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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

A SCUOLA DA SCERBANENCO Revisionismi letterari

di Pier Mario Fasanotti ettiamo che uno scriva tanti libri con un linguaggio semplice e senza batoio formidabile di storie e personaggi, ma «un collezionista di persone» visto alcun contorcimento letterario, che esca dal genere poliziesco per che ne afferrava così bene le paure, i disagi, i pudori, le sofferenze, le speranIeri era entrare in quello noir e viceversa, con una disinvoltura da laze e le piccole gioie. Lui, infaticabilmente e con una eccezionale gioia catalogato sciare allibiti, che usi tanti pseudonimi, magari per stonello stare davanti a una Olivetti 22, capiva il mondo e lo descriverie strappalacrime, che tenga una rubrica in un periodico va. Parliamo di Giorgio Scerbanenco, morto nel 1969. Per fortra gli scrittori di serie B, tuna editori come Sellerio e Garzanti rilanciano i suoi lifemminile. Ecco, mettiamo tutto questo a grandi linee. oggi è il padre riconosciuto del noir bri. E tutti o quasi a dire che era una specie di genio. Le conseguenze, almeno in Italia, sono evidenti e Addirittura era «il Simenon italiano». Lasciacollaudate: lo scrittore, anche se vende tante italiano. Sapeva andare dritto nell’anima mo da parte le polemiche contro le lacrime da copie (o forse anche per questo) viene catalogadell’uomo e di sicuro ha aperto la strada coccodrillo, i facili revisionismi letterari. È un fatto into nella serie B della narrativa, la critica paludata lo a decine di autori. Sellerio contestabile che Giorgio Scerbanenco ha indicato e aperto snobba, non vince alcun premio letterario. Poi, decenni dopo, lo riscoprono e critici dalla penna raffinata e snob dicono la strada a decine di scrittori italiani, che a lui dovrebbero rivole Garzanti rilanciano che sì, effettivamente lui era il padre del noir italiano, che la sua semgersi con un inchino di riconoscenza, almeno quello. i suoi libri... plicità stilistica non era sciatteria bensì un dono raro, che sapeva nei suoi continua a pagina 2 scritti andare dritto nell’anima dell’uomo. E più ancora: era non tanto un ser-

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Contraddizione di Sergio Valzania Rock duro e ubiquità riecco Jack White di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Jules Laforgue autobiografia di un Pierrot di Francesco Napoli

Billie Holiday cinquant’anni dopo di Adriano Mazzoletti Ha stile il thriller made in Italy di Anselma Dell’Olio

Più vero del vero… Berengo Gardin di Marco Vallora


a scuola da

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scerbanenco

segue dalla prima L’editore Sellerio ha ripubblicato otto suoi romanzi, tre dei quali hanno come protagonista l’ispettore Arthur Jelling. Questi è un archivista (settore crimini) della Polizia di Boston, ha 40 anni, è schivo, timido, propenso al rossore, dotato di eccezionali capacità deduttive e investigative. Ha moglie e un figlio. La sua vita è regolarissima: dopo il lavoro, tra le scartoffie dell’Archivio criminale, torna a casa, «legge il giornale mangiando, legge un libro a letto» e la mattina riprende la sua intensa attività cerebrale, ma sempre nei panni di «un qualunque impiegato, come il più oscuro degli impiegati». È restio a fare due passi in città, a prendersi delle vacanze. Al suo capo, il capitano Sunder, confessa di non aver mai visto Nuova York. Erano i tempi (anni Quaranta) in cui la Grande Mela si scriveva per metà in italiano. Anche perché con una delle storie di Jelling, Scerbanenco esordì nella collana dei «Gialli Mondadori» nel 1941 con Sei giorni di preavviso (oggi riproposto da Sellerio). Si italianizzava tutto: il maggiordomo John diventava Giovanni e così via.Tuttavia lo scenario e il nome del detective dovevano essere stranieri: non si doveva dare l’impressione che assassinii, ricatti e strangolamenti potessero avvenire nell’Italia moralmente bonificata dal Fascismo. È in America o in Inghilterra che si ammazzano le persone: questa la velina letteraria del Duce e della sua corte politica. E questo meccanismo censorio strangolò sul nascere la capacità italiana di affrontare, magari con prosa alla Gadda o quasi, i temi criminali.

Scerbanenco scrisse una novantina di romanzi e migliaia di racconti. Pare che sua figlia Cecilia conservi parecchi inediti, o comunque faccia gentile guardia a un baule zeppo di appunti del padre. Un padre che era «una formidabile macchina della scrittura», come ebbe a dire Oreste del Buono, ma anche un personaggio. Alto un metro e novanta, magrissimo, sempre molto educato, aveva molti amici. Fece carriera in fretta nel mondo dell’editoria, restando sempre nei giornali femminili. Era nato nel 1911 a Kiev e realmente si chiamava Wladimir Giorgio Scerbanenko. Per metà nobile: suo padre Valerian, era docente universitario e proprietario terriero, ucciso poi dal bolscevichi: sua madre, Leda Giulivi, era una nobildonna romana di grande fascino e bellezza. Giorgio e la mamma raggiungono Roma nel 1929, poi lei decide di trasferirsi a Milano, città in cui ci sono più occasioni lavorative. Un ufficiale medico, alla visita di leva, gli dice in romanesco: «A te te riformamo, sei fortunato a esse così secco». Giorgio fa mille lavori: tornitore, magazziniere, lettighiere della Croce Rossa. Come ricorda la figlia, non aveva finito nemmeno le elementari, ma di notte studiava e leggeva di tutto. Entrato per quasi un caso nel giornalismo, cominciò dal «basso», ossia come correttore di bozze. Sulla

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

Un’immagine di Milano che ricorda l’atmosfera dei romanzi di Giorgio Scerbanenco. Sotto, le copertine di alcuni suoi libri

rivista Piccola riuscì a pubblicare la sua prima novella. Da allora la scalata. E lui si tolse un bel po’ di soddisfazioni. La leggenda fece il resto: pare che negli ultimi anni arrivasse al lavoro in Rolls Royce con autista, dalla quale scendeva sorridente, con un gran cappello a falde larghe. In realtà l’auto del «principe russo» era una Mercedes. Con decine e decine di libri supervenduti e premiato in Francia con il «Grand Prix de la littérature policiére», ebbe lo sfizio di alloggiare in lussuosi alberghi e cenare al costosissimo Biffi di Milano. Quella città era ormai sua e lì ambientava molto delle sue storie, dove s’intrecciavano il miracolo economico con l’emarginazione di molti, la malavita feroce e i disgraziati malavitosi destinati al fallimento. Sempre secondo la figlia, di Milano Scerbanenco non poteva fare a meno: «Credo che questa città per mio padre abbia rappresentato quello che la Toscana è stata per i geni del Rinascimento: ha permesso alla sua scrittura di crescere. Da qui nascono i suoi capolavori». Ma per Milano nutriva amore e odio. All’inizio, lui esule ucraino, gli sembrava fredda, ostile, difficile a farsi capire. Poi costruì qui il suo nido, confortato da amici come Montanelli, Cederna, i Rizzoli, Montale. Negli anni Sessanta trovò un giusto equilibrio tra il proprio carattere e l’ambiente dove lavorava. Dei lombardi apprezzava la tensione verso il lavoro, ma detestava l’eccesso e l’ostentazione. Una città di provincia e già quasi metropoli. Così diceva. Per spiegare il nucleo intenzionale della sua scrittura, conviene ricordare ancora l’ispettore Jelling. Il quale, nel romanzo La bambola cieca (Sellerio), viene tratteggiato nella solitudine dell’Archivio criminale. «Guardava attraverso i vetri il cielo bianco roseo, mattinale» e, con una certa malinconia, si pone una domanda fondamentale. Sì, proprio quella che si rivolgono, o dovrebbero rivolgersi, gli autori di romanzi: «Chissà che cosa c’è nel cuore degli uomini. Di fuori sembrano una cosa, e di dentro, Dio solo lo sa che cosa sono». La «striscia di sole grigio» che entra dalla finestra lo sorprende così, col fiato tiepido a lenire il freddo delle dita. L’importante, come si può leggere in Non rimanere soli (Garzanti), è guardare gli altri, evitare l’isolamento esistenziale. Scerbanenco lo disse a

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

chiare lettere in un breve scritto: «Il nostro mondo è questo: gli altri. Noi possiamo amarci, o sprezzarci, o essere indifferenti, ma dobbiamo stare insieme». Fino all’ultimo, «perché quando si muore lontano da chi si ama è vera morte».

Dei suoi racconti abbiamo accennato. Ce ne sono migliaia, molti dei quali brevissimi, scritti per giornali e riviste. Qualcuno gli rimproverava di sprecare la sua invenzione letteraria costringendola in due fogli al massimo, una storia che magari poteva diventare qualcosa di più. E lui rispondeva tranquillamente che la sua fonte non era mai secca. E aggiungeva: «Faccio fatica a scrivere solo quattro racconti su un tema, perché me ne vengono in mente dieci, trenta, e devo eliminarli». In tempi, come quelli di oggi, in cui spesso scarseggiano spunti narrativi per la televisione, mi domando (e non sono il solo, ovviamente) perché in Rai o in Mediaset non aprano, per esempio, il recentissimo volume di racconti pubblicato da Garzanti, Il Centodelitti (415 pagine a caratteri minuscoli). È una miniera. Non solo di fatti criminali, ma anche di situazioni profondamente umane, fatte di silenzio, di esitazione, di solitudine.Ad aprire la raccolta c’è il racconto L’agonizzatoio.Titolo un po’ strano, sicuramente bruttino, ma quel che c’è dentro ha una grande forza di suggestione. È la storia di un quasi novantenne, ricco, elegante, metodico, detestato dall’infermiera e dall’autista. Una mattina d’estate si fa portare sul lungomare di Fregene. Medita sul suo passato in un punto particolare del litoraneo, poi decide di andare a costituirsi dai carabinieri. A uno stralunato ma gentile appuntato racconta che nel 1901, quando la pineta non faceva presagire lo scempio del distributore di benzina e gli ombrelloni «con donne quasi nude», uccise una ragazza, Beneditta. Era colpevole di concedersi a lui per avere l’occasione di rubare documenti politici riservatissimi. Era una spia asburgica, dice al carabiniere, l’ho massacrata con un’accetta. L’interlocutore gli fa presente che dopo trent’anni il delitto va in prescrizione. Ma lui, l’elegante commendatore con tanto di bastone inglese guanti di vitello scamosciato, considerato «un pagliaccio» dalla servitù «e dalla gente cafona», non s’arrende. Non riveliamo il finale. Nei Racconti neri (sempre Garzanti) c’è una storia che fa ricordare il miglior Simenon. Una donna fiorentina vive da anni a Parigi, al 28 dei Champs Elysées, in una modesta chambre avec salle de bain. Lavora in un piccolo studio commerciale dove vende all’ingrosso scarpe fatte in Toscana. È brutta, insignificante, senza parenti, con segrete palpitazioni sessuali, isolata comunque dal mondo.Verrà uccisa in modo strano: le fanno avere un mazzo di rose, lei afferra il biglietto di accompagnamento e fa scattare il napalm.Tutto è bruciato nell’esplosione, anche i pacati e sofferenti sogni di una donna sola, solissima. Un buon regista farebbe un ottimo film.

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parola chiave

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CONTRADDIZIONE ispiace cadere in contraddizione. Forse ancora di più essere scoperti in contraddizione, mentre sosteniamo con incerta consapevolezza tesi opposte, inconciliabili. La ragione aristotelica ci dice che se a è diverso da b non si può dare a=b. La solarità, l’immediatezza, di questo sillogismo non si concilia però con la nostra esperienza. La più tranquilla delle quotidianità trascorre da una contraddizione alla successiva, l’identità razionale non rappresenta la regola, piuttosto l’eccezione. Quando suona la sveglia sul comodino vorremmo spegnerla, liberarci di quel rumore fastidioso, girarci nel letto e continuare nel sonno, all’inseguimento del sogno confortante che stavamo vivendo. Eppure ci alziamo lo stesso e poi andiamo al lavoro, a scuola o a un’altra occupazione che non rappresenta quello che più ci piacerebbe fare. Volontà, desiderio, timore delle conseguenze e senso del dovere si scontrano e si mescolano. La situazione esistenziale è descritta alla perfezione da San Paolo nella lettera ai Romani (7,15): «Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto». Ma non è solo l’etica a metterci in imbarazzo di fronte a noi stessi. La nostra affettività è fatta di contrasti, di emozioni inconciliabili e divergenti. Nel migliore dei casi di incomprensioni. Chi non ha vissuto un amore sfortunato? Quale rapporto familiare sfugge alla dialettica del «gli voglio bene ma…»?

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La nostra vita di relazione pulsa dello sforzo continuo di accogliere le contraddizioni, assorbirle e, quando ne siamo capaci, risolverle in un progetto positivo. L’esperienza dei coniugi che trascorrono insieme l’esistenza, quelle che si chiamano coppie felici, si fonda sulla capacità di sciogliere i contrasti, di accettare l’altro in vista di una prospettiva comune, in un incontro che deve sempre rinnovarsi. Neppure le nostre basi identitarie sono indiscutibili, certe, granitiche. Nella sua forma sia individuale che sociale, il nostro passato, che ci definisce per quelli che siamo oggi, subisce un continuo processo di rielaborazione. La memoria è un’attività creativa. Lo scopriamo ogni volta che confrontiamo i nostri ricordi con quelli di testimoni affidabili di eventi vissuti in comune. Alla base di molti litigi e incomprensioni sta spesso una diversa lettura di accadimenti comuni. Persino il significato delle parole può assumere contorni diversi, uno sguardo viene a volte interpretato in maniere opposte. Nella memoria delle comunità il fenomeno si espande. La storia, memoria collettiva e di necessità unificante, non è conoscibile direttamente, può solo essere ricostruita sulla base di fonti parziali e lacunose. Le ricostruzioni possibili sono per-

Volontà, desiderio, senso del dovere, timore delle conseguenze. La nostra vita quotidiana trascorre tra contrasti e antinomie. Ci è difficile accettare il semplice dato di non possedere mai tutta la ragione e di portare dentro di noi una parte di torto…

La condizione imperfetta di Sergio Valzania

Tutto inizia dal peccato originale, dalla perdita del Paradiso Terrestre da parte di Adamo ed Eva. La nostra difficoltà ad accettare la contraddizione come regola del mondo dovrebbe aiutarci a meditare sui nostri limiti e a comprendere quel “Non ci indurre in tentazione” del Padre Nostro, così difficile da interpretare ciò molteplici, a volte contrastanti, e al loro interno rimangono aperte le ferite più dolorose. La guerra è la massima contraddizione nell’esperienza delle società umane, lì viene negato quello che è il valore primario per eccellenza, la vita umana stessa. I pazzi uccidono per cattiveria, per il piacere della morte altrui. Tutti gli altri, che sono la stragrande maggioranza di coloro che seguono la maledizione di Caino, trovano una giustificazione al loro agire, un motivo superiore per macchiarsi del sangue di un fratello. Se non altro la legittima difesa, all’interno di una situa-

zione che non si è scelta. «Sparagli Piero, sparagli adesso» canta De Andrè, «l’altro si volta, ti vede, ha paura». L’incontro, lo scontro, di due ragioni e di due miserie si risolve in tragedia. Quando scoppia una guerra si fronteggiano due ragioni, in ciascuna delle quali c’è una parte di verità e una di errore. La memoria storica scava in queste contraddizioni quando si sforza di individuare i motivi di un conflitto, per scoprire che la causa scatenante di ognuno di questi massacri sta nell’incapacità di risolvere una differenza di interpretazione dei fat-

ti, la pretesa di imporre all’altro la propria visione della realtà nella sua interezza. Si continua a indagare nel passato, a ricercare documenti, a fornire nuove interpretazioni anche perché ci sembra impossibile che gli uomini abbiano in sé un’incapacità così radicale di accogliere una dimensione, quella della contraddizione, nella quale pure sono immersi. Di accettare il semplice dato di non possedere, mai, tutta la ragione e di portare dentro una parte del torto. Dice un proverbio cinese: «Se qualcuno ti dice di avere il 60% di ragione, ascoltalo, se pretende di averne l’80%, diffida, se assicura di essere nel giusto al 100% sappi che è un bugiardo».

Una delle soluzioni proposte a questa condizione consiste nel rifiutarne la realtà, o almeno nel relegarne la problematicità all’ambito della nostra percezione. Le contraddizioni non esistono di per sé, siamo noi uomini, in questa fase del nostro percorso di scoperta delle leggi fisiche che regolano il mondo, a viverle come tali. In questo contesto anche gli affetti o l’estetica sono ambiti che aspettano di essere compresi attraverso approfondimenti neurobiologici. Esiste però un percorso diverso per assumere consapevolezza di quello che rappresenta il dramma, e insieme la misteriosa ricchezza, della natura umana. Esso passa attraverso le Scritture, il racconto della perdita del Paradiso Terrestre da parte di Adamo ed Eva, nell’ambito che la teologia ha definito come quello del peccato originale. La nostra sensibilità di moderni non ama contemplare il mistero del peccato originale. Ogni volta che la liturgia e le Scritture ci invitano a riconoscerci come peccatori abbiamo un sussulto, un senso di rifiuto. Il sacramento della Penitenza, la Confessione, viene vissuto in modo problematico e la sua pratica si va riducendo, di contro a un incremento della frequenza all’Eucarestia. L’evidenza della contraddizione, come esperienza quotidiana, la nostra difficoltà ad accettarla in quanto regola del mondo dovrebbe aiutarci a meditare sul nostro essere peccatori e anche a comprendere il senso della chiusa del Padre Nostro, quel «Non ci indurre in tentazione» così difficile da interpretare e che spesso ripetiamo meccanicamente. Nei molti significati che la frase contiene c’è anche il doloroso riconoscimento di una condizione imperfetta, di una privazione e di una lontananza. Del fatto che ci dibattiamo nelle contraddizioni. Nel Vangelo il tema ricorre spesso, in forme diverse, avvertendo che la vita di ogni uomo è un cammino di scoperta, basato sull’accettazione di sé e sulla necessità di scoprire un rapporto positivo con Dio, che ci chiama alla visione del Suo Volto e ci aiuta nel percorso. In Matteo 12,28 Gesù avverte con tenerezza «Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero».


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cd

Rock duro e ubiquità D riecco Jack White (con i Dead Weather)

musica

di Stefano Bianchi

ai White Stripes ai Raconteurs. E dai Raconteurs ai Dead Weather. Ci gode un sacco a infilarsi dentro vite parallele, da quando la rivista Rolling Stone l’ha promosso diciassettesimo fra i cento migliori plettri d’ogni tempo. John Anthony Gillis, trentaquattro anni, in arte Jack White, di giorno incollava carte da parati e nottetempo suonava parttime per vari gruppi in quel di Detroit. Poi, un bel dì, da fiero «revanchista» del blues e del rock & roll organizza un pas de deux con Meg White. Sembrano fratello e sorella, da quanto si somigliano: in realtà, sono stati marito e moglie. Lui suona la chitarra e canta, lei ci dà dentro con la batteria. Dal 1999 al 2007, la band che più scheletrica non si potrebbe mette in fila sei dischi di cui la metà fondamentali: White Blood Cells, Elephant e Get Behind Me, Satan. Ed è Elephant che sprigiona il riff chitarristico di Seven Nation Army, sfruttato a mo’ di «poo-po-po-po-po-poo-po» dai tifosi della Nazionale di calcio italiana ai Mondiali 2006 in Germania. Jack White, però, non si siede sugli allori. Il bluesman col cervello da punk smania, (ri)brucia le tappe, non sta mai fermo: vola a Nashville per collaborare al disco country di Loretta Lynn, raggiunge Bob Dylan sul palco per intonare One More Cup Of Coffee e davanti alla cinepresa di Martin Scorsese canta Loving Cup coi Rolling Stones.Tutti lo cercano, tutti lo vogliono, e lui spiazza Meg in piena apoteosi White Stripes per formare col cantautore Brendan Benson i Raconteurs, ideuzza niente male di un blues che va a braccetto col power pop. Nel 2006 pubblicano Broken Boy Soldiers, ma c’è Meg che sbuffa e allora vai con Icky Thump (2007) e poi di nuovo Raconteurs, l’anno scorso, con Consolers Of The Lonely. E trova anche il tempo, l’ubiquo Jack, di duettare con Alicia Keys in Another Way To Die per compiacere il James Bond di Quantum Of Solace. Chiunque ci avrebbe perso la testa, in un vai-e-vieni così. Lui no. E infat-

in libreria

VOLA ALTO IL MITO DEGLI ZEPPELIN

mondo

UN CULT MOVIE PER I RAMONES

ti, l’ennesima vita parallela di Mr.White (dopo un’altra parentesi: la partecipazione con Jimmy Page ex Led Zeppelin e The Edge degli U2 al film-documentario It Might Get Louder, sull’universochitarra) si chiama Dead Weather, supergruppo con Jack seduto alla batteria che canta in un paio d’occasioni e in tutto il resto fa cantare la bravissima Alison Mosshart dei Kills. Alla chitarra c’è Dean Fertita (che nei Queens of The Stone Age, di solito, suona le tastiere) e al basso Jack Lawrence dei Raconteurs. Un bel rompicapo, non c’è che dire. Libero di mettere radici dove più gli pare e piace come recita il titolo del cd, Horehound, che da noi è il marrubio, pianta selvatica dalle proprietà ansiolitiche. Qui di selvatico c’è il blues (più che mai dogma di Jack White), che s’avvinghia al rock psichedelico con garanzia d’assolo alla Jimi Hendrix (60 Feet Tall) e poi si mette ad ancheggiare a due voci pensando a Keith Richards (Will There Be Enough Water?). E dopo un reggae ispido (I Cut Like A Buffalo) ma addolcito da un organetto dal sapore Sixties, nonché lo strumentale Three Birds che snocciola un’elettricità «rétro» da film spionistico, piovono chili di rock: duro, dalle sgomitate «ledzeppeliniane» (Hang You From The Heavens e Treat Me Like Your Mother); urticante (Bone House); visionario (No Hassle Night); feroce come la splendida rilettura di New Pony, frutto del Bob Dylan racchiuso nell’album Street Legal del ’78. Jack White se la spassa. Ma i White Stripes esistono ancora? Meg aspetta e spera. Forse. The Dead Weather, Horehound, Third Man/Sony Music, 20,60 euro

riviste

GREATEST HITS DEGLI ANNI ZERO

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l Polar Music Prize del 2006 è assegnato al gruppo britannico dei Led Zeppelin, uno dei più grandi pionieri del rock. La loro musica giocosa e sperimentale si combina con elementi altamente eclettici e ha due temi essenziali: misticismo ed energia primordiale. Queste sono le caratteristiche che hanno indotto a definire il genere hard rock». I giudici del Polar Mu-

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uando iniziò ad avere successo la musica alternativa, fu la nostra ultima opportunità per vendere. C’erano tutti questi gruppi, dai Nirvana ai Soundgarden che ci citavano di continuo: “Sì, i Ramones, i Ramones”, ma noi continuavamo a non vendere. Credo che sia stato a quel punto che ci dicemmo “siamo finiti”». C.J Ramone spiegò così i motivi che por-

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Jon Bream documenta la storia di Page e soci in un volume ricco di foto e testimonianze doc

La biografia della storica rock band scritta da Mickey Leigh approderà presto al cinema

Per ”Uncut” e ”Pitchfork” sono di Radiohead e White Stripes i migliori album del 2000

sic motivarono così l’assegnazione dell’ambito riconoscimento a Jimmy Page e Robert Plant, straordinari protagonisti di una band entrata nella leggenda. Jon Bream ne fotografa la storia in un bel volume illustrato, intitolato Whole Lotta Led Zeppelin (Rizzoli, 288 pagine, 49,00 euro). Aneddoti, testimonianze, interviste, fotografie, riproduzioni di copertine, locandine, biglietti, magliette, spille, memorabilia assortiti e inoltre gli apporti delle più importanti firme del giornalismo musicale e di celebri protagonisti della scena rock. Una lunga cavalcata nel mito, che dai primi concerti del 1968 a oggi, testimonia un successo senza fine.

tarono a quel 6 agosto 1996 che vide la mitica band americana esibirsi per l’ultima volta al Palace di Los Angeles. Una storia avvincente e tribolata, quella dei Ramones, di recente raccontata da Mickey Leigh, fratello di Joey Ramone, in un bel libro intitolato I slept with Joey Ramone. In uscita a dicembre, il lavoro pubblicato da Fireside Books non è però l’unica novità a riguardo di Johnny, Tommy e Dee Dee. Pare infatti che la Fox Searchlight, sia molto vicina a opzionare i diritti cinematografici della storia dei Ramones.

posizioni. Trionfatori d’America, i Radiohead di Kid-A, solo venticinquesimi in Inghilterra. Londra incorona a sua volta vincitori i White Stripes con White Blood Cells. E poi a seguire Bob Dylan (Love & Theft, Wilco (A ghost is born), Brian Wilson (Smile) e The Strokes (Is this it). Per i lettori di Pitchfork, il secondo posto è degli Arcade Fire (Funeral), il terzo dei Daft Punk (Discovery), il quarto dei Wilco (Yankee hotel foxtrot) e il quinto di Jay-z (The blue print). Nella hit americana sono poi da segnalare nei primi cento anche Sigur Ròs e Sufjan Stevens. Nella top inglese di Uncut, da tenere d’occhio Ryan Adams e LCD Soundsystem.

a cura di Francesco Lo Dico

a prima decade del 2000 si approssima alla fine, e in molte testate musicali internazionali cresce la febbre della top 100 di questi «anni Zero». È il caso del mensile britannico Uncut, che, come racconta extramusicmagazine, mette in fila i migliori album degli ultimi dieci anni. E del magazine americano online Pitchfork, che stila una graduatoria con ben 200


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zapping

Cantautori e opere omnie: IL TFR DELL’IMMAGINARIO di Bruno Giurato iviamo schiaffeggiati a destra e a manca da opere omnie. L’ultima è marchiata Rizzoli. I lettori del Corrierone potranno acquistare quattordici album di Francesco De Gregori in vendita a «un prezzo di favore», 10,90 euri, con in più un librino di 40 pagine a ogni uscita. È un’occasione per ripensare alla figura del cantautore. Figlio dell’esistenzialismo, nipotello dei liederisti tedeschi, qualche volta profeta armato (di chitarra) di una qualche rivoluzione, il cantautore spesso si fa un punto d’onore di suonare male. Perché se sapesse suonare bene l’abilità strumentale distoglierebbe l’ascoltatore dal contenuto (Bob Dylan non fa testo perché riesce a far passare sottotraccia il suo genio chitarristico). Il cantautore ha spesso a che fare con la musica popolare, ma da intellettuale la preferisce lontana, geograficamente, (country, western, il blues in genere no, è troppo difficile) o storicamente (Medioevo, Rinascimento). Una nostalgia di musica popolare ravviva i sogni del cantautore. Il cantautore per qualche decennio ha fatto la musica italiana. Guccini, Edo Bennato, il disimpegnato Baglioni, il virtuoso Dalla, il freakettone Zero, Branduardi, hanno suonato dappertutto. Hanno chiesto e ottenuto cachet clamorosi, anche quattrocento milioni di lire a concerto. E adesso? Adesso siamo agli ultimi nuovi dischi, registrati ognuno col suo abituale giro di musicisti da studio. E poi alle opere omnie, che magari per uno scrittore sono la consacrazione, ma per i dischi, visto come tirano i tempi, sanno di indennità di fine rapporto, di Tfr dell’immaginario musicale. Resta una consolazione però: ormai con una ventina di migliaia di euri e anche meno si può invitare un cantautore medio a suonare alla festa del santo patrono. Insomma, la morale sul cantautore è che il santo patrono non si dimentica.

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classica

Un “Orfeo” degno della Scala di Jacopo Pellegrini

antica, desueta formula, volentieri adoprata da Eugenio Montale nelle sue cronache musicali, vorrà per una volta essere rispolverata: uno spettacolo «degno della Scala» L’Orfeo di Monteverdi. A dirla tutta, dopo il prodigioso (tenore a parte) Tristano e Isotta di Wagner con Barenboim sul podio e Chéreau regista, il secondo dell’era Lissner (parlo, ovviamente, di ciò che ho visto). L’esito felice dell’operazione tanto più meraviglia il sottoscritto, quanto meno egli è incline ad ammirare le imprese recanti in calce la firma di Robert Wilson. Il suo geometrizzare pallido e asciutto, la sua astratta incorporea eleganza, buona per tutti gli usi (da Shakespeare e Bach a Glass e alla Sontag), sembrano fatti apposta per irritare e tediare chi abbia un’idea del teatro, di quello occidentale almeno, come «processo» (sentimenti e azioni in moto verso un esito definito), e non come pura stasi contemplativa. Cionondimeno, come già ha rilevato Enrico Girardi sul Corriere della sera, la «maniera» di Wilson s’addice alla natura allegorica (più che simbolica) della «favola pastorale» di Striggio-Monteverdi, primo e precoce esempio di opera in musica artisticamente compiuta (1607). Tutto l’immenso dolore di Orfeo all’annuncio, per bocca della Messaggera (una superba Sara Mingardo), che Euridice è spirata, si rapprende in un «ohimè», straziante proprio perché concentrato in due sole note contigue, una discesa appena accennata, ma dissonante. Un braccio del cantore tracio che si piega lentamente verso l’alto - il tipico gesto da vigile urbano, tanto caro al teatrante americano -, la mano che si accosta al volto, sono il correlativo visuale, intensissimo nel suo riserbo, di quel minimo inciso sonoro. Un altro «ohimè», un altro salto all’in giù, più divaricato stavolta, è nel IV Atto, poco avanti il secondo, definitivo decesso della donna, da Wilson concepito come un viraggio dalla luce al buio: il corpo di Euridice (la sempre inappuntabile Roberta Invernizzi) si muta in una silhouette, «torna a l’ombre di morte». In tutto «degni della Scala» gli effetti luministici calcolati al millesimo (lo svariare dei blu nei primi due atti, la mutevole oscurità degli inferi, vigilati dal buon Caronte di De Donato) e i movimenti coreografici dei mimi-animali sincronizzati sulla musica (merito del collaboratore alla regia, Giuseppe Frigeni); meno precipue, la scena all’inizio del IV Atto tra Proserpina (Raffaella Milane-

L’

si, brava) e Plutone (Parodi, meno), e l’apparizione di Apollo, così «pedestre» in quel suo incedere per la scena quasi andasse a spasso (Furio Zanasi, in altre occasioni apprezzato Orfeo, un po’ imbolsito nel fisico e nella voce). Rinaldo Alessandrini dopo aver approntato l’edizione critica della partitura, le ha assicurato un’encomiabile efficacia sonora, coordinando le forze del suo ensemble Concerto italiano (basso continuo con strumenti d’epoca in fossa e, sul palco, l’ottimo coro madrigalistico) e di qualche strumentista scaligero. Suono ottimo e consistente, tempi logici e teatrali, perfetta individuazione dei diversi stili che innervano la musica (gli interventi pastorali dell’Atto I si davano finalmente a riconoscere - nella loro matrice pseudopopolare, desunta da villanelle e canzonette cinquecentesche - quali

parenti stretti degli Scherzi musicali, stampati nello stesso 1607). Infine, il risalto della parola a fini espressivi: Monteverdi nell’Orfeo introduce varie forme strofiche, dalle quali un giorno scaturirà l’aria, ma soprattutto esplora in lungo e in largo il rapporto verso-musica, non temendo alle volte di contraddire il senso logico della frase per accentuare l’intensità emotiva e l’introspezione psicologica del momento teatrale. L’aver imposto questo scrupolo analitico sul testo ai suoi interpreti, e in particolare al protagonista Georg Nigl (estraneo al repertorio barocco e con vari problemi d’intonazione, però coinvolto e coinvolgente), è stata di Alessandrini la massima virtù.

danza

Elogio della diversità da Lucrezio a Maguy Marin di Diana Del Monte errara ha aperto la sua stagione teatrale con May B, la creazione che nel 1981 ha portato la coreografa francese Maguy Marin all’attenzione internazionale. Questa sera, nel suo secondo appuntamento con la platea ferrarese, l’artista presenta in prima nazionale Turba, spettacolo creato nel 2007 per il «Festival de danse de Cannes». Maguy Marin torna, dunque, sulle scene italiane dopo l’ultima chiacchieratissima creazione, Description d’un combat, presentata lo scorso luglio a «Bolzano Danza». La platea, in quell’occasione, si era divisa tra applausi e fischi, con clamorose defezioni da parte degli spettatori che, abbandonando la sala, chiedevano a gran voce «ma la danza dov’è?». Con la Marin, un’artista che

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non è, o meglio, non è più solo coreografa o solo regista, si ripropone il vecchio dilemma su cosa sia danza e cosa sia teatro, già esploso di fronte alle prime creazioni della compianta Bausch. Da parte nostra rispondiamo a questa domanda affidandoci a un maestro del teatro del Novecento, Georg Fuchs: «L’arte drammatica è per sua natura danza, cioè movimento ritmico del corpo nello spazio». Era il 1909. In Turba, diciamolo subito, di danza non ce n’è, almeno se ci proponia-

mo di vedere delle coreografie tradizionalmente intese, ma c’è qualcosa di molto più importante per la danza: il ritmo. La parola si sotituisce alla danza e la danza si traveste da parola mentre sul palco sfilano i danzatori che recitano De Rerum Natura di Lucrezio in francese, inglese, italiano, tedesco, spagnolo e portoghese. La Marin costruisce, così, una performance dalla struttura forte e coerente in cui la parola recitata viene utilizzata dalla coreo-regista proprio per approndire il concetto di ritmo. Figlia francese di rifugiati spagnoli antifranchisti, già pupilla di Bejart, la coreografa cinquantottenne sostiene che la danza non può moralmente prescindere dalla vita normale, dove non tutti sono alti, belli e felici. La danza deve occuparsi delle brutture del mondo e, per questo, da sempre la sua danza si misura con il sociale e con il politico. Da nove

anni si è trasferita con la sua compagnia in un quartiere deprivato multietnico della periferia di Lione dove gli abitanti, probabilmente, avrebbero preferito una serie di case popolari al nuovo edificio per il centro culturale. Nonostante ciò, quella che è stata definita la Bausch francese, è riuscita a conquistarsi l’appoggio dei residenti e, insieme ai suoi nove fedelissimi danzatori, ha continuato a sperimentare. Turba è il risultato di questa immersione nella diversità e, come afferma la Marin stessa «rappresenta la moltitudine, la popolazione illustre, la confusione e il tumulto. La diversità delle specie, la diversità degli individui, la diversità delle parti che compongono gli individui». E ancora: «L’opera di Lucrezio ci ricorda che la natura è una summa di elementi che non si possono semplicemente addizionare per ottenere il tutto». Turba, ovvero l’opera di Lucrezio come sostegno per «affermare che nella molteplicità e nella diversità c’è la sorgente della gioia».


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narrativa

l titolo di questo romanzo di Philippe Forest, uno dei più raffinati e noti scrittori francesi, è un verso di Rimbaud. Proprio per l’aggettivo «nuovo», ci si trova capaci di ribaltare la propria vita, di scrivere una storia sulla pelle della propria anima, protesi verso il domani e con la ritrovata certezza che l’amore vero non può mai sparire: esso torna con la prepotenza contenuta nel suo stesso nucleo. Scrive Forest: «Se l’amore è il passo con cui ci si pone in disparte rispetto al mondo e alle sue leggi, se presuppone l’arrogante asocialità di una vita che basta a se stessa e s’inventa dei valori suoi in nome dei quali disprezza tutti gli altri, se questa è follia, allora noi ci amavamo». Parlare delle cose dell’amore è sempre rischioso per un narratore. C’è il rischio del dolciastro o dell’intellettualizzazione dei sentimenti o del collage di storie di cui sappiamo già tutto grazie a una letteratura plurimillenaria. È lo stesso autore - che descrive la sua intricata vicenda sentimentale - a saper bene che «non esistono romanzi se non d’amore». Il «noi ci amavamo» che abbiamo citato prima riguarda la moglie Alice, tornata accanto a lui

I

libri

Il romanzo dell’amore nuovo di Pier Mario Fasanotti «per follia e per ostinazione». Tutto il dramma, che dura tre anni nella vita di un quarantenne (l’autore stesso), inizia con la morte (per malattia) della figlia Pauline. Lui e la moglie vanno alla deriva, precipitano nel baratro malgrado occasioni di vitalità amorosa e sessuale, sia tra di loro sia con altri. Non s’interrogano direttamente, convivono con le reciproche assenze e con il sapere o intuire degli «altri», ma quando si ritrovano nella casa coniugale accettano la spontaneità del dormire abbracciati, di viaggiare insieme e di non respingere «la nostalgia dolce e falsa di essere stati un tempo insieme». Ma nella vita dell’uomo irrompe Lou: è una passione travolgente dietro la quale non fugge mai il fantasma del baratro, il desiderio oscuro di distruggere un legame. La presenza di Lou non distrugge completamente la frequentazione coniugale, certamente stralunata tuttavia foriera di «attrazione reciproca, infaticabile familiarità dei corpi, tenero automatismo degli atteggiamenti». È l’amore che sopravvive alla sfiducia verso la vita e al lutto genitoriale. Lou ha una figlia piccola, Lea, che contribuisce, e non poco, a complicare la situazione. L’uomo si ritrova a fare da padre, attento a non ripetere i gesti e le parole teneramente spesi con la sua Pauline: «Facevamo finta di essere uno con l’altra come un padre e una figlia». Ma l’alternante convivenza

con Lou, che aspetta solo un segnale chiaro di coinvolgimento duraturo oppure una nuova gravidanza, non riesce a formare un capitolo nuovo nella vita dello scrittore. E questo malgrado la passione, fisica e mentale, formidabile a tal punto che lui nell’intimità scopre il desiderio non tanto di possederla continuamente quanto di essere, addirittura, lei. Come se il sogno fosse quello di ricomporre un’utopica unità, la stessa di cui ci ha parlato Platone. Ma non basta per curare la disperazione di aver perso una figlia. Non basta per accantonare la moglie come uno residuo del tempo e non più adatto a riportare alla vita vera un uomo che accarezza la tentazione del suicidio, dell’autodistruzione che passa attraverso la confusione mentale, l’alcol, l’indecisione, il trascinamento dei giorni. L’amore è una bestia feroce e strana: «…ci sono cose irreparabili di cui sul momento non ti rendi conto verso quale strazio, tormento ti spingano per sempre. Sembra troppo enorme e troppo triste». Lo scrittore, temporaneamente distratto dall’incontro con Lucie (un altro essere femminile il cui nome inizia con la elle, e non è un caso), si rimette a scrivere. Le pagine raccontano la sua stessa storia, alla ricerca di un finale. La prova del romanzo come la prova della vita. E un giorno aspetterà, in una piazza, l’amata: con la quale, egli dice, nulla mai cambia proprio perché amata. La curiosità del lettore è tenuta sospesa: è Alice o Lou? Comunque è «l’amore nuovo», quello che «arriva e rovescia tutto con un gesto della mano». Philippe Forest, L’amore nuovo, Alet, 152 pagine, 15,00 euro

riletture

I giorni di guerra di Comisso, senza disperazione di Leone Piccioni he nella prosa di Giovanni Comisso si facesse sempre strada una grande serenità, un amore per le gente, un’acuita sensibilità nei confronti del paesaggio, si è sempre saputo. Si è visto fin dal primo libro del ‘28 con Al vento dell’Adriatico, nelle stupende pagine dedicate alla «sua campagna veneta» o Attraverso il tempo del 1968. Era difficile prevedere una stessa serenità, un così intenso rapporto con la natura, un così forte legame con gli affetti e con le immagini rileggendo Giorni di guerra ristampato da Longanesi recentemente. Il «Diario di guerra» fu scritto tra il 1923 e il 1928, pubblicato nel 1930 fino all’edizione definitiva del ’61. Per dare un immediato giudizio su questa grande opera basti ricordare una frase di Gianfranco Contini giustamente riportata nella quarta di copertina dell’editore Longanesi: «L’edonismo immediato di Comisso - scriveva Conti-

C

ni - trascrive impressionisticamente o arricchendola di metafore ugualmente sensibili, la fisicità della sua esperienza con una felicità istintiva e appagata o raramente, e solo per voluttà, velata di qualche lieve mestizia». Ci sono molte pause di riflessione inserite tra la descrizione degli atti di guerra: Comisso non è un eroe ma non ha paura, non ha paura della morte; le missioni che gli sono via via affidate sono rischiose e pericolose, ma lui ne esce sempre rinfrancato e reso più solido nelle sue certezze di vita. Ha semmai paura di essere preso prigioniero, o peggio - di essere dichiarato disertore, quando, durante la rotta di Caporetto tutti i rapporti con i comandi militari saltano e Comisso solo o con un manipolo di soldati sente di vagare un po’ sperduto in quella confusione estrema. Vediamo ad esempio le pagine sulla rotta di Caporetto in Giorni di guerra e confrontiamole con quelle di Carlo Emilio Gadda pubblicate nel ’55 nel Giornale di guerra e di prigionia sullo

stesso avvenimento. Per Gadda, con la formidabile disposizione disperata che è propria dello scrittore, insieme alla feroce polemica contro gli errori e le disfunzioni dei comandi militari italiani c’è un atteggiamento che non ha speranza. Quello che sta accadendo, per lui è come se dovrà accadere sempre. Il tempo si è fermato in quella disperazione: non si muove in avanti. Comisso, invece, racconta le vicende del disastro già sapendo, o intuendo, che le cose non resteranno così: ci saranno altre soluzioni, si andrà verso tempi che forzatamente, o per fatalità, muteranno con la certezza, più che con la speranza, che mutando le cose torneranno a essere diverse e accettabili. Dalla parte di Comisso c’è naturalmente anche la giovinezza, il suo coraggio non è incoscienza ma l’affermazione di una continua vitalità. Ecco una pausa nella guerra: «Camminando - scrive Comisso - mi spogliavo e arrivavo ignudo a un terreno arso e

selvaggio dove tra pochi alberi stagnava una breve pozza di acqua piena di fermenti e di erbe. Tra un albero e l’altro le libellule volavano rapide e sicure per scendere a riposarsi sulle erbe galleggianti. Dietro all’acqua grassa giallastra scorgevo altri insetti muoversi lenti sul fondo e scomparire nella melma. Rimanevo come trasognato, fino a quando l’aria diventava fresca venendo ad avvertirmi che il sole era vicino a scendere dietro i monti». E ancora: «I miei soldati mi parevano i miei compagni di scuola. Correvo inebriato con loro». I suoi soldati si sdraiavano sull’erba e fanno tutt’uno tra il corpo e il terreno. Alla fine, dopo la vittoria, eccoli «neri, come di fumo, sporchi, stracciati con fasciature spicciative alle mani o alla testa, sfiniti nel volto, ma accesi di sangue alle labbra e di vita negli occhi… Pareva avessero impegnata tutta la loro forza per fare l’amore o per una corsa accanita e sorridevano come non sapessero essi stessi cosa avessero fatto e perché».


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storia

Il miracolo sulla Vistola che ha cambiato il mondo di Enrico Singer n questo ultimo scorcio di 2009 si sono intrecciati e stanno per intrecciarsi molti anniversari di avvenimenti che hanno cambiato la storia. Il 4 settembre scorso i leader di un’Europa ormai unita si sono incontrati a Danzica per ricordare i settant’anni dell’inizio della seconda guerra mondiale, la «pagina più nera del nostro Continente», come ha detto il Cancelliere tedesco, Angela Merkel. Tra un mese, il 9 novembre, sarà celebrato il ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino che ha segnato in modo definitivo l’inizio del crollo dell’impero comunista che, a tappe serrate, ha riportato la democrazia in Unghe-

I

reportage

ria, Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia fino (in dicembre) alla rivolta in Romania con la fucilazione di Nicolae Ceausescu e di sua moglie a Bucarest. Ma c’è un anniversario che è stato trascurato: la battaglia di Varsavia tra l’esercito polacco del generale Josef Pilsudski e l’Armata Rossa che Lenin aveva lanciato alla conquista dell’Occidente con la speranza di suscitare una rivoluzione tra gli operai della Germania provata dalla sconfitta nella prima guerra mondiale. Era il 1920 e, fra il 13 e il 25 agosto, in uno scontro paragonabile a quello di Waterloo tra Napoleone e Wellington, si decise alle porte della capitale polacca un conflitto che era cominciato quasi un anno prima. È una pagina di

storia finita negli scaffali meno consultati della memoria degli eventi del Novecento che un bel libro di uno storico americano di origine polacca, Adam Zamoyski, ricostruisce con passione e attenzione. La battaglia di Varsavia, pubblicato nella collana «I giorni che hanno cambiato il mondo», diretta da Sergio Romano, è uno strumento indispensabile per capire quello che è successo dopo. Fino a nostri giorni. Il conflitto tra la Russia bolscevica e la neonata Polonia nazionalista non fu uno dei tanti assestamenti territoriali dopo il terremoto della Grande guerra. Fu il primo scontro tra le due maggiori ideologie del Ventesimo secolo: il comunismo e il nazionalismo. L’Armata Rossa fu a un passo dal-

la vittoria che avrebbe spianato la strada ai piani di Lenin. I reggimenti di Tuhacevskij e l’armata a cavallo di Budjonnyi arrivaro fino alle porte di Varsavia. Ma in quello che Zamoyski definisce «il miracolo della Vistola», le truppe polacche sconfissero i russi sulle rive del fiume e li misero in fuga. Nel marzo del 1921 fu firmato il Trattato di pace di Riga che riconosceva alla Polonia una parte importante dell’Ucraina e della Bielorussia. La sconfitta indusse Lenin ad abbandonare l’idea di esportare la rivoluzione. Senza questa svolta, la nostra storia sarebbe stata diversa. Adam Zamoyski, La battaglia di Varsavia, Corbaccio, 180 pagine, 16,60 euro

Viaggio a Bangkok: un’andata senza ritorno di Angelo Crespi a metropoli con le sue strade, i palazzi, la gente indaffarata, i vicoli, gli edifici nuovi di vetro e acciaio e dietro i resti di civiltà precedenti, la metropoli con i suoi tramonti soffocati, lo smog, il rumore, l’insensata costrizione di una topografia che rimanda sempre a se stessa come non ci fosse un altrove, la metropoli è certamente il simbolo della modernità. Fin da quando i flaneur si arrischiavano nelle sue viscere perdendo il senso del tempo, semplicemente girovagando e osservando le specie stravaganti che abitano i palazzi, che popolano gli autobus, la metropoli è l’espressione della civiltà moderna. Ma se alla nostre latitudini, le città hanno perso quel fascino primigenio di caos in via di definizione, compresa la capitale del mondo che è New York oggi così friendly, nel far east resistono agglomerati in cui ci si può perdere senza più possibilità di ritorno. Questo è successo a Lawrence

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personaggi

Osborne, giornalista del New Yorker, il cui viaggio nei meandri di Bangkok è un viaggio senza ritorno, nel quale l’esperienza non è un filo di arianna per ritrovare la strada, semmai un ulteriore motivo di sprofondamento. Un viaggio di cui ci rimane una sorta di taccuino a metà tra le impressioni di un grand tour e le pagine di un vero romanzo, che riga dopo riga ricostruisce con fatica il dispatrio di un uomo alle prese, più per caso che per volontà, con l’insensatezza di una città multiforme dove si incontrano contemporaneo e antico, compiutezza e disfacimento, frenesia e pigrizia, e nella quale gli uomini, soprattutto gli occidentali, vanno per

smarrirsi: «era il rifugio ideale per uno senza una carriera, senza prospettive, senza un soldo… l’habitat naturale per un latitante che si svegliava la mattina con un’unica idea fissa, andarsene in giro a vedere cosa riusciva a trovare e che amava passeggiare senza scopo, per il gusto di farlo». Al di là della curiosità di fare una capatina a Bangkok seduti comodamente su un divano di Roma, la prosa di Osborne, carica e secca al contempo, scava nei meandri della mente umana con la sagacia di un grande osservatore, non importa poi se turista per caso o per davvero scrittore. Lawrence Osborne, Bangkok, Adelphi, 260 pagine, 20,00 euro

Tavola e prosa, il passo doppio di Gianni Brera di Giancristiano Desiderio ovant’anni fa - 8 settembre 1919, c’è sempre un otto settembre nella storia di questo Paese, c’è poco da fare - novant’anni fa nasceva Gianni Brera: il maggior giornalista sportivo d’Italia. Ma poi perché definirlo e così limitarlo con «giornalista sportivo»? Lui che era il Gran Lombardo? Scrisse, forse, solo di calcio? Certo che no. Scrisse anche di atletica e di ciclismo, l’Arcimatto. Scrisse romanzi, racconti e anche di gastronomia, ché la cucina e la buona tavola furono una sua passione. Iniziamo dal romanzo. La BookTime ha una collana dedicata a: «I libri di Gianni Brera». Qui sono usciti

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Coppi e il diavolo, Il mestiere del calciatore, I campioni vi insegnano il calcio, La ballata del pugile suonato, L’abatino Berruti. Scritti sull’atletica leggera e Il mio vescovo e le animalesse. Quest’ultimo è il romanzo a cui Brera teneva di più - almeno così sostiene Paolo Brera nella nota al romanzo - e si sarebbe dovuto intitolare Le confessioni del vescovo Rovati. Non so se qui c’è il miglior Brera, certo è che la scrittura fila via che è un piacere e la storia del vescovo e delle anima lesse ti prende subito rigo dopo rigo, pagina dopo pagina. Inizia così: «Sono stato ordinato sacerdote a Pavia l’anno di scarsa grazia 1946 e ho celebrato la mia prima messa nella chiesa della Beatissima Vergine e Santa

Cristina a Bissone». Il Gran Lombardo è stato anche un grande giornalista sportivo. Giulio Signori rende omaggio nel suo Abbasso Brera, Viva Brera - Una vita contro, pubblicato con Ibis editore, al suo maestro. Un libro pieno zeppo di aneddoti - l’aneddoto era una specialità di Brera - dove ricorrono i nomi di Gianni Arpino, Gino Palumbo, Mario Soldati, Carlo Emilio Gadda. Giulio Signori confuta un luogo comune: il Brera grande mangiatore e grande bevitore senza misura alcuna. La buona tavola era, invece, quasi un pretesto per fare altro e farlo nel miglior modo possibile: «Stare a tavola con lui era una forma di ginnastica mentale. Quello che gli piaceva, al di là del cibo o del vino,

erano i racconti che questi portavano con sé». Si veda la seconda parte del libro con la pubblicazione di scritti e articoli «breriani» in cui la cucina e la tavola sono occasione di ricordi di famiglia e di infanzia, scritti di civiltà. Ci dovrà pur essere un collegamento tra il gusto della sua prosa e il gusto della sua tavola. Buona tavola e buona letteratura sono due cose che vanno quasi sempre di pari passo. Con Brera erano praticamente un passo doppio. Gianni Brera, Il mio vescovo e le animalesse, BookTime, 209 pagine, 14,00 euro; Giulio Signori, Abbasso Brera,Viva Brera - Una vita contro, Ibis edizioni, 120 pagine, 14,00 euro

altre letture Al di là delle caricature demonizzanti e delle teorie complottistiche che vorrebbero spiegare la storia con congiure e società segrete, è vero che la massoneria ha avuto gran parte nel Risorgimento italiano. Uomini e logge nella Torino capitale di Marco Novarino e Giuseppe Vatri (Edizioni L’età dell’Acquario, 348 pagine,19,00 euro) ricostruisce la storia della rifondazione della massoneria italiana avvenuta con la costituzione della loggia Ausonia e del Grande Oriente Italiano. Frutto di un’ampia ricerca archivistica ed emerografica, analizza il complesso intreccio fra il processo di unificazione del Paese e lo sviluppo della massoneria fra la metà del 1859 e i primi anni dello Stato unitario. Anno 1991: a Honolulu una bambina russa di nome Zoe si salva in modo rocambolesco da una strage nella quale resta coinvolta tutta la famiglia. Qualche mese dopo a Zurigo viene ucciso un banchiere e nella trama sono coinvolti sia i servizi segreti americani sia il Kgb in piena crisi per il golpe di Mosca che porterà al potere Eltsin. Comincia così Sottrarsi al cielo, un avvincente romanzo di spionaggio e intrighi internazionali di Amedeo Renzulli (Besa, 234 pagine, 17,00 euro). Una storia dove tutti cercano di mettere le mani sui codici per trasferire i fondi dei traffici delle commodities russe gestite dalla squadra speciale del Kgb alle Hawaii. Quindici anni dopo, Stefano, uomo ricchissimo, dedito allo sperpero di denaro, riceve da Roma una telefonata inaspettata. A Zurigo gli viene consegnata una valigetta che come un vaso di Pandora sconvolgerà la sua solitaria esistenza scatenando intorno a lui una caccia all’uomo per terra e per mare con unica complice Zoe, la bambina scampata anni prima al massacro. Che ruolo hanno le biblioteche all’interno del più ampio settore del libro e del mercato della lettura in Italia? Le biblioteche e il mercato del libro di Chiara Bernardi (Il Mulino,163 pagine,16,00 euro) mette in luce il valore economico prodotto dalle biblioteche. L’autrice utilizza nella sua analisi lenti interpretative dell’economia aziendale e dell’analisi di settore, mostrando così la molteplicità dei ruoli che esse possono assumere all’interno della filiera, facendo leva su alcune caratteristiche distintive: la capillarità e il radicamento sul territorio, le attività di prestito e l’invito alla lettura, il sostegno fornito al settore editoriale tramite le acquisizioni. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

BILLIE HOLIDAY LA PIÙ GRANDE DI TUTTI I TEMPI. DOPO UNA VITA POVERA E SQUALLIDA, FU L’URGENZA DEL BISOGNO A DETERMINARE PER CASO L’INIZIO DELLA SUA CARRIERA DI CANTANTE. AVEVA DICIOTT’ANNI QUANDO FU NOTATA DAL TALENT-SCOUT JOHN HAMMOND E QUARANTAQUATTRO QUANDO MORÌ IN UN LETTO DI OSPEDALE PIANTONATA DA UN AGENTE DEL SERVIZIO NARCOTICI. ERA IL 1959…

La voce del jazz di Adriano Mazzoletti inquant’anni fa moriva Eleanor Gough «Billie» Holiday, la più grande cantante di jazz d tutti i tempi. Aveva compiuto quarantaquattro anni da tre mesi. La storia della sua vita è stata raccontata nell’autobiografia pubblicata innumerevoli volte in ogni parte del mondo. È la storia drammatica di una ragazza nata a Baltimora dall’amore fra due adolescenti, lui Clarence Holiday chitarrista, quindici anni, lei Sadie Fagan, ballerina di fila, tredici. Il padre abbandonò presto moglie e figlia per seguire le orchestre itineranti in cui suonava. La madre per provvedere a se stessa, alla sua propria madre e alla giovanissima figlia si adattò a fare la domestica. Da Baltimora si trasferirono a New York e Billie crebbe in un ambiente povero e squallido, malgrado Harlem fosse all’epoca il centro culturale dell’America nera. Una serie di drammatici eventi peggiorarono, se possibile, la situazione. A sei anni, del tutto involontariamente, causò la morte della nonna, a dieci fu violentata da un vicino di casa. Giovanissima iniziò a prostituirsi. Nel 1929, con il sopraggiungere della crisi economica la situazione si fece insostenibile. Fu l’urgenza del bisogno che determinò per caso l’inizio della carriera di cantante. Per sua esplicita ammissione, Bessie Smith e Louis Armstrong, i cui dischi aveva ascoltato nella casa di tolleranza dove lavorava, furono le fonti di ispirazione che esercitarono il maggior influsso nella sua formazione artistica.

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La stessa Holiday ha raccontato: «Vivevamo nella 143° strada, vicino alla 7° Avenue. Un giorno eravamo così affamate che riuscivamo appena a tirare il fiato. Uscii di casa; faceva un freddo infernale e camminai dalla 143° alla 133° giù per la 7° fermandomi a ogni angolo per chiedere lavoro. Alla fine ero talmente disperata che mi fermai da Pod’s & Jerry. Chiesi a Jerry Preston del lavoro dicendogli che ero una ballerina. Mi disse di ballare. Ci provai. Lui disse che facevo pena. Gli dissi che sapevo cantare. Mi disse di cantare. Nell’angolo c’era un tipo anziano che suonava il piano. Accennò le prime battute di Travlin’ all Alone e io cantai. I clienti smisero di bere. Si voltarono e mi guardarono. Il pianista attaccò Body and Soul. Santo Cielo avreste dovuto vedere quella gente, cominciarono tutti a piangere. Jerry mi si avvicinò, scosse la testa e disse: “Ragazzina ce l’hai fatta”. Così ho cominciato». Da quel momento non ci furono più ostacoli. Ebbe scritture in altri locali e nel 1933 mentre cantava al Log Cabin sulla 132° fu notata da John Hammond giovane talent-scout che di lei su Melody Maker di aprile scrisse: «In questo mese è stata fatta una vera scoperta, una cantante di nome Billie Holiday. Nonostante abbia solo diciotto anni, canta come non ho mai sentito cantare nessun altro». Hammond presentò quella giovane cantante a suo cognato Benny Goodman. Il 27 novembre e il 3 dicembre di quello stesso anno, Billie Holiday incise i suoi primi dischi con l’orchestra del futuro «Re dello swing». Erano Your Mother’s Son-in-Law e Riffin’ the Scotch, un

motivo, quest’ultimo, dello stesso Goodman con parole di Johnny Mercer in un arrangiamento del sassofonista Deane Kinkaide. Quelle due incisioni passarono quasi inosservate. Chi invece continuava a credere nelle sue straordinarie capacità era John Hammond che due anni dopo le procurò un contratto con il pianista Teddy Wilson che incideva per Brunswick con gruppi da studio che annoveravano di volta in volta i più importanti musicisti dell’epoca: Lester Young, Ben Webster, Roy Eldridge, Choo Berry, Johnny Hodges. Hammond ha confessato che la sua ammirazione per il modo di cantare di Billie Holiday era tale che il canto di Ella Fitzgerald, che all’epoca si esibiva con l’orchestra del batterista Chick Webb, non lo colpì come in realtà avrebbe dovuto. Le incisioni con Teddy Wilson la fecero conoscere e apprezzare definitivamente e decisivo fu l’incontro con il sassofonista Lester Young. Il suo canto con gli attacchi, le note ripetute e tenute, è quasi la controfigura del grande sassofonista. Ma è la voce stessa così intensamente drammatica a imporla e farne la quintessenza della cantante jazz per quel suo concetto ritmico, per la capacità di «volare» sul tempo e per l’e-

rale nel valoroso Sud. Gli occhi sporgenti e la bocca storta. Profumo di magnolia dolce e fresco. E d’improvviso l’odore della carne che brucia!». La prima volta che Billie cantò quella canzone, con il testo di Abel Meeropol che si nascondeva sotto lo pseudonimo di Lewis Allan, fu una sera di inizio 1939 al Cafe Society, l’unico vero jazz club di New York a praticare l’integrazione, frequentato da un pubblico di progressisti. Nell’autobiografia racconta che aveva paura di cantare quella nuova canzone che si misurava con l’odio razziale. «Quando terminai non ci fu nemmeno un accenno di applausi. Poi una persona iniziò a battere le mani nervosamente. Un momento dopo, improvvisamente, tutti stavano applaudendo».

Quando quel disco fu pubblicato, qualcuno asserì che fu da quel momento che ebbe inizio il declino popolare della più grande cantante jazz di tutti tempi. Il pubblico bianco, razzista e conservatore non l’avrebbe mai perdonata. Furono invece molti quelli che la sostennero. Samuel Grafton sul New York Post dell’ottobre 1939 scriveva: «Voglio parlare di un disco che mi ha

Nacque a Baltimora da due adolescenti. Bessie Smith e Louis Armstrong furono le sue fonti d’ispirazione. Benny Goodman, Lester Young, Ben Webster, Oscar Peterson sono solo alcuni dei musicisti con cui ha inciso brani memorabili mozione che sapeva trasmettere anche su testi a volte banali. Quando nel 1936 iniziò a incidere a proprio nome per Vocalion, una casa discografica che già al suo apparire negli anni Venti aveva dato largo spazio al jazz, la sua notorietà si accrebbe. Quando poi vennero pubblicate le sue interpretazioni di Long Gone Blues conosciuta come I Love My Man, Gloomy Sunday e soprattutto Strange Fruit, Billie Holiday divenne famosa in tutto il mondo.

«Gli alberi del Sud producono uno strano frutto», recitava con voce tormentata, «sangue sulle foglie e sangue sulle radici. Un corpo nero che ondeggia nella brezza del Sud. Uno strano frutto che pende dai pioppi. Una scena pasto-

ossessionato per due giorni. Si intitola Strange Fruit e anche dopo la decima volta che l’hai ascoltato ti fa sbattere le palpebre e ti tiene inchiodato alla sedia. Anche ora se ci penso mi si rizzano i capelli in testa e vorrei colpire qualcuno. E credo di sapere chi». Dopo la prima fase di popolarità, la canzone non fu più eseguita, vittima del conservatorismo, anche se Billie Holiday continuò a cantarla solo dove era possibile eseguirla. Negli anni Cinquanta e Sessanta, Josh White e Nina Simone furono tra i pochi a inserirla nel loro repertorio. Il sassofonista di New Orleans Sidney Bechet il 13 settembre 1941 ne incise una versione solo strumentale. Ciò malgrado la Victor la pubblicò solo anni dopo.


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L’incisione di Billie Holiday negli ultimi anni è stata spesso utilizzata nei contesti più diversi. In lezioni universitarie come esempio del razzismo che affliggeva gli Stati Uniti. All’interno di racconti riguardanti la guerra di secessione. Inspiegabilmente Mickey Rourke la mette sul giradischi per sedurre Kim Basinger nel film 9 settimane mezzo, ma la canzone non può che fallire lo scopo. Recentemente Cassandra Wilson e Dee Dee Bridgewater l’hanno registrata.

All’inizio degli anni Quaranta la vita privata di Billie Holiday subisce ulteriori scosse: un matrimonio breve e burrascoso e la morte della madre. Come lei stessa ammette, intensifica la familiarità con l’eroina, la marijuana, l’alcool. La voce ne risente, mentre inizia ad accusare quei momenti di lucidità e di torpore, tipici del tossicodipendente. Nel 1946 viene scritturata per una parte importante nel film New Orleans a fianco di Louis Armstrong. Precedentemente, fra marzo e aprile 1944 aveva realizzato eccellenti incisioni per Commodore con l’orchestra del pianista Eddie Heywood. Quando però nel 1945 si lega con un breve contratto a Decca i nuovi dischi non sono dello stesso livello di quelli che aveva realizzato negli anni Trenta. Successivamente si riprende, intensifica le tournées e le incisioni. Con l’impresario Norman Granz incide per Clef e Verve dischi splendidi in cui è nuovamente a fianco dei grandi del jazz, Benny Carter, Oscar Peterson, Ben Webster, Coleman Hawkins, Buck Clayton, Tony Scott e il pianista Mal Waldron che dal 1956 diviene il suo accompagnatore di fiducia. In Italia è venuta una sola volta. Era il 1958 quando un impresario di pochi scrupoli, o forse incompetente, la fece esibire il 3 novembre al Cinema Teatro Smeraldo di Milano, in un avanspettacolo di second’ordine. La storia di quel triste evento è stata più volte raccontata da testimoni oculari, Franco Cerri, Gianni Basso, Oscar Valdambrini, Enrico Intra e altri che ne scrissero per sentito dire. Quella sua unica esibizione è stata anche più volte raccontata da coloro che andarono a teatro la sera del 3 novembre. «In cartellone c’era Fausto Cigliano, ballerine, vari fantasisti e qualche acrobata: che hanno naturalmente attirato in teatro un pubblico periferico ed eterogeneo dai gusti alquanto primitivi. Quando è entrata in scena Billie Holiday, e ha iniziato a cantare accompagnata dall’eccellente pianista Mal Waldron e da una orchestra di fossa su cui è persino inutile infierire, è successo il finimondo. La voce acre, le inflessioni deliberatamente distorte sono state scambiate per il farfugliamento di un avvinazzato: e si è capito subito che non sarebbe stato possibile giungere al termine “del numero” e men che meno della scrittura. Aveva appena terminato la quinta canzone che fu pregata, dal presentatore, di lasciare il palcoscenico, su cui non ricomparve più perché “protestata”. Al pubblico venne detto che non stava bene». Billie Holiday che era stata scritturata per sei giorni, dal 3 al 9 novembre, venne sostituita immediatamente dalla pianista e cantante

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Hazel Scott. La ragione della presenza della Holiday in quel tipo di spettacolo aveva tradizioni antiche, ma era dovuta anche al fatto che già in precedenza il famoso pianista Sam Wooding suonò allo Smeraldo e presumibilmente in altri cine-varietà, come accompagnatore di Rae Harrison, una semisconosciuta cantante senza che il pubblico protestasse. C’è da dire però, che la Scott, Wooding e la sua cantante appartenevano ormai più al mondo dello show-business di derivazione jazzistica che non a quello del jazz autentico. «Gli ammiratori di Cigliano,Villa, Latilla non hanno potuto sopportare, pare, la sua voce. Non commentiamo», scrissero le riviste specializzate. «Servisse almeno questo increscioso incidente (se così si può chiamare) a insegnare agli impresari che il jazz non si può inserire in qualsiasi genere di spettacolo, così a casaccio. Meglio presentarlo da solo. Non tutte le compagnie gli sono adatte. Qualcuna lo uccide addirittura».

Il giorno successivo alcuni appassionati andarono a trovare la Holiday all’Hotel Duomo e la invitarono per quella stessa sera alla Taverna Messicana dove suonava il Quintetto Basso-Valdambrini con Enrico Intra, Giorgio Azzolini e Gianni

uno spazio minuscolo nato come teatro dei burattini, utilizzato all’epoca per qualche recital. Il concerto di Billie Holiday venne organizzato in fretta, senza pubblicità, solo con il passa parola. L’incasso venne devoluto completamente alla cantante che essendo stata «protestata» si era vista defraudata del compenso. Le strutture del teatro furono messe a dura prova dalla folla che lo riempì: eppure le balconate a prova di bambino ressero bene. Quanto a Billie, si impegnò a fondo e diede uno splendido, commovente recital. Il pubblico le tributò ovazioni trionfali. In quel teatrino così piccolo ciascuno aveva l’impressione di poterla abbracciare. E sembrava che volesse farlo.

Quando Billie Holiday, entrò in scena, avanzando lentamente verso il pianoforte di Mal Waldron, per piazzarsi di fronte al microfono: tutto il pubblico scattò in piedi e iniziò allora un lungo, interminabile applauso non per premiare un’esecuzione che ancora non era stata eseguita, ma solo per far sentire il calore traboccante di tanta gente, sopraffatta dalla commozione, che si spellava le mani senza fine, per dimostrare la sincerità del suo affetto. Non era una ovazione di ap-

Venne in Italia una sola volta, invitata da un impresario maldestro a esibirsi in un avanspettacolo allo Smeraldo di Milano. Fu un fiasco. Ma pochi giorni dopo i suoi estimatori organizzarono un concerto per risarcirla: fu un trionfo Cazzola. La Holiday non cantò, ma si fece fotografare con il complesso e quella celebre foto venne pubblicata innumerevoli volte. Dopo essere stata alla Taverna, Billie Holiday e i suoi ammiratori milanesi andarono a casa di Mario Fattori, pubblicitario innamorato del jazz, a bere qualcosa e a chiacchierare. Era una donna amara, risentita: nessuno ricorda di averla vista sorridere. Quella sera Fattori e Pino Maffei decisero di organizzare, per il 9 novembre, ultimo giorno della permanenza della cantante a Milano, uno spettacolo «riparatorio» a cui potessero assistere gli appassionati milanesi. Venne chiesto il Gerolamo che venne concesso gratuitamente. Era

prezzamento da intenditori, ma una corale, autentica dichiarazione d’amore. Di quel concerto al Gerolamo di Piazza Beccaria, la stampa non fece cenno. Dopo Milano andò a Parigi. Il mondo del jazz francese la accolse con entusiasmo. Nessun impresario la costrinse a esibirsi in un music hall di terz’ordine. Tornata negli Stati Uniti sarebbe morta l’anno dopo, il 17 luglio 1959, nel letto di un ospedale, sorvegliata da un agente del servizio narcotici. Quasi contemporaneamente Longanesi pubblicava nella collana Il Cammeo, con notevole successo editoriale, l’autobiografia, Lady Sings the Blues, nella traduzione di Mario Cantoni.


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tv

i sono anche gradevolissimi ritorni, in tv. E l’aggettivo che uso riguarda esclusivamente la fiction: degli show e spettacolini vari ne ho già parlato su queste colonne e in termini irrimediabilmente negativi (il calcolo dello share dà ragione a una severità che potrebbe essere giudicata eccessiva). È tornato il commissario Soneri con Nebbie e delitti su Rai 2. Lo avevamo lasciato come capo della Mobile di Ferrara. Il personaggio è invenzione letteraria di Valerio Varesi il cui nuovo romanzo, Oro incenso e polvere (Frassinelli) uscirà il 6 novembre prossimo. Soneri è Luca Barbareschi le cui alte qualità interpretative si pongono già come garanzia. Subissati come siamo dai serial polizieschi, è facile per noi trovare la differenza, il tratto caratteristico, o il valore aggiunto, nella figura e nella personalità dell’indagatore. Soneri è uomo tormentato, malinconico, intuitivo e spiccio nelle indagini, anzi sovente disobbedisce alle procedure canoniche delle forze dell’ordine. La novità della nuova serie è la città: non più Ferrara ma Torino, fondale storico di intrighi e misteri, stavolta sottratta interamente alla tentazione di riprodurla come cartolina illustrata. La capitale sabauda viene catturata dalla telecamera anche nei suoi luoghi più sporchi e vergognosi, o comunque davvero brutti: periferie con casermoni moderni, squarci di quartieri (come Porta Palazzo) diventati ormai terra di nessuno, addirittura campo minato anche per la polizia. La scelta «nordista» è strettamente legata al tipo di storie che Valerio Varesi scrive e non, come qualcuno ha sbandierato, alla necessità di non privilegiare sempre il Centro e il Sud. Torino avrà più telespettatori perché è Torino e non è Ragusa o

C

Nebbie e delitti Il valore aggiunto del commissario Soneri

web

games

video

Gubbio? Questa è una barzelletta che fa ridere solo i leghisti. Non è colpa di Gubbio se gli ascolti non s’impennano, e nemmeno dell’accento umbro, semmai del ritmo ripetitivo di Don Matteo. Non esiste una par condicio territoriale, e non deve esistere visto che l’Italia è una, da Bolzano a Siracusa, e tutto dipende da chi scrive buone storie. Soneri-Barbareschi si trova a Torino per ragioni non del tutto chiare, in ogni caso s’intuisce che quel che vuole è incontrare, dopo un anno e passa, la sua ex fiamma, Angela Cornelio, avvocato sobrio e biondo che ci compare davanti con l’intenso viso di Natasha Stefanenko: è bella ma non fa la bellona, è seducente ma è anche credibile nel ruolo professionale. Soneri la porta a cena e poi la riaccompagna a casa. C’è un bacio, ma il poliziotto esita, dice di voler fare le cose gradualmente malgrado la tenera disponibilità di lei. Al mattino Angela si trova in un altro appartamento e accanto a lei c’è un uomo accoltellato. È una trappola. Ovviamente Soneri s’impiccia della questione malgrado sia di competenza di una collega torinese. Pur con le necessarie limitazioni, riesce comunque ad afferrare il bandolo della matassa. Il rischio caricaturale, così frequente nei gialli, non viene a mancare là dove si tratteggia un giovane poliziotto: goffo in auto, disordinato e distratto, ma detective illuminato tra le scartoffie dell’archivio. Poca cosa comunque in un quadro nel quale le proporzioni sceniche convincono. Soneri rimarrà a Torino. Un altro ritorno è quello su Rete 4: s’intitola Julie Lescaut, ultraquarantenne commissario di polizia in una cittadina della Francia, fisico non da modella e meno male. Però: anche quelli della Rtf scivolano negli stereotipi. Il poliziotto che fa da centralinista è una macchietta, col rischio di somigliare (troppo) a quel pasticcione di Catarella della serie Montalbano. Un altro però: i cugini d’Oltralpe dovrebbero evitare umorismi involontari nella stesura della sceneggiatura. In uno degli episodi madame Lescaut è dinanzi al cadavere di una donna. Il medico legale se ne esce con questa frase: «La violenza era nelle intenzioni del suo aggressore». Mi chiedo quali altre intenzioni potrebbero albergare in un uomo che fracassa il cranio di una donna. (p.m.f.)

dvd

BIG G. E I LADRI DI PASSWORD

IL CRIMINE TORNA IN SCENA

DIARIO DI UN MAESTRO

P

osta elettronica sotto scacco. L’allarmente notizia arriva all’indomani della gigantesca operazione di phishing realizzata ai danni di GMail, servizio mail di Google. I vertici dell’azienda di Page e Brin hanno confermato a Bbc News che più di 30 mila password sono state trafugate da parte degli hacker nei giorni scorsi. Immediata la controffensiva di BigG, che ha pron-

I

l celebre serial che affronta casi irrisolti a colpi di tecnologia e deduzioni scientifiche, è giunto alla nona stagione. E in contemporanea, il game di C.S.I. si aggiorna nel cast e nelle ambientazioni. Il nuovo capitolo della saga si intitola CSI: Deadly Intent e uscirà negli Usa il 20 ottobre. «Io credo che abbiamo fatto il meglio di sempre, nell’immergere i giocatori in un’espe-

miei film possono sembrare tutti uguali, ma io cerco di creare ogni volta qualcosa di nuovo: come fa il pittore che dipinge sempre la stessa rosa, sempre la stessa, e ogni volta arricchisce la sua visione», amava ripetere Yasujiro Ozu. E al più grande regista della scuola giapponese, Wim Wenders dedica Tokio-Ga, opera del 1985 da pochi giorni riproposta nel

Google ha confermato il furto di 30 mila chiavi d’accesso ai danni dei maggiori servizi di posta

”Csi: Deadly Intent” è il nuovo capitolo dell’action game ispirato alla celebre serie televisiva

Wenders ripercorre la carriera del grande cineasta giapponese Ozu nel suo ”Tokio-Ga”

tamente resettato le chiavi d’accesso degli utenti danneggiati. Il furto di password è partito in origine dal servizio di posta elettronica di Hotmail, per poi estendersi anche a utenti Yahoo e Aol. Il metodo di recupero fraudolento dei dati, era molto semplice. L’invio di link a pagine web su cui era prevista l’immissione di dati sensibili, induceva il possessore della casella a digitare i propri estremi elettronici (servizi bancari e registrazioni a siti di varia natura apparentemente inoffensivi). Anche se in parte sventato, l’attacco alla privacy potrà essere ridimensionato - consigliano gli esperti - usando password differenziate per ogni servizio.

rienza che è identica a quella dello show televisivo», ha spiegato il produttore Dave Felton. «Abbiamo ora ambienti più coinvolgenti, personaggi più dettagliati e scene di gioco migliorate che rendono la risoluzione del crimine più avvincente», gli ha fatto eco il disegnatore capo John Drake. Pronti a indagare su mandato del player, Ray Langstone (Laurence Fishburne) e Riley Adams (Lauren Lee Smith), hanno registrato molte più battute rispetto alla precedente edizione, e interagiscono ora in modo più esaustivo con gli altri personaggi.

mercato home-video. Diario filmico che registra il vagare del maestro tedesco nella Tokio più cara al suo omologo giapponese, il documento si arricchisce delle preziose testimonianze di Yuharu Atsuta e Chishu Ryu, rispettivamente direttore della fotografia e attore feticcio di molte opere di Ozu. Wenders lumeggia con tratti delicati e pieni di pathos, un cineasta capace di comporre intimi ritratti familiari, grazie a modalità di messa in scena che privilegiano inquadrature fisse e macchina da presa a pochi centimetri dal suolo. Per riscoprire un grande maestro del cinema, autore di grandi capolavori come Viaggio a Tokio e Tardo autunno.

a cura di Francesco Lo Dico

«I


cinema

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di Anselma Dell’Olio a doppia ora era il quarto film italiano nel concorso principale della Mostra del cinema di Venezia. Indubbiamente è il migliore dei tanti film nazionali visti al Lido, se si esclude Baarìa, talmente sui generis (e da vedere) da meritare un discorso a parte. L’opera prima di Giuseppe Capotondi è la storia di Sonia, una cameriera d’albergo slovena (Ksenia Rappoport) e di Guido, un ex poliziotto diventato guardiano notturno (Filippo Timi) di una lussuosa villa nella campagna torinese. Si conoscono durante un incontro di speed-dating. Per lei è la prima volta, lui è un habitué; iniziano a frequentarsi. Guido la invita a passare una serata con lui nell’elegante dimora con parco dove lavora; i proprietari sono assenti. Per assicurare l’intimità lui spegne le videocamere di sorveglianza, felice di trovarsi con una donna così diversa dalle solite che rimorchia in quella specie di roulette russa che sono gli incontri lampo dello speed-dating. All’improvviso irrompe una banda di rapinatori che li bloccano per svaligiare la villa. Il capo balordo minaccia sevizie a Sonia; nel tentativo di difenderla, Guido viene colpito da uno sparo e s’accascia a terra senza vita, sotto gli occhi spaventati di Sonia, tramortita.

L

La rivediamo di nuovo al lavoro nell’albergo, con un livido sulla fronte. Sembra vivere in una realtà alterata. A volte le sembra di vedere Guido; o è solo qualcuno che gli assomiglia? Il miglior amico di Guido, un ispettore di polizia, non si dà pace per la morte dell’amico, e tampina la donna con i suoi sospetti. Si scopre che anche se viene da Lubiana, Sonia ha un padre italiano (Giorgio Colangeli) il quale, quando gli notificano l’aggressione subita dalla figlia, non ne vuole sapere di lei. La staniera è sempre più sola e smarrita.Visto che si tratta di un thriller, di un giallo con aspetti mystery, non si può andare oltre con la trama. Il vero mistero è la pessima accoglienza che un film italiano molto sopra la media ha avuto alla Mostra. L’Italia produce pochi film di genere, a parte qualche commediaccia o romantic comedy liceale o giovanile, un vulnus per il nostro cinema. L’horror, il fantasy, l’animazione, la commedia famigliare, la fantascienza, sono fonte di guadagni stabili per i produttori; hanno un bacino di fan accaniti che pagano il biglietto e spesso collezionano i dvd, permettendo il finanziamento di storie più ambiziose, a più alto rischio di fallimento. Il thriller, il noir, il poliziesco, purtroppo non sono filoni naturali per il nostro cinema. I francesi sono particolarmente portati per thriller e noir, per non parlare degli americani. Arriva finalmente un’opera con un testo insolitamente meritevole (cosa già rara per qualunque tipo di film nostro) e di ottima confezione, senza l’obbligo di aggiungere «per un film italiano», e i critici lo fanno a pezzi senza pietà. C’è da chiedersi, cosa mai potrebbe accontentarli? Forse l’elogiativo passaparola prima del debutto ha creato troppa attesa, eccitando il sadismo dei critici. Il film non è perfetto; nel dire perché si cercherà di non svelare troppo. Nel fina-

Ha stile il noir

made in Italy le e anche nella performance della protagonista, mancano ambiguità, scaltrezza e cinismo, fondamentali per un personaggio noir convincente. Basta pensare a II postino suona sempre due volte o a La fiamma del peccato. Comunque è un film da non perdere, un thriller italiano di cui si può essere orgogliosi, con solo poche riserve. Il Guido di FilippoTimi è superbo. Meritava la Coppa Volpi più della sua partner, troppo addolorata per il ruolo e mortificata dall’inguardabile parrucca che le è stata piazzata in testa, forse perché il regista voveva farla «sua» rispetto a La sconosciuta, ma senza riuscirci.

Ang Lee ha diretto Ragione e sentimento, La tempesta di ghiaccio, Brokeback Mountain, La tigre e il dragone; film che non potrebbero essere più diversi l’uno dall’altro. Non fa eccezione Motel Woodstock, la vera storia del ragazzo che ha

motel dei suoi (ebrei russi di prima generazione, a cui nasconde di essere gay) a Walkill nei pressi di Woodstock, è a rischio grave di fallimento. Non bastano tutti i magri guadagni del ragazzo per raddrizzare i conti e pagare il mutuo, ma lui ci prova lo stesso, investendo quel poco che ha a fondo perduto. Sul giornale locale legge che è stata ritirata l’autorizzazione per un concerto all’aperto con grandi stelle del rock, da un paese nei dintorni. Elliot rintraccia gli organizzatori e offre il suo, dove è presidente della Camera di commercio e può garantire i permessi necessari. I ricchi finanzieri capelloni arrivano in elicottero e pagano tutto in contanti in anticipo, dentro sacchetti di carta da supermercato. Gli abitanti locali, da sempre ultra conservatori in un territorio economicamente depresso, detestano gli hippie e tutto quello che rappresentano, e all’inizio si ribellano. Con il tempo, la pioggia di denaro che piove loro addosso attutisce l’ostilità. Il film ha un animo gentile, sotto tono. L’interesse del film non è l’evento spettacolare sul palcoscenico con la parata di cantanti star e contorno; anche se si vedono orde pacifiche di ragazzi semi nudi, sballati e danzanti, e il mare d’im-

L’opera prima di Giuseppe Capotondi, “La doppia ora”, è un thriller italiano di cui essere orgogliosi, benché la critica gli abbia riservato un’accoglienza pessima. “Motel Woodstock” di Ang Lee conquista e anche il film di François Ozon è da non perdere reso possibile il celebre concerto rock del 1969, in cui mezzo milione di figli dei fiori ha invaso la tranquilla campagna a nord di NewYork per tre giorni di «pace, amore e musica», senza dimenticare hashish, marijuana, acido lisergico, cibi biologici da condividere, e un mastodontico ingorgo di traffico che si prolungava da Manhattan fino al pascolo per le mucche del fattore Max Yasgur (Eugene Levy) epicentro dell’evento. Elliot Tiber (Demetri Martin) è un giovane arredatore, gay coperto, che lavora nella metropoli. Per dare una mano ai genitori lascia l’ambiente libero e gay a Greenwich Village e torna a casa nelle Catskills. Il fatiscente

mondizie, sacchi a pelo e coperte fradici che sono stati lasciati nel fango dopo tre giorni di piogge torrenziali. Si occupa invece delle vite ai margini dell’evento che poi si è dimostrato epocale, trasformate per sempre dall’immenso oceano ondeggiante di cuori contenti, fraterni e solidali in condizioni catastrofiche per il collas-

so dell’organizzazione, impreparata a un’invasione d’inimmaginabili dimensioni, e complicata da intensi temporali estivi. Colpi di scena ci sono, ma le delizie del film sono nei dettagli e nell’ottima resa di attori ben scelti e diretti. Un dipendente telefona a New York per rinforzi alimentari: «Mandate riso, patate e altra roba che crea stitichezza: i servizi igienici sono insufficienti!». Emile Hirsch (Into the Wild) è Billy, un reduce del Vietnam paranoico e scoppiato, che vuole ritornarci; «Capisci, Elliot: là sono normale!». Imelda Staunton (Vera Drake) è molto divertente come l’avida, avara mamma-megera di Elliot, che stupirà la famiglia con un segreto stupefacente a lungo custodito, dopo aver ingerito biscotti corretti all’hashish. Liev Schreiber (Defiance) è Vilma, un ex-marine travestito che diventa capo del servizio d’ordine e un fratello-sorella maggiore per il ragazzo timido e insicuro. Si comincia pensando che il film sia un po’ scialbo, senza nerbo. Ma a poco a poco s’insinua sotto pelle, e alla fine conquista, e non si sarebbe voluto perderlo per nessuna ragione al mondo.

François Ozon è un altro avventuroso autore difficile da catalogare (Swimming Pool, Angel, 8 donne e un mistero) come Ricky: storia d’amore e di libertà, presentato alla Berlinale. Tratto da un racconto di Rose Tremain, è la storia di un’operaia e madre single (Alexandra Lamy, eccezionale) che trova l’amore e un secondo bambino con uno spagnolo conosciuto in fabbrica (Sergi Lopez). Ancora in fasce, Ricky sviluppa un rossore alle scapole: poco dopo spuntano due ali, e la vita della famigliola ne rimane sconvolta. Il tono del film è incerto tra il neo-neo-realismo degli inizi e la favola metafisica della seconda parte; eppure si resta agganciati al film dalla voglia di vedere come va a finire. Ozon è un cineasta multiforme e imprevedibile: le sue opere hanno sempre un certo spessore interessante. È un errore farseli scappare.


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poesia

Autobiografia di un Pierrot di Francesco Napoli enché morto a soli ventisette anni, Jules Laforgue (Montevideo, 1860Parigi, 1887) è uno degli scrittori più problematici del Simbolismo francese e, più in generale, del Decadentismo europeo. Sicuramente prossimo, anche per la genialità precoce della sua esperienza letteraria, alle figure dei massimi adolescenti dell’epoca, come Rimbaud, Lautréamont - con il quale curiosamente condivide anche il luogo di nascita - o Corbière, nella sua breve esistenza svolse una febbrile attività di poeta, di narratore e di saggista. È stato forse anche uno degli ultimi letterati di corte, avendo seguito per anni l’imperatrice Augusta di Germania quale lettore di francese, un incarico ottenuto grazie ai buoni uffici di Paul Bourget e Charles Ephrussi. Aveva 21 anni quando arrivò a corte e lì vi resterà, girando l’Impero in lungo e in largo, fino all’anno d’incontro e matrimonio con la sua insegnante di inglese Leah Lee. Unione che durò un lampo: Laforgue morì infatti dopo un anno, di tubercolosi, sorte che toccò, passato appena un altro anno, alla stessa consorte.

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I PIERROT Il cuore bianco tatuato di sentenze lunari. Hanno: «Fratelli, bisogna morire!» Come Evoè e per parola d'ordine. Quando una vergine trapassa seguono il suo corteo, tenendo il collo ben dritto come si regge un bel cero. Parte assai faticosa, tanto più che non hanno nessuno a casa che li frizioni con un unguento coniugale. Quei dandy della Luna s'impongono, in effetti di cantar «Permettete?» alla bionda e alla bruna. Jules Laforgue (frammento da Imitation de Notre-Dame la Lune selon Jules Laforgue)

Nella sua attività di letterato Laforgue si dimostrò aperto alle più audaci manifestazioni dell’avanguardia letteraria e pittorica. La sua opera in versi e in prosa appare così come il luogo d’incontro fra le tendenze più importanti d’un periodo sicuramente cruciale della cultura estetica moderna. Accanto agli elementi della poetica simbolistica, infatti, si può ravvisare in essa la prima formulazione coerente del crepuscolarismo, sebbene l’esito della sue Moralità leggendarie s’inquadri decisamente nell’ambito dello stile liberty più elegante, ambiguo ed estroso. In Italia a Laforgue guarderanno con occhio attento tanto un Sergio Corazzini quanto un Guido Gozzano per arrivare almeno a Eugenio Montale che ne ha sempre riconosciuto il valore. Ma anche la poesia anglosassone del Novecento non fu immune da certo fare del francese, basti pensare alla decisiva influenza su Eliot e Pound. Jules Laforgue era un divoratore di libri, cresciuto con l’idealismo di Hegel e Schelling e sui testi evoluzionisti di Spencer, un po’ per indole e un po’influenzato dallo spirito del tempo, nel 1879 cominciò a leggere il barone Eduard von Hartmann, la cui Filosofia dell’incosciente era stata tradotta in Francia da Nolan un paio di anni prima. Di Hartmann fece propria la triade di costante riferimento fondata sull’Incosciente, la Volontà e l’Idea e giunse in tal modo a enunciare tra i primi alcune premesse della dottrina surrealista, mentre nel suo momento crepuscolare egli aveva dato evidenza al motivo esistenzialistico della nausea, pur ricorrendo sempre a un’ironia in apparenza disinvolta e dandistica, ripresa dal già ricordato Gozzano, ma, al fondo, patetica e inquietante. Dotato di un dono raro d’assimilazione e d’una tensione sperimentale sorretta da straordinaria abilità tecnica, negli ultimi anni del-

la sua breve vita Laforgue aveva già ottenuto una solida rinomanza nella cerchia dell’avanguardia parigina.Tuttavia il riconoscimento pieno giunse postumo, e non senza alcune resistenze, dopo che l’influenza della sua opera si esercitò ad ampio raggio. Tra gli scritti della sua opera poetica (Le sanglot de la terre, Les Complaintes, L’imitation de Notre-dame la lune, Des fleurs de bonne volonté, Derniers vers), per sua precisa volontà solo Les Complaintes (1885) e L’imitation de Notre-Dame la lune selon Jules Laforgue (1886), oltre al poemetto Le Concile Féerique (1886) furono pubblicati. Le sanglot de la terre, ambizioso progetto in cui l’uomo è preda di smarrimento e senso di ribellione nei confronti del creato, rimane incompiuto e superato (e per questo non pubblicato) filosoficamente da Laforgue, che passa a posizioni di dolorosa accettazione della vita e d’ironia, sua arma di difesa. Rispetto ai suoi coevi simbolisti, Laforgue adotta un tono più popolare e canzonatorio, avvicinandosi a Corbière e Cros; malinconia, ironia, scherzo convivono il lui e nei suoi versi, così come il banale e il sublime, in un teatro in cui sfilano Pierrot e tramonti, lune e domeniche, e sullo sfondo sonoro s’odono immancabili organetti di Barberia e campane. Oltre che con i suoi Pierrot, finisce per identificarsi con la figura di Amleto (si veda anche le sue Moralità leggendarie), e sviluppa un rapporto drammatico con la figura della donna. Laforgue rimane infantilmente fermo alla fase pre-adolescenziale e vagheggia un ideale femminino di purezza. Il poeta costantemente oscilla tra desiderio ideale e fredde accuse ironiche alle donne, sulle quali infierisce mettendone in luce i difetti e l’anima vanitosa e civettuola.

Nessuna figura meglio dei Pierrot lunari dipinti nelle sue poesie rappresentano Jules Laforgue, la sua essenza e le sue contraddizioni. In poesia non esistono personaggi maggiormente autobiografici dei bianchi Pierrot che sfilano costantemente nei versi del poeta francese, etichettato talvolta come il più grande dei poeti minori dell’Ottocento francese, definizione alquanto ingenerosa vista la qualità dei suoi versi e l’influenza su autori del Novecento. I Pierrot già presenti nei Complaintes diventano una presenza rincorrente in Imitation de Notre-Dame la Lune selon Jules Laforgue con i tanti monologhi e lamenti alla luna e lo spleen divenuto ormai di moda in quel periodo, così come il suo dandismo si riflettono nella sua ossessione per la noia che divora l’esistenza, come nella serie interminabile di Dimaches, funeree processioni che ingrigiscono l’esistenza umana e ne sottolineano il malessere: «Fuggire? Ma dove andare con questa primavera?/ Fuori, domenica, niente da fare…/ E niente da fare nemmeno dentro…/ Oh! Niente da fare su questa Terra!...».


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il club di calliope IN PUNTA DI PENA La barriera tra feticismo e amore è inconsistente, incolore: coi volti fan tutt’uno le cose, e se ti trema una foto nella mano tremante, non sai dire fino a che punto sia carta e fino a quale altro punto carne. C’è chi serba ogni oggetto e chi distrugge lettere, certo che l’inchiostro muore prima e più d’altri segni che c’inflisse il tempo, rapido, in punta di pena. È difficile credere al solstizio come a un dispensatore di equilibrio: la fine di un dolore è già un inizio d’altro dolore? ai vecchi lo domando, senza più brio sulla veranda, e al cuore.

UN POPOLO DI POETI Sette ore di sonno Dalle due alle nove E raramente cambio posizione spesso è la stessa di chi aspetta di farsi sbiadire da un sogno Guardo tutte le mie fate Ascolto come rituale le mie canzoni preferite E l’idea rassicurante che la camomilla entri nel mio spirito imperituro forse mi fa arrendere all’abbraccio di quel noto Morfeo Lui mi canta dolce la nenia più vecchia che conosce.

Silvio Ramat Fabia Muscariello

LE COORDINATE DELL’ISPIRAZIONE POETICA in libreria

di Loretto Rafanelli

ome è possibile la creazione poetica? C’è un dio che consegna ai poeti una parola magica? C’è una luce segreta che «bagna» i loro occhi? Il tema, affascinante e misterioso, è quello dell’ispirazione, fin dall’antichità oggetto di profonda riflessione. Certamente, chiunque scriva o legga poesia si sarà interrogato su questo «demone» totale. Ci può essere di grande aiuto al riguardo un prezioso libro di Alberto Casadei (Poesia e ispirazione, Sossella editore, 90 pagine, 10,00 euro). Il saggio affronta l’argomento attraverso i contributi teorici di filosofi, studiosi (da Platone allo psicologo Ramachandran) e grandi poeti del passato; quindi l’autore cerca di individuare alcune nuove categorie interpretative. Egli sottolinea, co-

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creazione divina… la Commedia conduce sino all’ineffabile…») e Petrarca (con la sua «non ispirazione… l’io che rivolge a se stesso lo sguardo non può essere animato e sostenuto da una potenza superiore»); quindi, si sofferma, sull’epica pre-storica di Omero, sulla «metaforicità intrinseca» di Shakespeare, sulla «teatralizzazione allegorica» di Baudelaire, sul «simbolismo divino» di Hölderlin, ecc. Infine Paul Celan, sul quale pare riversare una notevole, giusta, considerazione, riprendendone la nozione che vede nell’opera un «progetto esistenziale», in cui il poeta «modella la sua vita». L’autore ritiene poi che sia indispensabile nel fare poetico, onde evitare «forme di narcisismo e di autoreferenzialità», tener conto di tre aspetti assai importanti: la svolta

Alberto Casadei affronta in un saggio il tema della creazione attraverso i contributi di filosofi e grandi poeti del passato, individuando nuove categorie interpretative me premessa, che la poesia costituisce una forma basilare del pensiero umano, evidente già nei popoli «primitivi», e che si è formata da un lato ricorrendo al pensiero mitologico e alla musica, dall’altro attingendo agli aspetti sacrali e magici. Ma è bene, aggiunge, non trascurare gli elementi «pre-logici e pre-sintattici che possono essere accettati nel discorso poetico e addirittura organizzarlo in profondità», e quelli biologici (si pensi alla relazione ispirazione-corporeità, «riempire e poi svuotare il petto d’aria, costituisce come tante volte sostenuto, la matrice di ogni ritmo»). Casadei traccia poi un percorso storicoletterario partendo innanzitutto dai «contrasti» teorici fra Dante (che «creando parole, ripete in qualche misura la

determinata da Heidegger con il suo «pensiero poetante»; la modalità interpretativa generata dalla psicanalisi («la poesia corrisponderebbe a movimenti inconsci che risultano però accertabili attraverso… i significanti, oppure attraverso l’immaginario…»); l’ambito linguistico-strutturalista e semiotico. Ma Casadei va oltre queste coordinate, suggerendo che «la poesia attuale… (possa) essere in grado di impiegare l’insieme delle componenti cerebro-mentali e culturali, nella loro reciproca interazione», e in tal modo, permettere di scorrere «oltre l’uomo attuale». Rilke diceva che il respiro diventa ritmo, ma oggi, l’ispirazione, sostiene infine l’autore, «potrebbe essere pensiero cognitivo che si estrinseca nel ri-creare il linguaggio».

È al tramonto che i morti vengono a trovarci, tra le mani i peccati da scontare, ai piedi il silenzio acre della terra. Appendono brina alle nostre porte, bianche al mattino e chiuse a tenere fuori la paura. È illusione il confine, la preghiera e l’acqua santa. Illusione fino a quando i morti saltano il fosso e s’accostano alle case di notte, per rubare cibo e scompigliarci i pensieri nello stomaco. S’aggrappano alla pietra per riavere un nome, una data certa, una voce che sia al mattino canto d’un gallo. Qualcosa che non sia solitudine d’ossa e pane bianco ammuffito: che noi vivi gettiamo, ma ancora per poco. Perché quando la fame bussa, anche la miseria diventa buona. Perché quando il dolore graffia, anche le ossa recano conforto.

Solitudine d’ossa e pane bianco Lorella De Bon

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


MobyDICK

pagina 14 • 10 ottobre 2009

mostre

icordo benissimo il giorno che ho deciso di recensire questo inesauribile e ultraricco volume Allemandi di strabenedette e magistrali fotografie di Gianni Berengo Gardin, consigliandolo come volume-strenna. Ma quando ho incominciato a risfogliarlo, a pensare di «beccare» qui e là qualche inarrivabile scatto di fisionomia miracolata, mi son sentito venir meno: le scelte, golosamente, erano troppe, inarrestabili, e non potevo stringerle, liquidarle col volume in poche righe. Forse sì, paradossalmente gli ho nuociuto, a livello di «strenna». Ma le righe eran così impari, così stupide, lì, d’innanzi a me, soltanto due o tre, stecchite, di fronte a questo impari calcolo al cospetto dell’incontenibile, dell’immensurabile, che ho deciso di nascondere il libro, non umiliarlo in modo così sfrontato e di tenermelo «caldo», per un’altra occasione. Non so se questa è così «sufficiente», le righe bastanti, ma certo l’occasione di vedersele tutte, queste foto meravigliose, schierate in una mostra, è da non farsi sfuggire. Suggerisce il curatore, Flavio Arensi, in un giusto ma esclusivistico inno alla «verità del vero» e della vita: «G.B.G. ha sempre fotografato le persone che non venivano fotografate». Qui però sono minime le immagini dedicate agli umili, ai reietti, agli scarti - in effetti - degli altri fotografi, che Berengo ama privilegiare, re incontrastati della loro nobilissima miseria. Ma s’incontrano qui soprattutto con i grandi e i famosi, da De Chirico a Warhol, da Peggy Guggenheim a Sutherland a Henry Moore (che meraviglia quell’immagine gigantesca e iper-semplice dei suoi occhiali, solitari, desolati, di scultore senza materia, e della sua canna, in assenza, posata su una seggiola da giardino. Degna di quella, storica, di Kertesz, delle lunettes di Mondrian). Da Cartier Bresson a Willy Ronis, perché ha fotografato anche i suoi colleghi più illustri: imbattibili i «ritratti» di Mulas, di Paolo Monti trionfante dentro uno specchio o di Basilico, con la sua cuffietta-camera oscura, che lo fa assomigliare a uno zingaro, accigliato e bellicoso. A dir le sue virtù, basterebbe non soltanto la definizione che gli ha regalato, come una coccarda, lo storico Italo Zannier, «il fotografo più ragguardevole del dopoguerra», ma il fatto che lo abbia citato nel volume The magic images. The genius of photografy from 1839 to present day, quell’altro mago dell’immagine, che è stato Cecil Beaton, che un grande come Bill Brandt lo abbia inserito nella sua mostra al Victoria and Albert e che, unico fotografo, Gombri-

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Più vero del vero…

Berengo Gardin di Marco Vallora

arti

ch lo abbia ricordato nel suo The image and the eye. Può bastare? Sì, ma qui incomincia già a latitare lo spazio e qualcosa bisognerà pur dire di questo magister umile, silenzioso, che si autofotografa con ironia sublime, come un bambino imbronciato, il primo giorno di scuola, con cravattino zelante e sfondo languido-rurale, molto Riso Amaro. Certo, anche quando fotografa i grandi (fulminante la «presa» di Calvino, folgorato in uno di quei suoi momenti inarrestabili di afasia balbettante, se pur piena, nervosamente, di cose da esprimere; o l’altro balbettio, bleso e nobiliare, di Bassani, immerso in una nube di fatuità, mentre «non» recepisce gl’incontenibili sprazzi di vitalità recitata di Soldati, miope, che accanto a lui firma un libro. O ancora la solitudine riottosa di Sciascia, le mascelle contratte, come in un duello allo spasimo), ebbene sono tutti iper-celebri, iper-riconoscibili, iper-loro, eppure, per Berengo, sono minuziosamente esseri qualunque, contadini della vita, «ritagli» bruti dell’esistenza, che proprio per questo hanno un’intensità dirompente, esplosiva, insostenibile, talvolta. E sono, comunque, micidialmente e bisbeticamente De Chirico, insopportabilmente Baj, proterviamente Plessi, sospettosamente Fellini (quel rispecchiamento alla fiamminga dei grandi occhialioni infantili, con il fastidioso mondo riflesso che gli rumoreggia intorno, e lui che affila felino le antenne), arrendevolmente Giò Ponti, istrionicamente Carlo Scarpa, sconfittamente Tancredi, hidalgamente Fontana, smarritamente Messina, dolcemente Basaglia (quegli occhi liquidi, perduti), ospitalmente Renzo Piano, mitemente Olmi, sfontatamente e vacuamente Fuksas, armanissimamente Armani e così via. Basta un nulla, a Berengo, un punctum elementare, come lo squillo d’un campanello: il ricciolo protervo di Dorazio, gli occhi spiritati di Vedova, che cammina per San Marco, occupata dagli artisti della Biennale ‘68, «portandosi via» la fotografia, la grande vecchia «signorina omicidi» Elisabeth Chaplin e la slavina del suo plaid, Ghizzardi in ginocchio davanti a un suo foglio da scolaro, la pettoruta prosopopea di Eco, Cascella sprofondato in un letto con cappello, a toglierlo dal mondo, Ungaretti e il teatro della sua millenaria vecchiezza. Ma si può essere più Moretti di così, più vero e disarmato di sé? Più trionfalmente sfinito di Music nel suo studio? La foto di gruppo di Aldo Rossi, Castiglioni, Mendini e Mari, nell’officina Alessi, tutti in tuta, è una imbattibile lezione di architettura.

Gianni Berengo Gardin. Reportrait, Orta san Giulio (No), Palazzo Penotti Ubertini, sino al 18 ottobre

In alto, Alberto Alessi, Achille Castiglioni, Enzo Mari, Aldo Rossi e Alessandro Mendini, Designer, Milano, 1989. Sotto, Giuliano Vangi, scultore, Pietrasanta, 1995

diario culinario

Guide 2010: vale ancora la pena comprarle? di Francesco Capozza ttobre, ormai da diversi anni, è il mese più atteso dai cuochi, dai ristoratori e dai gourmet di tutta Italia. Dal Trentino alla punta estrema della Sicilia è un gran vociferare attorno all’evento dell’anno: l’uscita delle guide gastronomiche per l’anno successivo. Nelle redazioni golose poi, è tutta una gara al photo-finish per uscire prima della concorrenza. Solo una, la «bibbia» pneumatica, la guida «Rossa» Michelin, non ha interesse a bruciare sul tempo le altre e uscirà, come ogni anno, solo a fine ottobre. Ma la domanda che in molti si pongono, e noi, a dire il vero, lo facciamo da tempo, è se davvero le guide dei ristoranti siano ancora credi-

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bili o se, piuttosto, abbiano lasciato il passo all’attualità e all’immediatezza di consultazione date da internet. E ancora: sono ancora attendibili le recensioni spesso fatte da «dilettanti allo sbaraglio» della nuova critica gastronomica? Un problema serio che il grande vecchio della cucina italiana, Gualtiero Marchesi, ha più volte sollevato: «Come può un palato normalissimo, e troppo spesso non allenato, giudicare i miei piatti?», si domanda da anni il divin Gualtiero. A questi dubbi, senza dubbio legittimi, si devono quest’anno sommare una serie di episodi che hanno in qualche modo turbato il mondo della ristorazione italiana. Innanzi tutto l’inchiesta portata avanti dalla trasmissione satirica Striscia la notizia sulla cucina molecolare,

nouvelle vague dilagante da tempo nelle cucine di mezzo paese. Inchiesta, quella di Striscia che ha portato anche la critica gastronomica a essere messa sotto accusa perché colpevole di essersi assuefatta a mode e tendenze che con la nostra cultura gastronomica hanno poco a che vedere. Poi la profonda crisi di uno dei colossi del settore: il Gambero Rosso prima ceduto a una nuova proprietà, quella dell’imprenditore Paolo Cuccia (cui ha seguito una brusca cacciata del fondatore del marchio, il giornalista Stefano Bonilli), con relativo cambio di direzione a guide - alberghi e ristoranti - già quasi chiuse. Da ultimo un fattore legato alla tempistica editoriale: le guide vengono sì presentate in ottobre (ieri è uscita quella de L’Espres-

so, il 26 quella del Gambero Rosso, il 31 la Michelin), ma sono chiuse in redazione prima dell’estate, quindi, stando alle lamentele di cuochi e lettori, mancano di un attento monitoraggio anche sui menù estivi e autunnali. È lecito, quindi, domandarsi se non sia più facile, attuale ed economico consultare, anziché le guide cartacee (oggi divenute dei veri e propri investimenti, costando non meno di 20,00 euro l’una) gli innumerevoli blog, siti specializzati e guide on-line messi a disposizione dalla rete. Una risposta non ci sentiamo di darla, certamente riteniamo che entrambi gli strumenti, guide e blog, vadano presi come semplici indicazioni di massima e sia meglio, piuttosto, affidarsi alla credibilità di chi il mestiere di cuoco e ristoratore lo fa da una vita.


MobyDICK

10 ottobre 2009 • pagina 15

moda

Tutte in mutande, in passerella e fuori

i voleva Suzy Menkez, temutissima e curiosamente pettinata critica di moda dell’Herald Tribune per dire quello che molti hanno pensato: troppo nudo alle sfilate di Milano, roba da veline, in sintonia con l’immagine televisiva allegrotta e disinibita di tante ragazze. Com’era ovvio, sono scattati i meccanismi di difesa, gli alti lamenti sull’invidia che il made in Italy suscita, specialmente in tempi di magri fatturati, poi tutto si è trasferito a Parigi, dove, Igor Chapurin ha stupito tutti con una desnuda Naomi Campbell in body di tulle nero e una strisciolina di stoffa color cipria drappeggiata sui fianchi. (Ma c’è chi se la ricorda, a una sfilata di Ferré, vestita soltanto di una collana). A questo punto, il problema non è soltanto italiano. L’eroina di Dior by John Galliano sembra uscita da un noir anni Quaranta: femme fatale con le culotte di pizzo sotto l’impermeabile alla Humphrey Bogart. Gli abiti di chiffon trasparente mostrano tutto: corsetti, pizzi, autoreggenti. I pepli della greca, per giunta femminista, Sofia Kokosalaki sono un sofisticato nulla, pensati più per scoprire che per coprite, il severo Yohji Yamamoto fa spuntare qua e là da minigonne e short una giarrettiera a vista, il resuscitato brand Madeleine Vionnet veste le sue ragazze con coppie di foulard. Jean Paul Gaultier gioca sul doppio senso della sua iniziale («il punto G») e manda in passerella una modella incinta con il reggiseno a siluro reso famoso da Madonna, la cartucciera e una guaina trapuntata: sarebbe la maternità sexy.

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architettura

di Roselina Salemi

Due modelli dalla collezione Armani

Corsetteria in tutte le salse, persino sui giubbotti di Jeans Levi’s, persino fra tute e salopette: una fatica, vestirsi tutti i giorni da Salomè! (Bisognerebbe avere qualche testa da reclamare, poi). Anche se qualcuno, Alberto Biani per esempio, prova a vestire le signore con giacche militari e pantaloni over, il vento dell’estate ha fatto volar via le sottane, e le signore scostumate trionfano. Un po’ più educata la Chanel di Karl Lagerfeld, che non abbandona mai la retta via del bon ton, ma le gonne restano cortissime e i tacchi molto alti, effetto bambola chic. E mentre the show must go on, perciò sfila di tutto, dal kimono prezioso di Miyake alle t-shirt impalpabili di Lanvin, dal delirio sperimentale di Martin Margiela ai tulle tagliati con la moto-sega di Victor&Rolf, senza dimenticare le dive e le principesse di Zuhair Murad fasciate da incredibili chiffon e taffettà con ricami dai bagliori metallici e costi astronomici, nessuno conta i vuoti del parterre e pochi, nello sforzo di stare allegri, si accorgono che dietro l’Opera, migliaia di persone stanno pazientemente in coda per comprare il cachemire low cost del magazzino japan Uniqlo appena aperto (golfini in venti colori a 50,00 euro) e la collezione supereconomica disegnata da Jil Sander (si chiama J+) con prezzi che al massimo arrivano ai 150,00 euro. È come se la moda avesse perso in parte la sua magia, la potente seduzione che induce a far follie per un abito. Alla fine, in passerella e fuori, restiamo tutti in mutande.

“O vulcaniello” buono di Renzo Piano di Marzia Marandola

ella piana di Nola, profilata dal Vesuvio, si è innestato un corrugamento tellurico, conformato a vulcano, che ospita un centro commerciale, progettato da Renzo Piano. Inaugurato per il Natale del 2007, subito battezzato Vulcano Buono, speculare scaramantico del temibile Vesuvio, il complesso esibisce una forma sorprendente e originale. Per tradizione infatti, i centri commerciali sono scatoloni informi, la cui immagine è affidata alla grafica dei rivestimenti. Non architetture dunque, ma volumi sen-

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za identità, squallidi come l’intorno, che spesso è un luogo dall’identità incerta, solcato da svincoli autostradali. Piano invece ha preso le mosse dal territorio, modellato dalla sagoma del Vesuvio, e dagli snodi auto-

stradali, interpretandone gioiosamente la vitalistica modernità. Di conseguenza il nuovo Vulcano, confidenzialmente «o vulcaniello», è una trascrizione in scala 1:50 del maestoso cono vesuviano. La pianta ellittica imprime chiarezza all’organizzazione dei negozi che, raggiungibili tramite un percorso anulare, sono raggruppati per blocchi, contrassegnati da colori che sfumano dal più chiaro al più scuro, sulla scala cromatica dell’arco-

baleno. In corrispondenza degli accessi radiali, la continuità della galleria anulare è interrotta da una piazzetta coperta: uno spazio verticale a tutta altezza che, definito da sottili pilastri metallici sfrangiati come palmizi, alloga i servizi. Ai 160 negozi, 25 dei quali dedicati alla ristorazione, distribuiti su una galleria anulare a due piani, si affiancano un albergo da 158 camere, un cinema con nove sale di proiezione, una palestra e un centro benessere. I parcheggi esterni sono ombreggiati da oltre duemila Pinus Pinea e Tilia cordata, essenze individuate da Piano fin dai primi schizzi di progetto. Identiche alberature fiancheggiano i viali radiali di accesso che raggiungono la piazza centrale. Un manto vivo di vegetazione composta da ben 350 mila essenze mediterranee: rosmarino, timo, salvia e ginestre, riveste le falde del Vesuvio Buono e fa rivivere i profumi della Campania Felix. Piano ama gli spazi collettivi, i luoghi dell’incontro e delle esperienze comuni, per questo ha posto nel cratere una piazza circolare di 160 m. di diametro: uno spazio raccolto, protetto dai venti d’inverno e ombreggiato d’estate, teatro di eventi festosi, di concerti e di giochi, che restituiscono alla folla dei consumatori il calore della comunità. La struttura costruttiva ordisce un dialogo sottile e armonioso tra l’esuberanza della natura vesuviana e le diverse tecniche della tradizione e modernità: lastre di Carparo nelle pareti radiali, cemento per le colonne e le complesse falde di copertura, sorrette, oltre che dalle colonne stesse, anche da pilastri arborescenti in metallo, come di metallo sono i pannelli colorati che, alternati a vetrate, schermano il fronte sulla piazza. I componenti metallici esibiscono un disegno esatto e raffinato che evoca la geniale meccanica di Jean Prouvé, l’indimenticato maestro francese di Renzo Piano.


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i misteri dell’universo

l Sole è una stella detta di seconda generazione in quanto, sulla base delle teorie correnti, si sarebbe formato non dalla condensazione di una nube primordiale costituita prevalentemente da idrogeno, ma da una nuvola prodotta dall’esplosione di una precedente stella, nella colossale forma di una supernova. Quindi conterrebbe anche elementi più complessi dell’idrogeno, a parte quelli che si formano nella sua fornace nucleare. Il funzionamento del Sole è stato un enigma per millenni. Secondo alcuni antichi, come discusso da Robert Temple nella monografia già citata in altre rubriche, The crystal sun, il Sole produceva energia collezionando radiazioni dallo spazio. Esistono varie teorie alternative a quella standard, che non risolve tutti i problemi, fra cui importanti sono quelli che vedono in effetti elettromagnetici la produzione almeno di parte dell’energia (Thornhill, Körteleviessy).

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La teoria standard è nata dopo lo studio dei processi quantistici che danno luogo alla formazione di nuclei più complessi a partire da quelli più semplici; lasciando da parte i padri fondatori della fisica quantistica (Schrödinger, Heisenberg,Von Neumann, Dirac…), il processo che avviene nel cuore del Sole è stato analizzato soprattutto dagli inglesi Fowler e Hoyle. Foyler fu premiato con il Nobel, vergognosamente negato a Hoyle a causa di altre sue teorie assai controverse. Conclusione del processo nucleare nel cuore del Sole è che, come lessi da ragazzino in un fascinoso libro di Gamow, ogni secondo circa 4 milioni di tonnellate di materia sono trasformate in energia sulla base della legge di Olinto De Pretto, E = mc^2 (ancora vergognosamente attribuita a Einstein). Questo processo genera elio dall’idrogeno e poi seguono elementi ulteriori a cascata. La perdita di 4 milioni di tonnellate al secondo sembra gran cosa, ma è quasi insignificante rispetto alla grande massa del Sole, sfera di circa un milione di km di diametro e massa di circa un milione di volte quella della Terra. I calcoli tuttavia indicano che, esaurendosi l’idrogeno e attivandosi altri processi, fra qualche miliardo di anni il Sole si espanderà inglobando i pianeti interni, fra cui la Terra. Un tempo un po’ remoto, anche alla luce delle prospettive di vita di maggiore durata che alcuni pensano realizzabile. E certamente ben prima l’uomo, se non si suiciderà con azioni belliche o per alterazione eccessiva dell’ambiente, potrà colonizzare altri pianeti, dove esistano condizioni per la nostra vita. La Terra ruota attorno al Sole su un’orbita debolmente ellittica, a una distanza media di 150 milioni di km, che definisce l’unità astronomica. La distanza dal Sole varia di circa 3 milioni di km nel corso dell’anno, pari a un 2%, corrispondenti a una variazione dell’apporto energetico di 4 decimillesimi, tale da non essere in pratica sentito, anche per gli effetti di inerzia del sistema termodinamico terrestre. Possiamo notare che siamo più vicini al Sole durante il nostro inverno boreale. Quindi l’emisfero australe, dove allora è estate, dovrebbe avere un’estate più calda di quanto avviene nell’emisfero boreale, il che non è vero, a causa di altri effetti climatici (e qui vediamo un’altra interessante indicazione di come il clima non abbia un comportamento ovvio). Il Sole interagisce con la Terra anche mediante gli elettroni da lui espul-

MobyDICK

ai confini della realtà

L’enigma Sole di Emilio Spedicato

Per le teorie correnti è una stella di seconda generazione, nata da una nuvola prodotta dall’esplosione di una precedente stella. La sua sfera ha un diametro di circa un milione di chilometri e una massa un milione di volte superiore a quella della terra. Ma il suo moto è molto complesso...

si, che poi sfuggono dalla galassia, e che costituiscono il vento solare. Da questi siamo protetti dal campo magnetico terrestre, la cui origine non è certa, i cui poli si muovono piuttosto velocemente, tanto che ai tempi della bussola e della radio la posizione del Nord magnetico veniva comunicata alle navi via radio. Alcuni anni fa il polo si è spostato di otto gradi in poche ore, causa una tempesta del vento solare che provocò anche un blackout di vaste proporzioni in nord America. Una inversione del campo magnetico terrestre potrebbe lasciare per un certo tempo la terra esposta al vento solare, con conseguenze anche gravi. Da qualche tempo è inoltre noto che il vento solare influenza la formazione di nubi a grandissima altezza, che, contribuendo in modo sostanziale all’albedo (riflettività) terrestre, influiscono fortemente sul clima, forse più degli affetti legati all’aumento di CO e metano… Il vento solare è prodotto in modo variabile dal Sole, con ciclo di 11 anni non del tutto compreso, e va relazionato anche con le esplosioni, le protuberanze, emesse dal Sole quando la sua carica positiva diventa eccessiva. Oltre che gli strumenti terrestri (pericolosi ovviamenti i cannocchiali non trattati, Eulero vi perse la vista, ma continuò per decenni a scrivere articoli dettandoli a uno scriba…), si sono inviate verso il Sole varie sonde spaziali, in particolare quella detta Soho, partita il 2 dicembre del ‘95 e giunta nel punto di osservazione il 14 febbraio 1996, dotata di dodici strumenti. La sonda ha confermato lo strano comportamento della fotosfera, che ruota meno velocemente all’equatore - in 26 giorni - che alle latitudini elevate - in 37 giorni. Ha misurato temperature anche di oltre un milione di gradi nella cosiddetta corona, esterna alla fotosfera dove non raggiunge i seimila.

Il Sole ha un diametro angolare di circa mezzo grado, quasi lo stesso della Luna, da cui può essere coperto completamente in caso di eclisse totale. Tuttavia osservazioni di secoli fa alla Specola Vaticana indicarono che non tutto il disco solare era coperto; e misure di oltre un secolo all’osservatorio di Greenwich hanno mostrato una diminuzione di circa 1% del diametro. Le teorie attuali non spiegano questo fenomeno, che resta citato nei testi in una nota come un’anomalia dovuta a errori di osservazioni. Ma forse sono le teorie, se non errate, incomplete, perché l’osservazione in astronomia è sempre il criterio decisivo. La maggioranza dei piccoli oggetti, quali comete, Apollo etc., in orbite attorno al Sole, sono molto sensibili alle perturbazioni gravitazionali anche dei pianeti, e, pur schiantandosi a volte su di essi, generalmente finiscono la loro vita inghiottiti dal Sole. Un evento abbastanza comune, difficile da osservare, ma sarà anche questo uno degli spettacoli straordinari che la natura ci offrirà. E ancora ricordiamo che il baricentro del sistema solare, punto fondamentale nell’analisi del sistema con tutti i suoi componenti, si trova di solito all’interno del Sole, ma nel caso che Giove e Saturno siano allineati dalla stessa parte diventa esterno fino a due diametri fuori dal Sole. Il moto del Sole attorno al baricentro è di una estrema complessità, chiarita solo da pochi anni, essendo composto di una fase deterministica e una caotica. Ancora da analizzare le conseguenze di questo moto.


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