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SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Polemiche letterarie ieri e oggi

LITIGI D’AUTORE di Pier Mario Fasanotti talo Svevo nel suo biglietto da visita fece stampare il suo nome vero, Etno di convincere uno dei due interlocutori. Siamo sul filo degli aforismi, certore Schmitz, seguito da «Commerciante». Coltivava la letteratura, i quali c’è pure una verità, ossia che l’arte senza le polemiche Un tempo to. Dietro ma diceva che il suo hobby era il violino (ed era anche vero). è acqua morta. Di duelli verbali, anche intrisi di forte rancore, né è erano singolar Era attorniato da gretti industriali del Nord-Est che misupiena la storia della letteratura. Il primo (registrato su testi in ravano il valore di una persona soppesando il suo conto lingua italiana e non più latina o greca) è stato quello tra tenzoni combattute in duelli in banca. Fino a pochi anni dalla morte Svevo passò Dante Alighieri e tal Forese Donati. A suon di sonetverbali a colpi di fioretto. Oggi sono inosservato come autore di romanzi e racconti. ti se le sono proprio cantate i due, rispondendoFu poi James Joyce ad additare il suo caposi per le rime. Per Dante l’amico Forese era risse morfologicamente volgari a suon di colpi lavoro, La coscienza di Zeno. Il narratore un ghiottone, figlio di NN e afflitto da satiriabassi. Breve storie di contese culturali si (per usare metafore contemporanee); per Foretriestino, timido e malinconico, definì la letteratudall’Alighieri (versus Forese se l’amico Dante invece aveva semplicemente maltratra «ridicola e dannosa cosa». Era uno scoppio di amatato il padre e prestato denaro a usura. La più curiosa delle rezza, ma anche una polemica a 360 gradi. Data la sua siDonati) a Scurati (versus tenzoni letterarie? Quella di Torquato Tasso con Tasso Torquato. gnorilità, non lanciò mai strali ad personam, non si impastoiò in Tiziano Scarpa) discussioni. Quasi ricordasse quanto sosteneva Oscar Wilde, seconcontinua a pagina 2 do cui le discussioni sono del tutto inutili: fanno perdere tempo e rischia-

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Credere di Sergio Valzania Veltroni, la Storia attraverso la famiglia di Maria Pia Ammirati

NELLE PAGINE DI POESIA

Wislawa Szimborska il canzoniere di un’antinichilista di Filippo La Porta

Cartoline dalla Versilia di Mario Bernardi Guardi Cronache veneziane (in attesa del verdetto) di Anselma Dell’Olio

Le alchimie di Ginna futurista di Marco Vallora


litigi d’

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segue dalla prima Sì, è proprio così: il grande bardo di corte vissuto ai tempi della Controriforma aveva appena scritto la sua Gerusalemme liberata che gli balzò in testa di farla rivedere a una commissione. Correzioni e modifiche di suo pugno in un lungo tormento si susseguirono, come testimoniano la storia e le carte. Risultato? La follia che lo portò a essere internato e quell’autentico obbrobrio letterario che è la Gerusalemme conquistata. La più attuale delle polemiche del genere? Sicuramente quella che oppose Alessandro Manzoni ad altri esponenti della commissione per l’unificazione della lingua instaurata all’indomani dell’Unità d’Italia. Manzoni remava sostanzialmente contro, come si direbbe oggi, perché semplicemente si batteva contro il frammentismo dialettale e regionale della lingua italiana. La polemica a ben vedere potrebbe perfino rinfocolarsi. La più inutile? Quella che vide contro Pier Paolo Pasolini ed Edoardo Sanguineti. Si sa: due galli in un pollaio non fanno mai sorgere il sole e così loro appaiono a distanza di anni.Tra le terzine della Polemica in versi del primo e la risposta del secondo con la Polemica in prosa si intuisce che l’uno vedeva la letteratura in chiave gramsciano-marxista e il secondo in chiave marxista tout-court. E allora? E se Sanguineti voleva fare dell’avanguardia «un’arte da museo» beh, c’è riuscito alla perfezione: giace la neoavanguardia impolverata e con pochissimi visitatori. Passando a tempi recentissimi, c’è da registrare il fatto che ormai si è passati da un’acqua stagnante, dove (quasi) tutti hanno il diritto di galleggiare magari anche con la vanteria d’un gonfalone, ad acqua mefitica, morfologicamente volgare. Specchio dei tempi rissosi che stiamo vivendo, così lontani dalle regole della scherma. Per un punto in meno ottenuto a uno dei grandi premi letterari salta la mosca al naso, come si dice, e tutta la cultura e l’esperienza che sorreggono uno scrittore si sgretolano e diventano battuta (meglio se dialettale) da Giro d’Italia, da calcio di rigore con bestemmie lette da esperti di labiali, a distanza. Diceva un pensatore tedesco: «Quando la ragione e la non ragione si toccano, si ha una scarica elettrica: e questo si chiama polemica». Purtroppo un elemento così fecondo come la polemica concettuale si riduce a insulto, a sberleffo da asilo. Conseguenza della frustrazione in un ambiente dove tutti vorrebbero essere primi, sempre primi. Scusate se insisto con Oscar Wilde, ma mi viene in mente un’altra delle sue corrosive battute: «L’ambizione è il rifugio del falliti».

Il fondale prediletto per i colpi bassi sono, e son sempre stati, i premi letterari. Il due luglio scorso al Ninfeo di Valle Giulia per un solo voto ha vinto lo Strega Tiziano Scarpa con il raffinato Stabat Mater (Einaudi). Piazzato secondo Antonio Scurati della scuderia Bompiani con Il bambino che sognava la fine del mondo, opera un po’troppo appiattita sulle suggestioni di in recente fatto di cronaca. Scurati, alto come un lampione, fama di cattivo carattere o comunque di persona poco amabile e accomodante, quando s’è trovato a fianco del vincitore ha usato il dialetto para-bergamasco per dire che chi si piglia l’ultima carta vince e va via. Brutta figura, indubbiamente. Era irritato, con conseguenze somatiche visibilissime. Scarpa non ha replicato. Ha sorriso, da uomo mite quale è. Lo ha fatto dopo, nell’intervista concessa a Vanity Fair. E ha vuotato il sacco. Ha ricordato che il premio Strega «è una questione di potere». E fin qui nulla di nuovo. Sull’ex avversario Scurati ha elencato alcune cose: 1) È uno dei votanti allo Strega; 2) Si è autocandidato invece di «proporre un autore meritevole» visto che sulla carta voleva contrastare «lo strapotere delle case editrici»; 3) Scurati «lo definirei un vero e proprio caso mediatico: la costruzione di un intellettuale e di un autore pop attraverso una strategia propagandistica e pubblicitaria che va avanti da anni… Scurati è bravissimo a convincere gli altri a puntare su di lui. Vista la sua capacità di persuasione dovrebbero farlo segretario del Pd. Dico sul serio. In

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

autore

finiti «le Liale» delle Lettere Italiane. Guardacaso, anni dopo, alcuni del Gruppo 63 scrissero - ottenendo grande successo - romanzi con trame robuste e ben congegnate, senza disdegnare i sentimenti. Addirittura corteggiando il genere poliziesco, ohibò. Due esempi: Eco e Vassalli. Non sono un laudatore dei tempi passati, anche se ne percepisco il maggior spessore e la garbata eleganza concettuale, tuttavia mi è facile constatare che le ultime polemiche sono improntate spesso sul personale. Dall’accademia allo stadio calcistico, da una rivista come Il Caffè al quotidiano La Gazzetta dello Sport. Un tempo ci si dannava l’anima, rischiando di spezzare amicizie, su contenuti concettuali. È da ricordare a questo proposito l’elevatissima discussione-polemica tra Benedetto Croce e Luigi Pirandello sulla definizione dell’umorismo. Ma a volte vince proprio il rancore. Alfiere di questo poco nobile sentimento era Alberto Moravia. Il gran barone dell’intellettualità partiProtagonisti di litigi letterari antichi e recenti: Dante Alighieri, Torquato Tasso, tica (Pci) continuò, anche Alberto Moravia, Cesare Pavese, Tiziano Scarpa e Antonio Scurati a vent’anni dalla scomparpochi anni ha ottenuto tutto». L’altro non ha perso tem- sa di Cesare Pavese, ad accusarlo di decadentismo, di vapo, e livore. Su La Repubblica s’è mosso come un fal- nità infantile, di incurabile estetismo. Il poeta e critico ciaerba: «Scarpa è un buffone di corte… il simbolo del- Giovanni Raboni, forse anche per affinità politica con la categoria del marginale “fotti e chiagni”, di chi ha Moravia, si mise sulla scia dell’autore degli Indifferenti. In parlato per anni in nome degli esclusi e poi ha sfrutta- occasione della pubblicazione presso Einaudi degli scritto l’emarginazione per trarne un forte beneficio perso- ti giovanili del narratore piemontese, rilevò innanzitutto nale». E alla fine del cannoneggiamento una promes- «l’inopportunità» di questa operazione.Testi che, secondo sa: «Non credo di partecipare più al Premio Strega». Raboni erano «di un’acerbità, di una goffaggine, di una Controreplica, sullo stesso giornale, di Scarpa. Sul sol- bruttezza che rende possibile leggerli senza provare imco di un’elegante indifferenza alle baruffe chiozzotte: barazzo e compassione… l’unica cosa che se ne ricava è smettiamola con le zuffe, adoperiamoci invece a soste- che Pavese non possedeva alcun talento “naturale”, lo sanere la buona letteratura che c’è nel nostro paese, so- pevamo già benissimo». Raboni aumenta la dose di veleprattutto per evitare una fuga di cervelli narrativi. Una no stupendosi del salto di qualità che fece Pavese, finalpunta polemica c’era però nel suo intervento e riguar- mente capace di «produrre qualcosa di diverso da una dava, giustamente, la presenza delle solite firme, e patetica imitazione di Guido Da Verona». sempre quelle, sulle pagine culturali dei giornali. Ci sono poi polemiche divertenti. Le eredi di MoraIl secolo da poco trascorso ha assistito a battaglie let- via, Dacia Maraini e Carmen Llera, concessero di diritti terariamente cruente, con inevitabili cascami di umilia- dell’Uomo che guarda di Moravia al regista Tinto Brass. zioni private, tuttavia in nome di (discutibili) principi ge- Grande ingenuità. Maraini nella lettera a un quotidiano nerali. È il caso del Gruppo 63, una «neo-avanguardia» scrisse: «Tinto Brass ha tenuto a ribadire la sua religione secondo i molti che si radunarono a Palermo. Costoro - “del culo”. Benissimo. Ho sempre pensato che Brass fostra cui Umberto Eco, Giorgio Manganelli, SebastianoVas- se una persona molto religiosa, basta vedere i suoi film. salli ed Edoardo Sanguineti (non poteva che esserci il fu- Come tutti i fanatici però si mostra poi sprezzante e inmoso contestatore nato) - volevano sancire la rottura ri- tollerante verso chi non la pensa come lui… la sua relispetto alle tematiche e allo stile degli ani Cinquanta. I gione “culista”che pretende rifarsi a un sesso “innocente «palermitani per caso» si richiamavano alle teorie marxi- e solare”mostra in fondo un’adesione furbesca a un vecste, insomma quelle dell’impegno civile da tradurre in chio moralismo di maniera. Non mi stupirei di vedere prosa, annunciando che avrebbero apprezzato testi sen- spuntare fra quei sederi nudi il diavolo con la coda biforza quel cappio al collo che è la trama (uno dei più famo- cuta. Perché questa è la parte che vi fanno quei corpi si modelli additati fu Alberto Arbasino). Frecce avvelena- femminili regrediti a vecchi strumenti di tentazione prute contro Carlo Cassola e Vasco Pratolini, acidamente de- riginosa e “demoniaca”da strapaese».

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parola chiave

redere è un’attività misteriosa, nello stesso tempo facile e difficile da svolgere. La nostra vita è permeata da essa, eppure non riusciamo a controllarla. Innanzitutto ne siamo consapevoli, e questo rappresenta un buon tratto di quel crinale così difficile da esplorare che ci rende prossimi, ma diversi, rispetto agli animali che popolano la terra. Noi uomini ci ingegnamo di distinguere tra il credere e il sapere, anche se la differenza ci è chiara solo in apparenza. Più scaviamo nelle nostre certezze, nelle basi delle nostre conoscenze, più le scopriamo traballanti. Il mondo è una palla in equilibrio sul dorso di una tartaruga, dice una leggenda indiana. La tartaruga sta sulla schiena di un elefante, ma è meglio non chiedersi dove poggia le zampe il pachiderma. A ogni momento siamo aggrediti da credenze che sfuggono al nostro controllo. Attraverso la ragione ce ne difendiamo, sempre con affanno, e allo stesso tempo ci aggrappiamo a quelle che abbiamo. Ci sembrano poche, ma sono tantissime. La nostra vita si basa sull’affidamento a esse. Quando il sole tramonta assistiamo allo spettacolo della sua scomparsa rosseggiante nella serena fiducia che anche domani ci sarà un’alba. Durante il nostro sonno le leggi della gravità si manterranno invariate e non dobbiamo levarci presto, ansiosi di attendere il ripetersi del ciclo astronomico. Crediamo nella stabilità della realtà fisica, nella durezza delle sue leggi, ma anche nella costanza dei rapporti umani, di quelli superficiali come dei più profondi. Nel fatto che le persone che ci circondano mantengano lo stesso carattere, lo stesso atteggiamento nei nostri confronti, pur nelle variazioni del momento, onde sul mare. Quando riceviamo del denaro come compenso del nostro lavoro, crediamo che altri lo accetteranno da noi in pagamento di quello che ci serve per vivere. E così via, in una catena lunga e ininterrotta che tiene insieme il trascorrere delle giornate.

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Eppure abbiamo paura di credere. La nostra preferenza va al sapere, al conoscere, all’essere certi di quello in cui, alla fine, ci troviamo a credere. La prova definitiva, ultima, ci manca sempre. La scienza riconosce senza problemi che le sue leggi, protese a predire il futuro, in realtà possono descrivere solo il passato e credere che esso si ripeterà, anche se non sappiamo perché. Forse viviamo in un angolo particolare dell’Universo, dominato da rapporti diversi da quelli che permeano tutto il resto. Un ricciolo anomalo nella chioma del Creato, destinato prima o poi a conformarsi al resto, a essere riassorbito nel fiume. Per sapere qualcosa siamo costretti a credere di sapere, a convincerci che i nostri sensi ci trasmettono una rappresentazione corretta di quello che si trova fuori di noi. Evitiamo con cura di addentrarci in quella zona del pensiero comune alla riflessione medievale e alla fantascienza degli anni Sessanta, quella di Philip Dick, nella quale il dubbio la fa da padrone. Non

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CREDERE È un carattere dell’uomo, una sua vocazione, paragonabile, per necessità, alla respirazione o al battito cardiaco. Eppure ne abbiamo paura, affidando la nostra preferenza al sapere, al conoscere, alla certezza più che al dubbio...

Il cammino e la meta di Sergio Valzania

In ogni occasione le Scritture e la predicazione della Chiesa ricordano che la fede è un dono, che è offerto a ognuno di noi. A patto di chiederlo e coltivarlo, di non rifiutarlo con tutte le forze. Dio si mostra a tutti, ma a ciascuno in modo diverso, e chiede con delicata benevolenza una forma di partecipazione possiamo essere certi di non essere nati ieri, o questa mattina, o un secondo fa, con dentro di noi la memoria già formata di un passato che non è mai esistito. La capacità di sognare ci avverte che la verità delle nostre esperienze ha densità diverse, come ci ha ricordato così spesso Jorge Luis Borges, e la memoria non procede in modo lineare, ma preferisce compiacere il suo possessore adattando il passato ai suoi desideri sconosciuti. In questo equilibrio fra rifiuto e abbandono si insinua la chiamata divina, che proprio nel credere trova il suo centro, il suo momento qualificante. L’apostolo più umano è Tommaso. Assente alla riunione alla quale ha partecipato il Cristo risorto, si rifiuta di credere alla resurrezione stessa. «Se non

metto la mia mano nel suo costato non crederò». Povero Tommaso, e poveri tutti noi, pronti a credere a un pettegolezzo, o a una nuova teoria scientifica, a un’intera visione del mondo che la storia ci ha costruito attorno, e così esigenti quando si tratta di decidere di credere, di obbligarci a credere che Dio ci ama e ci chiama. Eppure ce lo ripetiamo sempre che dobbiamo credere. Di essere preparati a superare un esame o che il progetto al quale stiamo lavorando avrà successo. «Devi essere convinto per riuscire nella vita». Solo a Dio non ci affidiamo, lo teniamo lontano con la nostra pretesa di sapere qualcosa e di non voler credere a nient’altro. In ogni occasione le Scritture e la predicazione della Chiesa ricordano che la fede è un

dono, che però è offerto a tutti. A patto di chiederlo e coltivarlo, di non rifiutarlo con tutte le forze. Dio si mostra a tutti, ma a ciascuno in modo diverso, e chiede con delicata benevolenza una forma di partecipazione. Altrimenti la salvezza sarebbe un atto di violenza. Siamo sicuri di desiderare che ci accada un evento come quello occorso a Paolo sulla via di Damasco? Un incontro capace di cancellare ogni dubbio, ma costrittivo. Forse preferiamo una via più modesta alla santità. La coltivazione del piccolo giardino che ci è affidato, non dell’immenso latifondo del mondo intero. Almeno quell’obbiettivo minimo però non lo dobbiamo mancare sapendo o credendo, che a questo punto fa lo stesso, che il padrone è buono e tutti gli operai riceveranno la stessa paga.

La disposizione a credere, la necessità di farlo paragonabile alla respirazione o al battito cardiaco, è un dono di Dio di natura spirituale. Un carattere dell’uomo e una sua vocazione, forse quella centrale. A essa ci si deve educare, acquisendo consapevolezza e sforzandoci di esercitare un qualche rigore. Li pretendiamo nello studio e nel lavoro, nelle manifestazioni dei rapporti sociali, persino alla guida delle automobili quando ci irritiamo con i conducenti distratti. Sono necessari ancora di più nella gestione della propria fede, che non deve essere abbandonata a se stessa. Una delle grandi preghiere della Chiesa è il Credo. Su una particella di esso si è fondata, in modo falso ma significativo, la distinzione fra ortodossi e cattolici, che hanno aggiunto il que al Filio, individuando un rapporto paritetico nello scorrere dello Spirito tra le altre figure della Trinità. Il Credo si presenta come un’elencazione, un seguito di affermazioni, una chiamata a schierarsi, un accettare l’allineamento con la gerarchia. A mio parere è piuttosto una proposta, l’offerta sintetica di una serie di meditazioni, l’occasione per ripensare se stessi e la propria fede, la convocazione a educarsi nel credere, a ricordare che non si tratta solo di un’attività automatica, che noi possiamo acquisire consapevolezza rispetto a essa. Il credere è simile al camminare, farlo ci appartiene, ma sta a noi decidere dove andare e perché. Del camminare condivide anche la parte migliore, la gratuità. I momenti più piacevoli, preziosi, del nostro andare sono quelli nei quali il movimento non è al servizio di qualche impegno, non si esaurisce nello spostamento da un luogo a un altro perché abbiamo da fare. Camminare è la gioia di una passeggiata in montagna o lungo il mare, andando senza una meta in compagnia di una persona cara. I vagabondaggi degli innamorati sono un luogo dell’immaginario collettivo, i pellegrinaggi a piedi sono una felice riscoperta degli ultimi anni. Dio ci chiama a un credere ricco, forte, consapevole, per il quale ci fornisce gli strumenti e l’itinerario, senza la pretesa che tutti raggiungano subito la meta. Anzi, proprio nella costanza della ricerca sta una parte del premio.


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cd

musica

Il pop “colto” di

David Sylvian di Stefano Bianchi on trent’anni d’ineccepibile carriera alle spalle, David Sylvian può ben definirsi caso a sé nell’ambito della moderna composizione. Partito negli anni Ottanta new romantic coi Japan facendo leva sul suo fascino da Dorian Gray e su coordinate sonore che da glam (l’album Adolescent Sex, a metà fra New York Dolls e Roxy Music) si sono via via intellettualizzate nell’art rock (Tin Drum: miscuglio di tecnologia e folk cinese), l’inglese cinquantunenne di Beckenham (al secolo David Batt) ha imboccato da solista strade ambient (in collaborazione col bassista polacco Holger Czukay, vedi Plight & Premonition e Flux And Mutability), s’è dedicato all’avanguardia rockeggiante (The First Day, col chitarrista dei King Crimson Robert Fripp) e ha abbracciato il pop esoterico con Bamboo Houses e Forbidden Colours, «canzoni-origami» create dal giapponese Ryuichi Sakamoto. Liberatosi dal kitsch modaiolo cancellando ridicoli paragoni con Simon Le Bon dei Duran Duran («Ho creato un’immagine che sapevo sarebbe stata copiata», ebbe modo di precisare, «ma non potevo certo immaginare il danno che il mio look avrebbe causato alla mia vita privata»), Sylvian ha optato per un pop «colto» dalle vie di fuga acustico/elettroniche. E i suoi dischi più soffici e aristocratici, ossia quelle rarefatte miniature intitolate Brilliant Trees, Secrets Of The Beehive e Dead Bees On A Cake che non disdegnano guizzi percussivi e un funky che è conseguenza delle danze elettroniche dei Japan, li ha architettati attorno alla sua voce calda e intimista che rimanda a Scott Walker (nell’enfasi dark) e a Bryan Ferry (nell’estetismo puro). E li ha quindi sovrapposti a quel bisogno di spiritualità che lo ha condotto dal misticismo cristiano al buddismo, fino al definitivo approdo induista. Da qualche anno, però, David Sylvian privilegia la non-orecchiabilità. È

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in libreria

mondo

successo nel 2003 con le brutali sperimentazioni di Blemish, nel 2005 con le melodie ad alto quoziente di rischio di Snow Borne Sorrow (sotto la sigla Nine Horses) e viene ora ribadito con Manafon, album in massima parte affrontato con toni sospesi ed evanescenti dando il maggior spazio possibile all’improvvisazione. «Realizzandolo, ho pensato a una moderna musica da camera che fosse intimista, dinamica, emotiva, democratica, economica», ha dichiarato l’artista. Il che significa svelarsi con l’ossuta melodia di Small Metal Gods per poi proseguire rincorrendo rumorismi e un pianoforte dall’umore jazz (The Rabbit Skinner). E ancora, sottolineare anche la più piccola increspatura della voce con Random Acts And Senseless Violence, dare libero sfogo a una fragile sinfonia come The Greatest Living Englishman, centellinare impercettibili scosse di chitarra elettrica (Snow White In Appalachia; Emily Dickinson), viaggiare fra le soffici pieghe dell’atonalità (The Department Of Dead Letters nonché la conclusiva Manafon, che rende omaggio a Ronald Stuart Thomas, poeta gallese e sacerdote anglicano). Registrati a Londra,Vienna e Tokyo, questi pezzi ricchi di fascino, scomodi e sfuggenti vedono all’opera liberi improvvisatori, professionisti della performance space-specific che fanno da sottofondo e contrappeso al canto vibrato di Sylvian: il chitarrista Keith Rowe, il sassofonista Evan Parker, il compositore Otomo Yoshihide e Christian Fennesz, pioniere dell’elettronica. È un disco per pochi intimi, Manafon. Da ascoltare e riascoltare. Che consiglio, soprattutto, a chi David Sylvian lo mastica da tempo. Nei pregi e nei difetti. David Sylvian, Manafon, Samadhisound/SpinGo!, 18,90 euro

riviste

LA LEZIONE DEL PROFESSORE

CHARLES, LUI TRA DI NOI

IN ORIGINE FU LA HOLIDAY

«È

forse l’unico artista italiano che può permettersi di vincere il Festivalbar e di far coppia con i più bei nomi della nostra canzone sul palco del Club Tenco, di scrivere canzoni raffinate e suadenti, di riscrivere la storia di Orfeo e Euridice, di citare Oscar Wilde e al tempo stesso di scherzare, cadere di tono, frequentare la canzonetta senza perdere lo spirito e la faccia». Il

H

a scritto più di mille canzoni e partecipato a più di sessanta film entrati nella storia del cinema (vedi alla voce Truffaut). Definito come il Frank Sinatra francese, Charles Aznavour torna in Italia dopo ventisei anni con un tour che lo porterà in otto città dello Stivale. Fissato il debutto il 30 ottobre al Teatro Regio di Parma, Aznavoice toccherà tra l’altro anche Milano, Firen-

ella vicenda artistica della Holiday, Strange Fruit rappresenta uno spartiacque netto. Ci sono un “prima” e un “dopo”, entrambi grandi ma di un differente tipo di grandezza. È il culmine di una parabola. Geometria insegna che dopo non si potrà che scendere, ma in uno strano e drammatico modo a Billie riuscirà di scendere ascendendo, verso empirei di una bel-

Orsucci a colloquio con Roberto Vecchioni, artista poliedrico che ha trovato la fede

Dopo ventisei anni, torna in Italia Aznavour: debutto al Teatro Regio di Parma il 30 ottobre

A 50 anni dalla sua morte, ”blowupmagazine” dedica un omaggio alla madrina del jazz

giudizio che Ernesto Assante dà di Roberto Vecchioni, sintetizza la storia di un cantautore poliedrico, capace di spaziare dall’alto al basso, in lungo e in largo, nelle infinite direttrici della musica. Una complessità che emerge in tutta la sua evidenza nel bel libro che Matteo Orsucci dedica al Professore, Roberto Vecchioni - L’uomo che si gioca il cielo a dadi (Aliberti, 160 pagine, 13,90 euro). Sospeso tra senso della morte e liturgia degli affetti, l’artista lombardo si racconta lungo un percorso artistico e spirituale che lo ha condotto a una fede autentica e personale. Da L’ultimo spettacolo a Samarcanda, affiorano lampi e lacerazioni di un autore complesso.

ze, Roma e Catanzaro. Oltreché Bari, dove a grande richiesta si esibirà, secondo le notizie dell’ultima ora, il 9 novembre al Teatro Team. A ottantacinque anni suonati, l’artista di origine armena delizierà i fan con autentiche gemme del suo repertorio come Une vie d’amour, Le Souvenir de Toi e altre canzoni celebri incise in italiano come E io tra di voi, Com’è triste Venezia (recentemente riarrangiata insieme a Laura Pausini), Ti lasci andare e Morire d’amore. C’è da scommettere che Charles lascerà il segno anche questa volta.

lezza insieme malata e pura, e assoluta. Sarà, come recita il titolo di un celebre saggio di Martin Williams, “un trionfante declino”». A cinquant’anni dalla morte di Billie Holiday, Eddy Cilìa fa il punto sulla parabola artistica della grande madrina del jazz, dalle pagine di blowupmagazine.com. Sulla scorta di La signora canta il blues, possente autobiografia che la cantante scrisse con incomparabile vigore, la vicenda di Billie racconta un pezzo d’America del primo Novecento. L’infanzia povera, il riformatorio, le violenze subite, le ribellioni. Tutto culmina in quella straziante e rabbiosa Strange fruit, primo acuto ed esplicito attacco del tempo contro il razzismo.

a cura di Francesco Lo Dico

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zapping

I BEATLES, PADRONI del nostro immaginario di Bruno Giurato ornano i Beatles come ha ricordato martedì scorso il bell’articolo di Alfredo Marziano su liberal. I Beatles tornano in edizione extralusso, rimasterizzati, col volume alzato, già piratati (i siti peer to peer hanno diffuso i files delle canzoni). L’evento innesca uno strano sentimento, a parte il solito senso di commiserazione per la Emi, che non ha trovato modo di mettersi d’accordo con la Apple per la vendita legale su internet (a quanto pare le major amano perdere soldi e favorire lo scaricamento illegale, se fa piacere a loro…). Be’, il sentimento strano riguarda l’attualità della musica beatlesiana. Mentre i rivali storici, gli zozzi e maledetti Rolling Stones, già da un po’ sono stati assunti nel firmamento patinato della musica per intenditori, testimone il meraviglioso Shine a light di Scorsese, i Beatles hanno fatto di più e di meglio. A quarant’anni di distanza possiamo vedere che hanno vinto loro. A quarant’anni di distanza nella musica tutto è Beatles. I baronetti sono stati infine capaci di sintetizzare uno squisito veleno, perfetto per l’epoca in cui tiriamo giornata. La loro psichedelica la ritroviamo in qualsiasi pubblicità patinata o installazione di videoarte, i loro accordi sono nelle composizioni di qualsiasi gruppo o cantautore, dagli Oasis a Daniele Silvestri. Ma soprattutto l’hippismo di Lennon ha fatto breccia nella cultura contemporanea, sotto forma di aura liberal, metro sessuale. Quella tolleranza piena di prescrizioni civilizzatrici che ormai si trova dappertutto. Niente Paradiso, niente Inferno, sotto di noi solo cielo. Niente per cui uccidere o morire, e nessuna religione. La civiltà dell’Occidente adulto sembra un po’ quella canzone di Lennon, che si è rivelata molto meno utopista di quanto vorrebbe far credere. L’immaginario occidentale sogna ancora nella tonalità emotiva dei Beatles.

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classica

L’inspiegabile ritorno di Fra’ Diavolo di Pietro Gallina un caso singolare quello del Fra’ Diavolo: rientra tra le opere che - se non proprio capolavori - hanno marcato un’epoca per il loro successo e sono rimaste fonti d’ispirazione per future creazioni artistiche (opere cult si direbbe oggi) e poi di colpo scomparse per decine di anni dalle scene. Fra’ Diavolo appunto messo in musica da Daniel Auber, contemporaneo di Rossini e come lui creatore dei primi colossal lirici, vedi il Grand Opera La Muette de Portici, con 505 repliche all’Opéra di Parigi, superata solo dal suo stesso Fra’ Diavolo che alla fine dell’Ottocento raggiunse 900 repliche solo all’Opéra Comique di Parigi. Il libretto è firmato da Eugène Scribe (come dire il Dior dei libretti) e quindi garantito dal suo marchio di qualità. Egli è lo stesso che scrisse il testo per l’Elisir d’amore di Donizetti, I vespri siciliani di Verdi e poi tanti altri per Rossini, Bellini, Meyerbeer, Boïeldieu, Halévy e appunto Auber. Scribe, il librettista di Fra’ Diavolo appunto, opera comica in tre atti andata in scena a Parigi nel 1830, si è ispirato a un personaggio storico realmente vissuto nel periodo delle guerre napoleoniche, tra Napoli, Roma e Terracina - il sottotitolo è infatti L’Hôtellerie de Terracine: si tratta del colonnello Michele Pezza, poi Duca di Cassano per nomina reale di Ferdinando IV! Sì, proprio fra’Diavolo, giustiziato alle ore 12 dell’11 novembre del 1806 a soli 35 anni, con sentenza sommaria in quanto pericoloso brigante: più verosimilmente un grande e valoroso stratega militare che, eroe del Meridione, non volle vendersi e passare nell’esercito francese (questa la vera ragione della condanna). Certo il Fra’ Diavolo di Auber oltre a rimandare al tempo del brigantaggio, ha iniziato un filone e influenzato varie altre opere, ma è davvero inspiegabile, dopo decadi di oblio, il bizzarro improvviso riapparire di Fra’ Diavolo in dosi massicce quasi contemporaneamente sulle scene di mezza Europa. Che sarà mai successo? Mistero o semplicemente il caso? Citiamo i recenti allestimenti: a fine 2008 al Gärtner Theater di München, quello del gennaio 2009 all’Opéra Comique di Parigi, in questi giorni all’Opéra Royal de Wallonie a Liegi e allo Stanley Hall Opera in Inghilterra e infine l’allestimento che continuerà fino al 12 ottobre 2009 al Teatro Volksoper di Vienna. La vicenda narra del celebre brigante che toglie ai ricchi e dà ai poveri e che poi è un bell’uomo che le donne non disdegnano. Un coppia di inglesi si presenta alla Locanda di

È

Terracina appena derubata dai briganti. Fra’ Diavolo che è presente proprio nella locanda, sotto falso nome di marchese di san Marco, in mezzo ai carabinieri che lo braccano, sente dire per bocca dalla scaltra Lady Pamela che non tutti i beni son stati rubati perché lei stessa ha cucito tutto il denaro nel suo vestito: e questa è la dama che egli stava corteggiando corrisposto!Nel secondo atto Zerline, la cameriera, che dorme accanto a Lady Pamela, si trova in mezzo al tentativo di incursione dei due compari di fra’Diavolo pronti ad appropriarsi del malloppo nel vestito. Essi involontariamente costretti nella sua stanza assistono a uno dei primi spogliarelli naturali della storia dell’opera, mentre la cameriera si spoglia per andare a letto. Insomma nel terzo e ultimo atto tutto finisce con la scoperta degli imbrogli di fra’

Diavolo che a tasche vuote è costretto ad abbandonare la locanda e sparire come un lampo nel buio. Lo spettacolo al Teatro Volkoper è avvicente, vivace e brillante, anche se la regia, di Köpplinger, ha voluto strafare con tempi fin troppo rapidi. Solo che l’azione, come al solito in area germanica, è stata spostata nel periodo del fascismo italiano, ovvero più di un secolo dopo. Si sono distinti la Zerline/Daniela Fally, Lady Pamela/Sulie Girardi e Lorenzo/Sebastian Rheintaller, meno il protagonista Marchese di San Marco/Alexander Pinderak, non per la figura fisica, ma soprattutto per vuoti nel volume della sua voce. L’orchestra ha mostrato di essere degna della tradizione viennese ben condotta da Roberto Paternostro, un italiano nato a Vienna, ma di casa anche a Venezia e che, nientemeno, è stato allievo di Swarowsky e assistente di Karajan.

jazz

Cafisio, un talento che non teme i confronti di Adriano Mazzoletti oche settimane fa, Francesco Cafiso e Franco Cerri hanno partecipato a Cortina d’Ampezzo a uno degli incontri che Enrico Cisnetto organizza da tempo con grande successo. La serata andata in onda anche sul canale 872 di Sky, ha messo a confronto due generazioni di musicisti di jazz, il primo del 1926 il secondo del 1989. Malgrado i sessantatre anni di differenza, Cerri e Cafiso hanno suonato come fossero coetanei a dimostrazione che nel jazz non esistono «gap» generazionali. Pochi mesi prima, il 19 gennaio, Cafiso aveva anche partecipato a un concerto con l’orchestra di Wynton Marsalis, il suo maggiore estimatore, all’Eisenhower Theater di Washington per l’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca. Quando nel 2002 Marsalis lo ascoltò a Pe-

P

scara lo scritturò immediatamente per il tour europeo in programma l’anno successivo e immediatamente lo presentò nel corso di un concerto al Lincoln Center di New York dove il giovanissimo sassofonista ottenne uno straordinario successo. Da quel momento il tredicenne musicista siciliano - nato a Vittoria in provincia di Ragusa - è diventato immediatamente il musicista che forse più di ogni altro, rappresenta il simbolo della rinascita del jazz italiano. Al suo apparire sulla scena non tutti furono d’accordo nel riconoscere il suo indubbio talento. Molti pensarono che fosse uno dei tanti enfant-prodige e in breve tempo non se ne sarebbe più sentito parlare. Sbagliavano grossolanamente e oggi Cafiso, con oltre dieci dischi a suo nome, è considerato uno dei musicisti più importanti della scena jazzistica internazionale. L’ultimo suo lavoro discografico Angelica, lo

ha realizzato un anno fa a New York in quartetto con Aaron Parks al piano, Ben Street al basso e Adam Cruz alla batteria. Pubblicato in tutto il mondo da Cam Jazz, ha già ottenuto recensioni assai positive dalle maggiori riviste specializzate. Oltre ad alcuni brani di sua composizione, il cd comprende alcuni temi raramente eseguiti da musicisti italiani quali lo splendido A Flower is a Lovesome Thing dovuto all’estro di quel genio che fu Billy Strayhorn, Peace di Horace Silver, Why Don’t I di Sonny Rollins e lo splendido Angelica di Duke Ellington che il grande pianista e direttore d’orchestra incise una prima volta il 26 settembre 1962 con John Coltrane e tre mesi dopo con la sua orchestra con il nuovo titolo Purple Gazelle anche se questa nuova edizione non venne mai pubblicata. Se ne conosce solo una copia, meno riuscita della precedente. In questo

suo lavoro Cafiso affronta con grande capacità temi non facili: la composizione di Strayhorn resa immortale nella versione di Johnny Hodges oppure quella di Ellington, che esegue con grande maturità. Compito arduo per non cadere nell’imitazione di Hodges e ardito per evitare il confronto con Coltrane. Con sonorità e stile personali ormai Cafiso è uno dei sassofonisti più rappresentativi del jazz mondiale. Francesco Cafiso Quartet, Angelica, Cam Jazz


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narrativa

el grande affresco della famiglia italiana tracciato da Walter Veltroni nel suo ultimo romanzo, Noi, c’è il passaggio da un realismo crudo e carnale degli anni bellici, al mondo virtuale e algido del nuovo e futuro millennio. Un romanzo che ha l’ambizione di voler essere onnicomprensivo, summa e testimonianza di più generazioni, e che parla con il proprio passato e tenta il dialogo con il futuro più prossimo. Ancora una volta Veltroni affronta un romanzo scritto in terza persona, calando il protagonista principale in una realtà complessa come quella italiana che, però, squaderna la propria esistenza abbracciando tutto il tempo possibile, l’infanzia e la vecchiaia, osservando, a distanze ravvicinate, la storia d’Italia dal 1943 al 2025. Idealmente il corpo e la mente dei personaggi, e dei protagonisti che si avvicendano dentro la narrazione, si stendono in maniera elastica a comprendere epoche e vicende così lontane e diverse.

N

Leggere la Storia attraverso la famiglia di Maria Pia Ammirati È un romanzo che vuole rappresentare la mutazione di un popolo, di un organismo, che è la famiglia all’italiana, attraverso i grandi eventi e i traumi della Storia, ma anche attraverso il catalogo minuzioso dei beni di consumo e dei simboli che hanno creato un mondo nuovo. Una famiglia italiana con i suoi vezzi, i suoi stereotipi, le sue mancanze, ma anche con la forza straordinaria di ribellarsi sempre ai colpi di coda della Storia. Osservata e descritta attraverso quattro grandi scansioni temporali (1943, 1963, 1980, 2025), la famiglia è dunque la vera protagonista del testo, perché solo attraverso il suo tessuto si può capire la velocità di mutamento

che il secolo breve le ha impresso. Giovanni Noi è il capostipite di questa lunga saga familiare che comincia nell’anno 1943, l’anno delle bombe su San Lorenzo e del rastrellamento del ghetto di Roma, ferite che influenzeranno la sua vita e che terranno come sottotesto il dualismo caro allo scrittore Veltroni. Il romanzo mette spesso in luce quest’anima divisa a partire dalla grande antitesi bene/male. Così lungo gli anni che il lettore

percorrerà insieme a Giovanni, e che spesso faranno da specchio alla propria riconoscibilità individuale e collettiva, emergerà l’incontro-scontro tra sistemi diversi. Giovanni è un cattolico che sposa un’ebrea, Giovanni è padre di due figli che incarnano nelle scelte politiche il bene e il male, Giovanni rappresenta la lucidità e la ragione, la moglie Giuditta incarna il senso della follia del mondo. Quando una

libri

delle ultime figure minori del libro, Giulia, tornerà indietro con la memoria, non a caso rifletterà da donna giovane e «fuori del tempo», proprio sulla famiglia e i suoi cambiamenti: «La famiglia era esplosa, la società aveva spostato il suo baricentro esclusivamente lungo le ragioni e i desideri dell’individuo... la vita e le relazioni fra le persone si consumavano, non si progettavano né si costruivano». Ecco emergere la tesi del romanzo che si muove come un radar alla ricerca proprio di questa verità, il consumarsi di un’epoca si riconosce non solo attraverso oggetti di consumo che diventano detriti, archeologia del moderno, ma attraverso simboli e sentimenti. L’argine al vuoto e alla banalità del male, che lo scrittore suggerisce e con una flessione retorica a volte patente, è la memoria. L’esercizio della memoria appartiene all’umanità come un bene, come tale inalienabile e necessario. Walter Veltroni, Noi, Rizzoli, 343 pagine, 19,00 euro

riletture

L’irriducibile molteplicità delle tante Italie di Angelo Crespi roprio in questi giorni è arrivato in libreria il denso tomo di John Foot, Fratture d’Italia. Da caporetto al G8 di Genova la memoria divisa del Paese (Rizzoli), in cui si lo studioso si dilunga, come si evince bene dal titolo, sulla questione dell’identità mancata della nostra nazione. E fa quasi sorridere che a «confortarci» sul tema sia uno straniero, peraltro già autore di un pensoso Calcio. 1898-2007 storia dello sport che ha fatto l’Italia, il quale forse non ha capito che proprio l’italianissimo vizio di dividerci in fazioni fino all’atomo sia in realtà il cemento di questa espressione geografica che ha nome Italia. Al di là di ogni considerazione e riflessione sui momenti cruciali che hanno disfatto il paese più che farlo

P

(il Risorgimento, il Fascismo, la Resistenza, gli anni di Piombo…), l’Italia esiste e noi mediamente ci consideriamo italiani, odiandoci fino al masochismo in mille e barocche tensioni di campanile, salvo poi unirci nel comune destino perfino con esiti dignitosi. Come non ricordare, a tal proposito, l’emblematica figura di Oreste Jacovacci-Alberto Sordi nella Grande Guerra di Monicelli, girato giusto cinquant’anni fa e ripresentato in questa edizione al festival di Venezia, che pur pavido e vigliacco fantaccino, davanti all’arroganza dello straniero, ritrova il coraggio di morire da eroe. Ebbene, per capire dove davvero risiede salda la nostra identità, vale dunque la pena rileggere una raccolta di saggi a cura di Mario Isnenghi, I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita che Laterza pubblicò nel 1996, proprio a ridosso di Tangen-

topoli quando nelle macerie della Prima Repubblica l’italianità sembrava definitivamente scomparsa con il naufragio dei grandi partiti e delle grandi ideologie. E così non era. Ampliando il discorso potremmo ben sostenere che la nostra identità si fonda su due basi: in primis la lingua, quella potente macchina di riconoscibilità (Elias Canetti a questo proposito scriveva che «noi abitiamo una lingua») i cui migliori esiti letterati (pensiamo a Dante) sono anche i migliori esiti popolari; in secondo luogo, i beni culturali, quell’immenso giacimento e patrimonio (nel senso etimologico del termine cioè di lascito e memoria dei nostri padri), di cui siamo orgogliosi e che non solo ci fa sentire italiani ma ci connota come italiani agli occhi degli stranieri. Stringendo il discorso, e seguendo il saggio di Isnenghi e degli altri stori-

ci raccolti, possiamo però dire che la nostra identità post-unitaria si fonda su una varietà di luoghi e di simboli che fanno l’Italia a dispetto degli italiani. Chessò il tricolore, le campane, l’opera lirica, ma anche il salotto, il balilla, Redipuglia, il liceo classico, piazzale Loreto ma anche Predappio, il monte Grappa, l’utilitaria, perfino le leggi razziali e il confino, ovviamente «a contrario», contribuiscono a formare quel milieu italiano, inspiegabile, fatto appunto di eroismi e vigliaccherie, utopie e creatività, vittimismo e coraggio, masochismo e vanità e altro ancora sempre però in feconda antinomia. Cosa da cui anche Isnenghi trae l’irriducibile molteplicità delle tante Italie che contribuiscono a farne comunque una, con più capitali, dialetti, modi di vivere, sensibilità, storie alle spalle.


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filosofia

Da Socrate un aiuto per la scuola italiana di Giancristiano Desiderio è un modo per bene iniziare l’anno scolastico: innamorarsi di Socrate. Il consiglio vale per tutti, liceali e non. Luciano De Crescenzo nel suo ultimo libro Socrate e compagnia bella, scrive delle lettere al nipote quattordicenne Michelangelo e gli dice: «C’è chi si innamora di Sophia Loren, chi di Marx, e chi per tutta la vita porta fiori sulla tomba di Rodolfo Valentino. Caro Michelangelo, io ho capito che l’amore della mia vita è stato Socrate. E spero che lo sia anche della tua, anzi te lo auguro». Il libro di De Crescenzo lo consiglio alla lettura dei giovani. Ma per-

C’

tradizione

ché l’Ateniese dovrebbe «funzionare» a scuola? Perché non visse per il Potere o il Successo o il Denaro, ma per ricercare il Bene: in Socrate «predomina la voglia di sapere, di mettere sempre in discussione quello che già conosce, di capire da che parte si nasconda il Bene. La conoscenza, insomma, elevata a ragione di vita». Platone nell’Eutidemo racconta che Socrate poco prima di bere la cicuta e quindi morire ricevette in carcere un maestro di cetra. Alla domanda di un discepolo: «Perché imparare a suonare la cetra, se di qui a poche ore ti faranno bere la cicuta?», Socrate rispose: «Perché mi piace imparare». E qui interviene il professor Bellavista: «Ora, se gli uomi-

ni scoprissero il valore del conoscere fine a se stesso, tutto il nostro mondo muterebbe di colpo. Gli studenti, per esempio, non farebbero più una fatica della madonna a studiare. Mossi dall’amore per il sapere non subordinerebbero più il loro impegno al miraggio del titolo di studio e finirebbero per raggiungere risultati migliori e più duraturi». La scuola socratica è l’esatto opposto della nostra scuola che subordina tutto al titolo di studio: il «pezzo di carta». Kant, amico di Socrate, dice: «Non devi studiare per la promozione, ma devi studiare perché sei libero di farlo e così di migliorarti». Il fondamento della scuola italiana non è il desiderio di apprendere e la ne-

cessità di sviluppare questa passione, quanto la noia di una «scuola dottorona» che ha come suo totem il «pezzo di carta». La bellezza della vita socratica è la libertà che si apre davanti a noi quando comprendiamo che non c’è nessuno che sappia tutto: Socrate fu condannato perché smascherò l’ignoranza e i limiti del potere. Se i nostri ragazzi si innamorano di Socrate capiscono che devono studiare per la bellezza del loro miglioramento e non cosa che non fanno - per il valore inesistente della maschera del «titolo di studio». Luciano De Crescenzo, Socrate e compagnia bella, Mondadori, 144 pagine, 14,00 euro

Guida al pensiero dei brahmana

di Riccardo Paradisi l sacrificio o l’offerta ha nell’induismo un diverso significato rispetto a quello che questo termine ha finito con l’assumere nel mondo occidentale dove è diventato l’espressione di un atto dovuto di sottomissione alla divinità, un atto di espiazione, verso una divinità cui si è sottoposti. Nel sistema religioso induista invece il sacrificio è un atto puro nel senso di un atto tecnico, un mezzo per trasformare se stessi, la propria parte terrena in parte divina e partecipare alla condizione divina. È nel periodo brahmanico che nascono in India fondamenti religiosi e filosofici di una concezione del mondo che ritiene possibile per quegli uomini che la ricercano la liberazione in vita dalle illusioni e dalle catene dell’esistenza. È con il concetto del Brahman, il cono-

I

personaggi

scibile e insieme l’inconoscibile, l’onnisciente ed eterno, realtà suprema che include il tutto, fondamento dell’universo, fonte di ogni esistenza, che l’induismo unisce la terra al cielo: «In verità tutto questo mondo è Brahman ma Brahman trascende ogni possibile concetto umano». Brahman è il nucleo spirituale che coincide con l’Atman, il «sé» universale presente in ogni uomo, in potenza centro dell’universo e signore degli dei. L’Atman-Brahman dunque è l’«uno», la realtà fondamentale che tutto comprende, coscienza e consapevolezza, soggettivazione dell’universo. La dottrina del sacrificio nei Brahmana di Sylvain Lévi è uno studio fondamentale per capire questa idea del mondo, che cos’è davvero il cuore dei Veda, i testi che compongono l’immensa architettura filosofica e religiosa dell’induismo. Questo cuore è il

sacrificio che «pur incarnandosi in riti molteplici è diffuso ovunque; risiede allo stato latente in tutto ciò che è, poiché tutto ciò che è partecipa del sacrificio ma come gli dei sfugge ai sensi». I brahmana indagati da Lévi, come scrive Roberto Calasso nell’introduzione al libro di Lèvi, sarebbero rimasti una foresta quasi impenetrabile per il non specialista se questo eminente indologo non avesse pubblicato, sulla base di lezioni tenute negli anni 1896-1897, questa guida al pensiero dei brahmana, costruita interamente attraverso il sapiente incastro di citazioni emblematiche, che nella sua scrupolosa esattezza induce qualsiasi lettore a riconoscere l’audacia e l’altezza speculativa di questi testi» dove gli dei sono descritti come «gloria e bellezza», conseguite rigettando interamente il male attraverso il sacrificio: «Come sono gli uomini recita il brahmana - così erano gli dèi in origine. Eseguirono i riti e scacciarono il male la mancanza la morte, andando all’assemblea divina». Sylvain Lévi, La dottrina del sacrificio nei Brahmana, Adelphi, 223 pagine, 25,00 euro

Il triangolo maledetto di casa Pascoli di Gennaro Cesaro educe dagli esiti piuttosto positivi degli scavi psicanalitici eseguiti sulla più occulta biologia di Luigi Pirandello, Carlo Di Lieto si è recentemente avventurato in un’analoga operazione con casa Pascoli, focalizzando il suo interesse investigativo sul torbido triangolo stabilitosi tra il poeta e le due sorelle. C’è preliminarmente da dire che già al momento della nascita la psiche del Pascoli era rimasta turbata da un disguido endocrinologico, ossia ormonale, che l’aveva dotato di una sensibilità quasi femminea, manifestatasi nel corso del tem-

R

po come un’iperbolica attenzione ai fenomeni della natura. Con gli anni questa sua patologica georgofilia aveva finito con l’assumere i connotati di una fuga dalla realtà. A spingerlo in maniera determinante verso un inviolabile stato di emarginazione, nell’ambito dei rapporti interpersonali e soprattutto in quelli sentimentali era stata la repentina tragedia del padre Ruggero barbaramente trucidato in un agguato di stampo quasi mafioso. Questo immediato trauma fece maturare in lui un’ostinata riottosità alla formazione di un regolare nucleo familiare, di là dall’alveo affettivo alquanto so-

spetto rappresentato dalle due sorelle Ida e Maria. La discesa del poeta nell’arengo letterario, pur se inizialmente salutato da plausi e consensi, contribuì non poco a complicargli la vita, non appena si furono palesate voci di aspro dissenso, in primis quella di Benedetto Croce, che resta indubbiamente un autentico e spregiudicato sabotatore dell’arte pascoliana (e non soltanto di quella). L’agglomerato di cause e concause endogene ed esogene, nella sfera psichica, fece dell’autore dei Canti di Castelvecchio, da una parte l’autentico homo novus della poesia italiana del Novecento, dall’altra finì coll’imbottigliarlo

nelle maglie di un caso clinico. A dipanare l’aggrovigliata matassa, in chiave strettamente freudiana, è stato Carlo Di Lieto, col suo Romanzo familiare. Il «caso Pascoli», in buona sostanza, filtrato attraverso le illuminanti pagine di questa monografia, consente di verificare come alla base di una gagliarda esperienza poetica, oltre alla vocazione, ci sia quasi sempre una maledizione di tipo compulsivo (Hölderlin, Shelley, Rimbaud, Verlaine, Baudelaire, Poe, Corazini, Campana, ecc.). Carlo Di Lieto, Il romanzo familiare del Pascoli, Guida, 284 pagine, 19,00 euro

altre letture Nel pensiero di Marcel Gauchet la riflessione sulla religione ha sempre avuto come sfondo l’analisi politica. Anche nella Religione della democrazia (160 pagine, 16,00 euro) in uscita per le edizioni Dedalo, il direttore dell’Ecole des Hautes Etudes di Parigi i due piani sono strettamente intrecciati. Lo spunto è fornito dalla ricostruzione storica della laicità in Francia. Dovendo spiegare il perché dell’attuale crisi Gauchet propone una lettura eterodossa: la laicità non è travolta da un’onda di riflusso della fede, al contrario è costretta a ridefinire i suoi confini proprio a causa del progressivo esaurirsi di quell’onda. Il ritorno delle religioni non è che la conseguenza paradossale della vittoria democratica. Da qui la domanda: quale ruolo possono giocare le religioni all’interno di una sfera pubblica necessariamente votata al pluralismo? Scritto in poche settimane, nell’autunno del 1936 ad Haiti dove l’autrice studiava i culti vodoo, I loro occhi guardavano Dio (Cargo edizioni, 17,50 euro, 267 pagine) di Zora Neale Hurston è un romanzo che racconta una storia d’amore fra la quarantenne Janie e il venticinquenne Tea Cake sullo sfondo di Eatonville, in Florida, la prima città autogovernata da neri in america, dove la Hurston si era trasferita da bambina con i genitori. Ma è anche la storia del lento affiorare alla coscienza di sé di una donna attraverso l’amore. Zora Neale Hurston è stata la prima scrittrice di colore a rivendicare con orgoglio le proprie origini culturali ed etniche e ad aprire la strada a tutta una produzione culturale letteraria e cinematografica di testimonianza dell’Africa nera. Quella che un tempo era la Cenerentola dei servizi pubblici è diventato uno dei problemi più interessanti del nostro tempo. Oggi i rifiuti evocano veleno e distruzione dell’ambiente: ogni italiano ne produce circa un kg e mezzo al giorno, di cui una buona parte finisce in discariche in via di esaurimento. Tuttavia, come spiega Antonio Massarutto in I rifiuti (Il Mulino, 8,80 euro, 135 pagine) gestire i rifiuti in modo corretto si può: richiede una strategia complessa volta a ridurre le quantità da smaltire, il loro potenziale nocivo, coinvolgendo il sistema produttivo e responsabilizzando i cittadini. a cura di Riccardo Paradisi


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AL CAFFÈ FAPPANI DI VIAREGGIO, ALLA BUSSOLA DI FOCETTE E ALLA CAPANNINA DI FORTE DEI MARMI LO SPEZZINO GIAN CARLO FUSCO ERA DI CASA, E LE SUE CRONACHE DA QUEI LUOGHI PER IL “GIORNO”, NELL’ANNO DEL BOOM ECONOMICO, SONO ADESSO RACCOLTE IN UN VOLUMETTO. CHE RISVEGLIA MEMORIE DI LUOGHI, SAPORI E PERSONAGGI DEL TEMPO CHE FU: DA D’ANNUNZIO CON LA DUSE ALL’OMBRA DEI PINI DELLA VERSILIANA, AI GRANDI LETTERATI DEL NOSTRO NOVECENTO RADUNATI AL “QUARTO PLATANO”, ALLE SERATE ASCOLTANDO I GRANDI DELLA MUSICA. SAPORI DI MARE E ROTONDE…

reportage

Cartoline dalla Versilia di Mario Bernardi Guardi

a Viareggio «è» Versilia? Un viareggino vi dirà di sì, un fortemarmino di no. E allora da dove comincia? Da Camaiore, da Pietrasanta, da Forte dei Marmi (anzi, dal Forte, perché è così che si deve dire)? E dove finisce la Versilia? A Massa, o forse a Carrara, o magari alla Spezia? Chissà cosa ne pensava lo spezzino Gian Carlo Fusco che tra l’arcitoscana Viareggio e le liguri Cinque Terre era di casa. Piccolo, tarchiato, con la faccia del pugile un po’suonato, brillante conversatore, sfrontato, ma seduttivo, simpatico mentitore impenitente, era di casa al caffè Fappani di Viareggio, come alla Bussola delle Focette e alla Capannina del Forte. Si levava alle cinque del pomeriggio, la notte era sua, ne era per vocazione amante e complice, e se la coccolava facendosi raccontare i pettegolezzi vacanzieri e cucendoci sopra di suo. Chissà, ad esempio, se era vera la storia di quel tale, ricco imprenditore, che, innamorato pazzo di una bella signora, l’aveva corteggiata a colpi di squisite galanterie e di enormi fasci di rose rosse. Fino alla capitolazione. Ma nella fatidica notte della meritata vittoria, pare che la vezzosa dama abbia più e più volte inibito all’amante il culmine del piacere, «cogliendo con mano languida un pezzetto di

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canzone di Gino Paoli, mirabile inno al «tempo dei giorni che passano pigri» e all’eros sabbioso-salato, intonato da un «bel (?) tenebroso» esile, stempiato e con gli occhiali neri, che, tra Bussola e Capannina, aveva già schiere di aficionados e di lì a poco avrebbe conquistato il cuore della giovanissima, bellissima, ruspante viareggina Stefania Sandrelli.

«Sapore di mare» sono anche gli anni Sessanta astutamente recuperati negli anni Ottanta dall’innegabile ruffianesco fiuto di Carla Vanzina: un vero film «di culto» con Virna Lisi, Isabella Ferrari, Christian De Sica, Jerry Calà. Jerry che ha folleggiato tutta l’estate in Capannina (sì, in Capannina, al Forte), per gli ottant’anni del locale, trascinando gli ex e i neoventenni di cui sopra in una festa di

Il sole, il mare, la pineta, le Apuane, le passeggiate, le biciclette, gli aperitivi, i nottambuli, gli amori estivi, il settembre col suo tempo di “migrare”... Tutto è ancora lì, ma delle figure d’un tempo si sente la mancanza... ghiaccio dal secchiello dello champagne posto al letto» e morbidamente collocandolo sull’osso sacro dell’infuocato amante nei momenti cruciali. Così almeno raccontò Gian Carlo Fusco a Ettore Masina, suo giovane collega al Giorno, e questa ed altre storie ritroviamo in Viaggio in Versilia. L’estate del «boom» (a cura di Filippo Maria Battaglia, Mursia, 113 pagine, 10,00 euro), che per l’appunto raccoglie una serie di pezzi estivo-versiliesi pubblicati da Fusco nel 1960 sul quotidiano di Italo Pietra. E che è divertente, e per certi versi struggente, leggere adesso, a cinquant’anni di distanza, mentre questa calda estate declina, ma si ostina a non finire, e nemmeno quell’altra finisce, visto che non solo i ragazzi di allora (meglio chiamarli così, no?) ma anche quelli d’oggi continuano a inebriarsi di nostalgia e di «sapore di mare». Già, la

canzoni, danze, battute, barzellette, cori da stadio. Del resto, la notte in Capannina è sempre stata lunga. Se lo aspettava l’imprenditore fortemarmino Nevio Franceschi quando nel 1929 comprò un vecchio capanno di legno per gli attrezzi da pesca? Probabilmente ebbe fiuto, anche se all’inizio lo arredò alla bell’e meglio. Qualche sedia, un bancone dove servire dolcetti, stuzzichini e aperitivi, un tavolo per giocare a carte. Anche una pista perché i giovani si lanciassero nelle danze, come si diceva allora. Ma nel ’30 un falò brilla nel notturno lunare.Va a fuoco la Capannina.Va a fuoco ma ci mette poco a risorgere dalle ceneri. E, come la Fenice, diventa un’icona. Mitica e ludica. Ci vengono - da giugno a settembre, e all’approssimarsi dell’autunno la vita è davvero dolce! - i «signori» che hanno la villa in Versilia: i Visconti, i Della Gherardesca, i della

Robbia, i Borbone, i Colonna, gli Sforza. Ci viene la nuova «casta» altoborghese: gli Agnelli. Ci vengono i gerarchi fascisti, come Italo Balbo che fa strage di cuori femminili, ammarando davanti al locale col suo idrovolante. Seguono sussurri, gridolini e, per tutti, come da rituale, un bel «negroni», il cocktail a base di vermouth rosso, gin e bitter Campari, inventato dal conte fiorentino Camillo Negroni che villeggia da queste parti. Ma al Forte, oltre alla Capannina, c’è anche il Caffè Roma, all’ombra del Quarto Platano, diventato celeberrimo per le prestigiose frequentazioni intellettuali. Visto che nel tardo pomeriggio per l’aperitivo oppure dopo cena ci si poteva trovare Pea, Papini, Soffici, Carrà, Longanesi, Montale, Ungaretti, Longhi, Maccari, Malaparte, Bontempelli, Moravia,Viani,Treccani, Tobino… A chiacchierare, a tirar tardi, a godersi il fresco… E ogni tanto compariva l’austero Giovanni Gentile, anche lui con casa in zona, anche lui disponibile a metter da parte i pensieri «forti» per la «debolezza» e la «leggerezza» di un caffè, di un aperitivo, di una bibita rinfrescante. Scelte comprensibilissime nell’infuriare dell’afa. E poi, che piacere conversare, magari, anche, litigare! Era, pur sempre, tra amici; a dirla tutta, tra «camerati»… Tutti innamorati della Versilia e del Forte. Scoperti, trent’anni prima, dal Vate. Il quale allora amoreggiava con la «Divina» Duse all’ombra dei pini della Versiliana. La celebre Villa - oggi un «contenitore» estivo che accoglie conferenze, dibattiti, presentazioni di libri, avvenimenti mondani, spettacoli - lo accolse, infatti, nei primi anni del Novecento, quando Gabriele, partito da Fiesole, anzi dalla Sera fiesolana, visse la grande, lunga, maliosa estate raccontata nell’Alcione.Tutta un brivido di piacere che scorre di verso in verso, dal mare, alla spiaggia, alla pineta, meglio, al «pineto» dove la pioggia, scrosciando liberatoria (e, inutile dirlo, satura d’eros), produce, da un albero all’altro, i più svariati suoni per la delizia panica di Gabriele e di Ermione (la Duse? Il volto, il corpo e l’anima della Duse mescolati a quelle di altre «elette»?). Anni ruggenti, quelli del «secolo breve». Nonché «galoppanti» viste le cavalcate notturne dell’ignudo d’Annunzio sulla solitaria battigia, con gli spruzzi del mare a rinfrescargli il volto…Ma où sont, où sont les neiges d’antan? Beh, anche noi che siamo venuti troppo tardi o troppo presto, qualche ricordo ce l’abbiamo. Dolce e salato, diciamo al «sapore di mare». Gli ospiti della Capanni-

In alto da sinistra, in senso orario: cabine a Forte dei Marmi, l’antica Capannina di Franceschi, il lungomare di Viareggio, la Versiliana, il pontile del Forte, Sergio Bernardini, Mina e Montale sulla spiaggia. Al centro, a sinistra: la Bussola ieri e oggi. A destra: tende a Forte dei Marmi ieri e oggi


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na, ad esempio: da Totò a Kennedy. E Edith Piaf, Paul Anka, i Platters, Abbie Lane che ancheggia scatenando l’immaginario maschile un po’ represso. Xavier Cugat che, chihuahua in braccio, ridacchia sornione. Formidabili e memorabili anche i nostri anni. Un rimescolìo di immagini ed emozioni «commentate» dalla musica: rock, twist, cha cha cha, hully gully, le rotonde sul mare di Bongusto, i «ritornerai» di Lauzi, le pinne e gli occhiali dell’«abbronzassimo» Edoardo Vianello. Ci si dava l’appuntamento in Capannina, di anno in anno, da una star all’altra, dalla Vanoni a Ray Charles, da Cocciante a Gloria Gaynor, da James Brown a Benigni… E quest’estate? Quest’estate, che non vuol passare, ha festeggiato gli ottant’anni: con la «bambola» Patty Pravo, sempre più diafana ma ancora incandescente, con Gloria Gaynor, che negli States cerca invano qualcosa che assomigli al Forte, con Belen Rodriguez che, come dicono da queste parti, «non finisce più», con la grintosa Simona Ventura («tutta rifatta», sibila il non-gentil sesso) che taglia la torta insieme al patron del locale Gherardo Guidi.Tanti cuori e una Capannina. A qualche chilometro dalla Capannina - e dal Twiga di Briatore che però non ha ancora l’aura magica del locale più vecchio del mondo -, risalendo verso Viareggio, c’è, alle Focette di Marina di Pietrasanta, l’altrettanto mitica Bussola. Gian Carlo Fusco se la godette nel ’60, al culmine dello splendore, ma qui il peso degli anni si sente. Nel senso che manca «il più e il meglio», e cioè manca Sergio Bernardini, che nel 1955 inventò il locale. Non scommise sul suo successo, ma sul piacere dell’avventura (aveva un’orchestrina di cui faceva parte, ve lo immaginereste mai?, un giovanissimo Piero Angela…). E vinse. Un tipo del genere non poteva morire nel suo letto. E infatti se ne andò all’altro mondo in un incidente d’auto, in quel di Asti, mentre andava a Torino per le nozze di un nipote, nell’ottobre del ’93. Un sabato d’autunno. Una Bmw che corre troppo. Un sorpasso come nel film di Dino Risi. Si dice di tanti, ma lui era davvero una forza della natura. Incontenibile quanto a intuizioni, vivacità, progetti. Inventò la Bussola per la ricca borghesia vacanziera - Gianni Agnelli, Angelo Moratti, Felice Riva…-, per i ragazzi che, in un loro spazio, il Bussolotto, «un piccolo locale dentro il grande locale», potevano ascoltare il jazz di Chet Baker e di Romano Mussolini, per le star che venivano da tutto il mondo e si trovavano immediatamente a loro agio. Bernardini le andava a cercare e non le mollava finché non di-

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cevano di sì. Glielo dissero, tra gli altri, Ginger Rogers, Josephine Baker, Marlene Dietrich (che in camerino pretendeva un secchiello di ghiaccio, senza champagne, per non andare alla toelette a far pipì…), Frankie Laine, Johnny Ray, i Platters, Ella Fitzgerald, Louis Armstrong, Juliette Greco, Mirelle Mathieu, Miles Davis, Charles Aznavour… Gli dissero di sì, e lui accolse tutti senza fare economia, da gran signore. Perché, anche se si esprimeva con linguaggio plebeo (tra l’altro, chiamava la Bussola «la vecchia troia»), ci teneva a far bella figura. Da padrone del locale, da italiano e da versiliese. E non basta, perché per i suoi ospiti era anche un amico e un confidente. Una specie di psicoterapeuta. Non privo di sottili arti diplomatiche: i ricchi, spesso e volentieri, sono arroganti; le star, altrettanto spesso e volentieri, sono capricciose. Bene, «champagne

«Mina mi dà la carica»). E poi Ornella Vanoni, Milva, il Molleggiato Adriano Celentano, la biondissima del «Piper» Patty Pravo… Fino al terribile Capodanno del ’68, quando decine di studenti del Potere Operaio pisano - tra cui Adriano Sofri - vennero a contestare il locale dei ricchi, dei borghesi e dei padroni. Come avevano fatto Mario Capanna e i «compagni» del Movimento Studentesco qualche mese prima lanciando uova marce contro le signore impellicciate a Milano, alla prima della Scala. La stagione mitica della Bussola finì con un colpo di pistola, sparato da un poliziotto, che colpì un ragazzo diViareggio, Soriano Ceccanti, condannandolo alla sedia a rotelle per una lesione alla spina dorsale. Bernardini ci soffrì, quasi sentendosi in colpa, ma non si arrese. Dicevano che era un servo dei padroni e che faceva gli spettacoli per i ricchi? E

Sergio Bernardini, col suo mitico locale, è stato un emblema fin dagli anni Cinquanta. Fu lui a scorpire una certa Annamaria Mazzini, che si faceva chiamare Baby Gate e che diventò Mina sul palcoscenico della Bussola

per tutti», e Sergio metteva d’accordo tutti. Che estati, quelle del «boom», vissuto e raccontato in diretta dal Giancarlo spezzino! Tanti soldi e altrettanta voglia di divertirsi.

In compagnia di fior di artisti. L’italo-olandese Peter Van Wood, col suo tormentone Butta la chiave e in serbo un destino di astrologo. Renato Carosone e Marino Marini, nemici per la pelle. Fred Buscaglione, duro e romantico, col suo successo fulminante e la sua vita breve (morì proprio in quel fantastico ’60, a trentanove anni, anche lui in un incidente d’auto). Una certa Annamaria Mazzini, che si faceva chiamare Baby Gate e che, proprio sul palcoscenico della Bussola, sarebbe esplosa come Mina (veniva a vederla anche Giuseppe Ungaretti che confidava

lui, mentre la fama della Bussola si annebbiava, inventò nel 1978 Bussoladomani: un tendone per grandi spettacoli nazionalpopolari. Artisti di valore che si esibivano per le masse, dunque a prezzi non proibitivi. Tra le star Renato Zero, con le sue schiere di «sorcini» deliranti. Ma anche Iglesias, Dorelli e un’ultima, smagliante Mina, grande amica di Sergio che raccontava su di lei un bel po’di aneddoti («Re Farouk stravedeva per lei e le riempiva di rose il camerino. Niente da fare: Mina non volle bere nemmeno una coppa di champagne in sua compagnia») e che diceva convinto: «Se tornerà a cantare, lo farà per me». Ora lui è il fantasma di una stagione, lei è una voce fantasmatica che viene da Lugano. Bussola e Capannina ci sono ancora, come il sole, il mare, la pineta, le passeggiate, le biciclette, gli aperitivi, gli amori che durano poco e bruciano tanto, i notturni festaioli, i compleanni, il settembre ,quando l’estate, sciogliendosi in una tenera malinconia, dice anche a noi, che è tempo di «migrare».Tutto come sempre? Ma… Il «ma» lo lasciamo agli inquieti e agli inquietanti. Per noi,Versilia d’autore, nunc et semper, anzi da qui all’eternità.


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tv

Current Doc punta i riflettori sui porno-addicts

web

video

di Pier Mario Fasanotti a nuova stagione televisiva di Sky presenta più novità rispetto a Rai e Mediaset. Francamente ci vuole poco per essere migliori di un deserto di idee e delle repliche di format che pongono in rilievo il vuoto inventivo e la poca, o nulla, voglia di rischiare. Su Sky predomina ancora la fiction, ma si fa avanti l’inchiesta, l’approfondimento, senza parlare dei modernissimi canali sportivi. E a proposito di impegno (che non è una brutta parola e nemmeno di stampo comunista) c’è da segnalare la vivacità di Current Doc (canale 130, ogni lunedì alle 21). Una delle ultime puntate ha esaminato il rapporto-dipendenza degli adolescenti con la pornografia. Situazioni e numeri che dire allarmanti è poco (non c’è solo alcol e droga, signori genitori). La telecamera s’è accesa in Inghilterra dove, dicono le statistiche, vivono i giovani più attivi in fatto di sesso-spazzatura, violenza e devianza. Le pagine web dedicate al tema sono, nel mondo, 250 milioni. Ripeto: 250 milioni. Internet, assieme all’uso del telefonino con foto e filmati, ormai scatena impulsi che poco tempo fa rimanevano in un cantuccio o erano convogliati da educatori, genitori, istituzioni sociali e religiose. Una buona parte dei cinque milioni di adolescenti dell’Isola britannica si connette a siti «sporchi». Dice un ragazzo: «Spesso non sono richieste carte di credito.Ti iscrivi gratis e in un paio d’ore vai in centinaia di link». Malcolm è un sedicenne che passa il suo tempo libero con gli occhi fissi sul porno estremo. Sa che è una droga, ma non riesce a staccarsi. «Mi prende tutto il mio tempo, non riesco a studiare, a vedere amici». C’è chi prova a dieci anni, addirittura. Su pressione di compagni e non si tira indietro per la paura d’essere emarginato.Tom è uno dei pochi intervistati che accenna a un senso di colpa: «Mi sento un pervertito. Con il porno sul computer avverto il brivido della ribellione». Un

L

games

giorno un link lo rimanda a un programma di cura e di sostegno. Alla fine ne parla con il sacerdote della parrocchia. Si libera di un segreto, si sente meglio. Malcolm, scoperto dalla madre (ma i padri dove sono?), va da una psicologa che trova la connessione tra la sua aggressività, la convivenza con una sorella handicappata e la pornografia usata come arma contro se stesso. «Ora passo settimane a riflettere su quanto non sospettavo esistesse dentro di me», racconta. Darryl ha una roulotte a sua disposizione accanto alla casa. Siti porno e «aggancio» di ragazze. Seguono festini, con molto alcol. «Una sera una ragazza s’è ubriacata così tanto che è collassata. Ho chiamato l’ambulanza. Poi è arrivata la polizia ed è stato allora che ho avuto paura». Significativo che la paura non gli sia venuta per le condizioni di salute di lei. Ma le donne, per tipi come lui, sono solo oggetti. Sostiene che il porno è un modo di imparare: «Senza quello non saprei cosa fare». La maggior parte dei porno-addicts sono maschi, ma si calcola che una ragazza su cinque, tra i 12 e i 16 anni, si connetta quotidianamente al porno web. Darryl è convinto che le ragazze si divertano «come matte». Sarah riflette: «Alla fine i ragazzi vogliono da noi le stesse cose che guardano in rete e noi non siamo all’altezza. Comunque se il mio ragazzo guarda filmati spinti a me sta anche bene, basta che non sia dipendente». Il fenomeno dilaga. La tecnologia accelera tutto e cambia il comportamento giovanile. Le conseguenze, dice la psicologa londinese, non le conosciamo ancora bene. E non ci sono rimedi collaudati. Davanti a lei Malcolm piange. Poi ammette: «Faccio del bullismo contro di me». L’esperta: «Calma, l’aggressività è un potere che smuove, non è un’arma se la usi come strumento. Se non sei arrabbiato non vai da nessuna parte nella vita. Attento però a esaminare e a contenere le tue emozioni forti».

dvd

COME ERAVAMO PRIMA DELLA RETE

DISTRAZIONI DI SETTEMBRE

I

n controtendenza rispetto ai laudatores delle meraviglie internettiane, un brillante articolo apparso sul quotidiano britannico Telegraph, elenca cinquanta abitudini ormai pressoché defunte che avevano caratterizzato la vita quotidiana di tutti prima dell’avvento della rete. Si va dalla sempre più rara caccia al disco in giro per gli scaffali dei negozi alle lettere scritte a penna,

S

ettembre. Tempo di scuola e di libri, e di relativi antidoti. Quelli sempre più portentosi e variegati che arrivano puntualmente su console dopo una lunga attesa. In arrivo il 18 settembre per Playstation 3 Guitar Hero 5, gioco musicale interattivo che non ha più bisogno di presentazioni,Heroes Over Europe, simulatore aereo che trascina il player nei cieli della seconda guerra

«E

Un articolo del ”Telegraph” elenca cinquanta abitudini cancellate dall’avvento di internet

X-Box e Playstation 3 lanciano una serie di titoli avvincenti dopo la fine delle vacanze

Morri e Canale elaborano un intenso ritratto di Mastroianni, a dieci anni dalla sua scomparsa

dalla compilazione di ingombranti album fotografici all’addio alle ferie trascorse nell’assoluta ignoranza di ciò che avviene nel proprio paese di origine. E poi grandi mutamenti anche per la privacy, sempre più a rischio, le accresciute possibilità di incontrare di nuovo ex e compagni di liceo rimossi dalla memoria, l’ascolto integrale di un album, e la decadenza di un must del secolo scorso come il Televideo. Si prosegue poi con l’abolizione del rito familiare della tv tutti insieme appassionatamente, della visita dal medico per ogni sciocchezza e dell’impoverimento della propria pausa pranzo, sempre più risicata a causa dell’attrazione fatale per la rete.

mondiale e Supercar Challenge,dedicato al mondo della auto di grande cilindrata. Non sta a guardare X-Box, che risponde con IL2 Sturmovik: Birds of Prey (altro simulatore di volo),The Beatles: Rock Band,che affida al giocatore la difficile missione di mettere su una band nei rutilanti anni Sessanta sulle orme di Lennon e soci, e poi il nuovo capitolo di un classico come Colin McRae, punto di riferimento per gli appassionati del rally. Battaglia succulenta, quella tra le due maggiori console del momento, a un mese dallo storico derby che opporrà Fifa a Pes 2010.

misto di sensibilità femminile e di forza virile, la sua delicatezza, la sua bellezza e la sua riservatezza parlavano in suo favore». Claudia Cardinale ricorda così il compagno di innumerevoli successi che fecero la storia del cinema italiano, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Realizzato a dieci anni dalla sua scomparsa, nel 2006, Marcello - Una Vita Dolce ripercorre carriera e biografia di Mastroianni, grazie alle testimonianze di Monicelli, Fellini, Ferreri e Scola, che condivisero con il grande attore larga parte della storia e della fama del nostro cinema. Annarosa Morri e Mario Canale, restituiscono il ritratto di un uomo che nella vita non recitò mai, neppure per un istante.

a cura di Francesco Lo Dico

LA VITA DOLCE DI MARCELLO ra un attore felice, che amava alla follia il suo mestiere, che svolgeva con gioia e buon umore. La sola persona che Mastroianni prendeva sul serio durante le riprese, era il regista. Con gli altri giocava, si divertiva. Era un goliardico. Con quello sguardo scuro e dolce, l’occhio di velluto che ha sempre caratterizzato il latin lover, aveva tutto ciò che serve per piacere. La sua gentilezza, quel


cinema a Mostra dell’arte cinematografica di Venezia dimostra di essere una splendida sessantenne. Il look dell’area in cui si svolge la Mostra è trasformato da cantieri e transenne, con sale nuove e sale che hanno cambiato nome, ma nonostante lo sforzo che si deve fare per imparare i nuovi percorsi, tutto funziona piuttosto bene complessivamente. Il più bel film della prima settimana è Life During Wartime (La vita in tempo di guerra) dell’inimitabile Todd Solondz, e sequel di Happiness, il suo indimenticabile film d’esordio, che ha lanciato la carriera di Phillip Seymour Hoffman, Premio Oscar per Capote. Opera corale su un’umanità devastata dalle proprie ossessioni devianti (pedofilia, guardonismo, molestie sessuali), il nuovo film si pone la domanda se sia possibile e auspicabile perdonare esseri fallaci, tarati dalle più viete perversioni che la nostra società conosca. L’ineguagliabile ironia del regista rende non solo sopportabile ma addirittura esilarante ed entusiasmante la disamina dei più oscuri meandri e colpe della psiche umana. Noi lo candidiamo subito al Leone d’oro anche prima di aver visto tutti i film in concorso.

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Il Leone d’oro? Datelo a

Solondz di Anselma Dell’Olio

Lourdes, dell’austriaca Jessica Hausner, è uno sguardo sulla fede che nessun lettore del nostro giornale vorrà perdere. Christine (SylvieTestud) è malata di sclerosi multipla e costretta su una sedia a rotelle. Non è particolarmente credente, ma fare i pellegrinaggi è il suo unico svago, «altrimenti non uscirei mai di casa», dice alla giovane donna che l’assiste. Tutto il racconto si svolge a Lourdes, e il film merita di essere visto anche solo per le nitide, immacolate riprese del santuario, dell’albergo e della grotta, dei riti che vi si compiono, l’inevitabile sfruttamento commerciale della gestione di una destinazione carica di metafisica e di umili quotidianità, per non parlare dell’ambiguità delle motivazioni. Un film molto bello e crudele come la vita, senza alcuna intenzione di demolire o demistificare, che si svolge sul crinale tra credere e non credere, tra meschinità e solidarismo, tra generosità ed egocentrismo. Bad Lieutenant: Port of Call New Orleans, è l’ironico omaggio di Werner Herzog all’opera originale Il cattivo tenente di Abel Ferrara con Harvey Keitel. Poco apprezzato dal regista originale, il film nel concorso principale è un divertente, rutilante noir con ambiguo happy end, degno finale all’affresco affettuoso dell’America fatto dall’autore di Fitzcarraldo. Bravissimi tutti, specie Eva Mendes, con un’unica riserva: Nicholas Cage nel ruolo del protagonista, che secondo Sean Penn ha smesso di fare l’attore da parecchi anni (da Leaving Las Vegas?) per dedicarsi a film d’azione con effetti speciali di enormi incassi e di poco conto. Concordiamo. Ma il film vale comunque la pena. Francesca, il film rumeno di Bobby Paunescu che ha suscitato polemiche per il ritratto al vetriolo degli italiani visti da un popolo risentito per essere stato da noi demonizzato, va visto perché è ben fatto e ben scritto, e mai banale. Una giovane maestra d’asilo con un fidanzato pasticcione coinvolto in affari loschi, vuole andare a fare la badante nel Bel Paese e, con i soldi che spera di mettere

“Life during wartime” è un’opera corale su un’umanità devastata dalle proprie devianze. L’ineguagliabile ironia del regista rende non solo sopportabile ma addirittura entusiasmante l’oscura disamina. Quanto al resto, Venezia 66 è il miglior festival lagunare degli ultimi anni da parte, aprire un giorno un asilo per i bambini della comunità rumena in una grande città del Nord. Le polemiche sugli insulti agli italiani (si dice, non si vede, che maltrattano, molestano, stuprano e minacciano, uccidono e fanno traffico di organi rumeni) sono sbagliate, perché il film ci mette davanti alle dicerie popolari sui travagli degli immigrati in terra straniera, purtroppo non sempre e non tutte «leggende metropolitane». Il ritratto che esce della Romania, i compromessi, le meschinità, la brama di denaro di tanti rumeni (la protagonista compresa) sono la dimostrazione che l’autore è consapevole che tutto il mondo è paese. L’Italia di cui parla è favoleggiata (Francesca alla fine non partirà) mentre la realtà rumena è rappresentata nei particolari.

Baarìa. Venezia 66 (tante sono le edizioni finora) ha avuto un decollo spettacolare con Baarìa di Giuseppe Tornatore, per il quale la Medusa ha speso sicuramente più dei 25-30 milioni di euro dichiarati. È la prima volta in vent’anni che un film italiano ha l’onore di inaugurare la competizione al Lido. Il regista siciliano ha creato un’opera audace, sopra le righe, spettacolare, eccessiva che mette in ordine sparso gli aneddoti, le storielle, i ricordi e le favole paesane della sua famiglia e di Bagherìa stessa. Una spremuta di sicilianità con salti temporali tra presente, passato e futuro che sovente lascia perplessi su dove si trovi il racconto e chi siano i personaggi in un dato momento. Ogni tanto gli spettatori si daranno di gomito per chiedere se

uno dei personaggi è la nonna o la zia o la vicina di casa della scena prima, o un’altra persona del tutto. Forse non ha molta importanza, perché l’autore non ha costruito una sceneggiatura classica, una narrativa con protagonisti con i quali il pubblico si identifica e le cui sorti gli stanno a cuore. In genere la richiesta minimale che facciamo a un film è di invogliarci a sapere come va a finire, e se questo non succede è un difetto che può essere mortale. In questo caso no, perché pur con molte riserve (opere con questo tipo di struttura rischiano di essere «bozzettistiche», e in parte questa lo è) c’è una tale ricchezza di eventi e personaggi che ognuno troverà qualcosa per i suoi gusti e interessi. Ricordiamo in particolare il comizio del politico incarnato da Michele Placido, Salvo Ficarra, che buca lo schermo come pochi, e il protagonista maschile (rappresenta il padre di Tornatore, che qui si chiama Torrenova), Francesco Scianna, un Richard Gere siculo con sguardo ammaliante e virile. Margareth Madé nella parte della moglie di Torrenova (dunque la madre del ragazzino che fa il regista da bambino) è sinuosa, bella e acerba. Un film da vedere, da discutere (tutta quella povertà smagliante rende glamourous e smaltata la povertà e la miseria, con un’abbondanza di salsicce che all’epoca era impensabile). Si mormora che se il film va male, potrebbe affondare la Medusa; se sparisce l’unica, vera major italiana, il già agonizzante cinema nostro tirerà le cuoia definitivamente.

The Road di John Hillcoat è tratto dal magnifico romanzo di Cormac McCarthy (La strada) sul mondo ridotto in macerie da un disastro nucleare. Un padre (il mai deludente Viggo Mortenson) e un figlio (l’incisivo adolescente australiano Kodi Smit-McPhee, classe 1996) senza altro nome vagano in un panorama di rovine in cerca di cibo e riparo. La storia riesce a superare il «già visto» in questo scenario fin troppo utilizzato dalla fantascienza, grazie a una scrittura immensamente bella e di spessore. McCarthy si chiede, e costringe noi a domandarci, in che cosa consiste la nostra umanità? Che cosa è che ci rende diversi dalle bestie in situazioni estreme di sopravvivenza? L’Uomo e suo Figlio fanno incontri terribili nel loro percorso con bande di balordi e predoni, esseri senza alcuna pietas, senza più nulla di umano, che minacciano, derubano, seviziano, massacrano, cannibalizzano senza remore. Charlize Theron è la dolente, accarezzata figura femminile - moglie e madre dei due superstiti - che si vede solo nei luminosi flashback ai tempi della famiglia unita e felice e la terra ancora vivibile, prima che lei, che non può sopportare l’idea di barcamenarsi alla meglio in uno scenario degradato e disperante, li abbia abbandonati per morire al più presto lontano da loro. Il film è meno riuscito del libro (i ritorni al passato sono melense saccarine, nel romanzo mai) ma vale senz’altro il viaggio, specie se manda o rimanda alla lettura delle indimenticabili pagine dell’immenso McCarthy. Venezia 66 si sta rivelando uno dei migliori festival sulla laguna da qualche lustro. Per ora, nn ci sono stati quasi mai colpi di sonno, anche durante film non condivisi. Quasi un miracolo.


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SULLA MORTE, SENZA ESAGERARE Non s'intende di scherzi, stelle, ponti, tessitura, miniere, lavoro dei campi, costruzione di navi e cottura di dolci. Quando conversiamo del domani intromette la sua ultima parola a sproposito. Non sa fare neppure ciò che attiene al suo mestiere: né scavare una fossa, né mettere insieme una bara, né rassettare il disordine che lascia. Occupata a uccidere, lo fa in modo maldestro, senza metodo né abilità. Come se con ognuno di noi stesse imparando. Vada per i trionfi, ma quante disfatte, colpi a vuoto e tentativi ripetuti da capo! A volte le manca la forza di far cadere una mosca in volo. Più di un bruco la batte in velocità. Tutti quei bulbi, baccelli, antenne, pinne, trachee, piumaggi nuziali e pelame invernale testimoniano i ritardi del suo svogliato lavoro. La cattiva volontà non basta e perfino il nostro aiuto con guerre e rivoluzioni è, almeno fin ora, insufficiente. I cuori battono nelle uova. Crescono gli scheletri dei neonati. Dai semi spuntano le prime due foglioline, e spesso anche grandi alberi all'orizzonte. Chi ne afferma l'onnipotenza è lui stesso la prova vivente che essa onnipotente non è. Non c'è vita che almeno per un attimo non sia stata immortale. La morte è sempre in ritardo di quell'attimo. Invano scuote la maniglia d'una porta invisibile. A nessuno può sottrarre il tempo raggiunto. Wislawa Szimborska da Vista con granello di sabbia, Adelphi

poesia

Il canzoniere di un’antinichilista di Filippo La Porta a sempre ci si interroga su cosa sia la poesia. I tentativi di definirla in termini tecnico-formali (il verso) o conenutistici (genere lirico: la rappresentazione della soggettività), risultano tutti imprecisi, parziali (si pensi, rispettivamente, al romanzo in versi o alle parti squisitamente liriche di molta narrativa). Tanto da rifugiarsi in formule tautologiche del tipo la poesia è la poesia. Immergendomi però durante la vacanza estiva in Wislawa Szimborska (Kornik, Polonia, 1923) ho pensato che oggi il suo canzoniere sia - per varietà quasi illimitata di temi (scrive versi dal 1945), per sapienza metrica che mescola lingua colloquiale e giochi fonici raffinati (ovviamente solo in parte percepibile nella traduzione) - la migliore risposta a quell’interrogativo. In che senso? Leggere una qualunque delle sue poesie equivale a prendere degli occhiali e cominciare a vedere meglio e più cose nella nostra esistenza, a notarle, distinguerle e metterle a fuoco (mi scuso per l’immagine, forse banale: personalmente sono molto astigmatico). Dunque: libertà estrema di nessi e insieme rigore argomentativo, pensiero iperconcentrato e prodigiosa capacità evocativa. Il curatore e traduttore italiano, Pietro Marchesani, definisce così la sua poesia: «drammatica, anche se non è enunciata drammaticamente, ironica e mai retorica». Forse la vocazione che Platone riteneva costituiva della filosofia, il thaumazein - sentimento di meraviglia per le cose come sono - è passata alla poesia. Niente della vita quotidiana per la Szimborska è ovvio: «La veglia non svanisce/ come svaniscono i sogni (…)/ Non le si può sfuggire,/ perché ci accompagna in ogni fuga./ E non c’è stazione/ lungo il nostro viaggio/ dove non ci aspetti» (La veglia).

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Quando nel 1996 i giurati del Nobel vollero darle il premio da noi era pressoché sconosciuta - solo un volumetto Scheiwiller e traduzioni in antologie -, ma fortunatamente il pubblico dei suoi lettori è da allora cresciuto vertiginosamente e lo scorso anno a una lettura pubblica dei suoi versi a Bologna si contavano varie centinaia di persone, come a un concerto rock. La «moralità» del linguaggio poetico consiste non in una particolare attitudine virtuosa o edificante, secondo i canoni del realismo socialista (ricordo come la Szymborska ruppe con il partito comunista polacco nel 1957 per avvicinarsi poi all’opposizione democratica) ma nel dare realtà a una quantità di situazioni, di esperienze, di oggetti (preziosi o insignificanti, elevati o prosaici) - il primo amore, perdersi le chiavi, la vanità del tutto, un bicchiere di vino, le nuvole in cielo, un conflitto di coscienza, la scoperta di una nuova stella («ma non vuol dire che vi sia più luce»), uno scarabeo, il curriculum, lo scheletro di un dinosauro, un melo, un cane, la scimmia («e qualcosa gli deve pur mancare/ dato che nulla ha mai inventato»), la cipolla -, nel dare voce a chi non ce l’ha mai avuta - i bambini morti, le vittime anonime di attentati, i malati gravi in ospedale, un vecchio professore dopo un

incidente, le piante e i fiori, una pietra, un terrorista, l’esistenza stessa alle quattro del mattino... Con la consapevolezza che niente ci è veramente estraneo, e che dipende soltanto da noi condividere la sventura degli altri, quel dolore apparentemente distante ma che è sempre «all’ordine del giorno». In particolare la Szimborska ci dice la casualità sempre un po’ spaesante del nostro esistere in questa forma umana: «Sono quella che sono./ Un caso inconcepibile/ come ogni caso/(…)/ Potevo essere qualcuno/ molto meno a parte./ Qualcuno d’un formicaio bianco, sciame ronzante,/ una scheggia di paesaggio sbattuta dal vento» (Nella moltitudine). E poi la sua poesia, che una volta si è divertita a progettare una nuova edizione del mondo - riveduta - sa penetrare nella realtà affettiva più familiare, e ad esempio nel cuore di una relazione di coppia con un acume che invano cerchereste nei romanzi e film contemporanei: «Gli sono troppo vicina perché mi sogni/ Non volo su di lui, non fuggo da lui/(…)/ Io sono troppo vicina/ per cadergli dal cielo. Il mio grido/ potrebbe solo svegliarlo» (da Gli sono troppo vicina).

Nella poesia che ho scelto, presa dalla raccolta Gente del ponte, del 1986 (Marchesani nota un progressivo accentuarsi della «tonalità riflessiva» nel suo canzoniere) c’è tutta la reazione al nichilismo attuale e alla trista retorica novecentesca del negativo. Il suo non è un superficiale «pensare positivo» ma l’invito a considerare shakespearianamente le ragioni della vita (tragica e pur sempre comica) e il fatto che il nulla - certamente esistente - è la parte e non il tutto: «La realtà esige/ che si dica anche questo: / la vita continua./ (…)/ Sui valichi tragici/ il vento porta via i cappelli/ e non c’è niente da fare -/ lo spettacolo ci diverte» (da La realtà esige). L’attitudine logico-filosofica della Szymborska si appunta spesso, con sottigliezza, sulle aporie del pensiero. Nella poesia citata scrive infatti. «Chi ne afferma l’onnipotenza/ è lui stesso la prova vivente/ che essa onnipotente non è». Nel discorso per la premiazione del Nobel dichiarò di amare due piccole, alate parole: «Non so». E poi immaginò di dialogare con l’Ecclesiaste e di fargli notare che se è vero che «nulla di nuovo sotto il sole», lui stesso però, e il suo meraviglioso poema, e il cipresso alla cui ombra stava sedendo, erano indubitabilmente «nuovi» sotto il sole. Ed è altresì vero, nell’esperienza di ciascuno di noi, che «non c’è vita/ che almeno per un attimo/ non sia stata immortale». I suoi versi sono appunti sull’esistere - sempre impuro, contraddittorio -, scritti con una lingua essenziale e purissima, quasi dettata in sogno. Un componimento si intitola Un appunto e, tra l’altro, dice che la vita è «distinguere il dolore/ da tutto ciò che dolore non è;/ stare dentro gli eventi,/ dileguarsi nelle vedute,/ cercare il più piccolo errore/ (…)/ e persistere nel non sapere/ qualcosa d’importante». La poesia della Szymborka allude sempre a «qualcosa d’importante», però persiste nel non saperlo. Perché solo così può continuare a cercarlo e a invocarlo.


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12 settembre 2009 • pagina 13

il club di calliope PRIMISSIMA ALBA, TOSCANA Non levarmi dagli occhi le mani d’argento – la foschia dell’alba quando non emergono ancora i frutteti l’ora vuota dell’autostrada i primi riflessi azzurri sulla palude. La schiena di colline come una donna che si gira nel sonno le strade bianche che dopo Arezzo cercano Siena. Non levarmi da sotto le palpebre queste due pietre d’aria,

UN POPOLO DI POETI Avevi scelto un posto dove tutto fosse chiaro. Ne avevi scelto uno in piena luce, arrivava forte, decisa. Tu eri lì. Al centro, solo aria ferma intorno a sigillare il pensiero. Era così facile individuare la linea del sole ne scorgevi l'impossibile stasi a separati dalla casa, dalla sua ombra. Era dolce l'illusione che per una volta la notte ti avrebbe risparmiato. Dentro il cerchio

la vista delle ultime lune

Elisabetta Pigliapoco

Davide Rondoni da Apocalisse amore, Mondadori

SEAMUS HEANEY E L’EPICA DELLE PICCOLE COSE in libreria

di Loretto Rafanelli a casa editrice Mondadori pubblica District e Circle (180 pagine, 14,00 euro) di Seamus Heaney, per la cura attenta di Luca Guerneri, a cui si deve anche una postfazione di grande valore e certamente importante per comprendere la poetica dell’autore irlandese. Del rilievo di Heaney, premio Nobel per la Letteratura nel 1995, nel panorama poetico internazionale non è neppure il caso di dire, soprattutto nel mondo anglosassone. Il poeta peral-

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della sua poesia: l’attenzione straordinaria alla storia dell’uomo, e alle cose che lo accompagnano nel suo ciclo di vita, e per cose si debbono intendere proprio i molteplici attrezzi che l’uomo usa, o meglio usava, dalla vanga (che Galaverni dice essere la «vera cetra di questo letteratissimo poeta») al martello, dall’erpice alla sega, ecc. Quella di Heaney è una poesia fisica e naturale, dove le cose divengono strumenti animati, con una propria identità di vita perché unite al-

Andrea, gentile amico perennemente in fuga dove porteremo domani a svernare i nostri sogni se mille trappole ci tenderà paura acuminata fin nel verde del più lucente prato? Dovremo, io credo, fabbricarci un bosco con piante, soli e innumeri animali dove il dolore gocci solo a stille, rare, dolci, come rugiada, o resina dorata. Piero Buscioni

Interesse per il mondo e ricerca interiore. In “District e Circle” del Nobel irlandese, gli elementi essenziali della sua poetica, sempre sostenuta da un fondo di speranza tro è pure conosciuto al di fuori dell’ambito letterario per le sue posizioni politiche aperte al dialogo e votate al superamento, almeno per quanto riguarda l’Irlanda, del puro e orgoglioso isolazionismo, egli infatti si sta impegnando perché nel referendum del prossimo ottobre prevalga la parte che si batte per il sì al referendum sul Trattato di Lisbona, che poi sarebbe una piena accettazione della prospettiva europea. Venendo al libro in oggetto abbiamo nel titolo, non solo il riferimento a due linee metropolitane di Londra, ma uno spaccato dell’approccio poetico di Heaney: District sta a dire dell’interesse del poeta per i fatti del mondo (dall’attentato dell’11 settembre al duro lavoro dell’uomo nelle sue varie condizioni), Circle, il suo indugiare in quella ricerca interiore che è il necessario completamento dell’essenza umana; ne consegue che egli voglia compiere un viaggio coraggioso, totalmente calato nei meandri del mondo, ma contempli pure una sorta di andata e ritorno, appunto circolare, verso se stessi. Ma è soprattutto sul primo aspetto che possiamo cogliere l’elemento centrale

l’uomo. È, quella del poeta irlandese, anche una poesia della nostalgia, sicuramente l’amore per quella epopea umana segnata dalla fatica e dall’impegno per procacciarsi il dovuto, compreso ovviamente il cibo, per sé e per gli animali (col necessario «fieno… blandito in manciate da un covone»), un universo che a volte pare finito, come trapela in questo bellissimo passo: «vidi, abbandonata nello spazio aperto di un campo/ dove lo sfibrato granoturco segnava la neve,/ una moto falciatrice. La neve colmava il sedile di ferro,/ accumulava su ogni ruota un grosso sopracciglio bianco». Ma non si pensi a una poesia minimalista, perché in Heaney c’è un progetto alto, dove vi rientrano sì le piccole cose, ma in una prospettiva epica, che è quella di raccontare: il corso della storia, le grandi vicende umane, il duro lavoro quotidiano di una moltitudine di persone, le trasformazioni avvenute, il lacerante senso della fine di una civiltà. E la speranza, seppure tenue, di un mondo migliore, magari raggiungibile attraverso la forza rivelatrice della poesia e la preziosità del linguaggio, di cui egli fa un uso supremo.

Un filo infilza piastrine ci unisce dentro ogni smossa onda trasale storia svetta sui tuoi umori si annida nel mio corpo e preda di sfocate memorie perfora i nostri sensi senza consensi cuce legami percorre mani, braccia e gambe sfinisce ogni senso ci dondola come perle senza guscio ormai Antonella Panarello

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

i chiamava in realtà Arnaldo Ginanni Corradini ed era conte, figlio d’un nobile ravennate, avvocato liberale e mazziniano anticlericale (lo aveva chiamato così in onore di Arnaldo da Brescia) che di Ravenna fu anche sindaco: «vecchia Ravenna, mummia ingioiellata di mosaico». Ginna, lo pseudonimo più breve e scattante, glielo aveva trovato Giacomo Balla, perché nella sua icasticità ricordasse il concetto viriloide e futurista di «ginnastica». Così come il fratello Bruno (in onore a Giordano Bruno) sempre grazie a FuturBalla, era diventato Corra, in onore all’immagine velocista delle corsa. E fu lui a essere riesumato prima, dalla sensibilità di Calvino, che inserì nella collana dei Centopagine Einaudi il suo folgorante e geniale racconto Sam Dun è morto: futurista a suo modo. Poi dopo, via via, sarebbe diventato un narratore modesto, quasi corrivo, investito in pieno dalla piena epocale del «richiamo all’ordine». Ginna, il fratello, che anche nel momento più variopinto dell’avventura futurista, a cui pure aveva partecipato con entusiasmo, preferì rimanere sempre un isolato, melanconico e introverso, striato a periodi alterni da una depressione poco feconda e caratteriale. Ma non rinunciò mai alla sua fede caparbia nelle scienze occulte, nell’alchimia, nella teosofia di impianto steineriano (però leggeva anche la Blavatsky e la Besant, e si rifà pure al culto mistico-francese dei Rosacroce) cercando di portare nelle arti, che univa compulsivamente e in stile molto «opera d’arte totale» wagneriana, tutta questa sua cultura segreta e misteriosofica (curiosamente in mostra l’immagine rosacrociana ci pare irragionevolmente reclinata su un letto di petali). Mondo spiritico e animista, che si riverbera in questa bella mostra fiorentina, che amplia quella stessa già vista a Roma, curata da Micol Forti e Mariastella Margozzi, catalogo Gangemi, e che unisce disegni, pastelli, olii (davvero inconsueti), documenti storici, lettere e fotografie d’epoca, compreso un «ritratto psichico» di Mario Verdone, lo studioso e riscopritore del futurismo in anni difficili e insospettabili e che è recentemente scomparso. Ritratto scritto, quasi fosse il referto d’un medico dell’anima, e anche poi puntualmente trascritto in disegno: come mesmerianamente, con vaghe figure arborescenti, piogge di colore stillante e lagrime di luce rabbrividente. Armonie e disarmonie degli stati d’animo, questo il titolo della mostra, in ottemperanza alla maniacale

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Premonizioni e alchimie di Ginna futurista di Marco Vallora

arti

insistenza di Ginna, che inseguiva questi giochi sinestetici di «colori musicali» e di cromie armonizzate. «Poco attendibile» Ginna (luogo comune della critica): perché molto essendo andato disperso, anche durante la guerra, anzi le due guerre (visto che i suoi esperimenti precedono il 1909 del Manifesto Futurista), per tutta la vita lui ha immaginato date a lui molto comode e da pioniere assoluto, ha retrodatato visibilmente quadri ed esperimenti e, forse anche in buona fede, ha accreditato questa sua figura d’anticipatore totale, persino dell’astrazione di Kandinsky, in questo anche in gran parte spalleggiato da Verdone, che sostiene che certe pagine di Ginna anticipano senza esitazioni lo Spirituale nell’arte del maestro russo. Diffile sapere, così come credere in toto alla versione della vulgata, che vorrebbe la sua Nevrastenia (questa, opera abbastanza accertata, quanto a cronologia e realizzata dal letto, durante una crisi depressiva) ma anche i suoi Stati d’animo metereopatici, non soltanto precedere ma addirittura influenzare quelli omonimi di Boccioni. Che pure gli fu amico e sodale, grazie al legame col romagnolo Balilla Pratelli, che presentò i fratelli al dapprima sospettoso Marinetti (questi nobili passatisti di provincia!) e poi via via più entusiasta. In questo tentativo di proporre dei pensieri-pittorici «come se fossero essere viventi», Ginna riesce a miscelare la passione per Fragonard con quella per Kubin, le influenze magiche delle «smorfie» di Romolo Romani con la novità del cinema. Artefice di un film ahimè nella sua complessità perduto, come Vita futurista, oltre alle scenette tipicamente accelerate con Marinetti e Settimelli, che poi avrebbe demonizzato come rivale di anticipazioni, Ginna sostiene di aver preceduto di anni e anni gli esperimenti di Duchamp, Man Ray e Léger, giocando con i puri oggetti e dipingendo direttamente sulla pellicola. Inverificato. Ecco come il fratello Corra, mescolando modernità e cattivo gusto, racconta i loro esperimenti cinematografici en famille: «Quattro rotoletti di pellicola sono qui dentro il mio cassetto pronti per il museo futuro (scusate, non è superbia, è solo amore di padre per questi figlioletti, che mi piacciono tanto col loro musino sporco d’arcobaleno e con le loro piccole arie di mistero)».

Armonie e disarmonie degli stati d’animo. Ginna Futurista, Firenze, Palazzo Pitti sino al 30 settembre

diario culinario

Frescheggiando al “Fico”, alla corte di re Claudio di Francesco Capozza un gran gusto er viaggià! St’anno so stato sin a li castelli romani. Ah!!! Chi nun vede sta parte de monno nun sa nemmanco pe che cosa è nato. Ciànno fatto un ber lago, a Caster Gandorfo, contornato tutto de peperino e tonno tonno, congegnato in magnera che ner fonno ce s’arivede er monno arivortato. Se péscheno lì giù certe alicette, co le capocce, nun te fo bucìa, grosse come vemmariette de rosario». Così scriveva il 16 novembre 1831 Giuseppe Gioacchino Belli, celebre compositore di sonetti in romanesco, spesso irriverente nei confronti della corte pontificia e del potere temporale. Anch’egli, come prima e dopo di lui cardinali, principi romani e gentiluomini di Sua Santità, rimase evidentemente col-

«È

pito dalle bellezze naturali, dalla piacevole frescura non meno che dalle golosità culinarie dei Castelli romani. Castellani sono i cittadini, residenti e non, di una vasta area a sud di Roma che si estende da Monteporzio Catone fino a Velletri passando per Ariccia - tanto cara alla famiglia Chigi - Frascati, Marino e Grottaferata. A proposito di Grottaferrata, durante la torrida estate che ci stiamo lasciando alle spalle mi è capitato di cenare - consigliato da amici indigeni, a dire il vero - in un vero e proprio piccolo impero del gusto castellano. Impero, sì, perché un’enorme famiglia allargata si divide la gestione dell’Osteria del Fico Vecchio, del Ristorante e del fascinoso Relais Locanda dei Ciocca, tutti e tre a poche decine di metri l’uno dall’altro, sulla via Anagnina, a una manciata di passi dal centro della cittadina. Un nucleo familiare

molto allargato, si diceva, ma guai a non dar ragione al capostipite, Claudio, che ancora oggi - indatabile, visto che a precisa domanda risponde fiero: «parecchi!» - gira tra i tavoli nella sua mise da hippy per accertarsi che tutto proceda nella migliore delle maniere. Tra il Ristorante e l’Osteria, complice forse l’afa capitolina e il bisogno spasmodico di refrigerio, ho preferito provare la seconda, con tavoli all’aperto sotto un delizioso pergolato tutto tornito da viti. Prima ancora di giungere al tavolo sarete colpiti dalla pantagruelica selezione di antipasti esposti in bella mostra su un immenso tavolo al centro del giardino. Formaggi di ogni specie e forma, salumi, insaccati vari, frittatine d’erbette, verdure ripassate o alla griglia, insalata di funghi ovoli, bruschette con vari condimenti, mozzarelle, torte rustiche e su tutto il celeberrimo pro-

sciutto stagionato in casa e tagliato a mano esclusivamente dal patriarca Claudio (non scherzo: dal tagliere pende una targhetta con scritto: «solo Claudio»...), gustoso sposalizio tra sapidità della stagionatura e dolcezza delle carni. A seguire primi piatti di rigorosa fattura casalinga, sia di carne che di pesce; da provare la classica amatriciana o gli impeccabili risotti. Se avete ancora uno spazio prima del dessert - questo sì irrinunciabile - provate la meravigliosa carne locale alla brace o i grandi arrosti, ma non dubitate, pur essendo al fresco dei Castelli romani, della bontà del pescato. Io, per esempio, ho assaggiato una sublime tagliata di tonno alla pantesca. Il conto, compreso il vino, sfiorerà i 45,00 euro.

Osteria del Fico vecchio, via Anagnina 257, Grottaferrata (Rm), 06 9459261


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architettura

A Vassar, la sfida progettuale di Eero Saarinen di Claudia Conforti l Vassar College, fondato nel 1861 vicino a New York, è un prestigioso istituto educativo in origine riservato alle donne e votato allo studio delle arti liberali. Nell’immediato dopoguerra, sotto la direzione di Sarah Gibson Blanding, prima donna chiamata a dirigere l’importante istituzione, il campus ha avuto un forte impulso: per adeguare le strutture edilizie la Blanding ha fatto appello a giovani architetti moderni, come Marcel Breuer

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ed Eero Saarinen. A quest’ultimo, emigrato in America dalla Finlandia e reso celebre dal colossale arco di acciaio costruito come porta di città a Saint Louis, fu commissionata la costruzione di un nucleo di dormitori, denominato Emma Hartman Noyes House, da un’antica allieva i cui eredi hanno finanziato il complesso. L’Emma Hartman Noyes House è l’unico edificio che Saarinen, morto nel 1961, vide terminato tra le diverse proposte che egli

archeologia

avanzò dal 1954 al 1958, allorché redasse un piano di sviluppo del campus. Per i nuovi dormitori egli indicò un’area verde a nord del campus, gravitante su The Circle, uno storico campo per l’atletica femminile, risalente alla seconda metà dell’Ottocento, dal tracciato perfettamente circolare. La sfida progettuale, in questo stratificato contesto, si gioca sul delicato equilibrio tra ambiente naturale, memoria storica e modernità. Il progetto originario di Saarinen era costituito da due emicicli di quattro piani, posti lungo la semicirconferenza nord del Circle e saldati da un corpo più basso, fronteggiato da una meridiana. I due fronti, concavo e convesso, dei dormitori registrano nel trattamento delle superfici le deformazioni a cui sono soggette le facce esterne di un parallelepipedo sottoposto a curvatura. Naturalmente si tratta di trascrizioni astratte e squisitamente architettoniche, come poterono apprezzare i committenti nel mag-

gio del 1956, quando l’architetto presentò al campus il modello in scala del progetto: il fronte concavo risultava fittamente corrugato da acuminati infissi scatolari in acciaio e vetro, mentre in quello convesso la superficie di laterizi rosso-bruni sembrava tendersi liscia sotto la luce. Il modello illustrava anche come l’emiciclo costruito proseguisse in un’esedra speculare, ordita da densi filari alberati, che completava la circonferenza. In realtà, dopo la costruzione del primo blocco di quattro piani, che costò un milione e quattrocentomila dollari, somma doppia di quanto preventivato per tutto il complesso, si decise di non proseguire il progetto, il cui assetto originario rimase dunque testimoniato dal solo plastico. Ma nel corso degli anni di questo modello si perdette anche la memoria. Finché l’11 dicembre 2007 una giovane studiosa del College,Vanessa Beloyannis, e il suo professore, Nicholas Adams, lo ritrovarono abbandonato e molto danneggiato negli scantinati del Main Building del campus. Al ritrovamento seguì uno studio attento e un meticoloso restauro e oggi l’originale plastico di Saarinen, restituito alla piena integrità, è al centro di una mostra dedicata al contributo di Saarinen al campus che, inaugurata a giugno, resterà tutto settembre al Francis Lehman Loeb Art Center, l’ottocentesca galleria d’arte del college.

L’Egitto mai visto della collezione Tonelli di Rossella Fabiani

l Castello del Buonconsiglio di Trento, oltre ottocento oggetti provenienti da due collezioni finora inedite, propongono un viaggio di grande suggestione alla scoperta della civiltà fiorita sulle sponde del Nilo. Un Egitto mai visto è quello della collezione che prende il nome dal suo artefice, Taddeo Tonelli, e che viene ora esposta sotto il coordinamento del direttore del museo, Franco Marzatico, e la cura di Sabina Malgora, con l’assistenza di Anna Pieri. La raccolta permette di conoscere come gli Egizi immaginavano il mondo, come concepivano la vita terrena e quella eterna, come esprimevano il loro senso religioso, come superavano la paura della morte, ridefinendone i confini e immaginandola come un’estensione della realtà sociale ed economica dei vivi. All’inizio dell’esposizione, ricchissima di statuette, di elementi decorativi e di piccole steli, troviamo una bellissima maschera funeraria in oro, il cui volto è incorniciato da una parrucca colore blu egizio, che ricorda il lapislazzuli. È questa l’immagine che gli Egizi avevano degli dei: carne d’oro, ossa d’argento e capelli di lapislazzuli blu. Gli dei però si manifestano agli uomini sotto varie forme: con corpo umano e testa animale. E il pantheon egizio è tra i più vasti del mondo antico, reso complesso dalle operazioni teologiche compiute dai sacerdoti nei tremila anni di storia del paese. In mostra è esposto anche un reperto che crea un ponte diretto tra noi e l’antico Egitto, un vero e proprio anello di congiungizione: una mummia di gatto proveniente da Beni Hassan. L’adorazione degli animali era parte integrante della cultura egizia: molte specie erano rispettate e venerate perché ritenute manifestazioni terrene della di-

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vinità. Scendendo una scala, i gradini rappresentano una cesura, il visitatore viene simbolicamente trasportato verso l’oltretomba, nell’aldilà. Alcuni Testi dei Sarcofagi, testi rituali e magici per aiutare il defunto a raggiugere l’aldilà, sono scritti all’interno di sarcofagi lignei esposti in mostra. La collezione Tonelli documenta quali risorse ed energie venissero investite per i corredi funebri. La tipologia e il numero degli oggetti del corredo, così come la struttura della tomba, infatti, sono fissati dal rituale, ma riflettono anche le condizioni economiche e la posizione sociale del defunto, le mode e i costumi locali. La concezione dell’aldilà muta nel tempo, seguendo dei l’evoluzione culti e delle credenze funerarie, ma è anche influenzata dalle condizioni geografiche e fisiche del paese. Ecco allora esposti i vari oggetti che compone-

vano il corredo del visitatore: amuleti che garantiscono alla mummia una protezione magica dai pericoli e dagli spiriti maligni, scarabei che assicurano rinnovamento e resurrezione e oggetti di uso quotidiano, come pettini e ciotoline, ma anche collane di amuleti e perline in pietre dure. Una posizione di rilievo è riservata agli ushabti, i servi del defunto. Dal Medio Regno fino alla fine dell’epoca tolemaica, statuette mummiformi, con le mani incrociate sul petto, strette su attrezzi di lavoro, e una rete per le sementi sulla schiena, fanno parte dei corredi funebri, conservate accanto al sarcofago, in cassette, spesso decorate da scene religiose. Ushabti sono coloro che rispondono alla chiamata di Osiride, dio dell’oltretomba: sostituiscono magicamente il defunto chiamato a lavorare i campi di «Iaru», cioè l’oltretomba; per questo sul corpo recano il capitolo VI del Libro dei Morti, che riporta la formula magica grazie alla quale la statuetta prende vita. Spesso conservano nomi, titolature e genealogie di persone di rango elevato.


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fantascienza

uando feci l’esame per diventare giornalista professionista uno dei temi tra cui scegliere (politica, attualità, cronaca, sport ecc.) era la moda che allora imperversava dei film catastrofici (L’inferno di cristallo ecc.). Da cosa derivava, come la si poteva spiegare? Ovviamente scelsi questo argomento, nonostante avessi fatto il praticantato nella redazione di politica interna. Si era alla metà degli anni Settanta e, come si vede, non si trattò di una moda effimera, anzi nemmeno la si può considerare tale, col senno di poi, quanto piuttosto una tendenza a lungo termine della cultura popolare mondiale se oggi, nel 2009, si preannuncia una stagione cinematografica ricca di pellicole non catastrofiche ma addirittura iper-catastrofiche, come se questa fosse ormai una sindrome dell’immaginario umano: l’ossessione della fine del mondo. S’inizierà con 2012 di un regista ormai specializzato in questo tipo di film, il tedesco-americano Roland Emmerich, cui seguiranno Segnali dal futuro di Alex Proyas con Nicolas Cage su una profezia che annuncia la distruzione della Terra, Il libro di Eli con Danzel Washington che cerca di rintracciare il libro che contiene il segreto per salvare l’umanità di una Terra post-apocalittica, La strada con Viggo Mortensen tratto dall’omonimo romanzo di Corman McCarthy con l’umanità distrutta da un misterioso cataclisma, il cartone animato 9 del visionario Tim Burton dove l’uomo viene distrutto da macchine assassine, e il già proiettato al Festival di Locarno Gli ultimi giorni del mondo dei fratelli JeanMarie e Arnaud Lerrieu dove invece la fine giunge attraverso un virus sconosciuto. Come si vede la scelta è ampia e abbondante ancorché non originalissima, pur se non si può giurare sulla qualità. Di certo sulla spettacolarità: almeno per 2012, si è già detto che «l’aspetto spettacolare supera ogni immaginazione», anche perché Emmerich ha avuto a disposizione 200 milioni di dollari e se ci ricordiamo cosa sono stati da questo punto di vista i suoi Indipendence Day e L’alba del giorno dopo, possiamo essere sicuri che sarà così.

Ma non solo spettacolarità, perché come di prammatica la pellicola è anche - non ci si poteva sbagliare - «di denuncia ambientale e sociale» per i danni che politica, religione e filosofia attuali stanno arrecando e arrecheranno al nostro povero mondo. Il fatto che una nave il cui nome è John Fitzerald Kennedy distruggerà la Casa Bianca scaraventataci sopra da un’ondata immane è, dice il regista, «una metafora che ripristina gli ideali perduti, calpestati in nome del profitto, colpevole in primis della catastrofe ambientale del nostro pianeta». Purtroppo siamo ai luoghi comuni: ovviamente quello di John Kennedy è un simbolo che rappresenta e incarna tutte le virtù (eccetto quella della castità) nonostante i suoi appena tre anni di presidenza. Anni in cui - gli inizi dei Sessanta - mi sembra proprio che di ambientalismo ed ecologia se ne parlasse assai poco (casomai l’attivismo era solo antinucleare). E Kennedy di certo non fu un anticapitalista come i progressisti amano rappresentarcelo. Ma tant’è. Il simbolo-Kennedy, come il simbolo-Guevara, si presta a tutti gli usi... Ma quel che qui interessa è che Emmerich per la sua ipercatastrofe si è ispirato a una delle tante profezie millenaristiche di moda, nessu-

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ai confini della realtà

Aspettando il 2012

di Gianfranco de Turris na delle quali, alla scadenza, si è mai verificata, in quanto solo simboliche a essere larghi di manica, a cominciare proprio da quella dell’apostolo Giovanni che a tutte le altre ha dato il nome. E cioè quella dei presunti maya. Da un po’ si dice, ma personalmente non ho mai visto né letto la riproduzione di questi testi e la loro traduzione

(dall’Età del Ferro di Esiodo al Kali Yuga indù), la palingenesi umana attraverso una catastrofe universale è alla base di parecchie filosofie antiche, non ultima quella degli gnostici che parlavano di piroclastosi, cioè attraverso il fuoco, per non parlare del Ragnarok della mitologia nordica con l’Ultima Battaglia fra Giganti. Emmerich invece

Secondo alcuni codici maya, è l’anno in cui, il 21 dicembre, si consumerà la fine della Quinta Era dell’umanità, cioè quella attuale. Una data che ha ispirato il nuovo film di Roland Emmerich, la cui spettacolarità, si dice, supera ogni immaginazione. Ma perché la fine del mondo ci affascina così tanto? controllata da veri esperti, che in alcuni codici maya, di cui in precedenza nulla si sapeva, si indica nel 21 dicembre 2012 la fine della Quinta Era dell’umanità, l’attuale. La fine del mondo che, dopo una catastrofe naturale, si trasformerà in qualcosa di meglio e l’umanità, purificata, si avvierà su una strada migliore. Ma che novità! A parte che la divisione in Ere, quattro o cinque, dalla migliore alla peggiore, è anche comune alle tradizioni occidentali e orientali

preferisce l’acqua e poi ancora l’acqua: tempeste, alluvioni, maremoti, bufere, cicloni, inondazioni, col mare che inghiotte Los Angeles e via catastrofando. Sono quindi trent’anni e più che il gusto dell’annientamento, dell’apocalissi, della rovina generale affascina scrittori e registi, lettori e spettatori, e volendo si potrebbe andare a ritroso per parecchio dato che questo tema è stato sempre presente nelle narrazioni avveniristiche a sfondo più o meno am-

monitivo e morale, proprio come quello di Emmerich è di stampo ecologistico. Nulla di nuovo, dunque.Volendo capirne i motivi profondi essi stanno forse nel piacere del brivido che offrono, sapendo che in fondo, per verosimile che sia, si tratta soltanto di una finzione, e spesso, ma non sempre - contemporaneamente sapendo che alla fine non tutto è perduto e grazie a un pugno di coraggioosi idealisti il mondo sopravviverà. Una palingenesi, appunto.

Oggi, inizio del XXI secolo, si può aggiungere un pessimismo sempre più diffuso, grazie all’imperversante ecologismo catastrofista e alla disaffezione generalizzata nei confronti del potere costituito che non dice mai la verità ed è responsabile di ogni malanno (un potere-simbolo che chissà perché è sempre occidentale). Questa combinazione fa realizzare assai più romanzi e film catastrofisti il cui successo, per questi ultimi, è garantito dagli effetti speciali elettronici e di realtà virtuale ogni volta sempre più perfezionati, tanto da superarsi continuamente di film in film, in una corsa verso un traguardo di perfezione assoluta che viene ogni volta raggiunto per poi essere sempre superato. La Finzione sarà, alla fine, più vera della Realtà?


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