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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Nicola Fano a storia di Emil Zátopek profuma di minestra. Minestra di cavoli, per l’esattezza: quella che si mangiava nell’Europa del Nord quando si voleva rimanere leggeri (prima che anche lì arrivassero le zuppe prefabbricate, naturalmente). Per i pochi che non lo sapessero, Emil Zátopek era un mezzofondista. Per non farla troppo lunga e mettere subito in campo i suoi titoli: vinse l’oro nei 10000 alle Olimpiadi di Londra del 1948 e poi l’oro nei 5000, nei 10000 e nella maratona alle Olimpiadi di Meolbourne nel 1952. Giudicate voi se è tanto o poco. Era cecoslovacco, nel senso che all’epoca le repubbliche Ceca e Slovacca non erano ancora divise. Poi era comunista, perché dopo la guerra a Est non si poteva essere altro che comunisti. E anche Emil Zátopek lo era: tanto più che il regime prima ne vezzeggiò il talento poi ne sfruttò benevolmente la fama. Figurarsi: avere un talento naturale e folle che vince in giro per il mondo e non sfruttarlo a fini propagandistici! Perché osannare e far circolare per il mondo Emil Zátopek era come dire che i comunisti erano La sua vita uguali agli altri ma anche un po’ meglio stata il romanzo degli altri. È

L

è dell’Europa del ’900. Osannato dai comunisti come figlio della Cecoslovacchia, fu mandato in miniera quando si schierò con Dubcek. Ma lui, sorridente e stempiato, non come se, mettiavoleva scontentare mo, un presidente nessuno... del Consiglio d’oggi si

Il mito del grande campione rivisitato da Jean Echenoz

ZÁTOPEK

O DELLA LIBERTÀ 9 771827 881301

91024

ISSN 1827-8817

Parola chiave Entropia di Sergio Belardinelli Quel molto che resta dei Prefab Sprout di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

La verità nascosta di Maeterlinck di Francesco Napoli

comprasse una squadra di calcio e urlasse allo stadio ogni domenica e dichiarasse a destra e a manca che egli è un vincente come la sua squadra: un modo per suggerire che egli è semplice come tutti i tifosi ma anche un po’ più speciale di tutti i tifosi. Primus super pares, diciamo così. Però Emil Zátopek era un comunista molto particolare. Correre non è scappare. Non solo, almeno: può essere pure andare velocemente incontro a qualcuno. Da giovani si pensa che incontro al futuro ci si debba andare di corsa; più passa il tempo e più si capisce che basta respirare e il futuro arriva comunque. Bello o brutto che sia. Il futuro di Emil Zátopek è stato brutto, ma lui gli è andato incontro comunque correndo. Correre, appunto, è il titolo di un sobrio, svelto e godibile libro dello scrittore francese Jean Echenoz dedicato a Emil Zátopek e appena pubblicato da Adelphi (traduzione di Giorgio Pinotti, 148 pagine, 15,00 euro).

Zanotti-Bianco, l’uomo del Sud di Sergio Zoppi Il miglior Clooney al Festival di Roma di Anselma Dell’Olio

continua a pagina 2

Properzia, la sculthora che piaceva a Vasari di Marco Vallora


zatopek o della

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segue dalla prima Echenoz in Italia è conosciuto per un piccolo omaggio a Jéròme Lindon, l’inventore delle Edition de Minuit, per un garbato ritratto letterario di Maurice Ravel e soprattutto per Me ne vado, un romanzo lieve e affascinante nel quale un uomo di città e nevrosi ritrova se stesso navigando verso il Polo Nord su un vecchio postale. Insomma, Echenoz è uno scrittore molto ben educato: non trascende, non ama colpi di scena e preferisce raccontare le cose per sommi capi, lasciando al lettore la libertà di cogliere o meno allusioni o metafore. Non forza la mano neanche qui con Emil Zátopek la cui vita, comunque, fu un romanzo. Perché c’è sempre una contraddizione nei grandi campioni sportivi (quelli di una volta, non quelli industriali, tutti miliardi e veline, di oggi). La contraddizione di Emil Zátopek è la minestra di cavoli. Echenoz non lo dice, ma io sono sicuro che Emil Zátopek abbia mangiato minestra di cavolo sempre, dall’inizio alla fine della sua vita, anche negli anni d’oro a cavallo dei primi Cinquanta quando veramente era un mito mondiale e il regime - per le ragioni che abbiamo visto - gli consentiva ogni tanto di andare a infrangere record anche in Occidente.

Un tempo qui in Italia la passione sportiva era una cosa semplice, senza implicazioni politiche come oggi, e i ragazzi che non avevano troppa abitudine alla televisione (era in bianco e nero e le immagini non erano poi così nitide come si potrebbe pensare) familiarizzavano con le facce dei loro campioni attraverso le figurine. Io conosco le facce di tutti i calciatori degli anni Sessanta perché li vedevo nelle figurine, ma non so, mettiamo, se uno fosse alto o basso; se fosse tozzo o smilzo. La faccia era tutto; e basta. Ebbene, in quell’epoca lì, ogni occasione era buona per lanciare nuove collezioni di figurine: per i mondiali di calcio, per esempio, uscivano album con tutte le squadre e con qualche cenno storico delle edizioni passate; mentre per le Olimpiadi l’estate passava collezionando figurine con i campioni di tutte le epoche. Ragione per la quale conosco bene anche la faccia di Emil Zátopek: naturalmente un campione di tal rilevanza non può mancare da una collezione storica sui Giochi olimpici. No: l’album rendeva giustizia anche alla faccia buffa di Emil Zátopek. Che era moderatamente pelato. Sì, insomma: stempiato. Ma di una stempiatura di quelle che si intuisce che dietro devono formare pure una piccola piazza di pelle bianca in mezzo al nero dei pochi - capelli. Insomma: pelato come è irragionevole che sia un grandissimo campione sportivo. Non so: al limite accetti che possa avere pochi capelli un campione di automobili o di motociclette per via del casco che - pare - rovina la cute. Ma un mezzofondista, anzi, il più grande mezzofondista della storia, no. E infatti Emil Zátopek raramente stava a testa scoperta. La difficoltà di fare figurine è che da un’edizione all’altra devi cambiare immagine per lo stesso soggetto. Sicché la collezione di figurine per le Olimpiadi di Monaco del 1972 fu diversa da quella per i Giochi messicani del 1968: nell’edizione del 1972 Emil Zátopek era ritratto con un berretto di lana con il pon pon. Dice Echenoz (e gliene sono sinceramente grato) che quando s’accorse di avere pochi capelli Emil Zátopek si infilò quel cappelletto e di fatto non se lo tolse più. Ma su YouTube (ho controllato) esiste un brandello del filmato della finale dei 5000 metri di Melbourne vinti da Emil Zátopek. E lì il cappelletto non ce l’ha: è pelato. Un uomo maturo, un comunista serio e compassato che strapazza una truppa di ragazzi all’ultimo giro. E poi ti aspetti di vederlo sul

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

libertà

podio in doppiopetto: un impiegato di mezz’età. Se la sua figurina fu presentata con grande cura e attenzione nell’album del 1968, però, ciò deriva da un’altra ragione che ha poco a che fare con i record e le medaglie d’oro (o forse sì, ma in modo indiretto). Quando si dice che la vita di Emil Zátopek è stata un po’ il romanzo dell’Europa del Novecento non è che si dica una bestialità. Nel 1968 fu addirittura uno dei simboli della Primavera di Praga. Dubcek, Zátopek e Goldstucker: uno statista, un campione di mezzofondo e uno studioso di Kafka, anche questo è stata la Primavera di Praga. Dubcek finì a fare il giardiniere, controllato a vista. Goldstucker dall’indigenza riuscì a scappare (correndo…), finendo per andare a insegnare all’università di Bristol. Zátopek fu spedito a lavorare uranio. Aveva avuto il torto di dichiarare la sua simpatia per le riforme di Dubcek e - soprattutto - quello di aver tenuto uno storico comizio, in Piazza San Venceslao contro i carri armati russi che stavano calpestando la memoria e i sogni dei praghesi. Era un alto ufficiale dell’esercito, Emil Zátopek, aveva tutti gli onori e i migliori incarichi: fu spedito in miniera da un momento all’altro, a quarantasei anni e dopo aver dato tutti gli onori possibili al suo paese. Quando lo fecero tornare a Praga, anni dopo, gli tolsero medaglie e stipendio e pensione, ma la gente ancora lo inseguiva, gli chiedeva autografi e speranze. Lui sorrideva e cercava di non scontentare nessuno. Dice Echenoz che questa - non voler scontentare nessuno - era la sua caratteristica principale. Forse è così, ma è difficile pensare che un uomo che corre e vince, vince sempre sempre e sempre per quasi dieci anni lo faccia perché non vuole scontentare nessuno. Diciamo che i campioni (quelli che, appunto, vincono) prima di tutto non vogliono scontentare se stessi. Di sicuro, Emil Zátopek non voleva scontentare se stesso; come dimostrò in quello storico comizio del 1968. Che, per altro, gli fruttò un posto specialissimo nell’album delle figurine italiane per le Olimpiadi di Città del Messico del 1968: ormai Emil Zátopek non era più solo un campione di mezzofondo, ma anche un simbolo della libertà cecoslovacca. Poi dicono che lo sport non c’entra niente con la politica.

Il libro di Jean Echenoz ha un pregio: quello di aver scelto un soggetto giusto. Non è una biografia in senso stretto (raramente i romanzieri si concedono a vere e proprie biografie) ma credo che non sia neanche troppo lontano dai fatti reali. Quel che colpisce di più in queste pagine però è la tenacia con la quale l’autore cerca di descrivere la corsa inelegante e personalissima di Zátopek. Lo chiamavano la locomotiva umana ma in realtà correva come un cavallo sghembo, con la testa chinata di lato e con le braccia occupate in una quantità di movimenti più dannosi che inutili alla corsa. È vero che nelle lunghe distanze ognuno corre come gli pare (pensate a Lasse Viren, a certi campioni etiopi degli anni recenti o, per rimanere ai nostri, a Franco Fava o a Francesco Panetta), ma certo se pensiamo ai record di oggi sui 10000 metri non possiamo dimenticare una certa eleganza quasi felina nell’aggredire queste lunghe distanze di corsa. Se vogliamo, la differenza è semplice: se oggi si corre per correre, per il piacere quasi estetico di correre (senza contare i premi in denaro, le interviste tv, gli spot pubblicitari…) Emil Zátopek correva per incontrare prima possibile il suo futuro. Aveva fretta di vivere; e quando si è così c’è poco da compiacersi, poco da concedere all’estetica, alle interviste o allo stile. Bisogna vivere in fretta: semmai concedendosi qualche pausa per la minestra con i cavoli. Quella davvero non ha fatto mai male a nessuno.

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parola chiave

l secondo principio della termodinamica introduce, tra gli altri, anche il concetto di entropia. Si tratta, come è noto, di un concetto assai controverso, che, grosso modo, sta a indicare il disordine che necessariamente si produce in un qualsiasi sistema fisico o nell’intero universo ogni volta che si passa da uno stato ordinato a uno disordinato e, a maggior ragione, viceversa. L’esempio che solitamente si fa è quello di una goccia d’inchiostro, la quale, versata in un bicchiere d’acqua, spontaneamente si espande, dando vita a uno stato del tutto disordinato. Volendo, si potrebbe anche separare di nuovo l’acqua dall’inchiostro, ma questo, ossia il ripristino dell’ordine originario, richiederebbe un dispendio di energia ancora maggiore, quindi un aumento del disordine, ovvero dell’entropia. Un po’ come con quello che è stato definito «il principio di conservazione dello sporco», secondo il quale non si può pulire nulla senza sporcare qualcos’altro, succede che ogni trasformazione di un qualsiasi sistema produce necessariamente un aumento del disordine complessivo dell’ambiente in cui il sistema è inserito. In estrema sintesi, si potrebbe dire anche così: siccome nell’universo fisico tutto si muove e muta (nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, recita il primo principio della termodinamica), tale mutamento, a maggior ragione se esso tende a creare o ricreare strutture ordinate, produce inevitabilmente un aumento generale dell’entropia, una dispersione non reversibile di energia, la quale, magari tra qualche milione di anni, condurrà inevitabilmente alla morte dell’universo.

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La prospettiva sembra invero poco incoraggiante. Ma che cosa significa tutto questo? Da un punto di vista strettamente fisico siamo di fronte a una delle questioni più difficili da comprendere, almeno per me. C’è però un aspetto che sembra abbastanza chiaro e ricco di suggestioni anche in una prospettiva non strettamente fisica, sul quale mi vorrei soffermare. Prima o poi, dicevamo, l’entropia annienterà tutto. In un tempo sufficientemente lungo (e il mondo fisico di tempo ne ha in abbondanza), possiamo star certi che nulla di ciò che adesso abbiamo intorno resterà così come è. Le colline che vediamo dalla finestra lasceranno forse il posto di nuovo al mare; non resterà traccia della nostra casa, né della basilica di San Pietro; quanto alla vita degli uomini, la nostra vita, sappiamo bene che essa è poco più di un soffio. Eppure la fine di tutto non è il fine a cui tutto tende. Se lo fosse, vorrebbe dire semplicemente che siamo nelle mani di ananke, la necessità. E invece ci sono anche la ragione e la libertà, le quali, pur sapendo che prima o poi la fine arriverà, le resistono, non si rassegnano, fanno di tutto per procrastinarla, senza con questo pensare che si tratti di una battaglia insensata, una battaglia contro i mulini a vento. La cultura greca ha elaborato due risposte a questo problema: la prima è quella di Anassimandro, secondo la quale, prima o poi, tutte le cose torneranno finalmente donde sono venute, espiando in questo modo tutti i loro limiti, anzi, le «colpe», per essere venute al mondo. La vita è violenza; ciò che

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ENTROPIA Nessuna struttura di vita buona si afferma e si mantiene senza sforzo, senza una lotta continua col disordine e col caos. Ma, proprio per questo, occorre uscire dall’orizzonte tragico della necessità e dare senso anche alla fatica…

Scacco alla Morte di Sergio Belardinelli

La fine di tutto non è il fine a cui tutto tende. Non siamo nelle mani di Ananke, la necessità. Ci sono anche la ragione e la libertà, che, pur sapendo che il termine è inevitabile, gli resistono, non si rassegnano, fanno di tutto per procrastinarlo, senza pensare che si tratti di una battaglia insensata vive lo fa sempre a spese di qualcos’altro; qualsiasi forma d’ordine produce disordine intorno a sé; non resta dunque che espiare la colpa di essere nati: una sorta di entropia provvidenziale: la fine di tutto come il fine a cui tutto tende. La seconda risposta è invece quella platonica, la quale, pur consapevole del fatto che anche le cose più belle, più buone e più virtuose sono destinate prima o poi a scomparire, a cadere sotto i colpi di ananke, mostra tuttavia come la loro lucentezza, la lucentezza del bello, del buono e del giusto,

resti eternamente, senza essere minimamente scalfita dal loro tramonto: la fine di tutto non coincide con il fine a cui tutto tende. L’escatologia cristiana produrrà una sorta di combinazione di queste due prospettive. Un po’come in Anassimandro, anche nel cristianesimo la morte, la fine di tutto rappresenta una sorta di penitenza per una «colpa» commessa all’inizio. Ma la morte non rappresenta l’ultima parola, poiché la risurrezione di Cristo l’ha già sconfitta da sempre e per sempre. Il massimo di entropia, la fine

del mondo, ben lungi dal rappresentare la fine di tutto, rappresenta piuttosto l’avvento definitivo della «Gerusalemme celeste», dove Dio mostrerà la sua onnipotenza e il suo potere di «far nuove tutte le cose». Non la morte, ma la vita, la vita buona, bella e giusta ha dunque l’ultima parola: questa la sostanza della speranza cristiana, al cospetto della quale persino ananke traballa, mostrando le sue crepe. Il fatto che dobbiamo inevitabilmente morire non significa che le nostre azioni siano indifferenti; il velo tragico che avvolgeva il mondo greco viene come squarciato; e gli uomini vengono chiamati a fare il «bene», anche a rischio della morte, anche a rischio di far crescere l’entropia, poiché questo è l’unico modo veramente umano per «dare molto frutto» e per non morire mai.

Albert Camus, uno che di tragedie e di assurdità se ne intendeva, ha scritto che «dobbiamo immaginarci Sisifo felice». Ma non può esserci felicità in una vita dominata dalla necessità, in una vita dove siamo costretti a ripetere sempre la stessa azione. Una vita del genere sarebbe soltanto una condanna; «assurdo» pensare che in essa possa trovar posto la felicità. Felice può essere la fatica di una madre che ogni giorno ripete gli stessi gesti per accudire suo figlio o per tenere in ordine la casa, non la fatica di Sisifo che deve ogni volta riportare in alto la sua pietra. Nessuna struttura di vita buona si afferma e si mantiene senza sforzo, senza una lotta continua col disordine e col caos: questo è indubbio e lo sanno tutti coloro che lavorano e lottano per qualcosa: le madri e i padri di famiglia, al pari degli artisti o dei governanti. Ma, proprio per questo, occorre uscire dall’orizzonte tragico della necessità e dare senso anche allo sforzo e alla fatica. La realtà è quella che è, segnata dal dolore e dalla morte, ma nessun uomo viene al mondo semplicemente per morire. Se così fosse, sarebbe il trionfo dell’entropia. Invece, direbbe Hannah Arendt, veniamo al mondo per incominciare, per generare forme di vita individuali, sociali e politiche capaci di procrastinare la fine che costantemente incombe su tutti noi e su tutto ciò che ci circonda. Guai ad assecondare questa fine. Non lavare i piatti su cui abbiamo appena mangiato, perché tanto domani li sporcheremo di nuovo, o, per la stessa ragione, non rifare il letto sul quale abbiamo dormito o non tagliare l’erba del giardino di casa sono segni di trascuratezza, non di realismo. Il quale, per gli uomini, non consiste nell’assecondare il caos, il disordine o l’entropia, quanto piuttosto nel cercare sempre il «bene possibile» in un mondo segnato dal caos, dal disordine e dall’entropia. Non una fatica di Sisifo, dunque, e nemmeno la pretesa di realizzare un mondo perfetto dove non ci siano più né fatica, né morte, ma solo la ferma determinazione a tenere in scacco, più a lungo e nel modo migliore possibile, la fine che necessariamente arriverà: questo è realismo. Certo, anche le persone migliori o le forme socio-politiche migliori alla fine moriranno, ma proprio la loro vita sta a testimoniare un senso, un fine, che non coincide con la loro fine. La bellezza, la bontà, la giustizia di ciò che avremo saputo realizzare sopravvivranno certamente alla caducità delle nostre povere vite e della vita dell’intero universo.


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cd

musica

di Stefano Bianchi osa resterà degli anni Ottanta? Di sicuro i Prefab Sprout, con quel leader di un Paddy McAloon che ebbe l’ardire di proclamarsi «miglior compositore dell’intero pianeta». Spocchia più che giustificata, avendo l’ex seminarista estratto dal cilindro il gioiello della band inglese e del decennio: quello Steve McQueen che nel 1985 risvegliò cuori e orecchi a suon di pop raffinato e impalpabile. Il cantante e tastierista di Durham, aveva messo a frutto il suo bagaglio d’influenze (dai Beatles a Marvin Gaye, transitando per Cole Porter e Jimmy Webb) sforzandosi negli anni successivi di replicare la magia con esiti mosci (From Langley Park To Memphis, ’88), più che buoni (Jordan: The Comeback, ’90), incoraggianti (Andromeda Heights, ’97) e speranzosi (The Gunman And Other Stories, 2001). Fino ad approdare al super egocentrismo solista del quasi interamente strumentale I Trawl The Megahertz (2003). Come tutti i grandi narcisi del pop, Paddy McAloon è uno di quelli che ti fa tirare un sospiro di sollievo quando si toglie dai piedi. Ma poi ti accorgi che le sue canzoni acquerellate ti mancano.Terribilmente. E sei disposto a sopportare i suoi atteggiamenti da sapientone. Ecco perché ho accolto di buon grado la sua rentrée da cinquantaduenne incanutito e con una barba lunga così, che vive in un ex convento con la moglie Vicky (leggenda narra si siano incontrati negli anni Novanta: colpo di fulmine al reparto musica classica in un negozio di dischi) e un tris di figlie. Ma cosa c’è di nuovo? Che laggiù, in fondo al cassetto dei rimpianti, Paddy aveva lasciato alcuni provini incisi nel ’92 e ’93, destinati al dopo Jordan: The Comeback e cestinati dall’etichetta discografica per via (pare) dei troppi riferimenti religiosi.Vade retro, McAloon! Lui, che quell’affronto non l’ha mai digerito, dopo sedici anni ha ripreso i nastri casalinghi, li ha rimasterizzati e intitolati (come all’epoca) Let’s Change The World With Music. Undici canzoni per un disco dei Prefab Sprout, ma senza Prefab Sprout (che vengono personalmente rin-

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Quel molto che resta dei

Prefab Sprout in libreria

mondo

graziati nel libretto: la vocalist e chitarrista Wendy Smith, il batterista Neil Conti, il bassista nonché fratello Martin McAloon). In pratica: avendo scritto, suonato e registrato ogni pezzo, ho il sacrosanto diritto/dovere di chiamarmi Prefab Sprout. E di rilanciare, caro Paddy, l’easy listening che più ti pare e piace: amalgamato a rap, funky e nobil pop (Let There Be Music: coi primi versi che recitano «All’inizio il mondo era violento, l’uomo chiese perché e il cielo non rispose. Dio si commosse, e fece una scelta. Disse: Che la musica sia la mia voce!»); mischiato a un’elettronica incalzante (Ride e Meet The New Mozart, dove immaginiamo il «mago di Salisburgo» alle prese con la musica d’oggidì); inorgoglito dallo swing (I Love Music in ogni declinazione: dal «Claire de Lune» al funky, dall’«eroe» Irving Berlin a Pierre Boulez, «guru dell’avantgarde»); accarezzato dal refrain cristallino di God Watch Over You; sospinto dalle sublimi architetture melodiche di Last Of A Great Romantics e Music Is A Princess («La musica è una principessa, io sono solo un ragazzo vestito di stracci»); memore di Paul McCartney e Burt Bacharach (Falling In Love); lanciato verso atmosfere celestiali (Angel Of Love). Sono pur sempre provini. E questo non potrà mai essere il nuovo Steve McQueen. Ma se qualcuno (nel 2010) domandasse «cosa resterà degli anni…?» e una vocina rispondesse Let’s Change The World With Music, non ci sarebbe nulla da obiettare. Prefab Sprout, Let’s Change The World With Music, Kitchenware/Sony Music, 15,90 euro

riviste

MIA, LA LADY SOUL DI CASA NOSTRA

QUARANT’ANNI DI ONORATA CARRIERA

ASCOLTARE BRAHMS NELLA SALA PAOLINA

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a mia vita era diventata impossibile. Qualsiasi cosa facessi era destinata a non avere alcun riscontro e tutte le porte mi si chiudevano in faccia. C’era gente che aveva paura di me, che per esempio rifiutava di partecipare a manifestazioni nelle quali avrei dovuto esserci anch’io. Mi ricordo che un manager mi scongiurò di non partecipare a un festival, perché con me

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uasi quarant’anni di carriera, un singolo comeYou’re so vain, entrato nell’immaginario collettivo, anche in Italia, alla fine degli anni Settanta. Ha sessanquattro anni Carly Simon, ma non li dimostra affatto. E per la prima volta, la cantautrice newyorchese si esibirà in una serie di concerti in giro per l’Europa a partire da gennaio. A fine mese arriva il suo trentunesimo al-

ella splendida cornice della Sala Paolina informa Jazzit - la più prestigiosa di Castel Sant’Angelo, è in programma fino al 13 novembre una serie di concerti gratuiti da non perdere. La rassegna organizzata dall’Enap (Ente nazionale di assistenza e previdenza per i pittori e gli scultori, i musicisti, gli scrittori e gli autori drammatici), propone un viaggio tra epoche e

Harari e Caroli rendono giustizia alla Martini, a quindici anni dalla sua tragica scomparsa

Carly Simon annuncia un nuovo album acustico e un tour in Europa a partire da gennaio

Una serie di concerti di musica classica nella splendida cornice di Castel Sant’Angelo

nessuna casa discografica avrebbe mandato i propri artisti. Eravamo ormai arrivati all’assurdo, per cui decisi di ritirarmi». A quasi quindici anni dalla scomparsa di Mia Martini, le sue parole suonano come l’atto d’accusa contro un sistema che la ghettizzò con motivazioni imbarazzanti. Fu invece un interprete senza pari, che mai si piegò alle goffaggini ruffiane dello star system. Una parabola intensa, tragica e coraggiosa, quella di Mimì, ben ripercorsa da Mia Martini. L’ultima occasione per vivere (Tea, 288 pagine, 49,00 euro). Gli autori, Guido Harari e Menico Caroli, rendono finalmente giustizia alla Lady Soul italiana.

bum, Never been gone, prezioso perché acustico e contenente due brani inediti: No freedom e Songbird. Detto che le date sono in via di definizione, è certo che la ex moglie di James Taylor, il cui nome campeggia nella Songwriters Hall of Fame dal 1994, farà tappa anche in Italia. La preferenza sarà accordata a luoghi intimi, capaci di restituire il sapore confidenziale dei suoi brani. «Mi piace cantare in posti piccoli - ha fatto sapere la Simon -, nei grandi teatri non riesco a vedere tutti e a me piace guardare in faccia quelli per i quali canto».

timbri sonori svariati, che vedrà protagonista il 30 ottobre un duo d’eccezione come Sebastiano Brusco al pianoforte e Valeriano Taddeo al violoncello, su musiche di Faurè, Schumann e Beethoven. Il 6 novembre sarà la volta del Trio Borromini: Claudio Corsi al violino, Kyung-mi Lee al violoncello e Lisa Taeschner al pianoforte distilleranno alcune perle tratte dal repertorio di Mozart, Schubert e Debussy. Il 13 novembre tocca invece al clarinetto di Giampietro Giumento, al violoncello di Vito Paternoster e al piano di Adriano Paolini, suonare Brahms e Bellafronte. Musica da camera e colpo d’occhio splendido. Non mancate.

a cura di Francesco Lo Dico

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zapping

ODE A LOREDANA piena d’accenti e spaccature di Bruno Giurato na donna più intelligente che bella. La Loredana Bertè che c’è qui su YouTube, quella di metà anni Settanta-primi Ottanta, era bellissima, come da canzone, ma era ancor di più un genio. Canta con voce perfetta anche i brani di Joan Baez (vedi provino Rai con Renato Zero del 1972), balla, risponde sfrontata nelle interviste. Ha il fascino animalesco ma quando sorride discloses like a rose (E la luna bussò a Domenica in, 1979). C’è anche la Bertè del periodo Fossati. Ma Dedicato e Non sono una signora di chi sono? Di Fossati o della Bertè? Fossati è l’autore, ma nel giullaresco rock non è l’elemento chiave. Nel rock conta «il suono, la faccia, la vita». Non le parole ma il modo di portare gli accenti, e le spaccature della voce. La Bertè è molto calabrese per quella propensione a incazzarsi e fare macelli, come Campanella e il brigante Musolino. Per quella rabbia fuori luogo, che se la piglia con chi non c’entra. Non una signora. La Bertè è una di Bagnara, una «bagnarota»: specie di donna-maga che esiste nelle leggende popolari e in letteratura (La Ciccina Circé di D’Arrigo). Entrava in studio e buona la prima, multava i suoi strumentisti per umiliarli. Ricky Portera, piangeva al telefono con lei, Lucio Dalla lo vide e scrisse Grande figlio di puttana. Mogol ne era spaventato, non le parlava mai, tanto che lei pensava di stargli antipatica. Ma Mogol ha scritto Un uomo che ti ama per Battisti guardandola. Ora che gli anni sono passati è sempre generosa, magari di scenate, come con la D’Urso a Pomeriggio cinque. Il fatto è che i suoi molti accenti e le sue moltissime spaccature fanno intravedere qualcosa che ha a che fare con quel nesso tra destino e mito, che i greci antichi chiamavano Necessità. Altro che trash. Si vede su YouTube.

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classica

Il florario di Buti visto al caleidoscopio di Jacopo Pellegrini na raccolta di musica vocale oggi pressoché ignota, Li fiori, data fuori a Roma nel 1632, costituisce l’esito della collaborazione tra un giovin poeta, futuro collaboratore di Mazzarino, intrigante di prima sfera e librettista di Luigi Rossi e Francesco Cavalli a Parigi, Francesco Buti (1604-1682), e un nobile tedesco di stanza nella città eterna, insigne virtuoso di tiorba e compositore, al soldo di papa Urbano VIII e del di lui «cardinal nepote» Francesco Barberini, Giovanni Kapsperger o, come s’è scritto e detto fino a ieri, Kapsberger (1580 ca.-1651). Forse, i frutti (il gioco di parole è quel che è, ma per stavolta passi) di quest’incontro non sono molto succosi sotto il profilo musicale; ciò nondimeno, l’abbondanza di riferimenti diretti e indiretti a tematiche letterarie e teologiche, all’iconologia e alla storia naturale, racchiusi entro ai testi di queste villanelle a una, due, tre e quattro voci con basso continuo ed eventuale accompagnamento di chitarra spagnola, ha di che sollecitare la curiosità e l’estro del ricercatore intelligente. Chi vuole, può rendersene conto di persona, immergendosi nella lettura di Quattro diagnosi sul florario di Francesco Buti, un testo la cui densità d’informazioni e di pensiero è l’esatto rovescio delle sue ridotte dimensioni (134 pagine, senza indicazione di prezzo). Edito congiuntamente dal Ministero dell’Università, dagli atenei di Parma e di Palermo, firmato da Ivano Cavallini, docente nel capoluogo siciliano e studioso dal multiforme ingegno, il volume figura come numero 3 di una collana dedicata alle imprese intellettuali del Buti, collana nella quale confluiscono gli esiti di un progetto interuniversitario (oltre alle due citate, L’Aquila, Pavia e la Lumsa di Roma) coordinato da Francesco Luisi (Parma). Giacché mi trovo in argomento, ne approfitto per segnalare una recentissima raccolta di saggi sparsi a firma di Luisi, curata sempre da Cavallini, insieme a Paolo Russo e Patrizia Dalla Vecchia per i tipi della Cleup (Il Caritesio, 45,00 euro). Tornando a Buti e al suo florario, occorre sottolineare il ventaglio di competenze disciplinari messo in campo da Cavallini. Punto di partenza, gli studi sul mecenatismo

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musicale nell’Italia rinascimentale e barocca condotti, da trent’anni a questa parte, dagli allievi americani, diretti e indiretti, del grande e indimenticato Nino Pirrotta (di Roma si sono occupati soprattutto Frederick Hammond e Margaret Murata). A metà anni Novanta, un italiano specializzatosi negli Stati Uniti, Stefano La Via, istituiva un parallelo fecondo e sollecitante tra un madrigale di Cipriano De Rore e un dipinto di Tiziano (Il lamento di Venere abbandonata). Oggi, le Quattro diagnosi di Cavallini si concedono addirittura il lusso di riservare al rivestimento musicale di Kapsberger poche pagine e in extremis; il più e il meglio, consiste nel riportare forma e argomenti delle poesie (ciascuna dedicata a un fiore diverso, tutte stese in versi poco eufonici e musicabili) all’architettura dei giardini e alla botanica (gli erbari, le piante nuove giunte dalle Americhe, quale la passiflora o granadiglia, descritta in vari testi coevi come un fiore legato alla

Passione del Cristo), alla storia della letteratura (l’uso di riportare i miti antichi all’ortodossia religiosa viene da Marino e dai marinisti, anche se nella lingua Buti non si conforma al loro modello), all’agiografia, ai grandi cicli pittorici su Flora di Reni e Guercino. Il clima storico-culturale è quello del controriformismo gesuitico, che mira a diffondere i principi della fede per mezzo di immagini (visive, linguistiche, sonore) interpretabili attraverso il meccanismo retorico dell’allegoria e della metafora. Cavallini non vuole dare risposte conclusive, bensì mira ad affastellare quesiti e ipotesi, a sollecitare l’oggetto di studio da punti di vista sempre diversi, come si trattasse d’un caleidoscopio. In questo inesausto problematizzare l’argomento d’indagine, sta la specificità e novità preziosissima delle sue Diagnosi.

jazz

Lo strano caso di Dino Betti van der Noot

di Adriano Mazzoletti trano caso quello di Dino Betti van der Noot, musicista di grandi capacità con al suo attivo una copiosa discografia iniziata già negli anni Ottanta e culminata, per il momento, con il suo ultimo lavoro God Save the Earth. Strano caso quello di Dino Betti van der Noot, vincitore di numerosi referenda indetti fra pubblico ed esperti, da diverse riviste: Usa Today, Musica e Dischi, Musica Jazz per alcuni suoi album: Here Comes Springtime (1985), They Cannot Know (1986), Space Blossoms (1989), The Humming Cloud (2008). Strano caso dicevo: perché, malgrado l’eccellenza della sua musica, i grandi musicisti che ha sempre utilizzato per la realizzazione delle sue opere (Gianluigi Trovesi, John Taylor,Tiziano Tononi, Andrea Dulbecco, Don Moye, Sandro Cerino, Giancarlo Schiaffini), il suo nome non è mai apparso nei cartelloni dei maggiori festi-

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val italiani, o in quello dell’Auditorium di Roma che ha appena varato una eccellente stagione e raddoppiato le orchestre stabili con un nuovo combo diretto da Enrico Rava, oppure in quello della Casa del Jazz? Dare una risposta a questo interrogativo è difficile. Forse Dino Betti che non si considera un professionista della musica - è un noto pubblicitario anche se ha maggiori capacità di scrittura di molti professionisti, preferisce il lavoro in sala di incisione che non le pubbliche esibizioni oppure perché è volutamente tenuto in disparte proprio per le sue grandi qualità che farebbero impallidire molti suoi più o meno illustri colle-

ghi? Il suo ultimo lavoro God Save the Earth, appena pubblicato dalla Sam Production e distribuito da Egea, è forse il più riuscito, non certo perché è l’ultimo, della sua importante carriera artistica. Franco Fayenz nelle note di copertina esprime alcuni concetti perfettamente condivisibili: «Giusto due anni fa scrivevo alcune note di copertina per l’ultimo cd di Dino Betti, The Humming Cloud. Era il settimo disco che lui firmava dal 1977 e mi arrischiavo a dire che era il più bello e originale di tutti. Adesso dico la stessa cosa per God Save the Earth. Anzi, esito un poco a sostenere che questo sia “più bello” dell’ultimo, istituendo un confronto

comunque discutibile. Si tratta di due prodotti artistici assai diversi, che a mio avviso riflettono stati d’animo e momenti autobiografici differenti. Forse il cd di cui parlo adesso è più sulle mie corde, la qual cosa può giustificare la nuova preferenza. Betti mi dice che con God Save the Earth ha inteso prima di tutto emozionare, il che è logico e naturale. E chiedere poi - prosegue - la massima creatività ai musicisti». Una intensa emozione deriva dagli oltre sessanta minuti di grande musica che Dino Betti ha composto ed eseguito alla testa di un’orchestra di 21 elementi. Ma sono soprattutto l’originalità dei temi, la scrittura degna di un grande musicista, la capacità di ispirare i solisti su cui emerge uno straordinario Sandro Cerino al flauto - che fanno di God Save the Earth una delle opere discografiche più significative del 2009. Dino Betti van der Noot, God Save the Earth, Sam Productions, Distrib. Egea


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narrativa

libri

di Pier Mario Fasanotti isognerà ricordarselo bene questo nome: Juan Gabriel Vàsquez. È nato a Bogotà nel 1973, ha studiato alla Sorbona di Parigi e attualmente vive a Barcellona. Il romanzo di cui parliamo oggi è stato tradotto in diverse lingue, il Financial Times lo ha inserito tra «i libri del 2009» e ha ricevuto importanti premi.Vàsquez usa un linguaggio che è un impasto originale in cui convergono le tradizioni europee e quelle sudamericane, ma queste ultime non rimangono avvinghiate al senso cromatico, alla suggestione e al chiasso fonetico che spesso marcano, in modo terribilmente uguale, le pagine che provengono da oltre oceano. Siamo in Colombia, dove Gabriel Santoro, avvocato, retore illustre dell’università, gioca fino all’ultimo con la sua straordinaria facondia, persino con il figlio, che si chiama come lui e che da giornalista ossessionato dalle vite degli altri ha scritto un libro su coloro che, con un semplice rapporto o anche solo con una mezza frase, hanno rovinato la vita a molti tedeschi in esilio. Gli Stati Uniti pretendevano dai paesi del Sud America le «liste», insomma un elenco di nomi che si riferivano a persone colpevoli di simpatie naziste. Questo per far saltare quel «ponte» tra il Reich e un intero continente che in teoria sarebbe stato in grado di fornire una sponda, un appoggio alle lugubri intenzioni di Hitler. Gli «internati» venivano ospitati in alberghi lontani dalla costa. Santoro subisce una delicata operazione, si convince che lo sta aspettando una seconda vita e non il declino. Ma ci sono le parole appuntite del figlio, raccoglitore di memorie e intervistatore di una profuga ebrea tedesca, Sara Guterman. Emerge da quel periodo nebbioso una probabile colpa di Santoro: è stato davvero lui a denunciare alle autorità Konrad Deresser, suo amico? E in base a quali elementi se davvero ce ne sono stati? Il vecchio Konrad perde danaro e moglie, va alla deriva e deciderà di darsi la morte. Gabriel lo scrittore continua la sua interminabile ricerca «in quell’inferno che è ricordare», scava, scopre, intuisce, ipotizza. Ed è consapevole di due cose. La prima: «Ci sono

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Cronache dall’inferno della memoria

cose che quando le sai ti inquinano». La seconda: «Gli errori si ereditano; si eredita la colpa; si paga per quello che hanno fatto gli avi». Gabriel il retore andrà a parlare con il figlio dell’amico che ha tradito, coerente con quanto pensa di sé: essere unico attore nella vita. E con questa maschera afferrare la scusa della colpa e la trasforma in un salvacondotto in grado di assolvere gli egoismi. Ci sarà un misterioso incidente d’auto («alcuni sembrano castighi» osserva l’autore) e l’anziano retore che vide il successo «inarrestabile come una calunnia» morirà in una scarpata. Da solo perché ha abbandonato l’ultima fidanzata nonché ex sua fisioterapista a Medellin, il luogo che non era di vacanza ma di espiazione. E la donna si sente «usata», umiliata e resa ancora più diffidente verso le persone senza radici, intrise di arroganza e «capaci di fare tutto». Un altro tradimento, non si cambia mai: due righe scritte su una busta lasciata nella camera d’albergo hanno la furia di una pallottola sparata a bruciapelo. Il bellissimo romanzo di Vàsquez riproduce senza grossolani schematismi il groviglio dell’esistenza, si muove verticalmente e lateralmente «perché la vita non è così ordinata come appare in un libro». Non solo: «La trasparenza è la truffa più grossa del mondo» era solito dire l’avvocato istrione, «ognuno di noi è le bugie che racconta». Nelle pagine esplode qua e là con la forza di un idrante lo iato tra la vita e il suo racconto. Gabriel che si fa palombaro in memorie dolorose, conviene con l’ebrea tedesca: «Neppure il racconto più riuscito poteva rimpiazzare il mondo reale, il mondo delle cose tangibili, di gente che ti urta e ti sfrega contro, dell’odore di piscio sui muri, dei vestiti sudati delle persone, e del piscio sui vestiti sudati dei mendicanti». Il professore dinanzi agli attoniti studenti soleva concludere così: «Quod era demonstrandum». Invece Santoro junior sa bene che la matematica della vita non dà mai risultati certi. Juan Gabriel Vàsquez, Gli informatori, Ponte alle Grazie, 300 pagine, 18,60 euro

riletture

Quel “Catino” d’esordio, una promessa mantenuta di Leone Piccioni i Margaret Mazzantini si è fatto di recente e giustamente un gran parlare dopo l’uscita del suo romanzo Venuto al mondo e dopo il suo largo successo, anch’esso giusto, al Premio Campiello. Ma torniamo sul suo nome perché l’editore Marsilio ha ristampato Il catino di zinco che apparve per la prima volta nel 1994, che ebbe subito come riconoscimento il Premio Rapallo per l’opera prima, e che andò, quasi sconosciuto, al Premio Campiello di quell’anno piazzandosi subito al secondo posto, dietro Tabucchi e che superò nelle vendite le duecentomila copie in Italia con molte traduzioni all’estero. La novità di questa ristampa è che in calce al libro vengono riportati alcuni saggi e interviste con la Mazzantini che apparvero in occasione dell’ultima uscita del suo primo romanzo. Ma non ne parliamo solo per questo, ma perché anche a rileggerlo ci troviamo davanti a un altro risultato narrati-

D

vo, che indicava senza alcun dubbio il grande dono di questa giovane scrittrice. Del resto la Mazzantini lavorò molto alla preparazione del Catino. Parlavo allora di una sua sorprendente innocenza e purezza di linguaggio spontaneo, attingendo al parlare consueto della gente, ma elegante, fresco e già ricco di esperienza. Incuriosiva allora il fatto che la Mazzantini fosse una brava attrice di prosa: ebbe un debutto al teatro greco di Siracusa che fece dire alla critica e alle sue colleghe non invidiose che forse era nata una nuova Duse. Poi Margaret si sposò con Sergio Castellitto. Spostò i suoi obiettivi di rappresentazione teatrale e si affermò in una bella edizione di A piedi nudi nel parco di Neil Simon. Nelle interviste di allora, oggi riproposte, naturalmente fioccano le domande dei critici sul suo passaggio dalla recitazione alla scrittura. Per Il catino di zinco, l’autrice raccontò che aveva impiegato sette anni a portarlo a compi-

mento. «Ho cominciato in un momento - diceva - in cui mi sentivo in crisi con il lavoro teatrale. Recitare è bellissimo, ma al dunque sei sempre al servizio di una poetica altrui… Io in fondo sono appartata, schiva, odio le fotografie, non mi piace far tardi. Amo recitare ma detesto tutto il cerimoniale che circonda la professione». E ancora: «La scrittura è diventata molto importante per me. La recitazione è in fondo un’attività abbastanza pudica. Sei in scena, tutti ti guardano, ma tu lavori nascosta dietro un personaggio. La scrittura invece ha una sua terribile impudicizia. Scrivi in solitudine, lontano dagli sguardi di tutti, ma al dunque non c’è alcun velo, alcun infingimento, alcuna mediazione. Scrivi, avvii un coloquio privatissimo con un interlocutore invisibile che è il lettore». Ci sono pagine nel Catino di zinco che sono rimaste nella mente di tutti e che bene figurerebbero in una scelta delle cose migliori della scrittrice. Il romanzo è dedicato alla nonna; si potrebbe

intitolare, parafrasando un altro titolo: «Un altare per la nonna». È lei che corre di notte alla ferrovia per riprendersi il figlio, giovane idealista, che ha deciso di partire per arruolarsi tra i soldati della Repubblica di Salò. Tutti i giovani compagni del figlio si stringono a lei, la considerano tutti una mamma, chi le chiede una cosa chi gliene chiede un’altra. Si arriverà poi alle struggenti pagine sulla lunga malattia e sulla morte della nonna, pagine stupende che sono destinate anche al nonno detto «poveromo». Ci sono punti di alta drammaticità e insieme di toccante poesia. E ci sono pezzi di bravura. In un capitolo (alle pagine 115119 dell’ultima edizione), ecco la Mazzantini prodursi in un lungo ed efficace monologo interiore, dimenticando anche la punteggiatura. Un’alba, dunque molto importante che resterà e che proietta la Mazzantini nelle successive prove: Non ti muovere del 2001, Premio Strega e Venuto al mondo del 2008, Premio Campiello.


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politica

I “think tank” dalla A alla Zeta

di Giancristiano Desiderio empre più spesso vi imbattete - ne sono certo nell’espressione think tank e sicuramente sapete anche cosa significa e che cosa fa un cosiddetto - per tradurre alla buona - «pensatoio». Ciò che non sapete è quando, dove, come, perché sono nati i think tank, espressione che alla lettera significa «serbatoio di pensiero», anche se in realtà tank vuol dire carro armato e la metafora bellica qui non è casuale. Per soddisfare questa vostra legittima curiosità - se non l’avevate, adesso son certo che l’avete - Il Mulino ha pubblicato il libro che fa al vostro caso nella

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personaggi

sua ormai storica e ben collaudata collana «Farsi un’idea»: I thin tank di Mattia Diletti, ovvero la fabbrica delle idee in America e in Europa. Il libro non lavora sulle idee, bensì su chi le produce e le vende, ma con un’ambizione: influenzare governi e opinione pubblica. Il think tank è un fenomeno tipicamente e interamente americano. L’imitazione europea e italiana è, appunto, solo un’imitazione e, per giunta, un’imitazione molto recente. Perché negli Stati Uniti i think tank non sono nati ieri o ieri l’altro, bensì oltre un secolo fa, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento con la fine dei partiti di massa americani. Oggi pensare

la democrazia americana - la democrazia più antica che ci sia, è bene non dimenticarlo - non è più possibile senza i think tank che alimentano la battaglia delle idee e forniscono al presidente, ai governi e alle opposizioni, ma anche alla grande macchina della burocrazia, un sostegno di ricerca e cultura che altrimenti non si saprebbe dove pescare. In America esistono, grosso modo, due grandi tipi di think tank: quello del tipo «università senza studenti», che ha una sua dimensione più accademica e illuministica, e quello che punta più sui valori e l’appartenenza e quindi più politico, il cui esempio massimo e più riuscito è senza dubbio la Heritage Foundation.

Il libro-guida è diviso in tre capitoli: il primo offre una rapida storia dei think tank; il secondo mostra come lavora e come si lavora in un think tank (forse il capitolo più interessante e intrigante); il terzo è dedicato al rapporto tra i «serbatoio di pensiero» e la democrazia. Il risultato è un libro agile che ci apre una prospettiva: ci fa capire come i think tank, in quanto producono conoscenza e studiano soluzioni praticabili, siano utili per la crescita della vita democratica. In fondo, che sono i think tank se non libere scuole in cui fare sia «ricerca pura» sia «ricerca applicata»? Mattia Diletti, I think tank, Il Mulino, 120 pagine, 8,80 euro

Di Pietro? Una “maschera” tipica dell’italianità di Angelo Crespi

Q

uello che sorprende nella biografia di Antonio Di Pietro è il mistero che avvolge i suoi primi trentacinque anni di vita e carriera che neppure un biografo acribioso come Filippo Facci è riuscito a dipanare. È un paradosso tutto italiano che la vita e le opere di Silvio Berlusconi siano state messe al setaccio migliaia di volte da indefessi magistrati e giornalisti, mentre l’esistenza dell’antagonista per eccellenza del Cavaliere, Di Pietro, resta sottotraccia quasi nascosto. Le poche notizie si ricavano da agiografie e l’unica fonte attendibile, seppur non autorizzata, resta la biografia abbozzata dallo stesso Facci tredici anni fa. Proprio Facci quasi ossessionato dalla figura dell’ex pm di Mani Pulite ha persistito a raccogliere materiale ora sistematizzato in un densissimo tomo di 500 pagine, e questo nonostante la cortina fumogena alzata da Di Pietro che spesso è caduto in contraddizione sugli inizi della propria sfolgorante carriera.

società

Ma al di là di questo alone di mistero che resiste su Di Pietro, prima impiegato nell’ufficio dell’aeronautica, poi poliziotto senza scrupoli e nel mezzo brillante laureato in giurisprudenza, il libro ripercorre l’ascesa del Di Pietro magistrato, registrandone il consenso totale presso gli italiani nell’era di Tangentopoli e poi il definitivo approdo alla politica come padrepadrone dell’Italia dei Valori. Nonostante quanto si possa credere, il libro di Facci non è un libro-contro o non solo, un’inchiesta dettagliata su uno dei grandi personaggi della Seconda repubblica. Ne esce un quadro a tutto tondo, con le dovute luci e ombre, tipiche di ogni uomo, le contraddizioni di una

delle figure più tipiche dell’italianità, una «maschera» in cui si sublima la scaltrezza, la furbizia, l’arroganza, ma pure l’ingenuità, la pronta intelligenza, la caparbietà che rasenta la testardaggine. In definitiva, quello di Facci, è il primo serio tentativo di tratteggiare la vita di un personaggio chiave di quest’ultimi anni su cui pesa la responsabilità di avere archiviato un’intera classe politica che resisteva da cinquant’anni e di aver poi messo a frutto il consenso avuto in un’epoca surreale del nostro Paese per fondare un partito che fa ancora del giustizialismo il suo valore fondante. Filippo Facci, Di Pietro. La storia vera, Mondadori, 518 pagine, 21,00 euro

Donne, potere e politica: analisi di una crisi di Gabriella Mecucci a contraddizione è evidente. I premier cominciano a mettere al governo le donne: lo hanno fatto massicciamente Sarkozy e Zapatero, ma in parte anche Berlusconi. E «il femminismo soprattutto nelle sue versioni radicali della pratica e del pensiero della differenza, ha prodotto e accompagnato una sorta di esodo delle donne dalla politica. Una politica in crisi, simbolicamente definita dal tramonto dell’autorità paterna, ma anche dall’incombere di un’“ombra della madre” che in passato è stata potente supporto della struttura patriarcale». E del resto - si potrebbe

L

aggiungere - ormai sempre più la politica sta diventando uno sbocco lavorativo, o meglio: una carriera. È stupefacente come vada di moda da parte delle diciottenni rispondere così alla domanda su cosa vogliono fare da grandi: «La velina, l’attrice, la parlamentare». No, non è la generalità delle ragazze a dire questo e nemmeno la maggioranza, ma la tendenza c’è e si sta affermando. La contraddizione fra l’ingresso delle donne nelle stanze del potere e l’abbandono della politica da parte delle «avanguardie femministe» viene messa a fuoco nel libro La paura degli uomini di Letizia Paolozzi e Alberto Leiss, edito il Saggiatore. L’ingresso e l’abbandono della politica sono entrambi

fenomeni nuovi, con motivazioni un tempo inimmaginabili. Questa diade agisce in una scena di profonda crisi di autorità che «indebolisce la politica e la democrazia.. mentre precipita la credibilità delle istituzioni». Tutti questi mondi sono ad assoluta predominanza maschile: da qui «la paura degli uomini» in un mondo «messo sottosopra dalle donne». Paolozzi e Leiss individuano la faglia che si è aperta e prevedono: «Le donne sono cambiate. Gli uomini dovranno cambiare». E riportano la sfida di Lia Cigarini, esponente della politica della differenza: «Dal momento che la democrazia rappresentativa l’avete inventata voi uomini, se è malata dovete essere voi a gua-

rirla». Il libro scruta tutti gli angoli della crisi politica e maschile, ma anche le vecchie e nuove incertezze femminili. Affronta con un’ottica non scontata alcuni i temi caldi: dalla vicenda Englaro all’aborto, dalla violenza quotidiana ai problemi del lavoro. Ne viene fuori un saggio interessante: né ripetitivo né banale. Utile anche per chi - come chi scrive - non condivide alcune analisi e alcune risposte. È come guardare allo specchio l’altro da sé. I percorsi e gli approdi diversi di chi ha avuto un punto di partenza simile. Letizia Paolozzi e Alberto Leiss, La paura degli uomini, il Saggiatore, 158 pagine, 13,00 euro

altre letture La crisi dell’autunno 2008 fa sentire ancora i suoi effetti dimostrando che certe riflessioni sarebbe stato meglio farle prima dei crolli di Wall street. Capitalismi. Crisi globale ed economia italiana (Boroli editore, 172 pagine, 14,00 euro) contiene le conversazioni tra Giulio Sapelli e Lodovico Festa sulla crisi globale, lo sviluppo italiano, la nostra economia pubblica e lo strapotere delle banche. Il libro tenta di dare risposta anche alle seguenti domande: perché un imprenditore innovatore come Adriano Olivetti fu isolato? Che nesso c’è tra il nuovo sistema politico bipolare e la governance delle municipalizzate? Quanto la mancanza di un ruolo nazionale della nostra borghesia durante il Risorgimento incise sulle caratteristiche oligarchiche del nostro sviluppo economico, caratterizzato dall’assenza di adeguati gruppi industriali? Il ventennio tra le due guerre è un periodo di profonda crisi, contrassegnato da dispute irrisolte e da un diffuso caos economico e politico. Richard Overy in Crisi tra le due guerre mondiali (Il Mulino, 193 pagine, 12,50 euro) analizza il riacutizzarsi delle tensioni internazionali con gli assetti della pace di Versailles; la rivoluzione russa e le sue conseguenze sulla lotta politica negli altri Paesi; la modernizzazione e le spinte reazionarie che essa generò in tutta Europa; il grande crollo finanziario del 1929; la diffusione dei regimi totalitari. Il libro ricapitola le componenti storico politiche di questa crisi e ne indica con chiarezza le conseguenze sulla successiva storia mondiale. Come raccontare in modo ironico l’avventura di essere donna single tra i trenta e i quarant’anni nella Spagna di oggi? Angela Vallvey ha scelto di farlo con un romanzo dove Sonia, un’affermata psicanalista, racconta la sua strampalata routine domestica e professionale. Single per scelta Sonia deve fare i conti con una madre scatenata che non si rassegna a invecchiare e che porta continuamente a casa fidanzati improponibili e una sorella minore superficiale. Sonia tiene anche una rubrica giornalistica di consigli del cuore dove applica alla vita degli altri le regole che non riesce a rispettare nella sua. E fa i salti mortali per tirar su due figlie adolescenti e mantenersi in forma. Le bambole sono tutte carnivore (Guanda, 379 pagine, 17,00 euro) mette a nudo con ironia e intelligenza le contraddizioni della donna moderna. a cura di Riccardo Paradisi


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UMBERTO ZANOTTI-BIANCO PROFONDAMENTE LIBERALE E SINCERAMENTE DEMOCRATICO, FU UN EROE CIVILE NEL SUO ESSERE UN ANTIEROE, UNO SPIRITO ELETTO CHE SEPPE STARE SEMPRE NEL SUO TEMPO OPERANDO PER RENDERLO MIGLIORE. DEDICÒ LA SUA VITA AL RISCATTO DEL MEZZOGIORNO, CONVINTO CHE LAVORARE PER QUELLA PARTE DIMENTICATA DEL PAESE FOSSE “UNA RESURREZIONE, … UNA SCOPERTA DI UN SE STESSO IGNOTO, MAI APPARSO ALLA LUCE”. UN SAGGIO RESTITUISCE ALL’ATTUALITÀ LA SUA FIGURA E LA SUA OPERA

ritratti

L’uomo del Sud

di Sergio Zoppi Per gentile concessione dell’editore Rubbettino, pubblichiamo alcuni passi dell’ultimo capitolo del libro di Sergio Zoppi, Umberto Zanotti-Bianco. L’amore per la vita e per gli altri. Il suo progetto e il nostro tempo. ra certamente un uomo spinto da impetuose passioni morali e civili. Il suo spirito rigoroso, inflessibile con se stesso, e i suoi modi eleganti e signorili sapevano conciliarsi con le mille, spesso fastidiose, incombenze dell’azione quotidiana, tenacemente realizzata. Nutriva anche una passione politica da autentico patriota. Ha sempre coltivato l’impegno a favore di un’Italia che completasse nella sostanza, oltre che nelle leggi, il grande disegno risorgimentale dei più lungimiranti patrioti: quello dell’unità territoriale e quello dell’unificazione spirituale, condizioni indispensabili per dar luogo a una riconosciuta comunità nazionale. In anni

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parti, con una laicità aperta, rispettosa, serenamente disponibile all’ascolto e pronta al dialogo. L’uomo, alla perenne ricerca della verità, che affermava: «Lavorare nel sud è una resurrezione. È una scoperta di un se stesso ignoto, mai apparso alla luce».

Non si possono non associare a Zanotti le luminose figure dei cattolici liberali Alessandro Casati, Stefano Jacini (in una stagione della vita impegnato al fianco di Sturzo e di De Gasperi) e Tommaso Gallarati Scotti, espressione tutti di una ristretta ma illuminata società milanese e lombarda. Né in Zanotti si era mai spenta l’eco delle battaglie murriane e del dramma modernista, con il suo Fogazzaro, che si affiancava all’adesione convinta ai più alti, e non del tutto dispersi, ideali risorgimentali, nell’insegnamento di Mazzini e di Cavour e nei valori incarnati da Salvemini e Gobetti, fino a Ei-

Dopo il terremoto di Messina e Reggio Calabria del 1908 dette vita all’Animi. Fu presidente della Croce Rossa e di “Italia nostra”, convinto com’era che fosse essenza di vera italianità conservare e valorizzare il nostro tesoro di bellezze naturali e artistiche complessi, concorse a mettere in evidenza l’impegno civile di quella porzione di borghesia colta e illuminata, pronta ad assecondare i suoi piani, e anche di una nobiltà, pur minoritaria nel numero, non distratta da futili incombenze, ma consapevole dei valori della solidarietà se effettivamente praticati. Persuaso com’era che fosse un dovere civile integrare sempre, sia pure modestamente, con le proprie disponibilità finanziarie gli sforzi dello Stato e che fosse altresì opera di vera italianità aiutare le iniziative che non mirano solo al miglioramento e al benessere materiale, ma anche alla conservazione e alla valorizzazione del tesoro di bellezze naturali delle quali l’Italia era stata generosamente dotata e di tesori artistici tramandati dalle generazioni precedenti. Un missionario o un santo laico, un asceta è stato detto e scritto da più

naudi; impetuose e tumultuose correnti spirituali e culturali che mai sfoceranno, lungo tutta la vita di Zanotti, in un placido lago. Nel secondo dopoguerra, dichiarò apertamente le proprie idee liberali, aderendo al partito che le rappresentava, scevro di spirito di fazione. In quel periodo seppe assumersi nuove e anche non previste responsabilità: la presidenza nazionale della Cri, la presidenza di «Italia Nostra» e quella dell’Animi (Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno, ndr). Nominato senatore a vita da Einaudi - con il pieno assenso di Alcide De Gasperi che di Zanotti, superando le incomprensioni e i contrasti al tempo della Croce Rossa, rimase un convinto estimatore - assicurò nelle aule di palazzo Madama, per un dodicennio, presenza, partecipazione e

contributi di qualità, sia come legislatore, sia come membro di commissioni, sia infine nel ricordare persone e pagine di vite sempre intensamente vissute. Tutta la sua azione di programmatore, di progettista, di scopritore e di realizzatore e di educatore, di capo a volte duro e impaziente, fu sempre inquadrata in una visione generale che s’impegnò a trasferire, perché fosse realizzata e arricchita, alle persone con le quali costantemente dialogava, illustrava, spiegava, ricercando conforto morale, adesione civile, concreta partecipazione. Quella visione può essere così riassunta: l’imperativo di agire per il bene comune, partendo dai deboli, testimoniare la verità, sempre e comunque, il dovere di proporsi come esempio pur nell’umiltà dell’atteggiamento, l’impegno a concorrere a dar corpo a un’Italia sognata e illustrata dai maestri ai quali aveva attinto e che mai aveva dimenticato. In lui, com’è stato ben rilevato, si compongono e si esprimono grandi valori e aspirazioni rimasti troppo a lungo separati dopo l’unificazione del regno: «L’idea della maestà dello Stato e quella della fratellanza tra i cittadini». Valgono anche per lui le parole di Francesco De Sanctis, ricordate alla Camera dei Deputati, da Giustino Fortunato in commemorazione del grande letterato: «Uno può essere martire, può combattere e morire pel suo paese, ed esserne indegno; la grandezza non è nell’azione, è nello spirito che ci si mette dentro». È, al tempo stesso, uomo del Risorgimento e uomo della Resistenza.

C’è da domandarsi quanto abbia fruttificato l’azione dell’Animi in campo scolastico ed educativo svolta per oltre sessant’anni, soprattutto in Calabria. Decine di migliaia di giovani e tanti adulti hanno imparato a leggere, a scrivere, a conoscere il proprio Paese e ad amarlo. Un numero veramente grande di fanciulli è stato sottratto all’ignoranza e ad ambienti malsani grazie all’opera provvidenziale degli asili. Migliaia di maestre e maestri hanno assecondato, da protagonisti, questo progetto ricco di passioni e di contenuti, incoraggiati e aiutati dal personale dell’Associazione, sia quello che operava sul campo sia quello cha affiancava i vari presidenti nel romano palazzo Taverna. La risposta non si


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presenta facile; potrebbe addirittura apparire sconfortante. Ma l’analfabetismo di massa è stato vinto, il valore unico della educazione e della formazione scolastica affermato, anche con la creazione di presìdi di alto valore scientifico e di nuove sedi universitarie. Chi, principalmente nel mondo femminile, ancora lo ricorda lo descrive ricco di fascino, quasi regale nel portamento, biondo nella giovinezza e candido nella maturità, severo e austero, dalle mani diafane, bianchissime. Viene da aggiungere: «Ritto e severo, radiante invisibili raggi di uno spirito dominatore [...]», come il Benedetto de Il Santo. Quel Benedetto, ovvero Piero Maironi, per cui il cristianesimo era «sopra tutto azione e vita secondo lo spirito di Cristo». L’uomo che affascinava anche per la purezza degli ideali praticati, muore, stanco e invecchiato più di quanto indicasse l’età anagrafica pur sempre attivo su più fronti, nel 1963, un anno tanto significativo nel mondo, quando l’Italia, pur chiamata a far fronte a prime difficoltà economiche dopo l’eccezionale rinascita, è in piena crescita. Un’Italia che sta cambiando nel pensare e nell’agire politico, mentre si intravedono le avvisaglie di una crisi economica mondiale che sarà superata. Comincia a manifestarsi, nella contemporanea liberazione per molti di antichi bisogni materiali, la decadenza dei costumi civili e politici, questi ultimi da poco assunti e parzialmente assimilati. Inconsapevolmente l’Italia si avvia verso tragedie impensabili, nel ristagno di politiche appena ieri audaci, innovative e positive per il Mezzogiorno.

Una serie di immagini di Umberto Zanotti-Bianco tratte dall’Archivio storico dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia-Animi, Roma, “Serie fotografie”

L’imperativo di agire per il bene comune, partendo dai deboli. Testimoniare la verità. Il dovere di proporsi come esempio nell’umiltà dell’atteggiamento. L’impegno a dare corpo a un’Italia illustrata dai maestri mai dimenticati. Ecco i suoi comandamenti...

Il personaggio, il libro mberto Zanotti-Bianco, di padre piemontese, diplomatico, e di madre di origine britannica, nasce a Canea (Creta) il 22 gennaio 1989. Studia dai padri Barnabiti e si laurea in giurisprudenza a Torino. Sollecitato da Fogazzaro e dal padre Semeria a dare soccorso ai sopravvissuti del terremoto che nel 1908 distrugge Messina e Reggio Calabria, decide di dedicare la sua vita al riscatto del Mezzogiorno. Nel 1910, insieme ad alcuni amici, dà vita all’Animi, Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno di cui P.Villari e L. Franchetti furono i primi presidenti. Inizia da allora un’intensa attività che porta alla formazione o alla specializzazione di un vasto numero di maestri e alla creazione di centinaia di asili, di scuole elementari e di biblioteche. Eroico combattente nella Grande guerra, per settimane tra la vita e la morte per le gravi ferite riportate in combattimento, ha intensi e amichevoli rapporti con Gobetti e Salvemini. Si schiera in difesa di Matteotti e di Amendola, sviluppando negli anni feconde collaborazioni con Fortunato, Croce e con Gentile. Nel 1921 promuove la Società Magna Grecia che, presieduta dal noto archeologo Orsi, compie numerosi e importanti scavi. Zanotti-Bianco, unitamente all’archeologa Zancani Montuoro, scopre l’Heraion alla foce del fiume Sele. Partecipa alla Resistenza. Nel 1944 diviene presidente nazionale della Croce Rossa Italiana che guida, riorganizzandola, per quasi cinque anni. Sarà il primo presidente di «Italia Nostra» e, dal 1952, senatore a vita, no-

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minato dal presidente della Repubblica Einaudi. Nel secondo dopoguerra assume anche la presidenza dell’Animi. Autentico liberale, animato da una profonda fede religiosa, ha costanti punti di riferimento in Mazzini, Tolstoi e Fogazzaro. Si recò ripetutamente all’estero tutte le volte che calamità naturali recavano dolore. Si distinse inoltre quale creatore e animatore di periodici e di prestigiose collane editoriali e come autore di importanti saggi e volumi. Muore a Roma nell’agosto del 1963. Il libro di Sergio Zoppi (storico, ex direttore generale e poi presidente del Formez, già autore di volumi quali Dalla Rerum Novarum alla democrazia cristiana di Murri, Il Mulino 1991; Il Mezzogiorno delle buone regole, Il Mulino 2000; Il Mezzogiorno di De Gasperi e Sturzo, 1944-1959, Rubbettino 1998 e 2004) dedicato a Umberto Zanotti-Bianco, in questi giorni in libreria (Rubbettino editore, 248 pagine, 16,00 euro), ricostruisce la vita - austera, coraggiosa, ricca di eventi in Italia e in tanti altri Paesi, disseminata di sacrifici e di sofferenze - di un alfiere per l’indipendenza dei popoli, l’affrancamento dei deboli, l’affermazione della libertà nella giustizia; unendo nel tempo i valori risorgimentali, sempre appassionatamente vissuti, con quelli della nuova Italia democratica repubblicana, nata attraverso il dolore e l’umiliazione che ne precedono la redenzione morale, civile, militare e politica.

Pare quasi che Zanotti capisca che è giunto il momento d’andarsene. La sua vita è costellata da momenti diversi, da differenti responsabilità.Tutti caratterizzati da un obiettivo: rapportarsi all’altro, al fratello per alleviarne il dolore e consentirne una vita segnata da valori irrinunciabili. Lo Zanotti poco più che ragazzo dell’aiuto ai diseredati del 1908, della cura dei bambini, della lotta all’analfabetismo, della diffusione delle biblioteche, delle iniziative per facilitare la piccola intrapresa economica è lo stesso uomo proteso allo studio e alla valorizzazione della storia e della cultura, all’amore per il passato e alla passione, da archeologo di razza, per la scoperta dei segni di antiche civiltà che offrissero al presente un retaggio di nobiltà, sino alla capacità di organizzare a scala moderna l’aiuto ai sofferenti ovunque risultassero raggiungibili nel mondo, sino ancora, da politico e da parlamentare, all’impegno per promuovere la cultura, sottolineare l’esigenza imprescindibile di poter contare su una razionale amministrazione pubblica, di allentare le pressioni centralistiche degli apparati statali. È lo stesso Zanotti che unisce, ancora una volta, una pluralità di forze per dar vita, tra privati, a un organismo di difesa e di valorizzazione dell’ambiente, delle risorse culturali, dell’immenso e unico patrimonio artistico del suo Paese, della sua Italia. Tenendosi sempre lontano da quel conformismo che ottunde le coscienze, riducendo al silenzio le voci alla ricerca della verità nella giustizia. In un pantheon ideale dei costruttori di un’Italia ancorata ai valori della libertà e della giustizia, della fratellanza e della solidarietà, della capacità di ideare, creare, innovare, progettare e realizzare, di educare e di formare, di amare la storia e insieme la natura, rivivendo la prima e proteggendo e arricchendo la seconda, di collegare passato e presente guardando sempre al futuro, come non collocare, in prima fila, Umberto ZanottiBianco, con il suo profondo amore di patria, mai intriso di retorica? La nobiltà della vita, i sacrifici compiuti, le scelte pratiche e al tempo stesso i progetti lungimiranti avviati e, in parte, realizzati, l’insegnamento impartito e l’eredità lasciata, lo indicano tra i grandi del Novecento italiano, patriota, filantropo, ideatore, progettista e realizzatore nel campo educativo, archeologo, meridionalista, parlamentare e politico, profondamente liberale e sinceramente democratico, un eroe civile nel suo essere un antieroe, uno spirito eletto. Un animo eletto che seppe dunque stare sempre nel suo tempo operando per renderlo migliore, anche al di fuori dei confini nazionali, sensibile interprete e innovatore della millenaria vocazione italiana, pur tante volte offuscata ma mai spenta, di cultura, di operosità e di fratellanza.


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tv

Il romanzo di Adele: l’amore in 38 coltellate

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di Pier Mario Fasanotti i solito, sia nei libri che in televisione, si ricostruiscono le fasi salienti dei fatti criminali e le tappe delle indagini (spesso dilettantesche. Maestro in questo genere è lo scrittore Carlo Lucarelli che nel piccolo schermo (con Blu notte) offre un quadro esaustivo degli accadimenti dell’Italia «nera». Tuttavia molti si chiedono: che fine hanno fatto i colpevoli? Sono gli stessi di prima, sono cambiati, e che versione danno di quel corto circuito mentale che li ha portati all’«insano gesto»? Soddisfa questi interrogativi il programma condotto da Franca Leosini, Storie maledette (sabato alle 23,45, Rai 3). La giornalista, rigorosamente preparata sulle carte processuali, va a trovare in carcere alcuni personaggi, non tutti così noti. Una delle ultime interviste può essere considerata un vero romanzo. Il titolo della puntata è L’amante giovane, ed è la storia di Adele Mongelli, sposata e madre di quattro figli, che nel dicembre del 2000 uccide con 38 coltellate l’amante ventisettenne Giuseppe, di ben 26 anni più giovane di lei. Una vicenda straziante, con risvolti di ingenuità e tenerezza, almeno fino al mattatoio finale nella camera da letto con la tv a volume alto. Adele, che vive a Gioia del Colle (Puglia), si sposa a diciassette anni dopo una «fuitina» con il futuro marito che la sequestra in auto e le insegna l’amore, sia pure brutalmente. Si sposano. Lui la controlla in modo ossessivo, anche perché la donna, formosa, si veste in modo appariscente. È una maniera per recuperare la sua femminilità umiliata. E il paese mormora. Lui è via tutto il giorno, bada ai campi e fa frequenti visite alla masseria della madre. La sera dice d’essere stanco. Una mattina Adele è avvicinata da un giovane che la inonda di complimenti: è garbato, ma a lei non piace perché «un po’cicciotello». Giuseppe comincia l’assedio telefonico. Ade-

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Franca Leosini, autrice e conduttrice di “Storie maledette”

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FOTOTESSERE SUBITO

le, per curiosità e per frustrazione coniugale, accetta di frequentare il giovane uomo che la fa «sentire importante». È questo il millenario grimaldello che scatena la passione femminile. E la differenza d’età? Lui assicura di guardare lei, non i suoi anni. Dopo sei mesi l’amicizia diventa relazione sfrenata. Su insistenza di Giuseppe, Adele si separa, va in un appartamentino con due dei suoi figli. Verso mezzanotte Giuseppe la raggiunge: s’infila subito nella camera da letto, non ha occasione, o desiderio, di conoscere i suoi figli. Ringiovanita da un amore che forse non riteneva più possibile, Adele si veste «da giovane». «Era provocante» diranno il marito e altri testimoni al processo. Inevitabile: Adele, amante matura, immagina ipotetiche fidanzate di lui, e «rimedia» con un abbigliamento sfacciatamente adolescenziale. All’intervistatrice la signora Mongelli, condannata a 15 anni, dice e non dice la verità: «No, non consideravo rivali le sue coetanee, semmai era lui quello geloso». Prima della separazione, chiede Franca Leosini, con quale stato d’animo tornava a casa? Risposta: «C’era un po’ il senso di colpa, ma al tempo stesso mi portavo dietro una grande felicità». La giornalista insiste su un punto: Giuseppe le prospettava una vita insieme? Adele risponde di sì, ma non è troppo convinta. Scoprirà più tardi, addirittura al processo, che Giuseppe la raggiungeva tardi perché prima incontrava la fidanzata (tale da ben quattro anni). Infine la notte fatale. «Abbiamo fatto l’amore come al solito… no, forse in maniera più rude». Mentre lui si riveste dice: «Adele, ci dobbiamo lasciare, tu sei troppo vecchia per me. Sposo la mia ragazza». Lei, come una sonnambula, va in cucina a prendere un coltello serramanico. Torna in camera e lo accoltella. Dopo la mattanza, lei si sdraia accanto a lui e dorme fino alle sette del mattino. Poi si alza e prepara la colazione per la figlia. «Non mi ricordo niente, davvero. Pensavo che Giuseppe fosse vivo. Ho detto a mia figlia di parlare piano, per non svegliarlo».

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NEL NOME DELLA ROSA

PRIMA DEI LUMIÈRE

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asta dotarsi di qualche foglio di carta fotografica, lanciare la stampa con un clic, e il gioco è fatto: la fototessera valida per i nostri documenti è pronta, senza dover avventurarsi in kafkiane traversate metropolitane alla ricerca di una macchinetta funzionante. Il servizio si chiama EPassportphoto, e consente di produrre il giusto formato richiesto per patenti e documen-

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anciata in Italia da Adventure Productions, e ispirata a Il nome della rosa di Umberto Eco, The Abbey è un’avventura grafica piena di mistero. La vicenda segue il viaggio di di due religiosi, Leonardo De Toledo e il novizio Bruno, fino all’ abbazia di Nuestra Señora de la Natividad, dove indagheranno sull’oscura morte del monaco Anselmo. Tra segreti, messaggi

l primo novembre del 1895, con un mese e mezzo d’anticipo sulla fatidica proiezione parigina che decretò l’inizio del cinema a opera dei Lumière, i fratelli tedeschi Max, Emil ed Eugen Skladanowsky mostrarono a un pubblico entusiasta sei brevi filmini presso il Wintergarten di Berlino. Circostanza che li rende di fatto i veri padri delle immagini in movimento, messe in scena

”Epassportphoto” è un servizio on line che permette la stampa di foto per documenti

”The Abbey” ricalca le orme del celebre romanzo di Eco. Un’avventura piena di enigmi

“I fratelli Skladanowsky”: la vera storia della nascita del cinema raccontata da Wim Wenders

ti d’identità, a partire dall’upload di una nostra foto. Bisogna ricorrere al giusto settaggio, circoscrivendo una porzione di immagine che comprenda il volto e la parte terminale delle spalle, salvare la tessera in formato jpg, e poi avviare la stampante. Raccomandato, naturalmente, l’utilizzo di pose in cui i tratti somatici siano ben illuminati e a fuoco, e non ricoperti da indumenti o occhiali da sole. I meno impazienti, o gli sprovvisti di stampante, possono poi avvalersi di apposito servizio on line. Una risorsa gratuita, facile e veloce, che rispetta gli standard propri di ciascun Paese dell’utente. Disponibile all’indirizzo epassportphoto.com.

cifrati e interrogatori di personaggi reticenti, il giocatore dovrà aguzzare l’ingegno e penetrare a fondo l’accurata psicologia dei protagonisti, per riuscire a venire a capo della faccenda. Per una volta, dunque, niente sparatorie e colpi di scena rocamboleschi innestati sullo storyboard come corpi estranei sotto forma di chiassosi effetti speciali. Il tutto accompagnato da doppiaggi impeccabili, colonna sonora inquietante ma mai stordente e particolare attenzione ai dettagli. Venti ore di gioco complessive, ben spese.

grazie al Bioskop, un apparecchio a doppio proiettore che non ebbe la stessa fortuna di quello ideato dai rivali francesi. È questa la storia, poco nota, che Wim Wenders ha rispolverato nel 1995 con il bel documentario I fratelli Skladanowsky, riproposto dalla Ripley’s Home Video. Prodotto e realizzato dallo stesso cineasta tedesco con gli allievi della Hochschule für Fernsehen und Film di Monaco, l’opera ricostruisce la storia del Bioskop in un effervescente bianco e nero che sprizza humour e calorosa partecipazione. A completare la storia degli Skladanowsky, l’intervista alla arzilla figlia di uno dei tre fratelli, e poi cimeli e memorabilia.

a cura di Francesco Lo Dico

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cinema di Anselma Dell’Olio a quarta edizione del Festival Internazionale del Cinema di Roma dimostra che, nonostante le difficili condizioni economiche, e il traumatico passaggio di consegne a Gianluigi Rondi e Piera Detassis dai fondatori Walter Veltroni e Goffredo Bettini, la città e gli artisti ci vengono volentieri. George Clooney, vecchio habitué delle mostre di Venezia, di Cannes, Toronto e di tante altre rassegne, arrivato per la prima volta con un film alla festa romana, si è detto meravigliato dell’eleganza, grazia e maestosità del Red Carpet, che passa in mezzo alla stupenda architettura dell’Auditorium di Renzo Piano. «In genere i giovani festival sono piccoli, poveri, tenuti insieme con lo scotch, ma qui la struttura e il colpo d’occhio sul Red Carpet è di una magnificenza che supera tutti quelli che ho frequentato». Per altro il suo Up in the Air (Tra le nuvole) nel concorso principale, è in assoluto il più bel film visto finora. Il regista è il giovane e dotato Jason Reitman, che ha vinto con l’originale, spassoso, anticonformista Juno due anni fa. È degno figlio d’arte del suo insuperabile padre Ivan, produttore e regista (tra molto altro) di Ghostbusters-L’acchiappafantasmi e Dave-presidente per un giorno. Nei tre film girati finora ha sempre scelto protagonisti scabrosi in situazioni particolarmente difficili. Thank You For Smoking aveva al centro il capo lobbista per l’industria del tabacco americano. Juno è una liceale sedicenne incinta per sbaglio al primo rapporto, dilaniata dall’eterno dilemma di chi ha una gravidanza indesiderata: «Scelgo la vita o mi libero dell’ingombro?». In Tra le nuvole, Clooney è Ryan Bingham, uno scapolo quasi cinquantenne, piacione e refrattario a ogni stabilità emotiva o residenziale. Di professione fa il pescecane: gira gli Stati Uniti in soccorso di aziende che hanno bisogno di un tagliatore di testa. E come gli squali, ha bisogno di stare in perenne movimento. È un uomo che sta «tra le nuvole» in senso letterale e metaforico: vive in aereo e non ha rapporti impegnativi di alcun genere. Un esperto del trolley scientificamente preparato ed esclusivamente portato a mano (il check-in significa una perdita media di 35 minuti per volo), che vive in appartamenti anonimi e alla fine si trasferisce in un desolante residence, peggio degli alberghi di lusso in cui passa felicemente undici mesi l’anno. Adora gli aeroporti e la vita da nomade privilegiato gli si attaglia alla perfezione. Accumula all’ingrosso tessere vip e miglia frequent flyer: il suo sogno più grande è entrare nell’assai esclusivo club riservato a chi ne ha accumulato dieci milioni, con privilegi inarrivabili come il diritto a una conversazione privata con il pilota…

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A Bingham persino il contatto con la famiglia d’origine va dosato col contagocce. Non ha più i genitori, solo una sorella più grande e una più piccola, Julie, che sta per sposarsi e che conosce appena. Fino al punto che Julie ha chiesto allo zio dello sposo di accompagnarla all’altare, nemmeno sicura che il fratello sarebbe venuto al matrimonio. Le scene dei licenziamenti sono impagabili. Bingham ha un tale eloquio fascinoso che i malcapitati sono storditi dai luoghi comuni lucidati e riciclati ti-

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George, Richard e gli altri

notizie dal Festival di Roma

Mai come in “Tra le nuvole”, del bravo Jason Reitman, già acclamato regista di “Juno”, l’affascinante Clooney appare l’erede naturale di Cary Grant. E anche Gere, protagonista di “Hachiko” (fuori concorso), più invecchia e più diventa bravo pici del «conferenziere motivazionale», seconda professione del tagliateste. Chissà se gli italiani (specie i critici), piagnoni eterni sul precariato e il lavoro in generale, si accorgeranno che le belle frasi rifatte sul futuro radioso che «sicuramente aspetta» il neo-disoccupato, hanno spesso più di un nocciolo di verità (se no che luoghi comuni sarebbero?) e aiutano molti licenziati in tronco a trovare il coraggio indispensabile per andare avanti. Due donne entrano nella sua vita e daranno una svolta decisiva alla sua visione del mondo. Una è Alex (l’ottima Ve-

ra Farmiga, nella vita eroicamente passata dalla sala parto al set), donna d’affari giramondo come lui, più che felice di rapporti «usa e getta», senza impegno né attese. L’altra è la giovane Anna Kendrick, di un’avvenenza originale con viso espressivo e sguardo luminoso. Il film uscirà il 15 gennaio 2010 in Italia e a Natale negli Stati Uniti, dove si parla già di candidature all’Oscar. Clooney veste un ruolo che gli calza al millimetro: l’affascinante e inaffidabile mascalzone; mai come qui è meritevole della corona, spesso invocata per lui, di erede naturale di Cary Grant.

Una sezione da non trascurare al festival romano è Extra/L’altro cinema, stupendamente diretta da Mario Sesti. Ogni anno si scovano film ed eventi di qualità alta, e qualche volta capolavori come il documentario Man On Wire di due anni fa, sul funambolo francese che nei primi anni Settanta passeggiò sul filo teso illegalmente tra le Due Torri di Manhattan appena costruite. Quest’anno ha fatto centro, tra molto altro, con Garbo, nome in codice della fantastica, autodidatta spia catalana, soprannominato «l’uomo che salvò il mondo» per la sua decisiva quanto improbabile assistenza nel decrittare i codici tedeschi e per la sua abilità nel convincere lo Stato maggiore del Terzo Reich (faceva controspionaggio per gli inglesi) che lo sbarco in Normandia era solo un diversivo e che il vero assalto alleato sarebbe avvenuto al Pas de Calais. Sempre in Extra, l’esilarante Simon Koniansky, una deliziosa commedia franco-belgacanadese, sui rapporti dell’omonima famiglia ebraica dell’imbranato protagonista, tornato a vivere col vecchio padre - sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti (e non glielo fa mai dimenticare) -, il vecchio zio paranoico e la zia chiacchierona e impicciona. Sono felici che Simon sia stato buttato fuori dalla moglie danzatrice latina e ariana, ma adorano il nipotino Hadrien. Nella storia c’è tutta l’arte ebraica di far prendere aria a scomode e tragiche verità con l’ironia. Distribuito dalla Fandango, vale il viaggio. Ottimo e interessante anche il documentario girato da un Marine, il luogotenente Mike Scotti, mentre era in prima linea durante l’operazione Enduring Freedom contro Saddam Hussein.Teniamo le dita incrociate per la distribuzione sugli schermi italiani. Tra i Fuori Concorso/Anteprima, c’è la commovente storia (tratta da una storia vera accaduta in Giappone negli anni Trenta) di Hachiko, un cane akita trovatello che stabilisce un legame fuori dal comune (un autentico rapporto di amore eterno) con il suo salvatore e padrone, un professore universitario. Il protagonista è Richard Gere, che più invecchia, più diventa bravo. Portare molti fazzoletti. Da non perdere.


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poesia

La verità nascosta di Maeterlinck di Francesco Napoli Claude Debussy ci vollero dieci anni per dar vita a un dramma lirico in cinque atti e dodici quadri tratto dal Pelléas et Mélisande che Maurice Maeterlinck (Gand, 1862-Nizza, 1949) aveva pubblicato nel 1892. Il poeta belga era già famoso: Octave Mirbeau nell’agosto del 1890 aveva salutato il suo esordio come autore teatrale sulla prima pagina del Figaro definendolo «il nuovo Shakespeare belga». Aveva come compagna un’attrice di teatro, Georgette Leblanc, che cercò a tutti i costi di imporre a Debussy nella riduzione musicale che il maestro francese stava compiendo della sua Pelléas et Mélisande. Debussy, infatti, si limitò a tagliare alcune scene, per lo più per motivi di lunghezza, e riprese per intero il dialogato di Maeterlinck. La fedeltà alla prosa francese del poeta obbligò Debussy a inventare un modello originale di declamato lirico, capace in tutto di rispettare la prosodia del testo, con il risultato di dar vita a un’intonazione estremamente scorrevole e parlante, ma ricca di incredibili sfumature espressive. Teatro simbolista quello del poeta, dramma impressionista quello del musicista che tenne duro, non favorì la scelta della compagna di Maeterlinck che allora si dissociò e, anzi, si augurò il fiasco dell’opera in musica. Così non fu: se la prima a Parigi nell’aprile del 1902 praticamente fu boicottata, già alla seconda rappresentazione visse un successo clamoroso. Ma su quest’opera teatrale, concepita dal poeta belga con personaggi la cui storia e il cui ambiente non appartengono ad alcun tempo e ad alcun luogo, aspetto che affascinò Debussy, si era già cimentato Gabriel Fauré e dopo vi misero mano anche Sibelius e Schoenberg.

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ORAZIONE Abbiate pietà della mia assenza Alla soglia delle intenzioni! L’anima è pallida di impotenza E di inazioni bianche. La mia anima dalle opere abbandonate, La mia anima pallida di singhiozzi Guarda invano le mani affaticate Tremare su ogni cosa non sbocciata. E mentre il cuore soffia Bolle di sogni color lilla, La mia anima dalle fragili mani di cera Innaffia un chiaro di luna stanco; Un chiaro di luna dove traspaiono I gigli ingialliti del domani; Un chiaro di luna dove nascono soltanto Le ombre tristi delle mani

Maurice Maeterlinck (da Serre calde)

Maurice Maeterlinck aveva esordito in poesia nel 1889 con Serres Chaudes (Serre calde). L’autore era un conte dal nome lungo e altisonante: Maurice Polydore Marie Bernard Maeterlinck e fu poeta, commediografo e saggista, arrivando a ricevere nel 1911, per l’opera teatrale, il Nobel per la letteratura. Si laureò in giurisprudenza e per un anno provò pure a fare l’avvocato, ma era altro ad attrarlo. Così già nel 1885, sulla rivista La Jeaune Belgique, pubblicò alcuni poemi e romanzi brevi di ispirazione parnassiana. Ma quando l’anno dopo compie il suo primo viaggio a Parigi, l’attività forense diventa un pallido ricordo. Su La Pleiade compaiono alcuni scritti e poi entra in contatto con l’allora emergente movimento simbolista, nelle cui file primeggiavano Mallarmé e lo scintillante Villiers de l’Isle Adam che tanta parte ha avuto nella sua formazione. «Mi diede irrevocabilmente l’impressione del genio», disse di lui, e successivamente, in una lettera a Huret, scrive: «Tutto quello che ho fatto lo devo a Villiers». E siamo nel 1891. Alle sue Serres guarderanno avidamente gli occhi dei crepuscolari nostrani attratti dalle ombre evanescenti, dai personaggi amorfi e dai

climi malati che vi si possono leggere. Pubblicata dunque nel 1889, la raccolta, prima opera completa di Maeterlinck, è già profondamente indicativa degli aspetti più essenziali che saranno della sua poesia come del suo teatro: atmosfere rarefatte, sentimenti inquieti e illanguiditi, accensioni improvvise, peccati e tentazioni appena sfiorati e subito dissolti in quella sorta di morbida tensione mistica che sottende ogni suo verso, ricchezza di immagini audaci nella loro novità, sfumate e tuttavia intensamente visive, simboli legati spesso alla tradizione dell’antica mistica fiamminga e sempre un’inesausta ansia di ricerca, un lungo, ossessivo cammino iniziatico che non giunge mai al termine, caratteristica, quest’ultima, che si esprime più particolarmente nella seconda delle sue raccolte, Quindici canzoni, originariamente Dodici Canzoni (1896), poi ampliate e raccolte insieme a Serre calde nel 1947. Più sobrie e essenziali nel ritmo cantilenante e lineare dell’antica ballata, le Quindici canzoni rimandano infatti alle notturne e fiabesche atmosfere medioevaleggianti dei suoi testi teatrali più celebri. Il travaglio mistico-esistenziale di Maurice Maeterlinck rimase fonte esclusiva di ispirazione poetica e la presenza per lo più rilevata dalla critica nella sua opera in versi è quella del Verlaine delle Sagesse, opera letta però con gli occhi di chi, come lui, aveva ben presenti le opere di Ruysbroeck, mistico fiammingo del XIII secolo del quale scrisse: «Usate nel loro senso più originario, le parole sono in Ruysbroeck dei lampi dietro le idee, mentre in noi le idee vengono costrette a chiarire le parole», di Novalis, che tradusse, e di Emerson. Permane in chi legge le Serre la percezione che vi domini una sorta di verità nascosta, di un alone quasi tra veglia e sonno che circonda l’oggetto, di una recondita pietà in sintonia con le cose migliori dei nostri crepuscolari, come Corazzini e Martini in particolare. La «verità nascosta» di Maeterlinck non è quella di un Paul Verhaeren, poeta belga a lui coetaneo, non è legata né ai meandri brumosi né alle vertigini della fede o al ribaltamento del rapporto uomo-spazio cittadino. L’alone seducente e al tempo stesso fanciullesco che circonda la poesia delle Serre appartiene a una sorta di magia «bianca» dove il simbolo respira sempre e comunque oltre ogni possibile cunicolo criptico nel quale talvolta la poesia simbolista francese sembra andare a incunearsi e a perdersi. La verità per Maeterlinck si nasconde molto più semplicemente nella terra o, anche, nella scrupolosa osservazione di un alveare (il suo saggio naturalista La vita delle api è del 1901), o di un termitaio (La vita delle termiti è del 1926) o di un formicaio (La vita delle formiche è del 1930), o, per dirla con Milo De Angelis, «nei passi scanditi dentro la serra, prigione trasparente dove si vede e si è visti».


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il club di calliope

UN POPOLO DI POETI

NOTTURNO VENEZIANO Non è più qui insinua una voce

Vorrei per noi la profezia: sarete insieme un corpo, un'anima: allora passeranno a somigliarsi la sarta e la seta, profeta del traffico, perché al di là del fiume estivo, è la luce che brilla il doppio fulva su candele. Tra lucerne di fabbro. Tra falene e miele. Insieme sono due lembi della cicatrice, dopo il taglio, il fondista e il suo sudore, il seme e il sacrifici

e il vicolo fu improvvisa suggestione, un solco scavato, un alveare vuoto una vena sottile e spezzata che ancora pulsa Zampilla una piccola fontana e l'altoparlante, lontano, insiste sui prezzi migliori, sulle grandi occasioni Qui nel vicolo il mare di folla ha un suo piccolo golfo riparato un ponte gettato ieri, già sconnesso. Vira piano la solitudine ma il timone non ha misura Due fari, dal profondo della notte frugano case in decadenza e i muri macchiati Voglio la dose ha tracciato uno spray rosso, senza speranza E se non volessi ricordare? Ma conserviamo la foto, fattaci di sorpresa. Lì sorridiamo per caso.

Gregorio Boschetti

Gian Domenico Mazzocato

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma

HERMANN BROCH, SPELEOLOGO DELL’ANIMA in libreria

ermann Broch è uno dei più noti scrittori mitteleuropei del Novecento. Ha pubblicato importanti romanzi filosofici e poesie. La morte di Virgilio è il suo romanzo più celebre. Nel libro che racconta l’ultima giornata di vita del poeta romano c’è un confronto serrato tra prosa e poesia. In Italia la sua opera poetica è quasi sconosciuta. Un volume antologico delle sue migliori liriche esce nella nostra lingua, curato e tradotto da Vito Punzi. Poesie (Città Nuova, 161 pagine, 10,00 euro) è un libro necessario perché finalmente colma una lacuna e permette al lettore italiano di Broch di incontrare la sua poesia. Per lo scrittore austriaco scrivere significa voler conquistare conoscenza attraverso la forma e la verità della parola. Sono queste le premesse di una poesia dall’altezza vertiginosa, che si muove tra simbolismo e la sua deflagrazione, tra religione e sentimento. Al centro di tutte queste tensioni vibra sempre il ruolo centrale dell’uomo nel creato. La poesia, per Broch, è un tutt’uno con l’essere: essa inizia

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di Nicola Vacca

con la vita e si estende al confine estremo della vita stessa. La poesia è semplicemente la vita che accade. Da questa forte impronta esperienziale lo scrittore austriaco non si allontanerà mai. La sua grandezza sta nella ricerca assoluta delle incognite più profonde del pensiero. Con un linguaggio intimo e colloquiale Broch scalda il cuore del lettore

di cui Broch è stato acuto osservatore, avendo studiato in particolare il fenomeno del totalitarismo - il poeta non ha taciuto e ha cercato le risposte a tutto il male che accadeva nell’illuminazione dell’umano che permane. Mosso dalla fede nella potenza demiurgica dell’uomo, Broch mostra un intenso amore per la vita. Anche se il pensiero si scioglie

Un volume antologico delle liriche migliori a cura di Vito Punzi fa conoscere anche in Italia la rilevante produzione poetica dell’autore della “Morte di Virgilio” quando intinge la penna nell’osservazione del quotidiano e invita il suo prossimo a sottoporsi alla tentazione del sentimento: «Sempre il sentimento/ ci è vicino e lontano/ come un vecchio gioco di bambini/ ciò che un tempo ci accadde come in sogno/ e per metà non fu più visto:/ lo cerchiamo nel nostro amore/ e offriamo le nostre trepide mani». Nonostante le tragedie del suo secolo -

nel vuoto, la sua poesia non smette mai di prestare attenzione al valore dell’umanità. Al centro della sua poesia infatti c’è sempre umanesimo, incontro di fede, conoscenza, sentimento e ragione. Nelle pieghe della sua infinitezza il poeta scava perché è consapevole che nonostante tutto l’uomo non può smettere di abitare il terrore da lui stesso generato. La poesia di Hermann Broch è capa-

ce di immagini forti: si avverte lo stupore della parola che precipita nel fuoco della vita per preservarla dalle sue oscenità. Attraverso la ricchezza della lingua egli dice la realtà. Il poeta conosce il peso delle parole e sa andare oltre il loro significato. I suoi versi si pongono il problema metafisico della conoscenza della realtà che ha sempre bisogno della «parola che si irrigidisce nel mare dei pensieri». Lo scrittore austriaco non concepì mai la poesia senza la conoscenza. In virtù di questo rapporto ebbe a scrivere: «… perché poesia è veggente attesa nella penombra, poesia è abisso che sa della penombra, è attesa sulla soglia, è comunione e insieme solitudine, è promiscuità e paura della promiscuità, casta nella promiscuità (…) Oh, poesia è attesa, non è ancora partenza, ma perenne congedo». L’umanistico sapere della poesia di Hermann Broch va oltre le ragioni del codice terrestre. La parola supera il confine per offrirsi come dono dell’esperienza che va oltre se stessa per parlare all’uomo e alle sue oscurità.


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er fortuna giunge un elegante volume dell’Editrice Compositori, a fugare fattivamente con una bella storia le fole vetero-femministe, che ancora sostengono che le povere donne, castrate dalla società lungo i secoli, non si son espresse e non son potute divenire pittrici o compositrici, e han languito offese e risentite cenerentole in cucina o lavanderia, a causa del maschio cattivo o di babbi tiranni.Tesi spessissimo contraddette da folte eccezioni, sempre più riemergenti. Certo, la loro vita non era facile, non facciamo i maschilisti, ma se il talento esisteva, quante volte alla fine è stato soffocato?! Ben venga, dunque, a scompaginare gli stereotipi, scoprire che nel bellicoso periodo bentivogliesco-bolognese, all’epoca dell’incoronazione di Carlo V, non solo era attiva in città e apprezzata una donna-pittrice, ma addirittura «sculthora». Chi ha una certa dimestichezza con le Vite del Vasari, sa che a un certo punto il ripetitivo teatro agonistico dei maschi eroici, in competizione con il realissimo fantasma di Michelangelo, a un tratto s’interrompe, il sipario si squarcia, e prorompe impetuosa in scena una fiammante «femmina scultora», di «capriccioso e destrissimo ingegno». Ch’è la protagonista di questo bel libro dedicato a Propertia de’ Rossi, con apprezzabili studi di Irene Graziani (l’influenza su e di Parmigianino e Correggio, la beauté froide del Manierismo nascente individuata da Chastel, la tradizione della microscultura). Fiorisce teatralmente, dopo un vastissimo preambolo-affresco mitologico (uno dei molti, così cari a Vasari, quand’ha qualche argomento che tiene particolarmente a cuore) e che par sagomare questa figura eccentrica su uno sfondo vaporoso e ariostesco di eccelse artefici al femminile, sbiadite dal tempo: politichesse, guerriere, artiste e poetesse, in musicali litanie d’elenchi, desunti dall’erudizione di Plinio. Abbasso gli increduli: «Gran cosa che in tutte quelle virtù e in tutti quelli esercizii ne’ quali, in qualunque tempo, hanno voluto le donne intromettersi con qualche studio, elle siano sempre riuscite eccellentissime e più che famose, come con una infinità di esempi agevolemente potrebbe dimostrarsi a chi forse non lo credesse». Elencando puntualmente, a scorno dei riluttanti caparbi, quante di loro alla fine han superato gli stessi huomini. «Né si son vergognate, quasi per torci il vanto della superiorità, di mettersi con le tenere e bianchissime mani nelle cose meccaniche e fra la ruvidezza dei marmi e l’asprezza del ferro». Stupisce per tanto l’impegno di Vera Fortunati di forzare il testo di Vasari, fingendolo irato e geloso di quella concorrenza femminile e am-

P

Properzia la sculthora che piaceva a Vasari di Marco Vallora

arti

malato d’una «stupita ambivalenza, dove ammirazione e censura si amalgamano indissolubilmente». Censura? Rivalità maschile? Certo è fin troppo facile calcare il pedale su alcuni aggettivi idiosincratici del Vasari e condurlo là dove fa comodo (per esempio leggendo il termine di «ingegno capriccioso» solo in accezione negativa e saturnina, fingendo di dimenticare che accanto c’è subito vispo e pronto l’equilibrante contrappeso di «destrissimo», apprezzando il di lei virtuosismo «diligente» e «paziente»). Ma questo nel testo non c’è e lo si può leggere e verificare, antologizzato, in chiusa al volume. Non è certo per Vasari confondibile, la Properzia, con l’alchemico autodistruttivo Parmigianino, o l’atrabiliare Pontormo. E nemmeno risulta meschina come il non amato e «ponentino» Amico Aspertini, che vive come lei nello stesso sottoborgo d’artisti, ove liti e processi pre-caravaggeschi son frequenti (pure lei avrebbe collaborato ad «amachare gli occhi e glia sgraffignato el volto» a un collega malcapitato) e ora lavora nello stesso cantiere di San Petronio, con Mastro Amico, che ha testimoniato contro di lei e «che per l’invidia sempre la sconfortò: e sempre ne disse male a gli operai, e fece tanto il maligno, che il suo lavoro le fu pagato un vilissimo prezzo». Chiaramente Vasari parteggia per lei, quando lascia capire che il marito becco la promuove al cantiere e lei (che «fu del corpo bellissima, e sonò e cantò ne’ suoi tempi, meglio che femmina della sua città») risulta però perdutamente innamorata d’un bel giovane, che non la vuole. E per liberarsi di questa «ardentissima» ossessione «isfogò la sua passione» gridandola, attraverso la sacra iconografia del Vecchio Testamento, e della moglie di Putifarre, che cerca di tentare Giuseppe il pudibondo e «a l’ultimo gli toglie la veste d’attorno con una donnesca gratia e più che mirabile». Fedele descrizione della formella di San Petronio, ch’è il fulcro figurativo di questo bel libro. Nessun pregiudizio, nemmeno nei solidali operai. È sublime l’escalation di questa donna volitiva, che «si mise a intagliar noccioli di pesche, che fu cosa singolare e meravigliosa il vederli, non solamente per la sottilità del lavoro, ma per la sveltezza delle figurine…» e poi si fa coraggio, perché «questa cosa le diede animo (…) che ella per mezzo del marito chiedesse agli operai una parte di quel lavoro i quali di ciò furon contentissimi, ogni volta ch’ella facesse veder loro qualche opera di marmo condotta di sua mano». Vera Fortunati e Irene Graziani, Properzia de’ Rossi, Editrice Compositori, 127 pagine, 35,00 euro

diario culinario

Se l’alta cucina si realizza in un panino

di Francesco Capozza n viaggio nelle 21 regioni italiane, rappresentate da altrettanti grandi cuochi che interpretano il panino e lo trasformano in piccolo capolavoro di gusto. Il simbolo del fast food è interpretato a partire dal patrimonio gastronomico tradizionale di ogni regione, declinato secondo lo stile personale dei più noti chef. Gli appassionati di buona tavola, i cosiddetti gourmet, anche quelli che passano i week end in viaggio alla scoperta di ristoranti da provare o in visita nei paesi dove scovare prodotti tipici, sanno bene che il palato si può deliziare anche con uno spuntino. E, per un pasto veloce e/o fuori casa, chi ama mangiare la qualità preferisce un signor panino a un pasto completo in improbabili locali o uscito da confe-

U

zioni surgelate. Ecco perché anche il panino può e deve essere d’alto livello. Lo dimostrano - se ce ne fosse bisogno - 21 cuochi di altrettanti ristoranti italiani (uno per regione) chiamati da Negroni a interpretare il panino con i salumi. Ne sono nati piccoli capolavori di gusto per un giro nell’Italia del sapore formato fast food, in cui i prodotti caratteristici di ogni territorio - dalla mustia sarda alla robiola piemontese, dai gamberi liguri al formaggio d’alpeggio dell’Alto Adige, dagli asparagi friulani allo zafferano abruzzese, dai peperoncini verdi molisani alla provola affumicata campana - si uniscono ai salumi, patrimonio dell’intera penisola. Si tratta di un goloso tour nel cuore dei tanti campanili italiani, per scoprire che una merenda può trasformarsi in un’esperienza gastronomica unica se

a idearla sono grandi chef e se le materie prime utilizzate sono quelle della nostra migliore tradizione salumiera. Il «Giro d’Italia in 21 panini d’autore», un’iniziativa di Negroni in collaborazione con la Guida dei ristoranti L’Espresso ha coinvolto alcuni tra i migliori chef italiani invitati a ripensare il più semplice dei piatti in una sfida di creatività, proprio nell’anno del boom del panino gourmet. Che sta facendo tendenza nel nostro paese, come dimostra il successo di paninodautore.it, il primo portale italiano interamente dedicato alla cultura del panino. Ecco, quindi, che il pasto semplice e funzionale per eccellenza si prende una bella rivincita con ricette che vanno da quelle di Gennaro Esposito a Moreno Cedroni, da Davide Oldani a Salvatore Tassa, da Emanuele Scarello a Pino Cuttaia: il «Giro d’Italia in 21

panini d’autore» ovvero le firme della gastronomia celebrano il mangiare «buono & veloce». Tutti i panini sono stati infatti pensati utilizzando il patrimonio gastronomico tradizionale di ogni regione, declinato secondo la fantasia e lo stile personalissimo dei più noti chef italiani, con quel tocco di classe in più fornito dai salumi italiani top: dalla pancetta alla coppa, dal salame alla mortadella, dal prosciutto crudo al nobile culatello. «Attraverso questa iniziativa - afferma Michele Fochi, direttore marketing di Negroni spa abbiamo voluto proseguire il percorso di nobilitazione del panino come alimento di alta gastronomia, facendolo entrare in una guida prestigiosa in grado di parlare ai tanti e sempre più esigenti appassionati di cibo che alternano con disinvoltura una cena nei migliori ristoranti a un più veloce break».


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architettura

La metamorfosi di Piazza Navona nel segno dei Pamphilj di Claudia Conforti ra i luoghi più spettacolari di Roma barocca piazza Navona occupa un ruolo particolare: l’invaso oblungo, che mantiene la memoria dell’antico circo agonale, turbina di fontane, i cui zampilli fanno dolcezza nell’udire e bellezza nel vedere. La gioiosa fusione di architettura sacra e profana, di statue e di acque scintillanti, si materializza in un tempo relativamente breve e in forza della volontà di una sola famiglia, la cui ascesa trionfale è trascritta nelle pietre che ordiscono fastosamente la piazza. Questa straordinaria vicenda è ricostruita da Stephanie Leone, una studiosa americana che alla metà degli anni Novanta, grazie a una borsa di studio all’American Academy di Roma, avviò l’appassionante scandaglio archivistico dal quale ha tratto una rivisitazione storica e artistica piena di scoperte e avvincente come un romanzo. Tutto comincia con due fratelli, Pamphilio e Giovanni Battista Pamphilj, di una famiglia che vanta Enea come progenitore, ma che in realtà risulta presente a Roma, con posizione di prestigio, solo a partire dal Quattrocento. I fratelli condividono una casa posta tra piazza Navona, via di Parione e Pasquino. È un’abitazione composita e tutto sommato modesta, come gran parte delle case che si addensano intorno all’antico circo agonale, sede di un popolare mercato. La progressiva ascesa ecclesiastica di Giovanni Battista, che diventerà cardinale e nel 1644 papa con il nome di Inno-

T

cenzo X, lancia la famiglia all’apice della società romana ed europea, e avvia un formidabile programma edilizio che trasformerà piazza Navona nel Foro Phampilj, impronta urbana dell’identità dinastica della famiglia. Piazza Navona, fino ad allora puzzolente e rumoroso mercato di ortaggi, è oggetto di una formidabile rifigurazione architettonica e urbanistica, nella quale si misurano i più brillanti ingegni artistici di Roma barocca. Vettore di tale metamorfosi è il palazzo dei Pamphilj, che si accresce irresistibilmente, inglobando progressivamente case e casupole vicine, fino a conquistare l’intero isolato, nel quale troveranno po-

sto la magnifica chiesa di Sant’Agnese e il collegio Innocenziano. L’imponente operazione si svolge in due fasi: la prima, in concomitanza con il cardinalato di Giovanni Battista negli anni Trenta del Seicento, ha come architetto Francesco Peparelli: è questa una delle numerose novità apportate dal libro. La seconda fase, che coincide con il pontificato di Innocenzo X, vede all’opera Girolamo Rainaldi e Francesco Borromini, coinvolti nell’architettura del fastoso palazzo, della chiesa che viene concepita come mausoleo dinastico e dell’attiguo collegio Innocenziano. Spetterà a Giovan Lorenzo Bernini la geniale fontana dei fiumi, mentre Pietro da Cortona affresca il mito di Enea, leggendario capostipite dei Pamphilj, nella magnifica galleria che prospetta sulla piazza con una monumentale serliana, memoria della loggia tripartita da cui l’imperatore si mostrava al popolo romano. La storia del palazzo che cambia il volto della piazza si intreccia non solo con quella di Innocenzo X, ma anche con quella di sua cognata, moglie presto vedova di Pamphilio, quell’Olimpia Maidalchini che fu oggetto di velenose insinuazioni di Pasquino e che, nel volume, viene riabilitata come illuminata e accorta committente artistica. Stephanie C. Leone, The Palazzo Pamphilj in Piazza Navona. Constructing Identity in Early Modern Rome, Harvey Milles Publishers, Brepol, Turnhout, 376 pagine, 199 ill. b/n, 95,00 euro

moda

Low cost e fast fashion: è lo spirito del tempo, baby... ha detto Vivienne Westwood, chiaro e tondo: «Basta con il consumismo sfrenato» e ha bacchettato un po’ anche se stessa. È l’ora del vintage, dei recuperi, della pesca sportiva nel guardaroba della mamma (e della nonna). È l’ora del low cost. Tutte le dive supervestite, i cui armadi traboccano di abiti regalati o in prestito, firmano una linea di moda a basso prezzo. Mischa Barton, la bella discoccupata, ancora legata al successo della serie cult The O.C. ha trasformato in business il suo look post-hippie: fasce, coroncine, accessori per capelli con perline, paillettes e seta cinese glieli produce Stacey Lapidus. Sienna Miller

L’

di Roselina Salemi con la sorella Savannah ha fondato l’etichetta Twenty8Twelve, che mescola un po’ di tutto: Edith Piaf e Marlene Dietrich, la Maria Antonietta di Sofia Coppola e la Regina Vittoria (non sempre il mix riesce bene). Penelope Cruz, anche lei in coppia con la sorella (Monica), ha fatto un giro da Mango (grazioso il tubino nero, ma tendeva a decomporsi rapidamente), dove è approdata da poco la contesa Scarlett Johansson. C’è sempre Kate Moss con TopShop, e funziona, mentre la snobissima Sarah Jessica Parker, che porta solo scarpe Manolo Blahnik e Jimmy Choo, mette la firma e la faccia sul brand Stev e & Barry, una famosa catena low cost. La collezione è davvero economica: niente costa più di 8,98 dollari (cioè meno di 6 euro, al cambio attuale). L’elenco potrebbe essere ancora più lungo perché i marchi fast fashion si nutrono di miti hollywoodiani e reginette della cronaca mondana, rockstar e campionesse di qualcosa, e sono un fenomeno talmente importante come

volumi e fatturato che è impossibile liquidarli con un’alzata di spalle: «Vendono stracci». Anzi, il passo successivo del low cost è quello di impadronirsi di firme nobili e dimostrare che è possibile offrire vera moda a prezzi accessibili. Karl Lagerfeld, criticatissimo, è stato il primo a disegnare per H&M una minicollezione (abito nero, cappottino, camicia, jeans) andata a ruba. Adesso arriva, sempre per H&M, Jimmy Choo (le attesissime scarpe low cost saranno in negozio il 18 novembre), mentre Alexander McQueen ha fatto il salto con la catena Target e Jil Sander con Uniqlo. Risultato: la pragmatica Diane von Fusrtenberg, presidente della Camera della Moda negli States annuncia il taglio dei prezzi, il 30 per cento in meno, per quanto riguarda le sue intramontabili vestagliette di jersey. In Italia è un po’ diverso. Soltanto Rocco Barocco promette ribassi. Gli altri puntano sulla qualità, sugli abiti «destinati a restare nell’armadio per molte stagioni» (Mariella Burani con i tailleur, Laura

A sinistra, Kate Moss testimonial TopShop; a destra, Penelope Cruz testimonial di Mango: due griffes del low cost

Biagiotti con il cashmere), proprio il contrario della moda fast fashion. Eppure, al di là della crisi, la diffusione di marchi come Zara, TopShop, Gap, così democratici che possono far portare lo stesso paio di jeans borchiati alla trendesetter Alexa Chung e a una ragazza qualsiasi, è l’espressione della liquidità moderna teorizzata da Zygmunt Bauman: tutto si ricicla, tutto va con tutto, il jeans da dieci euro con la borsa Vuitton da mille, se te la puoi permettere. E niente dura. Alla base della filosofia low cost c’è il mutamento costante, l’incertezza del futuro, il culto del nuovo. Guardare avanti, ma non troppo. E nel dubbio, spendere il meno possibile.


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ai confini della realtà Mercurio

i misteri dell’universo

l pianeta Mercurio, nome dai Latini associato a una divinità che i Greci chiamavano Hermes, è uno dei sette pianeti noti agli antichi (contando come essi facevano anche la Luna); Urano, Nettuno, Plutone e i vari altri oggetti di dimensioni simili o superiori a quelle di Plutone che si stanno scoprendo negli ultimi anni erano allora ignorati. O forse i primi due erano noti, dato che gli antichi disponevano di notevoli strumenti ottici, vedasi Robert Temple nel suo straordinario trattato The crystal sun, ma non sono stati ancora identificati nei pochi testi astronomici sopravvissuti, alcuni, come l’indiano Suria Siddhanta, di grande difficoltà interpretativa. Il pianeta Mercurio è visibile a occhio nudo, con grande difficoltà, essendo piuttosto piccolo - con un diametro di un trenta per cento superiore a quello della Luna - e molto vicino al Sole, per cui la luce solare lo copre ed è visibile solo in particolari condizioni e per un tempo ridotto. Lo sviluppo di telescopi più potenti (ma non il telescopio spaziale Hubble che sarebbe danneggiato puntandolo troppo vicino al Sole) e le sonde spaziali hanno dato un quadro su Mercurio estremamente più ricco di quello degli anni Cinquanta. Alcune caratteristiche erano attese, in quanto i corpi del sistema solare hanno tutti avuto una storia di impatti da parte di nuclei attivi o spenti di comete. Due caratteristiche inattese sono le seguenti: - un campo magnetico molto forte, simile a quello della Terra; - mancano mantello e crosta, è solo un nucleo nudo, essenzialmente metallico, il che spiega la sua densità di oltre 7 grammi per cm cubo, la più alta nota nel sistema solare (la Terra ha una densità di circa 5, in quanto la densità del suo nucleo supposto consistente di ferro e nichel sarebbe anch’essa di circa 7, ma è controbilanciata dalla densità del mantello, costituito da rocce più leggere come silicati e, nella crosta, graniti, basalti e carbonati, cui possiamo anche aggiungere l’acqua degli oceani sebbene la profondità di questi, spalmati su tutto il globo, è solo di circa 3 km).

I

Il fatto che Mercurio sia solo un nucleo è attribuito dalla maggioranza degli astronomi a un impatto colossale che avrebbe subito agli inizi della formazione del sistema solare, impatto che avrebbe frantumato il nucleo disperdendolo nello spazio, con i frammenti del corpo impattante. Non mi risulta che questo evento sia stato modellizzato matematicamente, trattandosi di un evento multiparametrico la cui modellizzazione sarebbe estremamente complessa e con risultati dubbi. Non è facile tuttavia credere che l’impatto possa avere dato ve-

MobyDICK

il pianeta nudo di Emilio Spedicato

È solo un nucleo a cui mancano mantello e crosta. Ha un campo magnetico molto forte, simile a quello della Terra. È essenzialmente metallico, il che spiega la sua densità di oltre 7 grammi al cm cubo, la più alta nota nel sistema solare. Il suo giorno è di 176 giorni terrestri e la temperatura varia da 700 gradi a 170 sotto zero... locità di fuga a tutti i frammenti, parte dei quali dovrebbero ancora trovarsi su Mercurio, il che non sembra vero. Si noti che sempre agli inizi del sistema solare gli astronomi pongono, nella più accreditata teoria sull’origine della Luna, un impatto gigante sulla Terra, i cui frammenti tuttavia sarebbero stati trattenuti in parte in orbita terrestre agglomerandosi poi per formare il pianeta Luna.

Fra gli studiosi troviamo la voce alternativa del fisico Ackerman, che reinterpretando una serie di passi in testi vedici - ora accettati come i documenti più antichi esistenti, predatando documenti sumeri ed egizi - sostiene che Mercurio fosse in origine il nucleo di Marte, allora in un’orbita

allungata che ogni 54 anni lo portava vicino alla Terra.Tale passaggio ravvicinato avrebbe deformato Marte sino ad aprirvi nella crosta la fenditura ora nota come Valles Marineris, lunga oltre 5000 km. Da questa sarebbe fuoruscito il nucleo, evento che avrebbe portato anche alla perdita finale dell’acqua di Marte e all’arrivo di parte di questa sulla Terra, uno degli aspetti del diluvio Noachide. E qui si può ricordare un passo di Plutarco, sempre di enigmatica interpretazione, secondo cui Hermes rubò un settantesimo della luce della Luna e la cedette alla Terra il cui anno passò da 360 a 365 giorni. Affermazione in questo contesto interpretabile come variazione dell’orbita lunare e variazione più che dell’orbita terrestre della ve-

locità di rotazione; e che l’anno fosse un tempo di 360 giorni segue da molti testi e calendari antichi. E che i 5 giorni addizionali non fossero bene visti si riscontra ad esempio nell’Egitto antico, dove in tali giorni non ci si poteva sposare, non si potevano fare contratti, iniziare viaggi etc. Ora ritorniamo ad altri fatti meno enigmatici su Mercurio. Il suo giorno, determinato recentemente (prima si credeva che volgesse sempre la stessa faccia al Sole), è di 176 giorni terrestri, più lungo del suo anno, quindi la faccia rivolta al Sole muta lentamente. La temperatura superficiale varia dai 700 gradi della faccia rivolta al Sole, temperatura tale da poter fondere il piombo, ai 170 sotto zero nella faccia opposta. Negli anni Settanta la missione Mariner 10, dedicata all’esplorazione del sistema solare interno, ha permesso tre avvicinamenti a Mercurio, fotografandone circa il 40% della superficie, ma solo su una faccia, che appare butterata di crateri come la Luna. Negli anni successivi oltre settanta missioni sono state avviate nel sistema solare interno, ma stranamente mai verso Mercurio, dato che l’avvicinarsi così tanto al sole crea grossi problemi di schermaggio della sonda e di protezione contro le brusche variazioni del vento solare e l’associato campo magnetico. È stato Mariner 10 a scoprire l’intensissimo campo magnetico di Mercurio, la cui origine, data la piccolezza del pianeta, resta del tutto enigmatica (a parte la su citata teoria di Ackerman, che vi vede il residuo del campo magnetico di Marte, pianeta ora stranamente quasi privo di campo magnetico).

Concludiamo questa breve rassegna, che apre problemi di interesse sia astronomico che storico-mitologico, con una ipotesi sull’etimo del metallo chiamato anch’esso mercurio. Perché questo nome? Il mercurio è prodotto dalle rocce, si agglomera in forma sferica anche se prima viene deformato, è pesante, lucente e anche pericoloso, velenoso. È possibile che il nome venga dal ricordo del nucleo di Marte, lucente e metallico e sferico, fuoruscito da un pianeta roccioso, necessariamente deformatosi nell’uscita dal Valles Marineris, e associato a un immenso diluvio? E MercurioHermes, dio dei ladri, è stato così chiamato solo per avere rubato un settantesimo della luce della Luna, o anche perché nella forma di metallo liquido ingloba, amalgama, ruba, gli altri metalli? Sunt nomina lumina, ma a volte ritrovare il lumen appare come un compito quasi impossibile.


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