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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

“Bastardi senza gloria” di Tarantino

QUENTIN

ILVENDICATORE di Anselma Dell’Olio

Q

uentin Tarantino, con il suo sesto lungometraggio Inglourious Basterds tolo internazionale di Quel maledetto treno blindato di Enzo G. Castellani del Tre 1977, un macaroni combat movie, nella definizione giapponese. Ma la sua (Bastardi senza gloria) ha colpito ancora. Autore autodidatta, il reexpertise non si ferma alla serie B. Ha una cultura enciclopedica del cigista-alchimista trasforma il vile metallo dei film di genere personaggi nema internazionale, da Stanley Kubrick a Sergio Leone, da Ser(spaghetti western, noir, poliziesco, guerra, splatter) in oro per i tre capitoli gio Corbucci a Monte Hellman, dalla nouvelle vague al cinedi serie A. Le iene, Jackie Brown, Kill Bill (parti prima e secondi un racconto in cui il regista da) Death Proof… sin dall’inizio i suoi film sono sempre ma espressionista tedesco, dalla produzione delle major a quella della bottega di Roger Corman; ma è la festati selezionati da festival di prestigio (Sundance, conferma la sua personalissima lice amalgama di generi e categorie che lo renCannes) e Pulp Fiction ha fruttato all’autore vamaestria e si rivela un benefattore de unico, la sua firma personalissima. Tanti cilanghe di riconoscimenti, tra cui un Oscar e un dell’umanità: per saper esorcizzare neasti coccolati «citano» in punta di pellicola insigni Golden Globe per la sceneggiatura e la Palma d’Oro ma Tarantino riesce a creare qualcosa di nuovo, di per miglior film. Tarantino è un ragazzone goffo, scarmiautori, l’orrore dell’Olocausto sorprendente da materiale altrui, senza fermarsi agli omaggi gliato e geniale che lascia la scuola a quindici anni per studiare con uno sberleffo colti, calligrafici e sterili, e senza annoiare il pubblico pagante. in proprio la sua vera passione. Invece di iscriversi a una scuola di cinema, s’impiega in un videonoleggio con vasto archivio a Manhattan Beavirtuale continua a pagina 2 ch, anonima cittadina della vasta periferia losangelina. Il nuovo film copia il ti-

9 771827 881301

91003

ISSN 1827-8817

Parola chiave Autunno di Gennaro Malgieri Antonio Tabucchi nel regno di Crono di Maria Pia Ammirati

NELLE PAGINE DI POESIA

Il Faustus di Marlowe, una meravigliosa tragedia della gioventù di Roberto Mussapi

Calvino fondatore della Modernità di Franco Cardini La Recherche di Cesare Brandi di Giovanni Piccioni

Matematiche dello sguardo di Marco Vallora


quentin il

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vendicatore

segue dalla prima

da rabbino in Israele.) Minochet, un attore francese non di primo piano, è anche lui prezioso nel ruolo breve ma decisivo dell’agricoltore che nasconde i Dreyfus, una famiglia ebrea. Minochet emana la giusta vibrazione di terrore virilmente represso, che crea nel pubblico lo stato d’animo d’angosciosa attesa, stabilendo subito il tono del film. La straordinaria sequenza d’apertura finisce con il tradimento di LaPadite, il massacro degli ebrei nascosti e la fuga dell’Eroina, la diciottenne Shosanna (Mélanie Laurent), l’unica Dreyfus a salvarsi dal massacro. Sarà lei a sfruttare un’occasione unica, quattro anni dopo a Parigi, per vendicarsi. Il Secondo Capitolo presenta la banda dei «Bastardi», una squadra speciale di soldati ebrei volontari, al comando del Vendicatore, un Brad Pitt laconico e spietato. Molti nomi del film commemorano attori di genere del passato, come il Generale Ed Fenech (Mike Myers, attore di genere del presente) o il tenente Aldo Raine (Pitt) che ricorda l’attore italoamericano Aldo Ray (in origine DaRe), un torello biondo nei film del dopoguerra, sex symbol delle fan dal palato non banale. Più star che attore, Pitt trova una chiave interpretativa non ignobile all’ombra ingombrante del Landa di Waltz. Il suo gruppo di uomini in missione (altro genere omaggiato) ha l’ordine di seminare il terrore tra i nazisti, collezionando cento scalpi oguno («Voglio i miei scalpi!» tuona) massacrandoli a colpi di mazze da baseball, per massimo splatter e gore. Si lascerà sempre un unico superstite per fare da testimone della loro efferatezza; sarà liberato solo dopo che una svastica gli sarà incisa sulla fronte con un coltello da caccia.

Il tema centrale dei suoi film è la vendetta, studiata e programmata per ripagare imperdonabili torti subiti. Le opere d’ingegno hanno spesso (sempre?) al loro centro una sorta di esprit de l’escalier, il desiderio di cambiare l’equilibrio di potere nel passato, per castigare i malfattori e compensare le vittime. Questa è la fantastica intuizione di Federico Fellini nei due film che lo hanno incoronato papa del cinema: La strada e Le notti di Cabiria. Nel suo inconfondibile, inimitabile sguardo pietoso, dolente, comico e grottesco sulle vite di due piccole donne-bambine in balia di adulti-orchi, Fellini si fa avvocato difensore dell’infanzia vulnerabile. Gelsomina e Cabiria, sono lui. Quale bambino, anche privilegiato, non è stato sgridato, strattonato, maltrattato, brutalizzato solo perché è là, e perché chi lo ha in cura non paga pegno per lo sfogo su un incolpevole impotente? L’arte popolare del cinema è uno strumento incomparabile per regolare i conti col destino.

L’italoamericano qui metabolizza presunti torti e ferite adattando gli stilemi semplici e forti del combat movie di serie B, con tale cura, inventiva e affetto da passare di categoria senza tradire quella d’origine. Diviso in capitoli, il racconto ha tre protagonisti: l’Eroina, il Persecutore e il Vendicatore. Il primo capitolo, a scanso d’equivoci, s’intitola «C’era una volta, nella Francia occupata dai nazisti…». S’introduce per primo il cattivo, detto «il cacciatore di ebrei». Il film decolla dalle prime scene, semplicemente magnifiche. In una splendida giornata di fine estate nella campagna francese, il colonnello delle SS Hans Landa (Christoph Waltz) arriva in un sidecar al casolare di Perrier LaPadite (Denis Menochet) con un gruppo di soldati. Il Landa di Waltz, un attore austriaco poco noto finora (ha vinto la Palma d’oro come miglior attore a Cannes e scommettiamo che vincerà l’Oscar) è l’insuperabile summa di tutti i nazisti del cinema, senza sfiorare la caricatura. Con una gravitas da incantatore di serpenti, il serafico Persecutore emana un’aria di minaccia incombente: la calma prima della bufera. Poche volte nella storia del cinema si è visto un’interpretazione così perfetta, collimante: l’attore sparisce dentro il personaggio a prima vista. Alle Anime Belle della Cultura Alta che accusano il regista di essere un incolto che deprezza l’Olocausto (il critico Daniel Mendelssohn) abbassando gli efferati ebrei vendicatori del film «allo stesso livello dei nazisti», si raccomanda il monologo da brividi nella schiena di Landa sull’analogia tra ebrei e topi di fogna, che vale tutto Schindler’s List, altro che lesa Shoah. Il lutto si elabora in tanti modi, caro Mendelssohn, e se «l’ignorante» Tarantino ci permette di esorcizzare per qualche ora l’orrore dell’Olocausto con uno sberleffo virtuale, anziché disperarci, è un benefattore dell’umanità. (N.B. Una nota gustosa della biografia di Waltz: Leon, uno dei quattro figli del «perfetto nazista», studia

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

BASTARDI SENZA GLORIA GENERE AZIONE DURATA 160 MINUTI PRODUZIONE USA - GERMANIA 2009 DISTRIBUZIONE UNIVERSAL PICTURES REGIA QUENTIN TARANTINO INTERPRETI BRAD PITT, ELI ROTH, MICHAEL FASSBENDER, CHRISTOPH WALTZ, DIANE KRUGER

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

In alto, alcune scene del film. Sopra il regista Quentin Tarantino

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via di Santa Cornelia, 9 • 00060 Formello (Roma) Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938

Nel terzo capitolo Shosanna, che ora gestisce un cinema sotto il nome ariano di Emanuelle Mimieux (in omaggio a Yvette Mimieux, stellina bionda nella Hollywood degli anni Sessanta-Settanta) accetta di ospitare l’anteprima di un film che esalta un eroe di guerra tedesco, in presenza dello Stato maggiore del Terzo Reich, Goebbels e Hitler compresi. Così nasce il complotto d’incendiare la sala con tutti dentro, anticipando di un anno la fine della guerra. I Bastardi di Raine si uniscono a una spia inglese paracadutato in zona per l’evento, un critico esperto di cinema tedesco (Michael Fassbender, ottimo) travestito da ufficiale nazista. Incontrano in una birreria Bridget von Hammersmark (Diane Kruger, di colpo bravissima, epigone degna di Marlene Dietrich e Hildegard Knef), una famosa attrice tedesca spia degli alleati. La sequenza nella taverna evoca un insieme di scene classiche. È un po’ lunga ma molto gustosa, e siamo solo a metà film, che dura due ore e mezza senza mai stancare. Cogliere le chicche cinefile non è essenziale per godersi il film: sono un di più per i fanatici. Si può vedere e rivedere (l’abbiamo fatto) e divertirsi ogni volta. Se Tarantino «non è colto», nell’accezione di Mendelssohn, ne ha a sufficienza per deliziarci con un popcorn movie d’essai come forse non abbiamo visto mai.

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parola chiave

autunno è la stagione del silenzio. I clamori dell’estate sembrano lontanissimi. E, giorno dopo giorno, s’affollano nell’anima dolcissime note di quiete accompagnate dalla campagna che muta colore, dagli odori che si fanno più aspri, dalla terra che scurisce dopo i primi piovaschi, dalla raccolta nell’intimità delle memorie dissipate un poco durante i mesi caldi. Si scrutano dietro i vetri i cambiamenti impercettibili, ma costanti, di settimana in settimana, che intervengono nei comportamenti minimi di uomini e donne di qualsiasi età e ogni persona che cade sotto la nostra attenzione ci si chiede come stia vivendo il «nuovo inizio».

L’

E già, perché di questo si tratta. Non tutti la penseranno così, ma per me l’autunno è sempre stato il cominciamento di qualcosa e, insieme, il riannodarsi di tanto altro che si era sfilacciato. I progetti, per esempio, li ho sempre disegnati in questa stagione di raccoglimento. E il primo dell’anno continua a essere il primo giorno d’ottobre perché quando ero bambino, adolescente, ragazzo la scuola riapriva i battenti in questa data e tutto riprendeva, tra i banchi, il corso del tempo che mi appariva naturale dopo la pausa estiva perfino troppo lunga e noiosa, oltre che faticosa da sopportare quando il sole sbiadiva, le giornate s’accorciavano e fuggivano più velocemente. D’autunno, quando i pomeriggi tiepidi cedono improvvisamente alle serate fredde, è naturale pensare alla mutevolezza della vita, alla provvisorietà che ne costituisce l’essenza e perdersi nel cielo che imbruttisce quasi con allegria, accettando fatalisticamente il destino che ci è riservato. Non a caso nella stagione delle foglie morte, la memoria ritorna anche agli immemori di professione si potrebbe dire, ed è il giorno in cui si ricordano i morti, la vita passata delle persone care o solamente conosciute. Un modo, l’onore che gli si reca, per riallacciare rapporti tra l’aldiqua e l’aldilà che costituisce, in fondo, l’essenza del nostro passaggio guidati o protetti (fate voi) per chi crede ovviamente, dagli Angeli che vengono celebrati, nella tradizione cristiana, il secondo giorno d’ottobre, proprio quando l’autunno, dopo le prime incertezze, diventa più rigoroso, meno accondiscendente con le speranze che dispiegano i semplici tra la fine della vendemmia e l’inizio della raccolta delle olive. Agli Angeli si raccomandano i bambini. E, non so perché, nella Messa che seguo, mi capita sempre di rilevare sorrisi ancorché appena accennati, per tutta la funzione, sul volto delle mamme che tengono per mano i loro figli. L’improprio paragone con l’estate è inevitabile. D’estate, non si ride con il cuore; d’autunno si ride con lo spirito. E con lo spirito si piange sulle tombe dove riposano i ricordi di vite intense, anche quando brevi, vissute all’insegna del ritorno. C’è questa credenza che attraversa l’autunno e ci predispone all’arrivo della stagione fredda e con essa del Natale. Tutto, si pensa non senza ragione, deve prima o poi ritornare. È un sentimento, questo del ritorno, che mi è entrato nelle carni fin da quando ascoltavo, davanti al camino, nelle sere d’autunno appunto, storie vere e

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AUTUNNO Per molti è un nuovo inizio. È come se il Tempo, dopo la pausa estiva, riprendesse a fluire con i banchi di scuola che si ripopolano. E la natura, che promette apparentemente morte donando frutti dai sapori antichi, prepara invece la rinascita...

Il sentimento del ritorno di Gennaro Malgieri

Con la festa di San Martino si entra in un’altra dimensione. Si spezza in casa il pane raffermo e lo si cucina con le verdure selvatiche di campo insieme con i fagioli, il tutto innaffiato con l’olio nuovo. Ci si promette di approssimarsi al Natale in un certo modo, anche se quasi mai poi avviene... leggende, fatte rivivere con levità dalle mie nonne, dalle mie zie, spesso da vecchi contadini che ci facevano visita recando con loro i primi frutti autunnali colti nelle nostre campagne, che ci sbalordivano proiettandoci in dimensioni antiche, tramandate oralmente di generazione in generazione, con la narrazione di eventi che sullo sfondo dell’autunno si erano snodati per i monti e per le valli della mia terra. Il profumo del mosto saliva dalle cantine, il primo olio appena sgorgato dalle cannelle del frantoio dava fragranza al pane abbrustolito sulla brace, mentre le donne di casa s’affaccendavano per preparare l’umile domani, ma quanto saporito, fatto di pasti poveri e di avvenimenti ordinari dei quali avverto, nella complessità di una vita che va consumandosi, la nostalgia struggente che talvolta non mi fa stacca-

re lo sguardo dal cielo che ingrigisce, dagli alberi che ingialliscono e si spogliano, dalla natura che promette apparentemente morte mentre prepara la rinascita, come nel gioco dell’eterno ritorno che tanto tempo fa un filosofo solitario faceva tra i pastori dell’Engadina. Su per le colline che attraverso, oggi l’autunno ancora mi parla, con voce sempre più flebile, difficile da udire talvolta perché coperta dal chiasso infernale di meccani che non rispettano il Tempo, distolgono la Ragione, distraggono l’Anima. Eppure, nonostante tutto, nel frastuono e nel tripudio di volgari danzatori del nulla, là, su quelle colline un po’ rosse, un po’ giallastre, un po’ nude, incontro ogni anno San Martino. Vi chiederete come faccio. Non lo so neppure io. So soltanto che è da più di cinquant’anni che accade l’11

di novembre, la sua festa, quella di patrono del mio paesello. Non mi domandate come sia arrivato da Tours, in Francia, nel profondo Sud della penisola, perché non so darvi una risposta. So soltanto che da bambino e ancora oggi, senza vergognarmene come non se ne vergognano i miei compaesani, partecipo a una fiera, nel giorno in cui si festeggia il Santo, nella quale si trova di tutto, anche ciò che nei fornitissimi e anonimi supermercati che ci assediano non compare sugli scaffali. Prodotti artigianali, spesso costruiti con le medesime tecniche di cento e più anni fa; frutti della terra che non vanno per la maggiore; utensili ricavati da tecniche contadine, vuoi da usare in casa, vuoi nei campi per arrivare laddove le mostruose macchine coltivatrici non arrivano. E le sementi, le stoffe, i cappelli, le sedie impagliate, gli immancabili ombrelli che è d’obbligo acquistare prevedendo le piogge abbondanti dell’inverno… Ecco, con la festa di San Martino si entra in un’altra dimensione. Si spezza in casa il pane raffermo e lo si cucina con le verdure selvatiche di campo insieme con i fagioli e il tutto, un pasticcio dal sapore straordinario, innaffiato con l’olio nuovo. Ci si promette di approssimarsi al Natale in un certo modo, anche se quasi mai poi avviene. Si fanno i conti di quanta legna o carburante occorrerà per riscaldarsi. E si aspetta così, all’imbrunire, la fine della festa del Santo dei poveri, a cui diede il suo mantello, consegnandoci all’inverno finalmente che meteorologicamente, ma soprattutto spiritualmente è già arrivato. Con le noci e le castagne, naturalmente. E l’ultima melagrana rimasta in mezzo al tavolo in cucina a ricordarci i rossori dell’estate e le promesse mantenute dell’autunno trionfante. Ognuno ha le sue passioni. Io amo la terra che guardano il cielo, le stelle, e immaginando ciò che non si vede. D’autunno è più forte il sentimento di appartenenza a questi elementi della natura che si insinuano nell’animo umano. Mi sono chiesto più volte perché accade. E la sola risposta che ho potuto azzardare, a molti può apparire bizzarra. Le stagioni, mi sembra, sono la materiale epifania dello spirito del Tempo e del Mondo. Esse scandiscono la vita e l’abbracciano. Siamo noi stessi proiettati fuori da noi a costruirle vedendo con gli occhi dell’anima ciò che nessuna creatura percepisce se non in maniera istintiva ed elementare. Oggi, l’autunno è radioso mentre scrivo in una città del nord Europa. E i canali che l’attraversano prima di gettarsi nel grande fiume recitano una nenia dolce come questo ultimo sole che si appoggia alla finestra. Verrà tra poco il tramonto, ma nella notte che s’allunga non dispererò di trovare un domani altrettanto radioso anche se, quasi sicuramente, non ci sarà il sole. È l’autunno, stagione di incertezza, stagione della provvisorietà, come l’esistenza terrena. Ma anche come la Bellezza: si sa che sfiorisce, però quando accadrà il suo ricordo terrà vivi sentimenti ed emozioni. Memorie, soprattutto. Come quelle che giocano a nascondersi e a riapparire tra le betulle che si spogliano con pudore.


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cd

musica

Crepuscolare e rétro, è il miglior

Richard Hawley di Stefano Bianchi gni tanto, per fortuna, ci sono dischi che ti fanno star bene. Che ti riconciliano con la vita, mentre li ascolti. E allora sì, che percepisci quel senso di serendipity che ti coglie quando scopri una cosa imprevista mentre ne stavi cercando un’altra. Bene. Truelove’s Gutter è uno di quei dischi. Il migliore di Richard Hawley. Il quale, peraltro, non s’è mai sognato di scrivere brutte canzoni ma un mucchio di belle, racchiudendole in Late Night Final (2002), Cole’s Corner (2005), Lady’s Bridge (2007) e altre gemme contrassegnate da stile, misura, eleganza. Quarantadue anni, Richard Hawley è nato a Sheffield ma ha tutta l’aria dell’americano sbucato fuori dai Fifties, con quei capelli inzuppati di gel e gli occhiali neri alla Roy Orbison. Già sessionman fra i più corteggiati d’Inghilterra (ha suonato la chitarra per Robbie Williams, Beth Orton e le All Saints; collaborato con Nancy Sinatra e condiviso il lavoro con Nellee Hooper per la colonna sonora del film Romeo + Juliet di Baz Luhrmann), prima di diventare solista ha militato nei Longpigs e affiancato Jarvis Cocker nei Pulp, alla ricerca del miglior «popcabaret» possibile. Se Cocker è un narciso, lui sceglie di restare un

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in libreria

passo indietro rispetto alle luci dei riflettori. Molla i Pulp e decide di fare l’outsider, architettando melodie e melanconie che potrebbero appartenere al repertorio di Johnny Cash, Frank Sinatra e dell’Elvis Presley di Are You Lonesome Tonight?. Già, Elvis the Pelvis: mandato giù a memoria, quand’era adolescente, come il canzoniere country di Roy Orbison. Per sognare, nel buio dei sobborghi di Sheffield, una luminosa scheggia d’America. Ma oltre alla bontà della penna compositiva, Hawley è gratificato da una voce calda e pastosa: da nuovo Scott Walker, o se preferite nuovo Iggy Pop (quello dell’ultimo Préliminaires, impostato su registri bassi). Quest’ugola sublime da moderno crooner, riempie le storie crepuscolari di Truelove’s Gutter («In gran parte autobiografiche, ma anche di amici e persone a me particolarmente care. Esposte non con crudeltà, ma sforzandomi di comprendere ogni individuo anziché giudicarlo») facendosi sedurre da una chitarra, da un volteggiar d’orchestra, dall’accurata scelta di strumenti «rétro» che con audacia sposano la pop music: il Cristal Baschet (messo a punto nel 1952 da Bernard e François Baschet) che produce suoni dall’oscillazione di

mondo

cilindri di vetro; la Glass Harmonica (1770, Benjamin Franklin), versione meccanica dei «bicchieri musicali»; il Waterphone (tardi anni Sessanta, Richard Waters), che fa vibrare con un archetto cilindri d’ottone fissati a una base riempita d’acqua; l’Onde Martenot (1928, Maurice Martenot), antenato elettronico del sintetizzatore. Il tutto, messo al servizio di queste otto canzoni perfette: As The Dawn Breaks, incantevole acquerello melodico che introduce le vellutate orchestrazioni (a un soffio da Burt Bacharach) di Open Up The Door; Ashes On The Fire, a tempo di valzer, che materializza il country & western caro ad Hank Williams; Remorse Code, che ha il medesimo piglio intimista della Everybody’s Talkin’ di Harry Nilsson; l’accoppiata struggente, melanconica e spettrale di Don’t Get Hung Up In Your Soul e Soldier On; il violino e il violoncello di For Your Lover, Give Some Time che tratteggiano stati d’animo alla maniera di Jacques Brel, Georges Brassens e Serge Gainsbourg; il crescendo degli undici, epici minuti finali di Don’t You Cry. Meno male, che esistono ancora dischi così. Richard Hawley, Truelove’s Gutter, Mute/Emi, 18,90 euro

riviste

EDOARDO, CANTORE DEL BOOM

LA SECONDA VITA DEGLI SPANDAU

MITI E RITI DEI MINSK

«S

uccessi come Abbronzatissima e Con le pinne fucile ed occhiali sono stati decretati dal pubblico, da un’onda spontanea di entusiasmo e voglia di ricordare il simbolo delle vacanze. Il segreto era fotografare la realtà, raccontare quello che si vedeva e si sentiva passeggiando tra gli stabilimenti». Figlio del poeta futurista Alberto, e cugino dell’attore

I

ndimenticati protagonisti degli anni Ottanta, grazie a brani intramontabili come Through the barricades e Gold, gli Spandau Ballet avevano annunciato nei mesi scorsi l’attesissima réunion ai giornalisti convocati a bordo della storica Hms Belfast ormeggiata sul Tamigi. E a chi malignava sull’ennesima operazione nostalgia messa su in fretta e furia per motivazioni com-

ono convinto che negli esseri umani risiede un impulso che li spinge a sperimentare qualcosa di più grande del proprio sé. Prendere parte a un rituale - che può essere anche il creare e partecipare alla creazione e performance musicale - correre intorno al fuoco, celebrare un antico rito occulto, partecipare a un raduno religioso: tutti questi impulsi

Enzo Giannelli racconta la storia di Vianello, artista che fotografò vizi e virtù degli italiani

Dopo la réunion e vent’anni di silenzio, Gary Kemp e soci annunciano un nuovo album di inediti

Su ”kronic.it” una bella intervista a Bennet, voce della psichedelica metal band americana

comico Raimondo, Edoardo Vianello ha saputo coniugare nella lunga carriera le virtù di entrambi. Comunicativo e sempre attento a miti e riti degli italiani, Enzo Giannelli racconta la sua storia in Edoardo Vianello - Il re Mida dell’estate (Curcio musica, 224 pagine, 32,00 euro). Arricchite dalle testimonianze di molti nomi celebri che hanno lavorato con lui, artisti dello spessore di Mina, Amedeo Minghi, Rita Pavone e Franco Califano, le pagine di Giannellli delineano il ritratto di un trascurato esponente della cosiddetta «Scuola romana», scanzonata e briosa, che in controluce, raccontò l’Italia del boom.

merciali, il chitarrista del gruppo, Tony Hadley, aveva riservato una frase sibillina: «Non abbiamo dimenticato le vecchie canzoni e le riproporremo, ma il nostro sarà un nuovo inizio». Detto fatto, perché il 9 novembre, in contemporanea con il lancio del singolo Only When You Leave, Gary Kemp e soci danno alle stampe un nuovo album di inediti, ancora senza titolo. A venti anni da Heart Like a Sky, che segnò il declino della band britannica ma che fu vendutissimo in Italia, tornano dunque i talentuosi artisti che attraversarono indenni il New Romantic.

provengono da un luogo comune situato nella psiche umana. Il desiderio è quello di evocare un’esperienza che trascenda il sentiero del quotidiano». Christopher Bennet, chitarrista e cantante dei Minsk, presenta così l’ispirazione ritualistica della band americana in una bella intervista su kronic.it. Nato nel 2002 in omaggio all’omonima città russa incendiata e risorta dalla ceneri, il gruppo di Bennet ha di recente pubblicato With Echoes in the Movement of Stone. Autori di un metal psichedelico, un vero sottobosco di sonorità oscure in bilico tra la meditazione e il furore, i Minsk indagano con acume le traversie dell’animo umano.

a cura di Francesco Lo Dico

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zapping

Lunga vita ai Muse TAMARRI DOC di Bruno Giurato Muse sono dei tamarri, su questo non c’è dubbio. E nel caso ve ne fosse rimasto qualcuno, vi invitiamo ad ascoltare il loro singolo, che in questi giorni ci coventrizza le animelle da qualsiasi apparecchio dotato di altoparlanti. The Uprising è la quintessenza della tamarraggine. Un tempo in 12/8 stile giga, che fa Cure degli anni Ottanta (anni in cui la tamarraggine trionfava, anche sotto forma di cinturoni da paninaro e piumini Moncler, in fondo il gallo sambabilino è il bordo hi end del periferico, i due modelli mitici si incrociano come Apollo e Dioniso), una confezione sonora paillettata, un melodia finto neoclassica. Vari spaccati di tamarraggine sono i brani del nuovo disco The resistance. E una bella, vitale botta di tamarraggine è stata l’apparizione dei Muse a Quelli che il calcio. Per protesta contro la Ventura che non li ha lasciati suonare dal vivo, i nostri tamarrissimi Muse (l’aggettivo a quanto pare deriva dall’arabo Tamar, venditore di datteri) hanno seguito il playback, ma si sono scambiati gli strumenti. Alla fine la Simo nazionale ha pure intervistato il batterista prendendolo per il cantante. Insomma la tipica situazione Rai. Solo da mamma Rai si inquadra sempre lo strumentista sbagliato e durante l’assolo di chitarra si vede il bassista. Niente di scandaloso. Qui bisogna notare solo che il vero tamarro (così il Sabatini-Coletti: «Giovane provinciale o di periferia che si sforza di adeguarsi ai modi di vita cittadini, ma in maniera eccessiva, volgare») porta con sé una carica che fa emergere la tamarraggine latente di quanto sta intorno. Quindi lunga vita ai Muse e alla loro forza vitale, nonostante il bombardamento di The Uprising.

I

teatro

Esperimenti con l’ipnotizzatore di Enrica Rosso n oak tree di Tim Crouch, Una quercia nella traduzione italiana di Luca Scarlini.Titolo che prende spunto da un’opera sibillina risalente al ‘73 del britannico Michael Craig-Martin esposta alla National Gallery of Australia (un bicchiere d’acqua appoggiato su una mensola; accanto al bicchiere un testo che enuncia la percezione del bicchiere d’acqua in quanto quercia). A portare in scena questo testo del giovane autore-attore inglese è l’Accademia degli Artefatti per la regia di Fabrizio Arcuri. Già il luogo in cui avviene la rappresentazione merita un discorso a parte; in primis perché la collaborazione al progetto è firmata dal Rialto Santambrogio - che avrebbe dovuto accogliere lo spettacolo e che al momento non può ancora contare sulla nuova sede ma esclusivamente sulla solidarietà degli altri spazi teatrali per non mandare in fumo la stagione; e perché il Teatroinscatola sviluppa l’ipotesi di uno spazio teatrale di pregio assorbito in un paesaggio urbano di non particolare fascino. Già studio d’arte negli anni Matteo Angius Sessanta-Ottanta, frequentato da numerosi artisti (da Turcato a Guttuso…), assume nel 2004 la sua attuale funzione teatrale: un contenitore insonorizzato a forma di parallelepipedo essenziale nella sua offerta di sintesi spaziale. Il testo qui presentato si inserisce nel progetto Ab-uso che scandagliando il tema della comunicazione esplora l’esperienza del vissuto nel suo continuo evolvere perennemente in bilico tra realtà e finzione. La scelta della drammaturgia contemporanea si rivela fondamentale per questo tipo di passione e An oak tree in particolare, risulta essere per tema e struttura irrinunciabile veicolo immaginifico supportato da una scrittura fluida e asciutta. Un «ca-

A

novaccio» ideale per sperimentare e mettere a frutto la lezione di Pasolini cara ad Arcuri: «Gli attori e il regista non vogliono dare scandalo agli spettatori, ma con loro è fuori che bisogna darlo». In pratica siamo chiamati a partecipare alla dimostrazione di un ipnotizzatore in cui si sovrappongono diversi piani di lettura. Tre gli interpreti che si alterneranno nel corso delle repliche nel ruolo dell’ipnotizzatore: Matteo Angius, Gabriele Benedetti, Pieraldo Girotto. Ognuno di loro condividerà la scena con un attore-ospite, ogni sera diverso, ignaro del copione, che riceverà, in diretta, istruzioni. La serata del 29 settembre era condotta da Matteo Angius, luminoso, istrionico, energetico, forse eccessivamente preoccupato di vestire le pause, che ha ospitato la sapiente indolenza di Lorenzo Lavia. In scena succede tutto e il contrario di tutto in una ardita costruzione registica che trascende il senso del rappresentare. La serata si rivela essere un’occasione speciale per spettatori che non sanno stare al loro posto: servita da un testo che è un coltello a serramanico pronto a trasformarsi in arma letale, la rappresentazione svincola gli interpreti da qualsiasi giogo e li sospende, per un’ora e un quarto, in balia uno dell’altro, costretti a sperimentare sotto ai nostri occhi la carne viva del loro rapporto in continuo reversibile scambio. Un work in progress con uno scheletro d’acciaio, uno spettacolo da vedere e rivedere, anzi ogni sera una nuova esperienza da incontrare e collezionare per cogliere la straordinarietà del progetto nel suo specifico mutevole senso.

An Oak Tree, Accademia degli Artefatti, Roma, Teatroinscatola, fino all’11 ottobre, info: www.teatroinscatola.it - tel: 328.6666038

jazz

Da Sonny Rollins a Diana Krall, Roma a suon di stelle di Adriano Mazzoletti isogna dare atto a Mario Ciampà, direttore artistico del Roma Jazz Festival, di aver ideato per il 2009 una edizione che andrà in scena dall’8 al 30 novembre, il cui livello è di gran lunga superiore e interessante fra le altre manifestazioni che in questa calda estate romana l’hanno preceduto, con la sola eccezione del Roma Jazz’s Cool organizzato dal St. Louis Music School. Ma vediamo il programma che gli appassionati potranno seguire per diciotto sere all’Auditorium Parco della Musica. L’idea di Ciampà di avvalersi per il festival di quest’anno della collaborazione delle etichette discografiche, americane, europee, italiane più rappresentative per dar vita a un cartellone che come vedremo presenta molti motivi di interesse, è innovativa. È la prima volta, infatti, nella storia dei festival e non solo italiani che le case discografiche di jazz, sia major che indipendenti, vengono

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ufficialmente invitate a contribuire, con i loro artisti, all’organizzazione di una manifestazione la cui importanza è indiscutibile. Ricordiamo che il festival del jazz di Roma esiste da oltre mezzo secolo. La prima edizione ebbe luogo fra il 25 e il 29 ottobre 1956 al Teatro Quirino organizzata dal Jazz Club Roma. Se nell’ambito della musica di consumo, la collaborazione ufficiale con le case discografiche è prassi consolidata da tempo immemorabile, nel jazz ciò non era mai accaduto. Presentato dalla Ecm, il festival sarà inaugurato da Stefano Bollani che, con il suo Danish Trio, ha pubblicato recentemente Stone in the Water, un disco che ha avuto grandi apprezzamenti sia in Europa che negli Stati Uniti. Il giorno successivo, 9 novembre, la So What Band, presentata da Sony Music, riproporrà la musica immortale di un disco, inciso nel 1959, da Miles Davis. Quel Kind of Blue di cui quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario che è stato al centro di molte iniziative e di cui

abbiamo parlato in una delle scorse rubriche. Considerato forse il più bel disco di Davis non è certamente il più bel disco di jazz in senso assoluto, come da più parti viene presentato. Del sestetto di Davis con John Coltrane, Cannonball Adderly, Wynton Kelly, Bill Evans, Paul Chambers, l’unico superstite è il batterista Jimmy Cobb che presenterà un complesso di tutto rispetto con Wallace Roney, Javon Jackson,Vincent Herring, Larry Willis e Buster Williams. L’11 sarà la volta, presentato da Doxy Records, del gruppo di Sonny Rollins, uno dei colossi del jazz fin dagli anni Cinquanta. Malgrado abbia compiuto ottant’anni, non ha perso quasi nulla del suo antico smalto. Occasione importante questa per ascoltarlo con la sola sezione ritmica. Il 13 e il 15 sarà la volta del classico Trio di Brad Mehldau con Larry Grenadier e Jeff Ballard, presentato dall’etichetta Nonesuch, e di quello di Diana Krall presentato da Verve. Festival importante dunque su cui ritorneremo.


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narrativa

di Maria Pia Ammirati ei nove racconti che compongono la raccolta dell’ultimo libro di Antonio Tabucchi, Il tempo invecchia in fretta, il coagulo dei temi cari all’autore si trova nell’ultimo, intitolato Controtempo. La vicenda è tutta centrata sulla riflessione di come narrare la storia e gli impliciti scenari temporali. Si tratta di intersecare due sistemi: uno che pertiene alla tecnica narrativa, l’altro che riflette sulla necessità di narrare il presente. In poche parole si potrebbe dire che la metaletteratura è rimasto un cardine della scrittura di Tabucchi, maturando sul versante della necessità che la narrazione affidi al lettore non solo la storia come principio di conoscenza, ma anche come svelamento estremo della realtà. Ecco allora che la realtà si ripropone come principio e non solo come scopo, e che questo diviene una dichiarazione d’intenti per aprire il varco alla letteratura come impegno civile. Più d’ogni altro Il tempo invecchia in fretta è un libro di impegno civile, dove lo scrittore torna sovente sul perché lo scrivere abbia ancora senso anche quando la realtà sembra non averne. Lo scrittore, e i suoi personaggi, rappresentano un’Italia che coincide col mondo e alimentandosi di ironia e dramma, decretano di volta in volta la fine del tempo (il racconto più forte in questo senso è quello dedicato alla caduta del Muro di Berlino). Non parliamo del tempo in assoluto, ma di epoche che lentamente si avvicendano e che sottraggono ai personaggi sicurezze e certezze. Il tempo esercita sull’uomo una sovranità indiscussa ed è la figura che si profila dietro ogni narratore, quasi incarnandosi in esso. Il tempo muta, cambia e imprime con forza le proprie esigenze che raramente coincidono con quelle dell’uomo. In Controtempo il protagonista va incontro al destino che un narratore onnisciente ha già nella sua mente: il personaggio è agito e non agente perché la storia non permette deragliamenti: «Quella storia non prevedeva altre

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Antonio Tabucchi nel regno di Crono

libri

conclusioni possibili, ma colui che conosceva questa storia sapeva che non poteva permettere che si concludesse in questo modo». In questo piccolo gioiello di lucida riflessione sul reale conta, come spesso in Tabucchi, il piccolo risvolto, la briciola che si posa sul tavolo perché il senso della vita va cercato lì e non altrove. Per questo motivo il personaggio deve fare quel percorso stabilito e può essere chiunque in un contesto indistinto, l’importante è tracciare la via e seguirla fino in fondo: «…l’aereoporto di partenza ha… un’importanza relativa… è un mattino di una qualsiasi giornata di fine aprile del duemilaeotto… l’età è difficile da definire… La professione... anche su questo punto colui che conosceva la

sua storia aveva qualche dubbio». Il libro, che arriva dopo cinque anni di silenzio dello scrittore pisano, riporta il lettore di Tabucchi ai testi degli anni Ottanta, Il gioco del rovescio e Piccoli equivoci senza importanza, dove le questioni metaletterarie sono fortemente intrecciate ai temi narrativi classici e a una narrazione che privilegia una scrittura lucida e razionale, tutta giocata sul filo dei piccoli ma significativi spostamenti di senso. Antonio Tabucchi, Il tempo invecchia in fretta, Feltrinelli, 171 pagine, 15,00 euro

riletture

Riflettendo con Hannah Arendt su politica e menzogna di Giancristiano Desiderio el 1971 il New York Times pubblicò alcuni stralci dei Pentagon Papers, documenti segreti del Dipartimento della Difesa relativi all’impegno americano nel sud-est asiatico dal dopoguerra alla fine degli anni Sessanta. Lo scandalo al cuore di quella pubblicazione - che precedette di poco la celebre infrazione al Watergate Building, e che inaugurò la grave crisi di legittimità che caratterizzò la presidenza di Richard Nixon - riguardava l’ammissione, da parte degli esperti del Pentagono, dell’assoluta inutilità strategica dell’impegno americano in Vietnam. L’ammissione, la cui verità gli americani già co-

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noscevano, quando fu riconosciuta, dopo che per tanto tempo fu tenuta segreta, fu motivo di profonda indignazione nell’opinione pubblica statunitense. Da qui trasse spunto Hannah Arendt per un’importante riflessione sul rapporto tra politica e menzogna nel saggio La menzogna politica. Riflessioni sui “Pentagon Papers”. Quelle pagine andrebbero rilette? A prendere oggi in mano quel testo della Arendt il lettore italiano lo può fare procurandosi la nuova edizione di Marietti 1820, risale al 2006 - bisogna superare la tentazione di paragonare e quasi geometricamente sovrapporre il Vietnam con l’Iraq. Diverse sono le storie, diversi i protagonisti, diversi sono gli scopi e i mezzi. Certo, qualche

analogia si può trovare, ma si tratterebbe, appunto, di analogie. Ciò che, invece, bisognerebbe riprendere è proprio il saggio della Arendt che non riguarda soltanto il «caso americano». Come non accorgersi, infatti, che il tema che tratta la Arendt è un tema cruciale per tutte le democrazie? Quale? La bugia. L’inganno. La falsità. Si dirà: tutto qua? Non sai che la politica non ha come suo fine la verità ma il potere? Ma proprio qui è il punto cruciale. Perché una cosa è mentire per «ragion di Stato» e ben altra cosa è la manipolazione dei fatti per ragioni di immagine o di reputazione. La differenza sostanziale sta nel fatto che il primo tipo di menzogna è un inganno utile e, forse, necessario, mentre il secondo tipo di menzogna è un inganno inutile e arbitrario che ben presto scivola nell’autoinganno. E, si sa, il peggior tipo di governante non è il bu-

giardo, che sa bene come stanno le cose - la verità, la realtà - bensì il falsificatore che crede alle sue falsità e non sa più come stanno realmente le cose. «Arriva sempre un punto oltre il quale - scrive Hannah Arendt - mentire diventa controproducente». Ci sono interi passi di questo saggio che andrebbero riportati per esteso, tale è la loro chiarezza e preveggenza. Qual è oggi la preoccupazione più pressante della politica? L’immagine. Prima di tutto bisogna «salvare la faccia». L’immagine, che un tempo era una parte della politica, oggi ha preso tutta la scena: la politica è immagine, tanto che è diventata un sottoprodotto della pubblicità. Il risultato è devastante: i fatti - cioè la realtà che dovrebbe essere il riferimento principale dell’azione politica - sono stati sostituiti dall’immagine. La politica è di fatto defattualizzata.


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personaggi

Quella passione di Rezzori per gli States di Gabriella Mecucci ulle traccie di Lolita soprattutto su quelle di Nabokov. Un libretto di Gregor Von Rezzori, Uno straniero nella terra di Lolita ci riporta in America per indagare sulla splendida adolescente e sul suo creatore. L’autore di Memorie di un antisemita è, come lui stesso si definisce, «un gemello non identico» di Nabokov. Mentre il secondo infatti nelle vesti di Humbert Humbert insegue la sua giovane seduttrice, esaltando la forza e la bellezza della natura americana e criticando la volgarità di un popolo, Rezzori s’innamora degli Stati Uniti e dei suoi cittadini. Il suo libro è un inno

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fiabe

a questo mondo. Li gira pezzo a pezzo: da Nashville a Memphis per vedere il mausoleo di Presley. E poi c’è Los Angeles, «una città liberata dal diktat del buon gusto». I grandi miti come Via col vento e soprattutto i luoghi delle grandi battaglie dove scopre la profonda diversità fra Europa e America: «Per gli europei - scrive Rezzori con tre millenni alle spalle, la storia è così remota nel tempo da aver perso qualsiasi senso della realtà. Viene drammatizzata resa astratta fino ad assurgere al rango di una saga. Il sangue della storia americana è così terribilmente fresco da avere il colore del vero sangue umano. Quando fui in cima alla torre che si affaccia sul luogo del-

la battaglia di Gettysburg e del massacro di 51 mila uomini, provai lo shock dell’identificazione con la storia come mai prima di allora.. Nei siti storici sparsi per l’America mi sentii molto americano - molto più di quanto non mi senta europeo quando visito le macerie che la storia ha lasciato a noi europei». Rezzori, l’austro-ungarico ama gli Usa molto di più di quanto li ami il russo Nabokov che si sente sempre un esiliato dall’adorata San Pietroburgo, mentre il suo «gemello non identico» si è profondamente e totalmente distaccato dalle sue origini. Se il nostro autore è affascinato e «preso» dalla storia del paese che visita, lo è altrettanto da «quegli americani

rockwelliani puri e semplici» che sono oggetto del suo racconto: «Per una prosa immaginifica puoi sempre contare sull’America». E infine c’è l’inchinarsi di Rezzori al sogno americano, quel miscuglio di divertimento e meraviglioso infantilismo, non si è spento. La sintesi più straordinaria è rappresentata da Las Vegas e Disneyland, una sorta di Terra Promessa, di nuova Gerusalemme. Ed è proprio qui che l’autore fa terminare il suo viaggio sulle traccie di Lolita, di Nabokov, ma soprattutto alla scoperta dell’America. Gregor von Rezzori, Uno straniero nella terra di Lolita, Guanda, 87 pagine, 12,00 euro

Destino e libero arbitrio alla corte di Udjania di Vincenzo Faccioli Pintozzi una gradita novità, questo piccolo e ben curato libro. Innanzitutto perché dimostra la vitalità di un genere poco inquadrato nel panorama letterario italiano, quel genere «fantastico» che non ha molto a che fare con il «fantasy». In secondo luogo perché dimostra la vitalità - anche se forse spinta ai limiti - delle piccole case editrici e di autori non protetti dal mainstream culturale del nostro Paese.Vespina Fortunata (un nome da favola per l’autrice di una favola) si lancia in un racconto che ha il sapore dei feuilleton tanto caro all’Ottocento. Il suo Principe di Udjania unisce nello stesso testo le figure letterarie tipiche del tema: il

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noir

mago (o Indovino), vari gradi della nobiltà terriera, il marinaio semi-sconosciuto, i pirati. Ma attenzione: invece di immergersi in un mellifluo e zuccheroso mondo di eroi senza macchia e senza paura - che salvano fanciulle addormentate e di sangue reale - ci si ritrova in un mondo dove i protagonisti affrontano sentimenti molto, molto umani. Dal padre che rigetta (in un primo momento) il figlio che con il parto ha ucciso la sua amata, ai pirati che si accaniscono su chi ha osato sfidarli, per arrivare a sovrani che non mantengono le parole date. È come se i caratteri letterari dell’autrice vogliano vestirsi da eroi medievali senza dimenticare il loro incarnato umano. E non passa inosservata neanche la descrizione del mondo fantastico di Bellozio, dove

l’oblio e il sonno si configurano come beni principali, che senza neanche troppa fantasia mette in guardia il lettore dal male che può scatenarsi su di uno Stato che ammetta al suo interno l’inedia. Scritto in maniera scorrevole, il libro in sé è di piacevole lettura: la suddivisione in capitoletti - invece di infastidire l’occhio aiuta la comprensione della trama e invita a continuare la lettura. Forse un po’calcato l’uso degli aggettivi (chiara la provenienza di stampo «poetico» dell’autrice), che in alcune descrizioni appesantiscono la frase, il libro si potrebbe leggere a un bambino. Con l’accortezza, però, di edulcorarlo da quei particolari che al contrario lo rendono attraente anche per un adulto. Il tema del destino, e del suo opposto rappresentato dal libero arbitrio, fanno riflettere il lettore. Che viene preso per mano e quasi forzato a chiedersi se le tante decisioni che prendiamo ogni giorno siano realmente farina del nostro sacco. Vespina Fortunata, Il principe di Udjania, Edizioni L’Oleandro Arga, 159 pagine, 16,00 euro

Indagine iniziatica sulle rive del Quibù di Pier Mario Fasanotti on una scrittura eccellente Ronaldo Menéndez, classe 1970, nato all’Avana e dal 2004 residente a Madrid, usa il genere noir per descrivere la pioggia di miseria e di violenza che cade a Cuba, «questa isola strangolata e con la lingua di fuori», «terra del demonio» anche per l’innesto di tradizioni magiche di provenienza africana che hanno appesantito il ciarpame esoterico di marca caraibica. La vicenda si svolge lungo il fiume Quibù, dove antichi costumi tribali, a poche decine di metri dalle strade del polveroso decoro stalinista, s’impigliano con la ramificazione della mafia e addirittura con

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il cannibalismo. Una striscia di terra melmosa, aspra, maleodorante dove si uccidono le prede e le si sotterrano dopo averne scarnificato le ossa. Un nastro boscoso dove sovente «un orizzonte di negri si fa conclave». Siamo nel sottosuolo dell’umanità, negli «intestini» di una città e di un’isola, dalla quale a volte si staccano le zattere dei disperati. Menéndez affida il racconto, dall’intreccio complesso, a un ragazzo di 14 anni all’inizio chiamato Junior e poi con il suo vero nome, Matteo - che vuole scoprire chi ha ucciso la sua bella, bionda e sensuale madre, avventuratasi nella zona degli orrori di Quibù. E soprattutto perché. L’apparato politico-poliziesco fa di tutto, o quasi, per impedire

che nel territorio di macabra anarchia e arretratezza vergognosa, s’indaghi a fondo. Ma Junior-Matteo, liberatosi dalle pastoie rieducative del regime castrista, è proprio lì che compie il suo tormentato cammino iniziatico. Fino ad assumere le movenze o di bestia braccata o di belva che assale. Ci sarà l’orrenda scoperta di una pianura infertile che è sbrigativo cimitero di persone uccise a colpi di machete e straziate nella carne a fini commerciali. Poco prima che si risolva il mistero della donna bianca uccisa e fatta scomparire, l’autore immagina la morte del Lider Maximo e quel che ne consegue. Non s’arrende chi aspetta il ritorno del Generale, avvinghiato a «conquiste» sbandierate e mai

raggiunte. Dice ancora qualcuno: «Non importa quante fame soffra un popolo, se riesce a salvaguardare il suo prezioso tempo libero». Accanto agli slogan rétro compaiono i corvi della malavita che fanno da collante tra primitive brutalità e l’opportunismo della polizia politica, spiona e padrona. In questo clima arriva a conclusione il dramma di Matteo: si troverà davanti il colpevole della morte della madre. E saprà perché una donna di cattiva fama, ma per lui solo «persona libera», sia finita nelle rive frequentate da coccodrilli: che siano animali o no poco importa. Ronaldo Menéndez, Rìo Quibù, Fazi, 154 pagine, 16,50 euro

altre letture Un equivoco

attraversa l’intera vicenda del sequestro di Aldo Moro e genera una diversa disposizione nei confronti dell’uomo. Si è detto: «Moro non voleva morire e tale volontà sarebbe stata accompagnata, come osservò Leonardo Sciascia, da una preoccupazione quasi ossessiva per la famiglia». Per Rocco Quaglia, docente di Psicologia dinamica all’Università di Torino, la prospettiva va rovesciata: «Moro voleva vivere». Una differenza radicale scrive Quaglia in Due volte prigioniero, un ritratto psicologico di Aldo Moro nei giorni del rapimento (Lindau, 210 pagine, 16,00 euro). Sì perché Moro espresse nelle lettere dal carcere anzitutto un sentimento genitoriale. La preoccupazione per la propria famiglia (la famiglia naturale, ma in certa misura anche quella allargata del partito) che Moro vuole salvare dal dolore di una tragica esperienza di lutto.

La questione

meridionale sembra essere scomparsa dal dibattito pubblico, scalzata dall’emersione della questione settentrionale. Ma questa scomparsa è tutt’altro che indolore perché si scontra con la durezza della cronaca, gli indicatori economici e la confusa vicenda della nascita di un partito del Sud. Sicché Franco Cassano in Tre modi di vedere il Sud (Il Mulino, 108 pagine, 10,00 euro) tenta di fare un po’ di chiarezza, mettendo a confronto le diverse prospettive teoriche che nel corso di questi decenni si sono venute misurando con la condizione del Sud.

Socrate morì

assassinato. Tuttavia Platone omette questa parola. Dal canto suo però Nietzsche afferma che Socrate volle morire. Ma chi desidera morire osserva Sgalambro «si trova intrappolato in una insana contraddizione», giacché nello stesso tempo vuole vivere. E così fu anche per Socrate che delegò un compito a un benefattore introducendo una volta per tutte nella filosofia la figura dell’omicida. Eppure, dice Sgalambro nel suo urticante Del delitto (Adelphi, 182 pagine, 13,00 euro) la filosofia occidentale ha perlopiù evitato di porsi le domande filosofiche che ne derivano: quale mistero cela il delitto in se stesso? Chi è l’assassino nella sua essenza? Sono domande che Sgalambro non teme di affrontare, spingendo anzi lo sguardo verso quel punto dove l’espressione «l’uomo è mortale», non significa che «l’uomo muore», ma che l’uomo è anche capace di dare la morte. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

GIOVANNI CALVINO NASCEVA NEL 1509 A NOYON UNO DEI PERSONAGGI MENO CONOSCIUTI MA PIÙ INCISIVI DELLA STORIA D’EUROPA. AL VALORE RELIGIOSO CHE LA SUA DOTTRINA (FONDATA SULLA PREDESTINAZIONE E SULLA NEGAZIONE DEL LIBERO ARBITRIO) APPLICAVA A OGNI ASPETTO DELLA VITA, MAX WEBER HA FATTO RISALIRE L’ORIGINE DEL CAPITALISMO

Il fondatore della modernità di Franco Cardini forse deprecabile l’abitudine di fare storia per centenari e per ricorrenze: ma, dato lo scarso interesse della società civile italiana per le cose storiche in genere, questo è ritenuto se non altro un buon modo per attivare commemorazioni e iniziative correlate, utili al turismo e alla divulgazione massmediale. Non ci resta quindi che adeguarci: anche perché altrimenti, nel nostro paese sarebbe difficile parlare di uno dei personaggi meno conosciuti ma più incisivi nella storia dell’Europa, della cristianità e della modernità: Jean Cauvin, nato nella piccarda città di Noyon nel 1509 e morto nella «sua» Ginevra cinquantacinque anni più tardi, nel 1564. Noi lo conosciamo come Giovanni Calvino e parliamo di lui come il «vero» grande riformatore del cristianesimo - più forse del per molti riguardi ancor medievale Martin Luther, «Lutero» - e fondatore della modernità. È molto nota, o dovrebbe esserlo, la teoria esposta da Max Weber nel suo grande libro edito nel

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Sopra, Giovanni Calvino; a destra, una cattedrale calvinista e, sotto, processo alle streghe di Salem, perseguitate dai puritani calvinisti. In basso, al centro Max Weber; a destra, uno scorcio di Ginevra dove visse e operò Calvino

Abbracciata la Riforma nel 1536, la sua attività iniziò nel 1541, quando redasse le sue “Ordonnances ecclesiastiques” assumendo la guida della Chiesa di Ginevra. Da dove ispirò l’azione degli ugonotti in Francia e dei puritani in Inghilterra 1920-21 e tradotto in Italia col titolo L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Partendo dai suoi studi di sociologia religiosa, Weber approdò alla conclusione che il capitalismo, con la sua etica fondata sul rigore e sul successo personali, fosse l’erede diretto e per così dire la traduzione immediata in termini economici e finanziari della religiosità calvinista, specie come si era presentata in Inghilterra a partire dalla seconda metà del Cinquecento nel movimento «puritano»: nato all’interno della Chiesa anglicana per purificarla da quegli elementi gerarchici e liturgici che ai riformatori più austeri (i quali s’ispiravano appunto al magistero di Calvino) apparivano un’eredità del «paganesimo papista».

È noto come l’austerità puritana conducesse anche, fra l’altro, a uno degli esperimenti più feroci e sanguinari della storia, la tirannia del Lord Protettore Oliver Cromwell: senonché lo stretto legame appunto tra capitalismo, puritanesimo ed egemonia britannica nel mondo moderno hanno fatto sì che quell’infame despota sia trattato, anche nei libri di scuola, come una specie di pio governante-filosofo. Questa però, come direbbe il vecchio Kipling, è un’altra storia.Torniamo quindi alla radice del legame tra protestantesimo e modernità, a Calvino. Max Weber sottolineava come il calvinismo attribuisse sistematicamente a ogni aspetto della vita un valore re-

ligioso: e, data la dottrina della predestinazione e quindi la negazione del Libero Arbitrio, che Lutero aveva desunto dalla sua lettura di Agostino e che Calvino aveva accettato e reso ancora più rigorosa, i cristiani riformati erano convinti con la massima fermezza che esistesse un abisso teoantropologico nell’umanità tra coloro che Dio condannava alla pena eterna e coloro che Egli destinava alla salvezza.

Nessuno poteva scampare al già preordinato giudizio divino: in ciò non solo le opere erano inutili rispetto alla fede, ma esse stesse - espressione appunto della volontà divina riflessa nelle azioni di ciascun essere umano non potevano che essere buone nei destinati alla felicità eterna, malvage negli altri.Tutto quel che il fedele poteva fare era spiare, nella sua vita e nelle vicende di essa, i segni della volontà divina nei suoi confronti. Ma l’apparente paradosso è che questa dottrina non condusse affatto all’immobilismo, al fatalismo, alla disperazione (o, al contrario, alla sconfinata fiducia). Al contrario: nel successo delle loro imprese e dei loro programmi i seguaci di Calvino - in linea, a dire il vero, con un’etica più veterotestamentaria che evangelica - scorgevano la conferma che Dio li aveva scelti e destinati all’eterna salvezza; e s’impegnavano al massimo nel far il possibile per ottenere quei segni. Nell’affascinante pagina weberiana il capitalismo


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viene pertanto presentato come una «religione», la religione del successo e della vittoria: e non è affatto «materialista» (non, almeno, sul nascere), bensì spirituale, perfino irrazionale e mistica, la volontà di arricchire e di controllare e guidare le vite altrui. A conclusioni analoghe non era giunto Lutero, troppo impegnato a combattere la Chiesa cattolica e a sradicare l’egemonia delle gerarchie sacerdotali dai paesi nei quali il suo insegnamento si era affermato, il che per forza di cose lo conduceva ad appoggiarsi ai principi laici e a raccomandare ai suoi fedeli di obbedir loro.

La tesi weberiana è stata più volte discussa e contestata dagli storici: al punto da far ricorrentemente parlare di «eclisse di Max Weber» o, al contrario, di «Weber-Renaissance». Ad avversarla fu soprattutto Werner Sombart, il grande e purtroppo oggi misconosciuto critico del capitalismo: e sulla base delle sue osservazioni molti sociologi e studiosi di economia - per esempio il cattolico Amintore Fanfani, la cui fama di uomo politico ha purtroppo eclissato quella d’insigne studioso - sottolinearono invece come la valutazione positiva delle «opere» accanto alla «fede» e il sostegno a un’attività produttiva e creditizia tesa anche alla solidarietà, avessero già alla fine del Medioevo posto le basi di un capitalismo che avrebbe potuto svilupparsi nei secoli successivi in modo diverso, accordando più spazio ai valori comunitari e più sostegno ai ceti meno abbienti. Era stato con questo spirito che ad esempio i francescani «osservanti» del Quattrocento, san Bernardino da Siena in testa, avevano condotto all’interno della Chiesa una lotta destinata a mutare le troppo rigide norme contro l’«usura», che impedivano l’avvìo di un’economia fondata sul credito e quindi sullo sviluppo. Di recente, il calvinismo nell’interpretazione weberiana sembra esser tornato agli onori della ribalta anche in alcuni ambienti cattolici nei quali - stranamente «trascurando» la lezione non solo sombartiana, ma anche fanfaniana - si è preferito sottolineare i meriti di un «cristianesimo» che per la verità è soprattutto e anzitutto quello calvinista nello sviluppo della modernità. Grande successo ha avuto un libro non granché originale e quasi privo di ricerca documentata, The victory of Reason di Rodney Stark (New York, Random House, 2005), nel quale l’autore, cattedratico di Berkeley, spiega in meno di 300 pagine nientemeno how Christianity led to freedom, capitalism and western success. Stark sottolinea la «razionalità» della teologia cristiana, la quale ha sposato la logica e il

Il calvinismo nell’interpretazione weberiana sembra esser tornato alla ribalta anche in alcuni ambienti cattolici nei quali si è preferito sottolineare i meriti di un «cristianesimo» che concepisce lo sviluppo in chiave soprattutto calvinista

pensiero deduttivo introducendo così, appunto, alla libertà, al progresso e al capitalismo. Discostandosi apparentemente da Weber, Stark sembra «ridimensionare» il ruolo della Riforma protestante: già nei Padri della Chiesa, egli commenta, questo impulso al fare, al realizzare, all’inventare e allo scoprire era celebrato. Ma altri aspetti del cristianesimo medievale vengono lasciati in ombra, in particolare il richiamo costante alla carità e alla solidarietà: col risultato, paradossale solo in apparenza, che Stark sembra ridimensionare il ruolo di Calvino, ma lo fa attraverso una lettura rigorosamente «calvinista» del cristianesimo e della storia. Non a caso, sfugge francamente l’aspetto «razionale», ad esempio, della teologia dei sacramenti: laddove la critica razionalista ai dogmi e ai misteri fu tipica durante la Riforma, più che di Lutero, proprio di Calvino. Ma lo «strappo rivoluzionario» della Riforma protestante e in particolare del calvinismo (con l’abolizione dei riti, dei sacramenti, del sacerdozio, del culto delle immagini), «sfugge» al continuista Stark il quale preferisce sottolineare la razionalità «da sempre» del cristianesimo. Come la modernità abbia sviluppato una società capitalista riducendo ed eliminando contestualmente il cristianesimo storico salvo nei casi in cui esso (com’è accaduto nel calvinismo) si riducesse a fatto intimo e privato, è stranamente taciuto in questo libro, dov’è sintomatico che non siano mai citati né Bernardino da Siena, né Sombart.

D’altronde, è sintomatico come l’attività dell’austero umanista Giovanni Calvino, che aveva abbracciato la Riforma nel 1536 rifugiandosi a Basilea per sfuggire all’ira del re di Francia che lo accusava di aver denigrato la messa, sia davvero iniziata nel 1541, quando egli redasse le sue Ordonnances ecclésiastiques assumendo nel contempo la guida della Chiesa di Ginevra, con un’inflessibilità che lo condusse a condannare al rogo anche gli eretici (come l’antitrinitario Michele Servito) e le «streghe», ree di perpetuare nei costumi della superstizione la forza dell’odiato paganesimo, con ciò obiettivamente instaurando un regime di repressione e di terrore. Contrariamente a quel che si dice e forse si crede, furono i calvinisti i più inflessibili persecutori della stregoneria, da Ginevra alle colonie inglesi del Nuovo Mondo, specie quelle della Nuova Inghilterra, appunto il New England (l’episodio dei «processi di Salem» è ben conosciuto). Quello di Ginevra divenne anche il centro missionario calvinista. Calvino era in contatto con i suoi seguaci, ma anche con molti principi: ispirò l’azione dei calvinisti in Francia, gli «ugonotti», e la rivoluzione puritana in Inghilterra. Ma egli lavorò a cercar di limitare al massimo gli effetti delle ansie escatologiche circolanti al suo tempo, affermò che la data del ritorno del Cristo era inconoscibile e pur conducendo vita austera combatté qualunque forma di ascetismo: forse temendo che ciò avrebbe potuto indurre in alcuni cristiani riformati una sorta di nostalgia delle vita monastica e quindi delle forme cattoliche. Bisogna dire che comunque, sulla scia dell’interpretazione weberiana, molte esagerazioni sono state dette anche a proposito del suo rapporto con il lavoro e con il denaro. L’autorizzazione del prestito a interesse era nei regimi calvinisti rigorosamente limitata, non troppo meno che in quelli cattolici, e il lavoro non costituì mai, in sé e per sé, un elemento di merito spirituale. La ferma concezione religiosa di Calvino poggiava su tre capisaldi. Primo, la salvezza spirituale è raggiungibile nonostante la perfidia dell’uomo perché Dio onnipotente può trasformare gli stessi indegni secondo i Suoi disegni. Secondo, i «santi», la ristrettissima cerchia dei veri eletti di Dio, possono riconoscersi e unirsi in una salda compagine grazie ai tre segni distintivi della salda fede, della vita retta e della fedeltà al solo sacramento che insieme al battesimo egli aveva ammesso, sia pure profondamente modificandolo rispetto alla tradizione cattolica, la «cena del Signore». Fra Cinque e Seicento il calvinismo aveva conquistato larghe aree dell’Europa. La lunga guerra civile europea del «Secolo di Ferro» tra la metà del Cinquecento e la metà del Seicento fu soprattutto una guerra di religione tra cattolici e calvinisti, che avevano conquistato non solo la Svizzera, l’Olanda, parte dell’Inghilterra, la Scozia, parti della Germania del nord-est della penisola scandinava e - come «ugonotti» - la Francia, bensì anche la Boemia, l’Austria, l’Ungheria, dove fu necessaria una lotta durata tutto il Seicento e condotta dalla Compagnia di Gesù per sradicarli. Ma in Francia, sbaragliato il calvinismo ugonotto con episodi quali la «notte di san Bartolomeo», elementi di calvinismo camuffato e moderato riemersero nel giansenismo e perfino nel libertinismo.


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Raccolti in volume i resoconti di viaggio e gli scritti letterari del grande storico dell’arte

libri

La Recherche di Cesare Brandi

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uando m’iscrissi alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università «La Sapienza» di Roma nel 1969, si era in pieno clima di contestazione. Lo studio e la cultura, se pure venivano praticati, erano connotati in un senso fortemente ideologico, che anch’io, in quegli anni, da sprovveduto quale ero, abbracciai. Allora Cesare Brandi era titolare di una delle due cattedre di Storia dell’Arte Moderna; l’altra era appannaggio di Giulio Carlo Argan. Brandi era amico di mio padre e io lo conoscevo appena. Per curiosità volli seguire una delle sue lezioni. In verità essa non mi parve molto affollata: presto dovevo capire che la maggioranza degli studenti preferiva Argan. Il corso era sull’Impressionismo. Mi colpì subito il suo tono cordiale, fuori norma rispetto alla gran parte dei docenti di quegli anni. Il suo discorso era alieno da qualsiasi sovrastruttura ideologica, la lettura dell’immagine procedeva in un senso eminentemente formale e le sue analisi erano accompagnate da un’emozione evidente, quasi che l’opera d’arte realizzasse in lui una sospensione del tempo e si ponesse come una presenza irrefutabile. Dopo aver seguito questa prima lezione decisi di frequentare il corso e iniziai a documentarmi sul pensiero e sul lavoro del «Professore». Venne per me la scoperta non facile del Brandi teoreta, dai Dialoghi, a Segno e Immagine, a Le due vie e del Brandi storico e critico d’arte. Le sue idee mi apparvero di un’originalità e di una fondatezza sorprendenti: pur essendo aggiornatissimo, confrontandosi in modo serrato con la cultura più recente, il suo modo di interpretare l’opera d’arte sembrava controcorrente rispetto alle impostazioni ideologiche e alle ricerche della semiotica, tutte volte al lavoro sul significato. Egli rivendicava lo statuto autonomo dell’opera d’arte, la sua realtà formale, distinguendo nel processo creativo i due momenti della «costituzione d’oggetto» in cui il dato esistenziale si costituiva nella fantasia privata dell’artista come simbolo interiore per essere poi espresso nella «formulazione d’immagine» come realtà a sé stante. Insomma per Brandi l’opera d’arte non andava considerata come una testimonianza storica da indagare nei suoi significati ma una presenza che la coscienza riconosce diversa da quella esistenziale, una realtà sottratta all’oblìo e alla morte. Una volta separata dal mondo degli oggetti andava analizzata nel suo valore e nei suoi motivi formali, nella relazione degli elementi figurativi, nella cultura d’immagine, nella sua struttura.

Detti l’esame, era il mio primo esame e andò bene. Il «Professore» mi dimostrò allora, come faceva con i suoi allievi, una disponibilità fuori dal comune. Cominciai a frequenterlo e conobbi l’uomo, la sua apertura, l’affettività singolare, la dirittura morale (raccomandava «una vita attaccata all’osso», e l’osso era la cultura), la curiosità inesauribile, l’humor, la bontà e gli scatti di sdegno, gli infiniti interessi quotidiani. Lo

di Giovanni Piccioni vidi nei suoi luoghi prediletti: a Vignano, nella villa del Peruzzi, in campagna, vicino a Siena, con il grande paesaggio di Morandi e la scultura di Burri in giardino; e a Procida in una piccola villa con la scesa a mare. Lo ascoltai conversare con gli artisti rimasti a lui più cari, Burri soprattutto e con i colleghi che lo andavano a trovare. Ebbi la possibilità di accompagnarlo in due viaggi memorabili, in Spagna e in India. Quasi senza accorgermene divenni un giovane amico del «Professore». Egli rivelava un’attenzione ai rapporti con gli altri rara da riscontrare, era partecipe delle vite degli amici, intuiva immediatamente un’ombra che interveniva, soffriva per un’assenza o

scrittura scatta e si innesta nell’intermittenza del cuore, in un andamento narrativo da ricerca del tempo perduto. L’ultima sezione, dal titolo Arte Moderna, raccoglie gli scritti critici conclusivi dell’attività dell’autore che si rivela capace di reinserire critica e storia dell’arte all’interno della letteratura. Come risulta dalle pagine sul pittore che tra i moderni sentì essergli più congenialie: Morandi. Il ritratto dell’artista è inscindibile da quello dell’uomo: «Di quanta rinunzia, di quanto ritegno, di quanto sacrificio è intessuta una vita che, arrivata alla gloria più pura che possa avere un uomo nasconde questa gloria dietro un velo di modestia, come sta il cuore dietro un velo di carne».

Più narratore e poeta che cattedratico. Con tutta la sua scienza e la sua erudizione, l’autore offre al lettore la sua inesauribile creatività, suscitata da incontri, luoghi, opere, sottili percezioni che sorprendono come una rivelazione. Svelando così il suo universo spirituale… un’indelicatezza, era di un’onestà e di una chiarezza esemplari, anche con le persone più semplici. Non posso non ricordare la sua esposizione emotiva e anche la sua vulnerabilità. Questo ed altro, e molto altro ho ritrovato nel bel volume Viaggi e Scritti letterari, curato da Vittorio Rubiu Brandi, con contributi di Franco Marcoaldi, Roberto Barzanti e Vittorio Sgarbi, edito da Bompiani (1656 pagine, 55,00 euro). È un libro che trasmette un ritratto autentico e vivo dell’autore: oltre ai viaggi comprende due sezioni di scritti letterari. Il primo, in particolare, dal titolo emblematico, Come in un’autobriogafia, consente di risalire alle radici intime dell’universo spirituale di Brandi, alle sue abitudini di gentiluomo di campagna, al suo amore per la natura e la buona cucina. Ci sono pagine toccanti sull’infanzia, la balia, i ricordi legati ai genitori, l’adolescenza, l’amore radicato e ambivalente per Siena, le amicizie e, naturalmente, le opere d’arte. La

Nel Brandi viaggiatore la presa sulla realtà si fa via via più agile e ampia, la resa letteraria più brillante, con motivi ora pensosi ora di divertimento e satira sociale, notazioni paesistiche, richiami di natura storica e di critica d’arte, riflessione amara sul presente. Il lettore si trova di fronte a una creatività inesauribile suscitata da incontri che rappresentano la sorpresa di una rivelazione. Brandi diventa con tutta la sua scienza e la sua erudizione (storia, storia dell’arte, estetica, filosofia, teoria del restauro, critica, musica, strutturalismo) un impagabile compagno di viaggio, più narratore e poeta che cattedratico. Il critico, il teorico, il viaggiatore e lo scrittore si integrano a vicenda. Ma, come ha sostenuto Geno Pampaloni, al vertice sta lo scrittore. La formazione e l’ingegno di Brandi hanno una radice razionale, nel senso che il mondo è sempre verificabile con la mente e l’orientamento dei sensi. Il rapporto con le cose è spesso sensitivo, immediato: ci sono pagine costruite sullo sguardo o sull’olfatto, perché il racconto può anche riguardare gli odori: «Berlino odorava di caserma, come Parigi ha il sentore della piazza dove c’è

stato il mercato; a Firenze l’aria delle colline entra come una carrozza a cavalli; a Bologna la polvere rigogliosa e sensuale della campagna…». La sua filosofia è riassunta in due brani di A passo d’uomo. Di notte davanti alla perfezione serena, piena di vita di Piazza Navona: «Ritrovo l’unisono con la natura che è passata attraverso l’uomo e attraverso la storia, odo e respiro questa natura perché non odo nulla e non vedo che l’aria, limpida e serena. Eppure odo e vedo: ed è come se fosse una festività ignota, qualcosa come un indulto, una sospensione, un miracoloso arresto, né il tempo trascorresse, né la vecchiaia avanzasse, anzi ritornasse il passato come una giovinetta, come un bambino che vuota il mare con un guscio d’uovo: e Agostino crede e diviene santo». E dinanzi ai graffiti preistorici di Levanzo, nelle Egadi: «Si sente l’umanità che sorge, in quei graffiti, con il meglio che fa uomo l’uomo. La contemplazione, la capacità simbolica, l’immobilizzazione di un atttimo e la sua rifusione sintetica, il piacere di un lavoro pulito, ordinato, la chiarezza di un pensiero sigillato in un’immagine». Se il tema centrale è storico, si tratta di una storia «abitata dalla poesia» (Pampaloni). Il viaggio diventa per lo scrittore l’occasione per liberarsi dal carico imponente della propria cultura fissandolo nell’emozione di un’immagine. Né manca il vigore e l’attualità del sentimento civile contro il malcostume e l’indifferenza nell’amministrazione del patrimonio artistico, il richiamo alla responsabilità di ciascuno di fronte alla storia. Infine il capitolo complesso della religiosità di Brandi. Arrivato in Terra Santa scrive: «Quando ho passato il Giordano non so cosa avrei dato in quel momento per non sentirmi opaco e ottuso come un sasso… Io volevo, disperatamente volevo che Gerusalemme si imponesse anche a me come la Città Santa, oltrepassasse l’opera d’arte e la storia, per giungermi come il teatro stesso dell’anima, dove l’anima gioca sé medesima. Ma da quando la mia anima è solo la mia coscienza, quanto abbia perduto sono io soltanto a saperlo, proprio perché c’è qualcosa come un invisibile cadavere di me dentro di me, un’assenza». Nell’orto del Getsemani confessa che, non avendo più la fede rivelata, egli «è la sua stessa fede». Si definisce in essa, «donde la più grande fede può celarsi nel non aver fede: cecità fatta di luce». Tale religiosità affiora ancor di più davanti alla solitudine misteriosa e all’infinità del deserto: «Io divenivo, senza enfasi alcuna, il centro stesso dell’universo… l’albero della vita. Una rivelazione che non poteva rivelare nulla che già non sapessi, e tuttavia rivelazione». E per quanto riguarda l’opera d’arte, «la contemplazione vera non è mai ricettiva: è solo un modo di lasciarsi daccanto come se si dormisse e capire quel che non si vede, e vedere quel che è nascosto». La natura di questo fremito rivelatore è profonda, religiosa. La lettura critica trascorre nella dimensione della contemplazione.


video Da Nord a Sud…

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di Pier Mario Fasanotti incenzo Salemme è un napoletano di 52 anni che si definisce (anche) comico. Ha esordito a Roma nella compagnia teatrale di Eduardo De Filippo nel 1978 come comparsa in Quei figuri di tanti anni fa. Poi, a poco a poco, l’ascesa nel mondo dello spettacolo, quindi anche nel cinema. Successo di pubblico, la qualcosa non significa necessariamente alta qualità. L’uomo è vivace, tiene molto alla sua mimica partenopea, facciale e parlata: il tratto regionale che, tra i molti dell’Italia, parte dalla presunzione d’appartenere a una «capitale», covo di maldestra e decantata furbizia, per sfiorare sempre la lagna recitata ad arte (quando riesce, ovviamente). Ed è la lagna a chiudere il cerchio di una mai dimostrata superiorità d’arguzia o di intelligenza. Così Salemme si presenta nello show che conduce di Rai 1, Da Nord a Sud… e dico tutto, uno spettacolino che sembra un puzzle di cose già viste e riviste. Ha come baricentro un’idea che sulla carta poteva essere buona, ossia la presa in giro dei luoghi comuni, la contrapposizione umoristica tra «polentoni» (del Nord) e i «terroni». Il risultato è penoso e si avverte il sollievo della pausa quando entra un ospite-cantante come Fiorella Mannoia: quella almeno canta benissimo. Lo share non si stacca dal 15 per cento. Non potrebbe essere altrimenti: le battute sono quelle di un ritrovo di periferia e inoltre si continua ad avere come riferimento il mondo televisivo, insomma l’apoteosi delle fotocopie, il parlarsi addosso come se non ci fossero altri punti di riferimento. Questo fenomeno ormai dilaga, e non da poco tempo: un giocherello di specchi stucchevole dinanzi a un pubblico (in sala) pagato per ridere, il quale a volte mostra i segni della coercizione e della noia. Il critico Aldo Grasso, di solito severo, è del parere che il flop di Salemme, questo pseudo-Rascel che sgambetta e ammicca, è dovuto al fatto che la notorietà del comico (sic!) «è fortissima in Campania, e non va male in alcune regioni del Sud, ma

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gli stenti di Salemme

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al Centro e soprattutto al Nord, è praticamente invisibile». Sarà anche così. A me sembra che Grasso sia stato straordinariamente indulgente: se un artista è bravo non ci sono confini regionali che tengano. Gli esempi sarebbero infiniti. Ad affiancare Salemme c’è Flavio Insinna, un tuttofare televisivo che con il suo romanesco tira un po’ su il morale o perlomeno innesta una variante alla «lagna» falsamente allegra del conduttore. Lo spettacolo inizia con una gag tra i due come se fossero convinti delle telecamere spente. Un equivoco comico che ha più di cinquant’anni. Di eguale datazione è anche l’entrata in scena di Anna Falchi, tipo Wanda Osiris ma senza scale, con l’inevitabile stupore di Salemme dinanzi a quel miracolo di carne che, dice lui, dovrebbe mettere d’accordo il Nord e il Sud. Ad appesantire il clima, la battuta dell’intrattenitore con lo sguardo fisso sul corpo della finlandese-romagnola: «Una donna con tanto talento che un solo reggiseno non riesce a contenere». Ma per carità: perché si deve sempre apparire come esaltati davanti a fianchi e tette che combaciano con i nostri fumettistici sogni di adolescenti? Dai titoli di testa si apprende che lo spettacolo sì è avvalso della collaborazione di Carlo Freccero, da anni e anni indicato come il genio della tv. Definizione tutta da rivedere, prove alla mano. Recentemente ha dichiarato: «La televisione sta vivendo una fase di rinascita e sperimentazione, nei confronti di un cinema che stenta a trovare nuove identità». D’accordo, ma qui si continua a «stentare». Anzi con gli «stenti» si confezionano bandiere televisive che non sventolano manco se le metti dietro a un ventilatore. Eppure sembra che serpeggi una certa sicurezza tra gli addetti ai lavori. Purtroppo. Presentando lo spettacolo, Salemme ha detto che «deve emozionare, sorprendere. Si parla tanto di Nord e Sud in modo sociologico, noi lo facciamo ridendo, è questa la novità». Ma quale, di grazia? Basterebbe leggere la storia della tv in un sunto di tre o quattro foglietti.

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scita di Antiruggine, un’antica fabbrica veneta da lui riadibita a sala da concerto. Musicista sopraffino e instancabile promotore culturale, Brunello è il protagonista di In tempo, ma rubato per la regia di Giuseppe Baresi. Costruita su un doppio filone narrativo, l’opera raccoglie i più importanti concerti del violoncellista sotto la direzione di Abbado e Kremer e li alterna a brani di un’intensa conversazione di Brunello con Marco Paolini. Il Sahara, le montagne di Arte Stella, i suoni delle Dolomiti, ma anche la fede nella musica della quale Brunello ha una visione originale. L’ uomo, l’ artista, meritava di essere raccontato.

a cura di Francesco Lo Dico

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poesia

Faustus e la meravigliosa tragedia della gioventù di Roberto Mussapi n questi pochi, potentemente narranti versi del coro, si definisce la storia del dottor Faustus, protagonista di uno dei capolavori del teatro di ogni tempo, e specificamente dell’età elisabettiana di Shakespeare, Marlowe, Kidd, Ben Johnson e tanti altri giovani poeti che fecero rinascere sui palcoscenici di Londra il grande teatro. Intendo il teatro assoluto e subito immerso nell’essenza del dramma cosmologico dell’uomo, teatro non a caso scritto da poeti, in versi, come da poeti e in versi era stata scritta la tragedia greca di Eschilo, Sofocle, Euripide. I drammi di Christopher Marlowe, amico rivale di Shakespeare, morto prematuramente, accoltellato giovanissimo in una taverna (splendida rievocazione del suo personaggio, e del contesto, e di quell’età turbolenta e radiosa nel film Shakespeare in love), si incentrano su uomini straordinari che peccano di arroganza, sfidando i limiti imposti all’uomo dall’ordine divino.Tipico in questo senso il potente e mitico Tamerlano il Grande, il famoso guerriero conquistatore turco-mongolo che in un breve periodo soggiogò un’intera parte del mondo, celebrando il suo impero nella favolosa capitale Samarcanda. Come Tamerlano è dominato dalla furia di possesso totale di ogni città, ogni terra, ogni luogo, il dottor Faustus è invaso da un’analoga sete di onnipotenza: ma il mago che giovanissimo è già perfettamente padrone dei segreti dell’aritmetica, della letteratura, della filosofia, dell’alchimia, della religione e di ogni scienza, aspira a un dominio ancor più importante di quello dell’imperatore orientale: vuole l’onnipotenza, vuole avere tutto ciò che desidera, nel presente e nel passato, vuole essere ovunque. In cambio, sappiamo, il patto fatale: il giovane mago vende l’anima a Mefistofele. Al termine dei ventiquattro anni che gli sono concessi pagherà il suo patto, per l’eternità.

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Coro Faustus, uomo di grande cultura, per scoprire i segreti dell’astronomia incisi nel libro dell’empireo di Giove volle scalare la vetta dell’Olimpo, dove, seduto su un carro di ardore abbagliante, trainato dal collo di due draghi aggiogati, vide le nuvole, i pianeti, e le stelle, i tropici, le zone e i quartieri del cielo, dal cerchio lucente della luna coi suoi corni, fino alla altezze del Primum mobile: e roteando con questa circonferenza nell’estensione concava del polo, rapidi scivolarono da est a ovest i suoi draghi, e in otto giorni lo riportarono a casa. Dove non se ne rimase a lungo in pace, per riposare le ossa da quella spossante fatica, ma nuove imprese lo trascinarono di nuovo e nuovamente balzò sul dorso del drago, che divideva con le sue ali l’aria sottile: ora è andato a verificare la cosmografia che misura le coste e i regni del globo: e immagino stia per arrivare a Roma a vedere il Papa e gli usi della sua corte, e prendere parte alla festa di San Pietro che oggi si celebra in forma solenne. Christopher Marlowe da Il dottor Faustus (traduzione di Roberto Mussapi)

L’elemento fondamentale è l’onnipotenza e questa onnipotenza si manifesta nel suo voler essere in qualunque tempo e qualunque luogo: eternità e ubiquità. Che gli sono concesse, ma nel tempo di sogno in cui si consuma l’esistenza terrena. Che tale tempo non sia che uno specchio del tempo reale, in cui appunto, secondo san Paolo, vediamo il nostro volto come in uno specchio, è provato dall’incalzare del tempo storico: il patto con Mefistofele ha un termine preciso, che coincide con il tempo concesso al Faustus di vivere sulla terra. I rintocchi della campana segnano tragicamente lo scadere di questo tempo, che coincide con lo spalancarsi della terra in cui il mago è destinato a sprofondare.Vediamo Faustus volare nel cosmo, trainato da draghi volanti, fumiganti, fatti e alimentati di fuoco, lo vediamo galoppare nel cielo come un superbo imperatore assiro sul suo cocchio in corsa furibonda, e la terra, la terra di noi comuni mortali, è da lui sprezzata: «più piccola della mia mano». Quella terra, schernita e irrisa dall’alto dell’ebbrezza aerea del volo, si spalancherà per lui, lo inghiottirà nella sua atra, magmatica massiva, inerte e nullificante materia. Faustus vola per

sfidare Dio e umiliare i suoi angeli, per essere uguale al primo e superiore agli altri: volare senza lode se non per se stesso che vola. Ma, se tutto si definisse in questa immagine, Marlowe sarebbe un moralista, non un grande poeta: invece Faustus, assetato di assoluto, desideroso di ubiquità, di conoscenza, di vita sconfinata, ci tocca, ci riguarda, ci commuove: è anche un ragazzo che sogna l’infinito. Lo tradisce la sua natura: nelle scene comiche, nelle beffe che gioca ai poveri mortali quando è onnipotente, lo vediamo poi di colpo meschino, come se il ruolo scelto e ottenuto dal patto con il diavolo non potesse che ridurre l’uomo alla sua parte più misera. Già all’inizio ci era apparso nella sua smagliante e smisurata intelligenza, ma unita a un carattere piccolo. Per questo lo vedremo vanitoso e meschino, vendicativo soprattutto verso i poveri e gli analfabeti. La sapienza gli è sfuggita nel momento in cui vendeva l’anima per l’onnipotenza e l’immunità a tempo. Ma ricordando i suoi attimi di rimorso, di esitazione, di rimpianto, la sua anima ci riappare all’improvviso grande e nobile, come doveva essere quella dello studente appassionato del sapere, desideroso d’infinito e, fatalmente, fragile.

Nel cuore dell’impero più vasto di tutti i tempi, l’Inghilterra dell’età elisabettiana, che domina il globo attraverso il regno sulle acque, nel pieno splendore dell’era che consacra la nazione dei navigatori, del viaggio per mare, da quello dei viaggiatori affascinati dall’ignoto a quello dei pirati, Faustus manifesta l’essenziale inclinazione di quel mondo: il desiderio di ubiquità, che massimamente si manifesta quando si lancia in volo nel cielo. In quella folle corsa Faustus celebra e stravolge il senso mistico del viaggio nel cielo, il sogno del volo insito nell’uomo: l’impulso verso le zone ultraterrene, gli spazi del cielo. Il viaggio più radicale e assoluto, che vede nel Novecento un traguardo memorabile con l’allunaggio di Neil Armstrong, che appare subito mito nelle Metamorfosi di Ovidio, dove noi assistiamo al generoso, incauto e rovinoso viaggio nel cielo con il cocchio del Sole di Fetonte, e quello in alto, sul mare, di Icaro, con le ali elaborate dal padre Dedalo e apposte alle braccia con la cera destinata a sciogliersi per la troppa prossimità all’astro solare… E poi il viaggio ariostesco di Astolfo verso la Luna, quello di Shelley nel corpo incorporeo stesso del vento, costituiscono lo zenith di questa esperienza di spostamento verticale, ascensionale. Meravigliata, incantata, quella di Ariosto, assolutamente spirituale quella di Shelley, impregnata di leggerezza ventosa, traboccante anima. Mentre puramente luciferino è il volo in cielo del Dottor Faustus di Christopher Marlowe: prima trainato da draghi diabolici eruttanti fuoco, poi orgoglioso della ubiquità conquistata con il patto con Mefistofele, una condizione di superba superiorità rispetto ai limiti umani che avrà conseguenze nefaste, ma che non è priva qui di un’ebbra felicità giovanile. Perché quella di Faustus, scritta dal giovane Marlowe, è anche una dolorosa e meravigliosa tragedia della gioventù.


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il club di calliope Eravamo tutti perdonati. Perché l’aria ci assorbiva nella sua temperatura. La testa piegata di lato, la guancia che tocca la spalla e quasi l’accarezza. Liscio il respiro, sollevato volante. Il cuore pattinava controvento. Oh varietà! Oh insieme! Ogni strada è felice se una pioggetta tiepida intimidisce la luce e la costringe a spargersi senza predilezioni. Più che perdono. Eravamo accolti. Patrizia Cavalli

UN POPOLO DI POETI oltre il fiume Nemunas, Kaunas è una linea di alberi perduta nell’azzurro. davanti alla tua porta il vento accumula foglie come tombe. nell’intrico dei segni cresce un giardino di memorie che brucia anni come niente. lucertole e conchiglie in fila ossidano sulle lastre i giorni perduti dietro i passi della storia.

POESIE D’AMORE TRA ANARCHIA E TRADIZIONE

per Egidijus Rudinskas Gerardo Pedicini

in libreria

di Nicola Vacca

.E. Cummings è considerato uno dei massimi poeti americani del Novecento. Personalità anticonformista e visionaria, la sua poesia esprime uno straordinario spirito anarchico. La sperimentazione che non ignora la tradizione è il suo modo libero e personale di fare poesia. Da molto tempo non si leggevano nella nostra lingua nuove traduzioni del grande poeta che fu amico di Pound. Grazie a Salvatore Di Giacomo, giovane intellettuale impegnato nella traduzione di autori americani contemporanei, Cummings torna ora sugli scaffali. Poesie d’amore (Le Lettere, 143 pagine, 19,50 euro) raccoglie alcune fra le sue più belle poesie. Come scrive Di Giacomo nella nota critica, in particolare sono le poesie d’amore a caratterizzare l’afflato potente di

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do mai la sua vocazione. «Sin dall’esordio - scrive Michael Webster nella prefazione - la poesia di Cummings intrecciò modernismo e romanticismo, e fu caratterizzata sia dal richiamo della tradizione che da un senso di ribellione verso la stessa, in bilico fra sperimentazione e convenzione, passando dal satirico all’idealistico». Cummings con il suo non-tradizionalismo tradizionale occupa un posto particolare nella poesia del Novecento. Pochi poeti sono riusciti a imprimere originalità al verso. Le sue suggestioni hanno influenzato autori di teatro e registi cinematografici. In uno scritto pubblicato su Voice of America del dicembre 1955, a un anno dall’uscita dei Collected Poems, il poeta e romanziere Nathaniel Burt inserisce Cummings tra i poeti de-

Una nuova traduzione, a cura di Salvatore Di Giacomo, delle migliori liriche di E.E. Cummings, il poeta americano che non esita a confrontarsi con l’eternità Cummings che esplode in innumerevoli bagliori, in sorprendenti epifanie liriche che rappresentano un esempio di quella forza espressiva del poeta che sa immergere il suo pathos dentro il quotidiano. Il giovane traduttore ha davvero svolto un lavoro eccellente perché ha intuito che lo sperimentalismo spaziale e tagliente di Cummings si scioglie in una poesia che diventa dialogo, dono e preghiera d’amore. Gli amanti della poesia ritroveranno in questa nuova traduzione, le suggestioni di un pensiero anarchico di rottura, antiaccademico, che hanno sempre distinto per originalità il percorso di questo straordinario artefice della parola. Le poesie d’amore di questa raccolta provengono da diversi periodi della carriera di Cummings. Ma tutte ci dicono che siamo davanti a uno scrittore eclettico che ha usato il verso per sovvertire precocemente la tradizione, non traden-

finiti «ribelli, dediti alla protesta, critici della vita e della letteratura dei loro tempi e luoghi». Insieme a Frost, Eliot, Stevens, Jeffers, Williams e molti altri ancora, Cummings ha dato vita a un’arte poetica anarchica, individuale, capace di occuparsi di qualsiasi tema attraverso la libera destrutturazione della parola che non diventa mai sperimentalismo fine a se stesso, perché non smette mai di essere poesia. L’unico modo per rendersi conto del suo mondo fantastico è immergersi in questa nuova raccolta. Cummings non ha mai smesso di credere nel folle assoluto. È stato l’artefice di una poesia magmatica, che in ogni sua sillaba ha sempre tenuto conto della fusione tra ragione e sentimento, della simbiosi tra corpo e anima. Uno di quei grandi poeti che non si dovrebbe mai smettere di leggere, perché i suoi versi azzardano sempre l’eterno.

Volano a sud gli uccelli neri di Boscastle piume di vento stringendo fiori bianchi in bocca un verme, una farfalla vorrei migrare con loro ora che ho perso le stagioni smarrito la mappa del tesoro pirati e capitani si fa quadro il cuore le biglie di cristallo si confondono col wiskey all'imbrunire con alambicchi e girotondi vorrei danzare con scarpette variopinte in un campo di myosotys cesellare anelli d'oro amori antichi ma è mezzanotte cadono le foglie così mi perdo azzurra negli abbracci dei ricordi e lucido gli ottoni a sera nelle domeniche di festa. Gli uccelli neri di Boscastle Tiziana Monari

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

e al visitatore zelante di Artelibro, il festival bolognese dedicato «all’arte di fare il libro d’arte», fosse rimasta ancora un po’ di forza residua (su è giù dalle scale e scalette di Palazzo Re Enzo, incontri e convenevoli, dentro l’ascensore solenne e innagguantabile, con tempi bruckneriani, lento, lentissimo, adagio funebre e moderato senza brio) e una goccia di esausta libro-libridine, post coitum di quelle kilogrammate pluviali di parole e interventi e power point incerti sulle pareti luminose, manovrate da luminari poco tecnologici, e su tutto la malattia tutta italiana del convegnismo a gogo, ove si affrontano, senza mai dire nulla di nulla di nuovo, grandi temi epocali (come le sorti dei musei futuri, e il futuro dell’arte, e il destino del libro illustrato nella palude inghiottente dei pc: dal Pci al pc, insomma. Ma alla fin fine la burocrazia della parola è sempre quella)… Ebbene se un minimo di forza-voglia fosse rimasta allo schiacciato viandante che transitava per Bologna in settembre, onusto di borse e borsette, ripiene di depliants e cataloghi d’editori, magari celtici o moreschi, di curatissimi facsimili di miniatissimi libri delle ore, sarebbe convenuto gettare uno sguardo alle mostre specifiche sui «libri d’arte», di cui si sono fregiati alcuni musei cittadini. Non le istituzioni specificatamente artistiche, che sonnecchiano: ma è meglio così, perché almeno, col pretesto del contemporaneo, si scoprono musei minori e polverose fascinose biblioteche, che mai incrocerebbero lo sguardo del pubblico, abitualmente distratto e sdegnoso, di quanto non sia rigorosamente ed esclusivamente vernissage ed «evento» e «chicca» del Dio Contemporaneità. Niente chicca, ma farmaco rigoroso, ed esattezza grafica, da ragioniere impazzito, quello che promette il matematico dello sguardo e presbiteriano del gusto Sol Lewitt (mancato due anni fa: questo è anche un epicedio funebre) che effettivamente alla fattura impeccabile e maniacale del libro d’arte dedicò gran parte del suo genio, algido e cartesiano. Idea del Libro Puro (senza immagini, quasi, e senza contenuti, ma righe e segni e gabbie e numerazioni grafiche), entità mentale, che in fondo risulta per lui summa portatile ideale, del suo modo ossessivo di manipolare e moltiplicare strutture modulari e varianti grafiche. Del resto non era Sol Lewitt a realizzare, fisicamente, ma i suoi collaboratori, le sue grandi pareti «biscromiche» (hantés e inseguite dal bianco e nero volutamente ripetitivo e inespressivo, tastiera minimale e concettuale d’una musica, che delegava ai suoi esecutori di studio. E che si limitava ad accennare, nei suoi calibrati appunti di matematico delle

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Matematiche dello sguardo nel segno di Lewitt di Marco Vallora

arti

forme, come soffiando la sua intenzione-intuizione in un «corale», che armonizza le voci cromatiche). Una musica silente e mentale. Idea felice, dunque, dovuta a un bibliofilo raffinato e «mercante» di meraviglie bibliografiche a Torino, quale Giorgio Maffei e di Emanuele de Donno, di esporre (fino al 25 ottobre) questi volumi, esili e esitanti (le righe non sono mai perentorie, la matematica non è mai davvero risolutoria: anche l’algebra è acrobazia delicata) non già, gelidamente o clinicamente, in bacheche che li neutralizzano e raffreddino ulteriormente, isolandoli, ma invece inoculandoli, come tarli fantasiosi, e ospiti saprofiti, dentro le teche museali della Casa della Musica. Accanto ai ritratti di Padre Martini o l’esibizione d’uno sfacciato serpentone medievale, ma soprattutto guancia a guancia con le originali intavolature dell’ars nova fiamminga, o le follie musical-matematiche di Atanasius Kircher, le notazioni primordiali del Theorica musicae di Franchino Gaffurio o gli affetti di Monteverdi (con l’arrivo del melodramma ottocentesco o il Novecento i legami si spengono). Incredibili le analogie e i riverberi che i due mondi si scambiano, come se Sol Lewitt, grande esperto di musica anche antica, davvero trovasse qui il suo luogo ideale di «esecuzione», prima della stanza sonora ove si svelano i segreti del suo rapporto con Philip Glass. Diverso il caso, invece, di Olafur Eliasson, il fin troppo fortunato e celeberrimo artista danese, salito alle cronache della celebrità soprattutto per quel suo «pallone gonfiato» (e molto Sol dell’Avvenire) abbastanza semplicistico e solo spettacolare (rispetto alle installazioni ben più profonde di Louise Bourgeois o di Juan Munoz) nel canalone della Tate Moderne. Ma la mostra che Artelibro gli ha dedicato, in un’altra sede prestigiosa e spettacolare, come la Biblioteca Universitaria, è davvero una mostra borderline, più di cataloghi e libri documentari, oltre cinquanta, che non di veri libri d’artista. Ce n’è uno, sì, sfogliato da tenebrose mani guantate, che fanno molto show, e code alle spalle, per mostrare un volumone more antifonario, traforato da una fustella, che disegna nel suo cuore una sorta di architettura palladiana, cava. E nello sfondo, una macchina, molto sala di tortura e Nella colonia penale di Kafka, con cui ognuno si può fare il suo disegno e portarselo a casa (ma ci aveva già pensato Tinguely). Come a dire che se certa arte contemporanea non ricorre all’effetto «luna park» non c’è.

Artist’s Books by Sol Lewitt, Bologna, Museo Internazionale e Biblioteca della Musica, fino al 25 ottobre

autostorie

Cantami o Musa della via Aurelia…

di Paolo Malagodi re anni fa, il Dipartimento territoriale della Regione Liguria promosse una ponderosa pubblicazione dedicata all’Aurelia; strada che, sul tracciato romano dalla capitale dell’impero alla Gallia, scorre sull’arco costiero di una regione cresciuta intorno a questo itinerario sinuoso e lungo una riviera piena di colore e di vita. La successiva realizzazione dell’Autostrada dei Fiori ha portato a più rapidi percorsi di attraversamento, con gli automobilisti indotti a trascurare le suggestioni che la tortuosa linea costiera, tra borghi marinari e panorami mozzafiato, sapeva trasmettere. Da qui la scelta di valorizzare il tracciato storico dell’Aurelia, per invogliare alla riscoperta di un modo di viaggiare inevitabilmente più lento,

T

però più capace di far apprezzare gli aspetti paesaggistici e i valori culturali del territorio ligure. Progetto affiancato dalla promozione di un concorso letterario, presentato al salone del libro di Torino nel maggio 2007 e aperto a quanti avessero voluto trattare l’Aurelia come soggetto e oggetto di libera narrazione. Un appello al quale hanno fatto capo 135 opere in prosa, di autori non solo liguri ma piemontesi, lombardi, emiliani, toscani e laziali. Che hanno spaziato, con interpretazioni dell’Aurelia sotto diverse angolature: da semplice strada a simbolo di vita o di morte, da luogo di interesse paesaggistico a filo conduttore della memoria per fatti privati o pubblici. Con il prevalere, in generale, di una lettura ancorata al passato e come se il tradizionale itinerario appartenga ormai irrimediabil-

mente a un’altra età, antecedente il boom edilizio con le trasformazioni antropologiche che la massiccia conurbazione ha comportato. Dalle opere in concorso è così scaturita una selezione di 13 testi, raccolti in un agile volume (Parlami di Aurelia, racconti sulla strada, edizioni Diabasis, 152 pagine, 8,00 euro) che, oltre all’interesse letterario dei racconti prescelti, ospita nell’ampia introduzione una delle ultime fatiche di Nico Orengo. Che in toni vibranti, dettati dall’amore per quei luoghi, tratteggia i caratteri di «Aurelia, come il nome di una ragazza o della donna amata e perduta. Di una strada che entra nei borghi, nelle cittadine e nei paesi, costringendo a gettare gli occhi sulle scaglie di mare, sulla varietà del cobalto: colline e rocce a contatto di una distesa». Una lirica interpretazione del territo-

rio resa dallo scrittore nato e morto, il 30 maggio 2009, a Torino ma che fece del Ponente ligure il proprio luogo di elezione, sia trascorrendovi alcuni mesi dell’anno sia con l’ambientazione di vari suoi romanzi, tra cui La curva del latte e La guerra del basilico. Introduzione che vale certo la pena di leggere, in pagine che sono esse stesse una vibrante narrazione, prima di «racconti - annota Orengo in merito ai testi della snella antologia - su un’Aurelia intasata di auto e di impazienza, ma a volte anche vuota e solitaria». Come fanno i 13 vincitori del concorso, a iniziare da Elena Marengo che ricorda i viaggi sull’automobile di famiglia, dopo la scuola e in discesa lungo la vecchia Aurelia, preferita a un’autostrada «tutta dritta, tutta grigia, senza semafori, senza passanti, senza storia, senza vita».


MobyDICK

3 ottobre 2009 • pagina 15

architettura

La dimensione etica del costruire secondo Nasrine Seraji di Claudia Conforti l 9 ottobre sarà inaugurata dal direttore, l’archeologo Michel Gras, e dall’ambasciatore di Francia Jean-Marc de La Sablière, la nuova sede dell’Ecole Française di piazza Navona, completamente riconfigurata secondo il progetto, rispettoso e tuttavia modernissimo, dell’atelier parigino di Nasrine Seraji. Con questo intervento, pur circoscritto all’interno dell’antica sede dell’Ecole, il centro antico di Roma si arricchisce di un’ulteriore prestigiosa opera di architettura contemporanea. All’architetto Seraji, nata a Teheran nel 1957 e da circa due decenni residente in Francia, è dedicata proprio in questi giorni una mostra alla Galerie d’Architecture di Parigi. La Galerie è un piccolo sofisticato spazio che, aperto nel 1999 in rue des Blancs-Manteaux, nel cuore del Marais, da un giovane designer italiano Gian Mauro Maurizio insieme a Olga Pugliese, svolge un vivacissimo ruolo di informazione sull’architettura contemporanea che prospera, spesso ignorata, fuori dallo star system degli architetti, sovresposti e ripetitivi. Nella galleria di Maurizio si avvicendano esposizioni dedicate a progettisti, non solo francesi, impegnati in ricerche sullo spazio e sulla costruzione, innovative quanto

I

moda

discrete e concrete, improntate alla volontà di conciliare le esigenze di modernità tecnologica e funzionale con le sperimentazioni dell’avanguardia artistica; la dimensione etica del costruire con la pratica assidua dell’insegnamento e l’impegno morale della divulgazione. Sono queste componenti che caratterizzano anche il profilo cosmopolita dell’architetto Seraji, come illustra la mostra Dazibao d’architecture, dove tazebao attaccati al soffitto danno conto di un’azione progettuale e didattica che si identifica con l’esistenza stessa di Seraji. Dopo un

esordio in medicina in Iran, essa ha frequentato la prestigiosa AA School di Londra, sotto la guida di Peter Cook, mitico animatore degli Archigram, pionieri della rivoluzione progettuale degli anni Sessanta. L’apprendistato nello studio di Norman Foster prelude all’indipendenza progettuale della Seraji, che si attua quando, negli anni Novanta, esordisce con il Centro provvisorio di cultura americano a Parigi, che è l’occasione del definitivo trasferimento in Francia. La

successiva costruzione della Caverne du Dragon nel Chemin des Dames, luogo mitico della memoria militare della prima guerra mondiale in Picardia, sancisce nel 1996 l’affermazione professionale in Francia della giovane. Seguono altre opere impegnative, quali l’ambasciata francese di Pretoria, importanti complessi residenziali a Vienna e Parigi, fino all’ampliamento della facoltà di architettura di Lille a Villeneuve-d’Ascq. L’austero edificio, contrassegnato da una superficie corrugata in cemento nero ritagliata da grandi aperture vetrate che illuminano i laboratori per i modelli a grandezza naturale, viene inaugurato alla fine del 2006: pubblicato sulla rivista Casabella nel giugno 2007, riscuote un’immediata fama internazionale. Seguono il progetto dell’ippodromo di Penang in Malesia e quello di una nuova città che si estende per oltre 100 km quadrati, a Chongli in Cina: il crescente successo professionale, che impegna uno studio con sedici architetti, non impedisce a Seraji di coltivare un’appassionata attività didattica che la porta a insegnare a Toronto, a New Orleans, a Princeton e, dal 2006, alla direzione dell’Ecole di Architecture di Paris-Malaquais.

Basta col “power dressing”, viva la seduzione di Roselina Salemi è chi lo chiama effetto lolita, chi pretty baby, chi più castamente Alice nel paese delle meraviglie perché nelle stampe di Versace ci sono conigli, cuori e carte da gioco. E c’è chi invece dichiara di ispirarsi alle case chiuse, al fascino sin troppo mitizzato dei profumati boudoir e della complicata lingerie cucita per sedurre. Fatto sta che la trasparenza - raramente applicata in politica e nelle amministrazioni pubbliche - nella moda è legge, complice la primavera-estate 2010. Qualcuno ha voluto vedere nella donna iperfemminile delle ultime sfilate, decorata di cristalli-lampadario da Prada, racchiusa in costose e coloratissime confezioni regalo da Giorgio Armani, infilata dentro divertenti gonne di plastica (Versace) da portare con allegra lingerie, appollaiata su zeppe impossibili, anche venti centimetri, mentre il miniabito da monella si gonfia come un palloncino (sono le mie «scostumate», dice Mariuccia Mandelli, in arte Krizia), un segno dei tempi. Chi è questa donna lieve, svolazzante tra ruches e volant, balze e panneggi, fiori e ciliegie? Una ragazza immagine un po’ esibizionista che porta con sbadata noncuranza il nude-look, una casalinga di lusso con il grembiule ricamato sopra l’abitino color pastello (idea di Alberta Ferretti), una studentessa-bene che si veste a strati e il primo può essere benissimo il body di raso stampato a fiori della coppia Dolce&Gabbana. Pizzo, rete pagliaccetti, uncinetto. Ma, selezionando, ci potremmo mettere tutto, come se gli stilisti avessero saccheggiato e poi rimesso as-

C’

Dalla collezione Armani

sieme, ognuno a modo suo, una riserva di bauli da corredo: biancheria della nonna che si mette in mostra sotto impalpabili chiffon color carne, corsetti da portare sopra, pizzi, merletti, ricami, lingerie vintage, mutandoni stile Bridget Jones e qualche volta, sotto il vestito, niente. A patto di essere creature filiformi ed eleganti, il che rende sterile il dibattito sulla magrezza delle modelle. Chi, oltre la taglia 38, può esibire l’abito trasparente di Jil Sander, senza diventare volgare? Piuttosto, sembra che il suggerimento dato alle donne, di qualsiasi taglia, sia quello di piantarla con il power dressing, l’aggressività, i maculati, il punk, a favore di dolci pastelli, di colori fluo, short sgambatissimi, abiti con lunghe ali di velo e sandali da favola tintinnanti di cristalli. Imperativo categorico: essere castamente sexy (in caso di necessità c’è il fischietto antistupro portato in passerella dalle modelle di Missoni). Questa geisha moderna che non può quasi camminare (non si va molto lontano con un tacco dal 12 in su), questa Bella Addormentata che aspetta di essere svegliata dal principe (con un bacio? Con un assegno?), questa stupita e un po’ maliziosa Alice che va incontro alla vita dentro con un tubino di Gucci con cinghie di paracadute incorporate, un po’ romantica e un po’ costruita, punta tutto sul potere seduzione, come se nient’altro avesse importanza, come se al resto avesse già rinunciato. Al cambio di guardaroba, a molte toccherà fare, più che una dieta, un corso di autostima.

Dalla collezione Krizia


MobyDICK

pagina 16 • 3 ottobre 2009

fantascienza

o scrittore americano Robert E.Howard ha avuto, per così dire, la sfortuna d’immaginare Conan il Cimmero, l’eroe barbaro: di aver creato cioè un personaggio che ha schiacciato il suo creatore sulla propria figura mettendo in ombra quasi tutta la restante produzione letteraria del giovane ma prolifico autore. Howard visse appena trent’anni (si suicidò nel 1936 dopo la morte della madre) e metà della sua breve vita la trascorse a scrivere, a raccontare: in quindici anni si calcola che abbia messo sulla carta almeno cinquecento storie, fra edite e inedite. Era veramente nato per inventare trame, descrivere avventure, creare realtà alternative, far vivere personaggi a tutto tondo. Conan, però, li ha fatti praticamente dimenticare per la maggior parte, o mettere in secondo piano: non a causa di una popolarità derivata da film e fumetti, ma evidentemente dalla potenza evocativa che promana dal Cimmero Conan e soprattutto dall’intero mondo fantastico che s’intravede alle sue spalle e in cui egli si muove, un mondo barbarico ed esotico, situato in una imprecisata e alternativa Era Hyboriana del passato. Ad altri eroi di Howard non è toccata la medesima fortuna, eppure il personaggio letterariamente più complesso uscito dalla penna dell’autore texano non è Conan il Barbaro, quanto Solomon Kane il Puritano, lo spadaccino, il giustiziere morale che si muove in Europa e Africa fra il XVI e il XVII secolo.

ai confini della realtà

L

Fu il primo personaggio se-

cemente che è un eroe atipico, inaspettato, insospettabile, che non ne ha per nulla l’aspetto e spesso neanche le intenzioni, un eroe qualche volta malgré lui, ma con tutte le valenze, gli intenti e i valori dell’eroe classico; - è un eroe errante. Lo stesso autore lo definisce così in un racconto: «Lo spirito turbolento dell’avventuriero, del vagabondo… lo stesso impulso che spinge intorno al mondo le carovane degli zingari, che aveva spinto le navi vichinghe su mari sconosciuti, che guida il volo delle oche selvatiche». Questo spirito lo fa errare dalla natia Inghilterra alla Francia, alla Germania, all’Italia, alle Indie Occidentali e, due volte, in Africa; - è un eroe solitario, sia di fatto che interiormente. Un uomo come lui non può avere legami di alcun genere, se non quelli dell’amicizia, e le sue battaglie esteriori contro nemici umani e inumani sono anche battaglie contro se stesso per combattare la parte peggiore di sé, man mano migliorandosi e sublimandosi. I tratti del suo volto non indicavano forse «il sognatore, l’idealista, l’introverso?», scrive Howard nel primo racconto che lo vede protagonista; - è un eroe morale, nel senso che rispetto all’amoralità e all’anarchia sostanziale degli eroi barbari di Howard, Conan per primo, Solomon Kane viene mosso nella sua opera di distruzione del Male nel mondo da un intento di superiore moralità, non certo per un suo impulso improvviso ed estemporaneo, né per accumulare ricchezze o una potenza terrena, né perché al soldo di qualche autorità. Lo fa perché sente che questo è il suo dovere, la sua «missione» ispirata da Dio; - è infine un eroe notturno, ma non nel senso di tenebroso per l’aspetto o l’abbigliamento (è sempre vestito di nero), ma in quanto amante dell’oscurità, il che non vuol dire per questo essere succube dell’oscurità esterna o di quella interiore, tutt’altro. Adesso, di un eroe così complesso si annuncia un film, a quanto pare il primo di tre, diretto da Michael J. Bassett e con protagonista James Purefoy. Girato a Praga, è costato 45 milioni di euro e giungerà nelle nostre sale a fine 2009-inizio 2010. Sicuramente dal punto di vista spettacolare sarà imperdibile, speriamo che lo sia anche dal punto di vista della trama e della psicologia del personaggio che non vorremmo vedere ridotto a una «macchina di morte». La trama non è la trasposizione di uno specifico racconto di Howard ma è ispirata alle sue avventure. Speriamo non sia, come si suol dire, «la solita americanata» che si basa soltanto sugli effetti speciali, anche se purtroppo le prime anticipazioni non lasciano ben sperare: Solomon Kane sarebbe un dannato dell’Inferno che torna sulla Terra per espiare dando la caccia al Male!

Solomon Kane

lo spadaccino puritano

riale che inventò. Scrive Howard nel 1935: «Immaginai Solomon Kane sin da quando frequentavo il liceo, all’età di sedici anni, ma... passò molto tempo prima che lo mettessi sulla carta. Era probabilmente il risultato della mia ammirazione infantile per un certo tipo di spadaccino freddo e dai nervi d’acciaio, figura abbastanza diffusa nel XVI secolo». Howard esordì sul mensile Weird Tales diciannovenne nel 1925, e la prima storia con protagonista Kane, Red Shadows, uscì nel 1928. In seguito gli dedicò un breve romanzo e altri sei racconti, l’ultimo dei quali apparve sulle pagine di quella famosa rivista pulp nel luglio 1932. Cinque mesi dopo, a dicembre, uscì la prima avventura di Conan, The Phoenix in the Sword, un personaggio che monopolizzò, anche per il grande successo ottenuto, lo scrittore texano che mise da parte lo spadaccino puritano, anche se tra le sue carte sono stati rinvenuti racconti completati o abbozzati e alcune poesie a lui dedicati. Howard, preso dalle tematiche «barbare» (si dedicò anche ad altri eroi del genere come Kull di Valusia, Bran Mac Morn ecc.) oscurò quel che era, in fondo, il suo eroe più «moderno». Solomon Kane

di Gianfranco de Turris ha però uno spessore che gli altri non hanno e già il suo nome è indicativo: nel nome è il destino, come dicevano gli antichi. Nomen omen: Solomon infatti è Salomone, il re d’Israele, famoso per la saggezza e il senso della giustizia, ma anche per l’implacabilità nella sua guerra contro i nemici umani e sovrannaturali; Kane in inglese si pronuncia come Cain, vale a dire Caino, il primo assassino della storia dell’uma-

nità che, come narra la leggenda extracanonica, per il suo delitto fratricida venne condannato da Dio a errare sino alla fine dei secoli.

Ma che tipo di eroe è questo che per primo Howard immaginò e pubblicò? Ha diverse caratteristiche: - è un antieroe. Il che non vuol dire affatto eroe negativo, che è l’opposto dell’eroe classico. Antieroe vuol dire sempli-

Antieroico, errante, solitario, morale, notturno. È il giustiziere che si muove, in nome del Bene, in Europa e Africa fra il XVI e il XVII secolo. Nato dalla penna di Robert E. Howard, il creatore di Conan il Barbaro, è stato oscurato dall’eroe cimmero. Ora è il protagonista di un film ispirato ai racconti dello scrittore texano


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