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Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal

mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Anselma Dell’Olio hissà se ci sono ancora spettatori che evitano i cartoni animati, e magari anche lettori che smettono di leggere appena s’accorgono che si scrive d’animazione? Esistono persone distratte, che sono andate a vedere Valzer per Bashir, l’imperdibile documentario in animazione sulla prima guerra del Libano dell’israeliano Ari Folman; il solo vedere che non era live action li ha messi scioccamente in fuga, convinti di aver sbagliato cinema. La stessa confusione non succederà con Up, la nuova gemma della ormai leggendaria officina Pixar; ma qualcuno potrebbe evitarlo pensando che sia roba buona solo per tenere occupati i bambini quando piove. Toy Story 1, Toy Story 2, A Bug’s Life, Finding Nemo, A Shark’s Tale, Monsters, Inc, Ratatouille, The Incredibles, Wall:E: se avete visto uno solo di questi film (si esclude solo Cars, carino ma non entusiasmante) non avete bisogno di essere convinti, e avrete già proÈ un’opera grammato di vedere Up, uscito ieri in Italia, geniale, deliziosa, al più presto.

C

divertente, la nuova gemma dell’ormai leggendaria officina dell’animazione. Il cui protagonista, un vecchietto di 78 anni, assomiglia a Spencer Tracy ma ha Vale anche la il caratteraccio di Walter pena ricordare che la Matthau... nuova, deliziosa, geniale, di-

“Up”, il nuovo film della Pixar

UNA FLEBO

DI FELICITÀ 9 771827 881301

91017

ISSN 1827-8817

Parola chiave Berlusconi di Franco Ricordi Air: easy listening e tastiere analogiche di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Albino Pierro e la “Spoon River” del Meridione di Filippo La Porta

vertente, spettacolare opera è stato il primo film animato a inaugurare l’ultimo Festival di Cannes. (È in 3D in alcune sale, ma non è fondamentale per gustarselo al meglio). La Pixar nasce come una costola della Lucasfilm, ideata e finanziata dal papà di Guerre Stellari allo scopo di produrre una workstation grafica per sviluppare e gestire immagini in movimento di grandi dimensioni. Lucas ha soffiato alla Disney John Lasseter, un genio del settore tecnico con il sogno di mettere le sue invenzioni al servizio di lungometraggi narrativi animati. (Il rotondetto vincitore di due Oscar è regista, animatore e supervisore di tutti i progetti della Pixar, e papà di cinque maschi.) Alla Mostra del cinema di Venezia Lucas ha descritto il genio della computer grafica come un bambino impaziente che dopo aver fatto molto bene i compiti (creare, insieme con il suo gruppo di lavoro, una superba, innovativa workstation) gli tirava la giacca frignando: «Ora posso fare un film? Ti prego, fammi fare un film». Lucas non voleva produrre film animati, e per accontentarlo ha venduto la divisione intera a Steve Jobs (fondatore della Apple Computer).

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Kerouac, vagabondo del Dharma di Claudio Trionfera Le signore dei libri che hanno fatto il ’900 di Pier Mario Fasanotti

Omaggio a Diaghilev domatore d’artisti di Marco Vallora


una flebo di

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segue dalla prima

insieme a Ellie è il suo unico piacere e la sua unica consolazione. Ma ormai la sua casetta è circondata da grattacieli, e quando le circostanze (messe in moto dal suo cattivo carattere e dalle manovre degli speculatori edilizi) lo obbligano a trasferirsi a breve in un ospizio, si ribella. A sorpresa tira fuori tutti i palloncini rimasti, gonfiati e legati al cammino, e… vola via con tutta la casa. Letteralmente. Con paurosi, realistici scricchiolii quando il vecchio bungalow si stacca dalle fondamenta.

Così la Pixar è diventata un’azienda indipendente, acquistata in seguito dalla Walt Disney Company, multinazionale dell’intrattenimento, chiudendo così il cerchio per Lasseter, che da lì era partito. Ora torniamo a Up, che pur violando svariate regole non scritte di Hollywood, non solo è diventata una macchina per stampare denaro; è stato accolto dalla critica con un coro di osanna e pochissime riserve. È assiomatico nella capitale del cinema che non si mette un anziano al centro di un popcorn movie, o di qualunque film a grosso budget: è considerato box office poison, veleno al botteghino. Up non solo ha come protagonista Carl Fredericksen, un venditore di palloncini, un anziano di 78 anni con acciacchi, bizze e un deambulatore (non alla Clint Eastwood, più in forma del trentenne medio), ma ne ha un secondo che fa da volano al racconto e che di anni ne ha almeno venti di più. Si tratta di Charles Muntz, un celebre esploratore sparito nelle giungle del Sud America quando Carl era ancora bambino. Una prima sequenza, che ricorda i cinegiornali in bianco e nero degli anni Trenta, documenta le imprese dell’affascinante, spregiudicato Muntz, e la sua furia quando è messa in dubbio l’autenticità dello scheletro di uno sconosciuto uccello gigante, da lui esibito come maestosa scoperta scientifica. L’avventuriero annuncia che se ne ritorna nella giungla: ci resterà fin quando non avrà trovato e riportato un esemplare vivo del volatile per rimuovere l’ombra sul suo nome. Da allora non si hanno più sue notizie.

Un altro membro fondamentale del cast è Ellie, l’amore di una vita di Carl. In un vero film nel film, vediamo in rapida, efficace successione le fasi della loro vita di coppia, sin dal primo incontro da ragazzi. Il loro legame nasce dal comune entusiasmo per il celebre esploratore sparito a Paradise Falls. (Falls nasconde un calembour; cascate è il senso palese, ma può essere letto anche come «il paradiso cade»). Si sposano, sognando un giorno di partire anche loro per la giungla sulle orme del loro eroe. Mettono da parte i risparmi per l’occorrenza, e vivono una vita come tante, con delusioni e soddisfazioni. Riescono a comprarsi un modesto e accogliente bungalow; ma quando scatta la pensione di Carl ed è ora di realizzare il progetto avventuroso covato per lunghi anni, Ellie s’ammala e muore. Carl è un vecchio bisbetico tradizionale, non un nonnetto lezioso e coccolone. (I disegnatori si sono ispirati a Spencer Tracy: folta capigliatura bianca e occhiali da vista quadrati con la montatura nera; mento, naso e caratteraccio sono di Walter Matthau.) Detesta essere disturbato; passa le sue giornate da solo a chiacchierare con la foto di Ellie. Stare a casa sua in mezzo alle cose accumulate

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

felicità

È tutto talmente fantasioso, incantevole, ben raccontato e realizzato, che si entra in un colorato universo, insieme realistico e immaginario, vivendolo come se fosse anche la propria autobiografia sognata da un altro. Aderiamo alla ribellione di un debole indifeso che con un colpo di genio rapisce la propria abitazione minacciata, come succede con le opere d’ingegno più riuscite. Senza esitazioni sospendiamo l’incredulità, per correggere nella fantasia l’ingiusto squilibrio di potere che la sorte gioca ogni tanto a noi come al nostro beniamino. I film d’animazione hanno una lunghissima gestazione (cinque anni sono la norma) dunque Up è stato concepito parecchio prima della crisi economica, con il suo bagaglio di mutui tossici e proprietari morosi buttati per strada. Ma l’uscita in tempi difficili aggiunge profondità alla storia, che riverbera naturalmente nella coscienza collettiva. Carl scopre di non essere partito da solo: ha un clandestino a bordo. Russell è un ragazzino grassottello di otto anni (una specie di Giovane Marmotta, che vuole aggiungere al suo medagliere quella per l’assistenza a un anziano) già scacciato dalla porta prima della «partenza» dall’indisponente vecchietto. Sono straordinari la semplicità del racconto, l’attendibilità dei personaggi e il realismo magico dei disegni. Poi ci sono gli impareggiabili tempi comici. Dopo il decollo Carl si accomoda in poltrona: qualcuno bussa alla porta. Sorpreso, l’anziano apre e scopre Russell sul porticato, con le spalle appiccicate alla parete: «Posso entrare?», chiede il bimbo terrorizzato dal vuoto davanti. «No!» risponde burbero Carl, sbattendo la porta. Dopo una pausa calcolata al millimetro, ci ripensa e riapre la porta. «Va bene», sospira. «Puoi entrare». Russell, sollevato, sgattaiola dentro. Da applauso. La loro avventura è appena all’inizio: ci saranno incontri con un antagonista inaspettato, un branco di cani feroci, un altro cane parlante che dice esattamente quello che direbbe un cane assai affettuoso e scodinzolante, «Ti ho appena conosciuto e ti voglio bene!». C’è Kevin, un volatile gigante, una sorta di mega struzzo multicolore di cui ci s’innamora all’istante, e decine d’episodi emozionanti, esilaranti e commoventi. Andateci soli, con amici o con tutto il parentado, per una flebo di felicità garantita.

UP GENERE ANIMAZIONE DURATA 104 MINUTI PRODUZIONE USA 2009 DISTRIBUZIONE WALT DISNEY REGIA PETE DOCTER, BOB PETERSON INTERPRETI EDWARD ASNER, JORDAN NAGAI, CHRISTOPHER PLUMMER, BOB PETERSON, DELROY LINDO

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via di Santa Cornelia, 9 • 00060 Formello (Roma) Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938

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parola chiave

17 ottobre 2009 • pagina 3

BERLUSCONI o scrivo subito, anzi l’ho già scritto in altre occasioni: non soltanto non ho in odio Berlusconi, ma ritengo soprattutto che sia più che mai improprio attribuire al presidente del Consiglio derive autoritarie paragonabili a Mussolini, Peron, de Gaulle, o altri esponenti del potere di centro-destra che, nel secolo XX, abbiano condizionato in maniera populista la nostra libertà. Credo che Berlusconi abbia dei meriti importanti per la storia della democrazia italiana, e che forse si potranno valutare e comprendere soltanto a distanza di vari anni, nel corso del secolo. Se poi si pensa a quante critiche abbia subito, anche attraverso film, spettacoli teatrali e opere letterarie (più o meno importanti), allora se c’è una persona che si è sempre dissociata da questo assai scontato e superficiale «impegno politico», ebbene quella sono io (mi si perdoni, ma è così). C’è tuttavia una peculiarità che colpisce per quello che riguarda Berlusconi, non dal punto di vista politico, ma da quello di semplice risonanza della parola (che comunque ha una sua valenza politica, soprattutto oggi): eh sì, perché anche Berlusconi, come ogni nome o cognome che pronunciamo, è pur sempre una parola. E si tratta senz’altro di una parola importante, anzi forse proprio della «parola chiave» dell’Italia fra il XX e il XXI secolo.

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Mi sono interrogato semplicemente su quante volte possa essere stata pronunciata, quindi ascoltata, la parola Berlusconi, quanti miliardi di volte abbia risuonato, dal vivo o attraverso i mezzi di comunicazione. Facciamoci caso: ogni giorno la sentiamo, o forse anche la pronunciamo, quasi inevitabilmente. Se poi pensiamo alla vera e propria mitologia che si è creata intorno a tale parola, allora non avremo problemi a riconoscere come viviamo e ancora vivremo, nella cosiddetta «Italia di Berlusconi»: non solo e non tanto per la sua presenza politica, quanto per il risuonare della parola. Una grande intuizione in tal senso la ebbe l’autore e regista teatrale Marco Maltauro che, verso la fine degli anni Novanta, mise in scena un testo intitolato: Berlusconi canta. Chi fermerà la musica? Geniale: per il riferimento allo specifico risuonare attraverso cui il presidente del Consiglio ha saputo imporsi. Se poi andassimo a spulciare quanti testi di poesie, filastrocche e soprattutto canzoni siano state dedicate a Berlusconi, allora capiremmo senz’altro che oggi viviamo «nel paese ove Berlusconi suona». Berlusconi si è sostituito al «si» di Dante Alighieri, che risuona nella lingua italiana. Berlusconi sotto tale aspetto non è che una parola; ma una parola che risuona, che viene ascoltata ormai in maniera incomparabile nei confronti di tutte le altre, alla quale forse ci siamo un po’ assuefatti, noi tutti. Probabilmente il passato di chansonnier del presidente ha giocato un ruolo fondamentale: non che fosse un grande cantante, il genere era quello del piano-bar, e tuttavia è riuscito a conferire il senso di una nuova armonia a una Italia che, in qualche maniera, l’aveva perduta e ne aveva bisogno. Cre-

È una questione di udito. La risonanza del cognome del nostro premier, di certo il più pronunciato da Cavour in poi, si insinua come un refrain nelle orecchie degli italiani. Un presidente musicale che evoca la Kakania di Musil dell’“Uomo senza qualità”…

La colonna sonora della Finis Italiae di Franco Ricordi

Non solo videocrazia, quella di Berlusconi, ma anche suonocrazia, potere del visivo ma anche dell’audio, e di questo non ci siamo ancora sufficientemente capacitati. Una “parola-musica”, simpatica come il suo bel sorriso. Dovremo arrenderci alla sua evidenza e al fatto che ormai l’abbiamo accettata do che nessun presidente del Consiglio, da Cavour a oggi, abbia avuto una tale risonanza.Abbiamo un presidente musicale, non possiamo fare a meno di capacitarcene. Come il terribile Moosbrugger dell’Uomo senza qualità di Musil, che viene definito un «assassino musicale», noi dovremmo interrogarci sulla peculiare musicalità di Berlusconi, del suo nome, e naturalmente della persona che è riuscita a imporre questa sua risonan-

za. E certo c’è una leggerezza suadente, ma allo stesso modo inquietante: se infatti volessimo continuare nel parallelo con la Kakania di Musil, dovremmo riferirci a tutta la musica della Mitteleuropa che ha accompagnato la Finis Austriae. Da Lehar a Schoenberg fino a Mahler. Ma il problema subentra qui: che musica è quella di Berlusconi? Certo non possiamo più pensare ai grandi musicisti dissonanti, dodecafonici, sperimentali, nem-

meno ai nostri Luciano Berio o Luigi Nono (entrambi comunisti, oltretutto). Eppure qualcosa ci dice che proprio oggi, attraverso Giovanni Allevi e Ludovico Einaudi (che di Berio fu allievo), stia nascendo una sorta di «nuova armonia», un tentativo di esorcizzare quella terribile lacerazione coeva delle due guerre mondiali. Personalmente non la amo molto, per lo meno non riesce a convincermi più di tanto; ma si tratta solo di una mia opinione. Ecco Berlusconi rappresenta, musicalmente, il superamento di quella dissonanza contemporanea che, bisogna ammetterlo, è stata problematica per le nostre orecchie. Dopo la crisi novecentesca, ecco che torna un vago sorriso musicale, una musica che non è granché, ma che per lo meno non disturba le orecchie, non è pretenziosa, ha una sua mitezza (in tal senso ha visto bene Raffaele Simone, l’autore del Mostro mite, quando ha scritto che c’è qualcosa di suadente in questa nuova Destra internazionale).

Così, ritornando alla parola chiave, dovremo riconoscere prima o poi una precisa continuità fra la musica del XXI secolo e la maniera in cui il nostro presidente del Consiglio si è proposto a noi italiani: e proprio in questo, forse, potremmo analizzare quanto di taumaturgico vi sia nell’operato politico di Berlusconi e del suo movimento mediatico: una nuova armonia, memore di Orfeo e della sua capacità di farsi seguire attraverso la musica, anche se questa non risulta così bella, anzi un po’ banale. E tuttavia funziona. O per lo meno si ricicla ogni qual volta viene pronunciata nel bene o nel male quella parola, Berlusconi, che ormai rappresenta un suono acquisito, finalizzato a se stesso, superante se stesso. Nulla di forte o di eroico, nulla che richiami la musica di Verdi che ha scandito col suo drammatico appello risorgimentale l’Unità d’Italia, tanto meno qualcosa di rivoluzionario, anche nel senso giovanile ancorché disperato del rock’n’roll. Ma nemmeno una musica più di tanto «leggera», come quella che ha accompagnato il dopoguerra italiano: no, non c’è leggerezza, c’è se mai assuefazione, musica per la musica: Berlusconi è musica. Non è una musica molto bella, è piuttosto sciapa, insignificante; una serie di accordi messi lì, eppure ha trovato un senso nelle orecchie di noi italiani. È una questione di udito, che corrisponde in tal senso perfettamente alla vista: non solo videocrazia, quella di Berlusconi, ma anche suonocrazia, potere del visivo ma anche dell’audio, e di questo non ci siamo ancora sufficientemente capacitati. Berlusconi è una «parola-musica», una parola entrata nel nostro ritmo, come il suo bel sorriso; simpatica, bisogna ammetterlo. Dovremo arrenderci alla sua evidenza e al fatto che ormai l’abbiamo in qualche modo accettata e sedimentata. Basterà coniare e pronunciare un semplice e nemmeno troppo ricercato endecasillabo, un componimento «di poca malinconia», come diceva il pianista di piano-bar di De Gregori: Berlusconi, ove l’Italia suona.


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cd

musica

Air: easy listening e tastiere analogiche

di Stefano Bianchi arbleu! Ripenso a quando, nel Duemila, il French Touch prese domicilio fisso a Parigi. Non all’ombra turistica della Tour Eiffel ma nei club, nella banlieue del métissage sonoro, ai piedi dei grattacieli della Défense. Era una musica, questa nouvelle vague del pop, che imprevedibilmente e creativamente by-passava la solita trita e ritrita dance a colpi di techno (Daft Punk), déjà vu anni Ottanta (Benjamin Diamond), dark jazzato (Etienne De Crecy e Bertrand Burgalat), blues & breakdance (Phoenix). Mentre la Francia si dimenava sotto le luci stroboscopiche, nel Duemila gli Air ragionavano sulle crepuscolari note di The Virgin Suicides, colonna sonora del film di Sofia Coppola. Nove anni dopo, il «tocco alla francese» non esiste più e gli Air (che l’hanno di fatto anticipato nel 1997 col technopop di Moon Safari) pubblicano Love 2 raggiungendo quota sette dischi e cinque milioni di album venduti. Nicolas Godin e JeanBenoît Dunckel, maitre à penser dell’elettronica, da Versailles hanno conquistato l’Europa col loro miscuglio d’impegno e disimpegno facendo idealmente collidere Beatles e Rockets, Burt Bacharach e Serge Gainsbourg, Human League e ambient music. Dal «safari lunare», sono passati allo space age pop da pellicola horror-fantascientifica (10.000 Hz Legend, 2001), poi si sono tolti lo sfizio d’accompagnare un recitante Alessandro Baricco nell’ambizioso e iper intellettuale City Reading: Tre storie Western (2003) e hanno dato spazio a melodie cibernetiche con Talkie Walkie (2004) e Pocket Symphony (2007). Fine dei giochi? Jamais. I due Air (che qualcuno ricorda autentici secchioni al Conservatorio di Parigi, prima dell’esperienza lampo negli Orange e del definitivo balzo nel pop à la française) pur avendo ormai detto

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in libreria

mondo

tutto hanno compiuto il miracolo di non essere pallosi. Le dodici tracce di Love 2, registrate nello studio Atlas di loro proprietà col batterista e percussionista Joey Waronker (già presente nella tournée Close Up, sud est asiatico, dell’autunno 2008) sono infatti la miglior testimonianza possibile di un easy listening applicato alle tastiere analogiche: passatempo preferito di Nicolas e Jean-Benoît, che in questo caso si sono affidati a moog, vocoder e sintetizzatori Korg. Dall’inizio alla fine, dunque, spazio al «vintage» che declina atmosfere terrene e siderali. Senza rinunciare, peraltro, alla «carnalità» di chitarra elettrica, sassofono e batteria che danno anima a tutto l’insieme. Il prologo, Do The Joy, punta senza mezze misure al Progressive fra Emerson, Lake & Palmer e King Crimson. Love, invece, comincia come La Vie En Rose intonata da Grace Jones e prosegue citando Ennio Morricone e Piero Umiliani. Evviva. E siccome travestirsi da «cinematici» è prerogativa degli Air, Be A Bee farebbe un figurone nella colonna sonora di una commedia anni Sessanta e Tropical Desease, con quel sax notturno, nella scena topica di un film «noir». Heaven’s Light, ça va sans dire, non farebbe una piega nei canzonieri di Jane Birkin e Françoise Hardy, così come Night Hunter ci sta che è un bijoux fra etnomusica e psichedelìa. E se la premiata ditta Godin & Dunckel scivola su un tris di superflui technopop rubati agli anni Ottanta (Missing The Light Of The Day, Sing Sang Sung, Eat My Beat), trova il modo di riscattarsi coi due pezzi finali: You Can Tell It To Everybody, elettronicamente country; African Velvet, elegante nel suo cicaleccio di chitarre. Et voilà, les jeux sont faits. Air, Love 2,Virgin/Emi, 20,90 euro

riviste

NELL’ANIMA DI GIANNA

DE LA SOUL DI NUOVO IN PISTA

ASCESA E CADUTA DEI WHIGS

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n libreria da pochi giorni, Gianna Nannini. Stati d’anima (Bompiani, 424 pagine, 29,00 euro) è un originale progetto a tre voci, che si propone di raccontare la carriera della rockstar toscana attraverso le invenzioni visive di Alberto Bettinetti e gli squarci narrativi di Edoardo Nesi, apprezzato romanziere di Per sempre. Diario lirico-fotografico che ripercorre quattordici al-

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vent’anni da 3 feet high and rising, circostanza che i De La Soul festeggeranno con un tour, la band che fece scuola nel campo dell’alternative hip hop ha annunciato un nuovo album in uscita nel 2010. Una carriera segnata da un buon successo, quella che cominciò negli anni Ottanta per gli allora liceali Posdnuos, Trugoy e Pasemaster Mase. Tenuti a battesimo come

l sound degli Afghan Whigs è un coacervo di influenze, e segue quella linea genealogica che parte da Neil Young, che passa attraverso Replacements e Husker Du per arrivare a Dinosaur Junior, Squirrel Bait e Soul Asylum: poeticità, aggressività, rabbia, tristezza si condensano omogeneamente in un impianto sonoro che trae la sua originalità dalla presenza di imper-

Le foto di Bettinetti e le schegge narrative di Nesi omaggiano le canzoni della Nannini

La band hip hop che fece scuola negli anni Ottanta annuncia un nuovo disco in uscita nel 2010

Antonio Ciarletta ripercorre su ”ondarock.it” la preziosa produzione artistica di Dulli e soci

bum della Nannini e decine di vite che si sono condensate nella sua sola esistenza, il lavoro del trio si arricchisce di scatti inediti e testimonianze d’autore. Narrazione, immagine e musica si sposano felicemente nel dar vita a un biopic per nulla convenzionale. Oltre le trite celebrazioni d’archivio, Nesi, Bettinetti e Nannini hanno il merito di aggiungere qualcosa di nuovo e ispirato a brani che ormai appartengono alla storia della canzone italiana e a quel rock europeo di cui la senese è considerata da tempo una delle principali esponenti. Un riuscito crossover che conferma come Gianna sia nell’anima di molti, che lì la lasciano per sempre.

campioni del pacifismo tardo hippie, i De La Soul non bissarono più il successo degli esordi, ma divennero veri e propri punti di riferimento negli esperimenti di crossover. «La cosa più bella è che gli anni passano e tu continui a incontrare gente che ti dice “Ho conosciuto mia moglie comprando un vostro disco”», commenta Vincent Mason. «I fan vengono da te per dirti quanto è stata importante la tua musica nella loro vita, e questo è tutto per noi». Il gruppo, ancora entusiasta, torna dunque su piazza cinque anni dopo The grind date.

cettibili venature soul». Antonio Ciarletta traccia così l’identikit di una delle maggiori alternative band degli anni Novanta su ondarock.it. Partiti dai territori hard di Big Top Halloween, Greg Dulli e soci spiazzarono tutti con quel Congregation che nel 1991 si arricchì di venature psichedeliche e influssi grunge. Mai troppo inclini a facili decalcomanie del Seattle touch, i Whigs ebbero un valore aggiunto nelle colte liriche di Dulli, cantore di loser senza riscatto. Vertice della loro carriera è Gentlemen, album rotondo screziato di funky e soul. Un lavoro che segna l’apice di una creatività smarrita nel successivo Black Love e mai più ritrovata.

a cura di Francesco Lo Dico

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zapping

VASCO RIFÀ I RADIOHEAD

5 ragioni per apprezzarlo di Bruno Giurato hi fa l’arte e chi s’attacca» cantava James Senese. E sta di fatto che Vasco l’arte sua la fa, anche quando rifà Creep dei Radiohead. È bella la versione di Vasco? È brutta? Lo decide la storia che sotterra eroi/civiltà/religioni e nel tempo libero dà una scucuzzata ai repertori, bruciando le canzoni che non funzionano. E noi, da parte nostra, l’arte la possiamo fare solo la domenica notte, e nel frattempo ci attacchiamo al treno del mi piace/non mi piace. Innanzitutto notiamo che il testo è un tantino carente. La tristezza esistenziale di Yorke, il reietto innamorato di una donna la cui pelle fa piangere, nella versione di Vasco diventa una sorta di rassegnazione alle corna di fronte a una signora fatale imprecisata. E vabbè. Restano cinque buoni motivi per apprezzare la versione di Vasco: 1) sempre meglio una cover dichiarata che un plagio nascosto, vedi i vari casi Ferreri, Zucchero, e tre quarti del rock italiano, musica epigonica che più non si può; 2) traduzione per traduzione, Ad ogni costo è sempre meglio di E chi se ne frega, versione di Nothing else matters dei Metallica fatta da Marco Masini, ascoltare su YouTube per conferma; 3) le chitarre di Massimo Varini da Carpi (Mo) suonano più croccanti e lussuose di quelle della versione originale dei Radiohead. Alta sartoria sonora; 4) per i residenti a Roma: i commenti degli ascoltatori di Radio Rock di prima mattina. E da ultimo... 5) si tratta della cover di una canzone degli anni Novanta. Dato che Vasco da sempre ha antenne di eccellente qualità ciò significa una cosa. I tempi stanno cambiando. Ancora qualche luna e saremo finalmente fuori dal revival anni Ottanta. Grazie Vasco.

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teatro

Le Colonne d’Ercole di Ezio Frigerio di Enrica Rosso toria di «un uomo da palcoscenico». Una storia «lunga e difficile da raccontare che ha a che fare con l’arte, la vita, l’artigianato». Una storia che si materializza sotto ai nostri occhi increduli di fronte ai modellini; sogni già in fase di realizzazione, ma ancora ibridati dal senso ludico che deriva dalle dimensioni mignon. Giochi serissimi (basti pensare che il modellino del Don Giovanni incastonato in quel gioiello che è il Teatro alla Scala di Milano - il tutto contenuto nello spazio esiguo di un metro cubo - è costato due anni di lavoro all’artigiano che l’ha eseguito). Cinquant’anni di storia del teatro: dagli inizi al Piccolo Teatro di Milano dove sarà proprio Giorgio Strehler nel 1955 a sollecitarlo a dedicarsi alla scenografia, alle successive collaborazioni che lo metteranno in contatto con i più grandi maestri della scena del Novecento. Ezio Frigerio si dedica con passione a una ricerca che lo porterà, aldilà dell’estetica, a concepire dei contenitori spaziali in cui sia vincente «l’essenzialità dell’immagine», che costituiscano un vero e proprio «linguaggio per l’occhio». Spazi liberi da agire in pienezza, luoghi simboli, fondali in perenne trasformazione in cui il pavimento è terreno vivo, architetture estremamente complesse come nel Sigfrido o stilizzate come la volle Roger Planchon per Le Génie de la forêt nel 2005. Fondamentale la presenza delle colonne che scandiscono lo spazio e lo nutrono simbolicamente diventando parte integrante della regia in quanto elementi vivi percepiti a livello emozionale dagli interpreti come nel caso della Dama di Picche del ‘90 per la regia di Andrey Konchalovsky. «Non è certo la prima volta che ho usato sulla scena la colonna come elemento evocativo, in effetti ammetto di subire a tal punto le lusinghe di questo storico “sostegno”da non poter immaginare, nello spazio scenico, costruzioni senza colonne, pilastri, piedritti, cippi, steli, obelischi, cariatidi, capitelli e simili. Ognuno ha le sue Colonne d’Ercole». Nel ’62 l’incontro con Vittorio De Sica segna il suo esordio nel cinema e gli offre la possibilità di

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uscire dai teatri e di calibrare la sua arte tra cielo e terra, inglobando gli elementi nella sua ricerca come per Novecento di Bernardo Bertolucci. Giorgio Ursic, curatore della mostra romana che ripercorre la figura e l’opera di Frigerio, confeziona, con un materiale che comprende 22 modellini, una sessantina di bozzettti e foto di scena, un’esposizione in cui ci sottopone una fase del lavoro in cui tutto è possibile: l’onnipotenza la fa da padrone e la meraviglia è l’unico termine di paragone. Il passaggio da bozzetti a modellini altro non è che la magia di esplorazioni concretizzate in veri capolavori di perizia e inventiva. C’è poi la sala dei tanti Arlecchini in cui troneggia il costume originale della prima messa in scena, quella del ’47, con la maschera indossata da Marcello Mo-

retti realizzata dalla Sartoria Brancato di Milano e ora proprietà del Museo Internazionale della Maschera dei Fratelli Sartori, circondata dai bozzetti delle varie edizioni che ciclicamente hanno fatto conoscere in tutto il mondo la maschera italiana. Inoltre La Biblioteca Casa dei Teatri offre per tutta la durata della mostra (previa prenotazione allo 06/45460691), la possibilità di accedere ai video di 13 spettacoli simbolo dell’arte di Frigerio.

Ezio Frigerio scenografo. Una mostra a tre dimensioni modellini, bozzetti, foto ed elementi scenici, Casa dei Teatri fino al 6 dicembre, ingresso libero, Info www.casadeiteatri.culturaroma.it - tel. 06.45460693

jazz

Stampa specializzata: l’Italia resiste alla crisi di Adriano Mazzoletti l jazz in questi ultimi anni sembra godere ottima salute. I festival si moltiplicano. Non c’è concerto, anche di scarso interesse che non veda il tutto esaurito. Ma c’è un settore, oltre a quello del disco, fortemente in crisi. Quello della stampa specializzata. La crisi è iniziata in Francia quando la più antica rivista di jazz, che veniva pubblicata ininterrottamente da oltre settant’anni ha dovuto chiudere i battenti. La fine di Jazz Hot, il cui primo numero apparve nelle edicole francesi nell’aprile del 1935, ha gettato nello sconforto gli appassionati di mezzo mondo che vedevano in quella rivista, fondata da Hugues Panassié e Charles Delaunay, la voce europea più autorevole. Rimanevano due pubblicazioni, Jazz Magazine e Jazz Man. La prima, apparsa a gennaio

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1954, fondata da un’altra coppia importante del jazz d’oltralpe, Franck Tenot e Daniel Filipacchi che da lì a qualche anno si sarebbero trovati a capo di un impero editoriale, con le edizioni Filipacchi e Hachette. Negli anni Novanta, Tenot dai suoi uffici sugli Champs-Elysées decise di fondare una seconda rivista per soddisfare interamente il pubblico degli appassionati. I contenuti di Jazz Magazine prediligevano infatti il jazz moderno, mentre Jazz Man quello classico con spunti verso quello più tradizionale. Quasi contemporaneamente lo stesso Tenot, che per tutta la vita fu un sincero appassionato di jazz assai competente, acquistò una frequenza radiofonica che iniziò a trasmettere solo e unicamente jazz

ventiquattr’ore al giorno nella regione parigina. TSF, questo il nome dell’emittente, è un punto di riferimento per gli appassionati. Alla sua morte, la famiglia continuò a tenere in vita le due riviste, ma se Franck non si

preoccupava molto se le vendite diminuivano - il settimanale Paris Match copriva ampiamente il piccolo deficit delle due riviste - i figli decisero di chiudere una delle pubblicazioni e a settembre è uscito il primo numero di Jazz Magazine Jazz Man - tout le jazz en un seul magazine - ed è stato anche tolto il cd allegato a Jazz Magazine che veniva offerto ai soli abbonati. In Italia Hachette-Rusconi si è anche sbarazzata della più antica rivista italiana: Musica Jazz fondata da Giancarlo Testoni in edicola dell’agosto 1945. Fortunatamente, a differenza della Francia, è stato trovato un nuovo editore e il primo numero della «nuova» rivista è in edicola dai primi di ottobre.


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narrativa

di Maria Pia Ammirati n titolo esplicito per un romanzo che fa ampio omaggio alla scrittura di genere, Chi ha ucciso Sarah?, secondo libro dell’ischitano Andrej Longo, che con tutte le esche del caso accompagna il lettore alla scoperta di un assassino. La storia s’apre nel bel mezzo d’un pomeriggio d’agosto, narrata dal protagonista io-narrante scarta due o tre plausibili sospettati e finisce svelando verità impreviste e per taluni aspetti agghiaccianti. Anche in questo testo, come la precedente raccolta di racconti intitolata Dieci, la scrittura è un coagulo espressionista e carnale della lingua madre. Un napoletano sanguigno e duro che, a una lettura serrata, lascia senza fiato. Un senso di claustrofobia che dà conto dell’eccesso e nello stesso tempo caratterizza e imprime forza ai testi. È chiaro che una lingua così protagonista non può fare a meno di essere interpretata da una prima persona, perché la terza incrinerebbe proprio l’assolutezza e la densità del parlato, un parlato che è popolare certo, ma tutto giocato sulle storture grammaticali sia dell’idioletto, sia della traduzione forzata da napoletano a italiano. Il giovanissimo protagonista, poliziotto alle prime armi ma arguto figlio dei quartieri popolari, incarna il futuro investigatore a contrasto con la figura del commissario, anche questa inserita nella tradizione della letteratura d’investigazione. Commissario e giovane poliziotto s’incontreranno sul luogo del delitto e si armonizzeranno in una coppia (sorta di padre-figlio), di indagatori sottili e tenaci. Entrambi spinti da motivazioni profonde alla ricerca di chi ha ucciso Sarah. «Sarah Lo Russo, così si chiamava la ragazza morta, teneva vent’anni… una persona a posto, tranquilla, educata», abita nei quartieri alti di Napoli a Posillipo, il poliziotto la trova morta nell’oscuro androne del suo condominio verso le quattro del pomeriggio, è riversa a faccia in giù con un ematoma sulla

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libri Omicidio a Posillipo MobyDICK

(in prosa napoletana) fronte. Sarah e il poliziotto hanno la stessa età ed è questo il motivo che spinge il coetaneo alla ricerca della verità. Il commissario Santagata «con la sua cinquecento di venti trent’anni sicuro se li è visti… teneva la barba di un paio di giorni e una giacca nera di cotone, che lui solo di nero va vestito», è un uomo solo con i suoi tic e le sue manie, invece di trattare il caso di Sarah come un delitto di routine si accanisce a cercare il colpevole e rimanda le ferie. Perché? Perché il commissario Santagata, come confesserà al giovane collega, ha alle spalle l’omicidio della giovane moglie incinta di pochi mesi. Ecco un altro risvolto del romanzo, la capacità di disseminare microstorie rapide e concise, che tratteggiano la storia privata dei personaggi. I due investigatori si metteranno dunque alla caccia dei possibili assassini, partendo dalle persone più vicine alla vittima, fidanzati e amici, ma non tralasciando quello che rappresenta la comunità più prossima a Sarah, cioè il condominio, luogo dove si calamita la curiosità e il sospetto, a partire dalla più brutta delle scoperte, l’indifferenza e il fastidio che aleggia intorno al fatto di sangue. Proprio il condominio sarà l’oggetto di rivelazione e il luogo dove cercare l’assassino. Un assassino polimorfo, osceno. Non sveliamo il finale, come è giusto che sia, ma la tentazione è forte perché questo breve romanzo contiene alcune virtù, tra queste il senso della pietà per la morte della civiltà degli uomini. Andrej Longo, Chi ha ucciso Sarah?, Adelphi, 177 pagine, 17,00 euro

riletture

Papini, i Diari e le dodici fatiche del letterato italiano di Angelo Crespi ra tutti i grandi intellettuali del Novecento, Papini è forse quello di cui ci giunge più flebile voce. Eppure, nella sua straordinaria poliedricità di pensatore resta una delle figure chiave di quel secolo breve e nello stesso tempo lunghissimo che ci sta alle spalle. Perché se è vero che il Novecento si racchiude tutto in una stagione tragica di guerre vere e fredde, dal 1915 al 1989, esso in verità si prolunga a dismisura specie se si prendono in considerazione autori come Papini che partecipano all’esplosione della modernità pur essendo eredi di un’antichissima tradizione filosofica e letteraria. Vale per questo la pena rileggere i Diari giovani di Papini (preferendo alla storica edizione di Vallecchi del 1981, quella aggiornata di Le Lettere del 2005) per comprendere un per-

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sonaggio che come pochi altri rappresenta e riflette la condizione, l’itinerario, la coscienza e il ruolo dell’intellettuale italiano di primo Novecento. Figura che poi determinerà tra fascismo e comunismo le sorti della cultura italiana. Nel quinquennio 1898-1903 si condensa infatti quella giovanilistica e tumultuosa educazione fiorentina di Papini e con lui di altri mostri sacri, come Prezzolini, che detteranno dalla rivista Leonardo in poi una solida linea culturale a tutta la nazione di svecchiamento rispetto alle polverose discussioni delle accademie, e di interventismo politico-sociale in grado di influenzare il panorama intellettuale del tempo e degli anni a venire. Papini ventenne, scapigliato, con quegli occhi strabuzzati che ne caratterizzano oltremodo la fisionomia, è l’esempio perfetto, caparbio e risoluto, di un nuovo modo di intendere la cultura

e di impegnarsi nella politica abbandonando il tardo manierismo ottocentesco. Stupisce, in Papini, soprattutto la lucidità con cui analizza la funzione dell’intellettuale (conoscere l’universo e migliorare l’umanità), il suo adeguamento a un progetto di autoeducazione a tappe forzate che lo porta dal francese al tedesco, dalla filosofia alla psicologia, dalla scienza alla letteratura, in un tour de force di letture e discussioni che annota scrupolosamente nelle pagine del diario: in sintesi i diari evidenziano un progetto di un’educazione a tutto tondo in cui si mischiano curiosità, inquietudine, illusioni, perfino le frustrazioni del giovane che non riesce a comprendere tutto il mondo secondo la filosofia ed è co-

stretto poco alla volta a rivolgersi alla letteratura. Tra abbozzi di romanzi, considerazioni filosofiche in italiano e francese, ritratti degli amici e del milieau fiorentino, aforismi sarcastici, relazioni di conferenze, perfino su Darwin, i Diari sono un pozzo di materiale magmatico e di grande qualità in cui si preannunciano le discrasie della modernità. Perfino con improvvise virate ironiche come quando Papini stila le «dodici fatiche del letterato italiano» che sono fra le altre: scrivere un articolo senza citare Dante; leggere i libri degli amici; capire tutte le citazioni che si fanno, scrivere in italiano, leggere tutti i libri che si citano, non dir male degli editori, fare dello spirito a sproposito…


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ideologie

Fantasie rosse a Cuba, l’isola che c’è ma non c’è di Mario Donati lenchiamo alcuni nomi: Tommaso Moro, Francis Bacon, Tommaso Campanella ed Erasmo da Rotterdam. Ebbene, il collante evidente tra questi pensatori è stata la creazione di isole o città immaginarie dove impiantare le loro idee politiche. Un Paradiso di carta. La sinistra occidentale ha compiuto un’operazione analoga con un’isola lontana ma reale, Cuba. Lì è scoppiata la Revolucion che gli amletici e scettici europei non hanno osato fare, secondo quanto scrisse lo scrittore Vasquez Montalban. Qualcuno, come Sartre, ha scritto anche un meticoloso diario con osservazioni sulla gente e i luoghi, altri invece si sono ag-

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gialli

grappati al discusso fascino del Lider Maximo senza badare troppo alle nefaste conseguenze della sua dittatura sulla popolazione, tra imbavagliamento degli intellettuali e torture, tra miseria e oratoria lussureggiante al pari della natura di questo «lato freddo dei Caraibi» (non tanto per il clima, quanto per la guerra fredda). Ed ecco l’isola che c’è ma che non corrisponde proprio, appunto per le conseguenze della Revolucion, a ciò che la sinistra doveva, e dovrebbe ancora oggi, aspettarsi. Sartre incontra Castro. Poi va da Ernesto Guevara, ministro dell’Industria. C’è un sottile disagio, anche perché il Che (argentino di nascita) è lui stesso un intellettuale, ironico, sarcastico, un po’ distante, avvolto nell’ombra dell’in-

sonnia («chi combatte non deve dormire mai») si dirà poi. Sartre è schivo, ma accetta che il guerrigliero diventato burocrate gli accenda il sigaro. Quella fiammella è la stessa che esalterà gli animi acritici di molti intellettuali in cerca, all’Avana ancora attraversata da malinconiche Cadillac, di una personale utopia. Se Sartre «scende dal carro» nel 1971, a raccogliere il testimone è Saramago. Se il narratore portoghese si disamora temporaneamente di Cuba, la fiaccola passa a Oliver Stone, che vede il suo macedone Alessandro in Fidel. Sono tanti gli utopisti-visitatori, pronti tutti a descrivere una vita migliore in luoghi remoti, meno propensi a raccontare la vita quotidiana di Cuba. Sono «rapsodi» che non conoscono la

vita di strada o il dolore nelle carceri. La fascinazione caraibica continua, ma dà segnali importanti: oggi le promozioni turistiche più che di paesaggio parlano di «scenografia», e la popolazione è un elemento in più come in uno dei più famosi romanzi di Graham Greene. Come nel film di Wenders, Buena Vista Social Club: i musicisti non fecero mai gruppo, ma il regista tedesco li mette insieme. In nome della fascinazione del suono. E forse anche delle vecchie sgangherate Cadillac. Motori americani che hanno trasportato sia i corrotti dell’era Batista sia i ribelli barbuti. Ivàn de la Nuez, Fantasia Rossa, Castelvecchi, 154 pagine, 15,00 euro

I sei sospetti del Milionario indiano

di Vincenzo Faccioli Pintozzi e vi sono piaciute le memorie storiche del protagonista di The Millionaire, non potete perdere la prova che il suo autore consegna nell’ambito del noir sociologico.Vikas Swarup, che ha scritto il testo da cui è stato tratto il lungometraggio di Danny Boyle e Le Dodici Domande, si cimenta in un nuovo affresco corale del suo Paese d’origine. L’India dei sei sospetti è quella contemporanea, e lo spaccato che l’autore offre della nazione è estremamente variegato. Usando infatti l’espediente di raccontare sei vite (e sei mondi) diversi seppur conterranei, Swarup apre le porte del multiculturalismo del Subcontinente al lettore. Che, inevitabilmente, non potrà fare a

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società

meno di rimanere in stretto contatto con il libro. Per vari motivi: innanzitutto perché è scritto (e tradotto) in maniera brillante. Il diario della giovane attrice, gli articoli del cronista di nera, il racconto colloquiale del giovane eroe degli slums sono stili diversi di scrittura che si incastrano perfettamente fra di loro e riescono a non annoiare mai. In secondo luogo, la trama del libro è ben congegnata: i sei sospetti sono infatti in qualche modo collegati a un omicidio, del quale potrebbero a tutti gli effetti essere ognuno l’autore. A voler essere sinceri, il trucco è abbastanza vecchio e risale alle prime prove d’autore di Agatha Christie; ma in salsa curry assumono un diverso appeal per chi li segue. Si potrebbe ovviamente parlare poi dello straordinario tratteggio con cui Swarup fa letteralmen-

te a pezzi la situazione politica dell’India: l’assassinato è infatti il figlio di un politico influente e corrotto, che riassume in sé tutti i mali di una democrazia reale ma estremamente settaria. Ma quello che, personalmente, ho apprezzato di più è il sunto di tutti questi fattori. I sei sospetti racconta l’India spinta verso l’Occidente, con tutti i suoi paradossi e tutte le sue contraddizioni; una nazione con i numeri del continente e tutte le fobie che ci si può aspettare dalla coabitazione di un miliardo di persone, che si sforza però di contrastare l’afflato ex coloniale per dare spazio alle culture tradizionali. Nonostante forse un eccessiva indulgenza nei confronti dell’aspetto adatto alla sceneggiatura (d’altra parte, il suo libro precedente ha vinto 8 premi Oscar), si tratta di un libro da leggere: ne vale la pena perché è bello. Per cercare di capire un poco di più cosa ci riserva il mondo. Vikas Swarup, I sei sospetti, Guanda, 533 pagine, 18,50 euro

Quello che della scuola si sa ma non si dice di Giancristiano Desiderio a scuola non funziona a scuola, ma funziona benissimo in libreria. I libri che si sfornano sulla scuola italiana e sul suo disastro non si contano ormai più. Ogni mese c’è una novità: il tale giornalista, il tale pedagogista, il tale professore. Ognuno ha la sua da dire sulla scuola: se tutta l’attenzione che c’è sulla scuola si trasformasse in riforma scolastica avremmo risolto tutti gli annosi problemi del sistema scolastico più pazzo del mondo. O forse no? Comunque, al di là delle ricette possibili, un libro da leggere - anche per ridere un po’, non è il caso di continuare so-

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lo a piangere - sulla scuola è quello di Gianmarco Perboni: Perle ai porci. Diario di un anno in cattedra. Da carogna. È il racconto di un anno di scuola di un professore che, pur essendo precario, ha un’esperienza più che decennale di insegnamento e alla fine del suo anno «da carogna» in cattedra diventa docente di ruolo. I nomi e i luoghi del diario - il racconto è scritto sotto forma di diario ed è una confessione in pubblico, per cui c’è scritto ciò che sulla scuola non si dice e non si scrive mai perché non sta bene - i nomi e i luoghi del diario sono di fantasia, ma tutta la storia è reale, e se qualcosa è stato inventato non si nota, perché tutto è semplicemente sco-

lasticamente verosimile. Come i documenti della cosiddetta programmazione scritti in «didattichese». Perboni, che chiama queste relazioni con il loro nome, ossia stronzate (oddio, forse non dice proprio così, ma lo dico io e fa lo stesso) fa un esempio: «Il contratto formativo è la dichiarazione esplicita e partecipata dell’operato della scuola. Esso si stabilisce, in particolare, tra il docente e il discente e coinvolge l’intero consiglio di classe, gli organi dell’Istituto, la parte genitoriale, gli enti esterni preposti o interessati al servizio scolastico». Mi fermo perché mi viene il voltastomaco, ma se pensate che in questi giorni ci sono centinaia di migliaia di pro-

fessori che sono alle prese - in realtà un banale copia e incolla con stupidaggini di questo tipo capirete perché la scuola italiana non è da riformare, ma da chiudere all’istante. Il libro di Gianmarco Perboni - a proposito, il nome è uno pseudonimo di deamicisiana memoria, come diligentemente ricorda il risvolto di copertina - è da leggere. Lo possono fare anche i docenti, magari durante i consigli di classe, almeno così impiegano meglio il tempo, guardandosi allo specchio. Gianmarco Perboni, Perle ai porci. Diario di un anno in cattedra. Da carogna, Rizzoli, 214 pagine, 14,00 euro

altre letture Un grado fa la differenza: dal X al XV secolo la terra ha subito un rialzo della temperatura che ha mutato drasticamente le condizioni ambientali. Un po’ come sta accadendo in questi decenni. Piccoli mutamenti di temperatura hanno, come dimostra Brian Fagan nel suo Effetto caldo (Corbaccio, 340 pagine, 20,00 euro), effetti impensabili sulla vita del genere umano. Come il clima cambia la vita degli uomini. Nell’Europa occidentale le estati più lunghe hanno portato a raccolte più abbondanti ma in molte parti del globo il rialzo delle temperature ha portato a siccità, fame e miseria. Fagan lancia un allarme: la vulnerabilità di fronte alle condizioni climatiche è il vero pericolo per gli uomini d’oggi che, dissennatamente, accelerano il processo in atto anziché tentare di salvaguardare il precario equilibrio della vita sulla terra. Se pensiamo di non riuscire mai a conoscere pienamente noi stessi, perché non riconoscere che ci è ancora più difficile concepire gli altri? Di questi altri che ogni giorno incontriamo lungo il cammino spesso ignoriamo gli aspetti più profondi o, credendo di aver compreso quanto basta, li riduciamo alla categoria dei diversi, di cui talvolta avere timore. Laura Pavesano in Altri noi (Il Mulino, 217 pagine, 9,00 euro) intende mettere in luce la figura del migrante e dei gruppi che realizza nella società ospite, siano essi comunità o associazioni, con l’idea che tanto più ci apriamo agli altri tanto più comprendiamo l’umanità, ossia gli altri e noi stessi. I chakra sono i punti più importanti di quella che per la fisiologia orientale è la nostra circolazione energetica. L’uomo li studia da secoli e sembra che il primo trattato a essi dedicato risalga al terzo secolo avanti Cristo. Laura Fezia in I chackra.Teoria e pratica (Edizioni età dell’Acquario, 174 pagine, 13,00 euro,) ripercorre a partire dai Veda la storia di questa concezione olistica dell’uomo, lentamente penetrata in Occidente malgrado il muro di resistenza che a questa concezione del mondo ha opposto il vecchio materialismo. Un pericolo sostituito dai neospiritualismi veicolati dalla cosiddetta new age. a cura di Riccardo Paradisi


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JACK KEROUAC ERA L’ANNO DI WOODSTOCK, DELLA “CONQUISTA” DELLA LUNA, DELL’INIZIO DELL’ERA DELL’ACQUARIO… LO STESSO IN CUI IL CREATORE DELLA BEAT GENERATION ABBANDONAVA LA SUA ESISTENZA “VELOCE”. LA SUA PARABOLA FU UNA SINTESI, UN FENOMENO CHIMICO. IL SUO TESTAMENTO, L’INVITO A RICERCARE LA VERITÀ NELLA SPERIMENTAZIONE. MA CON LO STRUGGIMENTO DELLA NOSTALGIA

ritratti Alcune immagini di Jack Kerouac; in basso, a sinistra, il concerto di Woodstock e, accanto, Kerouac (il primo a sinistra) con Ginsberg e Corso in Messico. In basso a destra, la copertina del suo libro più noto

Il vagabondo del Dharma di Claudio Trionfera el 1969 c’era Woodstock e gli astronauti lasciavano impronte sulla Luna con bandiere tese senza vento, il Vietnam fiammeggiava non solo nel Sudest asiatico e l’Era dell’Acquario apriva le ali spargendo coriandoli sul mondo. E Jack Kerouac, a 47 anni, lasciava per sempre la strada, accompagnato dall’alcol e dallo struggimento della nostalgia. Era il 21 ottobre, nell’autunno delle foglie rosse e gialle di St. Petersburg, Florida. «Per quelli come noi che lo avevano conosciuto la sorpresa non è che sia morto così giovane quanto il fatto che abbia retto tanto a lungo». Parole di Carl Adkins, nella mente il ritmo frenetico del vivere di colui che per tutti era diventato Jack Duluoz nella rete sconfinata degli pseudonimi seminati nei suoi romanzi, esistenza veloce come se avesse dentro di sé qualche pazzo jazzista, tipo Ornette Coleman, che gli batteva il tempo della vita.

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Già, il jazz. E le sue tecniche e i suoi segreti. Il be-bop lo guidava nella prosa spontanea così come l’astrattismo dei pittori e le nuvole viaggianti nei cieli d’America, arrivando a quello sketching che nel solo atto di fare scrittura faceva nascere i pensieri-le emozioni-le immagini e il loro infinito succedersi, mai così follemente intenso come nell’unico a solo dei Sotterranei e della «notte piovosa che grava su tutto e dappertutto bacia uomini e città in un solo bagno di triste poesia, con dolci file di angeli in fitte schiere che su in cielo soffiano nelle trombe finali canti di Paradiso voci echeggianti dall’oriente, sterminate come il Pacifico, e qua giù in terra termine al timore…». Era il manifesto beat quello dei Subterraneans, preparato nel ’53 e pubblicato nel ’58 subito dopo Sulla strada, la fortuna improvvisa ma non la ricchezza. Non quella materiale, almeno. L’altra sì, però. Quella di aver guidato il tempo e la generazione delle Anime Espanse, se a Woodstock erano arrivati in migliaia con i sacchi a pelo lo si doveva anche a Sal Paradise e a Dean Moriarty, Carlo Marx e Old Bull Lee e tutti gli altri profeti di On the Road, oltre SalKerouac, dietro gli altri nomi c’erano Allen Ginsberg, Neal Cassady,William Burroughs e tutti i poeti e scrittori e pensatori e cuori vaganti della beat generation. Dean/Neal era l’eroe di tutta la gente beat, indossava le vesti sdrucite della rivolta e del non convenzionalismo, del coast to coast fatto a tavoletta, NY-Frisco e ritorno tra un greyhound e una Hudson, sempre pronti a ripartire, a rimettersi sulla strada. Così: «Ci mettemmo in viaggio col buio, promettendo di essere di ritorno entro trenta ore: trenta ore per milleseicento chilometri a nord e a sud. Ma era così che voleva Dean. Fu un viaggio duro, ma nessuno di noi se ne accorse; l’impianto del riscaldamento non funzionava e il parabrezza si ricopriva di vapore e di ghiaccio; Dean continuava a sporgersi mentre guidava a più di cento l’ora per ripulirlo con uno straccio e aprirsi un buco dal quale vedere la strada. Una coperta ci copriva le ginocchia, la ra-

Dichiarò di non vedere alcun legame tra ciò che aveva scritto e quello che stava accadendo intorno a lui, ma era avanti nel suo tempo. Come un archetipo, fu capace di influenzare perfino la musica degli anni a venire, Bob Dylan in testa... dio non funzionava. Era una macchina nuova fiammante comprata cinque giorni prima, ed era già un rottame…».

Naturalmente non solo On the Road. Kerouac ha costruito attorno al racconto orizzontale di Sulla strada una fonte di ispirazioni ulteriori, di passaggi determinanti per tutti gli anni che trascorrevano tra stesure e pubblicazioni. In una specie di continuo modificarsi, nelle forme e nei colori. L’esempio più luminoso è Visioni di Cody, nato da On the Road in versione verticale e matafisica, le stesse esperienze dell’altro ma totalmente rielaborate attorno alla figura di Neal Cassady, mole sterminata di pagine scritte allora per arricchire proprio il romanzo maggiore, che a sua volta era stato creato di getto in una manciata di giorni sul leggendario rotolo di telescrivente. Quelle nuove pagine, destinate all’inizio a essere semplici varianti, erano diventate a loro volta un nuovo grande insieme di pensieri, illuminazioni e dialoghi, uscito postumo, nel ’72. «Questo libro - disse Allen Ginsberg - è il più sincero e santo che conosca. Jack non lo ha scritto per denaro e neanche per la fama ma per amore, lo ha regalato al mondo come una spiegazione e una preghiera ai fratelli mortali…». Ecco la sale da biliardo di Denver o le vecchiette nei giardini di Lowell, ecco il nastro delle lunghe conversazioni con Cody, e Lee Konitz seguito per la strada tra la 49ª e la Sesta Avenue e via così, tra i tetti delle case, i mattoni ros-

si e i food shop con le scritte in verde al neon sulla porta e quel giovanotto magro che ordina un caffè e un hamburger, perché quando torna a casa dopo il lavoro non ha neppure dove cuocersi due uova da sé, torna a casa per le fredde lunghe strade della periferia, col vento, le foglie morte e l’oscurità.

Lowell, Massachusets. Ci era nato e l’aveva raccontata mille volte, come si racconta e si pensa la città dove si nasce, «nel marzo del 1922, alle cinque del pomeriggio di un dopopranzo tutto rosso, mentre nei saloon di Mody Street e della Lakeview si spillavano birre soporifere e il fiume s’avventava sulle rocce scivolose arrossate dal sole». Era là che i liquami dell’inverno di confondevano coi fragori del Merrimack nella grande malinconia dei pomeriggi domenicali, era là che il genio benefico del Dottor Sax volteggiava riempiendo la fantasiosa fantastica giovinezza di Jack. Attraverso Lowell passavano la memoria commossa di The Town and the City, la storia del primo amore con la Maggie Cassidy dal vestito rosa, la gioia abbagliante carnosa del primo bacio, la tristezza di un addio lacrimante, lei con gli occhi di donna nuova che trasparivano dagli occhi di sempre… E i ritorni dai lunghi viaggi e la memoria dei palazzi e delle ciminiere dell’infanzia riempivano sul fronte della nostalgia e del rimpianto il crepuscolare Vanità di Duluoz. In mezzo tutti gli altri libri nati dalle pra-


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tiche più diverse, buddismo e solitudine, ruminanti meditazioni, addolorate reminiscenze di morte fraterna e febbrili folli artistici ritrovi beat, poesie e storie d’amore da La città e la metropoli a I sotterranei, da Viaggiatore solitario a Big Sur, da Visioni di Gerard a Satori a Parigi, da Vagabondi del Dharma a Angeli di desolazione, da Tristessa a Mexico City Blues… La vita come esperienza nell’immenso contenitore della controcultura americana. Kerouac avrebbe voluto raccogliere tutta la sua scrittura in un unico grande sogno autobiografico inteso come riconquista del passato: La leggenda di Duluoz. Era il Progetto, che aveva incominciato a prendere forma all’inizio degli anni Sessanta: «Il mio lavoro - diceva allora - comprende un solo grande libro, come Proust, tranne che i miei ricordi sono scritti mentre accadono, non successivamente in un letto di malattia… L’opera intera forma una enorme commedia, vista attraverso l’occhio del povero Ti Jean (io) altrimenti conosciuto come Jack Duluoz, il mondo dell’azione furiosa e della follia ma anche della gentile dolcezza vista attraverso il buco della chiave del suo occhio».

Era desiderio, non ambizione, all’interno di un confronto Kerouac-Proust impossibile da realizzare sul piano puramente stilistico e letterario, così come su quello della «struttura». Proust aveva costituito una complessa ragnatela per riconquistare il passato, un blocco unitario fatto di connessioni e meditati rimandi. Kerouac partiva sempre dal presente e dall’incessante scomposizione e ricomposizione di una moltitudine di personaggi, da una cronologia volutamente «disordinata», da una scrittura innovativa e spesso diversificata tra un libro e l’altro. La Recherche era frutto di un disegno originario; la Legend era tutta in divenire, una ricerca in progress se non addirittura «a posteriori». Eppure avrebbe funzionato nella verità della sperimentazione immediata, nell’esercizio di una prosa che nelle vertigini e nell’euforia del suo non-schema rappresentava, da sola, un prodigio unificante e innovativo. Quello stesso che, del resto, avrebbe sollecitato a tutti i livelli i cambiamenti delle generazioni successive. Nessuno come lui. Jack Kerouac ha creato la Beat Generation attraverso una eccezionale e forse casuale combinazione di elementi. Una sintesi, un fenomeno chimico. Cui la grandezza di Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti,William Burroughs, Peter Orlovsky e di tutti gli altri ha contribuito in modo definitivo dalle angolazioni più diverse. Nella sua prefazione ai Sotterranei Henry Miller affermava: «Kerouac è uno scrittore originalissimo che potrebbe essere considerato, senza sforzo, caposcuola in qualsiasi movimento. Dopo averlo letto è difficile ritornare a scrittori come Dos Passos, Hemingway, Steinbeck e anche… al sottoscritto». Il jazz, l’azione, la velocità del pensiero collegato alla realtà hanno trasformato la pagina scritta in uno scenario americano vissuto

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sempre in diretta da milioni di persone in tutto il mondo. Erano gli anni Quaranta e Cinquanta e lui era avanti nel suo tempo. Archetipo del beat, capace di influenzare perfino la musica degli anni a venire, Bob Dylan in testa, che aveva tratto la sua Desolation Row da Angeli della desolazione, Subterranean Homesick Blues con riferimenti ai Sotterranei,Visions of Johanna da Visioni di Gerard. Nell’ottobre del ’75, a confermare un legame mai dissolto, durante il Rolling Thunder tour, rese omaggio alla tomba di Kerouac accanto ad Allen Ginsberg, chitarra, suoni e parole poi utilizzati nel film Renaldo and Clara. E, ancora, i Beatles,Van Morrison, David Bowie, i Doors di Jim Morrison, gli orizzonti sonori costruiti attorno a quell’archetipo, e i testi delle loro canzoni a vagabondare nel Dharma in compagnia degli autostoppisti di tutte le età che invadevano Frisco e Katmandu, tende e sacchi a pelo, Land Rover passo lungo, zaini in spalla ad accorciare il mondo. Japhy Ryder, pseudonimo di Gary Snyder nei Vagabondi del Dharma profetizzava: «Pensate a quale grande rivolu-

purezza rurale. E a quella «spiritualità - come disse Ginsberg - che credo fosse il nostro primo pensiero.Tutti noi avevamo sperimentato un qualche genere di visione che ci aveva spinto oltre la nozione dell’arte intesa come una carriera qualsiasi o un modo per arricchire. Improvvisamente ci eravamo accorti che l’arte aveva un’influenza sulla gente, che aveva delle conseguenze e che avrebbe potuto aiutare a essere consapevoli e tolleranti».

Religiosità beat. Kerouac, specie negli ultimi anni, aveva capito che la sua Generation aveva acceso lo spirito nella vita degli americani: «Non ho mai sentito parlare tanto di Dio, delle Ultime Cose, dell’Anima, del dove-stiamo-andando se non fra i giovani della mia generazione. E non solo fra i giovani intellettuali. Fra tutti». Anche per questo l’altra generazione, quella degli intellettuali «materialisti» che stava nascendo lo aveva liquidato, spesso addirittura come «reazionario», salvo - e solo in parte - rivalutarlo dopo la morte. In effetti era un tradizionalista che

“Il mio lavoro - dichiarò - comprende un solo grande libro, come Proust, tranne che i miei ricordi sono scritti mentre accadono, non dopo, in un letto di malattia...”. Da “On the road” alla “Leggenda di Duluoz” la sua fu un’opera in progress zione mondiale scoppierà quando finalmente l’Est incontrerà l’Ovest e sono persone come noi che possono far succedere tutto ciò, pensate ai milioni di persone che da tutto il mondo con i loro zaini sulle spalle viaggeranno per tutto il paese, nelle parti più nascoste, e faranno l’autostop rendendo il mondo alla portata di tutti».

Era il 1958. Quanto tempo prima. Dieci anni prima della «rivoluzione», che però non gli apparteneva, non gli sarebbe mai appartenuta. Quando davvero tutto ciò sarebbe accaduto Jack sarebbe stato seduto sulla sua poltrona a bere birra, esausto e devastato davanti alla televisione negli ultimi mesi della sua vita. Per poi morire da povero, con 91 dollari in tasca che sarebbero stati la sua «eredità», quella che certo non contava come tale, altra era la sostanza lanciata nel tempo a venire. Avrebbe dichiarato di non vedere alcun legame tra quello che aveva scritto e quello che stava accadendo. Forse era davvero così, la sua personale rivolta aveva avuto connotazioni individuali e mistiche, aspirazioni alla

invocava l’America del tramontato individualismo e dell’avventura, battuto dal conformismo e dal mito della sicurezza. Altre rivoluzioni non gli appartenevano e neppure le politiche dell’aggressività e della violenza. E oggi che, almeno in parte, la sua opera è tornata in primo piano, insieme con le commemorazioni moltiplicate e tutto il cammino spirituale dei beat lungo le strade della terra, si può ragionare ancora delle vecchie ferrovie e treni ululanti nella notte di Santa Fe, dei frenatori che consumano tristemente i loro pasti in mense accanto alle rotaie, dei campi color dell’amore, della bianca Frisco e dei mattoni rossi e del rombante orrore sotterraneo della notte di Lowell con l’ombra del Dottor Sax che scivolava sul fiume, della tetra pazza New York che gettava verso l’alto la sua nube di polvere e di vapore bruno. Il bruno e il sacro dell’Est, il bianco candido della California dalla testa vuota, così come la vedeva Sal Paradise al centro del suo eternoViaggio. È il passato che ritorna nella lieve dolce nostalgica leggenda di Duluoz.


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l Novecento come il secolo del talento femminile, che poi con gli anni si stempera fino a perdere la sua carica esplosiva. Questa è la tesi di Elisabetta Rasy, studiosa, scrittrice e giornalista. E come mai la svolta annega quel precipuo «segno di riconoscimento»? L’autrice del denso e variegato saggio (Memorie di una lettrice notturna, Rizzoli, 255 pagine, 18,50 euro), che comprende documentati profili delle donne con la penna tra le dita, ricorda una frase di Anna Maria Ortese: «Uno scrittore-donna, una bestia che parla, dunque». Un modo di dire che indica qualcosa di inaspettato, financo fuori luogo. Significativa un’altra asserzione, quella di Virginia Woolf, la quale sosteneva che è letale per chi scrive pensare al proprio sesso, ma forse per chi legge no, chi legge può pensare a quello che gli pare, sesso compreso. Quindi, se non si vuole tirare un ballo l’orribile e ormai desueto termine «letteratura femminile», certamente si deve registrare che ogni artista donna «ha una sua inconfondibile voce… a reclamare la propria storia contro la collettivizzazione indebita che è stata loro imposta».

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Penetriamo nel nucleo femminino della scrittura: allora risulta evidente «una storia di strenuo patto con la giovinezza, qualcosa di inguaribilmente giovanile, il fervore, forse, uno statuto di eterne ragazze, non raramente pagato con sofferenza e difficoltà, o con eccessi e talvolta con la vita». Tutte, o sicuramente la maggior parte delle scrittrici, si sono tenute distanti dal potere culturale o politico, diventando quindi «oblique, dubbiose, refrattarie, e se militanti, militanti soprattutto dell’esistenza». Freud parlava del «continente nero della femminilità»: un’approssimazione suggestiva, ovviamente. Più semplicemente e più precisamente, sostiene la Rasy, «potremmo dire una tradizione dietro di sé di cui portano ancora il peso e lo stigma, una storia di interni, di interiorità segreta e di silenzio, di esilio domestico, di magie bianche e nere casalinghe, di sogni incomunicabili, di effrazioni taciute o condannate, di un costante corpo a corpo con la fragilità dei corpi». Recitava la russa Anna Achmatova: «Siamo tutti per poco ospiti della vita/ vivere è solo un’abitudine». Anna fu ostracizzata dalla «follia staliniana», quin-

Ritratti di scrittrici in “Memorie di una lettrice notturna” di Elisabetta Rasy

Le signore dei libri di Pier Mario Fasanotti anche un comune sentire fraterno e la volontà di continuare a scrivere malgrado «il ronzio sconnesso e minaccioso della nuova era che la Rivoluzione d’ottobre aveva inaugurato», come ha scritto il Nobel Josif Brodskij (in Il canto del pendolo).

Anna raccontava l’amore con versi semplici, per raggiungere con gli anni quella che alcuni critici definirono «una metafisica perfezione». La sbarra censoria si abbassa nel 1921 quando il marito fu arrestato, e poi giustiziato, in base all’accusa di cospirazione contro il potere sovietico. Seguirono per la poetessa anni di povertà, di stenti, «materiali e letterari» come scrive la Rasy, fino al disgelo kuscioviano. Ma nell’intimo Anna era ormai indebolita. La fine del terrore sovietico risultò essere solo teorica, per lei: suo figlio Lev Gulimev passò un lungo periodo in carcere, il suo terzo compagno, Nikolaj Punin, morì in un campo di concentramento. Anni senza fissa di-

Il talento femminile è stato un segno di riconoscimento della letteratura del Novecento. Un tratto che col tempo ha perso la sua carica esplosiva. Un’efficace ricognizione, tra vita e opere, di oltre una ventina di artiste, “militanti dell’esistenza”. Ognuna con una sua inconfondibile voce di costretta, assieme a quel «relitto borghese» che era la poesia, a un esilio esistenziale e a una vita di stenti. La Achmatova in realtà si chiamava Gorenko, nome che il padre le vietò di usare: per una giovane aristocratica - questa la ragione vera - non era molto decoroso scrivere versi. Ma lei, bella ed enigmatica e capace di essere libera e sfrontata nella vita privata, continuò con i versi fino a diventare, come annotò Solzenicyn, la poetessa più adulata dell’Urss dopo essere stata la più denigrata. Il cupo periodo staliniano la vede vittima, ovviamente. Assieme ad altri bersagli della feroce ottusità del regime: Osip Mandel’stam, Boris Pasternak e Marina Cvetaeva.Tra questi non ci fu solo amicizia, ma

mora, 17 mesi di umilianti attese dinanzi al carcere pietroburghese delle Croci. Anna va anche in un sanatorio per tubercolotici, ha frequenti disturbi di cuore, eppure opera quel «misterioso distacco» dalla crudeltà della vita. Scrive la Rasy: «Il suo fu un accanimento amoroso con cui prendeva in contropiede l’angustia persecutoria di un’epoca». A causa della sua agitatissima vita privata, cosparsa di passioni, tradimenti, ménage à trois, miseria e delazioni,

In alto, la copertina del libro e l’autrice. A fianco, Anna Achmatova, Virgina Woolf, Wislawa Szymborska, Anna Maria Ortese e Marina Ivanovna Cvetaeva

libri

le affibbiarono l’etichetta di «mezza suora e mezza prostituta». Ma lei non smetteva di scrivere. All’ultimo, un’imbarazzante grassezza ingoiò il suo mitico snellissimo corpo, eppure ebbe il coraggio di fare un viaggio fino a Taormina per ricevere un premio, attenta a «non stringere qualche mano che era stata troppo amichevole con le mani che apparivano nei suoi incubi». Un altro destino, ugualmente tragico e ugualmente russo, è quello di Marina Cvetaeva che nell’agosto del 1941, all’età di 49 anni, trova una trave solida e una fune. S’impicca la poetessa che ha consacrato le sue pagine all’amore, «l’amore nella sua versione più intatta e difficile, quella dell’impossibilità». Un’infanzia felice pur nella sua «fiabesca orfanità», una precocità esistenziale e artistica che la conducono in sentieri anticonformistici.Aderisce ai gruppi rivoluzionari contro lo zar, poi il conflitto mondiale e la Rivoluzione bolscevica portano povertà e fame. Dirà Marina: «Nella mia vita ho amato tutto con l’addio». Il marito Sergej Efron, «bello e fragile», fugge, lei lo ritrova in Boemia.Tappe a Berlino e a Parigi, dove la donna rifiuta di entrare nel clima e nella vita degli esuli, per cui decide nel 1939 di tornare nell’Urss, per ricongiungersi con la figlia Alja e col marito che nel frattempo è coinvolto in storie di spionaggio e di omicidi. La Cvetaeva, «bambina condannata a essere poeta» vive di prestiti e di elemosine. La descrive così la figlia Ariana: «Volto olivastro, pallido, mani forti, attive da lavoratrice, la fede nuziale e due anelli d’argento che non toglie mai… voce alta, piena, modulata… nelle discussioni poteva affrontare l’avversario con un attacco fulmineo, pur senza oltrepassare i limiti di una cortesia glaciale». Detestava l’ozio, scriveva ovunque, e anche in mezzo al rumore. Sergej, ricercato dalla polizia francese perché sospettato di aver ucciso oppositori al regime sovietico, viene fucilato dagli stessi uomini che prima ha servito, sua figlia è spedita in un gulag.

Singolare, come in molti altri ritratti di donne artiste delineati nel libro di Elisabetta Rasy, la tenacia di Marina che, malgrado «i pensieri e gli affanni della caotica realtà quotidiana, è ancora la donna generosa e severa e strana». Alla figlia Ariana dedica una frase splendida: «Io sono stata il tuo primo poeta,/ Tu il mio verso migliore». Sono oltre venti i profili delle signore dei libri. Ebbe una vita difficile, con un’interiorità inglobante il mondo, anche la poetessa polacca Wislawa Szymborska, oggetto di ironia quando vince il Nobel nel 1996: ma come, dissero in molti, solo per una manciata di versi? Già, in quei versi c’infila, mai con il lirismo da saltimbanchi del nulla, «il terrore per la minacciosa fragilità della vita, che passa per il transitorio e l’inosservato». E a proposito dello scrivere versi, ha detto: «Il poeta non riesce a stare al passo con i tempi, rimane sempre indietro. Sia pure per raccogliere quanto è stato calpestato e smarrito nella marcia trionfale delle verità oggettive». Ecco: questa affermazione sta a confermare lo scavo nell’essenziale di una donna che avvertiva: «Miei segni particolari: incanto e disperazione». Una delle tante donne del Novecento, destinate a lasciare un segno indelebile, come altre lontane dal non infrequente e scialbo cronachismo maschile.


video Flash Forward MobyDICK

tv

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idea è tratta da un romanzo. E questo è già una garanzia visto che l’impianto narrativo si presenta già compatto e ben strutturato. Agli sceneggiatori il compito di dividere il soggetto in varie puntate (dal mese di ottobre alla fine di aprile), dosando azioni e rivelazioni: non è facile, ma da quanto abbiamo visto finora il meccanismo funziona benissimo. Parliamo di Flash Forward, che è poi il titolo del libro dell’americano Robert Sawyer e che significa, in italiano, visione del futuro. Il serial in America ha avuto come titolo No more good days (Non più giorni felici). Da noi va in onda ogni lunedì su Fox alle 21. Nelle principali città italiane abbiamo notato cartelloni pubblicitari in cui si ritrae la figura del detective Mark Benford sullo sfondo catastrofico e surreale di un mondo che ha avuto un black out di due minuti e 17 secondi, periodo in cui tutti hanno avuto un flash del proprio futuro. È una novità: una simile visibilità di solito la si riservava ai film sul grande schermo. È una svolta significativa, perlomeno se si considerano le dimensioni dell’advertisment. Una grande storia divisa in capitoli, e che dura mesi, ci fa ricordare quel che accadeva un secolo e

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un successo che guarda al futuro

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mezzo fa con i romanzi a puntate sui giornali quotidiani, meritevoli di aver diffuso la voglia della lettura. Addirittura ci furono risse nei porti in attesa dello scarico di quei fogli che stampavano la continuazione del feuilleton (anche di autori ottimi). Altri tempi, altro modo di diffondere la narrativa popolare. Ma stessa suspence dinanzi al fantastico e a questo punto occorre ricordare le resse dinanzi alle librerie il giorno dell’uscita dei libri della saga di Harry Potter: in quella circostanza prevaleva ancora l’interesse per la carta, come nell’Ottocento. Flash Forward sta riscuotendo un grande successo e attira l’attenzione di telespettatori di ogni età. L’effetto benefico è mentale e sociale: troviamo padri, madri e figli a discutere della trama, dei dettagli e delle ipotesi del romanzone americano. Ossessionati, fino all’intossicazione verbale, sulle vicende che ruotano attorno al nostro primo ministro al quale si tributa un tifo e un contro-tifo da curva sud dell’Olimpico, abbiamo finalmente l’occasione di parlare d’altro. Non possiamo pretendere che questo «altro» sia alta letteratura o argomenti filosofici, certo che no, ma va detto che il romanzo d’avventura offre sempre lo spunto per parlare di noi stessi, della vita quotidiana e, nel caso in questione, del tema che sta più a cuore: il futuro. È, per così dire, l’uovo di Colombo: la domanda su come potrebbe essere il nostro futuro, su come eventualmente modificarlo, è il quesito cardine dell’esistenza. Il black out mentale di dimensioni globali con cui inizia Flash Forward, e che corrisponde a una breve perdita di coscienza, provoca danni enormi, che fanno immaginare un atipico attacco di stampo terroristico. Intanto il mondo intero cura le proprie ferite: per poco più di due minuti di «assenza umana» cadono migliaia di aerei. La telecamera narrativa fa continue zoomate su fatti privati: gravidanze, divorzi, tradimenti, malattie fisiche e psichiche non previsti appaiono come un bagliore che condiziona il nostro oggi. L’intera vicenda ha ovviamente il suo eroe. Che, manco a dirlo, è dell’Fbi. Si deve partire, per le indagini, da ciò che lui ha «visto» nei due minuti. Un puzzle, o meglio un mosaico (Mosaic Collective): un post it con scritto blue hand (mano blu), la foto di un uomo misterioso e il titolo di uno dei futuri episodi 137 Sekunden, un menu del ristorante The Crown Cheese Steak con la scritta help us (aiutateci) vergata col sangue, il disegno di una creatura a più teste, una nota di Mark Benford risalente al 29 aprile 2010 con scritto Who else knows? (chi altro lo sa?). Il protagonista è credibile, soprattutto perché non fa il gradasso, non si mette a fare il Batman di Gotham City. (p.m.f.)

games

GINNASTICA PER LA MENTE

dvd

OBIETTIVO EXCALIBUR

L’APOCALISSE DI HERZOG

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ulla scia dei più popolari siti di brain training, atti a migliorare alcune funzioni cerebrali come l’attenzione e la memoria, Lumosity è un servizio educativo che consente di esercitare la mente on line. A disposizione dell’utente, all’indirizzo lumosity.com, sono disponibili una serie di applicazioni sviluppate in Flash, in possesso di un vero e proprio marchio di qua-

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a premessa è di tutto rispetto e richiama una delle leggende cavalleresche più affascinanti: un antico libro in grado di condurre il fortunato possessore al ritrovamento della spada delle spade, Excalibur. Book of legends, casual game di Adventure Productions, guida l’avventuriero in un tortuoso viaggio alla ricerca della preziosa arma. E in un classico meccanismo di

ono sempre stato interessato alla differenza tra “fatto” e “verità”. E ho sempre sentito che esiste qualcosa come una verità più profonda. Esiste nel cinema, e la chiamerei “verità estatica”. È più o meno come in poesia. Quando leggi una grande poesia, senti immediatamente, nel tuo cuore, nelle tue budella, che c’è una profonda inerente verità, una verità estati-

”Lumosity” è un progetto cognitivo on line, basato su esercizi di attenzione e memoria

”Book of legends”: l’enigmatica ricerca della leggendaria spada approda in console

Il cineasta tedesco filma in tredici capitoli la tragedia irachena dopo la guerra del Golfo

lità. I giochi interattivi sono stati ideati infatti da un team di scienziati della Stanford University, che hanno provvisto a corredarli di puntuali feedback, in grado di rendere conto dei progressi ottenuti. Basta una rapida registrazione per misurarsi con simpatiche disfide mnemoniche, rompicapi, quesiti logici e altri piacevoli esercizi. In linea con gli ultimi esiti delle ricerche scientifiche in campo cognitivo, che testimoniano di un notevole incremento delle capacità percettive, si calcola che dieci minuti quotidiani dedicati alla ginnastica della mente, assicurino rapidi miglioramenti. I possessori di iPhone beneficiano di una versione apposita.

detection, impone la risoluzione di enigmi e indovinelli che celano utili informazioni senza le quali è impossibile dar senso al peregrinare. Naturalmente irrinunciabili tristi figuri pronti a tutto per sgraffignare il volume dalle mani del protagonista. Integrato da inserti narrativi e meccanismi finzionali tipici del linguaggio cinematografico, Book of legends si avvale di schermate fisse pullulanti di oggetti e dettagli realistici, e mette in scena luoghi celebri come il Louvre e l’abbazia di Westminster, che non mancheranno di colpire il giocatore.

ca». Capace di mettere in versi la prosa della realtà, Werner Herzog è amante di situazioni limite, in bilico tra lirismo e tragedia. Apocalisse nel deserto, intenso documentario da lui realizzato al termine della guerra del Golfo, rinuncia a ogni pretesa cronachistica e allo stesso tempo restituisce minutamente ragioni storiche che solo le immagini conoscono. Diviso in tredici capitoli, tra i pozzi di petrolio incendiati dagli iracheni in fuga dal Kuwait, l’opera di Herzog mostra madri e figli, cieli e pennacchi di fumo, getti incandescenti e tenebre fitte. Alla ricerca di quella verità estatica, che oltre il dato strumentale, si faccia reportage dello sguardo.

a cura di Francesco Lo Dico

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I’NNAMMURÈTE Si guardaàine citte e senza fiète i 'nnammurète. Avìne ll'occhie ferme e brillante, ma u tempe ca passàite vacante ci ammunzillàite u scure e i trimuìzze d'u chiante. E tècchete, na vota, come ll'erva ca tròvese 'ncastrète nda nu mure, nascìvite 'a paròua, po n'ata, po cchiù assèi: schitte ca tutt'i vote assimigghiàite 'a voce a na cosa sunnèta ca le sìntise 'a notte e ca po tòrnete chiù dèbbua nd' 'a iurnèta. Sempe ca si lassàine parìne come ll'ombre ca ièssene allunghète nd'i mascìe; si sintìne nu frusce, appizutàine 'a 'ricchia e si virìne; e si 'ampiàite 'a 'ùcia si truvàine faccia a faccia nd'u russe d'i matine. Nu iurne - nun vi sapéra dice si nd'u munne facì' fridde o chiuvìte 'ssìvite nda na botta 'a 'ùcia di menziurne. (…) Chi le sàpete. Certe si 'mpauràine di si scriè tuccànnese cc'u fiète; i'èrene une cchi ll'ate 'a mbulla di sapone culurète; e mbàreche le sapìne ca dopp'u foche ièssene i lavìne d' 'a cìnnere e ca i pacce si grìrene tropp assèi lle 'nghiùrene cchi ssèmpe addù nisciune ci trasèrete mèi. Mo nun le sacce addù su', si su'vive o su'morte, i 'nnammurète; nun sacce si camìnene aunìte o si u diàue ll'è voste separète. Nun mbogghia Ddie ca si fècere zang 'nmenz' 'a via Albino Pierro

poesia

La “Spoon River” del Meridione di Filippo La Porta na volta Alberto Savinio osservò che scrivere in dialetto significa condannarsi a essere «minori» e a dire cose «minori» (almeno dall’Unità in poi). Eppure il caso di Albino Pierro, poeta lucano nato a Tursi nel 1916 e scomparso nel 1995, candidato al Nobel negli anni Ottanta, avrebbe potuto instillargli qualche dubbio in proposito. Anzitutto, e paradossalmente, proprio la svolta dialettale di Pierro avvenuta nel 1959 lo emancipa da qualsiasi bozzettismo e descrittivismo sentimentale. Quando scrive in dialetto, reinventando forse l’ultima lingua romanza, diventa un poeta asciutto e concreto, un autore universale (le sue poesie sono tradotte in molti paesi) e trova un suono perfettamente aderente alla propria materia (un paesaggio - interiore ed esteriore - aspro, lunare, stregato, pieno di energia), capace di parlare a tutti. Con il vernacolo si esprime poi più liberamente la sua vocazione espressionista, sperimentale con risonanze trobadoriche -, che attirò studiosi come Contini e Folena e schiere di filologi (come per i provenzali al centro della sua poesia c’è una impossibilità: del ritorno al suo paese, del recupero del passato, dell’amore, della poesia stessa…). E in ciò conferma un teorema letterario su cui vale la pena riflettere.

U

I grandi scrittori novecenteschi intrattengono tutti un legame ravvicinato con la loro «piccola patria», la quale diventa poi categoria dello spirito e figura del destino. Dalla Trieste di Svevo alla Palermo di Tomasi di Lampedusa, periferie globali e metafora di una contraddittoria, inquieta resistenza alla modernità dominante. Autori apparentemente provinciali, marginali, ma proprio perciò riconoscibili in ogni provincia e margine della Storia. Una poesia - quella di Pierro che punta sulla ristrettezza del lessico (propria di ogni dialetto) per affermare le ragioni di una «poesia elementare», caratterizzata dalla «provocazione di un asperrima semplicità», come ha osservato Nicola Merola. Ma qualsiasi radicamento - in

GLI INNAMORATI Si guardavano zitti e senza fiato gli innamorati. Avevan gli occhi fermi e brillanti, ma il tempo che passava vuoto vi ammucchiava il buio e i tremiti del pianto. Ed ecco, una volta, come l'erba che si trova incastrata dentro un muro, nacque una parola, poi un'altra, poi più assai: solo che tutte le volte la voce somigliava a una cosa sognata che la senti di notte e che poi torna più debole durante la giornata. Sempre che si lasciassero sembravano come le ombre che si allungano nelle magie; se sentivano un rumore, aguzzavano le orecchie e si vedevano; e se lampeggiava la luce si trovavano faccia a faccia nel rosso dei mattini. Un giorno - non saprei dirvi se nel mondo facesse freddo o piovesse uscì tutt'a un tratto la luce di mezzogiorno. (…) Chi lo sa! Senza dubbio temevano di sparire toccandosi col fiato: eran l'uno per l'altro la bolla di sapone colorata; e forse lo sapevano che dopo il fuoco scorrono torrenti di cenere e che i pazzi se gridano troppo li chiudono per sempre dove nessuno oserebbe entrar mai. Ora non so dove sono, se son vivi o son morti, gli innamorati; non so se camminano insieme o se il demonio li abbia separati. Non voglia Iddio sian divenuti fango nella via. Albino Pierro


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UN POPOLO DI POETI Si apriva la mano nel fondo lo sguardo teneva passato, presente piccola anima avvolta la grande distante lente onde sgusciavano da ogni perimetro libere di planare verso il tutto

Antonietta Panarello Pierro - coesiste con uno sradicamento, con il senso di una non appartenenza, di una perdita. L’etnologo Ernesto de Martino dichiarò che la Lucania costituiva per lui napoletano - un paesaggio domestico, la memoria di una preistoria ineliminabile e vicina al mito. Una patria scelta, adottiva, ma non perciò meno reale. Lo stesso Pierro non crede a radici stabili, fissate una volta per sempre. Forse intuisce, come un altro grande scrittore del Sud del mondo, il libanese Maalouf, che solo gli alberi hanno radici immutabili dentro la terra, mentre gli uomini hanno radici mobili, in ogni direzione, e un’identità fatta di molteplici appartenenze. Basterebbe poi rileggere la poesia in italiano - dedicata alla madre (morta quando lui aveva pochi mesi), figura incorporea, evanescente come una nuvola bianca: «ed era più lontana e misteriosa/ della voce dei grilli e della luna», solo sfiorata e sempre sul punto di dissolversi.

Nella splendida poesia I’nnammurète, che ho trascritto (anche se ho dovuto accorciarla eliminando due strofe centrali) si chiede alla fine dove stiano ora gli innamorati, se sono morti o vivi, se il diavolo li ha voluti separare, e Dio non voglia che si fecero fango nella strada - «ca si fécere zanghe mmenz’a vie». Qui le parole in tursitano, impastate di fango e materia, fatte della stessa sostanza dei sogni, esprimono fedelmente un sentimento preciso della realtà. La poesia uscì proprio nel 1963 e mostra tutta la di-

stanza della lingua dissonante di Pierro dalla neoavanguardia: il suo sperimentalismo non frequenta i gruppi e non si fonda su una ideologia.

O anche Metaponte , in cui immagina che ancora oggi Pitagora giochi in quella piana, «quante è notte/cchi nu mère di stelle», e si sente chiamare in quel biancore «accusì duce»; e poi che sempre lì c’è come «stu sapore antiche» che medica gli occhi con una luce che scende nel cuore, e ancora il fiato dei morti che raccontano le bellezze di allora, adesso dimenticate - «stu fiete d’ì morte ca ti cuntene/ i billizze di tanne e mò scurdete». Dove il vernacolo aderisce perfettamente a quel mondo arcaico e incantato, a quella visione insidiata dal lutto, dal buio e quasi gnosticamente - dall’orrore del mondo, ma anche illuminata da una gioia primigenia, fatta di vitalità dionisiaca e di pienezza cristiana. Quella di Pierro è una Spoon River del meridione più ancestrale, voce di una comunità che non c’è più detta in un neolatino protostorico, in una lingua ricostruita, quasi artificiale (non coincidente con il parlato dei tursitani): mare di pianto e di ricordi, visione profetica e quasi sommesso reportage sui defunti - continuamente evocati - che al tempo stesso ci intimoriscono e ci placano, dato che non aspirano più a nulla - «ca nu vònne cchiù nente»… Nei suoi componimenti gemono le mosche e le stelle, i grilli e le pietre, così come nei versi del peruviano Cesar Vallejo. E proprio come lo straziato poeta andino anche lui scrive che prima del-

la bara lo attende certamente «un sasso in fronte o una frustata in fronte». In I signe della cruce aveva scritto (versione italiana): «Io mi stendo nell’ombra/ gli altri fuggono nel sole». Ed è quasi protetto dall’ombra che il poeta recita i suoi versi nel medio metraggio che gli ha dedicato Maria Luisa Forenza: indossa un girocollo grigio e la giacca nera, e poi ha gli occhi appuntiti, i baffetti sottili, la bocca incline a un severo lamento ma che per un attimo trattiene a stento il sorriso, e soprattutto quell’aria al tempo stesso timida, appassionata, inerme, apprensiva, ostinata.

Si è parlato del dialetto come di un bene culturale, benché immateriale, da custodire gelosamente. Eppure nell’idea di bene culturale c’è qualcosa di statico, di archeologico-conservativo. In realtà quel particolare bene culturale che è una lingua si offre ogni volta potenzialmente a un suo «riuso» in funzione espressiva. E per questa ragione può riacquistare la vitalità perduta, la sua enorme forza tellurica. Come accade del resto nel fenomeno pugliese del raggamuffin dei Sud Sound System (e di molti altri gruppi), un esperanto musicale di origine giamaicana cantato rigorosamente in salentino. Se ad esempio Pierro scrive «si fecete zitte u munne», questa espressione non equivale semplicemente ad «ammutolì il mondo»: è come se nel respiro del dialetto, nella sua ispida, drammatica modulazione, anche il lettore entrasse in un contatto misterioso con quell’evento apocalittico.

E devo aspettare il profumato soffio di luna dietro la schiena per sentirmi davvero a mio agio. A quest’ora si potrebbe stare in silenzio… Ma io son qui con questi pensieri che mi portano via E provo ad essere carezza, atavico abbraccio, fluido respiro. Ne avrei di tempo da disfare eppure la vista da qui è talmente bella che mi basta chiudere gli occhi e illuminare anche te immaginando i gesti minuti di chi ti si addormenta accanto… E va avanti il mondo e poi torna a scorrere piano e metto a fuoco il cielo e scambio lucciole per lanterne. Perché è solo bevendo dai miei pensieri che avvicino il mio soffitto al tuo…

Fabia Muscariello

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

hi si sta perdendo la festosa mostra dedicata a Serge Diaghilev (in realtà Sergej, ma si sa che i francesi francesizzano volentieri), occasione già brevemente consigliata in un’altra nostra segnalazione monacense, per invitare soprattutto a non perdersi, guai!, quello spettacolo impagabile del sipario di Picasso per le Train Bleu di Cocteau e Milhaud (nell’immagine sotto al titolo, ndr), ora che la mostra si sta spostando da Montecarlo a Mosca, ove accederà addirittura alla Galleria Nazionale Tretjakov (con significative varianti), si consoli almeno con il variopinto volumone Skira (a scelta, in lingua inglese o francese, ragionevole costo 45,00 euro) che non è un resoconto soltanto della mostra, ben articolata epperò certo non esaustiva, ma che racconta anche il personaggio istrionico e tragico di questo curioso domatore d’artisti e folle, dal fascino irresistibile e trascinante, dispotico e teneramente crudele, possessivo e sempre abbandonato, che inventò un nuovo modo di far vivere le scene musicali e reimmaginò la danza e il rapporto tra musica e arti figuratice. Fondando i Ballets Russes, ovviamente, che stregarono la Parigi di Proust e Debussy, e soggiogarono pure il pubblico oltre-Oceano, oltre che quello londinese e di Montecarlo (non a caso. Qui egli tenne a battesimo il debutto del Narciso scritto da Leon Bakst, con le sue memorabili scene simboliste-art nouveau, per la coreografia di Fokine. E poi anche la torbida Chatte 1927, già déco, su testo di un misterioso Sobeka, che altri non era che l’acrostico del compositore Sauget, di Balanchine e di Boris Kochno, il segretarioamante, che avrebbe continuato a scrivere libretti per la coreografia di molti adepti di Diaghilev, soprannominato affettuosamente Chinchillà, o anche Frau Cros). In Italia meno attenzione, anche se il profugo russo adorava Roma e Venezia, e a Roma venne a progettare Parade, con l’aiuto dell’odiato-amato Cocteau, con Satie e Picasso: ma la prima, scandalosa, fu a Parigi, così come quella del rivoluzionario Sacre du Printemps (di cui qui si vedono alcuni impressionante bozzetti del misterioso e misteriosofico scenografo-mitologo Roerich). La mostra non è pertanto incentrata solo sulla sua figura di eccentrico e despota affascinante: anche se non mancano alcuni ninnoli e cimeli, e soprattutto alcuni dei suoi ritratti più celebri, come quello di Bakst, con sullo sfondo la sua balia, la babuska (un particolare in copertina, ndr), così russo nelle sue corde profonde, o quello di Serov, che mette in luce la sua mèche biancastra, e un gesto della mano, come di tardivo rammentamento o auto-rimprove-

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Omaggio a

Diaghilev domatore d’artisti di Marco Vallora

arti

ro (e tra altre fotografie, pure il curioso ritratto blu con monococolo, che il suo pupillo Lifar, il «successore», in tutti i sensi, di Nijinskij, dopo che questi era letteralmente impazzito tra i capricci di Chinchillà, gli ha dedicato, in puro stile Warhol). E con la voce di Lifar, in sottofondo, vecchio bambino impreparato alla morte, che con il suo incancellabile accento slavo, e le lagrime ancora impastate tra le parole, racconta la folgorante febbre veneziana di Diaghilev, e la sua dipartita, tra le braccia di Misia e i richiami dei gondolieri, sullo sfondo (com’è noto e com’era suo voto, Diaghilev è sotterrato a Venezia, nel cimitero di San Michele, accanto al suo amato Strawinsky, che preferiva però un’altra Venezia, meno decadente e più rinascimental-polifonica: quella dei fratelli Gabrieli e della bizantina San Marco). Manca ahimé il capitolo dei suoi esordi, anche nel catalogo Skira, quello dell’artista insoddisfatto poi fondatore della rivoluzionaria rivista Il Mondo dell’Arte. Che improvvisamente avrebbe deciso di immolarsi alla musica e di farsi impresario, con idee sovversive e affascinanti e di venire in Occidente, per viaggiare in eterna tournée, per il resto della sua esistenza, e stupire il mondo. Etonne-moi!, s’intitola del resto il volume, richiamando alla memoria la celebre provocazione che l’istrionico charmeur (era tutt’altro che bello, gonfio e bolso, ma proprio come Oscar Wilde possedeva un carisma intrattenibile) rivolse al giovanissimo poeta-polimorfo Cocteau, che certo non attendeva altro che stupire. E indubbiamente fu lui a collaborare al repentino cambio di stile e di marcia di questo genio del rinnovamento, che nel 1909, a Parigi, aveva ancora portato dei balletti ampollosi e vieux jeux, sfarzosi e arabescati, come quelli sontuosi e pur magnifici di Bakst e Benois, di Korovine (il Principe Igor, musiche di Rimski-Korsakov) o di Golovine e Bilibin (il Boris Godunov, musica di Mussosgskij, interpretazione, soggiogante, del basso per antonomasia: Fedor Scialiapin. Di cui in mostra ammiriano gli stivali impressionanti, gli abiti regali, la memoria dei suoi occhi fulminanti). Ma poi ecco la geniale rottura. Con il Picasso cubista di Parade, con Larionov e la Gontcharova, con Braque e Matisse, con De Chirico (in stato di grazia) e i due Delaunay. Insomma, i migliori, così come ci sono, trascinati a forza in avventure coreutiche che mai forse avrebbero tentato, Debussy e Ravel, Strauss e Prokofiev, Poulenc e naturalmente Strawinsky. E la cosa ancora molto, ovviamente, ci stupisce.

Serge Diaghilev et les Ballets Russes, Etonne-moi!, Skira editore, 45,00 euro

autostorie

Dal Messico all’Urss, i mitici viaggi di Lapierre di Paolo Malagodi ra gli scrittori contemporanei di maggior successo e autore di numerosi best-seller, tra cui il celeberrimo La città della gioia, Dominique Lapierre è anche un grande appassionato di automobili. Tanto da aver dato, specie da giovane, ampio spazio a resoconti di avventurosi viaggi su quattroruote. A cominciare da quello che, ancora nel 1951, vide protagonista l’allora ventenne scrittore e un’affascinante redattrice del periodico di moda Harper’s Bazaar, incontrata a NewYork in casa di amici e con lo scoccare di un colpo di fulmine sfociato in matrimonio. I novelli sposi decidono di regalarsi un viaggio di nozze intorno al globo, partendo dalla metropoli americana su una vecchia Dodge decappottabile, con il budget di soli trecento dol-

T

lari e nel proposito di guadagnarsi da vivere strada facendo. Sulle strade del New Jersey inizia un periplo destinato a durare mesi e a piccole tappe viene raggiunta Città del Messico, con ritorno in Texas «da dove speriamo di raggiungere San Francisco, per cercare di imbarcarci alla volta dell’Estremo Oriente. Risalendo la celebre strada panamericana, la nostra guida si fa sempre più prudente; i messicani sono veloci e ogni automobilista pensa: passerò prima di te». Così annota Lapierre nel diario di un viaggio (Luna di miele intorno al mondo, edizioni Il Saggiatore, 312 pagine, 8,00 euro) che, lasciata la fida Dodge, dalla California prosegue alle Hawaii, con passaggi navali di terza classe acquistati lavorando nei grandi magazzini di San Francisco. Ancor più incentrato sull’uso dell’automobile è un itinerario che lo scrittore francese fece

nel 1956, in qualità di reporter per Paris Match e con l’amico giornalista JeanPierre Pedrazzini. Quando i due, in compagnia delle rispettive mogli, riuscirono a compiere un lungo viaggio sulle strade russe, eccezionalmente aperte alla loro auto, dopo un’idea nata nell’inverno 1956 e nell’ipotesi di varcare liberamente la cortina di ferro. Ipotesi subito bloccata dall’ambasciata sovietica di Parigi, con la gelida risposta: «Percorrere la Russia in automobile è impossibile, compagno giornalista, nell’Unione Sovietica non sono autorizzati i viaggi individuali di stranieri». Ma nella primavera di quel 1956, davanti ai delegati del XX congresso del partito comunista, il segretario Nikita Kruscev pronuncerà a Mosca una violenta requisitoria contro il regime stalinista. Dalla redazione del giornale parigino la richiesta viene indirizzata personal-

mente a Kruscev ed è a fine giugno che avviene l’incredibile, con un lungo telegramma che autorizza il viaggio automobilistico attraverso l’Unione Sovietica. In luglio una grossa berlina Simca, di colore giallo e nero, varca così la frontiera polacca in direzione di Minsk e Mosca, per un viaggio di quindicimila chilometri su strade dissestate, guadando torrenti e con l’uso di carburante per trattori, senza la benzina super necessaria al buon funzionamento della vettura francese. Ovunque circondata da folle di russi che ne ammirano la linea e la meccanica, al punto di infilarsi sotto le ruote per esaminarne le sospensioni. Come documentano le foto scattate dall’autore, che arricchiscono un piacevole libro (C’era una volta l’Urss, edizioni Il Saggiatore, 158 pagine, 8,00 euro) scritto con tutta la maestria di un giovanissimo Lapierre.


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17 ottobre 2009 • pagina 15

storia dell’arte

Fenomenologia dell’impronta da Donatello a Duchamp di Guglielmo Bilancioni bitare significa lasciare tracce», come la cavità lasciata dalle perle nell’astuccio, scriveva Walter Benjamin; con Aby Warburg, che seguiva come un «maiale da tartufi» le tracce dell’antico nell’arte, hanno registrato, sensibilissimi sismografi, i sommovimenti della memoria sulle opere umane. Questi due autori sono spiriti guida per il nuovo potente lavoro di Georges Didi-Huberman su La somiglianza per contatto. Il suo orientamento è etno-antropologico ancor prima che archeologico: quel che svela, in

«A

sorprendenti argomentazioni, è un pre-storico «anacronismo dell’impronta». Lasciare il segno colorato della propria mano su una tela, segnare un muro con un graffito, seguire le orme di qualcuno sulla sabbia, osservare come opera d’arte un calco dei denti o il negativo di una fotografia, indossare una maschera, ricomporre i frammenti di un puzzle, applicare decalcomanie come decorazioni, o far sgocciolare la pittura sulla tela: sono atti ancestrali, che intercettano come simboli il punto di incrocio fra forma e significato. Dal Quattrocento al Novecento, da Donatello a Du-

archeologia

champ, è il miracolo della trasmissione che viene studiato qui, assieme al nesso fra feticcio e intenzione, e all’enigma, centro della filosofia dell’arte, della relazione fra potenza e sembianza. L’impronta, dice Didi-Huberman, è «processo e paradigma», fondamento, persistenza sopravvivente, traccia di una traccia, presenza di un’assenza: essa è carica di aura, è sigillo e substrato. Nei suoi incerti contorni si manifestano nientemeno, che «i rapporti fra tecnica e tempo», l’interazione caso e causa, fra Tyke e Tekne. Questo studio illuminante muove alla ricerca dell’origine magica del gesto artistico, coglie il nesso fra matrice e materia e mostra il passaggio fra il rudimentale e lo stampo preformato dell’industria artistica. È una teoria della forma che coglie il fondo originario dell’apparire nello scambio fra «contatto della perdita e perdita di contatto». Viene spiegato, citando Mauss, che «non esiste tecnica né trasmissione se non c’è tradizione». L’aderenza fisica, l’impronta come potere, il procedimento e l’assemblaggio, la

segnatura, monete e medaglie, reliquie e amuleti, texture e ready-made, mortificazione e desiderio: tutto qui converge a quella analogia fra corpo e medium studiata da Hans Belting: le immagini divengono immagini di culto, in una attiva della sincronicità cultura, dove il simile si confronta con l’identico e la plastica diviene divinazione. Diceva Balzac che uno strappo è un accidente e una macchia un vizio. Ma se sull’abito la macchia - ad esempio un colore dipinto - è intenzione, gesto e azione, quel viziomacchia diviene espressione e impressione, informe ma deliberato imprinting dell’agire artistico, alla confluenza di caso e causa, timbro dell’individualità. Pattern e traccia, in architettura pittura e scultura, sono quindi in realtà una cosa sola, e hanno la radice nella con-

venzione del trasmettere; in quei mondi originalità è prossimità all’origine: in essi propizia è la somiglianza.

Georges Didi-Huberman, La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta, Bollati Boringhieri, 400 pagine, 40,00 euro

Quella sinagoga a Magdala dei tempi di Gesù di Rossella Fabiani otrebbe essere una riproduzione del candelabro a sette bracci che si trovava nel Tempio di Gerusalemme il bassorilievo scoperto in questi giorni a Migdal, sulle rive del lago di Tiberiade, nel nord di Israele. Si tratta di una straordinaria scoperta: la riproduzione del candelabro, scolpita su una pietra rettangolare, risale a un periodo compreso tra il 50 a.C. e il 100 d.C. ed è stata trovata nei resti di una sinagoga probabilmente degli anni in cui è vissuto Gesù. Soltanto altri sette tempi della stessa epoca sono stati riportati alla luce nel mondo. L’archeologa israeliana Dina Abshalom-Gorni, responsabile del sito insieme ad Arfan Najar, ipotizza che Gesù abbia predicato proprio in questo luogo, teatro di tanti racconti evangelici. Gli scavi sono stati particolarmente fortunati. Nella stanza centrale, ampia circa 120 metri quadrati, è affiorato il bassorilievo che potrebbe finire dritto nei libri di storia del-

P

l’arte. Sulla pietra è raffigurato un oggetto che sembrerebbe essere proprio il candelabro a sette bracci, in ebraico menorah, che si trovava nel tempio di Gerusalemme. «Lo scultore - dice Abshalom-Gorni - potrebbe essersi verosimilmente recato per ispirarsi a Gerusalemme e lì potrebbe avere visto il candelabro con i propri occhi». Attualmente si conoscono sol-

tanto quattro riproduzioni della menorah. La più celebre è quella che si trova sull’Arco di Tito a Roma, i cui bassorilievi raccontano la repressione della rivolta ebraica del I secolo fino alla distruzione del Tempio, raso al suolo da Tito nel 70 dopo Cristo. Ai lati del candelabro sono raffigurate due anfore, oltre a vari motivi decorativi. Il terreno del ritrovamento sulle rive del lago di Tiberiade appartiene ai Legionari di Cristo. E della stessa congregazione è padre Juan Solana che è responsabile del Centro Pontificio Notre Dame a Gerusalemme. Per il sacerdote grande è l’importanza della scoperta innanzitutto per gli ebrei: «Si tratta veramente di un ritrovamento molto particolare. Questa pietra è unica nel suo genere perché ha diversi segni iconografici che sono stati trovati già in diversi luoghi in Israele, ma è la prima volta che sono tutti insieme». C’è poi un significato e un valore particolare anche per i cri-

stiani, per i cattolici: «Sappiamo che a Cafarnao ci sono le fondamenta di una sinagoga dei tempi di Gesù, su cui poi gli ebrei nel IV-V secolo hanno costruito una nuova sinagoga molto bella e grande. Mi pare che questo sia un caso unico. Per coloro che non lo sanno, Migdal o Magdala è a soli sette chilometri da Cafarnao; quindi, se Gesù si stabilì a Cafarnao per i tre anni del suo ministero pubblico, è chiaro che si sarà trovato più volte a insegnare, a predicare e ad ascoltare la gente di Magdala. Oltre a ciò, penso che la stragrande maggioranza degli abitanti di Magdala - come tutti quelli delle aree circostanti al lago di Tiberiade - prima o dopo hanno incontrato Gesù. Stiamo quindi parlando di una popolazione che è stata sicuramente testimone oculare della vita, del ministero e dei miracoli di Gesù. E possiamo quindi ben ipotizzare che in questa sinagoga si siano incontrati dei fedeli che sono passati dal giudaismo al cristianesimo proprio nei primissimi anni, perché erano discepoli di Gesù, vivevano con lui, conoscevano gli apostoli. C’è poi anche il fatto che Magdala è il paese natale di Maria Maddalena e quindi Maria si recò sicuramente in questa sinagoga per pregare, incontrare la gente e ascoltare gli insegnamenti».


pagina 16 • 17 ottobre 2009

fantasy

MobyDICK

ai confini della realtà

utto si sa, o quasi, di J.R.R.Tolkien narratore, dell’autore di Lo Hobbit e del Signore degli Anelli, mentre il lettore comune praticamente nulla, o quasi, conosce del Tolkien studioso, medievista, linguista, filologo, traduttore, docente a Leeds e Oxford. Addirittura forse nulla, o quasi, gli interessa sapere: per il grande pubblico, specialmente dopo l’universale successo dei film di Peter Jackson (2001-2003), di primaria importanza è l’immaginario tolkieniano, il suo Mondo Secondario, non il professore di letteratura e lingua anglo-sassone che costituisce il retroterra culturale del romanziere, del favolista, diciamo pure del mitologo sui generis.Tutti sono in attesa del film che Guillermo Del Toro trarrà, questa volta in due parti nel 2010-2011, da Lo Hobbit, non certo di approfondire le origini mitologiche e linguistiche della Terra di Mezzo attraverso le sue Ere.

ria originale, per così dire la reinventava secondo il proprio specifico gusto letterario, rendendola comprensibile a noi lettori del XX secolo. Nei secondi fece qualcosa di diverso: reinterpretò (con modifiche rispetto ai testi originari) quelle antiche saghe la cui origine era nell’Edda poetica, nell’Edda di Snorri, nel Nibelungenlied e nella Vlsunga Saga. Non sono, scrive il figlio, «sotto alcun aspetto due semplici traduzioni» e, pur se in inglese moderno ancorché desueto, sono «adattate alla metrica del norreno»: Tolkien fece cioè, si può dire, come James Macpherson con i Canti di Ossian, scritti ispirandosi al materiale celtico che aveva raccolto, ma Tolkien non pensò mai di presentarli come testi originali invece che suoi (a parte che li tenne nel cassetto e non li pubblicò).Vale a dire,Tolkien era tanto penetrato nel mondo del mito nordico, ne era tanto preso che, al di là delle lezioni che teneva all’università, scrisse praticamente per sé delle nuove versioni di due lai che avevano per protagonisti i personaggi classici di quelle leggende, adattandoli però alla sua sensibilità di filologo e di fabulatore, e quindi modificando in certi snodi la storia e qualche aspetto dei caratteri dei personaggi stessi.

T

Eppure, come abbiamo avuto occasione di rilevare presentando Il medioevo e il fantastico (Bompiani, 2003), se non si conosce il Tolkien medievista, filologo e mitologo non si potrà mai capire appieno il Tolkien narratore, il «padre» della Terra di Mezzo. E nemmeno si potrà capire come egli sia passato dall’amore per l’epica nordeuropea al suo personale legendarium, alla creazione - anzi: subcreazione - della Terra di Mezzo, appunto. Ora, grazie all’opera instancabile del figlio terzogenito Christopher, esecutore testamentario del padre, il grande pubblico (e non soltanto gli specialisti, che questi aspetti da tempo si preoccupano di approfondire) sta iniziando a conoscere con sempre maggiori dettagli l’humus da cui è germogliata la «nuova mitologia», come venne definita in un necrologio del Times, che Tolkien ha consegnato non soltanto al suo Paese ma al mondo intero. Il materiale che Christopher Tolkien ha dato alle stampe in oltre tre decenni, a partire dalla versione del Silmarillion (1977), quattro anni dopo la morte del padre, è enorme. Non soltanto sono usciti i ben dodici volumi della History of Middle-earth (1983-1996), ma altro materiale che, come due libri che stanno per uscire, si pone esattamente alle spalle dell’immaginario narrativo di Tolkien. Precisamente di quell’epica, sia basso che alto medievale, che è la vera preparazione dei due capolavori per cui soprattutto è conosciuto. Si tratta della Leggenda di Sigurd e Gudrùn (Bompiani, a giorni in libreria), tradotto da Riccardo Valla, e di Sir Gawain e il Cavaliere Verde (Edizioni Mediterranee), tradotto da Sebastiano Fusco. Il primo è l’ultima fatica di Christopher, ed è stato pubblicato qualche mese fa in Gran Bretagna; il secondo apparve nel 1975, in un volume che riuniva anche altri due testi del medesimo XIII secolo: Perla e Sir Orfeo. Le due opere presentano al pubblico italiano il Tolkien appassionato dei miti e delle leggende nordiche (norrene, germaniche, finlandesi, islandesi) e quindi delle epopee cavalleresche, soprattutto quando era docente di anglo-sassone all’Università di Leeds (1925) dopo essere stato per tre anni lettore di inglese. Già la sua competenza di filologo lo aveva fatto entrare nel 1918, a soli 24 anni, nella redazione del New English Dictionary, ma è la conoscenza con E.V. Gordon

I Nibelunghi secondo Tolkien di Gianfranco de Turris nel 1922 che lo metterà in diretto contatto con l’epica medievale collaborando con il collega alla edizione critica di un classico poco frequentato come il Sir Gawain and the Green Knight che uscirà nel 1925. Ma l’immersione nel mondo di questa epica era tale che Tolkien non si accontentò dell’edizione critica del poema originale, ma ne rea-

il termine che in francese e inglese medievali si riferivano alle «canzoni» o ai «carmi» in genere epici) dedicati a Sigurd e Gudrùn, due dei principali protagonisti di molte famose composizioni poetiche dell’area germanica e scandinava. Ma vi sono delle fondamentali differenze tra l’approccio di Tolkien (e il risultato che ottenne) con

Due nuovi volumi, tra cui un inedito a giorni in libreria (“La leggenda di Sigurd e Gudrùn”), fa conoscere al grande pubblico l’altra faccia dell’autore del “Signore degli Anelli”: quella di medievista, filologo, traduttore e mitologo appassionato, senza la quale non si potrà mai capire la creazione della Terra di Mezzo lizzò una magistrale versione in inglese moderno. Si può dire che Tolkien vivesse perennemente immerso in questo ambiente mentale, fatto di miti e di lingue per tutti «morte» ma per lui vivissime. Al punto di fargli scrivere nella prima metà degli anni Trenta quelli che lui stesso chiamò «nuovi lai» (lay è

il Sir Gawain e il Cavaliere Verde e con il Lai dei Volsunghi e il Lai di Gudrùn, che ora il lettore italiano può controllare direttamente. Nel primo, il nostro autore non soltanto riprese il poema in inglese moderno, ma ne effettuò una versione poetica straordinaria che, senza minimamente deviare dalla sto-

Circa il contenuto Tolkien effettua per così dire un’operazione che per lui non sarà poi nuova: inserirsi concettualmente e immaginativamente nelle pieghe del già esistente, della realtà, per portare un suo contributo originale. E infatti egli, come scrive il figlio, «riteneva che nelle 16 facciate perdute (o rubate) del manoscritto originale dell’Edda poetica» ci fosse il Lai lungo di Sigurd (Long Lay of Sigurd). Sicché, quasi in sostituzione della segnatura mancante nel Codex Regius 2365-4° della Collezione Reale di Copenhagen, egli scrive il suo Lai più lungo di Sigurd (Longest Lay of Sigurd) considerandolo, come dirà trent’anni e più dopo, nel 1968, «un tentativo di organizzare la materia dell’Edda che tratta di Sigurd e Gudrùn». E per saper e voler (ri)scrivere di certi temi con tanta efficacia e tanta immedesimazione, ma allo stesso tempo anche tanta originalità, ci voleva soltanto un «pagano convertito» (come Tolkien definì se stesso nel saggio Inglese e gallese, una conferenza che tenne nel 1955, subito dopo l’uscita del Ritorno del Re, l’ultima parte del Signore degli Anelli). Cioè - si deve intendere - un cattolico (romano) che non aveva affatto dimenticato le proprie radici pagane delle quali non provava certo vergogna, e che nella Realtà Secondaria dei suoi capolavori aveva voluto recuperare i valori di quel mondo ormai irrimediabilmente perduto delle origini, con tutti i suoi eroismi e con tutti i sui lati negativi, per non lasciarlo abbandonato all’oblio della storia e degli uomini, proprio come aveva fatto mille anni prima l’anonimo autore del suo amato Beowulf.


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