libro assai «composto» quello di Vacca, senza eccessi o lirismi fuori posto, c’è una ricerca di esattezza che lo porta a definire un dettato preciso, geometrico quasi, ma pure ampio e articolato, vivace ed emotivo, certamente un testo che rimane entro i limiti di una vigile e lineare lingua.

UN POPOLO DI POETI Imparo una nuova lezione, che passa come sabbia nella clessidra. Le ore si disfano lente, luna dopo sole dopo luna. Le guardo nella luce dell'alba, la mia anima un campo riarso che attende la pioggia a fecondarlo. Il pensiero del frutto mi rende paziente. Metto insieme le parole, in un lungo filo senza fine che ci lega in questo vuoto, e porta al fuoco. C'è anche dove non si vede, si fa fatica ad accettare. Toglie la fame e il sonno, confonde il giorno e la notte, il cielo e la terra, me e te, pesci senza branchie nella corrente della bassa marea, governata da una luna sempre uguale da secoli. Guardo le nuvole spinte dal vento, sembrano piume bianche nel cielo scuro, e portano un messaggio che solo io posso capire. Antonella Berni

Il cuore gonfio di fragili Cere il cuore smontato Dall’amore si sfrange Sulle pietre della via Stretta che porta al condominio Della speranza al suolo fragile Di nulla amore Che lasci e dici di no A me al mondo. Remo Marchi

Ho preso i miei ricordi ne ho fatto una storia densa da caffè, che fosse tua nelle tue mani se tu vai via non è l'amore che va via la tua faccia muore nel mio corpo senz'allegria è vero, e affoga nel palato un sapore ingrato come di bugia; solo la pioggia applaude veramente il tuo saluto non dovevi andartene non dovevi rovesciare il recipiente ma se tu vai via non è l'amore; che se ne va è la mia storia. Macina Gregorio Boschetti «Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

i provi, per una volta, a scivolare dentro la spettacolare mostra La pittura di un Impero, come si scivola dentro una tiepida piscina termale, o entro la calda matassa essudante d’un bagno turco orientale. Perché questa sembra l’attitudine giusta, favorita anche dall’allestimento avvolgente e materno dei curvi sacelli addobbati da Luca Ronconi e Margherita Palli. Così, lasciandosi accalappiare da questi calcinati frammenti d’affresco senza tempo, quasi fossero dolci murene che s’appendono ai nostri occhi e ci trascinano giù, nel loro gorgo conciliante, o innocue sirene stregate da Ulisse, che c’incatenano volandoci intorno, con dolci canti rasserenati, accalappiandoci ad apertura di sipario (così ha del resto voluto il grande uomo di teatro: che si varcasse una grigia cortina, per entrare in questa sorta di fiume-lete del tempo senza-tempo, che ha ritrovato i suoi colori sbiaditi ma vivi). Lasciarsi colmare da questo rannuvolato tepore corporeo, senza voler sapere e imparare troppo, senza badare eccessivamente alle pur utili e stringate didascalie, che provengono da un esperto indiscusso, come Eugenio La Rocca, e che parlottano nel sottofondo di primo stile, terzo stile, Villa Farnesina o Costantino e Teodosio, encausto o Parrasio. Lasciarsi andare allo spettacolo muto e insieme musicale, di questa davvero impronunciabile e sconvolgente pittura, che ha una forza che fora i secoli, come una trivella e li sgretola, ridicolizzandoli, ma che pure manifesta e promana una gentilezza leggera, leggiadra, come quelle ninfe che han perduto il calzare e si librano nel vuoto della corsa. Pittura quasi smaterializzata ma pungente, che par volare come un pavone misterioso, per queste stanze finalmente ammutolite e posarsi via via sui supporti d’un giardino pensile. E va bene, anche, che ci sia un pubblico così limitato e incantato, che fluvia via come in rispettose pianelle, ma poi ti viene anche una rabbia incontenibile, contro il cretinismo irrigimentato delle nostre masse sedicenti-culturali, che accorrono in frotte per «eventi» più glamour e up to date, per lo più inutili e pretenziosi, e che di qui naturalmente, dalla pittura romana e pompeiana, si tengono ben lontane, precauzionalmente, convinte da vera ignoranza che l’archeologia o il così-antico siano noiosi e punitivi. Che imbecilli, peggio per loro! Per esempio pensare alle folle inumane, che si spintonano alla pur solenne mostra Gagosian, a due passi, d’un altro maestro della levità come Calder e con pezzi notevolissimi, che tra l’altro nella calca mondana non potranno mai ammirare, e mai si degnerebbero di salire questi altri gradini «barbosi», per tributare onori, a tali sacrificali idoli antichi, modernissimi. Sì, perché è poi questa la vera

S

Il Moderno all’epoca dell’Impero

romano di Marco Vallora

arti

verità che ne deriva, da questi capolavori anonimi e sommessi, che frantumato l’illusione della Modernità, nel mortaio martellante della derisione. Ma si guardino certi paesaggi, nebbiosamente visionari, impaginati tra leggerissimi steli e delicatissime cariatidi, con le architetture che sfuggono all’infinito, trascinandoci nella dolcissima planata (magari paragonandoli a un pittore di respiro limitatissimo, come Signorini, macchia per macchia). Si studino per bene certi formidabili ritratti del Fayum, folgoranti di vitalità e d’imminenza istantanea, per capire davvero che non solo il Moderno non ha inventato nulla, ma che spesso ha coperto il proprio passato, per non far sapere, per ignavia e presunzione: come un cane colpevole, con i propri escrementi. Ovviamente adoriamo il vero Moderno, ma di fronte alla sapienza quasi sprezzante d’uno stile compendiario così sbalorditivo e alla sorpresa insospettata d’una conoscenza capillare delle regole prospettiche, che poi Leon Battista Alberti avrebbe creduto d’inventare, con il ricorso all’immagine felice dell’arte come finestra aperta sulla natura, ci rendiamo davvero conto, junghianamente, che le categorie del Tempo, dello stile, del progresso in arte e dello sviluppo culturale, sono scaffalature tassonomiche, utili solo ai professori nozionisti e ai feticisti della Novità A Tutti I Costi. Si prendano per esempio quei ritratti, davvero impressionanti per vividezza e modernità, del Fayum. Ci si dica se non sono già dei Campigli o dei Savinio. Solo che il fatto curioso, è che un Sironi o un Campigli, nella loro corsa verso un Richiamo all’Ordine da figli ravveduti, che rinnegano le avanguardie, conoscendo, o non conoscendo lo scandalo temporale di quelle maschere egizie, in legno e lino, che dovevano riportare la vita e la riconoscibilità, sopra quei morti imbalsamati e interscambiabili, ebbene, la singolarità è che un pittore come Campigli, pensandosi egizio, cancella il volto dei suoi ritratti, simulando un bassorilievo mentale, oppure chiude le sue figure entro colombari impiombati, scatole accecate di pasta pittorica, pratica che è molto, molto meno moderna dell’intemporalità stratosferica degli ancora vivissimi Fayum. Ma anche di questo, che c’importa? Ci si limiti a lasciarci invadere da queste scene mitologiche imborotalcate di vapori ingessati, da questi prodigiosi ritratti su vetro e tavola e da questi ipnotici rossi pompeiani e finti-marmi subacquei, travolti e consevati da una lava nemica agli uomini ma magicamente protettiva, nei confronti di queste reiterate colate di colore narrativo.

Pittura di un Impero, Roma, Scuderie del Quirinale, fino al 17 gennaio

diario culinario

Vini pregiati, meglio berli all’Osteria

di Francesco Capozza l problema è la carta dei vini, un sarcofago più che un monumento. Centinaia, migliaia, milioni, fantastilioni di bottiglie in ordine alfabetico, partendo da un Acinato Bertani del 1928 a 96 euro per finire, grazie a Dio, a un più potabile Valpolicella ’99 della stessa azienda a 15 euro e spicci. Scorrendo il pesantissimo volume, che a leggerlo tutto ci vorrebbero ore, si scorgono moltissimi vini sopra i 100 euro e parecchi sopra quota 500. C’è anche un non meglio identificato «Vino diverso di Sassicaia» con degli asterischi al posto del prezzo. Incuriositi chiediamo lumi al cameriere. Dopo averci guardato nello stesso modo in cui una donna delle pulizie guarda uno scarafaggio, bofonchia qualcosa

I

del tipo: «il prezzo viene battuto dopo la stappatura». Evidentemente non ci vediamo più tanto bene: sul portone avevamo letto Bottega del Vino, invece è la filiale veronese di Christie’s. Poi non c’è da stupirsi che in sala non ci sia un indigeno che sia uno, solo turisti e quasi tutti americani, salvo un italiano velleitario che dice: «vorrei un vino veneto» e il cameriere: «ce li abbiamo tutti» e lui che si scava la fossa da solo: «un Cabernet» e l’altro, che ormai lo sfotte pesantemente: «Cabernet Sauvignon o Cabernet Franc?» e quello ormai barcollando: «Cabernet Sauvignon». Noi, che non sappiamo se ridere o piangere e non abbiamo cuore di vedere cosa gli portano e quanto glielo faranno pagare, per limitare i danni stiamo sul Valpolicella ’99, il vino che costa di meno ma che è

anche il migliore (non sembri paradossale, non è la prima volta che succede), e diciamo con forza che è ora che queste carte terroristiche escano dai ristoranti ed entrino nei musei. Del kitsch, non del vino. Il vino è qualcosa di vivo, bere una bottiglia del 1928 è pura necrofilia. Pagare 96 euro per un vino ultrasettantenne è esattamente come versare una grossa cifra per copulare con una mummia del Museo egizio di Torino. Che poi, per essere un ristorante dove spopolano russi e americani, mica si mangia male nella storicissima Bottega del Vino, anzi. A parte i grissini industriali che fanno subito ristorantepizzeria, e che da soli basterebbero per sconsigliare ai camerieri tanto sussiego, i bigoli con l’anatra, la polenta, la pastisada di cavallo, il brasato all’A-

marone, la torta sbrisolona, sono piatti gustosissimi quanto quelli cucinati nelle migliori case di una volta. Quella di cui abbiamo parlato finora è la Bottega del Vino sala ristorante. Tutt’altro spirito nella sala della prospicente Osteria: al bancone, in piedi, si possono bere vini al bicchiere serviti splendidamente, in un’atmosfera unica, gustando dei golosissimi cichèti caldi e freddi (eccellente la polenta fritta a cubetti con le lumache). E poi questo luogo, nonostante tutto, ci è caro perché qui conoscemmo per la prima volta i piaceri enoici del Veneto. Era il Valpolicella «La Grola» di Allegrini. Una folgorazione. Sui 20 euro all’Osteria, dai 50 in su al ristorante.

La Bottega del Vino, via Scudo di Francia 3,Verona, tel. 045.8004535


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moda

I bijoux, magnifici amanti in tempi di crisi di Roselina Salemi gioielli sono seri e noiosi come i mariti. I bijoux allegri e divertenti come gli amanti». Basterebbe questa citazione di Marilyn Monroe per spiegare come mai anche le sostenitrici dei diamanti-miglioriamici-di-una-ragazza, si lascino sedurre dalle perle finte di Chanel, dalle catene-girocollo di Vuitton, dalle scenografiche collane di plastica in similcorallo e similjais di Lanvin, dai grandi anelli di acciaio e cristallo di Emporio Armani o dai gioielli kiddult generation di Tarina Tarantino, bracciali, ciondoli, orecchini e mollette per i capelli che sembrano rubati alla bambole e che hanno conquistato lo star system: Cameron Diaz è stata avvistata con il medaglione di Hello Kitty al collo e Jennifer Lopez con un’orchidea tempestata di swarovski tra i capelli. Complice la recessione, i bijoux dilagano: grandi spille, cinture gioiello, orecchini enormi (quelli a cerchio li ha rilanciati Christian Lacroix), larghi bracciali che inseguono il glamour chiassoso e irripetibile degli anni Ottanta. La moda di questo non allegro e non ricco autunno-inverno ha il suo diktat: gioielli splendenti e rigorosamente falsi da portare anche durante il giorno su abiti severi. Siccome non è oro quello che luccica, è possibile esagerare: duetre le collane di Ayala Bar per impreziosire un tubino nero, una di Maria Calderara (perline e cristalli colorati da legare con nastri di raso) per mimare la luminosità dei brillanti, o un paio di orecchini di LK (Leetal Kalmanson), grandi, importan-

«I

archeologia

ti, per copiare Penelope Cruz, Alicia Keys o la supermodella Gisèle. Mentre il prezzo dell’oro arriva ai suoi massimi storici, i bijoux copiano spudoratamente i pezzi cult di Dior e Chanel, le catene di Bulgari, i ciondoli di Cartier, oppure usano con disinvoltura materiali in teoria improponibili. Nurit Spiegel, per esempio, crea i suoi gioielli con carta ecologica ricavata dalla buccia d’arancia, sagomata e montata in argento. I disegni sono motivi grafici o fotografie (molto divertenti le farfalle), i prezzi vanno da 20 a 110 euro. Ma ci sono anche pupazzetti di plastica, tipo Bambi trasformati in charms (lo fa Ebru Dayal) e collier ricavati da tessuti, fili e nastri (Dvora Harrell), bottoni, bottiglie dell’acqua minerale, fibre di papaia, strass e passamanerie. Trionfano le paillettes cucite su davantini di raso e bracciali di stoffa da annodare al polso. Insomma, se non siamo attente rischiamo l’effetto «albero di Natale» anche molto prima e molto dopo Natale… La verità è che se oggi è confortevole avere gioielli-mariti (bene rifugio da non sottovalutare), per sopravvivere allo stress e sentirsi più belle è necessario avere anche bijoux-amanti: choker da dominatrice e vistosi chandelier extralunghi (alla spalla, con un po’ di coraggio), sautoir, meglio se di perle finte, da girare più volte intorno al collo come le divine degli anni Trenta, in curioso remix tra Audrey Hepburn, Grace Kelly, Catherine Daneuve, Gloria Gaynor e persino Paris Hilton. Siamo in crisi. Anche in tema di icone fashion non si butta via niente.

In Etiopia un tempio sabeo dedicato ad Almaqah di Rossella Fabiani a ricerca archeologica anche come politica. È in questo ambito che è stato dedicato un nuovo progetto di ricerca pensato per illuminare i rapporti culturali tra la Penisola Arabica e il continente africano. Non invano. Al lavoro, archeologi dell’Istituto Archeologico Germanico (Dai), in collaborazione con le autorità del Tigré (la più settentrionale regione dell’Etiopia, con capitale Macallé) e l’Università di Jena, in Germania, hanno scoperto i resti di un tempio databile alla prima metà del I millennio avanti Cristo. Il rinvenimento è avvenuto vicino alla piccola città di Wuqro (nel nord dell’Etiopia, sulla strada verso la capitale Makallé), dove già precedentemente erano emersi numerosi oggetti di culto di eccellente qualità artistica.Tra questi figura anche un’altare recante un’iscrizione votiva che parla della salita al trono di un sovrano (dal nome oggi sconosciuto) nel tempio di Yeha. «È la prima testimonianza scritta che nomina il santuario centrale dei Sabei in Etiopia», spiega Noebert Nebes, direttore del progetto di ricerca e professore all’Università di Jena che aggiunge: «I segni della scrittura e la precisione con cui sono stati incisi riportano alle prime testimonianze delle antiche civiltà sudarabiche che si svilupparono lungo la via dell’incenso, come le incontriamo nelloYemen». Il santuario di Wuqro, dedicato alla principale divinità sabea, Almaqah, rappresen-

L

ta, dunque, la più antica testimonianza della colonizzazione da parte di popolazioni sudarabiche nell’Africa nordorientale. Chi era Almaqah? Le prime teorie di Nielsen identificarono Almaqah con una divinità associata alla luna. Altri studiosi, tra cui Giovanni Garbini e Jacqueline Pirenne, hanno invece rilevato che la testa di bue e il motivo della vite associati ad Almaqah siano piuttosto di natura solare e riconducibili a una divinità agricola come Dioniso o a una divinità guerriera come Ercole, motivo per cui si sarebbe trattato di un dio solare.Tra i reperti rinvenuti nello scavo del tempio figura anche la statua, in pietra calcarea, di una donna, insieme a un certo numero di altari votivi. Ma come si

presentava il santuario vero e proprio? Di fronte all’edificio principale si estendeva un’ampia corte su cui si affacciava una serie di ambienti laterali, che saranno l’oggetto delle indagini future. In mezzo alla corte, centro delle attività del culto, era posto un altare dotato di vasche, gocciolatoi a forma di testa di toro e una canaletta, lunga un metro, per fare scorrere il sangue delle vittime sacrificali. Secondo Riccardo Eichmann, direttore del Dipartimento per l’Oriente del Dai, «la qualità e lo stato di conservazione dei reperti rappresentano un dato unico all’interno del quadro della giovane archeologia dell’Etiopia». E ancora. Per Eichmann, la loro completezza e il rapporto esplicito con l’edificio che emerge dalla loro collocazione, non ha confronti con contesti architettonici simili neanche in ambito sudarabico. Gli archeologi del Dai sono convinti, inoltre, che il santuario non rappresenti un edificio isolato, ma che nei dintorni del tempio di Wuqro si celino i resti di un più vasto insediamento risalente al primo millennio avanti Cristo. E, per questo motivo, l’intera area sarà l’oggetto delle prossime indagini di scavo da parte degli archeologi del Dai e del team specializzato dell’università tedesca di Jena. Indagini che saranno finalizzate a illuminare la storia della colonizzazione dell’altopiano etiopico da parte di gente sabee e il rapporto di quest’ultime con l’antica popolazione autoctona.


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i misteri dell’universo

econdo gli insegnamenti tradizionali gli antichi conoscevano, come pianeta più lontano, Saturno; ma l’ormai acquisita certezza che disponessero di strumenti ottici di una certa potenza, per vedere sia lontano che vicino, fa pensare che fossero noti almeno Urano e Nettuno, relativamente luminosi. La scoperta di altri trattati antichi in astronomia o la rilettura di quelli esistenti potrà forse decidere su questa questione. Al di là di Saturno si trovano due pianeti giganti, rispetto alla Terra, anche se assai meno massicci di Giove e di Saturno. Il primo, Urano, fu scoperto nel Settecento e la sua orbita venne calcolata a mente dal grande Eulero, cieco da decenni dopo avere imprudentemente osservato il sole da un telescopio (e imprudentemente Von Neumann si avvicinò troppo al luogo della prima esplosione nucleare a Los Alamos, prendendosi una dose massiccia di radiazioni forse causa del tumore alle ossa che lo uccise nel pieno della sua potenza intellettuale). E ricordiamo che Eulero, dopo avere fatto il calcolo, era a Pietroburgo, sorbì del tè, accarezzò la nipotina e fu colto da subitanea morte: bella morte per uno scienziato straordinario, i cui contributi sono solo in parte noti e apprezzati.

S

Il secondo, Nettuno, fu scoperto nell’Ottocento puntando il telescopio in una regione dove il calcolo da perturbazioni osservate nell’orbita di Urano prevedeva la presenza di un altro pianeta. Previsione corretta, considerata uno dei trionfi della matematica e della meccanica celeste, nonché della qualità osservativa in tempi in cui i telescopi avevano lenti di poche decine di centimetri. Nel 1930 avvenne la scoperta di quello che fu considerato l’ultimo dei pianeti del sistema solare. Fu dovuta all’americano Tombaugh, che ancora lo cercò in una regione suggerita da perturbazioni intorno a Nettuno; ma si trovò poi che queste perturbazioni non erano state valutate correttamente e che fu per un colpo di fortuna che Toynbee fece la sua scoperta. L’oggetto fu chiamato Plutone, nome latino del dio degli inferi, marito di Proserpina, l’Hades dei Greci. Nome dato in quanto l’oggetto si trova a una mezza dozzina di miliardi di km dal Sole, dove ne riceve luce quasi duemila volte meno intensa che sulla Terra. Nel dopoguerra sono state fatte scoperte che hanno messo in crisi lo scenario classico del sistema solare. Si è trovato che Plutone ha un satellite di dimensioni simili, chiamato opportunamente Caronte, nome del traghettatore degli inferi ben noto nell’Inferno di Dante. Si sono trovati altri oggetti in orbite ellittiche accentuate anche più della sua, che già ha forte eccentricità, e anche con masse superiori, cominciando da quello chiamato Chirone (uno dei semidei greci a testa umana e corpo equino) e finendo, per ora ma è naturale attendersi che la storia non sia finita, a quello di nome Eris, il cui diametro è doppio di quello di Plutone. E non si può nemmeno escludere, con buona pace per le teorie di Whetherill e altri che ammettevano pianeti di di-

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ai confini della realtà

Il pianeta

doppio di Emilio Spedicato mensioni terrestri solo nella regione antecedente a quella dei pianeti giganti gassosi, che si trovino in quelle remote regioni oggetti di dimensioni simili o superiori a quelle della Terra. Su questi oggetti si possono fare importanti osservazioni. Caronte, secondo l’analisi dell’astronomo Van Flandern, era probabilmente un satellite di Nettuno ceduto a Plutone in un evento di scambio a 4 corpi (similmente si può spiegare l’origine della Luna). Gli altri corpi fanno parte della cosiddetta fascia di Kuiper, costituita forse da più di un trilione di oggetti. Tale fascia ha forma di ciambella e caratterizza la parte del sistema solare al di là dei pianeti giganti; una «nube» di simili

abbiamo ricordato che due sonde Pioneer sono al di là dell’orbita di Plutone, con la curiosa e inspiegata caratteristica che la loro posizione non corrisponde, per un errore di circa mezzo milione di km, a quella che dovrebbe essere secondo i più accurati calcoli. Discrepanza non spiegata con certezza e su cui si hanno varie teorie.

- Caronte si muove su un’orbita distante da Plutone circa 20 mila km, quindi una distanza venti volte circa inferiore a quella Luna-Terra, con effetti di marea gravitazionale circa diecimila volte superiori; - il diametro di Plutone è stimato sui 2300 km, quello di Caronte sui 1200; il loro baricentro è esterno a Plutone di circa 1200 km, mentre per gli altri piaNegli ultimi decenni, telescopi più neti il baricentro, calcolando i satelliti, potenti e le sonde spaziali hanno per- è sempre interno al pianeta. Il sistema messo di risolvere varie questioni pri- Plutone-Caronte è considerato un piama aperte relative a Plutone. Qui ne ci- neta doppio; tiamo alcune: - la densità di Plutone sembra essere - l’orbita di Plutone è alquanto inclina- di circa due grammi al cm cubo, contro ta rispetto al piano di rivoluzione della i cinque della Terra, i sette di Mercurio; Terra, a differenza degli altri pianeti; è quindi simile a quella di Marte, 2.4. Plutone deve contenere non solo ghiaccio, come prima Solo nel dopoguerra si è scoperto ipotizzato, ma anche mateche Plutone ha un satellite di dimensioni riale roccioso; simili, Caronte, che orbita a una distanza - assai sorprendente il fatto che la riflettività di Plutone di circa 20 mila km. Il loro è considerato sia sette volte quella della un sistema in cui i gemelli ruotano Luna, in contrasto con quanto atteso se fosse un oggetto rivolgendo l’uno verso l’altro lo stesso contenente in prevalenza emisfero, come fa la Luna con la Terra metano; infatti per un tale oggetto la superficie in temoggetti, la nube di Oort, di forma sferi- - sfruttando vari passaggi di Caronte pi corrispondenti a quelli stimati per il ca, si estenderebbe oltre, sino a un davanti a Plutone si è accertato che sistema solare dovrebbe divenire scupaio di anni luce, metà della distanza questi due gemelli ruotano rivolgendo ra e rossastra. Problema aperto la alla più vicina stella, l’Alpha centauri. l’uno verso l’altro lo stesso emisfero, spiegazione del fenomeno. A parte i problemi relativi al moto di come la Luna fa con la Terra; Ad alcuni degli enigmi sopra elencati poquesti oggetti e all’origine ed evoluzio- - la massa totale del sistema Plutone- trebbe dare risposta, ma certo aprendone di queste fasce e nubi, si è anche Caronte è solo uno su 400 della massa ne di ulteriori, una sonda che si avvicini posto un problema di denominazione, della Terra, abbassando di un fattore a Plutone. Il viaggio richiederebbe circa ovvero quando un oggetto possa dirsi 10 la stima precedente (e quella origi- 14 anni, quando punti alla posizione di un pianeta. Discussione non ancora nale di Tombaugh dava Plutone anche Plutone più vicina al Sole, circa 4 miliarterminata. In una precedente rubrica più grande della Terra); di e mezzo di km dalla nostra stella.


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