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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Pier Mario Fasanotti

I quarant’anni della prestigiosa collana mondadoriana

operazione è semplicissima. In apparenza. Radunare in un solo volume (o al massimo in due) tutte le opere dei grandi della letteratura mondiale. In questo modo si soddisfa l’esigenza del lettore che voglia staccarsi dal clima effimero del bestsellerismo «usa e getta» e che ha così a disposizione testi che magari non sono facilmente reperibili in libreria (gli scaffali devono ospitare anche cinquanta volumi nuovi ogni giorno). L’operazione diventa complicata se l’editore non vuole annegare nei debiti e rimanere sul mercato. L’assemblaggio di prosa o poesia che vanno sotto la definizione di classici ha bisogno di ottime traduzioni, note, apparati critici, introduzioni, profili di autori. Altrimenti si ha in mano, né più né meno, un qualcosa che somiglia maggiormente a un oggetto piuttosto che a un vero e proprio libro. Non pochi editori hanno imboccato la strada del «copia e incolla» - un po’ da bancarella dell’usato, senza offendere nessuno - e poi sono scomparsi. Ne ricordiamo alcuni: Utet, Mursia, Ricciardi, Laterza. Quarant’anni fa, per iniziativa di Vittorio Sereni, nasceva il primo volume della collana «I Meridiani» della Mondadori (le opere di Ungaretti). Dal 1969 sono stati pubblicati 256 titoli (complessivamente 332 volumi) dedicati a 172 autori, e sono state vendute 3,5 milioni di copie. Nessun «blu», termine col quale s’indica il Meridiano, è mai andato fuori catalogo. Dal 1996 al timone della collana - carta finissima, rilegatura elegante: anche un elemento di arredo per i falsi colti - c’è Renata Colorni, proveniente da Boringhieri e da Adelphi, studiosa germanista, traduttrice. E questa è stata una fortuna perché da quell’anno, pur senza dare bruschi scossoni alla tradizione, s’è voluto innestare un elemento di novità che certamente non è con facilità riducibile nella formula più o meno titoli o nella diversificazione nella scelta di autori.

L’

MERIDIANI MON AMOUR

continua a pagina 2

Fu Vittorio Sereni a volerli e dal 1969 sono 332 i volumi usciti dedicati a 172 scrittori, per un totale di 3,5 milioni di copie vendute. La ricetta del successo? Ottime traduzioni, note, apparati critici, profili di autori, introduzioni. In un mix di tradizione e innovazione

9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Generazione di Sergio Belardinelli Le capriole di Mika ugola con le paillettes di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

La ballata del pellegrinaggio primordiale di Michael Novak

Il Novecento scritto dagli ebrei di Mauro Canali Un Matt Damon da Oscar di Anselma Dell’Olio

L’arte molle dei Textiles di Marco Vallora


meridiani mon

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amour

Una nuova edizione del primo Meridiano

Da Piccioni a Ossola: turn over per Ungaretti di Francesco Napoli arà perché fu Vittorio Sereni a volerli, sarà perché fu Giansiro Ferrata, raffinatissimo critico, a esserne il primo direttore, ma sembra insita nel dna dei «Meridiani» una particolare attenzione alla poesia italiana. Lo dimostra, in tempi recenti, la felice esplosione di titoli legati al nobile genere, a partire dal 1995 con un volume proprio su Sereni. A questo hanno fatto seguito, anno dopo anno, altre perle: Bertolucci (1997), Caproni e Luzi (1998), Zanzotto (1999), Giudici (2000), Pasolini (2003) e Raboni (2006). Senza poi dimenticare le due raccolte antologiche: Poeti italiani del Novecento di Mengaldo (1978) e Poeti italiani del secondo Novecento di Cucchi e Giovanardi (1996, poi ottimamente rinnovata per gli Oscar nel 2004). Ma il dna, è risaputo, s’incide sin dalla nascita e così quando Sereni volle dar vita a questa prestigiosa serie della Mondadori, con uno scarto esemplare di innovazione nella tradizione, non poté che pensare al padre putativo del suo fare poesia, a Giuseppe Ungaretti. Nacque così il volume Vita d’un uomo. Tutte le poesie curato da Leone Piccioni. «La decisione fu presa per festeggiare gli ottant’anni di Ungaretti e dovendo cominciare la collana si decise di farlo sulle sue poesie in base a una straordinaria vitalità di vendita», ricorda Piccioni. «Ungaretti ne fu contento naturalmente e volle che fossi io a curarlo. Ricordo il lungo e intenso lavoro per concludere il volume che slittò anche nella sua uscita perché consegnai in leggero ritardo il saggio introduttivo. Non appena vide la prima copia dell’opera, come faceva lui quando era felice sorrise, e se ne uscì con una delle sue battute». Ma cosa ricorda più volentieri di quell’esperienza critica? «La mia edizione nacque nel clima di un’intensa collaborazione. I rapporti con Ungaretti erano caldi e affettuosi, da allievo verso il maestro, certo, ma con sincero spirito filiale. Ungaretti seguì da presso il mio lavoro di sistemazione filologica dell’opera, con

S

segue dalla prima Sì, è così, nella pratica, ma la rivitalizzazione dei Meridiani passa attraverso strade molteplici, che solo chi possiede una visione complessiva (e non riduttiva o banalmente automatica della letteratura), vede e valuta nel loro insieme. Del resto l’editoria è fatta di insoddisfazioni, di lamentele, di autocritiche. Insomma, di un perfezionismo che alla fine viene ripagato dal mercato. Un esempio: già Vittorio Sereni, direttore editoriale della Mondadori, si lamentava del fatto che le note biografiche di Hemingway redatte da Fernanda Pivano fossero troppo scarne. Ottima intuizione dato che il lettore ama molto le «cronologie», vuole sapere più cose possibile dell’autore che si appresta a leggere o a rileggere. Sempre Sereni avvertiva la necessità di «operare immissioni anche rischiose». Questa frase è ben conficcata nel cervello organizzativo di Renata Colorni. La quale, oltre ad aver toccato la soglia dei dieci e oltre titoli l’anno (prima erano sei-otto), ha fatto scelte di autori che taluni magari considerano spiazzanti e non ha esitato ad affrontare la contaminazione di generi. Questo, a ben vedere, è l’humus culturale primario: se lo si ignora si sta pigramente sulla sedia dell’accademismo noioso e retrogrado.

Gli autori, per esempio: con notevole sorpresa di qualche escluso e di tanti così pronti a indignarsi dinanzi a quell’intrinseca verità letteraria che si chiama innovazione, Andrea Camilleri ha trovato posto nello scaffale dei Meridiani, accanto a Cassola, Cervantes, Caproni. La

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

un’attenzione quasi maniacale, mentre per il saggio introduttivo non mise proprio bocca, attendendo che fosse stampato per leggerlo». Oggi lo stesso Meridiano và in pensione dopo una ventina di edizioni e oltre 100 mila copie vendute nella sua versione economica da «collezione», abbinata cioè alla vendita in edicola dei periodici della casa editrice di Segrate. Ma si tratta di una pensione dorata, sia per i numeri appena ricordati ma soprattutto perché per celebrare i 40 anni della collezione «Meridiani» viene riproposto proprio lui, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, in una nuova edizione che parte da quella firmata da Piccioni ma si presenta profondamente rivisitata, con la curatela di Carlo Ossola, un apparato critico con nuovi commenti e biografia, e un bel mannello di prose e poesie inedite. Il primo curatore, Leone Piccioni, è cavallerescamente sulle sue: «Dispiaciuto io? Devo dire che i quarant’anni in libreria e le numerose ristampe, compresa quella in economica, evidenziano che la mia edizione di buon cammino ne ha fatto, eccome. Poi l’editore ha fatto le sue scelte affidando alle mani di Ossola il lavoro». Nel suo pensiero c’è sempre un buon motivo per rivolgere un grato pensiero al suo maestro che nell’occasione si combina con un augurio alla nuova intrapresa: «Spero sia un edizione in grado di dare lo stesso buon servizio della mia del 1969 e che abbia la stessa lunga vita, per questo poeta che tuttora illumina la nostra storia letteraria e culturale».

Mondadori, prima con Dashiell Hammet e Raymond Chandler, ha preso atto che il giallo può essere letteratura alta, che questo genere narrativo è oggi quanto mai in auge come strumento radiografico per leggere una società dai forti tratti criminali, che il plot poliziesco - come sosteneva Leonardo Sciascia -, è la gabbia a volte migliore entro la quale raccontare degli uomini e della vita. Il senso della commistione trova conferme anche nella decisione di proporre Piero Chiara, a torto considerato fino ad alcuni anni fa scrittore «leggero», ossia di puro intrattenimento, oppure John Fante che per molti era solo una meteora, sia pure affascinante. Non che prima dell’«era Colorni» non ci siano state decisioni per fortuna completamente sganciate da sgangherate polemiche di pseudo-avanguardie: si pensi a Carlo Cassola, battezzato dal Gruppo 63 come una delle tante Liala d’Italia, prosa per servette innamorate, insomma. Oppure ai romanzi e racconti di Mario Soldati (contemporaneamente rilanciato dalla Sellerio, con titoli singoli), scrittore giustamente considerato più «classico», quindi meno caduco, di un Alberto Moravia. Sulla strada dell’autonomia critica si continua a procedere.Tra i prossimi Meridiani ci saranno quelli dedicati ad Alberto Arbasino e a Ottiero Ottieri («sarà la figlia Maria Pace, scrittrice anch’essa - ci informa la Colorni - a firmarne la Cronologia: nessun altro avrebbe potuto raccontare con tale tenera impudicizia le vicende di Ottieri»). Ma l’esempio massimo di contaminazione è rappresentato dai volumi sul giornalismo italiano. Ma come, una scrittura commissionata entra a far parte della letteratura? Il giornalismo, specie se ha firme co-

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

me D’Annunzio, Nievo, Alvaro, De Amicis, Piovene e tanti altri, non è sempre, e automaticamente sempre, «matrigna» della prosa cosiddetta nobile. Non a caso, a commento dell’iniziativa mondadoriana, Folco Portinari ha spazzato via le pigrizie tassonomiche con un articolo intitolato «Com’era bello (e lento) il giornalismo antico». L’antichista Luciano Canfora ha ricordato la nascita (e la distinzione lessicale operata dagli enciclopedisti francesi) delle gazettes e dei journaux, ma anche gli acta diurna dei romani, titolo che poi Guido Gonella scelse per la sua rubrica sull’Osservatore Romano.

Ultimamente certi Meridiani paiono quasi un’opera prima, almeno ai meno dotti. Ci riferiamo ai Poeti della scuola siciliana. Dante scriveva: «… imperrocché pare che il volgare siciliano abbia fama sopra gli altri, perché qualunque cosa compongano in versi gli italiani si chiama siciliano….». Se non esordio editoriale, senza dubbio una piacevole scoperta il ritrovarsi davanti agli occhi i fondatori della poetica italiana, a cominciare da Giacomo da Lentini, che ebbe tra l’altro il merito della strepitosa invenzione del sonetto.Tutti cantori della corte di re Federico II, poeta lui stesso, che secondo la leggenda riuniva i «colleghi» in un castello di Enna, ombelico della Sicilia, e lì si sedeva per leggere e ascoltare, nemmeno con la spocchia d’essere primus inter pares. Spogliatosi di ogni ornamento imperiale, attendeva con una certa trepidazione commenti, elogi e critiche ai suoi versi.Tutti i siciliani scrivevano dell’amore e dell’amata, la donna che Cielo d’Alcamo definì «rosa fresca e aulentissima».

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parola chiave

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GENERAZIONE l Vocabolario della lingua italiana, compilato da Nicola Zingarelli, alla voce «generazione» recita come segue: «Opera ed effetto del generare. Stirpe, progenie. L’insieme di quelli che hanno circa la stessa età. Il nonno, il padre e il figlio appartengono a tre diverse generazioni». Stando dunque a quanto ci dice il vocabolario, dovremmo concludere che abbiamo a che fare con un concetto le cui dimensioni principali sono di tipo biologico-anagrafico. E in effetti per tanto tempo, diciamo fino a ieri, parlare di generazioni non significava molto di più che parlare di queste dimensioni. Ma oggi sta diventando sempre più rilevante la dimensione educativa, diciamo pure, culturale, del generare, la dimensione grazie alla quale gli uomini vengono aiutati soprattutto a trovare se stessi. Queste due dimensioni, la biologica e la culturale, per secoli sono state assunte quasi spontaneamente dalla famiglia, considerata come il luogo generazionale e inter-generazionale per eccellenza, il luogo dove si veniva al mondo e dove, in una sorta di armonia prestabilita, i nonni, i genitori e i figli trovavano il loro posto e la loro ben precisa identità. Oggi invece ci rendiamo conto che questa armonia prestabilita non esiste più. Le relazioni familiari, al pari delle altre relazioni sociali, si dipanano ormai in modo del tutto imprevedibile; le tecnologie della riproduzione sembrano mettere in discussione persino la famiglia come luogo naturale della «generazione» biologica; la crescente frammentazione socio-culturale rende sempre più difficile il compito educativo della famiglia, la sua funzione generativa in senso, diciamo così, culturale; infine il drammatico crollo demografico e una struttura sociale che tende a privilegiare nuclei familiari sempre più piccoli stanno mettendo in discussione la famiglia come luogo naturale dell’incontro tra le generazioni.

I

Fino a ieri una generazione veniva identificata con un gruppo di individui, i quali, nati in un certo intervallo di anni, prendevano il posto dei padri nel mandare avanti un storia concepita come storia di tutti. Una generazione poteva essere tranquillamente definita come «l’insieme di quelli che hanno circa la stessa età», precisando che «il nonno, il padre e il figlio appartengono a tre diverse generazioni». Ma oggi questo non vale più per diversi motivi. Se nel passato il ciclo di vita di una generazione era fissato dai ritmi lenti, scanditi quasi «a priori» dalla tradizione, oggi i ritmi si sono accelerati; le posizioni e i ruoli che una persona occupa nella società fluttuano in continuazione; l’età anagrafica non rappresenta più l’elemento discriminante. Quanto ai confini tra le generazioni, vengono anch’essi costantemente spostati; gli amici dei nostri figli hanno genitori che possono essere di vent’anni più giovani o di vent’anni più vecchi di noi, rendendo piuttosto difficile fissare l’età in cui si è padri o nonni. Per non dire poi degli intrecci che si creano allorché, poniamo a seguito di un divorzio, si mettono al mondo figli con la seconda moglie che potrebbero benissimo avere un’età inferiore a

Un tempo era un concetto biologico-anagrafico, ma oggi ha assunto una dimensione soprattutto culturale, indispensabile per la definizione della propria identità. Solo se famiglia e società operano in sintonia si può superare l’attuale disequità generazionale

L’alleanza possibile di Sergio Belardinelli

Le odierne relazioni stanno assumendo un carattere contraddittorio: mentre gli anziani sul versante socio-politico sono impegnati a tutelare i propri interessi, sul versante familiare fanno quadrato attorno alle giovani generazioni, offrendo loro supporto e protezione quella dei nipoti avuti dai figli nati dal primo matrimonio. Tutti questi cambiamenti, la crisi generazionale che essi sottendono, non rappresentano ovviamente soltanto aspetti negativi; sono ambivalenti; liberano anche nuove opportunità.Tuttavia essi producono situazioni generazionali talmente nuove che spesso sconvolgono i cicli di vita individuale e sociale. A tale proposito si parla non a caso di «perdita d’identità generazionale». Le famiglie e gli individui tendono in sostanza a indebolire la loro memoria storica, la posizione che occupano nella trama ge-

nerazionale, e questo produce danni assai gravi sia nelle biografie individuali sia nella vita delle società, rendendo quanto mai urgente, da un lato, una riflessione sul significato antropologico profondo che è sotteso all’idea di generazione (ognuno di noi è stato «generato», sia in senso biologico che culturale) e, dall’altro, un richiamo forte a quella che Giovanni Paolo II ha definito «solidarietà tra le generazioni».Tale richiamo interpella in primo luogo la famiglia, le relazioni familiari, nonché la consapevolezza «generazionale» che la famiglia stessa è in grado di

elaborare. È in famiglia che si impara (o si dovrebbe imparare) fin da piccoli a fare i conti con gli altri, ad affrontare i conflitti, la pluralità degli interessi e dei punti di vista, con uno spirito che, fin da principio, riesce a mettere nel conto che bisogna essere tolleranti, che bisogna ricercare l’accordo, perché in fondo ci si sente uniti e amati, si sente di vivere in un mondo che, pur con tutti i problemi, appare come la nostra casa, la casa di tutti. In una parola, è in famiglia che si incominciano a costruire relazioni sociali degne del nome e questo è tanto più facile quanto più la famiglia è biologicamente e culturalmente «generativa» e «intergenerazionale». La presenza dei genitori, dei figli, dei nonni in una stessa comunità familiare rappresenta il segno visibile e concreto di un’alleanza che dev’essere estesa anche al di fuori. In questo modo la famiglia diventa la prima e insostituibile scuola di «solidarietà tra le generazioni». Ma la famiglia non può essere lasciata sola in questo compito.

Ci vuole un impegno anche da parte della società. Solo una maggiore sintonia tra famiglia e società potrebbe dar vita a una nuova cultura della solidarietà tra le generazioni. Spesso, però, sembra che la società produca più ostacoli, barriere e interferenze che aiuti. E sebbene la famiglia, per quanto affannosamente, riesca ancora a mediare fra le generazioni, possiamo star certi che, nel lungo periodo, non potrà più farlo, se la società in generale, istituzioni pubbliche e private, non mostreranno altrettanto impegno, per superare quella che viene ormai definita come «disequità generazionale». Se ci pensiamo bene, le odierne relazioni intergenerazionali stanno assumendo un carattere contraddittorio: mentre sul versante socio-politico la generazione anziana è impegnata a tutelare i propri interessi, sul versante familiare fa quadrato attorno alle giovani generazioni, offrendo loro supporto e protezione. Si sta verificando insomma uno scollamento tra i «giochi generazionali» tendenzialmente accomodanti della sfera familiare e quelli tendenzialmente conflittuali della sfera pubblica, che sembra destinato a riverberarsi negativamente anche sulla società nel suo complesso. In una società che si muove su un registro generazionale di tipo conflittuale, infatti, la famiglia, anche quando riesce ancora a farsi carico dello scambio generazionale, viene sollecitata a chiudersi in se stessa, a sfruttare e usurare semplicemente le risorse solidaristiche di cui dispone (nonni disponibili ad accudire i nipoti; figli disponibili ad accudire i genitori anziani, ecc.); quando invece non ci riesce, quando cioè la famiglia non è in grado di rimediare alla mancanza di scambi equi fra le generazioni nell’arena sociale, viene spinta alla rottura e alla frammentazione. Con grave danno sia per la famiglia che per la società: l’una, la famiglia, sempre più esposta al rischio di frammentarsi, di non farcela più a svolgere la propria funzione di mediazione tra le generazioni, e l’altra, la società, sempre più impegnata nella vana (e costosa) ricerca di equivalenti funzionali il più delle volte inesistenti.


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cd

e li immaginate i Bee Gees da Saturday Night Fever che tutt’a un tratto inciampano nel pop elettronico? Ce li vedete i Queen che flirtano coi Beach Boys? Prendete The Boy Who Knew Too Much, andate alla terza traccia (Rain), alla settima (Good Gone Girl) e poi ne riparliamo. Anzi, parliamone subito. Michael Holbrook Penniman, in arte Mika, 26 anni, compositore londinese d’origini libanesi, fa un pop che più ridondante non si può. Ha scoperto l’acqua calda, ma l’ha fatto nei minimi dettagli ben conscio che al pop, fin dagli anni Sessanta, vanno a genio le traiettorie imprevedibili, le capriole nel cabaret, gli a tu per tu col musical. È successo coi Beatles di Ob-La Di, ObLa Da e Yellow Submarine, i Kinks griffati Lola, Sunny Afternoon e Dead End Street, il Lou Reed di Goodnight Ladies e di New York Telephone Conversation. È capitato con David Bowie (The Prettiest Star e Cracked Actor), due terzi del repertorio dei Roxy Music e l’intera discografia degli Sparks. Con i Queen di Bohemian Rhapsody e Bicycle Race, i 10cc (Rubber Bullets, Life Is A Minestrone), gli Abba (Mamma Mia!, Fernando) e i Supertramp, dal principio alla fine di Breakfast In America. Tutti a rimeggiare, schioccando le dita, alla faccia del rock. E se per caso c’era qualcuno che cantava in falsetto, tipo Freddie Mercury, tanto di guadagnato. Glamour assicurato fino all’ultimo gorgheggio. Dopodiché, punto e a capo, è arrivato Mika. L’ineffabile ugola con le paillettes. Nel 2007, con quel tormentone pomposo e kitsch intitolato Grace Kelly, corona il sogno di diventare una star. Proprio lui, l’ex bimbo dislessico che i genitori avevano preferito allontanare da scuola e indirizzare alla musica con ottimi risultati: lezioni di pianoforte e canto da far sbalordire i maestri, tanto era bravo; ingresso più che meritato alla Royal Opera House di Londra, appena undicenne. Ha ancora i brufoli e già compone musica. Spedisce canzoni a destra e a manca: gli rispondono che ha talento, ma di ripassare quando sarà il

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musica Le capriole di Mika MobyDICK

ugola con le paillettes

in libreria

GIUNI, LA SICILIANA RIBELLE

di Stefano Bianchi nuovo Robbie Williams. Insiste: scrive jingle pubblicitari e si fa pubblicità su MySpace. Lo cliccano in migliaia, ed è già famoso quando i discografici si accorgono finalmente di lui. Così, dopo Grace Kelly è il turno di Life In Cartoon Motion. L’album del debutto. Con relativi concerti (o commedie musicali?) a base di clown, acrobati, ballerine. E adesso che è uscito The Boy Who Knew Too Much (Il ragazzo che sapeva troppo), Mika parla di svolta «adolescenziale»: «Se Life In Cartoon Motion si riferiva all’infanzia, il nuovo disco è più teenager. Ricordando certe sensazioni di quando avevo diciott’anni, ho riscoperto quel periodo della mia vita». E ha rimesso in ballo quel «glam pop» che in We Are Golden ricorda Heaven Is A Place On Earth di Belinda Carlisle e poi, pezzo dopo pezzo, si trasforma da orecchiabilità ai massimi livelli (Blame It On The Girls), a swing (Dr. John); da ballata soft (By The Time), ad afrore dei Caraibi con retrogusto di Paul Simon (Blue Eyes). Alla lunga può annoiare, quel falsetto che sbuca fuori da ogni strofa. Ma Mika, musicalmente parlando, ci sa fare: ti butta lì Touches You, facendo impallidire George Michael; nei due piccoli capolavori del disco, Toy Boy e Pick Up Off The Floor, riesce nell’impresa d’intrecciare Brecht & Weill col musical stile Broadway; con One Foot Boy, si toglie addirittura lo sfizio del rhythm & blues. Mika è un fesso. A regola d’arte, queste sono canzoni pop. Se non perfette, poco ci manca. Mika, The Boy Who Knew Too Much, Island/Universal, 16,90 euro

mondo

riviste

GREEN DAY FORMATO BROADWAY

NEWPORT IN SALSA ITALIANA

«U

na voce regina che le influenzò l’intera esistenza. Un talento eccezionale, pesante da portare come una maledizione: suo amore e dolore Sacro. Voce unica e riconoscibile sin dalla prima nota. Acuta e mediterranea, dai canti religiosi da bambina fino alla fedele riproduzione degli echi liberi e nostalgici dei gabbiani sulla spiaggia. Ma lei libera non lo fu mai,

A

ttesi in Italia per i tre concerti che li vedranno impegnati dal 10 al 12 novembre a Milano, Bologna e Torino, i Green Day potrebbero presto debuttare a Broadway, dopo i due mesi di programmazione previsti per il loro American Idiot, penultimo album della band statunitense che è diventato un musical diretto da Michael Mayer. La prima del 19 settembre al Repertory

T

Le virtù canore incredibili e la tormentata vita privata. Bianca Pitzorno racconta la Russo

Mayer dirige la prima di ”American Idiot”, musical tratto dall’omonimo album della band

Al via il 27 settembre la nuova edizione del jazz festival bergamasco: ospite Roberto Gatto

melanconica e battagliera sempre. Una fune pesante la tenne ancorata a terra, la sua carriera costruita con sudore e mille rinunce si ripiegò su se stessa come cartone bagnato». Giovanbattista Brambilla ricorda così Giuni Russo, una delle più intense e fugaci voci della musica italiana cui Bianca Pitzorno dedica una bella biografia: Giuni Russo. Da un’estate al mare al Carmelo (Bompiani, 224 pagine, 24,00 euro). La vittoria di Castrocaro a sedici anni, gli studi lirici, l’incontro con Battiato alla fine degli anni Settanta, la lite distruttiva con la Caselli, le virtù canore incredibili. Storia di una siciliana ribelle.

Theatre di Berkeley, in California, ha registrato grande successo e resterà in cartellone fino a novembre. Presenti alla prima, Billy Joe Armstrong e soci hanno raccolto gli applausi del pubblico ma non si sono detti sorpresi. «Non avevo preoccupazioni» ha fatto sapere Joe. «Ero entusiasta di conoscere il regista Michael Mayer. Eravamo rimasti senza parole per il suo Spring awakening, quindi non eravamo in apprensione». Ad arricchire il repertorio del musical, anche alcune b-sides di American Idiot e brani tratti dall’ultimo fortunato lavoro.

nella simpatica cornice del salone di Bigio L’Oster, il festival di Albino presentato su jazz.it propone il consueto amalgama tra cucina casereccia di qualità e musica sopraffina. A esibirsi quest’anno sul palco dell’Oster ci sarà per il primo appuntamento la JW Orchestra di Marco Gotti, in compagnia di una guest star d’eccezione come il grande batterista Roberto Gatto. A suonare con lui lo stesso Marco Gotti al sax alto e soprano, Maurizio Moraschini al tenore, Umberto Marcandalli, Sergio Orlandi e Gigi Ghezzi alla tromba e Lorenzo Erra al piano. Ancora coperti dal mistero gli altri nomi che si alterneranno nel corso della rassegna.

a cura di Francesco Lo Dico

orna puntuale come ogni anno a partire dal 27 settembre il Jazz Festival at Niuporc, kermesse bergamasca che pur nel goliardico richiamo alla celebre rassegna di Newport ha visto esibirsi negli anni passati ospiti internazionali del calibro di Yellowjackets, Bob Mintzer, Russel Ferrante, Franco Ambrosetti, Gianluigi Trovesi, Emilio Soana, e tanti altri. Allestito


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zapping

I PEARL JAM? No, they cannot di Bruno Giurato è bisogno di un po’ d’aria, per far girare la musica nel lettore mp3 con il settembre in corso, con l’autunno pieno di cose da fare. Qualcosa che si intoni all’ambiente, e anche all’angolo di città in cui si abita. Quaggiù nel girone di Roma Pigneto c’è bisogno di musica non troppo lussuosa. Con rammarico un paio d’anni fa hai cestinato lo splendido The Joni Letters di Herbie Hancock perché era musica come cristalleria di Tiffany, e con la visione dei bidoni dell’immondizia pieni stonava. Oggi il devastante Carboniferous degli Zu non va bene, semplicemente perché è troppo. Troppo violento, troppo isterico, troppo apocalittico. Gli Zu meritano a prescindere, sono diventati una delle più grandi rock band del mondo provenendo da Ostia, ma con quel disco in cuffia rischi di dare il resto al fruttivendolo accompagnandolo con un pugno alla mascella. Verso luglio sei caduto tra le grinfie di Dave Matthews. Il suo Big Whisky è la tipica americanata. Grinta rock al photoshop (cioè con le sbavature corrette), testi romantici, voce che è un trionfo dell’ammicco. Piacevolezza a mille, verità a zero. E così speravi molto nell’ultimo dei Pearl Jam, Backspacer presumibilmente buono per una giornata di lavoro in giro, e per un sogno serale. E alla fine te lo sei procurato, e quasi ci sei rimasto per il disappunto. Sembra Bruce Springsteen. In effetti il produttore è lo stesso di Bruce Springsteen. I Pearl Jam hanno messo in vendita un disco che al primo ascolto è l’immagine della mediocrità, a un secondo ascolto pure, e al terzo forse non ci arriveremo. Il recensore del sito Rockol dice che i PJ avevano bisogno di leggerezza, e che l’America è cambiata dato che c’è Obama e non più quel fetentone di Bush. Ma si vede (vedi anche il caso di Working on a dream di Springsteen) che i politici polite non generano buona musica. Aridatece i Pearl Jam di una volta. A costo di ridarci il puzzone di Bush.

C’

classica

Mendelssohn secondo Mitropoulos di Jacopo Pellegrini ischia di trascorrere un po’ in sordina il bicentenario di Felix Mendelssohn-Bartholdy, nato 200 anni fa ad Amburgo da padre banchiere e da nonno filosofo, quel Moses che fornì a Lessing lo stampo per il protagonista ebreo del suo ultimo dramma, Nathan il saggio (1779). Felix si convertì giovinetto al protestantesimo; anzi, dirigendo nel 1829, a Berlino, la prima riproposta pubblica della bachiana Passione secondo Matteo si pose tacitamente a capo di quella corrente di pensiero, romantica e tedesca, che vedeva nel ritorno al genere sacro una scelta non solo di campo estetico, ma anche, in senso più lato, politico-culturale (unità spirituale della civiltà germanica). Schiacciato tra gli altri anniversari del 2009 (Handel e Haydn), penalizzato dal fatto di passare per un autore di repertorio, Mendelssohn se ne sta in un angolo, come un parente povero. C’è stata l’ampia, attraente rassegna di concerti monografici al benemerito Festival Pontino; sono, inoltre, alle viste un importante convegno di studi sul giovane Mendelssohn a Perugia (4-5 dicembre) e una monografia ben nutrita di Maria Teresa Arfini per L’Epos di Palermo.Tuttavia, molta musica sua resta mal conosciuta: la religiosa, quella pianistica e da camera (salvo rare eccezioni), gli oratori sacri e profani (La notte di Valpurga, poesia di Goethe, che conobbe e adorò). Consoliamoci ascoltando due succulente uscite discografiche: l’inedito Singspiel del 1820 Soldatenliebschaft diretto da Eric Solén (Querstand) e un cd Medici Masters della (MM014-2), nel quale l’immenso Dimitri Mitropoulos, con l’ottima Orchestra sinfonica della radio di Colonia, rilegge da par suo due sinfonie tanto note, quanto mirabili: la n. 3, Scozzese, e la n. 5, La riforma. Ci si fa incontro un Mendelssohn ignaro di sdolcinature (niente più classico tra i romantici, per fortuna), immerso in un clima notturno e visionario. Mitropoulos, indagatore del «nuovo»

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ovunque esso si annidi, mette in luce un parallelo significativo: mentre il didatta e compositore Adolph Bernhard Marx pubblica un saggio sulla pittura musicale (1828) e il Manuale della composizione musicale (a partire dal 1837), in cui la Forma sonata adottata dai Classici viennesi (Haydn Mozart Beethoven) diviene hegelianamente uno strumento privilegiato dello Spirito, il suo buon conoscente Mendelssohn dà concretezza sonora a queste teorie. Nella Riforma (1832) e nella Scozzese (1829-42) si manifestano «le circostanze esterne, le azioni, gli eventi», che ispirarono e nutrirono la musica, e che ne fanno un corrispettivo della letteratura o della pittura. La bacchetta privilegia in modo esplicito la componente lirica (canto inteso al modo romantico, come espressione dell’Io), per mezzo d’un legato ad ampia gittata; al tempo stesso, ha cura di sostenere il dato melodico con una drammatizzazione del tessuto sonoro, che trae partito dai contrapposti motivi, espressivi, dinamici. Nella Quinta Sinfonia (eseguita nel 1957) l’implicito clima «religioso» campeggia fin dall’Andante introduttivo (cura delle doppie forcelle nei fiati, a simulare i registri dell’organo), senza tracce di retorica, sempre anzi conservando lo slancio intimo della fede connaturato al Mendelssohn uomo (sezione Allegro vivace in 6/8 dell’ultimo movimento, con la cavalcata degli archi che guida la fede luterana - il corale Ein’ feste Burg, qui assegnato ai legni - al trionfo finale, celebrato nel successivo Allegro maestoso). La Scozzese è tratta dall’ultimo concerto pubblico di Mitropoulos (1960), pochi giorni avanti il fatale attacco cardiaco sul podio della Scala: deciso lo spicco di tutti gli andamenti danzanti a carattere folklorico, e inesauribile la carica energetica, massime nel tempo conclusivo, laddove le diverse sezioni trovano un denominatore comune nell’impasto timbrico virato verso lo scuro e la caligine.

jazz

Rotondo, la voce (di tromba) del fanciullino pascoliano di Adriano Mazzoletti ella notte fra il 14 e il 15 settembre è scomparso a Roma Nunzio Rotondo. La sua morte a ottantacinque anni segue di poche settimane quella di un altro nostro musicista di jazz, Gianni Basso di qualche anno più giovane. Nato a Palestrina nel 1924 figlio di un clarinettista e di una cantante, venne subito avviato allo studio della tromba e nel 1944, quando Roma non era stata ancora liberata, faceva già parte della sezione trombe di una orchestra dell’Eiar, quella diretta da Piero Rizza con Armando Trovajoli. La personalità di Rotondo è assai complessa. Dava voce jazzistica al «fanciullino» pascoliano: pieno di speranza e insieme di timore del mondo, incline a ripiegare in una malinconia senza altro sfogo che l’amarezza solitaria. Di sicuro c’è che Rotondo non ha mai voluto staccarsi da Roma, anche quando ebbe

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offerte allettanti da grandi musicisti, come Lionel Hampton, Clark Terry, Sonny Rollins o Dizzy Gillespie sempre alla ricerca di giovani talenti. Il suo rifiuto di inserirsi nel mondo del jazz internazionale, che forse considerava difficile o insidioso, che lo avrebbe allontanato dalla semplice e tranquilla vita romana, lo indusse a trovare rifugio per lungo tempo negli studi della Radio e cambiare spesso partner, anche se per lui era difficile trovare musicisti alla sua altezza. Il suo debutto discografico avvenne il 9 marzo 1950. Quella prima seduta ebbe grande significato per il jazz italiano: un giro di boa di notevole importanza. Dei tre brani incisi il primo è il bel tema di Piero Piccioni Boppin’ for Bop, in cui Rotondo si limita a suonare sedici battute, incastonate fra uno splendido Marcello Boschi e un modesto Bruno Campilli, pianista che scomparve dal mondo del jazz così come era apparso. Dove invece Roton-

do è realmente superbo è in The Man I Love. Un Rotondo davisiano non per scelta estetica ma per urgenza interiore - lo sarebbe stato anche senza Miles Davis; il modello sono le notturne ballad incise dal quintetto di Charlie Parker. Ma a parte che qui i ruoli sono invertiti - predominante la tromba, secondario il sax alto -, Rotondo ha personalità tanto forte da ripensare tutto a modo suo. Del tema originario egli espone poche note e subito se le scrolla di dosso: è se stesso, lamentoso e commosso, implorante e disperato. Sotto il volo della sua tromba ha predisposto un fondale scritto per sax alto e tenore, che evocano a note lunghe il familiare disegno del tema di Gershwin. Dopo il suo assolo, Rotondo lascia spazio al sax alto di Marcello Boschi, che vi colloca il più bell’assolo della sua vita, perfetto e quasi furioso nella sua ansia scalpitante. Nel corso della sua continua evoluzione è possibile individuare due mo-

menti topici. Il primo copre il periodo 1950-54, caratterizzato da una produzione discografica con formazioni di sei-sette elementi e da una notevole attività concertistica. Il secondo periodo, 1958-1975, segna invece gli anni più intensi del lavoro negli studi radio con complessi di quattro-cinque musicisti. Della sua lunga attività sono attualmente reperibili solo quattro cd. Il primo è la riedizione del long playing Rca Romano Mussolini con Nunzio Rotondo e Lilian Terry, il secondo una riedizione delle sue prime incisioni, con The Man I love, in un cd della Riviera Jazz Record. La cospicua produzione realizzata per la radio e la tv giace ancora negli archivi del nostro servizio pubblico. Solo di recente la giovane etichetta via Asiago Dieci, che si prefigge di rendere pubblico l’archivio radiofonico, ha diffuso due cd con ventinove brani del periodo 1964-1980.


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narrativa

libri

Il femminismo d’antan di Paola

Masino di Maria Pia Ammirati

l libro che abbiamo letto questa settimana rientra nella categoria delle riscoperte, una riscoperta nostrana che potrebbe fare eco a un testo che ha vaghe analogie ma solidi contrappunti come Zia Mame di Patrick Dennis, successo estivo che ha portato alla ribalta un libro pubblicato nel 1955 e per l’appunto riscoperto. Nascita e morte della massaia a differenza del diario di una donna allegra, fuori dalle righe e ricchissima, nonché americana come zia Mame, è la storia visionaria, con inclinazioni teatrali, di una giovane italiana che si adatta alla vita matrimoniale e alla casalinghitudine con grande sforzo e riluttanza, al punto da morirne. L’autrice, Paola Masino, è stata un’importante scrittrice degli anni Quaranta, una proto femminista nella sostanza, viste le scelte di vita che fece, tra cui abbandonare la famiglia di provenienza per seguire Massimo Bontempelli, suo grande amore e pigmalione, ma allora sposato. Una donna quindi che affrontò lo scandalo e in seguito

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anche la malattia dello, e che si dedicò tutta la vita alla letteratura anche nella documentazione degli scritti scrittore di Bontempelli. Nascita e morte della massaia è un libro che ha a sua volta una sua vita propria e articolata, uscito a puntate sulla rivista Tempo, l’edizione già pronta nel 1944, per i tipi della Bompiani, fu distrutta sotto i bombardamenti. La prima uscita in volume è del ’46, la seconda, con un’introduzione di Cesare Garboli, del 1970. Entrambe le edizioni furono oggetto di critiche tiepide e alcune piccate, il testo che risente di accenti di surrealismo magico e di spinte teatrali pirandelliane, nella sua fluidità non dava spazio a una lettura narrativa di grande respiro. L’edizione di oggi è curata da Marina Zancan che affronta un altro tema-enigma di questo testo che ha straordinarie

virtù, soprattutto quando ci riporta un clima storico e taluni topoi letterari che vissero all’ombra e di ripiego alle avanguardie. La Zancan riporta una dichiarazione della Masino che, parlando del libro, sosteneva una contiguità autobiografica. Secondo la scrittrice il romanzo era nato infatti sotto la spinta di una sua ossessione personale, l’odio trasformato in ossessione per la cura della casa, nel momento

in cui la Masino lascia Roma per seguire Bontempelli a Venezia. La Zancan non manca di notare però che la stesura del libro ha una data antecedente all’incontro e alla vita in comune con Bontempelli, e che, probabilmente, è frutto di riflessioni diverse sul ruolo della donna e sullo stato della società italiana del tempo. Su una precoce insofferenza, per un abito mentale e culturale maschile, che doveva aver colpito anche lei, giovane e affermata intellettuale piuttosto che per un reale disagio a indossare i panni della casalinga. E ritorniamo a questo punto alle due donne citate in apertura, zia Mame e la mas-

saia italiana, un oceano le separa certo anche per stato sociale, ma entrambe trovano nell’anticonformismo la chiave per aggredire la realtà. I toni comici e ironici dello scrittore Patrick Dennis sono accattivanti e hanno decretato il successo del libro di Adelphi, la nostra Massaia rimane, nonostante tutto, un libro di nicchia, il cui tema affrontato in altra chiave avrebbe richiamato a sé più lettori, ma ci lascia in eredità più il clima culturale di un’epoca che la sua fotografia. Paola Masino, Nascita e morte della massaia, Isbn edizioni, 296 pagine, 14,00 euro

riletture

Piovene, lettore (e narratore) “controverso” di Claudio Marabini uido Piovene torna oggi con la ristampa di due importanti libri: il romanzo Le Furie e il saggio Il lettore controverso. Scritti di letteratura (Aragno editore, 15,00 e 25,00 euro). Le Furie uscì nel 1964; gli Scritti di letteratura raccolgono pagine che vanno dal ’26, iniziano con La piramide di Palazzeschi, e continuano col primo Moravia, con Alvaro, con Loria e Tozzi… Si tratta di un lungo percorso in cui gran parte del nostro Novecento trova luogo e sistemazione: sistemazione quasi sempre problematica e discussa, ma in ogni caso viva, a determinare la vivacità e vivezza dei nuovi tempi e gli interessi sempre rinnovati per una letteratura che sembra rinascere e aprire nuovi orizzonti. Piovene è uno scrittore molto vivo, curioso di ogni presente, pronto a misurarsi con ogni novità, a di-

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scuterle. Da qui nasce il senso della sua letteratura, del suo scrivere e narrare, narrare e discutere, essendo la realtà una «piazza» incerta ma ricchissima, mai addormentata, discutibile sempre, viva e discutibile come la vita stessa. «Controverso» il lettore ma anche il narratore, a cui mai venne meno la curiosità del vivere e del capire. Ciò che lo fece sempre un grande giornalista, pronto a misurarsi con le novità ovunque essa affiorasse, e a penetrarne il lato positivo: e leggerlo e a penetrarlo per farne materia del vivere e del capire. Esattamente questo lo faceva «naturalmente» giornalista e cronista, analista a ogni passo, insoddisfatto ma profondamente partecipe, curioso ogni momento, continuamente parte viva della realtà che saliva alla ribalta e chiedeva ascolto e intelligenza. Si può capire benissimo il senso profondo delle «furie», ma anche quel lettore «controverso» che lui stesso ci

propone e sembra accompagnare in grembo al lettore. Negli scritti di letteratura vive sì il cronista e il grande giornalista, ma vive soprattutto il cronista bisognoso di novità: di tutto quello che si annuncia nuovo, vero e serio al tempo stesso. E in fondo i due libri che ci regala Aragno ci offrono i due poli in cui meglio compare il senso del reale e delle cose che toccano il nostro scrittore. Da un lato lo spettacolo di tutte le cose di questo inesauribile mondo - spettacolo inesauribile e sempre nuovo - e dall’altro il bisogno, anche il destino, di affrontarlo, di discuterlo, e di farne nutrimento per noi e il nostro bisogno di penetrarlo, di trovarne la più vera ragione e se possibile il mistero: essendo la realtà un teatro inesauribile, continuamente nuovo, di cui il vero cronista è il più attento osservatore, l’assetato amico e compagno. Ciò che fu sempre negli anni il nostro Guido Piove-

ne: attentissimo osservatore, partecipe comprimario, partecipe in ogni momento dell’eterno gioco della realtà, inesauribile, vivissima sempre, contraddittoria ma eternamente viva e figlia nostra, dei nostri sogni, delle nostre velleità. Difficile - crediamo - trovare un cronista e un osservatore come Piovene, così aperto allo spettacolo del reale, e così «curioso» della sua forza e verità. Soprattutto così acuto nell’accogliere e nell’esaminare tutti i sintomi del reale. Uno spettacolo bellissimo e talora illeggibile, difficile e inafferrabile, ma sempre ineguagliabile: di cui Piovene seppe essere cronista unico e sicuramente insostituibile per intelligenza e pazienza. Ciò che fece di lui allo stesso tempo il cronista fedele, e il narratore più acuto, per il quale il narrare e l’indagare furono fatalità giornalistica di continua ricerca, colma di novità e di vita, di «fatti» della nostra vita e della nostra giornata.


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26 settembre 2009 • pagina 7

filosofia

Indagine sull’essenza dell’assassino

di Giancristiano Desiderio l nuovo libro di Manlio Sgalambro si intitola Del delitto, ma si sarebbe potuto anche intitolare Appuntamento con l’assassino che sono. Il filosofo siciliano (non so se sia dello stesso paese di Gorgia, certo è che il grande sofista potrebbe anche essere un antenato di Sgalambro) si interroga sull’essenza dell’assassino. Se c’è un delitto, c’è un assassino e conoscere chi sia e quali siano le sue ragioni e se le sue ragioni vadano addirittura d’amore e d’accordo, pur nel contrasto, con le ragioni della vittima è il compito che Sgalambro affronta nella sua ultima «fatica del concetto». Se Socrate fosse morto

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società

di morte naturale la filosofia avrebbe avuto un diverso corso, Platone - per iniziare - difficilmente avrebbe scritto i suoi Dialoghi la cui origine è da ricercarsi proprio nel «perché» Socrate morì, anzi perché fu assassinato. La filosofia inizia non tanto come ricerca disinteressata, quanto indagine sulla morte di Socrate. La radice della filosofia è il delitto politico. Vita e morte sono più legate di quanto non si creda. Anzi, comunemente si sa che la vita e la morte sono legatissime, tanto che ogni nostro atto è dettato dalla volontà di vivere - come dice Schopenhauer - e quindi dalla volontà di scacciare la morte. Ma la morte naturale non è il delitto. «L’uomo è mortale», dice Sga-

lambro, non significa che «l’uomo muore», ma che l’uomo è datore di morte. L’uomo è mortale significa che l’uomo uccide. L’uomo è l’assassino. Cosa questa che è solo umana, perché tra gli animali ci sono i predatori, i rapaci, i cacciatori, i carnivori, ma non ci sono animali assassini, animali che uccidono per commettere un delitto. I libri di Sgalambro sono degli excursus nella storia della filosofia intesa come storia del pensiero ossia come storia del concetto. Pur essendo Sgalambro uno Schopenhauer-dipendente quasi un dipendente di Schopenhauer - avverte da un po’ di tempo il richiamo della foresta hegeliana. Il suo «concetto dell’assassino» vuole essere un pen-

sare speculativo in cui la morte la negazione della vita - ci deve essere per offrire alla vita il sacrificio di sé. Anche l’assassino è un uomo, diceva Hegel, e ne dobbiamo comprendere le ragioni e lasciare da banda ogni astrattezza ideologica. Sgalambro, alla sua maniera vagabonda, prova a fare la stessa cosa e ricerca ciò che lega indissolubilmente l’assassino alla sua vittima, come se il loro corpo a corpo fosse la comune anima che li lega. Per Sgalambro il delitto è la comprensione delle cose che incomprensibilmente vivono (sempre che abbia capito cosa lui abbia voluto dire). Manlio Sgalambro, Del delitto, Adelphi, 182 pagine, 13,00 euro

Iliade metropolitana nel segno degli ultrà di Franco Ricordi iuseppe Manfridi è uno dei pochi drammaturghi italiani affermatisi, a ragione e con gloria, non solo in Italia ma anche all’estero. Dagli anni Novanta ha goduto di una serie di importanti successi, anche se è noto quanto sia difficile, per non dire quasi impossibile, divenire in tutto e per tutto autori teatrali in Italia. Per questo motivo Manfridi si è dedicato anche al cinema e, più recentemente, alla narrativa. Non è peraltro la prima volta che il letterato Manfridi abbia ceduto il proprio spazio al grande tifoso calcistico: appassionato romanista, egli ha già dedicato al calcio più di un testo teatrale tra cui Teppisti, interamente scritto in versi (facendo notare tra l’altro come «Vaffanculo lo dici a tua sorella» sia un perfetto endecasillabo). Dal teatro il discorso si è evoluto nella collaborazione cinematografica con Ricky Tognazzi e ora nel nuovo romanzo Epopea Ultrà. Posto che l’utilizzo del linguaggio sia quasi sempre, da parte di Manfridi,

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qualcosa di particolare ed essenziale nella sua drammaturgia, dobbiamo riconoscere come in certi casi ciò risulti ancor più peculiare nelle prove di narrativa, come già in Cronache dal paesaggio. Epopea Ultrà è un potente affresco della nostra epoca, attraverso le vicende parallele del capotifosoVincenzo (Vinz è il suo nome di battaglia) e di Angelo, agente di polizia, che si incroceranno fatalmente. Alla fine il romanzo diverrà una vera e propria Iliade metropolitana. Ma ciò che più colpisce è davvero l’uso,

arte

ovvero il rapporto che si stabilisce con il nostro linguaggio, che sembra dover cedere il passo all’immaginario audiovisivo della nostra epoca. In una Italia lacerata da una politica di basso conio, ecco che la realtà tende sempre più a deformarsi, e il linguaggio cede inevitabilmente all’eccesso di comunicazione che ci travolge. Basti leggere poche righe di un capitolo del libro intitolato Nuntereggae più, e si comprende come siamo di fronte a una sorta di inquietante impossibilità di Joyce: «Convergenze. Il circo si deve fermare. Dimissioni dallo stato di cittadino italiano. La Mussolini che agita l’unghia laccata davanti all’imperiosità dei suoi labbroni e sbraita. No, questo non è ammissibile. Punti di vista. Questione di punti di vista. Se mi fa parlare. Crepet infastidito. Zecchi pelato ma non calvo». Siamo insomma di fronte a una epopea che non riguarda soltanto l’alone mitico del calcio, ma della nostra grande malattia sociale. Giuseppe Manfridi, Epopea Ultrà, Limina, 254 pagine, 18,00 euro

Sovvertimenti del bello dal Kitsch a Warhol di Angelo Crespi l discorso sulla bellezza nel mondo contemporaneo e nell’arte che ne è peggior specchio si fa sempre più stringente. Ma non si comprende se sia posizione di retroguardia oppure giusto tentativo di far tornare le cose come devono essere. Il saggio di Giovanni Fighera, semplice e piano, convincente e in toto condivisibile, è un ulteriore tentativo di razionalizzare il percorso che ci ha condotti dall’arte a quella che chiamiamo oggi arte. Ovviamente la causa prima è nel relativismo che dapprima di

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ordine gnoseologico (l’impossibilità di conoscere davvero la realtà) diventa relativismo etico e poi estetico: se non si possono conoscere le cose, a maggior ragione non si possono più pensare valori, né distinguere il bene dal male, il bello dal brutto. Anzi nell’arte c’è un sovvertimento che ancora non è riuscito nella morale in cui una residuale distinzione tra bene e male resiste. Nell’arte invece oggi il brutto è diventato bello, in una sorta di sovvertimento diabolico l’insensato, la spazzatura, il dissacrante sono percepiti come cose belle, piene di senso, che dovrebbero,

chissà in quale modo, liberarci dalla catene dell’ignoranza. I passaggi di questo sovvertimento sono facilmente riassumibili anche se vale la pena inoltrarsi nella più convincente analisi di Fighera: prima l’industrializzazione ottocentesca rende possibile la serializzazione dell’opera d’arte, poi si afferma il Kitsch come possibilità borghese di fruire dell’opera serializzata, poi Duchamp intuisce che ormai qualsiasi oggetto d’uso quotidiano può essere innalzato a opera, nel frattempo le avanguardie novecentesche mettono in discussione il concetto stesso di opera

d’arte, in seguito con Warhol l’oggetto di massa diventerà prodotto artistico, infine con l’avvento dell’arte trash sarà azzerata ogni velleità metafisica, ogni tradizione, qualsiasi valore estetico che non sia il brutto. Altri tempi quelli in cui Dostoevskij ancora sosteneva che «la bellezza salverà il mondo» considerandola una necessità legata al nostro essere, al nostro stare al mondo, quella di preferire il cosmos, cioè il formato e sensato, al kaos. Giovanni Fighera, La bellezza salverà il mondo, Ares edizioni, 272 pagine, 16,00 euro

altre letture Il passaggio dalla dittatura alla democrazia repubblicana ha avuto uno svolgimento più contraddittorio e corale rispetto a quello raccontato dalla vulgata antifascista del dopoguerra, che ha molto accentuato il ruolo della resistenza partigiana. Leonardo Paggi nel Popolo dei morti (Il Mulino, 309 pagine, 24,00 euro) propone una ricostruzione storica della transizione alla democrazia che si sofferma anzitutto sulla violenza dei bombardamenti angloamericani, fino a oggi taciuta nel rispetto del paradigma della guerra giusta e sui suoi effetti politici di breve e lungo periodo.

Rio Quibù (Fazi editore, 158 pagne, 16,50 euro) di Ronaldo Menèndez è un romanzo vertiginoso e nerissimo, ambientato nella Cuba dei giorni nostri, dove il cannibalismo diventa l’allegoria della denuncia sociale di un sistema politico dove Fidel Castro, il vecchio lider maximo dell’isola, è ormai un monumento impietrito. Una satira feroce, una storia irriverente e cruda, quella di un adolescente che si rifugia nell’inferno della povertà accanto al fiume Quibù, per indagare, far luce e decidere come agire dopo lo stupro e l’assassinio di sua madre. Un gioco vertiginoso di ombre e di specchi: è questa le definizione più efficace di La differenza sdoppiata di Wendy Doniger (Adelphi, 427 pagine, 48,00 euro), un saggio che esplora il mistero psicologico della duplicità umana e dello sdoppiamento nelle sue più svariate manifestazioni. Le storie riguardanti sdoppiamenti e divisioni dell’identità di esseri femminili mortali e immortali sono analizzate e messe a confronto spaziando liberamente dalla tragedia greca al Rg Veda, dal Dr. Jekyll e Mr. Hyde a Dracula e alle loro versioni cinematografiche, da Dorian Gray al folklore indiano e alle recenti versioni a fumetti di antichi miti, in un gioco vertiginoso di ombre e di specchi. Per esempio, secondo Erodoto, Elena non aveva mai raggiunto Troia perché trattenuta in Egitto. Il suo posto, secondo Euripide, era stato preso da un’immagine, da un simulacro, sicché Paride e Menelao s’erano battuti per un’entità aerea, per un semplice nome. a cura di Riccardo Paradisi


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storia

COSÌ NEL VENTESIMO SECOLO IL POPOLO EBRAICO IRRUPPE NELLA STORIA CAMBIANDO IL CORSO DELLA MODERNITÀ E FONDANDO UNA CULTURA, LAICA E RAZIONALISTA, CHE SI DISTACCAVA DAGLI STEREOTIPI ARCAICI E DAL TRADIZIONALISMO RELIGIOSO. LO SPIEGA ANNA FOA, IN UN SAGGIO RICCO DI RIFERIMENTI E DI SPUNTI DI RIFLESSIONE

Il Novecento scritto dagli ebrei di Mauro Canali crive Anna Foa che se la valenza simbolica, attribuita agli ebrei fino alla fine dell’Ottocento dal mondo esterno, era sostanzialmente negativa, in quanto gli ebrei venivano visti come il popolo testimone, incredulo e deicida, il Novecento rappresenta, al contrario, una vera frattura, in quanto prende vita una espressione autonoma del mondo ebraico, vera autorappresentazione in positivo di sé. Con una frase molto suggestiva la studiosa scrive che gli ebrei fanno il loro «ingresso nella storia». E non è, precisa Anna Foa, semplicemente una forza simbolica che derivi solo dalla tragedia dello sterminio o della persecuzione, di essere stato il mondo ebraico «oggetto del più radicale degli annullamenti», ma anche dalla consapevolezza di essere stato «il mondo ebraico del Novecento capace di straordinaria creatività e attività». Una cultura, quella ebraica del nuovo secolo, fortemente dialettica, e non più fissa all’immobilità religiosa e biblica, che, al contrario, consapevole del tempo e della storia, mentre cambia il mondo è in grado di «immaginarsi e raccontarsi nell’atto di cambiarlo»; una cultura che si presenta dialetticamente investita da un conflitto interno insanabile ma fecondo tra la «volontà di essere uguale agli altri, ovvero di integrarsi totalmente al mondo, e una durevole percezione di sé come di un’identità sul confine».

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Tutto ciò, insieme ad altre categorie dialettiche elencate nel saggio Diaspora. Storia degli ebrei nel Novecento (Laterza), inducono Anna Foa a concludere che l’essenza stessa della modernità del Novecento s’incarna in questo mondo dialettico interno all’ebraismo. Non fa certo fatica l’autrice a elencare i grandi personaggi ebrei che hanno fatto il secolo Ventesimo, da Freud a Einstein, da Schoenberg a Trotskij, da Kafka ad Adorno, Durkheim, Warburg, tanto che può arrivare a sostenere che a un certo punto «la cultura europea sembra improvvisamente fatta tutta in buona parte da ebrei». Foa traccia il profilo inoltre di intellettuali come lo scrittore Joseph Roth, Arthur Koestler, l’antropologo strutturalista Levi-Strauss, e altri artisti e scienziati di origine ebraica che fondarono la cultura moderna, laica e razionalista, europea e, più in generale, occidentale. Ed è questo fiorire di una intellettualità laica di origine ebraica che sembra, con la sua improvvisa apparizione sulla scena della modernità novecentesca, spezzare il filo di continuità, «le forti persistenze», che legavano le comunità ebraiche - generalmente avulse dai processi storici ed emarginate, o auto-emarginate, dalla società in cui vivevano - lungo tutto l’arco dei secoli precedenti fino alla

prima età moderna, tanto che la Foa può affermare che la storia degli ebrei del Novecento «sembra ancora più nuova e inaudita, quasi uscisse alla luce tutta compiuta, come Minerva armata dalla testa di Giove». Il saggio della Foa prende quindi avvio cercando di esaminare quanto di reale e quanto di apparente vi è in questa ampia cesura tra gli stereotipi arcaici e il tradizionalismo religioso che permeano la vita quotidiana e culturale degli ebrei fino all’ultimo scorcio dell’Ottocento e il lievito creativo e innovativo, e la spinta all’integrazione, che essi indubbiamente mostrano di possedere nel Novecento. Anna Foa tenta insomma di dare una risposta nel suo saggio ad alcuni importanti e significativi interrogativi che, nella breve introduzione, essa fissa come base del suo lavoro. La studiosa intende infatti indagare se si tratta di una immagine, questa

contributo che a tale trasformazione fornirono i movimenti nazionalistici tedeschi del secondo scorcio dell’Ottocento. In questo contesto prende corpo la psicosi del complotto che giunge a interessare settori non secondari della cultura tradizionale cristiana e laica, e che si riassume nella fantasiosa rappresentazione di un vasto complotto di cui si sarebbero resi protagonisti gli ebrei per impadronirsi delle leve del mondo. In un periodo che George Mosse sintetizzerà come quello della «nazionalizzazione delle masse», la diffusione della teoria del complotto investe anche settori significativi dei ceti popolari e viene favorita dall’affermarsi in seno alle comunità ebraiche del movimento sionista, con il suo primo convegno a Basilea, e dalla costituzione dell’Alliance Israélite, un’associazione che nasceva per proteggere gli ebrei sottoposti a persecuzione nel mondo, ma che viene vista dal mondo esterno a quello ebraico come un tentativo organizzato di giungere al controllo delle leve del potere del mondo occidentale.

Freud, Einstein, Schoenberg, Trotskij, Kafka, Adorno, Durkheim, Warburg, Roth, Koestler, Levi-Strauss... Non si fa certo fatica a elencare i personaggi che più hanno influito nell’edificazione dell’Europa moderna dell’ebreo del Novecento, creata dalla memoria, dalla rappresentazione, «o se vogliamo dall’auto-rappresentazione, che si alimenta in fondo di sé stessa», insomma se si tratta di una mera «creazione mitica», oppure nel mito vi è in effetti una forte componente di realtà. E ancora, se vi è un rapporto di derivazione, di continuità tra la storia degli ebrei del Novecento e le comunità ebraiche del passato, oppure la cultura degli ebrei del Novecento rappresenta una frattura reale col passato.

Naturalmente un posto centrale del lavoro riguarda l’analisi della genesi e degli sviluppi dell’anti-semitismo, quelli che la Foa chiama «i semi del nazismo» e in questa prospettiva una parte fondamentale è dedicata al tentativo di spiegare la trasformazione del tradizionale anti-giudaismo dei secoli passati, di forte matrice cristiana - come aveva già osservato Mosse - nell’anti-semitismo del Novecento. Di grande interesse sono le riflessioni sul

Non è quindi un caso che, in questo clima di sospetti e di incipiente intolleranza, prende a circolare un pamphlet, I Protocolli dei Savi di Sion, un falso documento antisemita, che viene spacciato per autentico e che viene presentato come «la fedele trascrizione dei piani segreti elaborati dai Savi di Sion, i capi cioè del movimento ebraico mondiale, per impadronirsi del potere mondiale». I Protocolli si affermavano pienamente tuttavia solo nel corso delle prime due decadi del Novecento, favoriti dalla rivoluzione russa fallita del 1905 e, soprattutto, da quella bolscevica vittoriosa del 1917, che vennero spacciate entrambe, soprattutto dai profughi russi «bianchi» che trovarono rifugio in Occidente, per rivoluzioni guidate dagli ebrei, e interpretate da vasti settori della cultura «esterna» tradizionalista e conservatrice come l’inizio dell’attuazione della temuta rivoluzione mondiale ebraica per il dominio del mondo. Si tratta di passaggi fondamentali per comprendere i successivi sviluppi dell’anti-semitismo, il suo trasferimento dalla sfera della mentalità collettiva a quella più pericolosa della


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A sinistra, Auschwitz oggi. Sopra, Auschwitz ieri. A destra, una foto di Roman Vishniac sull’integrazione degli ebrei nel dopoguerra. Nella pagina a fianco e sotto, alcuni grandi intellettuali ebrei: Arnold Schoenberg, Albert Einstein, Franz Kafka, Sigmund Freud e Theodor Adorno. In basso, un’immagine della Repubblica di Weimar nel 1933 politica. Questo passaggio porta con sé una radicalizzazione dell’intolleranza nei confronti dell’alieno ebreo molto prima che il nazismo facesse la sua apparizione sul proscenio della storia.

In Italia un esagitato propagatore di tali teorie fu Giovanni Preziosi, un ex prete, antisemita, che, più tardi, sotto il regime fascista, fu tra i massimi sostenitori delle teorie razziste. Il lavoro della Foa non cita un altro esempio clamoroso, segnalato invece da Renato Moro, in La Chiesa e lo sterminio degli ebrei, e dal sottoscritto, in Le spie del regime, cioè quello di monsignor Umberto Benigni, chiamato da Pio X a ricoprire la carica di sotto-segretario alla congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari, nemico e persecutore del modernismo, fiancheggiatore dell’Opera dei Congressi su una linea ultra-conservatrice, e grande diffusore in Europa dei falsi Protocolli. Un filo diretto, lascia intendere Anna Foa, collega il clima da cui scaturiscono i Protocolli all’affaire Dreyfus e all’assassinio del ministro tedesco Rathenau, entrambi sospettati di far parte del fantomatico complotto ebraico contro il mondo, l’uomo politico tedesco indicato addirittura come uno dei Savi di Sion. Sempre alla ricerca dei «semi del nazismo» la storica presenta due tragici episodi di genocidio, quello noto degli Armeni da parte dell’impero ottomano, e un altro, meno noto, cioè quello perpetrato contro la popolazione di etnia bantu degli Herero, condotto a termine dai dominatori tedeschi della Namibia dove vivevano gli Herero. Ma mentre il massacro perpetrato dai turchi si presenta con caratteri tradizionali, cioè quelli di un enorme pogrom dove gli assassinii vengono lasciati alla ferocia dei persecutori, senza la presenza di alcun elemento di pianificazione, nel caso della popolazione africana degli Herero il collegamento tra il loro genocidio e quello successivo degli ebrei si presenta assai più stretto finanche nella persona fisica dei protagonisti. Nel 1904, gli Herero s’erano ribellati al dominio coloniale tedesco. Il primo dato significativo è che il governatore tedesco della Namibia era allora Heinrich Goering, padre di Hermann Goering. Il governatore e le autorità militari ordinarono lo sterminio

degli Herero, facendo ricorso anche all’avvelenamento delle fonti idriche a cui attingevano i bantu. Le poche migliaia di Herero sopravvissute al genocidio vennero rinchiuse in un campo di concentramento. Molto opportunamente, la Foa ricorda che, per la prima volta, fa l’apparizione nei documenti ufficiali tedeschi il termine sinistro di Konzentrationslager. Ma, in questa vicenda, i collegamenti tra razzismo pre-nazista e nazista non finiscono qui, perché veniamo a sapere che i detenuti bantu vennero sottoposti dai medici tedeschi, sotto la direzione del genetista Eugen Fisher, a esperimenti su gemelli e meticci, i cui risultati, pubblicati nel 1913, aprirono le porte a Fisher, in Germania, all’insegnamento accademico della genetica razziale e del meticciato. Il dato inquietante, che chiude significativamente la vicenda, è che un suo allievo sarà il futuro dottor Mengele, l’autore degli esperimenti sui deportati di Auschwitz. Hitler rifletté a lungo su questi genocidi di inizio secolo, e sembra che in un discorso del 1939 abbia esclamato: «Chi si ricorda

di concludere che «nell’Europa del primo Novecento due capisaldi morali e culturali, fino ad allora formalmente tabù, erano stati screditati e gettati alle ortiche: quello che gli esseri umani fossero tutti uguali e quello che non si potessero assassinare i più deboli della specie, cioè malati, vecchi, donne e bambini». La studiosa si mostra ben consapevole che tra la crescita di un clima culturale e pseudoscientifico favorevole al razzismo, anche se costellato di ricorsi, in paesi lontani, al genocidio, e la Shoah il passo non era affatto breve né inevitabile, ma, riprendendo alcune precedenti conclusioni di George Mosse, essa giustamente osserva che «l’agitazione intesa a imporre la violenza come metodo di soluzione del problema ebraico non può certo dirsi sterile», poiché «contribuì a creare uno stato d’animo di apatica acquiescenza o di attiva partecipazione al verdetto finale».

Il Novecento rappresenta per Anna Foa l’irruzione degli ebrei nella modernità, nella storia; essi si volgono al mondo, impadronendosi della cultura «esterna» a loro e «restringendo lo spazio delle scienze religio-

Indagando sui semi del nazismo, dai “Protocolli dei Savi di Sion” al genocidio degli Armeni e dell’etnia bantu degli Herero, la studiosa dimostra come l’intolleranza nei confronti dell’alieno fosse già radicata prima di Hitler più del massacro degli Armeni?». In seguito, Fisher sarà il caposcuola di una scuola scientifica, quella dell’«igiene della razza», che giungerà a teorizzare la supremazia della razza ariana.

Anche se all’inizio, e siamo agli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, la scuola di pensiero non venne indirizzata nella direzione dell’antisemitismo, è difficile negare quello che sostiene la Foa, e cioè che «a livello delle istituzioni accademiche, il nazismo non fece che proseguire una politica che era stata iniziata già dal Reich guglielmino e proseguita dalla Repubblica di Weimar». Questo le consente

se». È un processo che implica profondi cambiamenti nella mentalità degli ebrei. Questi mutamenti toccano, per dirla con la Foa, le due categorie fondamentali del tempo e dello spazio. La cultura ebraica del Novecento si lascia alle spalle l’immobilità spazio-temporale biblica e si appropria dell’idea di storia e di nazione. In questa ottica Anna Foa dedica pagine preziose a fare la storia della nascita dello stato di Israele, ricordando opportunamente che molta dell’emigrazione degli ebrei in Palestina era la conseguenza della politica restrittiva che gli Stati Uniti e i paesi europei attuarono nei confronti della emigrazione degli ebrei. A complicare e ad aggravare la situazione giunsero le prime avvisaglie della seconda guerra mondiale, che indussero la Gran Bretagna a posizioni marcatamente filo-arabe, timorosa del possibile passaggio degli arabi a fianco dei tedeschi. Insomma il saggio di Anna Foa, che utilizza in modo efficacissimo quasi tutta la bibliografia più importante e più recente disponibile sull’argomento, si presenta come un lavoro ricchissimo di riferimenti, di rimandi, di spunti e di riflessioni che rappresentano un contributo originale e innovativo alla conoscenza del popolo ebraico e alla sua storia del Novecento.


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tv

di Pier Mario Fasanotti

Lie to me La “quasi scienza” del Dr. Lightman

web

UNO STILE PERSONALE

video

ei rapporti sull’anno giudiziario e nei dati forniti dalla Cassazione c’è una tendenza che non dà segni visibili di correzione: i delitti possono anche diminuire, ma quelli impuniti rimangono a un livello impressionante. Otto crimini su dieci sono, per così dire, «perfetti». La polizia non riesce a individuare il colpevole. Nel resto dell’Europa le cose non è che vadano meglio. Questo elemento va a sostegno della tesi secondo cui il genere poliziesco, o libri o tv o cinema, piace molto in quanto consolatorio. Ossia: lo spettatore o il lettore può finalmente pensare: ecco, i delinquenti alla fine pagano tutti. Il che non succede nella realtà. Chi sostiene che il giallo dà ormai segni di stanchezza si sbaglia: basta guardare le classifiche dei libri più venduti o semplicemente la televisione. Tuttavia sia la letteratura sia la fiction del piccolo schermo cercano altri punti di vista. Per evitare di presentare meccanismo di indagine alla fine sempre più o meno uguali. È il caso della serie (lunedì in prima serata su Sky) Lie to me (ossia: dimmi una bugia), con protagonista il bravissimo attore Tim Roth, che però non sempre incarna personaggi amabili. Qui interpreta il dottor David Lightman (letteralmente uomo leggero: sarà un caso o sarà un’ironia?), psicologo esperto nello scoprire chi mente. La sua tecnica pare infallibile, e già questa esagerazione provoca un lieve fastidio, almeno in me, che rido dei vari Superman. Lightman ha studiato a lungo, e in varie parti del mondo, «l’universalità delle emozioni» e quindi anche - ma l’analogia concettuale non è così scontata - il modo di esprimerle. Insomma, lui sostiene che un uomo della Tasmania esprime paura o disprezzo nello stesso identico modo di un newyorkese o di un romano o di un parigino. Basta osservarlo bene. Sarebbe facile obiettargli che i comportamenti non sono mai disgiunti dai costumi locali, dalle tradizioni, dal contesto storico. Fa niente: sullo schermo ha sempre ragione lui.

N

games

Come quando crede di smascherare la madre di una ragazza uccisa visionando la sua fronte che non s’increspa nemmeno quando dagli occhi scendono le lacrime. Ma Lightman ha un colpo di genio: le provoca un piccolo spavento, poi osserva la superficie frontale liscia della donna (cinquantenne) e deduce con immediata sicurezza che si fa iniezioni di botulino. Ecco perché c’è dicotomia tra il pianto e il volto. L’esperto lavora per l’Fbi. Anzi, pare che faccia tutto lui. Anche a questo proposito c’è da chiedersi se sia verosimile che agenti federali si abbandonino come bambini ignoranti alla scienza comportamentale di Lightman. In ogni caso, gli occhi (asimmetrici) di Tim Roth scrutano. E la sua bocca sentenzia: quella donna parlava accarezzandosi le mani, segno che vuole darsi fiducia inquantoché non crede a quel che dice. Scorrono, su un grande schermo, le foto di Lady Diana e Michelle Obama, con uguale tic. Una trovata filmistica. Può darsi che la first lady americana dica ogni tanto delle balle, ma scoprirlo dalle mani pare solo un automatismo forzato. Chi può escludere l’influenza dell’infanzia, l’eredità «genetica» dei genitori o altre concause? In ogni caso Lie to me è veloce e interessante, anche se ossessivamente legato a una competenza che non pochi studiosi definirebbero «quasi scientifica». Ripeto: quasi. Così come sembra «quasi» vera l’affermazione dell’esperto secondo cui «i ragazzi più popolari sono i migliori bugiardi». Oppure: «Un’espressione facciale non simmetrica indica che il soggetto finge di provare un’emozione». O ancora: «L’amnesia isterica è tipica di chi vuole togliersi la vita». Vista l’alta impunibilità dei delitti - anche in America - verrebbe da clonare scienziati come il dottor David Lightman. Il quale ha una figlia quindicenne pazientissima, sapendo che il padre scopre tutto. Nella realtà, quella vera, sarebbe un’isterica o una complessata. O deciderebbe di evitarlo per salvaguardare la sua privacy emotiva.

dvd

L’EVOLUZIONE DEL BIMBO SAPIENS

NEGLI OCCHI DI VITTORIO

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er chi non riesce mai a trovare uno stile di scrittura del tutto soddisfacente per i propri file di testo, Font Capture è la giusta soluzione. Basta procurarsi scanner e stampante, e nel giro di pochi minuti sarà possibile trasformare la grafia personale in font personalizzato. Il servizio, del tutto gratuito, mette a disposizione una sorta di carta modello, detto template, che presen-

L

a tradizionale offerta di giochi educativi targata Sapientino, si arricchisce quest’anno di nuovi contenuti in linea con il panorama formativo attuale e le ultime indicazioni del web 2.0. La serie riservata ai bimbi tra gli otto e i sei anni, comprende giochi interattivi finalizzati all’apprendimento dell’inglese, della geografia e di nozioni generali comprese in una en-

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”Font Capture” trasforma la grafia di ciascuno in formato di scrittura per i propri file di testo

Si arricchiscono di nuovi contenuti ispirati al web i tradizionali giochi ”Sapientino”

Anzellotti e Del Grosso ripercorrono la vita di Mezzogiorno, attore scomparso nel 1994

ta delle caselle indicanti le lettere dell’alfabeto. Su ciascuna di esse sarà sufficiente ricreare a penna maiuscole e minuscole corrispondenti. Una volta compilata la scheda, basterà digitalizzarla con lo scanner e salvare il tutto in formato pdf. Caricato il file su Font Capture e installato tra i font, il gioco è fatto. Il nostro editor di testo è pronto a riprodurre la nostra grafia. Ovviamente, a condizione che il possessore la reputi più precisa e nitida dei consueti formati in uso sul pc. Il software, disponibile in versione beta all’indirizzo fontcapture.com, è illustrato nelle sue funzioni in modo chiaro, ma al momento soltanto in lingua inglese.

ciclopedia di base. Per gli over 7 è in arrivo Testa a testa, divertente sfida che oppone il giovane giocatore al computer, in una gara a colpi di conoscenze storiche e scientifiche. Adatta a piccoli in età prescolare il classico Sapientino Parlante, inclusivo di box per tenere in ordine le schede, e poi Sapientino Animali, Sapientino Leggo&Scrivo e per la prima volta, anche Sapientino Bambina. Completano il quadro i tradizionali giochi di società ispirati ai personaggi tv più amati dai piccoli, le tombole e una serie di variopinti puzzle.

carne la figura artistica e umana con grande libertà espressiva. Le musiche originali composte da Pino Daniele, molto amato dall’attore partenopeo, accompagnano lo spettatore lungo un dedalo di testimonianze celebri. Dalla moglie Cecilia Sacchi a Francesco Rosi, da Peter Brook a Marco Bellocchio, e poi Giuliano Montaldo, Mario Martone, Michele Placido, Carlo Lizzani, Gianni Minà e Marco Tullio Giordana. L’infanzia a Napoli, il sogno di diventare campione di boxe, la laurea in giurisprudenza, gli anni trascorsi nella compagnia di De Filippo. Ogni capitolo della storia di Mezzogiorno trasuda carisma e diligente passione.

a cura di Francesco Lo Dico

resentato alla sessantaseiesima Mostra del cinema di Venezia, Negli occhi rende omaggio a uno dei massimi attori teatrali e cinematografici degli ultimi trent’anni. Daniele Anzellotti e Francesco Del Grosso, ripercorrono vita e carriera di Vittorio Mezzogiorno, prematuramente scomparso nel 1994, grazie al prezioso supporto della figlia Giovanna, che si abbandona a rievo-


cinema

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Un Matt Damon da Oscar

e prime parole usata dalla rivista di settore Variety per descrivere Baarìa sono overblown in every way, ed ecco le definizioni di overblown: pomposo, esagerato, spampanato, sfiorito. L’unico senso della parola inglese che non si applica al nuovo film di Giuseppe Tornatore è l’ultimo. Semmai, la spettacolare cavalcata storica e autobiografica è fin troppo fiorita, colorita, sopra le righe, debordante, magniloquente. Tutto è grande, corale, colossale: i colori sono iperrealistici, nello stile Mgm dell’epoca d’oro, che vantava «Più stelle che in cielo». Infatti c’è una vasta quantità d’attori italiani famosi o noti nel cast (40), magnifici costumi, scenografie stravaganti (Bagheria ricostruita in Tunisia diventerà un’attrazione turistica), un’avvolgente colonna sonora di Ennio Morricone (missato dal regista nel consueto stile roboante), settant’anni di storia italiana attraversati e bignamizzati e dura due ore e mezzo. Si sono lette molte opinioni contrastanti sul film più costoso della storia italiana: capolavoro assoluto - fallimento ambizioso, affresco straordinario - tasselli senza trama, mosaico brillante - bozzettistico, flop annunciato successo sicuro, prevenduto a venti paesi esteri (i produttori), dubbiose le vendite straniere (Variety), tomba dell’anemico cinema di casa - conferma del suo rinato vigore. Non dovrebbe nemmeno sfiorarci l’idea di non vederlo. Con gli inevitabili difetti di un film senza freni inibitori, Baarìa sfida la sorte magra dei film italiani contemporanei oltre i confini (per recuperare i costi ed essere redditizio deve sfondare sia in patria sia all’estero) e offre una tale ricchezza di spunti, stimoli, immagini, dettagli e aneddoti, che tutti troveranno qualcosa di godibile. E perché mai negarsi il piacere di discuterne animatamente con gli amici?

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Cristian Mungiu, il regista rumeno Palma d’oro a Cannes nel 2007 con 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni, non delude con un film omnibus su quattro leggende metropolitane che circolavano in Romania durante la dittatura di Nicolae Ceausescu (1967-1989). Dopo il de-

di Anselma Dell’Olio vastante ritratto sull’aborto, Mungiu crea una commedia in chiave gogoliana sullo stesso periodo. Racconti dell’epoca d’oro, titolo ironico che riprende la boriosa propaganda di regime, ha vinto il premio «Colpo al cuore» a Cannes lo scorso maggio. Il quarantenne autore ha scritto tutti gli episodi, ma ne ha diretto uno solo, affidando gli altri a colleghi diversi, senza precisare chi ha fatto cosa. Il suo sguardo indelebile emerge nell’episodio su un trasportatore di galline e una bella locandiera bisognosa di uova. (Il camionista è Ion Sapdaru, il formidabile medico carogna del primo film.) Sono leggende che passavano di bocca in bocca tra i rumeni durante le infinite code per qualsiasi bene di consumo, cibo compreso. Con il timbro inconfondibile della verità appena satirizzata.

crate ordina a tutti di salire sulla giostra. Il finale è quasi un racconto a sé: confuso, surreale, caotico, comico, crepuscolare e poetico. Vent’anni dopo la fine della guerra fredda, il film rammenta che la vita governata da un Grande Fratello orwelliano era grottesca, mostruosa, ridicola e pazzesca: lo Stato controllava ogni singolo aspetto della vita; il culto della personalità del Caro Leader portava a eccessi di zelo esilaranti per paura di cadere in disgrazia, o peggio, finire in qualche fetida gattabuia a tempo indeterminato. Dopo il magnifico pugno allo stomaco di 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, Mungiu propone ricordi più leggeri, per un ritratto più completo e meno cupo dell’epoca. Si ride amaro, per la deformazione dello spirito di cittadini-sudditi ridotti a servi o ladri, e per quei troppi milioni d’italiani

“The Informant!”: grande maestria dell’attore americano nel film, rutilante e spassoso, di Steven Soderbergh. Raccomandata anche la visione di “Racconti dell’epoca d’oro”, del rumeno Mungiu e di “Baarìa”: una sfida che merita considerazione Il primo episodio racconta la vita di un paesino di campagna sconvolta dall’attesa di un corteo presidenziale. Fervono i preparativi: bandierine in mano a bimbi e adulti lungo i lati della strada che provano «urrà» e grida patriottiche; si trasportano faticosamente sul luogo di passaggio mucche da esibire in segno di operosa prosperità, e si discute se attaccare o meno frutti finti sui rami spogli degli alberi. All’improvviso arriva un ordine dal potere centrale: ci sarà un ospite indiano, e poiché per gli indù le mucche sono sacre, via i bovini; inizia un’affannosa ricerca di pecore. Un burocrate locale guarda corrucciato una giostra appena montata in un campo accanto alla strada: via la bruttura! Il povero giostraio armeggia per smontarla quando arriva il contrordine: il convoglio di dignitari è stato deviato su un’altra rotta; o non passa più o passerà più tardi. Per vincere l’imbarazzo, il capo buro-

che per oltre cinquant’anni hanno creduto che quello fosse il migliore dei mondi possibili. Il regista, nato e cresciuto in quel clima, forse ha compiuto un esorcismo, o un’elaborazione del lutto collettivo, ricordando che battute, barzellette e aneddoti dissacranti era l’unica ribellione possibile per un popolo sottomeso, un modo per conservare intatto un pezzo d’anima. Da vedere subito, prima che sparisca.

The Informant! è l’ultimo film di Steven Soderbergh, canonizzato anche lui a Cannes per il suo film-debutto Sesso, bugie e videotape (1989). L’autore alterna opere costose Out of Sight, Erin Brockovich, Traffic, e la serie supercommerciale di Ocean’s 11 e i due sequel, con quelli a basso costo: Bubble, Che parte prima e seconda, e The Girlfriend Experience di prossima uscita, presentato all’ultimo Festival di Tribeca. Il prolifico regista produce

molti tonfi (Full Frontal, Kafka, Solaris, The Good German) ma è impensabile non correre ogni volta a cogliere il suo sguardo irrequieto ed eclettico. (Progetta un film su Valentino Liberace, un virtuoso di pianoforte che si esibiva in tight di paillettes a Las Vegas, con un candelabro acceso sul pianoforte a coda bianco: una barzelletta ambulante, popolarissimo contemporaneo di Elvis Presley). I primi minuti del film servono a far capire come si crea un cartello internazionale per fissare i prezzi d’additivi fondamentali per l’industria alimentare come il lisine. I reati societari sono noiosi da spiegare, ma appena elaborato l’illecito su cui si snoda il racconto, The Informant! decolla, grazie alla maestria mai esibizionista del regista e il Mark Whitacre di Matt Damon, da candidatura all’Oscar. Non sono i quindici chili in più, né la parrucca o le protesi facciali a impressionarci, ma la sua capacità di calarsi integralmente nel personaggio, fino a farci dimenticare l’attore famoso. Creava diffidenza il punto esclamativo, che secondo l’umorista Mark Twain, «è come ridere alle proprie battute», superata grazie alla storia bizzarra e veritiera, solo in piccola parte romanzata. Whitacre è un giovane dirigente di una multinazionale agroalimentare, con un ottimo stipendio e una carriera in ascesa. Intelligente e in preda al delirio d’onnipotenza, inciampa per sbaglio nel Fbi. Appena si riprende si offre di collaborare con l’agenzia come spia contro la propria azienda, la Archer Daniels Midland di Decatur, Illinois, che denuncia per cospirazione nel controllo del mercato di alcuni additivi fondamentali. Un buffo, geniale mix di A Beautiful Mind, The Insider e Confessioni di una mente pericolosa, shakerato in un thriller comico, il film è superiore all’ultima di pura invenzione dei fratelli Coen (Burn After Reading). Grazie all’ironia mai arcigna di Soderbergh e a Damon in stato di grazia, The Informant! è un rutilante, spassoso, inclassificabile viaggio dentro la testa complicata di un formidabile, misterioso mitomane. Assolutamente da vedere.


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poesia

La ballata del pellegrinaggio Solcando le acque dell’Alaska, 30 agosto-5 settembre 2009 di Michael Novak Nella notte tra l’11 e il 12 agosto scorso, si è spenta Karen Laub, amata moglie di Michael Novak. Poco tempo dopo, “svuotato” e disposto solo a lasciarsi “lambire dal dolore”, Michael si è imbarcato con un gruppo di amici per una crociera in Alaska. Un viaggio che lo ha “riportato alla luce”. Eccone il resoconto… autunno era alle porte Quando quindici anime e il piccolo Christopher Iniziarono il Pellegrinaggio Verso un’epoca primordiale, calma e buia, Attraversando grandi meraviglie e insenature e alture nascoste. Attraversando la Foresta Pluviale più sconosciuta, tra panorami ancor meno noti.

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*** Fu nel giorno di San Crispino, il 2 settembre, Nell’anno del Signore duemilanove, Che il Conte Saint-James ingannò la fredda morte, Per salvaguardare il suo incarico, l’onore e il suo coraggio. Gli altri erano andati avanti, su e sempre più su, quando lui Prese una brutta storta; tuttavia, zoppicando ma senza mai cadere, Proseguì per crepacci nonostante il fango scivoloso E le pietre di scisto che si muovevano, tormentando così la sua caviglia ferita. Nonostante questo lui continuò a salire, dolorante, poiché gli altri (pensava) Avevano bisogno dei panini e delle bibite Che lui portava nello zaino che aveva in spalla. Così proseguì verso l’alto, girando intorno al lago più in basso, fino al successivo, E verso la vetta più alta, con la caviglia che gli doleva. Dopo ore di cammino iniziò a rallentare, Era quasi il tramonto e la notte incombeva, Attraversando foreste infestate da orsi e antichi licheni, sotto l’incantesimo Di alberi grondanti, di muschi, di umide rocce e appoggi instabili, Lui, al calare dell’oscurità cominciò a camminare con passo malfermo. La povera Lady Karlyn si sentiva inquieta a bordo del Michaela Rose Dalle due del pomeriggio alle otto di sera fu come se sapesse che Il suo uomo si era fatto male ma che il suo onore lo facesse proseguire. Si riprese con delle letture e facendo conversazione, Senza mai allontanarsi dalla finestra nel caso in cui ci fosse stato un movimento o un colore. Quando poi finalmente venne mandata una squadra di soccorso munita di torce E, cosa più importante, con del Gatorade per tutti, la buona Lady Karlyn Guardò con ansia se vedeva apparire il bagliore delle torce sulla collina Sotto la vecchia, buia tettoia «C’è una luce!» gridò, e, subito Il suo volto riprese colore. Sir Peter Wallison era un uomo d’onore e un essere, Che ci recitava la Ballata «Jean DuPrez» Allo stesso modo in cui il padre aveva spesso fatto con lui, e con il suo stesso timbro serio: La serietà di Jean, il pathos del ragazzino, Che preferì dare la propria vita piuttosto che sparare a un amico eroe, Così uccise il malvagio Major. E così Sir Peter cadde a causa mia, quando su una passerella scivolosa Cercò di spezzare con un calcio un ramo troppo melmoso di un albero Per farne un bastone. Ahimè! La scarpa slittò sul legno umido e scivoloso E Peter cadde giù dal ponte, battendo le costole Era riuscito a spezzare il ramo ma si era quasi rotto le costole. Io mi misi in cammino con quel robusto bastone in mano, Ma Peter invece, con la mano si teneva le costole doloranti. Frieda disapprovò quel gesto onorevole. «Adoro il tuo senso dell’onore, Peter, Ma, ti prego, bada alle tue costole. Detesto Fasciarti e lavarti proprio quando io e tutti I miei amici ci impegniamo a criticare L’Obamacare (1). Non andrebbe bene per te, mio caro».

Forse Frieda era la più brillante di noi, E anche arguta e gentile. E realistica. Il Conte di Casenovia, Sir Karl Z., è sposato Con la bella Principessa Ann, tuttavia indugia sui sentieri dell’Alaska, Facendo una foto dopo l’altra (ma non alla bella Ann) ai funghi, Tozzi o lunghi, e grigi e marroni e rossi, anche ai fiori meno belli. Poi ha fatto delle diapositive di tutto il Pellegrinaggio Il tutto a suon di Brahms. Nel farlo, vi si denota una certa disciplina tedesca. La sua bella Ann lo segue lungo il percorso verso Il Metodismo. Quella religione zeppa di avverbi che modifica il mondo, Che pone in rilievo il senso comune e raccomanda: «Dolcemente, gentilmente, modestamente, Sobriamente e delicatamente», così proseguono Percorrendo miglia, nonostante la voglia di sport vigorosi E di quieti sorrisi. Sir John McClaughry era il pilastro del gruppo, un cavaliere di grande esperienza, Con troppe guerre alle spalle per poterle contare e con troppe ferite e cicatrici per poterle mostrare. E con racconti e storie brevi e lunghe e dettagliate. È di una bontà profonda e generoso verso chi sbaglia. Anche modesto. Ha raccontato più storielle prendendo in giro se stesso, che su qualsiasi altro componente del gruppo. Sir John, come nessun altro inglese dai tempi di Agincourt, Adora profondamente le rane. Si batte con energia contro la loro discriminazione. «Fair Play per le rane!» grida. «Si devono mantenere i principi di Eton! Uccidere le rane è un’infamia, Non si addice a questa nobile Isola». Il suo eroe è Nestle Frobish, del quale parla con affettuosa falsità. La sua carissima moglie, un’altra Lady Ann, creatura tanto gentile Come nessun’altra. Mi ha fatto parlare di me, Parlare e parlare e parlare. In un eroico tentativo di ristabilire la mia sanità di mente, Con una capacità di ascoltare infinita quanto la mia vanità. Lei è anche allegra, forte ed educata. Sa anche lavorare a maglia, con pazienza ed energia. Mentre nessuno guardava, ha baciato sulle labbra Sir Nestle Frobish. Christina Sommers avrebbe potuto essere una signora del palcoscenico Con quella voce così limpida, adatta al canto e col suo francese perfetto, Lei vorrebbe recitare nella Comédie Française. Toccandosi i capelli con dita leggiadre E ridendo sotto il sole, Balla per diletto, E, come il nostro Mr. Coyne prepara Una bouillabaisse da premio. Kim Dennis fa la parte della libertaria solitaria Che (dice lei) trova sempre odioso far parte di un gruppo,


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il club di calliope

primordiale A meno che non scelga lei stessa di farlo, lo ritiene troppo soffocante. Se la si mette su un sentiero con altri sette, Lei salterà su finché non si ritroverà da sola. Quando nel salone si ritrovano in dodici, Lei se ne va, scendendo in kayak, senza prendere il telefono. Ciononostante, in nostra compagnia i suoi occhi erano i più allegri. Sì, stuzzicando mentre ballava, era la più allegra.

È in questo tepore di onde che si sfaldano le code sulla statale oltre la curva dell’indifferenza. Si guida lenti sul lungomare, storditi dall’orizzonte. E dicembre è tutto in questo grumo di stormi nella luce.

Mai occhi mortali han visto due genitori Giovani, tirar su il loro primogenito di appena sedici mesi, Con un tocco tanto leggero sia del padre che della madre, E tanto felici e gioiosi con il loro bambino. Incutono perfino timore alle persone più anziane con la loro passione selvaggia Per le escursioni, per lo sci e per gli sport acquatici, Con Christopher Terzo sul dorso, camminando per il bosco Verso specchi d’acqua in cui i grizzly bruni vengono a procurarsi il pesce. Quei due (scusate), quei tre sono una coppia fortunata. Anche noi che navighiamo con loro Siamo fortunati. Adesso voglio cantare di Ayaan. Animo incandescente e intrepido. Brio, sorriso negli occhi, coraggiosa, di ingegno vivace, Intelligente e logica, con capacità diplomatiche, Con esperienza politica. Questa appassionata dell’a-MER-i-k-a! Con energia illimitata ha corso insieme a Kim. Con tutto questo, lei non è molto mattiniera: Perché dovrebbe esserlo? Ha già vissuto tre vite Quando la maggior parte di noi ne vive una sola.

Giuseppe Condorelli

NEI LABIRINTI INGANNEVOLI DI RICCARDI in libreria

di Loretto Rafanelli

Qualche volta temo per lei. Vorrei che fosse mia figlia Così potrei abbracciarla stretta E dirle di quanto sono orgoglioso di lei. E quanto Dio la ami. Riguardo al nostro ospite, Sir Christopher: Sir Christopher De Muth È pari alla sua cortesia e al suo rispetto. Ha modi gentili ed è arguto. È leale e cortese. La sua risata è forte quando riecheggia per valli isolate, Si rivela disposto a raccontare una storia. Dimostra raffinatezza nella scelta degli amici. Lo ringraziamo per averci invitato. Lo ringraziamo per averci accolti Nella sua cerchia di amici. *** Durante il nostro Pellegrinaggio di una settimana tornando indietro all’era primordiale In cui abbiamo sentito cadere pezzi di ghiacciai, E visto antichi licheni su alberi secolari, Dove gli orsi uccidono i salmoni staccando la testa con un morso, Le aquile solitarie, con occhi a succhiello, si librano leste in volo. Il Re di tutte le otarie torna dalle acque calde nuotando, Spargendo grasso denso su per le rocce rossastre, Ha sollevato la testa al di sopra di tutto il resto, Duecento servi della gleba Prostrati, e ha gorgogliato prorompendo in un urlo glorioso. Christopher ci ha condotti là E dovremo sognare spesso di quel viaggio quando saremo a letto, vecchi. *** Quando mi sono imbarcato per questa crociera, bisogna dirlo, Ero un uomo piuttosto svuotato. Non volevo davvero parlare. Riuscivo ancora a ridere, ma non mi sembrava giusto. Desideravo soltanto starmene seduto da solo e lasciarmi lambire dal dolore. Invece amici miei, il calore dei vostri cuori Mi ha riportato alla luce. Vi ringrazio, amici, per avermi ridato la vista. *** Se affermassimo che questa è poesia saremmo perversi, Speriamo almeno, amici, che possa essersi trattato di versi. (Fine) (traduzione di Elisabetta Barberi) Nota del traduttore: 1) Obamacare: riforma del sistema sanitario americano proposta da Barack Obama al Congresso.

alle fabbriche dismesse della periferia milanese agli animali del Museo di scienze naturali, Antonio Riccardi svela nel suo lavoro poetico l’interesse per le cose inanimate, fossilizzate, perdute. Ma questi mondi ci paiono tuttavia in tutto il loro splendore, e se fu così che apprezzammo i versi dolorosi della decadenza e della morte della società industriale, il suo panorama giovanile a Sesto S. Giovanni, che era il tema del precedente libro (Gli impianti del dovere e della guerra, 2004), oggi rimaniamo ammirati da quel mondo per lo più popolato da animali misteriosi e senza vita, che egli traccia in Aquarama e altre poesie

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calzante. Allora meglio la suggestione di una visita da bambino col padre al Museo che la descrizione del mondo in cui si vive, c’è più vita e ragione in quel mondo in vitreo che nel nostro circondario, e quella è addirittura la nostra futuribile prospettiva; più fascino negli esseri «secondi» che nella dimensione umana. Seppure ciò non sia la panacea ai tanti mali. Solo una legittima (ferita) difesa. Perché non si tramuterà questo in gioia, in quanto anche lì si mantiene l’enigma della vita, anzi di un doppio enigma, perché «all’enigma della morte si somma / l’enigma dell’animale». Riccardi ci conduce in un labirinto, non a caso c’è pure la figura del Minotau-

“Aquarama e altre poesie d’amore” conferma l’originalità di un autore tra i migliori della generazione dei quarantenni d’amore (Garzanti, 90 pagine, 19,00 euro). È un libro peraltro misurato sugli inganni quello di Riccardi: dalle realtà non esistenti, per esempio l’unicorno, alla presunta centralità dell’amore, come il titolo annuncia. Ma l’amore in verità appare più come la storia di una mancanza che una presenza, più sfiorato che tracciato, amputato più che desiderato, ossidato più che vibrato, o semplicemente espresso in diorama, cioè una forzata rappresentazione. Invece, centrale ci ritorna il mondo fascinoso degli animali o di esseri misteriosi (ma non si pensi a un Bestiario, alla Apollinaire), perduti o presenti, mitizzati o reali. E soprattutto c’è, ci pare, l’inganno della sostituzione. Si parla del mondo animale e degli esseri misteriosi per non parlare di quello umano, che pure è lì in-

ro. Ma la sua stessa poesia è un prezioso labirinto (e ricordiamo che Bigongiari diceva che la poesia, ed è la sua grandezza, ci porta in un labirinto, dove non sappiamo più uscire, sia il poeta che il lettore), dove difficile è districarsi e aprirsi a una coordinata chiarezza.Arduo è immaginare altrettanta originalità nel costruire un libro, percorso com’è da geniali metafore, significativi scatti e forti bagliori. Riccardi ci era apparso come un poeta dal passo sicuro e costante, misurato, che scava in levare, in diminuzione, un vero passista, capace cioè di una corsa senza cedimenti, ma impossibile non vedere che ha in serbo anche la dote dello sprinter. Che ne fanno di sicuro uno dei migliori poeti di quella che potremmo definire la sesta generazione poetica del ’900 (i quarantenni).


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mostre

a sarà poi vero che quando arriva la crisi, l’arte si rivolge (involge) nelle stoffe, nelle arti «molli» (potremmo dire noi, facendo il verso al «pensiero debole») e che richiama in auge le signore-artiste (signore nel senso che, come tradizione vuole, cuciono da sempre, nel chiuso economico delle loro case: ricamano, sorgettano, sprimacciano lane e metton le toppe, là dove i materiali nobili e i metalli preziosi costano troppo e non hanno nemmeno bisogno di un atelier apposito)? Questo il senso, par di capire (perché Anversa è città tutta fiamminga e concede ben poco alle traduzioni anglo-francofone: un dépliant e via) della spettacolare mostra dal titolo Textiles, che all’inizio non capisci se si è entrati per sbaglio in un asilo democratico-montessori o in una sala d’arte, perché tutto è, apparentemente, gioco e giochini raso terra, abiti appesi, fili e liane di tessuti, che dondolano indolenti o aggressivi, e si arrampicano come aracnidi sulle pareti, rinnegando l’abituale aspetto clinico-presbiteriano delle sale museali nordiche. In realtà la prima sala, molto avanguardia storica russa e un poco di Moholy-Nagy lirico-Bauhausbislacco, è una divertente e un poco indecifrabile installazione di Alice Creischer: complessa installazione che a quanto pare ricostruirebbe la gran festa organizzata dal Credito Austriaco, nel 1931, alla vigilia del deposito del suo bilancio, ovviamente dopo i tanti terremoti finanziari della borsa mondiale (finis 1929?). Nelle vaste sale s’inseguono molte figurine ritagliate formato natura, vaganti nell’aria e si riflettono nel pavimento specchiante, avanzando perigliosamente, su grandi trampoli gracili, che evocano (forse) l’instabilità ricorrente delle sorti economiche del mondo. Frasi ricamate, che collegano come fregi antichi o festoni araldici (nei trittici medievali) i vari personaggi vaganti che completano questa curiosa «festa» acrobatica della precarietà. Ma non è l’unica installazione della mostra Textiles, dedicata all’uso contemporaneo, ma non troppo (ci sono anche i progetti astratto-proletcult, anni Venti e bellissimi, per arazzi e stoffe della pittrice costruttivista Varvara Stepanova, compagna di Rodchencko, e pure i fascinosi, e più recenti, tessuti-Bauhaus di Anni Albers, la moglie del pittore Josef Albers, che all’inizio del suo discepolato a Dessau fu convogliata, dal professor Klee e da Itten, verso il solito destino «femminile» di tessuti e design di gioielli, che l’infuriarono. Ma che poi seppe riscattare, e come, quella sua adolescenziale umiliazione). E poi ci sono gli ovvi filmati afrorivoluzionari, bandiere, abiti, quadri ricamati, pannelli con fotografie di copertine glamour-Vo-

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L’arte molle dei

Textiles di Marco Vallora

arti

gue (basta triste connubbio sottane&sozzani!) e infine una serie piuttosto seriosa e rara di libri sull’argomento. Ovvero sul rapporto storico, intenso e conflittuale, tra tessuto e società. L’abito nasce come seconda pelle artificiale, per proteggere il corpo e comunicare alcune simbologie tribali, ma presto diventa habitus sociale, corpo-architettonico (tende nomadi e morbidi divisori orientali d’ambiente) e sventolante bandiera politica. Se John Dugger, partendo da una manifestazione pro-Allende, nell’Inghilterra 1974, in Trafalgar Square, da sempre podio naturale per manifestazioni di sfogo sociale, crea la sua creatura (museale) mobile dal titolo Chile vencera, l’africano Narcisse Tordoir, contorna uno dei pilastri basilari del museo, con splendide stoffe popolari stampate (da far invidia a miriadi di designer e a legioni di stilisti in astinenza), stoffe che fungono insieme da tappeti variopinti, da abiti provvisori o da ponchi improvvisati, di folgorante impatto figurativo. Se il popolare Oiticica ricorre al giochino interattivo d’appendere su portamanetelli abiti, che possiamo anche indossare (sai che gioia-novità!), se Rosemarie Trockel dà il meglio di sé, e lo si sa, con le stoffe (propone una porta di lunghi vermicelli di lana, in cui puoi addentrarti come in un bosco infantile), se il serbo Bojan Sarcevic (è già stato al Mambo di Bologna) propone qualcosa di kounellissianamente prevedibile, abiti macchiati di vita, ma riposti simmetrici su lunghi tavoli da esposizione, con rigoroso esercizio grafico, (troppo poco, troppo poco), non poteva mancare un idolo delle avanguardie, come James Lee Byars. Con i suoi travestimenti carnascialeschi e una bella immagine d’ombra lunga lunga, d’uomo solitario, però simulata con un velo di stoffa. E se alla fine diverte la grande stanza del brasiliano Tonico Lemos Auad, con immacolata moquette color panna, in cui l’artista ha inflitto le sue unghie distruttrici, per assemblare montagnole di pelame, che simulano cani o strani personaggi reclinati, è inquietante l’opera di Goshka Macuga, che riproduce una conferenza stampa, con presenza di William d’Inghilterra al microfono, sullo sfondo di una gigantesca Guernica, trasformata in arazzo. E poi scopri con sorpresa che questa grande fotografia wall paper in realtà è ricamata anche a lei: a dimostrare che dalle trappole non si esce, che anche Guernica è destinata a fare da sfondo alle miserie del glamour.

Textiles, Anversa, Muhka, Museo di Arte contemporanea, fino al 3 gennaio 2010

diario culinario

Peccati di gola dai “Vinattieri” senesi

di Francesco Capozza gni anno, solitamente verso fine settembre, la fondazione liberal organizza un incontro politico-culturale a Siena. Negli scorsi convegni sono intervenute personalità del calibro dell’ex presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi o del cardinale Camillo Ruini, quest’anno - per ovvie ragioni di triste attualità - il 24 e il 25 settembre si è parlato di Afghanistan. Ogni anno questa meravigliosa città ci stupisce sempre di più con i suoi palazzi, le sue piazze, la sua gente, i suoi profumi e nei momenti di relax, tra una conferenza e l’altra, ci piace girare per i vicoli tutt’attorno al centro storico, anche alla ricerca di luoghi e sapori nuovi. Poi, però, il cuore (e la gola) ci portano a ritornare dove

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l’anno precedente ci siamo lasciati ed ecco, quindi, che decidiamo - senza rammarico per non aver provato qualche novità - di cenare anche questa volta in un locale di grande fascino e di provato piacere: La compagnia dei Vinattieri. Il locale, tutto volte a botte e pietra a vista, si trova proprio di fronte alla casa della giovane Caterina poi divenuta santa e patrona d’Italia. La cantina, che conserva gelosamente più di mille etichette (dai ricarichi spesso onestissimi), è stata ricavata nei locali che nel 1300 ospitavano la conduttura d’acqua senese. Mille etichette in un locale del genere, nel cuore di Siena possono far pensare, come forse è anche ovvio, a Chianti, Sangiovese e Brunello di Montalcino. La Compagnia è questo, certamente, ma molto altro ancora. Accanto a bottiglie toscane di grande pregio

(grandiosi Brunelli dagli anni Ottanta a oggi), spulciando la monumentale carta dei vini è possibile trovare interessanti proposte da tutt’Italia, ma anche sfiziosi champagne e grandi cru di Borgogna e di Bordeaux. E non sia mai che cotanta «beva» non sia supportata da un’adeguata carta delle vivande; ai grandi salumi e formaggi - piatti tipicamente offerti nelle grandi enoteche - si affiancano, infatti, una serie di pietanze calde eseguite a regola d’arte. Se in cantina, però, si spazia per tutto il belpaese e anche oltralpe, in cucina a farla da padrone è la territorialità accompagnata alla stagionalità dei prodotti. Ecco, allora, i golosi pici fatti in casa con ragout di coniglio o ai funghi galletti, i ravioli ripieni d’anatra conditi con il ristretto della sua cottura, le pappardelle tirate a mano con il sugo di lepre. E ancora:

le zuppe di legumi o di funghi porcini con crostini all’olio nuovo, la pappa al pomodoro o, ancora, la mirabile acquacotta, simbolo di quella campagna toscana che tanto ci ricorda altri tempi. Per secondo, oltre alla lepre e al coniglio, ovvero all’imponente bistecca alla fiorentina, raccomandiamo la golosa faraona ripiena con frutta secca e glassa balsamica, divenuta ormai quasi un simbolo di questo locale. Dopo tante delizie sarebbe un peccato lasciarsi sfuggire il semifreddo agli amaretti o i golosissimi cantucci fatti in casa da accompagnare con un ottimo Vinsanto scelto dalla magnifica selezione. Per un pasto completo, compreso un vino medio, prevedete una cinquantina di euro a persona.

Compagnia dei vinattieri, Via delle terme 79, Siena, 0577 236568


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architettura

Audace e cauto il restauro della Torre del Ventimiglia di Marzia Marandola l nome di Montelepre in Sicilia è inevitabilmente legato alla leggenda nera di Salvatore Giuliano, il temibile «bandito Giuliano», ambiguo protagonista dell’immediato dopoguerra, che vi nacque nel 1922. Il paese deriva dall’antico sito di Munkilebbi (tale era il toponimo) che, godendo di una situazione paesaggistica privilegiata, nel valico che da Castellamare conduce a Monreale e a Palermo, fu scelto per la costruzione di una torre-residenza, che ancora oggi impone la sua preminenza volumetrica e architettonica alle modeste costruzioni che la circondano. La torre residenziale è detta dei Ventimiglia, dal nome di famiglia del vescovo Giovanni che, eletto feudatario del luogo, nel 1433 ne completò la costruzione, forse innestandola su una preesistenza normanna. L’imponente parallelepipedo in pietra è articolato su tre livelli raggiungibili attraverso una scala esterna, che tramite un ponte levatoio, immetteva direttamente al piano nobile. Una caditoia o barbacane, proprio sopra il ponte levatoio, assicurava la difesa dell’edificio. Lo spazio interno, suddiviso da un muro longitudinale, presenta un’elegante successione di sei volte a crociera quadrangolari che, insieme alle bifore e trifore delle finestre, testimoniano della coesistenza in Sicilia del gusto gotico fiorito con le prime av-

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visaglie della nuova spazialità rinascimentale, ispirata al mondo antico. La torre è una vera e propria residenza gentilizia, degna di ospitare già nel 1434 il re Alfonso di Aragona: gli spazi interni rispondono infatti ai canoni distributivi del palazzo nobile del Rinascimento: al piano terra si trovano cantine, granai, la cucina e la cavallerizza. Il piano nobile è scompartito in due saloni di rappresentanza: l’uno a carattere più pubblico, l’altro per le udienze private; mentre l’ultimo piano è riservato alle funzioni abitative private (camera da letto, spogliatoio e cappella) ed è pertanto dotato di camini e di «luoghi comodi», cioè gabinetti.

archeologia

Con il trascorrere del tempo a ridosso di questa struttura si è aggregata una crescente quantità di costruzioni che ha dato origine al paese. Nel corso dei secoli la torre è caduta in progressivo abbandono, ha subito crolli, mutilazioni e superfetazioni deturpanti, che hanno convinto l’amministrazione a procedere a un attento quanto radicale restauro, che ne salvaguardasse l’assetto materiale predisponendolo contemporaneamente a un uso espositivo e culturale, non univoco e vincolante, in funzione cittadina. Progettato e diretto da Ida Giostra, giovane architetto originaria di Montelepre, il restauro, avviato sulla scorta di un approfondito studio storico condotto da Marco Nobile, ha proceduto con sottigliezza, cautela e audacia, integrando i solai lignei mancanti all’ultimo piano; le scale interne, che in origine erano forse a chiocciola e in pietra, sono pretesto di un inserto contemporaneo improntato alla semplicità e alla discrezione. I pavimenti, distrutti da tempo immemorabile, sono stati completamente rinnovati con un timbro di riconoscibile e immediata modernità, mentre alcuni frammenti lapidei di setti murari crollati sono consolidati e trasfigurati in objects trouvés che sussurrano di antichi fasti regi, quando il Mediterraneo ruotava intorno alla Trinacria.

Orsi, Halbherr, Gerola. Gli italiani nel Mediterraneo di Rossella Fabiani n occasione del centocinquantenario della nascita del celebre archeologo Paolo Orsi, il Museo Civico di Rovereto, in collaborazione con l’Accademia Roveretana degli Agiati, ha organizzato a Palazzo Alberti l’allestimento di un’esposizione temporanea dal titolo Orsi, Halbherr, Gerola. L’archeologia italiana nel Mediterraneo. La mostra si propone di far conoscere al più ampio pubblico la personalità e il significato dell’opera di tre insigni studiosi di origine roveretana, protagonisti della ricerca storico-archeologica a cavallo fra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, la cui fama travalicò i confini non soltanto regionali ma addirittura nazionali grazie all’importanza delle ricerche e delle

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scoperte compiute. Ricercatori militanti, veri e propri pionieri nell’ambito dell’indagine sul campo, tutti e tre, sia pure in modo diverso l’uno dall’altro, furono spinti dal desiderio di conoscere terre lontane dalla madrepatria, alla ricerca delle testimonianze delle antiche civiltà del bacino mediterraneo. Paolo Orsi, dopo un periodo di formazione presso il Museo Civico di Rovereto, nel 1889 partì alla volta della Sicilia prima e della Calabria poi, dove a seguito di fruttuosi scavi gettò le basi per la ricostruzione della storia delle popolazioni preromane di Sicilia e Magna Grecia. Orsi rifiutò più volte l’insegnamento universitario e si concentrò dove si sentiva più portato, la ricerca sul campo e le pubblicazioni. Lo

A sinistra, il sito di Gortina a Creta; a destra, Federico Halbherr studia l’iscrizione da lui scoperta, considerata la regina delle epigrafi greche

studioso scrisse oltre 300 lavori che lo portarono a vincere il Gran Premio di Archeologia dell’Accademia dei Lincei. Federico Halbherr, approdato nelle aspre terre di Creta nel 1884 fu artefice della scoperta dell’iscrizione di Gortina, la «regina» delle epigrafi greche, e proseguì poi le sue indagini per decenni, riportando alla luce gli impressionanti resti delle architetture palaziali di Festos e di Hagìa Triada. Accademico dei Lincei, nella Sala Dutuit della sede dell’accademia (a Palazzo Corsini alla Lungara a Roma) è esposto un calco delle Leggi di Gortina. Giuseppe Gerola, proprio su segnalazione di Halbherr, fu inviato nel 1900 a Creta dal Reale istituto veneto di scienze, lettere e arti di Venezia per do-

cumentare i monumenti e le altre testimonianze artistiche della Serenissima Repubblica nelle isole dell’Egeo, e più tardi, nel 1912, fu chiamato a Rodi per esplorare e documentare i monumenti medioevali del Dodecaneso. Nell’ambito della mostra, coordinata da Franco Finotti e Barbara Maurina, e affidata a un comitato tecnico-scientifico altamente qualificato (oltre a Franco Finotti e Barbara Maurina, Alessandro Spiridione Curuni, Giovanni Di Stefano, Elena Lattanzi, Franco Nicolis, Maurizio Paoletti, Fabrizio Rasera ed Elena Sorge), sarà esposta una scelta significativa di reperti archeologici provenienti dai principali siti scoperti, studiati e documentati dai tre studiosi, concessi in prestito dalle Soprintendenze archeologiche della Toscana e della Calabria e dal Museo Archeologico di Siracusa, oltre a una serie di documenti originali attinti dagli archivi dell’Istituto veneto di scienze, lettere e arti, del Museo Civico di Rovereto, dell’Accademia Roveretana degli Agiati e dall’archivio privato della famiglia Gerola. Il percorso espositivo si articolerà in diversi ambiti tematici lungo le dodici sale che compongono il pianterreno e il primo piano del settecentesco Palazzo Alberti, da poco restaurato. La mostra sarà visitabile fino al 30 giugno 2010.


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i misteri dell’universo

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ai confini della realtà

Ultime notizie sul

Pianeta degli anelli olte sono le divinità dei pantheon degli antichi in cui un dio, dalle caratteristiche antropomorfiche ma con capacità superiori a quelle umane, è associato a un pianeta. Il perché dell’associazione sta al cuore dell’analisi mitologica e molte sono le risposte degli studiosi, che qui non discutiamo. Dalle letture omeriche il dio Nettuno latino appare con il nome di Poseidone come uno dei fratelli di Zeus (il latino Giove), cui è assegnato il dominio dei mari; Zeus, Diòs, il Luminoso, è il capo degli dei che risiedono nell’Olimpo; altri fratelli sono Efesto, il latino Vulcano, dio del fuoco, Ade, il latino Plutone, e la sorella Hera - significante la Signora - in latino Giunone, moglie di

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di Emilio Spedicato chio e nuovo mondo, Cardona ha ipotizzato che Saturno fosse originariamente una stella nana rossa, e che la Terra fosse il suo pianeta, in orbita tale da far apparire Saturno in posizione fissa nel cielo, con colore rossastro e dimensioni angolari maggiori di quelle attuali del Sole. Tale sistema avrebbe interagito con quello solare, venendo catturato dal Sole, la cui massa è un migliaio di volte quella di Saturno. Sarebbe seguita la separazione della Terra da Saturno, passata a ruotare attorno al sole; Saturno avrebbe inoltre interagito catastroficamente con Giove, che ne avrebbe preso il posto come pianeta dominante nel cielo.

L’esplorazione di Saturno è stata affidata, oltre che al grande telescopio Hubble in orbita attorno alla Ter-

no, di circa un miliardo di km, ovvero una precisione relativa di un milionesimo di miliardesimo (gli attuali sensori militari sono ancora più precisi!). Parte della strumentazione è stata progettata in Italia, dall’Asi, e costruita dalla Galileo. Cassini ha raggiunto Saturno nel luglio 2004, sganciando una seconda sonda, Huygens, progettata per penetrare nell’atmosfera di Saturno e, frenata da paracadute, per arrestarsi sulla superficie dopo circa tre ore. Scopo principale di tale sonda, l’analisi dell’atmosfera, per verificare se corrisponda ai modelli correnti, e l’eventuale presenza di macromolecole di interesse biologico (aminoacidi e nucleotidi associati al Dna e Rna).

ra fuori delle perturbazioni atmosferiche, alla missione Cassini, che ha utilizzato un Titan IV alto 56 metri. Cassini fu l’astronomo che nel 1675 scoprì che gli anelli di Saturno avevano particolari suddivisioni; e qui ricordiamo il recente risultato che oggetti giacenti su una stessa orbita negli anelli hanno l’incredibile proprietà di avvicinarsi e allontanarsi senza in generale colpirsi, un fenomeno dinamico inatteso e che anche caratterizza almeno un paio di asteroidi che si muovono lungo l’orbita terrestre (tali erano gli omerici Lampos e Fetonte?). La sonda Cassini, alta sette metri, è stato il più complesso e costoso veicolo interplanetario mai costruito, con generatori di energia utilizzanti trenta chili di plutonio, potenza 400 watt e strumentazione progettata per dare una precisione di un millimetro sulla distanza Terra-Satur-

Cassini è stata progettata per compiere una sessantina di orbite, di tipo ellittico, attorno a Saturno, con una trentina di passaggi ravvicinati presso Titano, il satellite più grande. Una sintesi dei risultati ottenuti è la seguente (chi ha tempo può leggersi via Google 1.940.000 documenti): - ottenuta una precisa stima della durata del giorno di Saturno, dato non facile in presenza di atmosfera; - mappato completamente Titano e scoperti molti nuovi «satelliti» di piccola dimensione; - il satellite Iapeto presenta un forte schiacciamento indicante una precedente velocità di rotazione assai più elevata, ignota la causa; - scoperte inattese su Encelado, ricco di geyser, specie nel suo polo sud, segno di presenza di acqua abbondante e calda, e forse di forme viventi, non accertate invece su Saturno stesso.

verifica richiederà molti anni, dando luogo, se validata, a un completo ripensamento della storia umana e del sistema solare, consideriamo quanto è ora noto grazie alle sonde spaziali. Queste hanno rivoluzionato le conoscenze classiche considerate un tempo sicure, indicando che il sistema solare è sede di processi straordinari cui nessun astronomo o astrofisico avrebbe creduto. Parte di quanto segue si può trovare nel Quaderno delle Scienze, 1999, sul Sistema Solare.

Su Saturno non è stata accertata nessuna forma vivente, mentre Encelado, con i suoi geyser, segno di acqua abbondante e calda, fa immaginare scenari opposti. Sono alcuni dei risultati emersi dalle osservazioni della sonda Cassini, il più complesso e costoso veicolo interplanetario mai costruito Giove, pronta a ricambiarne le frequenti infedeltà con bellezze umane e celesti di ambo i sessi. Tali personaggi in Omero hanno fra loro rapporti abbastanza cordiali, ma le loro rivalità sono trasmesse ad Achei e Troiani. Altre tradizioni suggeriscono un precedente periodo di scontri, dove in un primo tempo dio dominante era Cronos, il Saturno dei latini, padre dei sunnominati dei, uso a divorare i figli per timore di esserne spodestato. La moglie Gea salvò Zeus sostituendolo con un sasso, e Zeus cresciuto evirò il padre divenendo la prima divinità.

Dietro questa storia truculenta, può individuarsi una complessa storia astronomica, su cui il canadese Dwardu Cardona, ingegnere e mitologo, ha già pubblicato tre sostanziose monografie. Da un’analisi documentatissima di centinaia di testi antichi dal vec-

Uno scenario di grande suggestione, analizzabile in linea di principio come problema di meccanica celeste a 4 corpi (problema dove la cattura è possibile), anche se i dettagli dell’interazione con Giove trascendono ogni possibilità di modellizzazione. Quanto ai tempi di tali eventi, sono remoti, ma compatibili con l’ultimo 20% del tempo di presenza dell’homo sapiens sulla Terra, stimato da Cavalli Sforza in circa 200 mila anni, o forse anche meno. E le misteriose date d’inizio dei primi due yuga indiani, definenti forse la più antica memoria conservata dall’uomo, darebbero un 29 mila a.C. per un evento interpretabile come l’inizio di una forma di civiltà sulla Terra satellite di Saturno e un 17 mila a.C. per l’inizio dell’ultima glaciazione, associabile al distacco della Terra da Saturno. Ma lasciando da parte i fascinosi scenari di cui sopra, la cui


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