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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Identikit dello scrittore a (quasi) vent’anni dalla morte

L’ANOMALIA

SCIASCIA di Filippo Maria Battaglia

impida, concisa, vigorosa. A poco meno di vent’anni dalla sua scomparsa, battere, e di impegnarmi di più, di essere sempre più deciso e intransigente, di la scrittura di Leonardo Sciascia è certamente - come peraltro qualmantenere un atteggiamento sempre polemico nei riguardi di qualsiasi poteL’ideazione che critico ha fatto notare nei giorni scorsi - «uno dei suoi più re». Andrebbe rintracciata qui la chiave della sua poetica civile per rienigmatici e intriganti patrimoni». Ma non è il solo e, forse, considerarne, nell’imminenza delle celebrazioni dell’anniversario e la stesura non è neppure il più significativo. La sua eredità non può esdella morte (il 20 novembre prossimo), la figura, valutandone di un libro gli erano possibili sere semplicemente limitata al suo straordinario reginon solo l’attività di scrittore, ma più in generale il ruolo solo se in quell’opera individuava stro, tutto calibrato sull’asciuttezza, l’intelligenza di intellettuale tout court, aspetto finito perlopiù narrativa e la più rigorosa indispensabilità. E, sottotraccia negli interventi della critica degli un’utilità. Non concepiva la letteratura senza per comprenderlo, basta affidarsi a ciò che Sciaultimi anni. «Sciascia è uno scrittore anomalo, di l’impegno. Perciò, come spiega Matteo scia stesso scriveva: «Credo che, se sono diventato un difficile classificazione», spiega Matteo Collura, autoCollura nell’ultimo numero certo tipo di scrittore, lo devo alla passione antifascista. La re della più bella biografia su Leonardo Sciascia (Il maemia sensibilità al fascismo continua a essere assai forte, lo ricostro di Regalpetra,Tea) e curatore dell’ultimo numero di Panta di “Panta”, resta in Italia nosco ovunque e in ogni luogo, persino quando riveste i panni delpubblicato da Bompiani, interamente dedicato al narratore siciliano. l’antifascismo, e resto sensibile all’eternamente possibile fascismo italia- un caso isolato continua a pagina 2 no. Il fascismo non è morto. Convinto di questo, sento una gran voglia di com-

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Gossip di Gennaro Malgieri Strizzando l’occhio agli anni Ottanta di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Antonio Porta e la sfida della comunicazione di Francesco Napoli

La perfetta trinità nell’arte della ceramica di Andrea Di Consoli Chérie, l’altra faccia del Viale del tramonto di Anselma Dell’Olio

I fasti di Mosca prima (e dopo) i Romanov di Marco Vallora


l’anomalia

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Da Calvino a Montanelli per saperne di più… D ieci interventi inediti e una miscellanea di saggi già raccolti nell’Almanacco Bompiani del 1999: così si presenta l’omaggio che il quadrimestrale Panta diretto da Elisabetta Sgarbi ha deciso di dedicare allo scrittore di Racalmuto. Panta Sciascia (curato, come l’edizione di dieci anni fa, da Matteo Collura, Bompiani, 302 pagine, 28,00 euro) ospita tra l’altro contributi di Umberto Eco, Mario Andreose, Andrea Camilleri, Giuseppe Quatriglio e Vittorio Sgarbi, oltre a una serie di interventi di molte prime lame del giornalismo e della letteratura italiana, quali ad esempio Gesualdo Bufalino, Italo Calvino, Alberto Moravia, Indro Montanelli e Giancarlo Vigorelli. Lo spettro di analisi è ampio, stimolante e assai articolato. Così se Luigi Barzini, a inizi anni Settanta, pone Sciascia nella rosa «dei pochi bravi romanzieri italiani, forse il più bravo di tutti», aggiungendo che «i suoi libri sono invenzioni originali, costruite con solidità e concepite come un’armoniosa unità dalla quale è impossibile eliminare una pagina, un capoverso o anche una sola parola», dieci anni dopo il compianto Carlo

segue dalla prima «E questo è un problema non da poco per la critica letteraria, che di norma si serve di parametri già definiti per sviluppare i suoi orientamenti e dare i suoi giudizi. Un libro come L’affaire Moro, ad esempio, non appartiene alla cultura contemporanea italiana. Per trovarne un suo omologo, bisogna fare un salto indietro nel tempo che fa venire le vertigini e scomodare la Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni. Ma, a parte questo riferimento, le coordinate letterarie sciasciane vanno senz’altro cercate ad altre latitudini. Mi riferisco, in particolare, alla letteratura di fine Ottocento francese».

Un’affinità, questa, che nasce da un binomio ineludibile: «Nell’opera di Sciascia - prosegue Collura - l’impegno e la letteratura si sostengono reciprocamente. Certo, lo scrittore di Racalmuto apprezzava anche autori che erano esclusivamente di grande godimento intellettuale; tuttavia, per ciò che più direttamente lo riguardava, concepiva l’ideazione e la stesura di un libro solo se spinto dalla convinzione che quell’opera dovesse servire qui ed ora». Ne derivava una certa estraneità al panorama delle patrie lettere a lui coeve: «Avvertiva di essere un caso anomalo e piuttosto isolato. L’unico scrittore a cui si sentiva vicino era Pier Paolo Pasolini. Erano totalmente diversi, i loro stili di vita non avevano nulla di simbiotico o di analogo, e tuttavia vi era una certa affinità nel considerare la letteratura quasi alla stregua di uno strumento rivoluzionario in grado di far esplodere le contraddizioni della società». A tal proposito, Collura ricorda che fu la lettura di Voltaire a suggerire a Sciascia l’immagine del pesce volante quale metafora dello status di scrittore: «Come l’intellettuale, anche quell’animale se si innalza di

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

poco è preda golosa degli uccelli, se si immerge sott’acqua è divorato dai pesci più grandi. È una terribile condizione, ma per uno scrittore è l’unico presupposto per la felicità». Con simili premesse, inevitabile immaginare come l’eredità dello scrittore siciliano sia «imperniata su una rigorosa indipendenza, che si traduceva non solo nell’essere libero dal bisogno ma soprattutto nell’essere libero dalla lusinga del guadagno. Una tentazione, quest’ultima, che può risultare più sottile e affilata di qualsiasi altra, soprattutto per un intellettuale. E a venti anni dalla sua morte, lo sgomento proviene proprio da questa sua saldissima posizione, che si è declinata in tutte le sue scelte di vita. Per questo, la sua lezione è ancora oggi di difficile trasmissione». Un giudizio molto affine a quello di un altro grande scrittore siciliano ingiustamente dimenticato, Gesualdo Bufalino che, anni prima, compilando la voce del compianto amico per il Dizionario Bompiani degli autori, scriveva: «Sia che indugi umanamente a censire l’identità della sua terra; sia che dissotterri dalla polvere degli archivi lacerti di microstoria, di cui dura nel presente la lezione significante; sia che escogiti tramati giochi d’incastri, su cui balugina una sofisticata metafisica luce; sia infine che si abbandoni al gusto del raccontare, sempre Sciascia appare fedele al proposito di eludere ogni inerte vangelo ideologico per obbedire agli scatti della coscienza e alle passioni dell’intelligenza». Ma l’Almanacco Bompiani, ora riproposto nel numero di Panta, offre anche altri spunti. È il caso di una lettera di Italo Calvino, inviata allo scrittore siciliano a commento della lettura del dattiloscritto di A ciascuno il suo: «Da un po’ di tempo - scrive l’autore del Barone rampante - mi accorgo che ogni cosa nuova che leggo sulla Sicilia è una divertente variazione su un tema di cui oramai mi sembra di sa-

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sciascia

Bo ricorda come lo scrittore abbia «sempre cercato di partire dai fatti, da un documento, anche quando come nei primi libri faceva della storia particolare, in effetti sapeva dove andare, quali cautele usare». In più di un’occasione, l’analisi letteraria lascia però qualche varco al ricordo personale. È il caso di un brano del libro Italia di Enzo Biagi, inserito da Collura nell’antologia: «Leonardo Sciascia mi piace: come scrittore e come persona» scrive il giornalista di Pianaccio di Lizzano. «Sono andato a trovarlo nella casa di campagna, a Racalmuto: un ettaro di terra, che è sempre stato dei suoi. Sciascia ha tirato su i muri nuovi, perché ormai ci vuole l’acqua e la luce, ma il paesaggio è immutato: la trazzera piena di buche, gli ulivi drammatici, il vento che ribalta le erbe secche. Questo è il suo orizzonte: il pastore che gli regala la ricotta, i bottegai, i contadini, un professore che ogni tanto viene a trovarlo e gli porta frutta e vino. Sciascia ama la solitudine: non sa guidare l’automobile, sul camino ci sono dei libri, alle undici di sera già riposa, e l’ultimo pensiero è sempre per la morte; vorrebbe affrontarla da sveglio, forse per giudicarsi un’ultima volta». A Panta è inoltre accluso l’audiolibro di Una storia semplice, letto dall’attore Toni Servillo. Ma l’edizione Bompiani non è la sola monografia sullo scrittore di Racalmuto: Leonardo Sciascia vent’anni dopo è il titolo del numero monografico della rivista Il Giannone, curato da Antonio Motta (386 pagine, 40,00 euro), dove trovano spazio alcune lettere inedite di Anna Maria Ortese, saggi critici, interviste e testimonianze. (f.m.b.)

pere già tutto. Questa Sicilia è la meno misteriosa al mondo: oramai in Sicilia tutto è limpido e cristallino: le più tormentose passioni, i più oscuri interessi, psicologia, pettegolezzi, delitti, lucidezza, rassegnazione, non hanno più segreti, tutto è ormai classificato e catalogato. La soddisfazione che danno le storie siciliane è come quella d’una bella partita di scacchi, il piacere delle infinite combinazioni di un numero finito di pezzi a ognuno dei quali si presenta un numero finito di possibilità».

La lettera di Calvino è datata 10 novembre 1965. Eppure potrebbe essere riportata testualmente a commento di un onanismo narrativo che ormai da qualche anno ha portato all’equazione Sicilia uguale noir. «La capacità di penetrare il testo di Calvino era quasi alchimistica», commenta Collura. «E quella considerazione, riletta oggi, assume in effetti un significato quasi profetico riguardo a una deriva che si sarebbe manifestata solo molti anni dopo. In questo, ha senz’altro contribuito il fenomeno Camilleri, imposto all’attenzione dei media grazie a una serie di libri dove il giallo è quasi sempre la costante predominante. Quell’exploit ha incoraggiato moltissimi scrittori a tentare la strada della narrazione a tinte fosche, seguendo un’inclinazione naturale e per così dire quasi istintiva, con esiti alle volte assai discutibili». Un percorso diametralmente opposto a quello di Leonardo Sciascia, che invece - come ha scritto Umberto Eco - «fa dei suoi “gialli” delle allegorie: dei racconti su un mondo dove la verità ci verrà sempre celata. La lucidità del narratore consiste nel dirci che noi non siamo lucidi. E siamo succubi di qualcosa che viene perpetrato alle nostre spalle». L’essenza di Sciascia è tutta qui. E la sua scrittura, lungi dal rappresentarne il patrimonio più significativo, non ne è che uno straordinario e affascinante riverbero.

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parola chiave

na volta era sinonimo di leggerezza. Un modo un po’ sofisticato per dire pettegolezzo. Poi è scivolato verso la calunnia. Infine ha assunto le fattezze di un’arma impropria per demolire il concorrente, l’avversario, per abbattere il nemico. Gossip: una bomba di parole nella società della comunicazione globale. Chi l’avrebbe mai detto soltanto qualche anno fa? Nessuno avrebbe potuto immaginare che da una chiacchiera da parrucchiere si sarebbe passati al bombardamento dei palazzi della politica, dell’economia, della finanza. I soggetti del pettegolezzo erano una volta attori e attrici, gente varia dello spettacolo, al massimo qualche miliardario in fregola, teste coronate che non disdegnavano scappatelle. Il tutto a beneficio di una parte della società sognante e maliziosa che però non faceva e non voleva il male di nessuno. Roba da conversazioni amene, sotto il casco durante la messa in piega, sotto l’ombrellone d’estate, alla fine di una serata sorseggiando un drink. Di gossip vivevano alcune riviste che certo non facevano bella mostra nelle redazioni dei quotidiani o sulle scrivanie di personaggi influenti. Oggi sono la bibbia di tutti coloro che vogliono sapere come va il mondo, che piega prendono gli avvenimenti, come ci si deve posizionare nei riguardi di questo e di quella. Se ne nutrono giornali autorevoli. I listini di borsa sono la seconda lettura del mattino per chi si occupa di finanza. I politici se li trovano scodellati nelle pagine solitamente «autorevoli», sotto forma di sunti adeguatamente commentati, di quotidiani importanti. Le massaie comprano i giornali per se stesse e per i loro mariti e questi fanno lo stesso: tanto tutti sanno di trovarci la stessa roba. Il gossip. Cioè le storie di letto e di corna, di politica e di sesso, di economia e di perversioni.

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Golosamente, voluttuosamente ci si nutre di tutto ciò che per il novanta per cento è inventato, ma reso verosimile da abili ricostruzioni. E la notizia, comunque data, diventa fatto. E sui fatti si costruiscono strategie, menzogne efficaci, lotte di potere. Ma quale Parlamento, quale consesso rappresentativo, quale confronto o scontro di idee ha mai prodotto con così poco dispendio di energie intellettuali tanto immoralismo pilotato a fini distruttivi? È il gossip, bellezza: e nessuno potrà far niente per fermarlo, direbbe oggi Humphry Bogart. E invece siamo appesi a pennivendoli che riempiono le pagine dei loro giornali di sputtanamenti che, in una società normale, verrebbero cestinati. E nel loro lavoro (chiamiamolo così) si servono di tutto: di intercettazioni che dicono di aborrire, di trafugatori di privacy con l’alibi che la notizia è sacra anche se concerne un cambio di mutande a finestre dimenticate aperte, di veline e rapporti confezionati da solerti signori senza alcun mestiere, di verbali di interrogatori usciti chissà come dagli uffici giudiziari. E di altro, di molto altro ancora. Come registrazioni e filmati vigliacchi effettuati in private abitazioni mentre ci si intrattiene con chi si considera semplicemente un’ospite a qualsiasi titolo. La cultura del sospetto, dunque, è diventata legittima, come in un romanzo di Orwell. Nessuno è al riparo dalla volgarità della propalazione di notizie che un tempo si sarebbero dette confiden-

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GOSSIP Oggi, nel tempo della libertà diffusa, è il solo strumento, universalmente accettato, per condurre con qualche successo (almeno secondo chi lo usa) la battaglia politica. E, come nei regimi totalitari, nascono nuovi tribunali: sono i giornali

Quelle iene dattilografe di Gennaro Malgieri

Siamo tutti figli della rivoluzione francese. Basta andarsi a leggere qualche pagina di Barruel o di Taine o di Guizot per conoscere sistemi delegittimanti tornati in voga due secoli dopo con maggior raffinatezza. Le ideologie sono tramontate, ma la modernità ne ha prodotta una nuova… ziali. Le bocche dovrebbero restare cucite. A meno di non mettere tra sé e il mondo a cui si appartiene qualche migliaio di chilometri e cambiare vita. Vite distrutte, vite dimezzate, famiglie a pezzi? Finché il tritacarne funziona a dovere, tanto il potentissimo quanto l’umilissimo purché funzionale a un disegno sono scorie, nient’altro che scorie umane. E che passino pure sotto le grinfie delle «iene dattilografe», come le chiamava Stalin, perché il loro potere è più grande, è più forte, è più remunerato. E

poi che male c’è? Ogni giorno si gira pagina, va in scena un nuovo film di carta che scaccia e fa dimenticare il precedente. La società affluente e opulenta consuma storie di nessuna importanza se non per i titolari delle stesse. Che cosa vogliono i lettori? Sapere quante escort si sono infilate sotto le lenzuola di un presidente del Consiglio, dell’omosessualità di questo e di quello, dei tradimenti consumati in una notte o in un’estate dal finanziere che veleggia con la sua barca tra un’isola e l’altra? Già, l’alibi, o meglio

la nobile motivazione, è sempre la stessa: salvaguardare la moralità pubblica che, ovviamente, non può che coincidere con quella privata. Peccato che questo nobile intento ha un solo scopo: annientare il nemico che, in democrazia, come si sdottoreggia da mattina a sera, è la regola aurea per stabilire rapporti civili. Bizzarro? Mica tanto. Siamo tutti figli della Rivoluzione francese. E, a non volerla fare così lunga, basta andarsi a leggere qualche pagina di Barruel o di Taine o di Guizot per conoscere sistemi delegittimanti tornati in voga due secoli dopo con maggior raffinatezza. Soltanto nei regimi totalitari, figli di quella grande e terrificante rivoluzione, il gossip, peraltro tenuto segreto, serviva a ricattare, ad assoldare, a mettere in condizione di non nuocere. Oggi, nel tempo della libertà diffusa, è il solo strumento, universalmente accettato, per condurre con qualche successo, almeno così credono coloro che ne fanno largo uso, la battaglia politica.

Politica? Ma dov’è finita? Non scherziamo. Quel che vediamo e leggiamo è fango impastato nella malafede. Da quanto tempo non assistiamo a una vera discussione politica, culturale, civile? Da quando non ci scanniamo intorno a una qualche ideuzza? Non ne sentiamo il bisogno, la nostalgia, l’amara esigenza? Le ideologie sono tramontate. Per sempre, si dice. Ma ci accorgiamo che ne è nata una nuova, sgangherata, villana e violenta, maleodorante e vomitevole? Sì, il suo nome è gossip che non meriterebbe nessun rimprovero se fosse confinata nel recinto che dovrebbe essergli proprio. E invece deborda fino a inquinare le personalissime aree della dignità e della libertà delle persone. E il tutto per meschine guerre di potere. Sembra fantascienza. Eppure non è così. Ogni giorno qualcuno si alza e formula dieci domande (perché non dodici, o venti, o trenta? In omaggio ai Comandamenti?) a qualcuno e pretende risposte convincenti, ammissioni di colpe, di responsabilità che nessun tribunale si è mai permesso di contestargli. Ma i giornali, illuministicamente, sono i Nuovi Tribunali. Sono giudici che non consentono appelli. Sono i soli legittimati a emettere sentenze. Che, naturalmente, chiameremo, per coerenza, gossip. Come piace a loro. In queste condizioni non sembra abbia ancora un senso chiedersi che cosa accadrà nella sfera pubblica, in quella economica e sociale. Attendiamo il prossimo colpo. Ogni giorno uno. Se non ci fosse avremmo, probabilmente, una crisi d’astinenza. E ci sentiremmo cittadini di un altro Paese. L’aria sarebbe più pulita. La gente più sorridente. E perfino i giornali tornerebbero a piacerci. Ma tutto questo è un sogno. Resta l’incubo, per ora. La mazzetta dei giornali è qui, accanto a me. Prendo prima uno Xanax e poi comincio a sottopormi al supplizio della lettura quotidiana. Chissà quali grani di verità deborderanno dalle pagine… La mia laicissima preghiera del mattino (quella sacra la faccio prima che l’edicola apra i battenti) ho l’impressione che anche oggi durerà a lungo. E così per chissà quanto tempo. Almeno fino a quando non riuscirò a liberarmi, come milioni di miei connazionali, da questa oscena dipendenza che non si cura in nessun ambulatorio. Si chiama gossip, l’ultimo prodotto della modernità, della libertà, della viltà.


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cd

Strizzando l’occhio agli

di Stefano Bianchi n bel coup de théâtre, tanto per cominciare. C’è Beth Ditto, la donna cannone dalla voce che scannerizza Debbie Harry e Alison Moyet. C’è la batterista Hannah Blilie che chiunque scambierebbe per un ragazzino, impomatata com’è sulla copertina del disco. E c’è il maschio della situazione, Brace Paine: chitarra, basso, tastiere, l’artefice delle 12 canzoni di Music For Men («Un titolo che sa tanto di battuta femminista», dice). Si chiamano Gossip, vengono dall’Arkansas e fino a ieri erano una delle tante indie band senza lo straccio d’un futuro. Dopo anni di dischi grezzi e punkettari (a bassa fedeltà, buona la prima, senza soundcheck), ecco la lampadina popular che si accende nel 2006 con Standing In The Way Of Control. La multinazionale Sony li nota, li registra in concerto e l’anno successivo fa uscire Live In Liverpool. Poi li coccola e non li molla più, giacché i tre sono galline dalle uova d’oro con la cicciona Beth che ci mette l’anima cantando, parlando, straparlando e tracimando dai rotocalchi del pettegolezzo, fino ad aggiudicarsi nel 2008 il Glamour Award come miglior artista internazionale. Quel che si dice public relations coi fiocchi. Ma la musica? Cosa ci azzecca? Tanto, seppure inondata da quintali d’apparenza. Prodotto da Rick Rubin (Beastie Boys, Run DMC, Red Hot Chili Peppers, Tom Petty, AC/DC, Johnny Cash eccetera), Music For Men è stato inciso nei leggendari Shangri-La Studios di Malibu lanciati da quella Band più volte santificata da Bob Dylan. E nel vecchio tour bus del menestrello di Duluth, parcheggiato da tempo immemore sul retro, Brace Paine ha abbozzato al computer (digitando il programma fai-da-te GarageBand) questa musica che fa l’oc-

musica

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Anni Ottanta

in libreria

chiolino agli anni Ottanta: soprattutto quelli urticanti e spigolosi di Gang Of Four, Slits e Raincoats. È quasi sempre un giro di basso, a condurre le danze: sia che si tratti di giravolte funk (Dimestore Diamond); dell’effervescenza funky tra Inxs e Blondie che incornicia il pezzo più riuscito dell’album (Heavy Cross) e i ritmi galoppanti di Men In Love; dell’hard rock di Vertical Rhythm e del post-punk che catapulta in orbita 8th Wonder. Il tutto, naturalmente, è pane per l’ugola di Beth Ditto che vibra sul fuoco incrociato delle chitarre elettriche, squilla, ricama gorgheggi. Sin qui, tutto fila liscio. I Gossip inciampano un po’, semmai, quando tracciano rotonde geometrie di sintetizzatori stile Yazoo, New Order e Orchestral Manoeuvres In The Dark (succede col technopop di Four Letter Word e Pop Goes The World), tirano in ballo il luccicante estetismo glamour fra le pieghe discotecare di Love Long Distance o fanno i nevrotici alla Devo tra i singhiozzi elettronici della conclusiva Spare Me From The Mold. Ma il gossip, si sa, ha la lingua lunga e la stazza godereccia di Beth Ditto. Che dimostra di conoscerli a menadito, i famigerati Eighties della new wave e delle luci stroboscopiche. Gossip, Music For Men, Columbia/Sony Music, 11,90 euro

mondo

riviste

C’ERANO UNA VOLTA I GENESIS...

PEARL JAM: LE RAGIONI DELLA SVOLTA

ANTICIPAZIONI SUL TOUR DEI BON JOVI

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n libro del genere non può prescindere, in prima battuta, da tutto il materiale che negli anni è stato messo a disposizione relativamente al commento dei testi della band: interviste, pubblicazioni, articoli di giornale e, non ultimi, i siti web; appassionati da ogni angolo del pianeta hanno pubblicato studi minuziosi sul significato del The Cinema show o di Supper’s ready. In taluni casi, l’inter-

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inalmente un briciolo di speranza, dopo dieci anni di canzoni arrabbiate. Il cambiamento è evidente: basta politica, abbiamo bisogno di un break». A pochi giorni dal nuovo attesissimo disco, in uscita il 18 settembre, il frontman dei Pearl Jam, Eddie Vedder, presenta così Backspacer. Nono album di studio, pubblicizzato da una caccia al tesoro che ha spinto migliaia di fan a ricercare i fram-

«È

Raccolti da Giovanni De Liso i testi della band dal 1969 al 1974. Puntigliosamente commentati

La paternità del leader Eddi Vedder ha indotto la band ad abbandonare la rabbia per la speranza

Si terrà nel 2010 ma già, ufficiosamente, si annunciano alcune tappe. Su “all radio.org”

pretazione corretta è un dato storicamente acclarato - magari perché dichiarato dallo stesso autore - e null’altro si può fare se non riportarla nella maniera più fedele possibile all’originale. In molti altri casi è stato necessario avanzare ipotesi e spingersi un po’ più in là con l’immaginazione per trovare un significato plausibile e in linea con riferimenti assolutamente indecifrabili». Giovanni De Liso presenta così il suo Genesis. Once upon a time.Testi commentati 1969-1974 (Editori riuniti, 300 pagine, 18,00 euro). Puntiglioso lavoro di analisi e ricostruzione dei più celebri brani della band britannica, il volume si accompagna a uno stile garbato e scorrevole in cui non fa capolino la noia, neppure per un istante.

menti della copertina disseminati in giro per la rete, e una ghost track come premio per l’impresa, il lavoro della band di Seattle arriva neppure un mese dopo l’inizio del nuovo tour europeo, partito l’11 agosto. Preceduta dal singolo The fixer, la tracklist si compone di undici brani tra cui Gonna see my friend, Got some, Amongst the waves, Johnny Guitar e Force of nature. Alla base della svolta musicale che ha condotto Vedder alla composizione di testi più solari, la paternità. «Sono stato per decenni schiavo del r&r... Poi sono diventato padre e ho dovuto fare un passo indietro», ha spiegato Eddie.

pubblicare delle possibili tappe del tour prossimo venturo». A grande richiesta, sembra tutto pronto, secondo le anticipazioni di all radio.org per la nuova tournée della band americana. I quattro del New Jersey, stando ai bene informati hanno in programma anche un paio di esibizioni in Italia. Al momento, le tappe che hanno maggiori chance di ospitare il gruppo sembrano essere Milano, Roma e Udine. A due anni da Lost Highway, omaggio al country rock di Nashville, il gruppo che ha venduto oltre cento milioni di dischi presenterà dal vivo il nuovo lavoro di cui in questi giorni, il primo singolo estratto, We Weren’t Born To Follow è una ghiotta anticipazione.

a cura di Francesco Lo Dico

appena stato rilasciato il singolo di lancio del prossimo album in studio dei Bon Jovi, The Circle, che già prendono piede i rumors riguardanti le date per l’annunciato World Tour della band che si dovrebbe tenere nel corso del 2010. Immancabili le supposizioni riguardanti le location stabilite, mentre qualcuno azzarda, seppur specificandone l’ufficiosità, addirittura a


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zapping

Musicisti, poche ciance... FATICI ’NA CANZUNI di Bruno Giurato ’a faciti ’na canzuni, chimmu v’ammazzanu?», ovverosia «me la fate una canzone, che vi ammazzino?». Questa frase, detta dal cliente di un ristorante estivo al famoso pianista Dino Bonacaro, esprime perfettamente il sentimento generale dell’ascoltatore nei confronti del musicista: voglia di quella strana droga dell’anima che si chiama musica e insofferenza per tutto il resto, vita biologica, problemi esistenziali, posizioni politiche e più in generale contenutistiche dell’autore/esecutore. Anche se il musicista sta schiattando, il nostro atteggiamento nei suoi confronti resta quello: «M’a faciti ’na canzuni, chimmu v’ammazzanu?». Il musicista è sempre anonimo e anomico in fondo, quello che conta sono le musiche. Ed è un peccato che molti musicisti non si rendano conto di questo. Per esempio Eddie Vedder, cantante dei Pearl Jam che apprezziamo da sempre per la voce e l’atteggiamento da spaccalegna del midwest, rilascia un’intervista a Repubblica in appoggio al disco in uscita, e la mena con la politica, con la felicità della nuova era Obama e altre amenità per cui la risposta viene spontanea: invece di cianciare «M’a faciti ’na canzuni, chimmu v’ammazzanu?. Per non parlare dei fratelli Ghallagher degli Oasis. Il gruppo che, con le scopiazature beatlesiane, negli anni Novanta è diventato la colonna sonora di qualsiasi serata in vineria, di qualsiasi fesseria da aperitivo, di un pensiero metrosexual capace perfino di usare Ryanair per un fine settimana a Parigi. I due fratelli litigano: il fratello x rimprovera al fratello y di interessarsi poco alla musica e di pensare troppo alla sua casa di moda. Il concerto di Milano viene annullato insieme ad altri dato che il gruppo è sfasciato. E al pubblico italiano resta una sola cosa da dire, naturalmente: «M’a faciti ’na canzuni, chimmu v’ammazzanu?.

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festival

Il treno diabolico di Buzzati e Chailly di Jacopo Pellegrini maggio doveroso e benvenuto a un compositore di valore, malauguratamente obliato già in vita, quello concepito dall’Art&Music Festival 2009 (che ha sede tra Lecco e Milano), ovvero dal suo direttore artistico Angelo Rusconi, ben noto studioso di canto gregoriano, eppure animato da curiosità ecumeniche e alquanto originali. Il compositore dimenticato e degno di riscoperta? Luciano Chailly (1920-2002), funzionario poi responsabile dei programmi di musica classica alla Rai Tv, docente al Conservatorio di Milano, direttore artistico all’Arena, al Carlo Felice di Genova, alla Scala, padre di Riccardo, bacchetta celeberrima, e di Cecilia, arpista e icona New Age. Chailly l’ainé ha lasciato un catalogo nutrito, sia strumentale che vocale (di rilievo le pagine corali sacre), ma la sua indole inclinava soprattutto al teatro. In funzione del quale maturò un linguaggio che si potrebbe anche definire eclettico, a patto di non assegnare al termine sfumature negative: nei suoi 13 titoli operistici e nei vari balletti procedimenti ritmici, armonici e timbrici della Nuova musica, colti sul nascere, convivono con spunti jazzistici o leggeri addirittura, e con momenti d’intenso lirismo, ancorché estranei alla melodia «cuore in mano». Ciascun ingrediente sottratto al proprio ambito, per dir così, ideologico e calato nella viva concretezza del «teatro teatrale» (Fedele d’Amico); non un mondo astratto di pura ricerca fonica, bensì le mani sporche di comunicazione emotiva. Questa vena mistilingue trovò piena rispondenza o, forse, riconobbe se stessa nell’incontro con Dino Buzzati, che a Chailly fornì quattro libretti e il soggetto per uno spettacolo di danza. La loro prima collaborazione artistica rimonta al 1954 ed ebbe un’unica sortita pubblica l’anno successivo a Bergamo. Ferrovia soprelevata, «racconto musicale in sei episodi», è dunque tornato alla luce grazie all’Art&Mu-

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sic Festival: due recite al Teatro Studio di Milano (ma lo spettacolo meriterebbe di girare), che oltretutto ripristinavano il testo primigenio del quinto episodio. Per espugnare la virtù inattaccabile di Laura, l’inferno invia sulla terra il giovane diavolo Max; costui riesce nell’intento, seduce la ragazza, la trasforma in sciantosa da cabaret, ma finisce anche per innamorarsi sul serio di lei. Onde salvarla dalla perdizione eterna, si rivolge al vescovo affinché con un esorcismo lo sottragga alla sua demonicità (è questo il quadro restaurato; al tempo della prima, la censura pretese la sostituzione del presule con uno psichiatra, dell’esorcismo con un elettroshock). Tramutato in cane, Max fa deragliare il treno dei dannati e viene accolto con Laura in paradiso. L’impasto di surreale e reale, di poesia magica e di grottesco è del Buzzati più tipico: nel soggetto si fondono suggerimenti provenienti dal Faust, dall’Orfeo di Cocteau, dal teatro americano coevo (il realismo simbolico), dai film di Capra (il lieto fine), dall’Angelo azzurro (rovesciandone la prospettiva); la drammaturgia applica alla «scena lirica forme considerate esclusività del teatro di prosa», ricorrendo ai servigi di un narratore (a Milano il rapper Frankie Hi Nrg), e affidando i personaggi ad attori (efficaci, al pari della regia di Lisa Nava). E la musica (molto ben resa sotto la guida di Gianluca Capuano), non rischia di fungere da mera illustrazione? Certo, essa svolge benissimo le proprie funzioni pantomimiche o di sonorizzazione (il tema ricorrente del treno diabolico, i rumori della strada), ma ancor più, trae partito dalle atmosfere contrastanti della vicenda per tratteggiare con poche pennellate e con un organico ridotto ed eccentrico (due cantanti in buca, coro normale e di voci bianche, niente archi salvo un contrabbasso, molte percussioni, chitarra elettrica, ecc.) paesaggi e quadretti, ora comici (tra parodia e grottesco), ora struggenti, tutti invariabilmente appropriati.

Cult & Colt, il jazz nel cinema

di Adriano Mazzoletti a lunga estate italiana del jazz iniziata il 28 maggio con Novara Jazz si sta concludendo in questi giorni con le ultime manifestazioni che hanno luogo soprattutto nel centro-sud e nelle isole. Dei centonovantadue festival, molti dei quali non hanno dato soverchie emozioni agli appassionati spesso con programmi simili, sono da segnalare due eventi di grande interesse per l’originalità e per i protagonisti. Si tratta di Torre Alfina Blues Festival giunto alla quinta edizione e il Roma Jazz’S Cool organizzato da Stefano Mastruzzi direttore della St. Louis Music School di Roma con la collaborazione di Francesca Gregori, giunto anch’esso al quinto anno. Mentre quello di Torre Alfina si è svolto nell’ultima settimana di luglio, il Roma Jazz’S Cool è tuttora in corso. A differenza di molti altri festival que-

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classica

st’ultimo, oltre alla parte spettacolare e concertistica ha una importante valenza di approfondimento e di studio. Iniziato domenica 30 agosto con la St. Louis Big Band diretta da Antonio Solvimene che ha già dimostrato notevoli capacità con il cd Jazz Collection 009 comprendente undici celebri arrangiamenti di altrettanti classici del jazz, è continuato con diverse produzioni originali. Da segnalare quelle realizzate dai pianisti Enrico Pieranunzi, Salvatore Bonafede, Dado Moroni, dal trombettista Dino Rubino, anche pianista, dai contrabbassisti Luca Bulgarelli, Enzo Pietropaoli e dal sassofonista Rosario Giuliani che hanno suonato con i solisti e docenti stranieri presenti: il pianista Phil Markowitz, il chitarrista Peter Bernstein, il contrabbassista Larry Grenadier, il sassofonista Mark Turner, il batterista Jeff Ballard e la cantante Nancy King tutti di notevole talento, alcuni dei quali già ben noti

al grande pubblico. Le ultime tre serate del festival, che si svolgeranno nei giardini della Casa del Jazz, sono dedicate al duo Nancy King-Steve Christofferson, complesso nato nel 1978 che ha partecipato ai più importanti festival internazionali. A Nancy King, seguirà, nel corso dello stesso concerto, il trio di Salvatore Russo in un omaggio alla musica di Django Reinhardt, del quale nel 2010 ricorrerà il centenario della nascita. Domani sarà la volta di una lunga jam session con inizio alle 18,00 a cui parteciperanno i migliori allievi che hanno frequentato i seminari del Roma Jazz’S Cool a cui si aggiungeranno i docenti americani e ospiti a sorpresa. L’ultima serata, quella di lunedì 7, sarà dedicata a Cult & Colt, Cinema anni 70. Franco Micalizzi e la Big Bubbling Band rileggeranno le molte colonne sonore che Micalizzi ha composto per film western e polizieschi all’italiana.

Le capacità di produttore e ideatore di Mastruzzi sono riscontrabili anche in Carlo Digiuliomaria, chitarrista, grande appassionato ed esperto di blues e direttore artistico del festival di Torre Alfina, borgo fra i più belli d’Italia. Situato su un altopiano nella parte settentrionale del Lazio fra Umbria e Toscana, Torre Alfina ospita un festival organizzato con grande professionalità e capacità da persone che da cinque anni creano un’oasi di musica nera in una zona di grande fascino. Gemellato con Biloxi, nello stato del Mississippi, città natale di molti blues-singers e centro del blues fin dagli anni Venti, ogni anno giungono musicisti che raramente è dato ascoltare nel corso di altri festival italiani: Junior Watson, Earl Thomas, Eddie Clearwater e tanti altri le cui esibizioni vengono tramandate grazie alla piccola etichetta discografica Avis sponsorizzata dalla nota società di autonoleggio.


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narrativa di Pier Mario Fasanotti

ul concetto di umorismo alcuni intellettuali si divisero. Pirandello e Croce duellarono con vari saggi. Ammetto di essere molto vicino al drammaturgo siciliano allorquando definisce l’umorismo «il sentimento del contrario». È partendo da questa verità che è meglio esaminare «uno dei più grandi romanzi comici del Ventesimo secolo», secondo la definizione data da Anthony Burgess nella postfazione di Augustus Carp, pubblicato per la prima volta, in forma anonima, nel 1924, poi annoverato tra i capolavori letti da un ristretto gruppo di persone e infine ripresentato sia in Inghilterra che in Italia (per merito delle edizioni Elliot). Burgess, in maniera un po’ snobistica, si rammarica della ritrovata popolarità del libro. Come se la gran massa del pubblico inficiasse l’approccio intimo a un testo considerato patrimonio di pochi eletti. In ogni caso c’è da concordare con lui quando afferma che le stravaganti frasi del goffo, ingenuo ma anche rigidissimo Carp hanno avuto la forza di sopravvivere, anzi di diventare citazioni. Una sorta di lessico familiare che di per sé è il riassunto di una personalità, di un modo di vedere (o non vedere) il mondo, esempio di un’esistenza che parrebbe inventata di sana pianta e invece ha le sue ragioni per essere letta come veridica in quanto s’incastona nella società inglese ai tempi di Virginia Woolf, James Joyce e Lawrence. L’autore, sir Henry Howarth Bashford, è morto ottuagenario nel 1961, pare molto consapevole d’aver scritto un capolavoro sottovalutato. Augustus Carp racconta in prima persona la sua parabola. Figlio di omonimo padre, questuante presso la Chiesa d’Inghilterra, è cagionevole di salute almeno per i primi dieci anni: vomito, eczemi, svenimenti, senso di panico, morboso attaccamento alle figure genitoriali. Insomma, cose che oggi verrebbero classificate come malattie psicosomatiche o turbe psicologiche. S’inizia con una scena grottesca: il battesimo. Il bambino rischia di cadere a terra dopo aver sbattuto il capino nel marmo dell’acqua santiera, e qui emergono già i segni caratteriali distintivi del padre, sempre propenso a far causa a qualcuno. La

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libri

bia e un coro in chiesa, ragionano a lungo. Fino alla decisione di intraprendere la professione del «commerciante cristiano». Augustus senior, il cavilloso, ricatta un insegnante dopo aver saputo dal figlio che questi s’incontra di nascosto con la cognata, a Greenwich Park. Siamo, come si vede, al sentimento del contrario: la giustizia viene capovolta, domina il tremendo peccato dell’adulterio che però viene disinvoltamente utilizzato come scorciatoia per ottenere un privilegio. In ogni caso Augustus entra a far parte di una casa editrice, ovviamente di accentuata impronta religiosa. Un’altra occasione di ricatto lo fa avanzare di carriera, salvo poi affrontare la vendetta della realtà. Augustus, la cui giornata è scandita da orari e gesti sempre maniacalmente uguali, viene allegramente truffato da una ballerina che lui cerca di «redimere» in qualità di vice-presidente dell’«Unione contro le arti drammatiche e saltatorie». È una delle sue tante battaglie moralistiche che lo vedono sugli autobus a redarguire i fumatori, davanti ai teatri a impaurire gli spettatori tacciati d’essere in combutta col diavolo o comunque destinati al mondo delle tenebre. Insomma, un rompiscatole terribile, intimamente impaurito dalle donne delle quali sa poco o niente (fino a diciott’anni ignorava che cosa potesse accadere dopo il bacio tra un uomo e una donna). La ballerina ha un motivo familiare per mortificarlo e gli fa bere, e tanto, la Delizia del Portogallo, descritta come innocente bevanda di frutta. In realtà è un robusto Porto. Augustus, paladino nella lotta contro «il traffico delle bevande alcoliche», cade rovinosamente in quella che chiama «la bardatura del vizio». È la discesa sociale, è la depressione. È la molla che lo farà accettare di sposare la sorella (tirata a sorte) di un suo amico, a condizione di prendersi in casa anche le altre tre, una più scialba dell’altra. Augustus troverà pace come questuante di una chiesa. Lo stesso mestiere del padre. Avrà un figlio. E la storia potrebbe ricominciare. L’autore non la prosegue lasciando intendere che sarebbe la copia esatta di quella già descritta.

Augustus Carp il destino di un questuante sua concezione del giusto e dell’ingiusto, non a caso, lo priverà di amicizie. Il giovane Carp cresce in un mondo isolato, anche a scuola (che inizia molto tardi), e come unici amici avrà due gemelli balbuzienti, uno dei quali poi morirà per aver scambiato una bottiglia d’acqua con una bottiglia di acido. Ma quale lavoro potrebbe fare Augustus? Padre e figlio, tra una lettura della Bib-

Henry H. Bashford, Augustus Carp Autobiografia di un vero galantuomo, Elliot, 239 pagine, 16,50 euro

riletture

L’uomo è un nulla che prega Dio. In molti modi di Giancristiano Desiderio se rileggessimo le preghiere? Alle nostre labbra affiorano le parole intime e familiari - materne e paterne, al contempo del Padre nostro. Quella preghiera, dal Vangelo di Matteo, è noi stessi. Quale differenza possiamo frapporre tra noi e il «padre nostro»? Cosa saremmo noi senza «nostro padre»? Rileggiamo: «Padre nostro che sei nei cieli,/ sia santificato il tuo nome;/ venga il tuo regno;/ sia fatta la tua volontà,/ come in cielo così in terra./ Dacci oggi il nostro pane quotidiano,/ e rimetti a noi i nostri debiti/ come noi li rimettiamo ai nostri debitori,/ e non ci indurre in tentazione,/ ma liberaci dal male». Se solo avessimo ancora qualcuno da pregare, questa sarebbe la nostra pre-

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ghiera. Tuttavia, è vero che non abbiamo nessuno da pregare o crediamo di non aver nessuno da pregare? La preghiera è dell’uomo e se la definizione classica dell’uomo è «animale razionale» - definizione equivoca assai, ma per intenderci va bene - non sarebbe sbagliata questa di «animale che prega». La preghiera è universale: gli uomini, in qualsiasi luogo, in qualsiasi tempo, in tutte le culture, pregano, hanno pregato. Gli uomini, per la loro stessa natura di figli, si rivolgono al Padre. «Orsù, Padre mio,/ sii oggi benevolo con me!». Inizia così la preghiera dello Yamana, della Terra del Fuoco, preghiera dei popoli senza scrittura (in questo caso la «rilettura» non dovrebbe neanche essere possibile, ma rileggere non significa solo leggere un’al-

tra volta un testo scritto, si può rileggere anche un testo non scritto). «Padre, che non muore mai,/ che la morte non conosce,/ la cui vita è sempre viva, che mai vede il freddo del sonno,/ i tuoi figli sono giunti qui»: dal Fan, Africa Occidentale. E questa: «Oh, sole, luna e stelle, voi tutti/ che vagate nel cielo,/ vi prego, ascoltatemi!/ In mezzo a voi è giunta nuova vita./ Accoglietela, vi supplico!/ Spianate il suo sentiero,/ affinché raggiunga il ciglio della prima collina!»: Omaha, Nord America. I versi delle preghiere li sto prendendo da un libro di qualche anno fa pubblicato dalla casa editrice Donzelli: Illumina la mia notte, a cura di Bernhard Lang e con un’introduzione di Luca Doninelli. Raccoglie le cento preghiere più belle dell’umanità. Un’antologia che si compone per

metà di preghiere cristiane, ma accanto alla preghiera cristiana sono state raggruppate testimonianze di altre religioni e culture: appunto, dai popoli senza scrittura, dalle grandi civiltà antiche, dal mondo greco-romano, alla Bibbia e l’ebraismo, fino all’islam, l’induismo e il buddhismo. Colpisce come in ogni cultura ci sia il Tu o il Padre a cui gli uomini-figli si rivolgono. Dio è Tutto e l’uomo è nulla. Scrive giustamente Doninelli: «L’uomo è un nulla che riceve l’essere, e perciò si muove naturalmente verso Colui che gli dà l’essere». Diamo del Tu a Dio perché la prima consapevolezza dell’uomo che prega è che «Tu sei più di me». Preghiamo molto di più di quanto non siamo disposti a dire. Le cento preghiere più belle dell’umanità ci aiutano a riconoscerlo.


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società

La guerra dei trent’anni per il tubo catodico di Franco Insardà a televisione da mezzo di comunicazione a protagonista della vita politica. È quello che è successo in Italia dal 1975 a oggi e che viene puntualmente raccontato nel libro di Franco Debenedetti e Antonio Pilati La guerra dei Trent’ anni Politica e televisione in Italia 1975-2008. Un viaggio interessante per capire come si è evoluto il tubo catodico dalla Dc al Pci, passando per il Psi, fino ad arrivare a Pd e Pdl. Debenedetti ripercorre, corredandole con una robusta bibliografia, le battaglie politico-editoriali ed economiche che si sono combattute tra il Parlamento, Palazzo Chigi, Mediobanca, i cda dei

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personaggi

maggiori gruppi imprenditoriali e le redazioni di Repubblica e Corriere della Sera. E siccome le vicende televisive sono lo specchio di quelle politiche, i protagonisti diventano Aldo Moro e il suo rapimento, Enrico Berlinguer, Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Eugenio Scalfari, Antonio Di Pietro fino ad arrivare a Silvio Berlusconi. Protagonisti di un saggio che finisce per trasformarsi in un avvincente romanzo con i vari contendenti - ora alleati, ora nemici - in questa guerra televisiva che ha cambiato la vita politica e sociale del nostro Paese. Il racconto è poi arricchito dalla storia delle politiche televisive descritta da Antonio Pilati, componente dell’Autorithy per la concor-

renza. Una lettura tecnica dell’evoluzione del nostro sistema televisivo, analizzato dal punto di vista dei mercati e della tecnologia. Che dimostra quanto finanza e tecnologia vadano a braccetto e superino la politica. La guerra dei trent’anni parte dalla débâcle degli editori storici (Rusconi, Rizzoli e Mondadori) avventuratisi nel nuovo mercato televisivo, la rivoluzione della Repubblica di Scalfari opposta alla scalata di Berlusconi, il punto di svolta della battaglia per la Mondadori che come scrive Debenedetti «ebbe effetti sistemici. Si definirono gli assetti proprietari nel campo dell’editoria; questo assestamento decretò praticamente l’uscita di scena degli editori puri

(uno escluso…)». Poi la legge Mammì, i referendum, le sentenze della Corte costituzionale, Mani Pulite, le norme sulla par condicio, il divieto di spot elettorali, la legge Gasparri. E su tutto l’estenuante ed eterna disputa sul conflitto d’interessi. Una guerra durata trent’anni e finita come scrive Debenedetti perché «la questione televisiva è stata superata dalla tecnologia». Perché è stata proprio «la tecnologia a rivoluzionare i mercati, meglio di quanto sappia fare il legislatore con il suo bisturi». Franco Debenedetti - Antonio Pilati, La guerra dei trent’ anni. Politica e televisione in Italia 1975-2008, Einaudi, 304 pagine, 19,00 euro

Corpo a corpo con Chateaubriand di Angelo Crespi

n tomo di 800 pagine per non raccontare la vita di Chateaubriand. È questa la tracotante impresa di Marc Fumaroli. Piuttosto, ci dice il professore emerito al Collège de France, il libro sarebbe «un invito a una traversata della grande tempesta poetica delle Memorie d’oltretomba e del campo magnetico entro il quale si è formata». Non poco. Specie se si pensa che tra tutti i classici assoluti, Chateaubriand è il meno frequentato in Italia. Eppure la sua biografia è incredibile, e portentoso il suo lavoro, composto appunto nelle temperie della Rivoluzione francese e del terrore che ne seguì. D’altronde il visconte François-René de Chateaubriand, nato a Saint Malò nel 1768 e morto a Parigi nel 1848, dopo un’esistenza grama e avventurosa tra esilio e rimpatrio, tra successi e cadute, fu un testimone sublime di quella «genesi francese del mondo moderno» il «più attento a prevederne i pro-

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gressi nel bene e nel male». E non a caso proprio le Memorie d’oltretomba sono una miniera di stili e tensioni da cui non è possibile prescindere per comprendere quell’epoca. Dall’epico al tragico, dal lirico al narrativo, passando per l’oratoria e la descrizione, sono un monumento insuperato che aprì a tutto campo la letteratura e la poesia moderna. Se pure Chateaubriand abdicò alla fine al titanico tentativo di ricomprendere tutte le sfasature della politica e della storia per mezzo della potenza della parola, il suo principale testo resta lo scrigno dove sono conservate le aspirazioni di una generazione, di una nazione, addirittura di un continente. Quello che però preme

sottolineare è il risultato del corpo a corpo tra Fumaroli e Chateaubriand. Ottocento pagine dense e fitte di considerazioni sull’autore indagato, sull’atmosfera di quegli anni, sugli altri grandi personaggi della partita (Napoleone, Rousseau, Byron, Toqueville, Talleyrand…), ma anche sulla schiatta letteraria che seguì quella tempesta (Baudelaire, Conrad, Proust…) in cui si esalta la prosa complessa e raffinata di Fumaroli, le sue considerazioni estreme, le analogie, i paragoni, a confezionare un saggio con cui è gioia misurarsi. Marc Fumaroli, Chateaubriand. Poesia e Terrore, Adelphi, 806 pagine, 55,00 euro

Entomologia di un matrimonio

di Mario Donati on una scrittura brillante e intensa, lontana sempre dai sentimentalismi, Franco Stelzer narra un anno di vita di un cinquantenne condannato dal cancro e martoriato da una serie di dolorose terapie. Con lucida consapevolezza della propria fine, ricorda i momenti salienti della sua vita coniugale e nello stesso tempo prepara la sua dipartita in modo da controllare ciò che avverrà dopo la sua morte. La moglie gli sta accanto. Particolari toccanti si dipanano nella ricostruzione della memoria. A lei, un giorno, dice di invidiare un paio di calzini «trovati al bordo di una strada e ancora uniti dal car-

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tellino, in procinto di essere schiacciati sotto le ruote di un grosso camion». Rivolto alla compagna di vita dice: «Almeno loro non muoiono soli». Lei gli dà una sberla, lui sorride «sofferente ma contento di quella donna pugile e brusca, di quel cuore che lo reprime delle sue sciocchezze». Vanno in una località di mare e in piazza lei si ferma a parlare con alcuni anziani pescatori del luogo. Discutono di meteorologia. L’uomo la guarda da lontano mentre lei «flirta con la terza età». La donna gode delle attenzioni incrociate, dei vecchietti e del marito. Questi la guarda eccitato «come stesse amoreggiando con tre sconosciuti e il dolore per il tradimento si mescola con la gaiezza e la gratitudi-

ne: l’ho avuta in dono io, questa donna, io e nessun altro». Altro aspetto che nessun scrittore ha mai posto in rilievo: l’inquietudine del malato nei riguardi della propria «potenza», assieme alla preoccupazione di non entrare interamente, ma solo come un «automa», nell’intimità dei corpi. Col progredire della malattia non cede alla lagna, al pur lecito lamento, al panico del vuoto cui va incontro. È sempre razionalmente presente a se stesso e alle situazioni impedendo agli altri di esprimere la commozione. Quando il cognato lo rimprovera di vedere tutto nero, lui risponde: «Perché mai bisognerebbe far finire tutto nel modo migliore? Le cose vanno anche storte». La di-

scussione si allarga anche alla moglie e insieme parlano della «bellezza delle fini più tragiche». Chiudere gli occhi non serve, ma guardare sì: questa la conclusione del malato. Non cessano i momenti di intimità coniugale e l’autore sceglie parole strazianti e vere. Così come non s’arresta l’esame del loro trentennale matrimonio, tra colpe, disattenzioni e palpiti. Ci sono rimbrotti, che però riguardano le piccole cose, le marginali abitudini della quotidianità, i grandi drammi, gli strappi laceranti non sono presi in considerazione per il solo motivo che non ci sono mai stati. Franco Stelzer, Matematici al sole, Il maestrale, 313 pagine, 16,00 euro

altre letture Le ultime ore di vita di Benito Mussolini: le frenetiche trattative milanesi con il Comitato di liberazione, la mediazione del cardinale Schuster, la lettera di addio alla moglie Rachele, la fuga con i tedeschi, l’arresto e la fucilazione a Dongo insieme a Claretta Petacci. La successione drammatica di questi eventi viene raccontata da Paolo Monelli nel libro pubblicato da Mursia Da Milano a Dongo (117 pagine, 10,00 euro). «Impeccabile dal punto di vista cronachistico - scrive Beppe Benvenuto nell’introduzione - il complesso disegno d’insieme è vivo e puntuale, inclusi i tanti interrogativi che già allora circondavano il crepuscolo del Duce». «L’ateismo è una religione; perché l’essenza di questa sta nel preoccuparsi della realtà ultima, nel pensiero diretto a questa, in un’affermazione intorno a questa nella quale sentiamo di racchiudere il nostro maggiore interesse mentale, e, quasi a dire, di porre in gioco o decidere il nostro destino». Così Giuseppe Rensi scriveva in Apologia dell’ateismo, un pamphlet oggi ripubblicato da La coda di paglia (105 pagine, 8,50 euro) «un aiuto - scrive Armando Torno nella prefazione per chi non crede e un buon testo di verifica per chi la pensa in modo opposto». In ogni epoca gli uomini hanno dato vita a istituzioni incaricate di tramandare nel tempo la conoscenza dell’origine divina del mondo e hanno destinato edifici al culto della sapienza. Il Medioevo cristiano costituì per questo scopo gli ordini monastici ed eresse i monasteri, centri di preghiera e di cultura, capisaldi della civiltà europea. La magia dei monasteri di Mario Balocco (Edizioni l’età dell’Acquario, 300 pagine, 19,50 euro) ci fa entrare dentro chiostri e celle dove i monaci dialogavano con le gerarchie angeliche, comandavano gli elementi della natura, scacciavano i messaggeri del maligno, penetrando con mente sottile gli oscuri segreti dell’universo. Perché la loro ricerca spirituale come scrive Balocco - fu molto più ampia e profonda di quanto si crede. a cura di Riccardo Paradisi


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reportage

BROCCHE, PIATTI, GRANDI CONTENITORI FITTAMENTE INCISI E COLORATI, PICCOLI OGGETTI ANTICHI RIVISITATI… VIAGGIO A GROTTAGLIE, UNO DEI GRANDI CENTRI ITALIANI DI CERAMICA NON INDUSTRIALE, ALLA SCOPERTA DI UN’ARTE CONSIDERATA MINORE, MA CHE MINORE NON È. E DEGLI ARTISTI CHE ANCORA PRATICANO UNA TECNICA RIMASTA NEI SECOLI IMMUTATA, ECLISSANDOSI NEL DETTAGLIO: ECCELLENZE DI UN SUD CREATIVO E LABORIOSO

La perfetta trinità Andrea Di Consoli i dice che durante il travagliato Concilio di Nicea del 325 - il primo della Chiesa - in un momento in cui i nervi erano tesi per i troppi sofismi sulla natura della Trinità, il Vescovo Niccolò, altrimenti conosciuto come San Nicola di Bari, dopo aver battagliato e finanche schiaffeggiato Ario, in un momento di distensione, prese in mano una terracotta ed esclamò: «Ecco, signori del Concilio, la perfetta Trinità: terra, acqua, fuoco!». Da quel momento in poi San Niccolò divenne protettore dei ceramisti; mentre in seguito sarebbe diventato protettore pressoché di tutto, dai farmacisti ai marinai, dai mercanti agli avvocati. L’arte ceramica, purtroppo, viene quasi sempre rubricata come «arte minore», o ornamentale e decorativa - o, in ultima analisi, come arte d’uso; e invece si tratta di un’arte complessa, antica e dalle infinite possibilità, e a nulla giova - ancora una volta - l’elitaria separazione tra «arte» e «artigianato», come non ci fossero, nell’arte, momenti di artigianato e, nell’artigianato, momenti di arte. La ceramica, come si sa, è l’arte di trasformare la terra in scultura (l’argilla impastata con l’acqua) e di cuocerla a temperature che variano dai 900° ai 1500°. A seconda del materiale usato, delle tecniche di lavorazione e di colorazione, e del-

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ste conoscenze, riserva amare sorprese (il manufatto deve poter resistere al movimento «a fisarmonica» della materia che, prima, con il calore, si dilata, e poi, raffreddandosi, si contrae). Attualmente i forni per la ceramica funzionano a gas o con l’elettricità, eppure, nonostante i progressi tecnologici, le tecniche di lavorazione della terracotta sono mutate ben poco rispetto ai secoli scorsi (tutto questo è sconcertante); certo, oggi un forno si accende con un pulsante e si controlla con un monitor, mentre in passato bisognava valutarlo «a occhio», e la gradazione comprenderla a seconda del colore (il fuoco bianco è nel massimo della potenza), eppure nulla - tecnicamente - è cambiato rispetto al passato. I cambiamenti sono stati quasi tutti di tipo tecnologico, non di tipo tecnico. In Italia sono molte le città e i paesi che praticano l’arte della ceramica (da Montelupo a Faenza a Vietri sul Mare fino a Gubbio), e tante altre sono le città che quest’arte hanno perduta nei secoli (si pensi a Taranto, Laterza,Tori-

La definizione va attribuita a San Nicola di Bari, protettore dei ceramisti, che prendendo in mano un oggetto di terracotta rimase folgorato da quel connubio “trinitario” di terra, acqua, fuoco. Nel 325, durante il Concilio di Nicea... la gradazione della cottura, si ottiene la terracotta, la maiolica, il grès e la porcellana (che è il risultato più «alto», nel senso che abbisogna di materiali puri, e di una cottura intorno ai 1400°). La differenza tra una porcellana e una maiolica, per esempio, è che la porcellana è trasparente in controluce, mentre una maiolica bianca (dello stesso colore della porcellana) mostra comunque le «imperfezioni» del cosiddetto «biscotto», ovvero della terracotta non elaborata.

Ma nonostante io abbia letto più d’un libro di storia della ceramica - che dall’Inghilterra alla Cina ha una storia estremamente affascinante - faccio ancora confusione su tanti aspetti tecnici, mentre altre cose mi rimarranno per sempre oscure. Probabilmente, è proprio questa estrema complessità a rendere la ceramica una tecnica poco usata dagli artisti moderni, che pure hanno piegato ai loro bisogni il cemento, il ferro, l’alluminio, la sabbia, la plastica, il plexiglas e finanche la merda (si pensi a Piero Manzoni). Oltre a Lucio Fontana e al grande Leoncillo (per rimanere al caso italiano), pochi altri artisti italiani del Novecento hanno usato quest’arte «trinitaria», non solo perché l’argilla non è facile da lavorare (bisogna depurarla persino dell’aria), ma poi perché la cottura, se non si dispone delle giu-

no e Siena). I «centri» della ceramica sono comunque numerosi, per la semplice ragione che in passato i ceramisti svolgevano una funzione utilissima, ovvero produrre tutti gli oggetti utili (utensili) per la conservazione e l’uso dei prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento. Quello che oggi viene prodotto a livello industriale (dai piatti alle tazzine del caffè, dalle piastrelle alle mattonelle, dalle pentole ai recipienti per vino) in passato era prodotto a livello artigianale, un pezzo per volta. È questo il motivo per cui di passate civiltà sepolte nella terra spesso affiorano in primis frammenti di terracotta, perché ogni civiltà passata può nascondere in eterno segreti e misteri, ma giammai le proprie abitudini alimentari (la storia dell’umanità la si riesce a ricostruire proprio in virtù di questi «bassi» utensili alimentari).Armato di tutte queste suggestioni, ho visitato uno dei grandi centri italiani di ceramica non industriale, ovvero Grottaglie, in provincia di Taranto (32 mila abitanti), una città-paese che ha un intero quartiere denominato «delle ceramiche» (vi sono più di 50 laboratori). Sono arrivato a Grottaglie in una tarda mattinata piovosa, dopo aver costeggiato l’imponente - e arrugginito e moribondo - stabilimento siderurgico di Taranto. Nonostante la pioggia, ho trascorso un’intera giornata tra botteghe, laboratori e centri espositivi (mi

hanno accompagnato Marisa Patruno, assessore comunale alla cultura, e il regista AlfredoTraverso, che a Grottaglie ha una compagnia teatrale). Il primo laboratorio di ceramica che ho visitato è stato quello di Nicola Fasano, che nel dopoguerra - con pochi mezzi - riuscì a farsi conoscere in tutto il mondo (attualmente la fabbrica Fasano è gestita da due suoi figli e ha trenta dipendenti).

Appena sono entrato nella fabbrica ho subito notato l’antichità dell’ambiente di lavoro. Per me è stata una vera sorpresa, visto il nostro tempo di nevrotici ammodernamenti industriali. I muri di tufo erano umidi e neri di fumo - l’odore di argilla era fortissimo. Sembrava di essere tornati nel dopoguerra. E la cosa misteriosa è che anche i dipendenti - dai modellatori ai tornianti - sembravano curarsi poco di quell’ambiente insalubre, perché ho scoperto che tutti i ceramisti, oltre che operai specializzati, sono anche artisti consapevoli di tramandare un pezzo di storia, e quindi sono orgogliosi di lavorare in un ambiente - magari difficile, per via dell’umidità - in cui i visitatori rimangono a bocca aperta. Il più infervorato e consapevole tra loro è Leonardo, un modellatore di trentasei anni, che ci ha guidato con sicura favella nei cunicoli della fabbrica, spiegandoci ogni cosa, dalle proprietà dell’argilla alla cottura (antica e moderna), dalla smaltatura alla decorazione. Ci ha tenuto a dire più volte che lui è il più giovane di tutti, e che purtroppo, nonostante la scuola d’arte di Grottaglie, di «vocazioni» alla ceramica non ce ne sono quasi più. «Certo, c’è l’industria ceramica, ma è un’altra cosa», ha aggiunto il nostro giovane Virgilio, che tra l’altro mi ha spiegato che molti ceramisti del posto acquistano i semilavorati, non facendo altro che rifinirli. Poi, inevitabilmente, anche lui ha pronunciato la frase che tutti i lavoratori italiani pronunciano di questi tempi: «I cinesi hanno rovinato tutto. Chi ci garantisce che i semilavorati non siano fabbricati in Cina?». E io gli ho risposto quello che ormai vado ripetendo a ogni viaggio nel mondo del lavoro, ovvero che i cinesi, fino a qualche anno fa, facevano comodo agli imprenditori italiani, e che se si sono ben insediati in Italia è solo perché gli imprenditori hanno guadagnato cifre stratosferiche proprio grazie al basso costo dei semilavorati. «Chi di Cina ferisce, di Cina perisce» ho sentenziato bruscamente, ché i «cavalieri del lavoro» in Italia spesso privatizzano al massimo gli utili, e poi socializzano - piangendo miseria - le perdite. Ho a lungo osservato le mani del torniante mentre modellava un vaso; la sua mente era completamente concentrata sul lavoro, e anche la nostra presenza lo ha lasciato pressoché indifferente. Ho pensato che devono essere ben saldi i nervi dei ceramisti, se è vero che un tremore o uno scatto d’ira possono compromettere per sempre l’armonia di un piatto, di un vaso, di un «capasoni» o di una «pignata». Mentre camminavo all’interno della fabbrica, mi meravigliavo di come sempre


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nuovi reparti spuntassero inaspettatamente (sembrava una piccola bottega, all’inizio). Quando poi siamo giunti nel reparto dei decoratori - che disegnano con colori di terra - un artista mi ha letteralmente meravigliato per come ha disegnato - facendo poche linee per volta, ogni volta con un colore differente - un gallo con la cresta rossa. Mentre lo guardavo con infinita ammirazione, mi tornò in mente una cena a cui fui invitato a Roma qualche anno prima. La cena si tenne a casa di una studiosa di arte sperimentale, e alla cena partecipava un artista con cui, come mi capita spesso, quella sera litigai. Secondo il suo punto di vista gran parte dell’arte in circolazione era «artigianato», mentre la vera arte era un frutto raro. Mi diede fastidio, quella sicumera idealista. Sono cresciuto con l’idea che la perfezione appartiene a Dio (per questa ragione ho molta ammirazione per gli artisti che in passato inserivano un elemento di dissonanza nelle proprie opere pur di non fare dispetto a Dio). Continuo a pensare che gesti artistici fondamentali e fondativi come quelli di Giacometti, Burri, Fontana, ecc. siano possibili sempre e soltanto su una base solida di artigianato, di mimesi, di sapienza tecnica, ché non c’è apertura senza chiusura, non c’è il «nuovo» senza il vituperato «antico». Era un artista, quell’uomo che mi stava davanti e che disegnava i suoi galli con precisione e con antica sapienza? Sì, era un piccolo artista della tradizione italiana figurativa, uno dei tanti piccoli artisti sul cui lavoro hanno scarabocchiato Cy Twobly e spruzzato colore Jackson Pollock. Eppure senza il figurativo - artigianale o no che sia - uno scarabocchio non avrebbe senso. Certo, lo scarabocchio è artistico in sé, è autonomo rispetto a una tradizione artistica, ma senza i rimandi al fitto reticolato della tradizione, lo scarabocchio rimarrà per sempre quello che effettivamente è: un semplice schiribizzo fatto in quattro secondi di furore.

Certo, la ceramica è un’arte utilitaria, o ornamentale; e spesso è soltanto oggettistica, più o meno lussuosa, per appartamenti più o meno lussuosi. Ma esistono, appunto, diversi livelli dell’arte, e l’arte ceramica è uno dei solidi livelli di base su cui poggia la grande arte della tradizione, e finanche la grande arte sperimentale post-picassiana. Non so poi fino a che punto certe ceramiche inglesi, francesi e giapponesi, soprattutto dei secoli scorsi, possano essere liquidate come «artigianato», o al massimo come artigianato di valore. In certi lavori certosini e fittamente lavorati io scorgo una grande idea di arte; un’arte che si fa oggetto, e che previene quasi del tutto la pervasività dell’artista, che nella ceramica si eclissa a vantaggio del piccolo particolare, del dettaglio che, legandosi ad altri dettagli, forma quel misterioso reticolato di perfezioni che è, appunto, l’arte ceramica. Mi sono convinto di quanto vado dicendo entrando nel laboratorio di Francesco Fasano, cugino degli altri Fasano. Anzitutto ho trovato un uomo di grande spessore poetico. Infatti, dopo aver visto i suoi lavori - brocche, piatti, grandi contenitori fittamente incisi e

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Ambienti di lavoro lontani da nevrotici ammodernamenti industriali. Operai consapevoli e orgogliosi di tramandare un pezzo di storia. Imprenditori coraggiosi, capaci di trascurare il fatturato in nome della qualità, della calma, della precisione colorati - abbiamo a lungo parlato del suo lavoro e della sua vita. Mi ha detto: «Quando mio padre era malato e stava per morire, ho fatto il giro di tutti gli ospedali. Mio padre e tutti i malati che ho visto avrebbero dato qualsiasi cosa pur di poter toccare la terra, pur di stare in una bottega come questa. È questo il motivo per cui ringrazio ogni giorno il cielo per il lavoro che faccio. Alcuni mi dicono di aumentare la produzione, di mettere le mie cose su internet, di aprire negozi a Milano e a Roma. Ma io non posso farlo. Io devo lavorare con calma e con precisione. Cosa me ne faccio dei soldi? Non m’interessano, i soldi. Mi basta poter continuare in pace un’arte che mio padre mi ha insegnato». Con Francesco Fasano ho a lungo parlato di emigrazione, di terra, di armonia, di Sud, e siamo arrivati alla conclusione che spesso i giovani meridionali emigrano per colpa dei padri, che non riescono a trasmettergli l’amore per i luoghi, per i lavori, per le cose che si hanno. L’insoddisfazione, ci siamo detti, viene instillata nei figli, come un veleno, dagli stessi genitori, che spesso sono eternamente scontenti di tutto. Per rafforzare la nostra tesi, gli ho citato un verso di Tagore, un poeta che nella mia vita non mi era mai capitato di citare (cito a memoria): «Ho girato il mondo intero per scoprire, solo alla fine, che quello che cercavo era la rugiada del giardino di casa mia». Concludiamo dicendo che nella vita bisogna avere la fortuna di avere padri buoni. Ho fatto altri giri nel «quartiere della ceramica» di Grottaglie, prima del crepuscolo: ho visitato la giocosa e ludica Bottega Vestita, piena di fischietti, acquasantiere e cavallucci di ceramica, e ho a lungo sostato nel negozio-laboratorio di Enza Fasa-

no, pieno zeppo di oggetti antichi rielaborati e contaminati con il moderno design. Mentre mi aggiravo nelle stanze di Enza Fasano, ho scoperto ’u pumo, una pigna di ceramica che le persone acquistano perché garantisce fertilità e benessere, e ho anche scoperto il mistero delle tante ceramiche raffiguranti una donna con i baffi.

La storia (un po’ vaga, per come me l’hanno raccontata) è questa: la donna con i baffi non è altro che un fidanzato stanco delle angherie di un nobile - che nel XVII secolo pretendeva di possedere tutte le più belle ragazze del paese - e che, anziché cedergli la propria ragazza, si traveste da donna e, per la fretta, dimentica di tagliarsi i baffi. Non so se poi quest’uomo fu ucciso, ma so che passò un brutto quarto d’ora. Mi auguro che nuovi giovani vorranno imparare l’arte ceramica, e tramandarla ai propri figli, magari come ha fatto il padre di Francesco Fasano, di cui a lungo ricorderò i gesti lenti e lo sguardo fermo e pensoso. Mi auguro poi che la scuola d’arte di Grottaglie faccia tutto il possibile per creare nuovi artisti, anche se l’arte s’impara a bottega, sporcandosi le mani col grigio pastoso dell’argilla. E sono contento che l’amministrazione comunale si dedichi con attenzione - e con un premio - alla ceramica grottagliese. E quindi sono felice di questo Sud che crea, che lavora, che «esporta» eccellenze, che sa perdere giornate intere per fare una brocca perfetta. Speriamo che in futuro questo patrimonio artigianale non venga disperso dall’industria che, come sappiamo, raddoppia i fatturati, ma impoverisce i saperi, polverizzandoli nel batter d’ali d’una crisi finanziaria.


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tv

di Pier Mario Fasanotti el 1992 uscì un delizioso film-commedia interpretato da Bill Murray. Era intitolato Ricomincio da capo ed era la storia, ossessiva e divertente, di un metereologo molto attento alle condizioni climatiche ottimali per le marmotte che ogni mattina si svegliava e andava incontro a una giornata del tutto uguale a quella precedente. La reiterazione continuava fin quando non veniva disvelato il meccanismo della ripetizione (c’entrava anche l’amore, con Andie Mc Dowell). Questa pellicola mi viene in mente scorrendo le non-novità del palinsesto di Rai e di Mediaset. Si ricomincia da capo, come nel film con Murray e le sue marmotte, le giornate saranno contrassegnate da eventi uguali a quelli già visti e digeriti. La logica aziendale è ferrea nella sua opacità: perché innovare quando certi programmi hanno avuto uno share alto o soltanto decente? Capita, nel mondo della comunicazione, che certi ritorni facciano addirittura notizia e meritino un titolo importante. È il caso di Maurizio Costanzo, che lascerà Mediaset per la Rai. Uno squassante brivido si dirama su tutta la nostra corteccia cerebrale. Sarebbe facile e scontato ricordare il gioco delle tre carte, sì proprio quello napoletano: le carte sono sempre tre e cambia solo la loro posizione. E di solito è gabbato l’ingenuo che scommette soldi. Ma al di là dei paragoni e delle metafore, conviene leggere le fotocopie televisive con maggiore severità (anche ovvietà). Si arriva quindi all’inevitabile conclusione: se la tv è lo specchio della società, o comunque di gran parte di essa, viviamo, o meglio ci agitiamo, in un labirinto di specchi. I quali, pur messi in posizioni differenti, riflettono sempre le stesse cose. Voglia di innovare? Pari a zero. Non affiora il desiderio di rischiare con l’offerta di qualcosa che oltrepassi il ruscello, ormai non tanto limpido (anzi) del quiz, delle domande e delle risposte imperniate sull’hurrà a seguito del milione di euro inventato dal si-

N

Parola d’ordine:

repetita iuvant

web

games

video

gnor Bonaventura. Altro esempio: pare che a presentare il festival di Sanremo sia stata designata Antonella Clerici, già morbida tour leader di percorsi gastronomici. Un critico televisivo di ottimo spessore mentale ha anticipato quel che farà: «Potrei fare la recensione a video spento». Quel che immalinconisce è anche l’entusiasmo con cui certi personaggi annunciano i futuri impegni. Il pur sobrio Gerry Scotti si siederà di nuovo sulla generosa poltrona di conduttore di Chi vuol essere milionario. Signori e signore, attenzione: per tutto il 2009 non ci sarà la Corrida, ma non illudetevi perché la tenzone di quelli che «si buttano» pur di apparire potrebbe tornare, con un altro conduttore, nel 2010. Scotti intanto sta ragionando sulla proposizione di un format straniero, America’s Got Talent. Forse si chiamerà Italiani che talento. Vedrete che il vecchio stivale non sarà da meno rispetto agli States. Ce la metteremo tutta, perbacco. Per coloro che rischiano turbe nervose a essere spettatori di piccole novità, diamo subito una parola di conforto: rimarranno in piedi programmi come Amici, X Factor, Affari tuoi (con Max Giusti), Il grande fratello che addirittura soddisferà l’intramontabile voyeurismo italico per cinque mesi. Sì, proprio cinque mesi. Comincerà il 19 ottobre e approderà tra le gemme in procinto di aprirsi al primo sole. Non ci salveremo né a Natale né a Capodanno. Per la quinta volta a condurlo sarà Alessia Marcuzzi. Accanto a lei Alfonso Signorini, che ha ormai conquistato l’ubiquità mediatica, con quel tocco «diverso» che passa per arguzia o motteggio intellettuale e oggi va tanto di moda. Gli aspiranti sono già centomila. Non basta: quest’anno c’è il politically correct nel senso che tra quelli che vogliono abbandonare il pudore, la riservatezza e il buon gusto ci saranno alcuni terremotati dell’Abruzzo. Come se non fosse bastata quella terribile scossa tellurica. Non è scontato prevedere che la prossima stagione saranno favoriti, nelle selezioni, i precari, i cassintegrati. E magari i detenuti in libertà vigilata.

dvd

PALMARI DA COLLEZIONE

IL CLIC E L’ARATRO

SOGNI INSEGUITI DIETRO AL PALLONE

P

er quanti non riescono a vivere lontani dalla propria collezione musicale, e deprecano l’angustia degli spazi messi a disposizione dal proprio telefonino, il software MeCanto è la giusta soluzione. Chi possiede infatti tonnellate di giga di mp3 e ha bisogno di bacini pressoché illimitati, può ricorrere a un programma che seppure in fase di beta testing, ha finora molto soddi-

È

stato l’ideale complemento a oziosi pomeriggi lontani dal mare. Farmville,simpatico gioco che ha spopolato su Facebook, non brilla certo per vertigini grafiche o spasmi adrenalici, ma offre un intrattenimento intelligente e anacronistico come solo la virtualità può garantire, a tutti gli appassionati. Terreno di confronto, è il caso di dire, è la nuda terra, da vangare e coltivare alacre-

iccole storie quotidiane segnate da un passato e un presente differenti. Ad accomunarle un solo aspetto: la speranza. Fino a dieci anni d’età è forte, poi la consapevolezza di non lasciarsi alle spalle un destino quasi segnato è più viva». Fabio Scamoni, regista insieme a Gabriele Salvatores e Guido Lazzarini presenta così Petites Historias Das Crianças, documentario

”MeCanto” consente di trasferire la propria musica in rete e di ascoltarla su pc e telefonini

”Farmville” trasforma il giocatore in un contadino alle prese con il proprio appezzamento

In “Petites Historias das Crainças”, la vita di alcuni bambini di 17 paesi del mondo tra miseria e calcio

sfatto anche i più voraci appassionati. Il programma funziona in modo semplice: basta installare sul pc o sul cellulare un client apposito, trasferirvi i propri dati senza limiti di ampiezza, e richiamare i propri brani in streaming mediante l’ausilio di una connessione Wi-Fi o 3G. Disponibile per smartphone (richiede o.s. Symbian) e pc, MeCanto dispone anche di un player dotato di scansione in generi, album e artisti e garantisce, in presenza di un buon segnale, un ascolto fluido. Per scaricare il programma è sufficiente raggiungere l’indirizzo mecanto.com, lasciare un recapito email, e attendere l’autorizzazione necessaria per scaricarlo.

mente come i contadini di un tempo. Il player deve creare un avatar, e si trova subito immerso nella gestione di un’azienda agricola in cui pullulano ortaggi da annaffiare, messi da mietere, fornitori da soddisfare, e giornate di duro lavoro da svangare. L’obiettivo non è però l’autarchia, ma guadagnare denaro da reinvestire nella crescita della propria attività. Per fortuna, l’industrioso contadino non è da solo fino a sera, trafitto da un raggio di sole. Può invece interagire con altri giocatori, e in attesa che i germogli verdeggino, rinfoltire i rapporti d’amicizia e di collaborazione.

italiano ma di respiro internazionale, molto applaudito all’ultimo festival di Locarno. Nato intorno a Inter Campus, progetto della squadra di calcio F.C. Internazionale di Milano che consente a giovani calciatori di crescere nel proprio ambiente, vicino ai familiari e amici, il lavoro presenta storie e immagini provenienti da diciassette paesi del mondo. Dal Brasile al Camerun, passando per l’ex Jugoslavia, l’Iran e la Cina, gli autori incrociano le vite di piccoli adulti alle prese con i morsi della fame e i calci a un pallone. Onesto e commovente, le Petites Historias sono la faccia pulita del calcio di un tempo. Un sogno inseguito dietro un pallone.

a cura di Francesco Lo Dico

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cinema héri, tratto da due romanzi dell’impareggiabile Colette (scritti nel 1920), popolarissima e stimata dai critici, è un film che fa discutere. Intanto ha diviso la critica: da una parte quelli a baffo moscissimo, dall’altra quelli incantati, e in mezzo quelli che lo trovano imperfetto e a tratti scontato, ma con alcuni attori e valori produttivi mirabili. Per ciò stesso è un film da vedere: se i critici si dividono (ma anche quando no, talvolta) è meglio giudicare da sé.Vale il viaggio in ogni modo, come si dice sulle guide Michelin, per guardare di nuovo e a lungo la Léa de Lonval di Michelle Pfeiffer. A cinquantun anni è la donna-manifesto di un’epoca in cui, carriera di attrice di Hollywood a parte, la vita comincia al mezzo secolo. Per coloro che pensano che nulla è cambiato, basta paragonare la bionda e diafana californiana con la nerissima Gloria Swanson di Viale del tramonto, girato nel 1950. Norma Desmond (una befanesca Swanson) è una star decaduta da tempo, che vive in una lugubre villa hollywoodiana, in decadenza come lei e circondata da stravaganti, patetici, ridicoli cimeli del suo passato glorioso. Norma-Gloria, in contrasto con la Léa-Michelle, è la donna-manifesto per la bellezza corrotta dal tempo che nessun trucco può restaurare ma solo far rimpiangere. La «anziana» exstar del cinema muto aveva allora gli stessi identici anni della Pfeiffer in Chéri, cinquanta, ma sarebbe impensabile che un ragazzo ancora adolescente si possa innamorare della megera Desmond. Infatti, nel film diretto da Billy Wilder, la storia che nasce tra la «vecchia» diva e lo sceneggiatore fallito alla soglia della mezza età (William Holden) è all’insegna dello sfruttamento reciproco. Sia l’una sia l’altro sognano di usare l’amante per il sospirato ritorno sulla cresta dell’onda, il come back agognato da tutti gli has-been (i «furono famosi» loro malgrado) dello spettacolo.

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Chi ha letto i romanzi di Sidonie Gabrielle Colette, Chéri e La fine di Chéri (appena ripubblicati da Adelphi nella collana economica, ndr), sa che la relazione tra la cortigiana Léa de Lonval e il diciannovenne Fred Peloux, alias Chéri (Rupert Friend) è di un’altra pasta. Il ragazzo è viziato e scapestrato, dissoluto, spendaccione e perditempo, vezzeggiato dalla madre, la collega di Léa nelle arti della seduzione, Madame Peloux (la sempre apprezzabile Kathy Bates, anche quando è fuori parte). Lonval e Peloux hanno gestito bene i loro anni d’oro tra lenzuola e salotti; hanno vissuto e vivono alla grande nel lusso, però con l’avvedutezza di aver protetto e ben investito il patrimonio accumulato per assicurarsi «una serena vecchiaia». Mme Peloux è preoccupata per lo scriteriato andazzo della vita che conduce il figlio, e chiede all’amica-nemica (frenemy è il bel neologismo inglese) di prenderlo sotto la sua ala sapiente, forgiarne il carattere e aiutarlo a diventare un uomo autentico, capace di condurre una vita meno dispersiva, se non di qualità. Léa, a differenza della rotonda e matronale Mme Peloux, ha conservato il fascino della démi-mondaine, ma non ha più nessuna voglia di esercitare il suo potere di conquista. Ha denaro in abbondanza (indubbiamente grazie alla largesse e ai consigli dei suoi altolocati ammiratori), nient’altro da dimostrare e molto tempo libero. Il giovanotto Chéri è terri-

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Chérie l’altra faccia del Viale del tramonto di Anselma Dell’Olio

Michelle Pfeiffer, protagonista del film di Frears tratto dai romanzi di Colette, dove si racconta di un amore tra una donna di mezza età e un ventenne, ha gli stessi anni di Gloria Swanson nel film di Wilder. Ma chi si innamorerebbe oggi della befanesca Norma Desmond? bilmente bello, affascinante, narcisista, egocentrico, superficiale e per niente stupido. (Rupert Friendly è sublime, perfettamente credibile nel ruolo.) Léa intuisce che forse c’è un modo migliore per passare i suoi giorni, che non gingillandosi oziosamente tra svaghi, sartorie, modiste, estetiste, gioiellieri e visite tra colleghe. Decide all’istante che il ragazzo è un compito degno, una sfida divertente e interessante per una donna che ha passato la vita a gestire, blandire e influenzare politici, finanzieri, ereditieri più volitivi, capricciosi e protetti di lei. Un’altra chiave di lettura adoperata dai critici è quella della tremenda «disgra-

zia» di amare fuori tempo, di rendersi vulnerabile con la persona sbagliata. In questo caso, una donna sul limite della vecchiaia, che per mestiere controlla le emozioni dietro un cinismo ben dissimulato e non si lascia mai andare, non si rende conto che dopo sei anni di felice convivenza, un tenero rapporto materno si è tramutato in qualcosa di più carnale e indispensabile. Tanto meno capisce che il suo protegé è pronto per decollare dal nido e costruire una vita con una persona della sua età. Al Festival di Berlino, dove Chéri è stato presentato nel febbraio scorso, la Pfeiffer, deliziosa e ingenua Valley Girl californiana con ri-

ferimenti culturali conseguenti, ha dichiarato solenne e compresa che i tempi sono cambiati, grazie a Dio e al femminismo, e oggigiorno l’unione di una donna matura con un giovinetto sarebbe senz’altro accettabile, e non giudicata «contro natura» come ai brutti tempi andati. Ma non è principalmente di questo, o non solo di questo, che i libri, e nemmeno il film, parlano.

La grande, disinvolta, spregiudicata, anticonformista Colette non avrebbe scritto questa storia apparentemente leggera per limitarsi alle condoglianze per un banale pregiudizio sociale. Colette ritrae un universo minuto, particolare, con un timbro che vibra con una risonanza universale. Non esclude le difficoltà di un innamoramento maggio-dicembre in cui la donna è l’inverno. Scrive però di due persone che vivono in un ambiente chiuso e forzatamente autoreferenziale, quello delle meretrici d’alto bordo e delle loro famiglie; non possono che frequentarsi tra loro, perché sono impresentabili nelle società borghesi, alto borghesi e aristocratiche che hanno frequentato ai margini negli anni del loro fulgore professionale. In questo microcosmo, i due protagonisti sono cinici per formazione; perché una prostituta, per quanto divina (più etera che battona) e un figlio di prostituta non possono che essere disincantati, calcolatori e privi d’illusioni per mestiere. Sei anni di armoniosa convivenza e complicità, però, hanno creato un legame profondo e robusto di cui nessuno dei due amanti si era veramente accorto, fino al momento della separazione. Mme Peloux, senza avvisare Léa, combina un matrimonio per Chéri, che lui accetta con allegra e giuliva spensieratezza. Solo per scoprire dopo le nozze che la giovane sposa è acerba e noiosa, una bella barba rispetto all’amante matura, che nel frattempo è scomparsa con eleganza e discrezione. Il ragazzo ha ormai venticinque anni, ma è sempre innamorato di se stesso. Privato di colpo della droga da cui dipendeva senza accorgersene, subisce quella trasformazione che Stendhal in De l’amour chiama «cristallizzazione». L’assenza dell’oggetto del desiderio si trasforma in ossessione amorosa, nella consapevolezza che quella persona è necessaria e non facoltativa al nostro benessere, come si pensava. «Quando una donna matura ha una relazione con un ragazzo giovanissimo, lei rischia meno di lui. In tutte le storie che lui avrà in seguito, sarà marchiato dall’esperienza formativa vissuta con lei e non riuscirà a cancellare il ricordo di quella sua prima amante e del suo sbocciare alla vita accanto a lei», ha chiosato Colette in un’intervista. La dimostrazione di questo teorema si trova in La fine di Chéri (1926), seguito durissimo del primo volume. Sarebbe criminale raccontarlo. È molto meglio scoprirlo vedendo il film di Frears, bravissimo mestierante del cinema che ci ha dato film diversissimi: contemporanei come The Queen e d’epoca e raffinatissimi come Le relazioni pericolose (sempre con la Pfeiffer e John Malkovich). Non li indovina sempre tutti, ma sono difficilmente trascurabili o noiosi. E se il film vi induce a leggere o a rileggere i romanzi della donna che da sconveniente artista di avanspettacolo bisessuale è diventata stimata e onorata accademica di Francia, che nel 1954 ha avuto una folla oceanica adorante ai suoi funerali di Stato, tant mieux.


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poesia

Porta e la sfida della comunicazione di Francesco Napoli on mi importava niente della cosiddetta pars destruens delle avanguardie. A me interessava, e interessa, solo la pars costruens, la ricerca di una forma radicata in ciò che io ero e sono e posso diventare nella e per mezzo della poesia, nel fare poesia, trasformandomi per intero nell’opera, l’unica che conta». A scrivere così è Antonio Porta, nome d’arte di Leo Paolazzi, nato a Milano nel 1935 e del quale ricorre il ventennale della prematura e bruciante scomparsa. Un’occasione per riflettere su un percorso, non solo poetico ma culturale in senso pieno del termine, e su una figura di particolare rilievo in Italia a partire dagli anni Sessanta che, seppur nel manipolo dei poeti novissimi accanto a Sanguineti e Giuliani, Balestrini e Pagliarani, da questi, come dall’esperienza neoavanguardista più in generale, appare oggi distante. Oltre la sua consapevolezza poetica a indurmi a questo inquadramento di non totale assimilazione al Gruppo 63 è anche l’intensa attività di funzionario editoriale per nulla chiuso nella sua enclave culturale, nonché di critico disposto a registrare le voci nuove della poesia italiana di allora. A riguardo basti rammentare che proprio Porta è stato nel 1976, sulle pagine culturali del Giorno, uno dei più entusiasti recensori dell’opera d’esordio di Maurizio Cucchi, Il disperso, certo una raccolta diametralmente opposta all’esperienza e alla poetica della neoavanguardia e che anzi sancisce, insieme al lavoro di Milo De Angelis e Giuseppe Conte in quella metà degli anni Settanta, la definitiva conclusione della stagione neoavanguardista. Come non privo di valore storico-documentario è il suo Poesia italiana degli anni Settanta nel quale registra anno dopo anno, schedandole, le più importanti uscite poetiche di quel decennio fornendo uno strumento critico davvero decisivo per chi voglia guardare a quegli anni con l’occhio della storia.

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I GATTI

Da un’altra stanza mi chiedi che cosa fanno i gatti, un minuto fa urlavano per l’amore ora tacciono nel gelo che ci invade. Ora stai già dormendo, io veglio, in attesa di voci dentro e fuori vivo in controtempo, sospeso.

Antonio Porta da Melusina

I s u o i p r i m i t e s t i poetici li firma anagraficamente Leo Paolazzi e li pubblica riunendoli poi a poco più di vent’anni col titolo complessivo Calendario. Una decina d’anni dopo, nel 1966, mette insieme il lavoro 1958-1964 in I rapporti sotto il nome Antonio Porta, con quel cognome così poeticamente lombardo. Nell’antologia dei Novissimi aveva già fatto la sua comparsa, associato, come già accennato, in un percorso che non sentirà mai suo fino in fondo, mentre aveva solo diciassette anni quando Luciano Anceschi pubblicava Linea lombarda, un’antologia nella quale il critico denuncia la necessità incombente per la poesia italiana di superare la crisi dettata dalla fine dell’Ermetismo e della mancata risposta del neorealismo, attraverso una poesia in re, «nella cosa stessa, nell’oggetto». E In re è uno dei testi più significativi del primo Porta, una sorta di manifesto d’adesione alle teorie anceschiane. La parola diventa in questi versi oggetto

compiendosi così in quel «linguaggio degli eventi», secondo la felice indicazione critica di Giuliani, nel quale il poeta tende di fatto a eliminare il soggetto, riducendo l’io poetico pervasivo attraverso un concatenarsi di accadimenti indicati verbalmente al presente e in versi collimanti in una frase sintatticamente compiuta. Il testo-forma così si snocciola in una serie di fotogrammi inanellati uno dietro l’altro attraverso i quali però, stando a una lettura di Sanguineti, «è sottratta la compiutezza di senso».

E i f a t t i , g l i e v e n t i si susseguono verso per verso: «Lo sguardo allo specchio scruta l’inesistenza,/ i peli del sopracciglio moltiplicano in labirinto,/ l’occhio nel vetro riflette l’assenza, nel folto». La serialità portiana di questi «eventi» così segmentati non riconduce certo a un senso complessivo ma pur nei suoi momenti più sperimentali, in quelli dove sembra maggiormente spingere la sua azione di destrutturazione del significare comune, così come predicato dai compagni di strada del Gruppo 63, Porta non arriva mai alla distruzione totale del significato, al prevalere del significante, «offre piuttosto spezzoni, escrescenze di senso lacerate via drammaticamente dalla facciata del reale», come giustamente ha ricordato Mengaldo. Ma è un testo del 1960, ancor prima dell’apparizione nell’altra importante antologia di quegli anni, I novissimi, specchio della poesia raccolta attorno a parole d’ordine piuttosto che a una convinta poetica d’assieme. Prima o poi quella che Giuliani stesso definiva «l’esatta attitudine narrativa» di Porta sarebbe emersa, non arrivando certo alla costruzione di Pagliarani con La ragazza Carla, così prossima alla formazione di quel romanzo in versi al quale la generazione post neovanguardia pure guarderà con grande interesse riprendendolo e sviluppandolo. C’è dunque un secondo tempo per Antonio Porta, ed è quello testimoniato qui dal testo preso a esemplare. La sfida della comunicazione in poesia, così come la definisce, lo impegna proprio a partire dalla fine degli anni Settanta ed è la prospettiva alla quale guarderà tutta la poesia italiana sorta sulle ceneri della stagione neoavanguardista, insomma è la pars costruens del cammino di Porta che inizia sempre più evidentemente a distaccarsi dal percorso dell’avanguardia. Il componimento riportato, apparso in allegato alla ballata Melusina del 1987, ci mostra un quadro raccolto e famigliare, quasi prossimo ad alcuni slanci del coevo Raboni, con immagini di tepida affettuosità. Il Porta di vent’anni prima ormai è solo un ricordo lontano e l’io, un tempo sepolto dal concatenarsi degli eventi, è qui messo in corrispondenza con un «tu» femminile al quale si rivolge abbandonandosi alla veglia durante il sonno dell’amata vivendo una nuova condizione, anche più propriamente poetica, «in controtempo, sospeso».


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5 settembre 2009 • pagina 13

il club di calliope

UN POPOLO DI POETI non so che dirti ora che la sera alza odori dalla terra e nell’aria brucia l’ultima luce

Dovrai starci per sempre. Ti ho serrato nel mio cuore, ho perduto la chiave e devi accordarti in quel tremore ignoto al mondo, cosa piena di paura, dove creammo parole molte d'amore e lasciammo non dette parole molte d'amore.

abbiamo camminato insieme, spartito il pane e il sonno lungo i sentieri della vita. tanti anni sono passati nel grido disperato dei giorni senza nome. siamo arrivati alla fine. non c’è più speranza che ci resta ma siamo ancora insieme e il sole non è ancora tramontato

Renato Minore

Gerardo Pedicini

Si piega il mare oggi al traino dei corpi o i corpi che ieri falciavano le sue spume

IL LINGUAGGIO DELLA LIBERTÀ

hanno già gettato l’ancora?

in libreria

Antonella Panarello

di Nicola Vacca

na poesia che attraversa la lingua di tutti è l’ipotesi alla quale lavora Carlo Franzini, che dichiara di scrivere versi nella speranza che in essi si riconoscano le persone che ama, la compagna della sua vita, i nipoti, gli allievi del suo corso universitario, gli amici poeti. Da questa premessa di autenticità nasce Liberi tutti (Manni editori, 95 pagine, 11,00 euro). Franzini,

U

ta tenta di dare un ordine alla propria memoria. Scandaglia a fondo le cose, gli uomini e gli affetti, costruisce intorno al verso l’inventario privato del proprio mondo. Per Franzini la poesia è un’irrinunciabile occasione di dialogo. Uno strumento linguistico per mettersi in contatto con gli altri. Queste poesie sono l’alfabeto sentimentale del suo autore. Dalla A alla Z, Franzini passa in rassegna gli eventi, le

Nella nuova raccolta “Liberi tutti”, Carlo Franzini riordina la propria memoria attraverso eventi, emozioni, affetti. Alla ricerca di una poesia che parli a tutti professore di Fisiologia umana all’Università di Bologna, da diversi anni si dedica con grande passione alla poesia. Da autodidatta ha tradotto Pound, Eliot, Thomas Hardy, Cummings. Da non professionista della poesia, la poesia la sente come esperienza interiore, la vive amando e traducendo la poesia degli altri. Il codice di Smirne e Ciglio di Scavo, le sue due raccolte precedenti uscite per i tipi di Book editore, hanno avuto un notevole successo di critica. Liberi tutti è il libro che conferma la riconoscibilità di Carlo Franzini nella poesia italiana contemporanea. In questa poesia dai toni diaristici il poe-

emozioni, resta aggrappato alla forza degli affetti quando scrive per interrogare la vita e le sue difficoltà, essendo consapevole che è difficile conoscere se stessi. Guardando negli occhi il tempo che trascorre, il poeta scopre se stesso rivolgendosi agli altri. «L’hanno assassinato/ sull’uscio di casa./ L’hanno chiamato attacco al cuore dello Stato./ Gli amici nella luce del portico/ leggono versi in memoria./La poesia raduna i ricordi/ accompagna il dolore». Così Franzini ricorda l’amico Marco Biagi. Abbiamo bisogno di poeti che attraversano la lingua di tutti. Per essere davvero uomini liberi.

Nel bus stanno vicine le persone Stanno guardando il mare Vedono le nuvole Aggirarsi frenetiche e piene Di canto e di pane Di sangue e di pece antica E partono i bambini per la scuola Quella sul viale di caldo Sole nel tardo mattino, Ricordo lontano ma sempre Pieno di pace e di nostalgia.

Andrea Freddi

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


MobyDICK

pagina 14 • 5 settembre 2009

mostre

I fasti di Mosca prima (e dopo) A

i Romanov

arti

di Marco Vallora

nostro parere è il sottotitolo ch’è un po’ fuorviante, Moscou, Splendeur des Romanov. Uno pensa: Montecarlo, Forum Grimaldi, Caroline & Alberto (che campeggiano da grandi foto ovunque, come ultimi zar pallidi della Modernità), le frivole uova Fabergé, corone, mitre e velluti. In realtà c’è anche questo, nei quattromila (!) metri quadrati di mostra, come ti rispondono orgogliose le maschere, impettite e trasparentemente russe, putiniane, quando chiedi preventivamente se la mostra è molto grande. In realtà c’è questo e molto altro, nella grande kermesse monegasca, che uno va a vedere un po’ per scrupolo e molto per curiosità, mentre transita per la Costa Azzurra, gremita di mostre una più bella delle altre (di cui ci preoccuperemo di parlare via via, durano molto). Una grande parata d’oggetti, suppellettili, mobili, quadri, fotografie, documentari e abiti, curata da Brigitte de Montclos, grazie ai gran segreti, mai esauribili, dei sottofondi dei musei russi e non soltanto dedicati al mito di Mosca (prima e dopo i Romanov). Certo, ci sono pure le corone, gli ermellini fastosi, che evocano la bianca steppa turgenieviana macchiata di sangue, i troni stile impero e le uova di Fabergé (ma accidenti, che fantasia e che tortuosità di cesellatori, in queste mises en abyme di uova che nascondono galline che nascondono uova e ricchi arabeschi che occultano il volto dello zar Nicola II, a civettare con la consorte) e poi stivaloni istoriati d’oro, per l’incoronazione (curioso confrontarli con quelli diaghileviani e teatrali di Scaliapjn nel Boris Godunov), galloni, spadini e microbiche divise militari per i poveri, forzati tzarevic emofilliaci (ma anche la mitica scarpina della Paplova non era meno minuta, nemmeno un cellulare di oggi!). Certo, c’è questo, di prammatica, e non è nemmeno male passare in rassegna tanto ben di dio ed esubero d’eleganza (ahi, le denutrite masse gorkiane sullo sfondo, va da sé!) ma c’è soprattutto il ritratto d’una città tentacolare (stampe, progetti, vedute) sirena austera come i primi zar, paesani timorati di Dio, che lievita lievita, proprio come quella singolare incrostazione simbolica di stili e di poteri, che è l’iningabbiabile Cremlino. Prima, ovviamente, della delocazione della capitale a San Pietroburgo, per volere di Pietro il Grande e l’invenzione «italiana» di quell’archiettura imperiale, che ha già originato un’ampia esposizione, nello stesso Forum.

Ma non è certo un’ancilla minore, questa Mosca, spesso divorata dal fuoco e sempre risorta, come una solida fenice, dilaniata dalle trame di potere clandestine e dalle secolari lotte religiose, incentrate tutte intorno alla Cattedrale della Dormizione, ingolata dentro il Cremlino, simbolo religioso-architettonico, che qui si tenta vagamente di riprodurre, nella sontuosità della sua iconostasi (décor comme ci comme ça). Insomma, diciamo che non c’è nulla di veramente memorabile, anche nel campo delle più che dignitose, ma un po’ seriali icone (non c’è Rublev, ovviamente). Ma è sempre divertente inseguire i rivoli d’un’iconografia così diversa dalla nostra e spesso inventiva e stramba, vedi per esempio quel polittichino portatile, dove è in atto un altra «messa in abisso», con la storia onnipresente della medesima icona, che stiamo ammirando, ma che racconta la propria genesi e storia, attraverso mari e monti (letterarmente). Oppure la «scandalosa» storia della Trinità (ricordiamoci scismi e Concilii) «rappresentata» da tre angeli banchettanti, seduti alla tavola della Fede. Oltre ai vetri baccarat, alle ebanisterie di origine francese (ma presto i russi imparano più che bene la lezione), a splendidi piviali e casule e a gioielli davvero almanaccati, di Cartier, Fabergé and Company (spesso al collo da cigno di soavissime duchesse del ramo Romanov, fotografate da grandi stilisti dell’obiettivo), una degna parte la fa anche la pittura. Con la scuola degli Ambulanti moscoviti e l’accolita degli artisti d’avanguardia (Larionov, Gontcharova, Exter: presenti anche nell’universo di Diaghilev), che secondo la curatrice «chiuderebbero» la storia di Mosca. E poi un divertente Tolstoi che legge nella foresta. Incuriosisce poi la sezione dei documentari, dove imperatori e granduchesse si piegano paploviani in perenni inchini, e la patetica foto-storia dei principini, spazzati via dalla rivoluzione, con i loro giocattoli sovrastanti, come il destino che li attende. Ci sono anche alcuni scatti del medico di corte Gillot, che assistette al regicidio e ne fu travolto: scatti dolenti e partecipi, peccato non ci siano quelli (già visti al Museo della fotografia di Losanna) sgomentanti, dove Nicola II, talvolta nudo e spettrale, scherza con i propri figli, in sadici giochi, che esalano già un tremendo lezzo di morte e follia.

Moscou. Splendeurs des Romanov, Montecarlo, Grimaldi Forum, fino al 23 settembre

autostorie

Ascesa e caduta delle nostre strade

di Paolo Malagodi bastato un intenso esodo estivo a mandare in tilt, all’inizio di agosto, la rete stradale del Nordest. Con i veicoli in coda per trenta chilometri sul nuovo passante di Mestre, in attesa di confluire su un’autostrada a due sole corsie verso Trieste e la frontiera orientale italiana. A ulteriore dimostrazione, se ancora ve ne fosse bisogno, di come il sistema dei trasporti continui a far difetto, nel nostro paese, di una visione di insieme che accompagni e favorisca una politica delle infrastrutture non solo frutto di scelte episodiche o dettate dall’urgenza. Ma secondo una corretta programmazione che è stata, purtroppo, disattesa negli ultimi decenni e dopo che il Piano generale dei trasporti del 1986 aveva invano ribadito come l’ordinato

È

sviluppo della mobilità di persone e merci sia determinante per la crescita dell’economia nazionale. Temi sui quali ci invita a riflettere Bortolo Mainardi, architetto e studioso di storia e politica delle infrastrutture, che dal 2003 al 2006 è stato commissario straordinario per le grandi opere strategiche del Nord-est italiano. In un libro (Semaforo rosso, Marsilio editore, 240 pagine, 19,00 euro) che ha «il grande pregio di riassumere, in poco più di duecento pagine, la storia e le vicende delle linee di comunicazione in Italia dal V secolo a.C. ai nostri giorni». Come osserva, nella sua prefazione Francesco Cossiga, nel sottolineare che «da decenni il sistema dei trasporti in Italia si è bloccato, nonostante l’incremento della circolazione di genti e di merci nel mondo globalizzato; e tale blocco risulta ancor più grave se

paragonato all’evoluzione avvenuta negli altri paesi dell’Unione Europea e nel resto del mondo». Questione che è al centro del lavoro di Mainardi, con un particolare approfondimento dedicato al tema autostradale. Il cui sviluppo iniziò nel 1924 con la Milano-Laghi, riconosciuta come la prima autostrada al mondo e seguita da altre opere, tra cui la Milano-Bergamo del 1927 e la Milano-Torino del 1932, sino alla Firenze-Mare e alla Padova-Mestre del 1933. Poche centinaia di chilometri cui si aggiunsero, a partire dal 1955, i primi interventi organici del dopoguerra e con l’avvio di un nuovo piano stradale e autostradale: conosciuto con il nome dell’allora ministro dei Lavori Pubblici, come «Piano Romita» e basato su una visione strategica dell’ossatura del paese da Nord a Sud, in un disegno che definiva la priorità dei tracciati autostrada-

li sui quali innestare le altre arterie di collegamento necessarie ai territori attraversati. Stabilendo, altresì, che almeno un quarto dei finanziamenti fosse destinato alle aree meridionali e con l’ulteriore stanziamento di fondi decennali per migliorie e nuove costruzioni stradali al Sud. Una strategia che ha permesso, già verso la fine degli anni Sessanta, all’Italia di possedere «il doppio di autostrade rispetto alla Francia e due volte e mezzo quelle della Gran Bretagna, mentre oggi siamo il fanalino di coda in Europa, dietro anche la Spagna». Con l’accumulo di un ritardo particolarmente grave per le infrastrutture del versante alpino e senza che, negli ultimi trentacinque anni, si sia realizzato alcun valico, né stradale né ferroviario; mentre il solo transito merci è cresciuto, dal 1967 al 2005, di quasi otto volte e da 19 a 150 milioni di tonnellate.


MobyDICK

5 settembre 2009 • pagina 15

moda

Basta col viola! L’ottimismo si tinge di rosso di Roselina Salemi l mio nome è rosso, titolo del libro più famoso di Orhan Pamuk, dove l’inchiostro si mescola col sangue, potrebbe essere lo slogan fashion dell’inverno, la didascalia di molte sfacciate creazioni, pensate per tempi meno tristi, meno spaventati dei nostri. Rosso fuoco. Rosso pompeiano, fragola, cardinale, carminio, qualche sconfinamento nel fucsia. Rosso ciliegia. Rosso lacca. Rosso corallo. Rosso Valentino. Archiviato il viola penitenziale, legato, senza colpa, a una triste stagione di crolli finanziari, la moda autunno-inverno ha riscoperto il rosso, in tutte le tonalità, compresa quella delle foglie d’acero, della vite americana, delle bacche autunnali, fino a un cupo ruggine. Certo, ci sarà molto nero (e anche grigio), ci sono, qua e là, lampi di giallo, ma il colore-guida della stagione, sarà quello delle trionfanti bandiere rivoluzionarie, proprio perché non si vedono rivoluzioni all’orizzonte. Si annuncia una parata di signore in rosso, a cominciare da Penelope Cruz, che ha anticipato tutte, seguita da Kyle Minogue e da Scarlett Johansson. Financial Times ed Herald Tribune hanno scritto che c’era molto rosso anche dopo il crollo di Wall Street nel 1929, anche durante l’austerity degli anni Settanta (colpa del petrolio), segno che la moda, come sempre, trasforma le sensazioni in cappotti, tailleur, abiti da sera. In effetti, non c’è un colore più

I

teatro

impetuoso, più seducente, più capace di rappresentare il desiderio. Può essere bisogno di energia, di ottimismo, voglia di farsi notare, (o ci sarà dietro anche il dilagare delle sanguinose saghe vampiresche?), ma l’inconscio collettivo degli stilisti ha prodotto tessuti

fiammeggianti, dalla seta al cachemire al velluto: l’abito-scialle di Fendi con calza-scarpa intonata, il soprabito a piegoline piatte orizzontali di Dior, il tailleur con la vita stretta da una cintura sottile di Lanvin, che si allunga sotto il ginocchio, il vestitocappottino con zip di Miss Sixty, reso più caldo da uno coprispalle tricot, lo scialle scamosciato di Simonetta Ravizza, la maglia bozzolo di Ferragamo e i pull incendiari di Prada, specialmente se portati con stivaloni da pesca molto sexy e minuscoli short. Da Moschino c’è un fluttuante abito da sera con due pannelli di tessuto cuciti sui fianchi che danno proprio l’idea della fiamma. Per le freddolose è rossa anche la pelliccia: il gilet (Angelo Marani), il giacchino corto (Kristina T.), addirittura il visone. E mentre torna il classico abbinamento grigio-rosso, mentre meditiamo sui tagli anni Quaranta, sull’insistente revival dei Settanta e degli Ottanta, e ci dicono che la crisi sta per finire, la campagna pubblicitaria di Prada sintetizza simboli e stati d’animo: ragazze bellissime e sconosciute (Julia Hafstrom, Ymre Stiekema, Kendra Spears, Katlin Aas e Anna Rijk), con i capelli cotonati e spettinati, sono sedute (perplesse?) su divani galleggianti. Il mare nero (petrolio?) non le spaventa: hanno stivaloni e borse da combattimento, sono abbastanza vestite e guardano avanti. Non ce la farebbero, senza quel tocco di rosso.

L’ultima sigaretta di Simon Gray di Enrica Rosso enza filtri. Già, ma in che senso? Nel senso di una scrittura fluida che scorre mettendosi al servizio delle libere associazioni di pensieri e di ricordi di una grande penna: quella di un certo Simon Gray. Nessuna censura in questo diario intimo e decisamente divertente di un protagonista della cultura inglese del Novecento nella traduzione a quattro mani di Caterina Barboni e Laura Bussotti. Messa da parte l’abitudine di tutta una vita a scrivere per il teatro (è stato uno dei commediografi preferiti da Harold Pinter per le sue messe in scena), siamo di fronte all’ultima tranche de vie di questo inarrestabile uomo avanti con gli anni - sessantasei dichiarati in prima pagina e ritrattati nel corso del libro (per distrazione, non per civetteria) - pieno di vizi e acciacchi, che proprio non ce la fa a non mettersi nero su bianco. E dato che si tratta di un grande, fissa sulla carta con perizia ogni minima sfumatura di un animo inquieto che non cessa di farsi sorprendere dai piccoli sobbalzi del quotidiano esistere. Nella sua intensa vita non si è fatto mancare niente: una vena creativa inesauribile pienamente espressa e declinata in diverse forme di scrittura da cui gli sono derivati numerosi premi, due mogli, un paio di figli, una cagnolina amatissima, due gatti, un significativo quantitativo di alcol ingerito e soprattutto, infinite sigarette. Un grande esploratore mai pago, nutrito da quell’ansia di vivere che lo costringerà fino all’ultimo a ritrovarsi nello specchio della scrittura. «Non sai cosa ti

S

ricorderai esattamente fino a che non cominci a scriverlo. Le memorie sono atti di immaginazione!», da cui un’autoironica scorribanda saggia e densa quanto basta. Storie di vita Una scena di “The Last cigarette” ispirato agli “Smoking Diaries” di Simon Gray vissuta dunque. Una raccolta di spunti inanellati in una scrittura vi- perché in questo caso sei solo quello che scrivi, mai va, libera e giocosa. Certo il signore in questione quello che riscrivi». vanta amicizie importanti con intellettuali illuminati Non pensate però che la temperatura del libro sia (da Alan Bates a Ian Mackillop oltre al già citato Pin- garrula o qualunque, l’uomo Gray coglie perfettater) e questo aiuta quando si dà conto al lettore di mente il senso del tempo che sta vivendo e sa che una tranquilla chiacchierata tra amici, ma di suo ag- l’orologio biologico non si ferma. Nutrito da radici giunge una verve, una capacità di entrare nel vivo profonde affondate nel passato, proteso verso un del discorso con una sorta di complice condivisione ipotetico futuro ma totalmente calato nell’immache incanta. Ogni pagina trasuda onestà verso l’e- nenza di un presente non sempre all’altezza delle ventuale lettore a cui Gray offre - senza filtri - un au- aspettative: ingombrante e gonfio di ricordi. Si aftoritratto, senza ulteriori preoccupazioni di rendere faccia, a volte timoroso a volte sarcastico dal belpiù appetibile l’immagine finale o di correggerla, vedere del tempo che fu, si accende una sigaretta e edulcorandola, (in fondo non ci sarebbe nulla di ma- attraverso la cortina di fumo, si gode quel che resta le, un semplice atto di autodifesa) col Photoshop del- della vita. Insomma: per chi legge è una gioia. Per le mancate verità. «...metto per iscritto questo propo- chi scrive, una scuola. sito, e cioè che non riscriverò mai più niente di quello che scrivo qui, vado avanti e avanti inconcluden- Simon Gray, Senza filtri, Alberto Gaffi editore, 359 te, irriflessivo, spietato e stupido, non ha importanza, pagine, 14,00 euro


pagina 16 • 5 settembre 2009

i misteri dell’universo

MobyDICK

ai confini della realtà

iù volte in queste note abbiamo citato Isaac Newton, che chi scrive ritiene il massimo scienziato noto di ogni tempo, insieme con Von Neumann e Tolomeo. Von Neumann, non amato da Odifreddi che lo vede come un anticomunista sfrenato, va considerato per i suoi risultati in matematica, fisica teorica e applicata ai reattori nucleari in particolare e alla computer science: fu lui infatti a inventare praticamente l’architettura dei calcolatori usata ancora oggi. Notevole anche la sua sapienza storica, se si pensa che lo straordinario libro di storia della cosmologia I sonnambuli fu scritto da Arthur Koestler dopo averlo ampiamente discusso con Von Neumann in molte domeniche passate insieme nell’isola fluviale di proprietà di Koestler. E Tolomeo, di cui ci resta solo una parte della grande produzione, va riconosciuto per il lavoro teorico sul moto dei pianeti via gli epicicli e sulle leggi dell’ottica applicata ai telescopi (dalle quali Roger Bacon ricavò un telescopio trecento anni prima di Galileo), per la straordinaria opera geografica corredata di mappe a noi pervenute, e per la gestione illuminata sia della biblioteca di Alessandria che del Faro, sulla cima del quale, a 112 metri, pose una grande lente supportata da una struttura in acciaio, importato dalla Cina, a prezzo superiore a quello dell’oro (la seta si pagava solo come l’oro, a peso).

P

Newton è ricordato soprattutto per avere inventato il calcolo infinitesimale (fu lui il primo, anche se non pubblicò subito i suoi risultati e noi ora usiamo la notazione di Leibnitz), le leggi della meccanica, con le quali spiegò le tre leggi di Keplero e più in generale diede il modo per studiare l’evoluzione di sistemi arbitrari operanti sotto la forza di gravità, da lui data come dipendente in modo inverso al quadrato della distanza, e le leggi dell’ottica. Poco noto è che a questi problemi di matematica e fisica dedicò solo una mezza dozzina dei suoi oltre settant’anni di vita, concentrando il suo interesse su questioni teologiche (in particolare sul problema trinitario, concludendo che Atanasio avesse falsificato al concilio di Nicea precedenti documenti dei Padri della Chiesa), e su questioni bibliche. Qui si interessò delle profezie, cercando di interpretarle, senza riuscirvi per quanto mi risulta, e della cronologia dei popoli antichi giungendo a considerare la Bibbia come un testo storico essenzialmente corretto. Dedicò a questi temi un’opera, mai tradotta in italiano, che va considerata il capolavoro, sebbene sia ai più sconosciuta e virtualmente mai letta e benché il suo biografo Westfall la definisca come la maggiore penitenza che si possa infliggere a una persona. (E qui non possiamo che definire incomprensibile e scandaloso il fatto che a secoli dalla morte di questo grande le sue Opere complete non siano mai state pubblicate; forse la maggior parte del suo lavoro giace ancora in manoscritti conservati, se non vado errato, parte in Israele e parte in Australia. Cosa c’è da tenere nascosto?). I poteri intellettuali di Newton, assoluta concentrazione e visione a 360 gradi, sono simili a quelli di Von Neumann. Una volta Jacobi gli mandò un difficile problema, quello di calcolare

Dove Newton fallì di Emilio Spedicato la curva fra due punt A e B, A più alto, muovendosi lungo la quale un grave raggiunge B da A nel tempo minimo. Jacobi dubitava che questo problema, risolto da Leibnitz, riuscisse a risolverlo anche Newton. Newton trovò la lettera di Jacobi alle quattro del pomeriggio, rientrando dalla Zecca dove lavorava dodici ore al giorno, iniziando alle quattro di mattina. Si mise al lavoro e a mezzanotte lo aveva risolto in due modi diversi. Rispo-

ma la strada potrebbe essere quella della teoria di Eulero e Le Sage, dalla quale riscoperta Olinto Di Pretto ricavò la famosa legge E = m per c al quadrato, a lui scippata da Einstein. La ragione del fallimento di Newton è che il problema da lui considerato era un problema cosiddetto di meccanica a tre corpi, dove fu poi dimostrata l’impossibilità di una soluzione in termini di funzioni elementari. Questo problema, come quelli a più corpi,

Lo scienziato si spaccò il capo nel cercare una funzione che descrivesse il moto della Luna intorno alla Terra. La ragione per cui non vi riuscì è che si tratta di un problema di meccanica a tre corpi, irrisolvibile con funzioni elementari. Solo l’avvento del computer ha reso possibile affrontare algoritmi complessi se a Jacobi senza firmare, e questi commentò che il leone si riconosce anche solo dalle sue tracce. Ma un problema su cui invano Newton spese i suoi poteri intellettuali fu quello di trovare una funzione che descrivesse completamente il moto della luna attorno alla terra. Ne ricavò solo un terribile mal di testa. Già aveva dovuto rinunciare a spiegare perché due corpi si attraggano, lasciando il problema ai futuri studiosi e dicendo hypotheses non fingo. Problema che è essenzialmente ancora aperto, non certo risolto dalla relatività generale,

fino a milioni o in prossimo futuro, trilioni di corpi, può essere solo affrontato iterativamente, con algoritmi complessi implementati su un computer.

Prima dell’avvento dei computer, matematici e astronomi cercarono comunque di ottenere almeno una soluzione ben approssimata usando le sofisticate tecniche dell’analisi matematica sviluppate da grandi come Eulero, Clairaut, Laplace, Meyer, Plana e Hill. Particolarmente importante il lavoro dell’astronomo americano George

William Hill, che introdusse un’ equazione per il moto della Luna e diede tecniche per un buon calcolo delle soluzioni, via lo sviluppo dei cosiddetti determinanti infiniti. Hill fu il primo matematico in assoluto a introdurre equazioni, lineari, in numero infinito, con infinite variabili, poi emerse naturalmente in molti altri problemi. Questo suo contributo fu assai apprezzato da uno dei massimi matematici di ogni tempo, Poincaré, che curò l’edizione delle opere complete di Hill. Nell’ambito dei lavori di Hill appare anche la cosiddetta sfera di Hill, regione attorno a un pianeta dove la forza gravitazionale di questo domina quella della stella centrale.Tale sfera di Hill è entrata in gioco nello scenario della cattura della Luna da parte della terra, assumendo che la Luna si avvicini e sia frenata sufficientemente da una estesa atmosfera terrestre (altrimenti la cattura non può avvenire). Ebbene si è trovato, mediante simulazione al computer effettuata da astronomi giapponesi, che una volta che la Luna sia entrata in tale sfera, tre cose possono capitare: sfugge da una finestra nella sfera; si schianta sulla terra; entra in orbita, che presto diventa un’orbita circolare. Questa è una delle poche teorie sull’origine della Luna esistenti ora nella letteratura. Più interessante e relazionabile a memorie mitoreligiose è invece la teoria di una cattura in un sistema non a tre, ma a quattro corpi. Ci ritorneremo.


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