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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Napoli tra letteratura e stereotipi

SOTTO IL VESUVIO NIENTE

9 771827 881301

ISSN 1827-8817 90718

Parola chiave Guerra di Sergio Belardinelli Gli illusionismi di David Bowie di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Alfonso Gatto a cent’anni dalla nascita di Francesco Napoli

di Pier Mario Fasanotti

iamo davvero sicuri che il cantante e il dolore più lacerato, tutmare bagna Napoli? Questa te queste voci erano così saldamenfrase, con il negativo (ossia: te strette, confuse, amalgamate tra «non bagna»), era il titolo che loro, che il forestiero che giungeva Anna Maria Ortese dette alla sua in questa città ne aveva una impresraccolta di racconti, uscita nel 1953 sione stranissima, come di una ore riproposta da Adelphi nel 1994. In chestra i cui istrumenti, composti di uno di essi c’è la piccola napoletana anime umane, non obbedissero più Eugenia cui finalmente la madre alla bacchetta intelligente del Maecompra un paio di occhiali così da stro, ma si esprimessero ciascuno farle vedere i contorni nitidi della per proprio conto suscitando effetti realtà, «una vera rivelazione: il di meravigliosa confusione». Tuttamondo, fuori, bello, bello assai».Tra via molti scrittori, quando parlano le future scoperte di Eugenia c’è an- di Napoli, paiono sempre inforcare che il mare, «pulito, grande». Dopo occhiali da Luna Park e scivolare in la prova generale in un negozio di una sorta di miopia onirica. Ma al via Roma, in centro, l’acquisto delle contrario della piccola Eugenia che lenti in vicolo della Cupa, ma gli oc- giudica intollerabile il reale, le lenti chiali, qui, le mostrano non la bel- letterarie alla fine imbrogliano le lezza di Posillipo o della scogliera di carte. La vera letteratura napoletavia Caracciolo bensì la sporcizia na, osserva il critico Giulio Ferroni, delle strade, «il selciato bianco di «sta invece in una perpetua polemiacqua saponata, le foglie di cavolo, i ca nei confronti della realtà». pezzi di carta, i rifiuti e in mezzo a Raffaele La Capria, autore di quel capolavoro che s’intitola Ferito a un cortile un gruppo di cristiani morte, ragiona lucidamente su cenciosi e deformi, con visi questa realtà vischiosa e butterati dalla miseria e paragona appunto dalla rassegnazioSecondo Napoli, la sua ne». Eugenia Raffaele La Capria città, a trema, ha «una voglia la città è una “carta

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moschicida” da cui bisogna allontanarsi per poterla raccontare. Come fa Erri De Luca che quasi la sorvola per descriverne le caverne geologiche e morali. Due autori carta di voliberi dal giogo moschicimitare, la partenopeo ... da». Dalla quamadre le strappa via gli occhiali. La Ortese, con questa sagace metafora, descrive la non mai infranta contraddizione di una città dove il mare, simbolo dell’infinito e del possibile rinnovamento, pare un baluginio soltanto, un’illusione che viene frantumata dalla muraglia di palazzi e della povertà estrema che si raggruma in borgo decrepito e vociante. Nel ventre partenopeo rimane tale e quale da secoli una letteratura avvinghiata alla macchietta, alla caricatura, alla lagna dell’autocompiacimento (e dell’auto-assoluzione), all’impossibilità di spiccare un volo «europeo». È la vita descritta sempre dal basso, di sbieco, ripetitiva e retorica. Le eccezioni sono poche. «Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale», racconta la Ortese in uno scritto autobiografico. «Qui tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più

Quattro passi tra le nuvole di Orio Caldiron La leggenda di Notorius Big di Francesco Ruggeri

le bisogna allontanarsi. Nella trilogia intitolata Napoli, riproposta ora da Mondadori (478 pagine, 14,00 euro) ricorda la lirica disperazione di alcuni suoi concittadini.Tra cui quella di Luigi Compagnone che si riferiva spesso alla claustrofobia descritta da Kafka: «I suoi eroi possono solo aspettarsi la sconfitta, mentre anche noi, come loro, non possiamo credere al cielo, ma all’inferno sì». E in una poesia accenna a «un’antica nevrosi plebea», condanna di una città «senza grazia». Spiega La Capria: «Senza grazia voleva dire per lui non solo sgraziata, ma anche sans merci, e cioè spietata, che non perdona». Compagnone amava visceralmente Napoli: «perché amo la fine del mondo, questa fine/ che qui non finisce mai/ come il prolungarsi di un vizio».

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Pellis & Chiaramonte l’eterno nell’istante di Marco Vallora


sotto il vesuvio

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niente

La nouvelle vague da Saviano a Pascale di Filippo Maria Battaglia he ne è stato di quella rinascita del Sud «che alla fine del secolo scorso appassionò sociologi, antropologi, storici, economisti, artisti e critici?». La domanda non è inedita. Al contrario: è ormai entrata a far parte del birignao politicamente corretto, tornando in voga con gli scandali che il Mezzogiorno deve affrontare ciclicamente (vedi, da ultimo, l’emergenza rifiuti campana). In pochi, fino adesso, ne hanno però analizzato le ricadute su un aspetto solo apparentemente secondario, e cioè l’universo letterario. A porsi ora la domanda è Daniela Carmosino in un agile libretto mandato in stampa per i tipi di Donzelli (Uccidiamo la luna a Marechiaro, 194 pagine, 17,50 euro). Poco meno di duecento pagine che passano in rassegna il pianeta delle belle lettere meridionali del XXI secolo, quello insomma di chi ha mosso i primi passi «come giovane esordiente negli anni Novanta, partecipe, dunque, di alcune esperienze che determinavano una documentabile consonanza di prospettive, obiettivi, tematiche e modalità di rappresentazione». Ampio spazio è dedicato ai più giovani scrittori partenopei, all’exploit commerciale di Roberto Saviano e alle pagine di narrativa di Antonella Cilento. Le conclusioni cui arriva la Carmosino non sono affatto scontate: la nuova leva di narratori pare ormai svincolata dagli stereotipi di un Sud percepito o come paradiso turistico o quale inferno senza redenzione. Addio dunque alla pizza, al mandolino e alla solita iconografia che per troppi anni ha versato una melassa malmostosa sulla produzione narrativa meridionale. Al loro posto, un atteggiamento più scapigliato e in qualche modo più consapevole nei confronti della propria eredità culturale. «Da un lato - scrive la Carmosino - osserviamo sia la

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segue dalla prima Sotto quel perenne «sole mio» sono venuti i soprusi, la peste, la morte, la camorra, la rassegnazione, la retorica. La Capria riflette sul carattere ombrosamente lucido di Compagnone, e ricorda di avergli detto che ci doveva essere «uno scatto di immaginazione… per rifarsi un cuore mondiale… ma lui ricadeva sempre nel suo brodo primordiale, nel suo perenne litigio con la sua città matrigna, nelle sue maniacali teorizzazioni e classificazioni». Compagnone se la prendeva, in special modo, con quelli che andavano via da Napoli (La Capria si trasferì presto a Roma, scampando così alla prigione torturante della «carta moschicida»), per esempio Antonio Ghirelli e Patroni Griffi. I disertori, lui li chiamava, convinto che se uno volesse scrivere della città, lì doveva restarci, «in questa Stalingrado assediata», magari come l’insettone di Kafka che una volta era uomo. Metteva però a parte il rancore personale e ammetteva che i napoletani non avevano «mai» visto il mare, non sapevano cos’era la Bellezza della Natura (questo scrisse in polemica con Moravia che come al solito schematizzava tutto senza afferrare il nucleo profondo delle cose, soprattutto quelle altrui). La Capria fa un discorso più generale, valido per qualsiasi artista, affermando che «il populismo dei bassi» è progressista nei propositi e conservatore nella sostanza, che il ventre di Napoli non è l’unico ombelico del mondo.

Nella nuova prefazione della trilogia Napoli, La Capria asserisce che uno deve allontanarsi da quella città: «La distanza può essere un vantaggio, ma spezza il contatto quotidiano e immediato con la città, non se ne sente più l’incombere, si attenua il sentimento di odio e amore che suscita in chi ci vive. Si crea insomma una certa indifferenza, non priva di rimorso, che può anche essere utile allo scrittore se fa un uso critico di questa distanza». Guai allo scrittore però che rimane, e sempre, sopra questa carta moschicida. Raccontare Napoli, ma da lontano: «Dovrebbe sapere questo scrittore che il racconto che se

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

distanza dalla tradizione dei “classici” meridionali (che nutrono, però, il più delle volte senza una vera consapevolezza, le pagine e le posizioni teoriche dei narratori del nuovo Sud) sia l’esibita presa di distanza dalla produzione meridionale della generazione immediatamente precedente e in alcuni casi coeva; dall’altro, è evidente lo Roberto Saviano sguardo rivolto alla narrativa straniera, prevalentemente contemporanea e prevalentemente anglosassone o statunitense». La nuova narrativa nasce dunque da un radicale riposizionamento nel panorama letterario, non solo nazionale. Il risultato è una ridda di interpretazioni sperimentali - talvolta appassionanti, talvolta solo velleitarie - che coinvolgono un po’ tutto: dalle «risorse, alle modalità rappresentative, alle tecniche, alle tematiche di un’intera tradizione anche letteraria, anche italiana e anche specificatamente meridionale». Certo: parlare di «piccola rivoluzione culturale che investì il Sud d’Italia intorno agli anni Novanta» è forse un po’ troppo. Eppure, i fermenti di un nuovo modo di intendere e di approcciarsi alla realtà, grazie alla preziosa mediazione della pagina scritta, restano comunque tra i segnali culturali più incoraggianti dell’ultimo quindicennio.

ne fa è di importanza fondamentale perché dietro il racconto che finora ne è stato fatto, Napoli si è nascosta, e lì dietro ha vissuto per un tempo interminabile, soddisfatta delle tante false immagini di sé». La monnezza per esempio, e il dramma social-politico del 2007. Come se i rifiuti fossero calati dal cielo, all’improvviso. In un racconto a forma di taccuino (L’occhio di Napoli, 1992-1993) La Capria scriveva con un piglio che solo in apparenza si propone come profetico stando a significare che le tribolazioni partenopee sono incistate come patelle agli scogli: «Esci dalla mostra e dal convegno e ti trovi con sdegno in una strada così lontana dalla cultura (a causa della lordura) che inevitabilmente sei portato a pensare: ma non sarebbe meglio, in nome della cultura cominciare prima a pulire il vico e poi a occuparsi del Vico?». C’è però chi rimane dentro il «ventre» e scrive Gomorra. Certo, questo non è un romanzo, semmai un reportage, ma la valenza descrittiva di Roberto Saviano non va svilita in classificazioni. Il regista dell’omonimo film, Garrone, a proposito delle «Vele» del brutto e insano quartiere di Scampia, ha detto: «In Francia ho visto tanti edifici come le Vele, stile Le Corbousier, ma puliti, ordinati, dove si viveva bene». E allora? La colpa evidentemente non sta solo o soprattutto nel degrado dell’edificio, ma anche in chi ci abita, dei rassegnati a vivere in quelle tremende condizioni di girone dantesco. Ma come si esce da una situazione irredimibile? Con un salto di mentalità. Con l’apertura all’«altro» (operazione faticosissima per i napoletani ossessivamente partenocentrici), con il superamento del pensare sempre di essere come si è, e compiacendosene, con l’uscire dalla chiusura del dialetto, «la tanto strombazzata difesa della propria identità». A parere di chi scrive questo articolo, sono pochi gli scrittori napoletani che escono dall’«acquario» delle piccole identità, che fanno il balzo oltre la vasca e raggiungono il mare, accorgendosi che il mare può davvero bagnare Napoli, come l’oceano accarezza Lisbona.Tra i pochi, anzi rarissimi, è doveroso parlare di Erri De Luca, il cui ultimo romanzo, Il giorno prima della felicità (Feltri-

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

nelli, 133 pagine, 13,00 euro), non si schioda da mesi dalla classifica dei più venduti. De Luca, per sua convinzione, ha deciso di non partecipare ai premi letterari. Sicuramente ne avrebbe vinti tanti. Un romanzo breve, affilato e intenso, di altissima qualità. Certo, parla di Napoli (nei giorni della guerra e della rivolta contro i nazi-fascisti), ma lo fa staccandosi da terra, volando sopra la città pur descrivendone le caverne, geologiche e morali. È la storia di un ragazzo (e di un padre che viene cercato continuamente) tra la «guapperia» e la bontà che s’annidono tra i quartieri degradati, un giovane che si emancipa con il sapere («la mia testa imparava a prendere la luce dai libri»), che osserva la città ancora più slabbrata dalla confusione social-politico-militare, occasione per essere furbi, puttane, falsamente umili. A volte arrabbiati. E De Luca ha il coraggio di radiografarla da ogni angolo di visuale: «L’ho capita allora la città: monarchica e anarchica.Voleva un re però nessun governo. Era una città spagnola. In Spagna c’è sempre stata la monarchia ma pure il più forte movimento anarchico. Napoli è spagnola, sta in Italia per sbaglio».

De Luca smaschera i comportamenti senza abboccare alla tentazione del macchiettismo che si piega su se stesso e lì rimane, magari con la tentazione di far ridere, alla De Filippo, come se si vivesse sempre sul carretto di un burattinaio di strada: «La prima cosa di un povero coi soldi è comprarsi un vestito. Si mette addosso una stoffa buona e si crede un’altra persona». Il mentore del ragazzo è don Gaetano, un portinaio colto, che così riassume la sua lezione di vita: «Non ti mortificare davanti a nessuno. Sei roba buona e devi farti valere». È una Napoli dove c’è il vent (detto così, il vento è ancora più penetrante e inafferrabile), ma anche il sang, realtà da cui non si può prescindere, ieri come oggi. Da qui «le indurite collere». Ma don Gaetano rappresenta la segnaletica morale: «Col sangue tuo puoi fare quello che vuoi, con il sangue di un altro, no». De Luca è uno di quelli che hanno lasciato la città natale. In una rara intervista ha detto: «È una città vitalissima, ma troppo agitata».

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parola chiave

a guerra è la continuazione della politica con altri mezzi»: questo il celebre dictum di Karl von Klausewitz, che per molto tempo ha fatto un po’ da filo conduttore ai nostri discorsi sulla guerra. Ma l’ideologia totalitaria, prima, e il terrorismo, poi, ne hanno trasformato radicalmente i connotati. Una politica incapace di riconoscere la dignità del «nemico» non può che puntare al suo annientamento. La politica e la guerra finiscono così per non avere più «limiti». Tutto è permesso, se serve allo scopo. Di qui il problema serissimo, che ci assilla almeno dall’11 settembre del 2001, riguardo a come difenderci da un nemico che ci vuole annientare.

«L

A questo proposito credo che sia importante sgombrare subito il campo da una possibile tentazione: quella di pensare che la guerra al terrorismo, pur di vincerla, debba essere condotta usando qualsiasi mezzo, tortura inclusa. Si tratta infatti di una tentazione che noi occidentali non possiamo permetterci. La nostra politica, la politica di un paese liberaldemocratico, ha dei «limiti» che non possono essere mai dimenticati, nemmeno in guerra. Non mi piace insomma l’idea di vivere in un mondo, il nostro mondo occidentale, che per sopravvivere, per restare più o meno ciò che è, perde di vista i motivi che lo rendono migliore degli altri; certamente migliore, poniamo, del mondo che hanno in mente i terroristi fondamentalisti. Mi piace moltissimo, invece, anche se non stiamo parlando di una guerra convenzionale, il fatto che i nostri ordinamenti giuridici prevedano, non soltanto uno jus ad bellum, il diritto di fare la guerra, ma anche uno jus in bello, il diritto che dovrebbe impedire che la guerra si trasformi in qualcosa di assolutamente disumano. Tutto ciò mi piace moltissimo anche se naturalmente non sempre garantisce che in nome della ragion di Stato non si superino i limiti del lecito, che si dica poniamo che, sì, abbiamo fatto qualcosa di aberrante, ma lo abbiamo fatto per un bene superiore. Come scrive Raymond Aron, in una pagina molto bella, «la guerra rischia sempre di spazzare via le norme legali o convenzionali cui normalmente è soggetta. Per lo più il combattente conosce i mezzi che l’avversario prevede di impiegare, nonché le conseguenze della sconfitta. Ma gli usi o le leggi di guerra restano fragili e precari, giacché l’efficacia di un nuovo procedimento può sconvolgere le tradizioni.A volte la scoperta di un’arma nuova, a volte l’entità della posta in gioco inducono i belligeranti a superare i limiti o a violare le “leggi”. La guerra si avvicina alla violenza radicalmente asociale, senza peraltro eguagliarla mai, come pure essa non è mai“legalizzata”a titolo pieno e definitivo». La guerra scatenata dal terrorismo islamico fa temere seriamente che le nostre «leggi di guerra», le nostre distinzioni tra jus ad bellum e jus in bello, le nostre «norme legali e convenzionali» come le chiama Aron, i nostri tabù più profondi siano ormai sorpassati. Sembra davvero che siamo entrati nel momento del più radicale nichilismo, nel momento della violenza condotta all’estremo. Come ha mostrato René Girard, gli attentati suicidi rappresentano un vero e proprio mondo alla rovescia, «un’inversione mostruosa dei sacrifici primitivi: invece di uccidere delle vittime per salvarne

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GUERRA Il terrorismo islamico ne ha trasformato i connotati, compromettendo il senso del limite e le leggi che la regolano. Cosa inaccettabile per la nostra tradizione liberaldemocratica. Occorre perciò tornare a ripensarla considerandone la vera essenza: la pace

L’eccezione della politica di Sergio Belardinelli

Contrariamente a quanto pensava Carl Schmitt, il sovrano non è semplicemente colui che decide sul “caso eccezionale”, bensì colui che riesce a evitare che l’eccezione diventi la regola. E la regola aurea dell’uomo di Stato è agire per il bene comune, nell’interesse di tutti e non del gruppo a lui più vicino delle altre, i terroristi si uccidono per ucciderne altre». Eppure non possiamo permetterci di assecondare questa logica, rinnegando noi stessi. Abbiamo secoli di tradizione umanistica che ce lo impediscono. Con l’apostolo Paolo si potrebbe dire non sunt facienda mala ut veniant bona. Punto. D’altra parte è pur vero che il terrorismo jahadista non si combatte con una cultu-

ra buonista e pacifista che sembra escludere a priori la stessa possibilità della guerra come risposta adeguata a un nemico che ti vuole annientare. Meno che mai lo si combatte chiudendo gli occhi sulla natura assolutamente «eccezionale» della minaccia terroristica e sulla sua capacità di volgere contro di noi le libertà e le tutele giuridiche che ci siamo faticosamente conquistati. Dobbiamo piutto-

sto ritornare a «pensare la guerra», senza dimenticare che, anche in queste situazioni limite, abbiamo pur sempre gli strumenti culturali e istituzionali per stabilire quando si agisce bene, diciamo pure, quando si agisce per la sicurezza dello Stato, quindi di tutti, e quando si agisce invece per inconfessabili interessi di bottega. In ultimo è questa la vera regola aurea dell’uomo di Stato. Nelle decisioni che prende, egli deve seguire non tanto e non solo i propri interessi o quelli del gruppo a lui più vicino, bensì quelli della comunità sulla quale governa; deve seguire insomma il bene comune, anche quando tutto ciò implica che si prendano decisioni difficili, tragiche; decisioni che, come nel caso in cui si dichiara una guerra, sembrano entrare persino in conflitto con il bene comune che si persegue, ma che non per questo possono essere eluse. Non fosse altro per le vittime innocenti che la guerra porta inevitabilmente con sé, c’è un elemento di irrazionalità che caratterizza ogni guerra: l’irrazionalità tipica della violenza. È per questa ragione che anche una «guerra giusta» fatica a farsi riconoscere come tale. La guerra esaspera, se così si può dire, la zona grigia che sempre avvolge la politica e le vicende umane in generale, ma non per questo rende insensata la nozione di «guerra giusta» o l’idea che anche in guerra esistano limiti che non possono essere valicati e diritti da salvaguardare. Soprattutto direi che proprio la guerra rivela la vera essenza della politica, ossia la pace.

Se ci pensiamo bene, nessuna guerra presuppone di durare all’infinito; per quanto cruenta, traspare in ogni guerra la tendenza a una futura pacificazione. È per questo che la guerra ha sempre bisogno di essere giustificata. La guerra esprime l’«eccezione», non la «normalità» della politica. Di conseguenza, contrariamente a quanto pensava un autore importante come Carl Schmitt, il sovrano non è semplicemente colui che decide sul «caso eccezionale», bensì colui che riesce a evitare che l’eccezione diventi la regola. Ancora in disaccordo con Schmitt, si potrebbe aggiungere che definire ciò che è «politico» secondo il famoso schema amico-nemico equivale a cogliere soltanto l’eccezione e forse addirittura la degenerazione del «politico», se per politico intendiamo l’ambito nel quale i molti cercano consensualmente un compromesso onorevole tra diversi interessi, garantiti in questa ricerca da istituzioni unanimemente riconosciute. In altre parole, a voler tirare la corda nella direzione indicata da Schmitt, potrebbe non essere così assurda la dedica che un amico, generale dell’esercito di idee liberali, una trentina d’anni fa, facendomi dono di Vom Kriege, ha voluto scrivere, forse in un momento di sconforto, sul retro di copertina dell’opera di Clausewitz: «La politica è la continuazione delle guerra con mezzi uomini». L’essenza della politica è invece la pace, così come l’essenza della pace è la politica. Il giurista e filosofo tedesco Dorf Sternberger ha scritto in proposito pagine molto importanti. Certo si tratterà sempre di una pace precaria, una pace che a volte richiede addirittura che si dichiari la guerra. Ma la pace assoluta è un concetto escatologico che non appartiene a questo mondo, al mondo che abitiamo. A meno che non si pensi, come ammoniva Kant, alla pace dei cimiteri.


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cd

musica

Bowie, l’illusionista di Stefano Bianchi on c’è, ma chiacchiera manco fosse uno stand-up comedian. Non incide un disco da un’eternità, eppure se le canta e se le suona che è un piacere. Miracoli di David Bowie. Ultimo domicilio (pop) conosciuto: Reality del 2003. Con codazzo di fan che un anno dopo l’altro si preoccupano, protestano, alla fine si rassegnano. L’ex Duca Bianco non è più nemmeno quello. È un fantasma che ogni tanto s’intrufola nel web con la sempre giovane moglie

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ratta il paradosso della propria assenza con dischi-déjà vu: una compilation di successi di qua, una ristampa con qualche inedito di là e vai col back catalogue. Ultimo in ordine d’apparizione, VH1 Storytellers. Paghi uno, porti via due: lo ascolti in cd e poi lo vedi su dvd. I «bowiani» sbuffano, ma alla fine gongolano poiché la classe (seppur vintage) non è acqua. 23 agosto 1999, Manhattan Center di

New York: l’artista londinese partecipa al programma tv lanciato tre anni prima con i micro-concerti confidenziali di Ray Davies e di Elvis Costello. C’è da promuovere hours…, l’album dell’imprevedibile quiete dopo la tempesta; del nobil pop, dopo le sperimentazioni di Outside e il drum & bass di Earthling. Dal nuovo repertorio, sceglie solo due brani: Thursday’s Child (soul music a puntino) e la ballata Seven giostrata sull’acustico. Il resto lo pesca con mestiere dal passato, introducendo ogni canzone con aneddoti, memorie, battute. Davanti alle telecamere, accompagnato da Reeves Gabrels e Mark Plati (chitarre), Gail Ann Dorsey (basso), Mike Garson (pianoforte), Sterling Campbell (batteria), Lani Groves e Holly Palmer (cori), un più che impeccabile Bowie si mette a snocciolare per voce e piano la struggente Life On Mars di prima che di-

Iman - complice qualche paparazzo che scatta foto agli happy hour - ma è scomparso dalle scene. Al contrario di Lou Reed e Iggy Pop, vecchi marpioni che almeno scrivono pezzi, li cantano e se capita li portano anche in tour. Bowie, invece, non c’è ma c’è lo stesso. Che illusionista! Ba-

ventasse un efebico glam boy fra una navicella spaziale e un tocco di make up; ghermisce il pubblico adorante con una muscolare ma troppo breve Rebel Rebel; fila nella notte dei tempi (’66) col beat di Can’t Help Thinking About Me, incisa come David Bowie & the Lower Third quando nessuno se lo filava; fa partire China Girl (anni Ottanta, epoca Let’s Dance; ma intonata prima dal coautore Iggy Pop) come fosse Somewhere Over The Rainbow per poi strattonarla a colpi di rock; dà solo un assaggio del glam rock che fu con l’ancheggiante Drive-In Saturday e chiude facendo il crooner con una delle sue più belle melodie in assoluto: Word On A Wing. Ma se dopo aver ascoltato il cd vi concentrate sul dvd, scoprirete che agli otto si aggiungono altri quattro pezzi: Survive, I Can’t Read, Always Crashing In The Same Car e If I’m Dreaming My Life. Quasi tutto bello, caro David Bowie. Ma deciditi a battere un colpo, prima o poi. David Bowie, VH1 Storytellers, Emi, 23,90 euro

in libreria

mondo

riviste

LA DOPPIA “F” DEL ROCK

THE LAST KISS

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clettici in bilico tra new wave e funk, brit pop e lezione beatlesiana, i Franz Ferdinand sono il gruppo alternativo del momento. Helen Chase ne raccoglie storia, intenzioni e paradigmi sonori in Franz Ferdinand dalla A alla Z (Arcana, 192 pagine, 24,00 euro), originale monografia dedicata alla band scozzese fondata nel 2003 dai due amici Alex Kapranos e Robert Hardy insieme al

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opo la succosa anteprima fornita in marzo alla giornalista statunitense Karen Bliss, Gene Simmons conferma che a settembre arriverà dopo undici anni un nuovo album dei Kiss. E se è ancora ignoto il titolo del lavoro che sarà il successore del fortunato Psycho circus, (voci vicine al gruppo riferiscono che sarà 360), si conoscono tuttavia i nomi di quattro brani che fini-

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Helen Chase indaga il fenomeno della band scozzese in una monografia dalla A alla Z

A undici anni da ”Psycho Circus”, Gene Simmons annuncia il ritorno della storica band

Mirabassi gira l’Italia con il suo ”Canto d’ebano”, nuovo album jazz ad alta qualità

pianista e chitarrista Nick McCarthy, che già due anni prima prestò il suo appartamento ai primi vagiti rock del gruppo. Compilata in progressione alfabetica, l’opera della Chase affida a ciascuna lettera che titola il lemma di riferimento un pezzo di racconto del trio di Glasgow. Un viaggio che ne ripercorre influenze, percorsi artistici e biografie, e che tocca inoltre importanti elementi del fenomeno Ferdinand: il web, i video, i rimissaggi, la galassia indie attorno a cui hanno fino a oggi gravitato. Corredato da foto di qualità e immagini, il lavoro dell’autrice coglie tutta la modernità di una band radicata nel suo tempo, eppure fuori da tutti gli schemi.

ranno nella tracklist dell’inedito. Oltre al confermato Rotten to the core, la band americana che vanta al suo attivo 22 dischi d’oro e 85 milioni di album venduti in tutto il mondo, includerà in scaletta Modern day Delilah, Stand e Russian roulette. «Undici canzoni in stile anni Settanta ma con effetti moderni», dice Simmons sibillino. Prodotto da Paul Stanley, la creatura del redivivo gruppo hard rock è chiamata al difficile compito di rinfocolare gli entusiasmi suscitati dal grande ritorno di dieci anni fa, cui è seguita una lunga serie di concerti live a zonzo per il Pianeta.

no reduce da una nomination agli Italian Jazz Award come miglior esecutore, potrà essere ascoltato quest’estate dal vivo in numerose e suggestive location della Penisola e non solo. Un programma intenso che lo vedrà esibirsi in trio con Peo Alfonsi e Salvatore Maiore. Il tour, secondo quanto riferisceinsound.it farà tappa il 29 luglio a Perinaldo (Im), l’8 agosto a Tolè (Bo), Monte della Croce Madonna delle Nevi, in solo; il 14 ad Altdorf (Svizzera); il 18 a Mezzocorona (Tr), Monte di Mezzocorona, nell’ambito di I suoni delle Dolomiti, il 30 a Salgareda (Tv) e l’11 settembre al Teatro di Crema - Fondazione San Domenico, insieme ad Alfred Kramer.

a cura di Francesco Lo Dico

IL CLARINETTO DI GABRIELE i chiama Canto di Ebano il nuovo disco che Gabriele Mirabassi, clarinettista jazz che vanta collaborazioni con Gianmaria Testa, Marco Paolini, Mario Brunello ed Erri De Luca, ha inciso in omaggio al pregiato legname da cui viene ricavato lo strumento a fiato, ancora oggi costruito secondo dettami artigianali. Pubblicato per l’etichetta Egea, il lavoro dell’artista perugi-


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zapping

MILANO BIGOTTA e Roma caciotta di Bruno Giurato l concertazzo degli U2 a Milano è stato quello che è stato, un magnifico campionario di un magnifico repertorio dove la cosa che fa notizia sono stati i decibel. Gli U2, per quanto autorizzati, hanno sforato il limite del rumore. Accadimento che in una città come Milano provoca polemiche. Già l’anno scorso il fatto che Bruce Spreengsteen avesse prolungato il concerto di ventidue minuti rispetto a quanto stava scritto sui documenti ufficiali aveva provocato un avviso di garanzia a Claudio Trotta, l’impresario italiano del boss. E infatti Springsteen quest’anno a Milano non ci va, va a Roma (19), Torino (21) e Udine (23). Ora qui non vogliamo polemizzare, ma anche sì. Con tutti i rumori non autorizzati e quelli sì davvero molesti che travolgono il quotidiano cittadino prendersela con i concerti è un chiaro transfert. Mi becco una giornata sana di lavori stradali sotto la finestra e alla fine me la prendo col musico che suona troppo e troppo forte. Meccanismo antropologico sacrificale anche troppo chiaro. Siamo sicuri che se René Girard avesse scritto di rock ne avrebbe parlato. Ma sempre in tema di schiamazzi e tum tum notturni la notizia è un’altra. La leggiamo su Repubblica di qualche giorno fa, nella pagina della posta. Un lettore si lamenta che il Gay Village ogni giorno va avanti con la discoteca fino alle quattro di mattina e tiene sveglia tutta l’Eur. Ma sarà Roma caciotta dove ogni rumore si stempera in sogni alla pajata, sarà la politically correctness, nessuno proprio nessuno si lamenta, a parte il lettore solingo di Repubblica. Niente comitati di cittadini, niente avvisi di garanzia, niente di niente. In questo caso il meccanismo sacrificale non scatta. Ebbene sì: pajiata + politically correctness, basta così poco per una pronta civilizzazione dell’uomo occidentale.

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classica

L’Amarcord di Bartoletti a Firenze di Jacopo Pellegrini e fonti ufficiali gli accreditano 56 anni di carriera; a sfogliare la cronologia del Teatro Comunale si scopre però che già dal 1950 calcava il podio nelle serate di balletto. Il che farebbe 59 anni di carriera direttoriale per Bruno Bartoletti, giacché è di lui che stiamo parlando. Nato a Sesto Fiorentino 83 anni fa, da poche settimane cittadino onorario del capoluogo toscano, è qui ch’egli ha compiuto gli studi musicali e si è formato professionalmente, prima come flautista, maestro sostituto, direttore musicale di palcoscenico, infine come direttore stabile dell’Orchestra del Maggio musicale, dal ’57 al ’64. E anche in seguito non ha mai mancato di gettare l’ancora in riva all’Arno, alternando il repertorio consueto alla ripresa di titoli obliati e, soprattutto, alla diffusione di lavori novecenteschi (Berg, Prokof’ev, Sostakovic, Penderecki, Berio). Sebbene abbia frequentato con assiduità le sale da concerto, Bartoletti ama definirsi, con orgoglio e allegrezza piena, un direttore d’opera. E tale lo qualificano gli spettacoli a centinaia proposti in giro per il mondo, da Chicago (50 anni di presenza continuativa, anche come direttore musicale e artistico) a Monaco di Baviera, da San Francisco a Copenhagen, da Buenos Aires a Zurigo, e ovunque in Italia. Il programma preliminare del 72° Maggio, testé conclusosi, prevedeva il ritorno del Nostro al Comunale dopo cinque anni di assenza, col Billy Budd di Britten. Purtroppo, il taglio dei contributi ministeriali ha imposto la sostituzione dell’opera con un concerto sinfonico-corale, solista di canto Samuel Ramey. Chiamato inizialmente a dar voce a Claggart, l’anima nera del racconto di Melville e dello spartito di Britten, il basso americano s’è visto assegnare un cattivaccio pure nell’occasione sostitutiva: la seconda parte del programma prevedeva, infatti, il Prologo del Mefistofele, l’opus magnum di Arrigo Boito. I panni alquanto onerosi del Principe del male poco s’attagliano al presente stato vocale del celebre cantante, ondivago nell’intonazione, malfermo nel suono, costretto pertanto a un forte perenne, senza ombreggiature o alleggerimenti. In bella forma il Coro del Maggio, diretto da Piero Monti; non altrettanto le voci bianche provenienti dalla Scuola di musica di Fiesole, invero troppo cresciutelle e mature nel timbro. I cherubini, colle loro bizzarrie metriche (i trisillabi di «Siam nimbi/ volanti/ dai limbi…») e dinamiche (i rinforzando e i diminuendo che descrivono l’avvicinarsi e l’allontanarsi degli angioletti) pretenderebbero ben altra brillantezza e levità. Le sole voci maschili hanno contribuito, con qualche crudezza, a quel Coro di morti su versi di Leopardi, che nel

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1941 rivelò un nuovo aspetto, e definitivo nel suo oscuro pessimismo, di Goffredo Petrassi. Per il direttore si trattava d’una specie d’Amarcord: il pezzo figurava nel primo concerto da lui diretto a Firenze, nel ’55. Fedeltà a se stesso e ai propri numi tutelari anche nel caso della Suite tratta dalle musiche di scena per la tragedia La Pisanelle di d’Annunzio, scritte nel ’13 da Ildebrando Pizzetti, un autore che Bartoletti si sforza in ogni modo di salvare dall’oblio cui pare irrimediabilmente destinato. L’ex assistente di Mitropoulos e Serafin va sempre in traccia dell’espressività, vuole cantare il più possibile, di-

Bruno Bartoletti sposto, se occorre, a sacrificare la precisione alla foga, all’ardore (pizzicati degli archi in Boito, viole divise nella Danza dello sparviero della Pisanelle, gli spunti di marcia e danza presenti nei tre brani). In Petrassi, il tono meditabondo prevale sulla violenza percussiva; in Pizzetti e Boito, l’accumulo parossistico della dinamica si accompagna a una felice libertà di fraseggio, che dà slancio e calore alla musica. Calore che il pubblico ha restituito agli interpreti tutti, con una particolare dimostrazione d’affetto per Bartoletti.

jazz

Giuseppe Del Re: l’arte di cantare Cole Porter di Adriano Mazzoletti l jazz italiano continua a sorprendere. Questa volta non si tratta di uno strumentista anche se nel disco appena pubblicato dalla Abeat Records, di solisti ve ne sono e di eccellenti. Si tratta di Giuseppe Del Re, cantante pugliese già messosi in luce quale studioso dell’opera di Cole Porter. Al grande compositore americano, Del Re ha dedicato il suo primo cd.Tredici fra le più celebri melodie composte da Porter fra il 1929 - la splendida You Do Something to me - e il 1950 - l’altrettanto eccezionale From the Moment on - eseguite in modo superbo da un cantante le cui doti interpretative emergono anche in ragione degli arrangiamenti realizzati da un gruppo di eccellenti musicisti fra cui il sassofonista Roberto Ottaviano, Vito Andrea Morra e lo stesso Del Re. Ma è soprattutto quest’ultimo a dare alle melodie di Porter nuova e inusitata forma. Gli

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arrangiamenti di Love For Sale, Get Out of Town, I’ve Got You under My Skin, In the Still of the Night, What is This Thing Called Love, Ev’rytime We Say Goodbye, Night and Day sono scritti con l’assoluto rispetto delle melodie originali ma pensati e proposti in forma attuale. E poi l’importanza dei testi evidenziata con la dizione e la perfetta pronuncia di Del Re ma anche con il libretto che accompagna il cd: «Leggendo i testi di suoi brani - scrive Del Re - mi ha subito colpito il fatto di come il tema del desiderio aleggiasse onnipresente in ogni suo verso, come un qualcosa di frenetico e incapace di trovare quiete da chiedersi What is This Called Love?». Questi testi splendidi sono tutti riportati

nello stesso libretto impreziosito anche da foto dei musicisti che hanno collaborato alle incisioni. Solisti che Del Re pone in evidenza in un vero e proprio «colloquio» con le sue interpretazioni vocali. Musicisti che non godono ancora, a parte il ben conosciuto e apprezzato Roberto Ottaviano, di vasta notorietà. La tromba Luca Aquino in un intenso assolo in Love for Sale, il sassofonista tenore Vincenzo Presta, in What is This Called Love, il baritonista Rossano Emili, splendido in I Get a Kick out of You, il chitarrista Guido Di Leone (It’s All Right with Me), il pianista Marco Contardi. Ascoltandoli si fa ancor più forte la certezza che in Italia esista un mondo jazzistico impenetrabile a musicisti meno

«fortunati», ma non certo meno validi. Una vita dedicata interamente alla musica, quella di Giuseppe Del Re, diplomato al Conservatorio di Monopoli in Canto e Musica Vocale da Camera. Poi il jazz, diviene il suo maggior interesse e frequenta, come uditore, la classe jazz dello stesso Conservatorio. A Roma segue i corsi di perfezionamento alla St. Louis Music School, dimostrando immediatamente capacità superiori a quella di molti insegnanti. La partecipazione a diversi festival e concerti, ma soprattutto il cd dedicato a Cole Porter lo mettono definitivamente in luce. Infatti sabato 25 luglio a Marina di Pisticci, nel corso del concorso ArgoJazz, gli sarà assegnato il riconoscimento quale miglior crooner, a cui sarebbe stato doveroso aggiungere anche «miglior cantante italiano di jazz». Giuseppe Del Re, Sings Cole Porter & the beat of a yearning destre, Abeat


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narrativa

libri

Andràs, Budapest e le verità impossibili di Pier Mario Fasanotti randissimo successo in Ungheria di questo romanzo del magiaro Andràs Nyerges e c’è da augurarsi che sia apprezzato anche dal pubblico italiano (il secondo, dopo quello tedesco, ad averlo a disposizione). Il perché sta nel fatto che il racconto tiene conto della tragica aneddotica del periodo in cui i nazisti controllarono l’Ungheria, sconfitti poi dai sovietici, ma alla historia di quei giorni non rimane ancorato e da essa non è pedantemente limitato. A narrare quei fatti, in piena confusione militare, politica e sociale, è lo stesso autore che si cala nei panni di un bambino di quattro anni, al quale, come dice il titolo (Non davanti ai bambini) non si deve raccontare la verità nuda e cruda. Per evitare traumi, ma soprattutto il guazzabuglio emotivo per chi è cresciuto in una famiglia «spaccata» dai credo religiosi. La madre è ebrea, il padre no. La nonna paterna, estroversa, petulante, acida e traboccante di bigottismo cattolico, è protettiva ma al tempo stesso fa di tutto, tra modi bruschi e affettuosi, perché il piccolo Andràs si tenga lontano dai «senza Dio», da quegli ebrei che, come si sente dire nei rifugi anti-aerei, darebbero indicazioni ai «maledetti inglesi» su cosa e quando colpire Budapest nei raid dal cielo. Il padre Bandi, sarto e musicista, difende a spada tratta la sua scelta matrimoniale (l’amore per una «giudea»), ma al contempo è dilaniato dall’antica promessa fatta alla madre di non abbandonarla mai, lui che non è figlio dell’uomo che gli ha dato il cognome, nella lontana Gibilterra. È una storia di coatto nascondimento di origini e di identità: gli stivali ideologici sono pronti a calpestare e a torturare oppositori ed ebrei, compreso il nonno di Andràs, scrittore e professore, darwinista convinto, massone e socialdemocratico (ma la verità sulle sue origini sarà rivelata al nipote ormai ventenne e laureato). Questi sarà «portato via» da uomini che confabulano in ungherese e in tedesco, dopo aver distrutto quel preziosissimo dizionario scientifico al quale l’uomo, dotato di un affettuoso umorismo e di una calda umanità, stava lavorando da moltissimi anni.

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riletture

È anche, questa, la storia di un condominio, quello dei Nyerges, che la guerra scoperchia moralmente ponendo a nudo passati individuali imbarazzanti, bugie, trasformazioni di identità, piccole e necessarie, ma anche meschine, convenienze. Andràs conforta se stesso accostandosi all’amore dei suoi genitori, dei quali farà molta fatica, anche successivamente, a delineare quelle differenze religiose che il nazismo bollava criminalmente come razziali. Borsa nera, disperati tentativi di procurarsi da mangiare e ancora più disperati sforzi di tenere nascoste, ognuno per proprio conto, origini familiari, appartenenze a chiese, a fedi politiche. Questa è la dittatura imposta da Berlino, con i suoi campi di concentramento, con l’eliminazione dei dissidenti e con l’occhio tremendamente vigile sulla sfera privata di ognuno (con i sovietici poco, molto poco cambierà). Ma è anche la storia del dopo, quando i russi - attesi come salvatori da molti e paventati da altri come «bestie che stuprano e saccheggiano» - non liberano l’Ungheria, ma se ne appropriano imponendo l’educazione e la dfisciplina marxiste, l’ateismo, l’obbedienza cieca alle direttive del partito di Stalin. Prima della fine della guerra Andràs, come molti altri coetanei, si rifugia nel gioco (anche con i soldatini e l’imitazione del conflitto armato), nei desideri di dolci (cornetti alla crema), di divertimento. Dentro di lui però cova sempre l’incomprensione dinanzi alle divisioni tra le due famiglie, alle assurde e brutali accuse della nonna materna contro la nuora e i consuoceri. Andràs, proprio in nome degli affetti che non conoscono confini e separazioni, diventa il simbolo dell’ungherese strattonato da opposte tendenze. Che la fine della guerra non farà certo cessare. Dopo uno spietato stivale ne viene un altro, a marciare nelle vie di Budapest, città nella quale anche il luogo della musica, di per sé neutra indipendentemente da chi la esegue, non viene risparmiato dalle bombe e dal tritolo. Andràs Nyerges, Non davanti ai bambini, Elliot, 182 pagine, 16,00 euro

Lillo Santucci a tu per tu con l’Angelo Custode di Leone Piccioni ieci anni fa moriva Luigi Santucci, Lillo per gli amici. A lui si devono opere narrative nuove e toccanti che hanno caratterizzato il secolo scorso. Scrittore cattolico, ma fortemente legato alla vita e alle esperienze terrene, Santucci, come ci dice nel Cuore dell’inverno (Piemme 1993) ha rimeditato su di sé e sulla sua presenza accompagnato da un ininterrotto colloquio con il suo Angelo Custode, fatto di forti tensioni e di paci sublimi. Oltre a far uso della sua memoria (che considera uno dei beni più preziosi e vitali datici dalla Provvidenza), Santucci, comportandosi oltre che da narratore anche da saggista quale era, fa fiorire il suo racconto da una messe quasi infinita di belle citazioni: dai poeti, dai sacri testi, dai filosofi, dai grandi pensatori della nostra civiltà. Nella stessa opera Santucci dedica un capitolo a Le due emme che gli danno la soprannaturale certezza dell’esistenza di Dio: la Montagna e la Musica. Prende da Debussy questa definizione:

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«La musica comincia là dove la parola è impotente a esprimere poiché essa è fatta per l’inesprimibile» e aggiunge: «La musica non mi solleva appena nelle sfere dell’arte ma in quelle salvifiche della trascendenza». Tra le opere più importanti di Santucci è il primo racconto, In Australia con mio nonno, del ’41; del ’51 Lo zio prete, del ’67 Orfeo in Paradiso, del ’79 Il mandragolo. Recentemente l’Avvenire (il 17 maggio scorso) ha dedicato una pagina alla memoria di Santucci con un bel ricordo scritto da monsignor Gianfranco Ravasi. Scrive Ravasi: «Il tema del male aveva sempre tormentato la ragione e l’arte di Santucci, così come il dramma della morte: basterebbe solo riprendere tra le mani Il mandragolo o quel gioiello letterario che è Orfeo in Paradiso». Monsignor Ravasi si chiede anche perché quest’ultimo libro non sia mai stato ristampato. La pagina dell’Avvenire propone anche un racconto inedito assai bello di Lillo Santucci nel quale, rivolgendosi al diavolo, lo scrittore scrive: «Io ti prego di esiste-

re». «La non esistenza di Satana - commenta Ravasi - farebbe infatti totalmente ricadere sulla libertà umana la piena, assoluta ed esclusiva responsabilità del male che stria tutta la storia». «Il diavolo, insomma, può quasi essere un alibi per scaricare su di lui - se non interamente - il peso della colpa». Giuseppe De Robertis in Altro Novecento (1962) non dedica articoli a Lillo Santucci ma lo cita in maniera quasi esemplare. A proposito di un premio letterario assegnato a Calvino nel ’52 De Robertis nota che in terna c’era anche Santucci e aggiunge, pur avendo parole di elogio per Calvino, che «non ci saremmo sentiti di sacrificare Santucci, tanto per esser chiari». Enrico Falqui, puntuale recensore dei libri del Novecento, dedica a Santucci nel ’48 una ingiustificata stroncatura per In Australia con mio nonno, ma poco dopo, nel ’67, a proposito di Orfeo in Paradiso, scrive che quel libro determina una situazione non frequente «di rileggerlo una seconda volta con maggior piacere della prima perché alla rilettura rivela nuovi meriti prima sfuggiti».

E infine a proposito di Santucci «romanziere cattolico», considera per lui tale etichetta superflua e inopportuna, dando aperture alla libertà artistica tanto più riscontrabile nella consapevole franchezza di Orfeo in Paradiso. (Una nota allegra che sarebbe piaciuta anche a Lillo Santucci. Cattaneo, che non esitava a porre qualsiasi domanda a Carlo Emilio Gadda per averne risposta, nota che il grande scrittore lombardo appena si parlava di un nuovo scrittore si insospettiva immediatamente: «Ma chi è questo Santucci?». Gli spiegava che aveva pubblicato in quei giorni Lo zio prete, libro molto apprezzato per il suo umorismo cattolico. Umorismo cattolico! - si inferociva Gadda calcando le parole con satanico sarcasmo - e poi: «Basta che sentiate odore di mutande di prete!». «Ma di Santucci si parlava - dice Cattaneo - con simpatia, come di un uomo divertente, scherzoso e ricco di trovate: saltabeccava, consegnava burle sempre in compagnia di preti». Gadda ascoltava questi racconti e alla fine domandava: «Ma cos’è questo Santucci? Una specie di Tino Scotti?»).


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saggi

La città rinasce ma il cittadino si spenge di Giancristiano Desiderio ualche giorno fa - se volete vi do la data: 4 luglio 2009 - la frase del giorno di liberal era di Albert Camus e recitava così: «Come rimedio alla vita di società, suggerirei la grande città. Oggi è l’unico deserto alla portata dei nostri mezzi». Mi sembra perfetta per introdurre e recensire il libro di Luca Mencacci: L’eclissi dell’utopia urbana. Non so bene cosa volesse dire Camus, ma che la città contemporanea sia il deserto della modernità, beh, su questo credo non ci piova. La città, che nell’Occidente è la rappresentazione urbana dell’anima, ha da tempo perso non solo il suo origi-

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personaggi

nario senso, ma anche la sua più umana e vivibile dimensione urbana. Oggi per trovare una città dobbiamo andare in provincia perché la grande città - in Italia Roma e Milano, altre non ce ne sono, e già Napoli ha una dimensione diversa - è diventata solo un agglomerato urbano, un centro direzionale, un dormitorio, una periferia. Ciò nonostante non possiamo fare a meno della città ossia di un centro intorno al quale ruota la vita economica, produttiva, istituzionale, politica, ma anche artistica, letteraria del nostro tempo. È su questa contraddizione - l’impossibilità e la necessità - che si muove il libro di Mencacci che, mettendo a frutto i suoi variegati interessi e le sue numerose com-

petenze, dall’economia al diritto, dalla sociologia al giornalismo, ripercorre il viaggio della città dall’utopia alla distopia e vede nella città il luogo e lo strumento della «seconda rivoluzione urbana». «La governance urbana - scrive Mencacci - viene invocata come la panacea di tutti quei mali che in termini di governabilità e di rappresentanza sembrano affliggere in modo irreversibile l’Occidente, ormai definito come postdemocratico». Lo Stato nazionale scende, mentre la città globale sale. È la città che diventa il centro della vita nazionale e della vita mondiale. Ma mentre la città si afferma come il luogo necessario e privilegiato del mondo globale, che è un insieme di villaggi globali o di

città globali, i cittadini perdono potere, riferimenti, valori e sono «inglobati» in «meccanismi» più forti e grandi di loro come manifestazioni della grande macchina cittadina ossia la metropoli. Nel passaggio dal Medioevo al Rinascimento si affermarono città e borghesia (ma anche la corte e lo Stato, in verità). L’epoca rinascimentale nacque sulla base del grande potere creativo che l’uomo aveva e che conservò. Oggi con la «seconda rinascita della città» l’uomo sembra privo della sua forza creatrice, mentre la città è paurosamente «liquida». Luca Mencacci, L’eclissi dell’utopia urbana, Città Nuova, 184 pagine, 14,00 euro

di Paolo Malagodi uò capitare di imbattersi in personaggi che, per il complesso insieme di esperienze, sembra abbiano attraversato più di una vita. Tale è la vicenda dell’uomo che, nato nel 1943 sui colli bolognesi di Lizzano in Belvedere, iniziò poco più che ventenne a gestire un saloncino di vetture usate nel capoluogo emiliano. Assistendo, nel settembre 1967, a un film con Steve McQueen, il giovane venditore rimase affascinato nel vedere il protagonista scorazzare per le spiagge californiane a bordo di una singolare auto. Realizzata su pianale e meccanica del Maggiolino Volkswagen, ma con la carrozzeria in lamiera sostituita da un leggero guscio in vetroresina a forma di barca rovesciata e con i passeggeri protetti dal roll-bar sormontato, in caso di pioggia, da uno spartano telo: veicolo conosciuto negli Stati Uniti come Dune Buggy - letteralmente «pulce delle dune» - e ideale nel fuoristrada sulla sabbia. Scatta così in Mario Zodiaco, realizzatore di quel prototipo per l’Italia, l’idea di una piccola serie e a metà del 1969 partirà, con il marchio

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«Autozodiaco», la prima produzione europea di tali veicoli. Nasceranno poi altre fortunate iniziative che lo obbligano a frequentare, per esporre gli articoli prodotti, i vari saloni motoristici dei quali Zodiaco nota la monotona staticità, maturando l’idea di una rassegna «che aggiungesse alla consueta esposizione la dinamicità di un vero spettacolo». Per la parte auto, il vulcanico bolognese può contare sull’appoggio di Sando Munari e di Niki Lauda, mentre per le moto si affida a Giacomo Agostini. Un terzet-

to di campioni ai quali si aggiungerà, per la motonautica, Angelo Molinari e con la costituzione, il 20 aprile 1976 della «Motor Show srl» insieme a Mario Zodiaco, che ne aveva scelto il nome. Nello stesso anno, il successo dell’iniziativa è travolgente, con quasi mezzo milione di spettatori. Rilevata dal 1978 la quota degli altri soci, il Motor Show diviene proprietà esclusiva di Mario Zodiaco che, dopo la quinta edizione, lo cederà nel 1981 ad Alfredo Cazzola per la notevole somma, a quel tempo, di un miliardo di lire. In un filante veliero, Mario Zodiaco solcherà poi le acque sudamericane, soggiornando prima in Brasile, Argentina e Panama, non senza avere, nel frattempo, sviluppato altre imprese o essere scampato, nel 1989, a un assalto di pirati in alto mare. Vicende narrate in una romanzesca autobiografia, ricca di foto e zeppa di aneddoti sui protagonisti del motorismo dell’epoca, che testimonia della capacità di inventare eventi come il Motor Show, solo fidandosi del proprio intuito. Mario Zodiaco, Nel segno dello Zodiaco, Gingko edizioni, 456 pagine, 12,00 euro

ayle Forman, americana, ha scritto diversi libri per giovani adulti. Questo di cui parliamo è stato tradotto in 18 paesi (speriamo che la Mondadori ne pubblichi altri), il regista di Twilight si è proposto di farne un film (i diritti sono già stati acquisiti). Un enorme successo, che si spiega con quanto ha detto un giorno l’autrice: «I ragazzi sono tra i più interessati ai grandi problemi della vita». E in questa opera il primo attore è proprio la vita. Che se ne va e lascia la diciassettenne Mia in stato di coma.Tutto è avvenuto a causa della neve, nell’Oregon, quando un camion ha travolto l’auto in cui viaggiavano Mia, i suoi genitori e il

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Ottanta la mappa politica dell’Italia appariva sostanzialmente stabile, il mondo cattolico nelle zone bianche, le associazioni e le reti di solidarietà del movimento operaio nelle zone rosse. Poi, a partire dagli anni Novanta, cambiamenti rapidi quanto profondi hanno portato alla scomparsa del bianco e alla sua sostituzione con il verde leghista, alla contrazione della zona rossa nell’Italia centrale, al declino nella destra nel Sud, all’avanzata diffusa dell’Italia azzurra. In Mappe dell’Italia politica (Il Mulino, 256 pagine, 16,50 euro) Ilvo Diamanti ricostruisce i vasti mutamenti politici avvenuti nell’ultimo decennio, riproponendo come chiave di lettura il territorio. sua facciata questa Roma, la città eterna, l’urbe solare, nasconde una storia e un presente fatto di misteri e di enigmi, di percorsi inediti e tortuosi. È Roberto Quarta nel suo Roma, esoterismo e mistero (Editoriale Olimpia, 244 pagine, 17,00 euro) a dipanare la topografia occulta della capitale guidando il lettore attraverso strade, vicoli e piazze solo apparentemente conosciuti, scenari fagocitati dal tempo e dal mistero, che si materializzano lungo una trama di percorsi accidentati, finché un evento improvviso non ne sveli il prodigioso genius loci. Dal Palatino al Foro romano, attraverso grotte e cavità che danno accesso agli inferi. Da Ponte Vittorio al Campo Marzio, da Monte Mario a San Paolo fuori le mura sulle orme di Dante adepto dei templari ai tempi del primo giubileo. Da Campo de’ Fiori al quartiere egizio, con le improvvise apparizioni magiche della Roma barocca. Una geografia urbana misteriosa attraversata spesso distrattamente, mentre simboli arcani, osservano, in attesa di essere compresi.

L’arte dell’icona

Storia di Mia e di una vita da ritrovare di Mario Donati

Fino agli anni

Sotto e dietro la

L’uomo che inventò il Motor Show si racconta

ragazzi

altre letture

fratellino di sette anni. La prosa della Forman passa bruscamente da una situazione familiarmente idilliaca e comica al burrone della morte. Mia, con il polmone collassato, si muove, per così dire, sopra le cose e le persone, e ha subito la consapevolezza che mamma e papà non ce l’hanno fatta. E Teddy, il fratello? L’elicottero del pronto soccorso, il frastuono delle voci, i tubi, il respiratore artificiale rimandano non tanto la domanda, quanto la risposta (che verrà, come un lamento straziante). Inizia così la quasi-vita della ragazza, chiusa nella stanza della terapia intensiva. Fuori, a pochi metri, quel che rimane della sua famiglia: i nonni e la zia. Grazie alla sensibilità di un’infermiera portoricana,

Mia ascolterà le voci e «vedrà» - in quello stato semi-vigile o ultra-vigile - i volti che l’hanno più amata. Il padre ex batterista di un complesso rock e poi insegnante, la madre «tosta», femminista e dolce, il fidanzato Adam con un brillante futuro da rockstar che lo aspetta, l’amica Kim, testarda e ironica. La sua famiglia era legata dalla musica e lei stessa, dopo la scelta di compiere la carriera di violoncellista, sa bene che potrebbe essere l’amore per le note, non importa se classiche o rockettare, il filo conduttore di una vita futura. Ma ci sarà? Un’assistente sociale pronuncia dinanzi ai parenti e amici la frase chiave: «È lei che conduce il gioco». È Mia, che rivede fluttuando con il suo corpo ormai immaginario la pro-

pria esistenza, che decide. «Ho diciassette anni. Non è così che doveva andare. La mia vita non può finire così». Ma è la mancanza delle sua famiglia a rendere tribolatissima la scelta: «Non sono sicura che ci sia ancora posto per me a questo mondo. Non sono sicura di volermi svegliare». Il nonno le sussurra all’orecchio: sarei felice se tu restassi, ma ti capirei ugualmente se decidessi di andare via per sempre. Si può piangere leggendo questo romanzo, ma per i fatti in sé non certo per la melensaggine (assente del tutto) con cui vengono raccontati. Gayle Forman, Resta anche domani, Mondadori, 224 pagine, 15,00 euro

di Valentina Dordolo (Simmetria edizioni, 45 pagine, 8 euro) è un piccolo libro prezioso che affronta i principi base della struttura meravigliosa dell’icona, ponendo in evidenza come l’iconografo, soprattutto secondo la Chiesa ortodossa Russa, non abbia alcuna necessità di esprimere il proprio pathos religioso, ma piuttosto offra una risposta ai quesiti esistenziali e spirituali che l’uomo è chiamato ad affrontare nell’itinerario della vita. A chi si pone di fronte a queste opere lignee, dai tratti così essenziali può rivelarsi «la visione di una pace infinita, stabile, indistruttibile, una pace dall’alto, dal mondo della beatitudine». L’icona viene così a essere anticipatrice dell’eschaton, ossia della piena realizzazione di Dio sull’uomo. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

FRED ASTAIRE SUPERARE LE FORMULE, FONDERE IL CLASSICO E IL MODERNO, LO STILE EUROPEO E IL GUSTO AMERICANO. È SEMPRE STATO QUESTO IL SOGNO DI FREDERICK AUSTERLIZ, NATO NEL NEBRASKA DA UNA FAMIGLIA DI ORIGINI AUSTRIACHE, E DIVENTATO IL SIMBOLO DEL MUSICAL AMERICANO. UN MITO INTRAMONTABILE, TENACE NELL’APPLICAZIONE E IRRIDUCIBILE NEL PERFEZIONISMO, CHE QUASI INVOLONTARIAMENTE HA FATTO SOGNARE IL MONDO…

Quattro passi tra le nuvole di Orio Caldiron

l mito non muore, rinasce continuamente su se stesso. Bastano le prime note di una melodia, il suono delle claquettes, lui e lei che accennano un passo di danza e siamo ancora una volta nel luogo del mito come se non ce ne fossimo mai allontanati. Federico Fellini in Ginger e Fred (1986) rievoca una vecchia coppia di patetici imitatori di Fred Astaire e Ginger Rogers che per l’ultima volta ballano sullo sfondo dei grattacieli al ritmo di Cheek to cheek, come in una sgangherata rivista di tanti anni fa. Woody Allen ritorna ai primi anni Trenta, quando l’incubo della crisi economica è tenuto a bada dal sogno del cinema. Cecilia la protagonista di La rosa purpurea del cairo (1985) con il volto dolce e smarrito di Mia Farrow - compensa le frustrazioni della squallida routine quotidiana, tra lo snackbar dove fa la cameriera e il disastroso ménage famigliare, nella sala cinematografica della cittadina di New Jersey, la sua unica via di fuga in cui vede e rivede il film in programmazione. Fino a quando Tom Baxter, che l’ha notata per tante sere di seguito, esce dallo schermo e le dichiara il suo amore. «Ho incontrato l’uomo più meraviglioso che esista», sospira Cecilia. «Certo, è immaginario, ma non si può avere tutto». Quando cerca di avere tutto, e si lascia sedurre dall’attore che le promette di portarla con sé a Hollywood, si ritrova di nuovo al cinema, ricondotta alla sua condizione di spettatrice. Sorride tra le lacrime quando nella sala del

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liamo insieme guancia a guancia./ Tutte le preoccupazioni che mi assillano/ svaniscono come la fortuna del giocatore/ quando balliamo guancia a guancia./ Mi piace scalare le montagne/ raggiungere vette alte/ ma appassiona di più/ ballare guancia a guancia./ Mi piace pescare nei fiumi, nei torrenti/ ma mi diverte di più/ ballare guancia a guancia». A questo punto, dopo i paragoni strampalati, la musica si fa lirica e si abbandona al sentimento, consentendo a Fred di lanciarsi in un’appassionata invocazione: «Balla con me/ il mio braccio/ il mio fascino/ ci porteranno…/ dove se non in paradiso?», mentre la canzone può riprendere dall’inizio: «È un paradiso./ Sono in paradiso».

ponte fuori dalla pista da ballo dove il loro «guancia a guancia» è libero di raggiungere la più perfetta armonia. Nessuna immagine potrebbe essere più esplicita di quelle disegnate nell’aria dal pas de deux che entrambi ballano quasi all’unisono come fossero una sola persona, al di là delle incomprensioni e degli equivoci di prima. Grazie alla danza, la favola s’impone ancora una volta. Alla fine Fred e Ginger si appoggiano alla balaustra del-

Cheek to cheek - il brano citato da Woody Allen - è il momento clou di Cappello a cilindro (1935) di Mark Sandrich, uno dei musical più belli degli anni Trenta, che sull’onda delle melodie di Irving Berlin riesce a tra-

Dal 1917, anno della prima scrittura per una rivista, all’inizio degli anni Trenta fece coppia con la sorella Adele. Poi l’approdo al cinema e l’incontro con Ginger Rogers, con cui si stabilì un travolgente affiatamento Casinò di Venezia, Fred Astaire invita a ballare la riluttante Ginger Rogers. Lei lo crede sposato all’amica, mentre lui, scapolo irriducibile, scopre che si è innamorato di lei. Fred comincia a cantare inneggiando all’amore che lo fa sentire in paradiso: «È un paradiso./ Sono in paradiso./ Il mio cuore batte, quasi non riesco a parlare./ Credo di aver trovato la felicità che cercavo/ quando bal-

sformare in straordinarie occasioni di musica e danza la stereotipata artificiosità della trama. Se l’erotismo del musical è solitamente astratto, qui la passione s’impone sull’eleganza formale anche attraverso la sensualità dei movimenti. Nel crescendo della melodia sembra di assistere a una scena di seduzione e ai suoi colpi d’ala, come avviene quando lui l’accompagna attraverso un

la terrazza, gli occhi lucidi, come se avessero fatto all’amore. Fred Astaire, il simbolo del musical americano, viene da oltre un quindicennio di successi a Broadway con la sorella Adele. Frederick Austerlitz, questo il suo vero nome, è nato il 10 maggio 1899 a Omaha nel Nebraska da una famiglia di origini austriache.


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Comincia a studiare danza fin da bambino nella sua città natale, per poi trasferirsi a New York con la sorella per frequentare varie scuole di recitazione, tip tap e danza accademica, anche se possono essere considerati sostanzialmente autodidatti, prima di ottenere nel 1917 la scrittura per una rivista in coppia con la sorella. Negli anni Venti e all’inizio dei Trenta - fino al 1932, quando la sorella si sposa con un lord inglese e si ritira dalla scena - Fred e Adele partecipano come attori e ballerini a oltre una decina di musical commedies, con motivi di Gershwin, Schwartz, Porter. Scritturato dalla Rko, passa al cinema dove presto incontra Ginger Rogers che sarà la sua partner in una decina di film. L’inizio della leggenda non è esaltante. Carioca (1933) di Thornton Freeland nasce male, voluto in un primo tempo dall’ambizioso produttore David O. Selznick e poi abbandonato al suo destino, diventa un veicolo per il fascino esotico di Dolores Del Rio e un’occasione promozionale per Rio de Janeiro. Fred e Ginger appaiono soltanto per pochi minuti all’interno del numero che deve lanciare il «carioca». L’anno successivo, presentati curiosamente come «The King and Queen of “Carioca”», sono i protagonisti di Cerco il mio amore (1934) di Mark Sandrich, in cui lui è un ballerino divorziato che corteggia una ricca vedova americana, naturalmente a suon di musica. Nonostante si moltiplichino le trovate registiche e coreografi-

commedia eccentrica che un vero e proprio musical, mentre l’ultimo è un melodramma in costume che rievoca la leggenda musicale dei Castle che vent’anni prima avevano trionfato nei teatri americani. Si rincontrano sul set di I Barkleys di Broadway (1949) di Charles Walters. Fred ha cinquant’anni, Ginger trentotto. Non è facile convincerli a tornare assieme. La storia sembra fatta apposta per il gioco delle allusioni maliziose. «Non sapresti neppure attraversare il palcoscenico senza di me», dice lui. «Non c’è gesto che tu faccia che non hai imparato da me». E lei: «Tu mi hai sempre ritenuta una cosa dovuta. Ma ora è finita: imparerò a stare sulle mie gambe come persona e come attrice». Il numero più esplosivo è il frenetico Bouncin’ the Blues, ritmato con aggressiva precisione. Ma l’addio della coppia è la replica di They Can’t Take That Away From Me che viene da Voglio danzare con te del ’37, un modo per chiudere per sempre, ma anche per ricordare con struggente partecipazione un momento irripetibile della loro vita e della loro carriera.

(1953) di Vincente Minelli non è solo uno dei grandi capolavori del musical, è anche un atto d’amore per il mondo dello spettacolo, per gli attori, i ballerini, i professionisti che consentono al mito di andare in scena. Se sono moltissimi i film che utilizzano la formula del backstage, è estremamente raro che la ricostruzione del «dietro le quinte» riesca a coincidere con l’omaggio al protagonista, una sorta di «serata d’onore» in cui pur con molte libertà si rievoca la figura stessa di Fred Astaire. La partner di Fred è questa volta Cyd Charisse, al suo primo ruolo da protagonista, ma già bravissima come si vede in Girl Hunt, divertente parodia dei neri di Mike Spillane piena di bellone, gangster, omicidi, detective privati. Cenerentola a Parigi (1957) di Stanley Donen riprende con molte varianti la commedia musicale del ’27 di George e Ira Gershwin, che trent’anni prima Fred e Adele avevano portato al successo a Broadway e a Londra. Se sono notevoli le performance con Audrey Hepburn, il numero più geniale è Let’s Kiss and Make Up, un a solo di Fred Astaire in cui riesce a far ballare con lui un cappello, un ombrello, un impermeabile. Il sipario è ormai calato sul grande ballerino, anche se la Metro si ricorda di lui per le due antologie del musical targato Mgm, C’era una volta Hollywood (1974) e Hollywood, Hollywood (1976), in cui svolge la funzione

Come sono stati per Fred Astaire gli anni immediatamente precedenti questa rentrèe nell’universo dei ricordi in bianco e nero? La star della Rko vagabonda da una major all’altra, cominciando dalla Metro in cui è lo stesso Louis Mayer a proporgli di fare coppia con Eleonor Parker, la stella del tip tap.

Sulle melodie di Cole Porter, Irving Berlin, Gershwin, Schwartz riusciva a trasformare in straordinarie occasioni di musica e danza la spesso stereotipata artificiosità delle trame dei film. Con una sensualità di movimenti che trasmetteva pura passione che, il film punta sul travolgente affiatamento della coppia, che risalta soprattutto nei due numeri delle celebri canzoni Night and Day di Cole Porter e The Continental di Con Conrad. Roberta (1935) di William A. Seiter è tratto dall’omonimo spettacolo teatrale con le musiche di Jerome Kern. Fred è il direttore degli Wahash Indianians, lei è la contessa Scharwenka che canta al Cafè Russe. Il loro pezzo forte è I’ll Be Hard to Handle. Il numero, allestito apposta per i dipendenti del caffè, è un vivace scambio di vedute, una conversazione-litigio a tempo di tip tap, in cui la componente ironica sottolinea lo spirito moderno della loro danza, senza mai rinunciare alla tipica tonalità romance.

La grande affermazione di Cappello a cilindro inaugura il momento magico della coppia più famosa del musical americano. L’universo sofisticato dei film precedenti cede ora alla quotidianità di Follie d’inverno (1936) di George Stevens, in cui sono due americani come tanti appena usciti dalla grande depressione. Il virtuosismo di Fred Astaire strappa l’applauso in Bojangles of Harlem in cui con la faccia dipinta di nero balla con tre silhouette che riproducono la sua figura e ora si sintonizzano sui suoi passi, ora ballano da sole come per magia. Gli ultimi quattro film della coppia sono Seguendo la flotta (1936), Voglio danzare con te (1937), Girandola (1938) tutti e tre di Mark Sandrich, La storia di Vernon e Irene Castle (1939) di H.C. Potter. Se i primi due sono particolarmente riusciti, il terzo è più una

Balla con me (1940) di Norman Taurog è uno spettacolo sfarzoso secondo le regole della casa. Il clou è rappresentato dall’esibizione di Fred e Eleonor in coppia nel porteriano Begin the Beguine, in cui l’impeccabile bravura degli interpreti che volteggiano con grazia s’intreccia al gioco di rimandi della luccicante scenografia. Dalla Metro passa alla Colombia con Non sei mai stata così bella (1942) di William A. Seiter, in cui Fred balla accanto a Rita Hayworth, l’immagine femminile più popolare del momento. Con Cieli azzurri (1946) di Stuart Heisler approda alla Paramount per far coppia con Bing Crosby. Le quattro canzoni affidate a Fred sono bellissime, emblematiche di un talento che dà il meglio di sé tra l’humor e la fantasia. A Couple of Song and Dance Man rievoca il vaudeville d’una volta. A Pretty Girl is Like a Melody è un omaggio all’eleganza di Ziegfeld. Heat Wawe ricorda l’esotismo sudamericano. Top Hot, White Tie and Tails rivisita la canzone simbolo di Cappello a cilindro, il vertice del suo classicismo. Ziegfeld Follies (1946), firmato da Vincente Minnelli e altri cinque registi, è una parata di stelle. Il brano più curioso è The Babbit and the Bromideed, in cui Fred Astaire e Gene Kelly si confrontano, anche stilisticamente, con molta ironia. Il film che rilancia Fred Astaire e gli apre una nuova fase della sua carriera è Ti amavo senza saperlo (1948) di Charles Walters, in cui fa coppia con Judy Garland, senza dimenticare Ann Miller, un triangolo emozionante e scatenato. Spettacolo di varietà

di presentatore e nella seconda accenna persino qualche passo di danza con Gene Kelly. Quando si pensa a Fred Astaire, viene in mente la straordinaria attitudine dello spirito che in lui si irradia in tutto il corpo, attribuendogli qualità assolutamente rare e irripetibili nella storia dello spettacolo.

Se lo vediamo volare da un film all’altro, ci accorgiamo subito che è sempre uguale e sempre diverso. Ballerino-autore, frequenta gli stili più diversi, restando fedele a se stesso, alla sua caratteristica di danzatore creativo, libero, completo. Superare le formule, fondere il classico e il moderno, l’a plomb europeo e il gusto americano, è stato sempre il sogno di quest’uomo che ha fatto sognare il mondo. Sempre autore oltre che ballerino delle sue esibizioni, perché, sia o no accreditato come coreografo, si deve a lui la complessa strategia delle performance così semplici e così eleganti, nonostante la sapiente ricercatezza. Senza dimenticare mai la tenace applicazione, il prova e il riprova del suo irriducibile perfezionismo. «Non ho mai voluto dimostrare nulla», ha detto più volte. In realtà non c’è nulla da dimostrare, basta ballare, e il resto viene da sé.


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tv

video

Com’è amaro il pane di

Fidel

mia personale convinzione - e l’ho già espressa in questo spazio - che il ministero dell’Istruzione si debba avvalere del gran materiale video che riguarda i grandi temi della storia, antica, moderna e contemporanea. Ce ne sono tanti, mandati in onda da Sky, dalla Rai e da Mediaset. Ormai pare uno slogan il «viviamo nella società dell’immagine». Allora perché l’immagine, corredata da un impianto documentativo serio ed equilibrato, deve rimanere fuori dal cancelli della scuola? Per questioni di costi? Ma via, un dvd costa pochissimo ed è reperibile anche da parte dei più sprovveduti. Non escluderei alcuni film storici come Elisabeth, l’Riccardo III, un uomo, un re (con un formidabile Al Pacino, interprete anche del Mercante di Venezia) o pellicole tratte dai romanzi, rigorosamente aderenti alla verità storica, di Valerio Massimo Manfredi. Senza parlare di molte puntate di Quark di Piero e Alberto Angela. Sky ha mandato in onda in questi giorni (con repliche che certamente verranno) un documentario realizzato dalla francese Antenne 2, intitolato Cattiva condotta. È la storia, narrata (da testimoni veri) e filmata (attraverso eccezionali pellicole captate anche dallo Stato della California) sulla repressione nella Cuba di Fidel Castro. Uno degli slogan del

È

lider maximo e barbudo era «Libertà e pane, pane senza terrore». Il pane, come gli storici ben sanno, fu scarso, il terrore ci fu invece e in abbondanza. Si cominciò all’inizio degli anni Sessanta con le cosiddette «epurazioni morali». C’erano retate contro i sospettati (genericamente di «cattiva condotta»), questi poi venivano radunati in uno stadio, sotto i riflettori sempre accesi, e ripetutamente e pesantemente insultati. «Nessuno di noi si poteva sottrarre nell’umiliazione dell’amico», racconta un testimone. Certo, la colpa grave era o essere omosessuale o dare l’impressione di esserlo. Incappavano in questo «reato» gli hippies, quelli che ascoltavano i Beatles, quelli che avevano i capelli lunghi, le donne sessualmente un po’ troppo disinvolte. Poi i dissidenti politici, i giovani che suscitavano sospetti «anche solo per uno sguardo o una frase» all’università (gli atenei in certi periodi persero molti studenti), ovviamente le prostitute, oltreché i ladri e i presunti assassini. Sorsero i campi di concentramento, detti Umap, e lì finivano gli indesiderati a bordo di pulmann sti-

web

patissimi che viaggiavano anche per dieci ore. I prigionieri erano costretti a fare i bisogni a bordo, il tanfo era insopportabile. Nessuno offriva loro acqua da bere. Tra i «non comunisti» finivano spesso gli scrittori. Racconta un uomo ora abitante in Francia: «Per i cubani ortodossi i narratori e gli storici erano tutti finocchi». O comunque pericolosamente capaci di descrivere ciò che eventualmente vedevano o venivano a sapere. Tra le vittime anche i Testimoni di Geova. Campi di concentramento con filo di recinzione elettrizzato, baracche dove dormire, cani che azzannavano a comando, turni di lavoro estenuanti (per la lavorazione del tabacco e della canna da zucchero). E un grande cartello: «Il lavoro vi renderà uomini». È una frase di Lenin. Inevitabile il ricordo della scritta all’entrata di Auschwitz: «Il lavoro rende liberi». Corsi di indottrinamento in base al manuale dell’Accademia delle

games

scienze di Mosca, scritto da Konstantinov, secondo il quale la maggior parte dei filosofi e intellettuali, da Eliot a Platone, «era fascista». Il linguaggio degli «insegnanti», riferisce un ex prigioniero, era molto elementare, anzi del tutto rozzo. «Ci dicevano che eravamo gli appestati della società cubana». Dal 1971 il codice penale dell’Avana divenne il più feroce tra quelli in vigore nel blocco comunista. Si introdusse, tra le altre cose, la pena di morte. In nome del pueblo di cui il solo Castro era il vero interprete. Delazioni a non finire visto che le guardie del regime promettevano un televisore o un frigorifero, in cambio di una segnalazione, non importa se accertata oppure no. Chissà se molti nostrani intellettuali conoscono questo documentario. Per esempio i più fedeli, ieri come oggi, al castrismo. Come il filosofo Gianno Vattimo (che oltretutto è omosessuale dichiarato). (p.m.f.)

dvd

LE MIGLIORI PAGINE DELLA RETE

CONTUSIONI DI UN NINJA

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cegliere dieci siti tra gli innumerevoli che la rete dedica ai libri non era cosa semplice. Ma il celebre quotidiano britannico Times, si è cimentato ugualmente nell’impresa. Nella classifica compilata da Mike Peake, figura al primo posto DailyLit.com, che ogni giorno si premura di spedire sulla mail alcune pagine del nostro libro preferito, gratis e a un orario concordato. Secon-

S

ull’onda del gran successo registrato dagli acrobatici guerrieri di Ninja Gaiden, arriva su Xbox 360 Ninja Blade. Prodotto dalla FromSoftware di Armoured Core e Tenchu,l’action in arrivo per le console Microsoft non è molto diverso dagli altri pari categoria quanto a plot, ma si segnala per una rutilante veste grafica. Nei panni di Ken Ogawa, membro di una gang guer-

C

Il quotidiano britannico ”Times” stila la top ten dei portali dedicati ai libri e all’editoria

Il nuovo action XBox non brilla per originalità ma punta tutto su adrenalina e veste grafica

Cordio racconta la controstoria della vicenda Alitalia-Cai, alla luce di testimonianze dirette

da piazza per Shelfari.com, dove si incontrano bibliofili incalliti che discettano sulle loro collezioni. A completare il podio RareBookRoom.org, che offre scannerizzate preziose prime edizioni. A seguire FreeBookSpot.com, miniera di libri di testo scaricabili, e ancora Authonomy.com, spazio editoriale per giovani scrittori. Sesto posto per il servizio che Google dedica ai libri gratuiti, e settimo per Blurb.com, che consente di trasformare i propri brogliacci in paperback a tutti gli effetti. A chiudere la top ten, il sito omonimo del Bookcrossing,l’utile LibriVox.org, che raccoglie i classici in audiolibri, e Goodreads.com,«la sala di lettura più ampia del mondo».

rigliera inviata a Tokio, il player dovrà vedersela con la solita orda di umanoidi in preda alle Erinni e mostruose creature poco avvezze alle cortesie. Il tutto però in una cornice che spira adrenalina da ogni angolo, grazie a ritmi di gioco elevatissimi e iperboli splatter che non mancheranno di sbalordire grandi e piccini. Estetica barocca, maquillage di buona fattura e texture non irresistibili, ospitano battaglie all’ultimo colpo in un sottofondo musicale adeguato alla virulenza del plot. Fracassone e giustizialista, Ninja Blade è un ottimo dopolavoro.

gnato l’estenuante trattativa per il rilancio della compagnia aerea nazionale. Nato da un’idea di Alessandro Tartaglia Polcini, assistente di volo cassaintegrato Alitalia, e Matteo Messina, giornalista freelance, il film rivela dettagli ed effetti di un’operazione gravata da fitti fastelli mediatici, alla luce di chi ne ha vissuto le reali conseguenze. Accompagnato da un grande successo di pubblico al teatro Ghione,Tutti giù per aria è una controstoria che parla di licenziati, madri dismesse perché lavorativamente poco redditizie e disinvolta gestione dei diritti civili. L’immagine di un’Italia che, non solo metaforicamente, ha perduto le ali.

a cura di Francesco Lo Dico

TUTTI GIÙ PER ARIA ostellato dagli autorevoli interventi di Gianni Dragoni, Giorgio Cremaschi, Massimo Gismondi, Guido Gazzoli, Dario Fo, Francesco Piccioni, Andrea Giuricin e Ugo Arrigo, che a vario titolo hanno seguito la vicenda Alitalia-Cai nei mesi scorsi,Tutti giù per aria, tagliente documentario di Francesco Cordio, sintetizza bene mesi di contestazioni e denunce che hanno accompa-


cinema

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La leggenda di

Notorius di Francesco Ruggeri o, il film di Hitchcock non c’èntra nulla. E non c’entra nemmeno la mitica canzone dei Duran Duran. Si parla di Notorious B.I.G.. Ebbene, chi era costui? La storia è lunga e piena zeppa di rapper strafatti, morti ammazzati e canne di pistola fumanti. Ma anche di canzoni che hanno terremotato l’orizzonte musicale newyorkese (e non solo) degli anni Novanta. Roba che ha a che vedere con rap, attacchi diretti al potere e rime baciate con cui uscire fuori dall’aria pesante dei sobborghi. Dai uno sguardo veloce alla vita di Notorious Big - morto ammazzato ad appena venticinque anni - e non ci credi. Sembra un film. Uno di quelli dei primi anni Novanta, uscito fuori dalla grinta afro del John Singleton di turno. I fatti: negli States è già da parecchio tempo che si parla di questo incandescente biopic dedicato alla figura imponente e tragica di questo rapper di colore. Un nome, un mito. Dando uno sguardo agli sbarbatelli che infestano Mtv atteggiandosi a profeti del rap, ci verrebbe da consigliare loro una bella doccia d’umiltà e un ripasso approfondito di vita, morte e miracoli di Notorious. Non uno stinco di santo, ma uno che è stato capace di lasciare un segno. Non solo un cantante, ma un rapper autentico, di quelli che fanno tendenza e creano proseliti. Uno che ha vissuto fino in fondo, portando la scena musicale newyorkese più in alto di tutti.

N

I motivi che hanno condotto George Tillman Jr. (il regista) a omaggiarlo sono più o meno questi. Il buon George non è esattamente un gran regista, ma uno che con un buon cast e uno script decente si difende piuttosto bene. Lo aveva peraltro già dimostrato nove anni fa con il robusto Men of Honor dove dirigeva De Niro e Cuba Gooding Jr. Poi, quasi dieci anni di silenzio, interrotti a intermittenza soltanto dalla produzione di qualche film e di una manciata di serie televisive. Il lavoro affrontato per Notorious è stato lungo, articolato e complesso. Anche perché la morte del rapper statunitense brucia ancora oggi, la dinamica del delitto è avvolta (almeno in parte) nell’oscurità e i mandanti dell’atroce gesto rimangono un punto interrogativo. Dall’altra parte Notorious è oggetto di un fervido culto portato avanti da milioni di fan non ancora rassegnatisi alla sua precoce dipartita. Insomma, Tillman si è trovato fra due fuochi. E ha fatto di tutto per praticare un giusto mezzo. Né santificazione, né denigrazione. All’insegna di un cinema in cui a parlare sia

Negli States non è stato un successo, ma il film sul rapper più autentico della storia, oltre a soddisfare gli appassionati, offre uno spaccato emblematico del disagio metropolitano, dell’emarginazione e della lotta per la sopravvivenza di cui il cantante è stato vittima comunque lo spettacolo e la bella impaginazione. La cosa che gli è riuscita meglio è senza dubbio la full immersion nelle acque (o)scure della New York in rap degli anni Novanta. Sono passati quindici anni, ma sembra un secolo. Dopo la Chess Records dei geniali fratelli Chess di Cadillac Records, un’orgia dura e pura di cantautori disperati. Si chiamano rapper, ma si legge gangster. Per sprofondare appieno nel film e carpirne il senso, bisogna farsi un’idea (per forza di cose approssimativa) di che cosa si parli. Due righe di excursus allora. Notorious Big

(al secolo Christopher George Latore Wallace III) cresce negli anni Ottanta in una zona malfamata di Brooklyn. Il padre è un politico, la madre invece un’insegnante giamaicana. La famigliola si sbriciola presto. Papà George fa armi e bagagli, abbandona il tetto coniugale e va rifarsi una vita da un’altra parte. Quella di Wallace inizia ad andare a rotoli. A dodici anni comincia a fare uso di droga e la madre non si accorge di niente, almeno fin quando il figlio, qualche anno dopo, viene risucchiato nella malavita della Grande Mela. I primi arresti per spaccio di crack e possesso d’armi da fuoco non si fanno attendere. Wallace si fa un po’ di carcere, conosce gente nuova e gli viene affibbiato un soprannome che si porterà appresso tutta la (breve) vita artistica: Notorious Big. Il big sta per enorme visto che il giovanotto è un omone di un metro e novanta per quasi centoquaranta chili.

Arriviamo al succo, ovvero ai primi successi in ambito discografico. Notorious giunge al successo negli anni Novanta, ma rappa da quando ne aveva quattordici. Un bel giorno il discografico di turno si accorge di lui, rimane colpito dalla violenza dei suoi testi e lo scrittura. Nel 1992 viene fondata una nuova etichetta destinata a fare la storia del rap: la Bad Boy Records. Notorious è subito della partita. Poco dopo arriva il suo primo album che già dal titolo promette battaglia e premonizioni infauste: Ready to die (letteralmente, «pronto a morire»). Risultato: quattro dischi di platino e la consacrazione immediata di Notorious che viene nominato rapper dell’anno. Le due canzoni di punta dell’album: Gimme The Looth e Thing Done Change. Si parla di disagio metropolitano, di emarginazione, di lotta quotidiana per la sopravvivenza. Ma anche di droga e di voglia di scalare la stairway to heaven, la strada lastricata che porta alla gloria. Notorious brucia le tappe, diventa il simbolo della East Coast e si inimica i colleghi rapper della costa opposta, quella occidentale di Los Angeles. La guerra fra i due gruppi scoppia presto e lascia in terra parecchie vittime. Le due più illustri sono Tupac Shakur e lo stesso Notorious, freddato a Los Angeles da killer ancora non identificati l’8 marzo del 1997. Pochi giorni dopo esce il suo secondo e ultimo album, Life after death, altro titolo che mette i brividi e che pulsa come vibrante e testamentario atto di rivolta.

Eccoci allora a Notorious B.I.G., uscito negli States lo scorso gennaio e salutato da un’accoglienza piuttosto fredda da parte del pubblico (poco più di trenta milioni di dollari d’incasso). Pare che comunque gli ultramaniaci del rap abbiano gradito e parecchio. Merito della regia pulita di Tillman, certo, ma soprattutto di un cast azzeccatissimo. E fra l’intensa Angela Bassett e un promettente Mohamed Dione, spicca il robusto interprete di Notorious Big. Trattasi di Jamal Wollard (un rapper famoso col nome d’arte di Gravy) al quale è capitato un fatto che ha dell’incredibile. Arrivato nella Carolina del Nord per l’anteprima del film, viene raggiunto da alcuni colpi di pistola sparati contro di lui da gente che lo voleva morto. Jamal viene ricoverato in ospedale e si salva. Mutatis mutandis…


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poesia

La parola risvegliata dal nulla di Francesco Napoli o scritto la mia prima poesia a vent’anni in una stanza diroccata. Di là dalla finestra c’era il mare, pioveva dolcemente. Avevo visto per vent’anni le montagne chiudere il golfo e contro il cielo una casetta odorare del suo intonaco rosa che la pioggia risvegliava. (...) Questa fu la poesia che mi si rivelò in quella stanza diroccata ov’io ero seduto (...)». Così confessò Alfonso Gatto, nato giusto cento anni fa, il 17 luglio 1909 in quel di Salerno, sulle pagine del Politecnico nel settembre del 1947. Se si volessero rintracciare i versi di quella prima ispirazione non sarebbe difficile ritrovarli in Isola, la raccolta d’esordio del 1932, e segnatamente in Sogno del golfo, lirica di apertura di quella prima prova poi collocata al penultimo posto nella successiva riorganizzazione in Poesie (1941). «Panorama marmoreo il golfo chiude,/ nel desiderio dell’inerzia, il dono/ calmo sognato dall’immenso: nude/ sorgenti dal profondo al suono//armonioso dell’aria, argentee vette». Si rivela in questi versi appena citati la via gattiana al surrealismo, fondato su una vorticosa processione di immagini svincolate da tradizionali nessi sintattici e incedenti l’una dall’altra, talvolta l’una nell’altra. Una catena che si articola mediante lo sciolto fluire metricoritmico, per lo più a base endecasillabica, con significative deroghe verso il novenario, d’impressione pascoliana, e il settenario, metro elettivo della canzonetta melica del Settecento, e con una ricchissima orchestrazione fonica del verso.

«H

A MIO PADRE Se mi tornassi questa sera accanto lungo la via dove scende l’ombra azzurra già che sembra primavera, per dirti quanto è buio il mondo e come ai nostri sogni in libertà s’accenda di speranze di poveri di cielo, io troverei un pianto da bambino e gli occhi aperti di sorriso, neri neri come le rondini del mare. Mi basterebbe che tu fossi vivo, un uomo vivo col tuo cuore è un sogno. Ora alla terra è un’ombra la memoria della tua voce che diceva ai figli: «Com’è bella la notte e com’è buona ad amarci così con l’aria in piena fin dentro al sonno». Tu vedevi il mondo nel plenilunio sporgere a quel cielo, gli uomini incamminati verso l’alba. Alfonso Gatto da La storia delle vittime

Con alle spalle quasi un decennio vissuto nella costruzione della sintassi dell’Ermetismo, arriva per Gatto la stagione dell’impegno civile e politico. Tornato a Milano agli inizi degli anni Quaranta dopo un primo soggiorno fiorentino caratterizzato dall’anno trascorso con Vasco Pratolini a dirigere la vallecchiana rivista Campo di Marte, compone tra l’altro una poesia, Per i fucilati di Piazzale Loreto, che viene pubblicata anonimamente e diffusa sull’edizione clandestina dell’Unità. Il poeta risistemerà la sostanziosa produzione poetica legata agli anni del secondo conflitto mondiale e all’immediato dopoguerra nel 1966 con La storia delle vittime, dando vita a un articolato volume con le liriche già edite, del periodo 1943- ‘47, e quelle inedite del 1963-’65, quest’ultime «frutto di più meditati ripensamenti sulla sorte dell’uomo, sui nostri impegni di accusa e di verità», preciserà nell’importante Giustificazione al libro. A tenere insieme questi due nuclei il sottotitolo, «poesie della resistenza», dove resistere, per Gatto, significa «contrastare una forza che agisce» contro l’uomo, invitandolo «a cedere». Se esiste poi un terzo tempo nella poesia gattiana, questo è da collocarsi all’altezza di La forza degli occhi, comprensiva di poesie del periodo 1950‘53, e Osteria flegrea, con liriche degli

anni 1956-‘61. Una fase in cui Gatto sembra riaccostarsi ad alcune modularità del «suo» ermetismo. Ritorna all’endecasillabo e al settenario associati nell’unità strofica a lui più congeniale, la quartina; riprende con insistenza la rima e i rimandi fonici s’accentuano in una ricerca, a tratti anche divertita, dei possibili limiti musicali della versificazione; il lessico, quello sì, risente dell’esperienza appena trascorsa, mantenendo diversi elementi realistici. Si respira nei versi di queste raccolte «una poesia di liberi accenti creativi» come affermato una volta dal poeta -, con movenze tra post-ermetismo e post-surrealismo sempre capace di «risvegliare dal nulla la parola».

«Vedere è solo credere ai tuoi occhi» è un verso di icastica sintesi per un basilare assunto del pensiero di Alfonso Gatto e non a caso lo si ritrova nelle Rime di viaggio per la terra dipinta, dove una matura capacità affabulatoria fonde mirabilmente il tratto poetico a quello pittorico nel pieno compimento della teorizzata unità tra i due segni («io parto dalla prima stesura del colore, dal primo segno, così come parto dal primo verso», scriverà in Del perché io dipingo, autoriflessione sulla propria opera pittorica). La raccolta si rivela agli occhi del lettore come prodigioso esempio di uso dell’endecasillabo, «aggraziati nella forma cordiale e familiare della quartina» (Jacobbi). Vi ritorna più viva che mai quella dialettica fra senso e ritmo che informa quasi per intero il percorso poetico di Gatto. Rinnovato anche il lessico con espressioni letterarie, desuete e neologiche che palesano un sopravvenuto gusto per la ricerca linguistica ed etimologica. La morte troverà prematuramente Alfonso Gatto l’8 marzo 1976. Stava lavorando a una nuova raccolta, Desinenze, che uscirà postuma giusto un anno dopo la scomparsa. Sopra il fascicolo che conteneva le liriche del volume in fieri c’era un profetico incipit: «Quante volte mi fu vicina, quante/ la morte per sorprendermi». L’attenzione della grande editoria su Alfonso Gatto, dopo il pregevole Oscar Mondadori di Tutte le poesie (2005) curato da Silvio Ramat, è andata scemando, per cui, nell’occasione centenaria, di rilievo la pubblicazione in autunno degli scritti di architettura da parte di Aragno editore, per cura di Giuseppe Lupo, e di Visioni del poeta che raccoglie, grazie a Liguori editore di Napoli, nella collana «Cinema e storia» diretta da Pasquale Iaccio, i poco noti scritti critici sul cinema e la televisione del poeta. Questo mentre il Centro Studi per la Fondazione Alfonso Gatto, Casa della poesia di Baronissi e il Comune di Salerno stanno celebrando con un articolato programma di eventi il centenario e si apprestano, sempre in autunno, a concludere in crescendo con un incontro articolato in due giornate nel corso del quale i maggiori poeti italiani reciteranno versi del grande bardo di Salerno.


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il club di calliope LA NUOVA GIOVENTÙ Nel chiacchiericcio del quartiere si mostra un’eternità di giovani sulle labbra violacee e sugli occhiali da sole delle ragazze più belle. Una città la vedi sciogliersi davanti ai bar, negli oggetti informi e nel grande gelo della notte. L’incapacità di andarsene è impressa nella pioggia di dicembre che picchia sui coperchi dei cassonetti, quando non c’è passante che si azzardi ad attraversare la strada angosciata dai fanali bassi sull’asfalto di un camion che trasporta la frutta e la noia Alessandro Moscè

CORPO A CORPO CON CARAVAGGIO E MICHELANGELO in libreria

di Loretto Rafanelli el vivo laboratorio di Davide Rondoni sembra che vi sia l’esigenza di andare al di là della poesia, ricorrendo a nuovi mezzi espressivi, a nuove formule. Un impegno frenetico il suo, che lo ha portato a scrivere, tra l’altro, anche per il teatro. Nasce forse tutto ciò non da un progetto studiato, calibrato, bensì da una certa idea della scrittura e del ruolo che deve avere il poeta oggi. Nasce dall’esigenza di stabilire un nesso tra poe-

N

(ma anche al San Tommaso di Velázquez), la Conversione di San Paolo sempre di Caravaggio e la Pietà Rondanini di Michelangelo. Rondoni segue un filo originale e scomodo, attraversando vie eterodosse, rischiose, sofferte. San Tommaso è liberato dalla proverbiale condanna di non aver saputo credere se non vedendo e toccando Gesù, ma che qui diviene uomo di fede proprio perché la fede è vivere fisicamente Gesù. San Paolo, è nell’odierno scenario di un

Riflessioni artistiche e religiose nella nuova raccolta di Davide Rondoni, “3”, dedicata all’“Incredulità di S. Tommaso”, alla “Conversione di S. Paolo” e alla Pietà Rondanini sia e vita, di recuperare i tanti possibili linguaggi, nella totale disponibilità a misurarsi con le infinite vicende degli uomini e così bagnarsi nel sangue limaccioso delle esistenze: un ideale di poesia che si insinua nel ventre degli eventi, vivendoli completamente. Pare che Rondoni voglia dire: la poesia è qui nel fiato quotidiano, nel rischio personale, nell’inquietudine collettiva. Ma anche nella speranza dell’irradiamento di un amore divino, di una resurrezione. Un’idea che il poeta evidenziava nel bel libro Apocalisse amore e che ricorre pure nelle riflessioni artistiche e religiose che sono alla base del suo recente lavoro: 3.Tommaso, Paolo, Michelangelo (Marietti, 70 pagine,12,00 euro). Si tratta di tre opere teatrali costruite attorno alle figure straordinarie di San Tommaso, San Paolo e Michelangelo, più precisamente, la molla che fa scattare questa scrittura è lo sguardo a tre vertici artistici: la Incredulità di San Tommaso di Caravaggio

lungo viaggio in treno, tra persone e ricordi, che lo porta alla stazione Termini, tra l’indifferenza umana dei più, cioè come capita a uno qualsiasi, che fa cose comunissime e scontate. Infine la pietà Rondanini e il segreto di una mano staccata dal corpo che non si sa che cosa possa combinarci se non la disperata rappresentazione di un enigma. Tre scritture variamente formulate: compiuta, e forse la più riuscita, quella su San Tommaso; singolare quella su San Paolo, ricondotto a una quotidianità riconosciuta; accennata e sinteticamente espressa quella sulla Pietà Rondanini, dove, forse, il limitato sviluppo è in sintonia con l’incompiutezza di un’opera d’arte misteriosa. Un lavoro, quello di Rondoni, di grande tenuta espressiva, con un linguaggio poeticamente alto, e di sicura forza creativa (affine a quel teatro di poesia che ha in Luzi e Mussapi i più recenti massimi rappresentanti), a conferma del valore del poeta.

UN POPOLO DI POETI Siamo dentro questo soffio Di fede in una vena d’amore, Siamo nella spiaggia del sole, Nel velo di luce, Un canto dolce che giunge Col vento di questa stagione, E ci fa stare vicini Insieme tra le verdi colline Che vediamo dal treno, Nella piana di pace c’è la speranza Che tutto ora non si fermi. Mary Donci

“Non so come dirlo”. Lo ripeto da mesi. Ma poi finisce sempre che tu capisci. Allora credo di essere una che parla chiaro. Se tu capisci! Finalmente sento che non ho bisogno di traduttori di interpreti di gente che glossi o faccia note alle mie parole ai miei testi alle poesie. A farti capire è la vita che hai negli occhi. La traduttrice è lei. Mostra dove sei passato e passi. Lasciando una riga di lacrime simile a una cometa. Laura Vallieri

Ricordo il tuo sguardo su di me piegarsi breve come un lampo, e le tue labbra cercarmi nel buio di lenzuola bianche. Io sono acqua e tu sei olio, due gocce vicine che vogliono unirsi, si muovono nello stesso tempo liquido dell'amore senza parole. Gocce di lacrime sul mio viso stanco, le stesse sulla tua pelle che brucia. Siamo qui per vivere questa ora di una vita segnata nel palmo della nostra mano. Antonella Berni

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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fotografia

Pellis & Chiaramonte

l’eterno nell’istante di Marco Vallora on voglio vantarla come un’intuizione perspicace, strano però che abbia come rabdomanticamete scelto di mettere insieme due fotografi apparentemente così lontani, nel tempo e nella concezione dell’immagine, quali Ugo Pellis e Giovanni Chiaramonte, che però mi parevano entrambi, nell’uso quasi assassino della luce, capaci d’usare la fotografia (il termine usare è calcolato) come un momento stregante e quasi abbacinato, fulminante, d’immobilizzazione definitiva dell’istante in pietra: vitamorte congelata e potenziata insieme, come in un surplus di visione (l’uno nel bianco e nero antico della petrosità sarda, l’altro nella lattescenza innaturale d’un colore solo mentale, «saggistico»). Pellis nato nel 1882, in Friuli, in primis filologo ed etnologo involontario, che non fotografo; l’altro nato a Varese, nel 1948, però d’origini siciliane, barocche, Gela: prima filosofo e teologo, se così si può dire (studia la luce e l’infinito della fede) che non fotografo. Figurarsi: nulla di più divergente. E invece apro il bel volume Triennale Electa di Chiaromonte e scopro che l’intelligente saggio di Kurt W. Forster (lo studioso d’architettura rinascimentale e contemporanea, ch’è stato anche direttore d’una delle ultime degne Biennali Architettura di Venezia) ha due sole paia d’illustrazioni, quelle che in gergo si chiamano i minimali, addentellati per esplicare visivamente il testo. Una che documenta uno schiacciate, impressionante raffronto, tra l’unica foto museale di Chiaramonte (brandelli scultorei del passato marmoreo, su di una parete candida) e una pagina-pannello da Mnemosine di Aby Warburg, il grande enciclopedico mitteleuropeo (quel Warburg che il suddito austrungarico Pellis avrebbe potuto benissimo incontrare a Vienna o a Innsbruck, nelle sue peregrinazioni universitarie). La seconda, una vera sorpresa, è il confronto tra l’emozionante foto di Chiaromonte del Torso Romano, affettato di luce, nel Kasino di Glienicke, e un’altrettanto vibratile immagine medianica di chi?: Ugo Pellis. Beh curioso davvero. Passando dal «tempo vorace» alla «memoria inventata», Foster, a proposito di questo glottologo e filologo (che gira la Sardegna anni Trenta con un’auto scassa-

N

Una foto di Ugo Pellis in mostra a Lugano e, sotto, uno scatto di Giovanni Chiaramonte tratto da “In Berlin”

arti

ta regalatagli da Mussolini, e scheda le forme idiomatiche con la stessa passione con cui immortala volti e aratri e costumi, ah, quelle barbe in fiamme, quegli occhi febbrili, quegli scantinati scalzi, quelle arrendevolezze ataviche, quegli asinelli accecati con cattiveria, per farli ruotare macinando senza distrazioni!) Foster scrive: «Il mondo di Pellis, a un soffio dalla sua estinzione, trova riscontro nell’inquadratura romantica dell’antichità che esiste solo in un parco della Prussia». Il Kasino progettato da Schinkel: e Chiaramonte ricorda quando, tra lo scherno dei suoi colleghi che si buttavano voraci sulle foto-ricordo del Muro abbattuto di Berlino, s’accaniva come un filologo a cercare le radici del totalitarismo, in una lesena o una parasta dell’eclettico architetto-scenografo del Flauto Magico. Iniziazioni e rovine: questo il fascino piranesiano delle città, per colui che ha iniziato a studiare filosofia e il messaggio di Von Balthazar (che ora il nostro Papa demonizza), che poi viaggia con Ghirri, nei non-luoghi perduti del nostro paesaggio autrostradale, ma quando scopre la novità dirompente e concettuale delle Verifiche di Mulas, si chiude in un silenzio espressivo radicale, senza più immagini, seguendo la testimonianza religiosa di Thomas Merton. Poi risale la china. Il rapporto di Chiaramonte con Berlino, che è il soggetto di quest’ultimo volume, risale al 1983, anno in cui la rivista Lotus gli commissiona di fotografare le architetture di Ungers e Alvaro Siza, e lui cerca di fermare «ciò che davvero rimane nella storia, l’eterno che si apre nell’istante». Se si guardano le potenti immagini recenti, che paion immerse nel miele allarmante dell’intemporale, si capisce come lui scruti il crescere (il «salire») delle città-glamour, non nei luoghi emblematici del consumo ottico, le Postdam Platz, i prodigi dei Piano o di Aldo Rossi, ma nei vuoti, negli spiragli arruginiti, nei no man’s land eliottiani (e peterhandkiani) che rivelano i tarli dell’oggi: ma c’è anche il tocco di pietra (le scogliere di marmo infranto) d’un Juenger, che fu pure lui reporter dalle città morte. Scatta una strana luce, sinistra e dolcissima, arrugginita e paradossalmente tersa, da rosselliniana Macchina ammazza-cattivi: l’aria è come stregata, stupefatta di quelle coltellate di lucore sublime e pur già esalato, placcata nel rigor mortis d’una bellezza calcolata al millimetro, gli stolti direbbero estetizzante. Una parete dice Terror, graffito quasi fosse uno schermo di Ed Rusché. Mentre il cinturato, accucciato come un cane, pare il rosone atterrato della chiesa in rovina. Il titolo: «per Walter Benjamin». L’architettura avanza, talvolta girando la nuca come l’angelo di Klee, e Chiaramonte fotografa proprio quel «dietro», religiosamente: «Spero proprio che, nel carcere della forma, la luce della figura illumini me e il buio del mondo attorno». Fotografia come puro itinerarium mentis in Deum. Il dio come Storia e Destino.

Ugo Pellis. Uomini e cose, Lugano, Museo delle Culture, sino al 13 ottobre; Giovanni Chiaramonte, In Berlin, Triennale Electa, 145 pagine, 42,00 euro

diario culinario

Leccornie d’Abruzzo nel paese di Madonna di Francesco Capozza rrivare a Pacentro, delizioso paesetto arroccato sulle colline appena alle porte di Sulmona, non è cosa facile di per sé. Dal 6 aprile scorso poi, da quel terribile evento naturale che ha squarciato l’Abruzzo, lo è ancora di meno. Qualche deviazione, la statale che collega l’autostrada alla patria dei confetti un po’malandata, il paesaggio più mesto del solito renderanno più difficile raggiungere la meta. Non demordete però, la vita qui è ricominciata e il paese di origine di Veronica Louise Ciccone, in arte Madonna, è pronto ad attendervi con la sua graziosissima piazza (fermatevi al bar centrale a osservare le meraviglie architettoniche, magari sorseggiando un bicchiere di ottimo Trebbiano, che

A

qui costa solo 2,60 euro) e le sue simpatiche vecchiette sedute fuori dall’uscio a guardare e commentare i passanti oppure, e siamo qui per consigliarvelo caldamente, per una sosta golosa alla Taverna dei Caldora. Senza troppi giri di parole, dobbiamo fare una confessione: siamo molto legati a questo locale e ci torniamo sempre con grande piacere. Sarà per le antiche volte a botte (magari non ideali per l’acustica, specialmente a ristorante pieno), per le numerose icone raffiguranti le donne del Vate Gabriele D’Annunzio che ci osservano benefiche, per l’antica eleganza della sala, per la bella veranda, oppure per la rustica cortesia del servizio, eppure qui cerchiamo di venire almeno una volta all’anno. Solo questo basterebbe a farvi apprez-

zare la Taverna, ma se aggiungiamo gli straordinari prodotti, l’abilità della cucina, l’ottima cantina interamente dedicata alla Regione e il miracolo di una spesa contenuta sotto i 35,00 euro, nascerà, ne siamo certi, l’amore. In un luogo come questo non si può dare sfogo alla creatività, e quindi è necessario lasciarsi sedurre dai prodotti e dalle materie prime. Come resistere, per esempio, alla girandola di antipasti locali? Salumi di grandissimo spessore, frittatine alle erbette di campo, carciofi e fiori di zucca fritti in pastella, baccalà bollito e servito con i primi funghi porcini della stagione. E ancora: trippa al verde e bruschette con l’olio di casa, ma su tutto svetta la straordinaria, paradisiaca, deliziosa ricotta di capra, servita ancora tiepida e dentro la tipica fuscella di vimini. Credete a

chi scrive, mai mangiata altrove una ricotta così buona. Tra i primi c’è l’imbarazzo della scelta, noi abbiamo assaggiato una strepitosa zuppa di funghi e la tradizonale «chitarra» al sugo di agnello. Un must, tra le pietanze, l’agnello (e, in stagione, il capretto) cotto sui carboni che, come tutte le altre carni proviene rigorosamente da allevamenti locali. I dolci sono un vero e proprio peccato di gola, ma sarebbe gravissimo rinunciare alla pizza dolce con zabaione fatto in casa o alla crostata con la marmellata di prugne fatta dalle signore del paese. Al caffè potrete abbinare uno degli ottimi distillati o grappe locali, prima di uscire con il sorriso e tanta, tanta voglia di tornare.

Taverna dei Caldora, Piazza Umbero I 13, Pacentro, Sulmona, tel. 0864 41139


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18 luglio 2009 • pagina 15

architettura

Se la riqualificazione comincia dal waterfront di Marzia Marandola a riqualificazione di porzioni urbane che fronteggiano specchi d’acqua, siano essi fronti sul mare, fluviali o lagunari, rappresenta uno dei temi più discussi e tra i problemi più complessi della città contemporanea. Un impegno comune è polarizzato dalla riqualificazione delle aree industriali dismesse: spazi di grande dimensione, riconoscibili da un’immagine comune punteggiata da grandi capannoni cementizi, da relitti pericolanti di telai metallici e da parchi ferroviari in abbandono. Se è consueto per le città d’Europa attivare spazi museali e strutture commerciali per riqualificare le aree urbane prospettanti i corsi di fiumi, assolutamente innovativa è la scelta fatta dalla città di Colonia di assumere gli impianti tecnici di una stazione di pompaggio a pretesto di un’architettura capace di porsi come vettore di qualificazione urbana. Questo ambizioso obiettivo è stato perseguito attraverso un concorso, bandito nel 2003, per la costruzione di una serie di stazioni di pompaggio delle acque reflue, il cui primo importante risultato è testimoniato dall’edificio, ter-

L

moda

minato nel 2008, dello studio Kaspar Kraemer Architetti BDA. La nuova stazione di pompaggio ha rimodellato la zona tra l’ansa del fiume e la città, raccordando le diverse quote altimetriche con la sistemazione dello spazio a parco, apportando una vera e propria riqualificazione del lungofiume sul Reno.

lanterna luminosa, il cui colore varia, dal giallo, al rosso, al verde, in funzione dell’alzarsi o dell’abbassarsi del livello del fiume, trasformandosi in un caleidoscopico segnalatore del livello del Reno. In realtà il blocco che emerge in superficie costituisce solo un frammento di un sofisticato impianto tecnico, in gran parte ipogeo. Al paral-

L’edificio di Kraemer si presenta come un enigmatico ed ermetico blocco parallelepipedo che, innalzato su un terrapieno e proteso verso il fiume, resta avvolto in un rivestimento metallico e non lascia trasparire alcuna funzione. Durante il giorno esibisce la sua corazza impenetrabile metallica, che dall’imbrunire all’alba si trasforma in una

lelepipedo esterno infatti corrisponde un più ampio volume sotterraneo che, schermato dalla parete di scarpa di un terrapieno artificiale rivestito in basalto, custodisce le pompe idrauliche. La stazione di pompaggio ha la funzione di assicurare che il flusso delle acque reflue e dell’acqua piovana di Colonia sia smaltito nel fiume, anche in caso di

piena del Reno, evitando intasamenti e tracimazioni della rete fognaria. Questo piccolo ma impegnativo edificio è uno dei cinque progetti illustrati nel numero 34 di giugno 2009 del mensile Arketipo, dedicato interamente alle architetture del waterfront. Nella rivista sono documentati, con foto e dettagli costruttivi, recenti edifici inscritti in questo tema: il Kraanspoor di Amsterdam, un palazzo per uffici lungo 250 metri che riutilizza come basamento la piattaforma per lo scorrimento delle gru di un cantiere navale dismesso; a Copenhagen, un centro giovanile e un club nautico che formano un’onda cementizia, rivestita in legno, nell’area portuale; a Kotka, un polo multifunzionale è integrato nella banchina del vecchio porto e infine, nota dolente per l’Italia, non un edificio costruito ma solo un progetto, quello firmato Miralles e Tagliabue, vincitore nel 1998 di un concorso per la nuova sede Iuav a Venezia sul canale della Giudecca, fermo dal 2002 per un contenzioso tra progettista, committente e impresa.

Arketipo n. 34, giugno 2009, 141 pagine, 9,00 euro

Quello chic portabile firmato Mila Schon di Roselina Salemi

ila Schon, ovvero Maria Carmen Nutrizio forse non sarebbe mai esistita come stilista, se un bel giorno (o un brutto giorno, a seconda dei punti di vista) il marito Aurelio, del quale ha tenuto il cognome anche dopo il divorzio, non le avesse detto per telefono, con una battuta da commedia americana: «Cara, siamo senza una lira». Proprio lui, che non voleva vederla due volte con lo stesso abito, e la mandava a Parigi per lo shopping da un giovane stilista, un certo Christian Dior, acclamato inventore del New Look. Mila non sarebbe esistita, non avrebbe disegnato con mano sicura i suoi tailleur puliti, gli abiti essenziali, concettuali diremmo oggi, i double di cashmere e soprattutto, non avrebbe dichiarato guerra alla fodera, se le circostanze non l’avessero costretta a trasformare la passione per la moda in un vero mestiere. In certe storie, e in questa in particolare, l’inizio è bellissimo, la conclusione meno. Forse perché nel finale c’è la vendita ai giapponesi. Forse perché comincia con il fuoco, l’ansia della scalata e la felicità del successo. Il resto potrebbe anche non essere raccontato, come la vita matrimoniale del Principe e di Cenerentola. Nel libro dedicato a Mila con cura affettuosa, oltre che con impeccabile filologia, (M. as Mila, a cura di

M

Patrizia Gatti) l’incipit è quello di una favola. C’è una ragazza che lascia il marito in rovina, licenzia la servitù, si trasferisce assieme al figlio dalla madre (buona borghesia milanese) ed entra, un po’ per istinto, un po’ per vocazione, nel mondo delle sarte. Vuole

creare qualche vestito per le amiche, poi si vedrà. Siamo alla fine del 1957. Il pret-a-portér non esiste ancora. Ci sono atelier importanti: Irene Galitzine, Roberto Capucci, Sorelle Fontana. C’è un intenso traffico di cartamodelli, copiati o rubati. Parigi detta legge. In quegli anni Mila è ancora molto diorizzata (drappeggi, plissè, fioc-

chi), ma trova presto la sua strada: una semplicità elegante, studiata, uno chic portabile, non solo abiti da sera. La consacrazione arriva nel gennaio del 1965 con la sfilata nella Sala Bianca di Palazzo Pitti: tutti si alzano in piedi, l’applaudono e piangono di fronte alla freschezza e alla novità: abiti davvero moderni, svelti, facili. Così l’Italia scopre la «sua» Chanel. Dopo, c’è il lungo elenco dei successi, l’Oscar della Moda a New York, il trionfo dell’Italian Look, quel tratto inconfondibile, quelle linee smilze, le spalle piccole, la lunghezza sopra il ginocchio, e poi le mille, incantevoli invenzioni: il costumegioiello, coperto di pietre dure, per il bagno di mezzanotte in piscina, le cuciture a scatola sui cappottini geometrici, le divise per le hostess, allora elegantissime, dell’Alitalia (giacchino corto, chiuso da bottoni di metallo), gli abiti tunica per il nostro star system: Virna Lisi, Sylva Koscina, Mina. E proprio Mina le ha detto addio, nel settembre 2008, con le parole più commosse: «Da lei entravano delle animale sciattone infiocchettate, rozze, trasandate e uscivano veramente delle signore. Almeno all’apparenza».

M. as Mila, a cura di Patrizia Gatti, Mondadori Electa, 365 pagine, 75,00 euro


pagina 16 • 18 luglio 2009

fantascienza

essuno in realtà ci pensa mai: e se la Terra non avesse avuto un satellite chiamato Luna? Se non fosse esistita la Luna forse non ci sarebbero stati né poeti, né canzoni, né l’astronautica e nemmeno romanzi di fantascienza di un certo tipo. Leopardi non avrebbe scritto la Canzone di un pastore errante dell’Asia; non si sarebbero cantate né Blue Moon né Luna rossa; Marte, lontanissimo puntino rosso nel cielo, non avrebbe certo stimolato la volontà di costruire razzi per raggiungerlo, come ha invece fatto il pallido astro, con le sue zone d’ombra, che hanno sollecitato la nostra fantasia e che rischiara le nostre notti; la science fiction non avrebbe sviluppato quella sua specifica e fondamentale branca che è la space opera e probabilmente si sarebbe limitata a prevedere un futuro esclusivamente terrestre senza pensare alla «conquista dello spazio»; né ci sarebbero state le maree, il «mal di luna», le leggende sui licantropi, e tante altre cose. È stata dunque l’esistenza di quel globo appeso nel cielo a muovere il senso poetico, l’immaginazione letteraria e la speculazione scientifica: non l’avessimo avuto per così dire «a portata di mano», così visibile e incombente a occhio nudo, non avremmo mai potuto tentare concretamente di raggiungerlo all’inizio con i sogni, poi con i razzi. In fondo sulla Luna, prima che vi ponesse piede Neil Armstrong il 20 luglio 1969, quarant’anni fa, proprio come in America prima di Colombo, ci sono andati tutti e con tutti i mezzi, per parafrasare una battuta dello studioso Jacques de Mahieu...

MobyDICK

ai confini della realtà due astronauti a corto d’aria, e sulla angosciosa avventura di un vascello lunare che naviga sulla sabbia e non sul mare facendovi ugualmente naufragio, in Polvere di Luna dell’onnipresente Clarke (1961). Ma Selene si può esplorare non solo con mezzi meccanici, ma anche con mezzi mentali, come viene descritto nel Satellite proibito di Algis Budrys (1960), un vero guizzo di originalità su un tema su cui sembrava essere stato detto proprio tutto.

N

È una nave che, sollevata da un turbine, porta sul nostro satellite i protagonisti della Storia vera del greco Luciano di Samosata (II secolo d.C.) che fanno singolari e grotteschi incontri, mentre sarà il mitico ippogrifo a portarvi Astolfo alla ricerca del senno perduto di Orlando nel poema dell’Ariosto (1516), talché, dopo averlo letto, il cardinale Ippolito d’Este se ne uscì con l’immortale frase: «Messer Ludovico, dove mai avete trovate tante corbellerie?», per la quale, e solo per la quale, è passato alla storia. Proprio di uno spirito della Luna si serve Keplero per condurvi un giovane astronomo nel Somnium (1634), e dei cigni selvatici vi recheranno Domingo Gonsales, protagonista di The Man in the Moone (1638) del vescovo anglicano Francis Goodwin. Ma la palma di primo vero astronauta dell’Occidente spetta al poliedrico Cyrano de Bergerac che con la sua Histoire comique, ou Voyage dans la Lune (1656) descrive una macchina sì con ali a molle, ma anche con fuochi artificiali grazie ai quali giunge a destinazione. E Daniel De Foe, noto soprattutto per il suo Robinson Crusoe, ha al suo attivo anche un poco noto Consolidator (1705) in cui il protagonista raggiunge il satellte grazie a un «carro aereo» ad ali battenti mosse da combustibile inventato

Stregati dalla luna di Gianfranco de Turris dai cinesi (ai quali, come è noto, si attribuisce l’ideazione dei fuochi artificiali). Con Edgar Allan Poe si giunge alla moderna speculazione scientifica: è un aerostato a portare un certo Hans Pfaal sulla Luna nell’omonimo racconto (1835); sarà il supercannone del Gun Club a sparare il proiettile-razzo verso il satellite in Dalla Terra alla Luna di Verne (1865); mentre una misteriosa sostanza che annulla la gravità, la «cavorite», solleverà dalla Terra sino alla sua

brati nelle illustrazioni di Chesley Bonestell, sono i protagonisti di romanzi come Razzo G.2 di Robert Heinlein (1947), Preludio allo spazio di Arthur Clarke (1951), Destinazione Luna di Lester del Rey (1956), insieme alle tipiche stazioni orbitanti ad anello, tappa obbligata (si pensava all’epoca) prima di giungere sul satellite, descritte in Isole cosmiche sempre di Clarke (1952). Modelli che si trovano in film pioneristici, ma che ci affascinarono da ragazzini,

Cosa sarebbe stata la nostra esistenza senza quel globo che da sempre muove il senso poetico, l’immaginazione letteraria e la speculazione scientifica? A quarant’anni dallo sbarco, breve viaggio negli “allunaggi” d’autore tra “science fiction” e “space opera”. Da Keplero a Steven Harper meta la sfera dei Primi uomini sulla Luna di Wells (1901). Siamo in piena fantascienza e la Luna è a portata di mano, o meglio di astronave. Non c’è autore che non si cimenti con l’argomento soprattutto in quella che viene definità l’Eta d’Oro della fantascienza (americana), a cavallo della seconda gerra mondiale, incrementandosi dopo che i progetti delle V.2 di von Braun vennero adattati ai nuovi scopi scientifici. I tipici razzi a più stadi, cele-

come Destinazione Luna di George Pal (1950) e La conquista dello spazio di Byron Haskin (1955). Tutte premesse al fatidico 2001, odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1968), culmine della sofisticazione tecnologica (allora!) e mistica, che trae spunto dal racconto La sentinella ancora una volta di Clarke (1951). La Luna fa da sfondo anche a romanzi pieni di suspense come Martirio lunare di John Campbell (1951), sul dramma di

L’anno dopo l’uscita di Odissea nello spazio, ecco la missione Apollo 11, la discesa del Lem, il «piccolo passo per un uomo ma grande per l’umanità». Fine della speculazione fantascientifica «lunare»? In parte sì e in parte no. Nel senso che, indubbiamente, di una significativa fantascienza «lunare» non c’è più grande traccia e non si segnalano negli ultimi decenni opere significative, se non per così dire tangenziali al problema, tanto è vero che un interessante e originale romanzo ambientato sul nostro satellite, Lcsi: Morte nella Luna di Steven Harper (2006), è un poliziesco futuribile ambientato nel XXII secolo e infatti è apparso in italiano nella collana del «Giallo Mondadori» (dove Lcsi, sta per Luna City Special Investigation, sigla che ovviamente ricorda il serial tv di successo Csi). Insomma, la bianca Selene ha fatto un passo indietro come sfondo narrativo, anche se appare ogni tanto per i suoi sviluppi politico-sociologici: ad esempio, nel racconto Storie da uomini di John Kessel (2002), che narra la ribellione degli uomini della colonia lunare a un regime matriarcale, riprendendo in piccolo un capolavoro di Robert Heinlein, La Luna è una severa maestra (1965), che quarant’anni prima aveva narrato la rivolta delle colonie lunari contro la madrepatria Terra, sulla falsariga della ribellione delle colonie americane alla madrepatria britannica. Oggi però non abbiamo stazioni spaziali a ciambella che danzano sulle nostre teste al suono del valzer di Strauss, né grandi cupole trasparenti impiantate in permanenza sul brullo suolo lunare, né stiamo viaggiando verso Marte. L’uomo ha delegato l’esplorazione dello spazio solare ed extrasolare a sonde sempre più sofisticate che ci hanno fornito dati sempre più impressionanti e inaspettati; l’esplorazione fisica di pianeti, satelliti e addirittura comete è stato affidato a sonde suicide e a piccoli robot camminatori; il nostro occhio, attraverso telescopi spaziali potentissimmi è giunto quasi ai confini del Big Bang, tredici miliardi di anni-luce fa. L’uomo non ha conquistato lo spazio direttamente, ma lo sta facendo con la sua longa manus meccanica. Uno smacco, se vogliamo dirla tutta, per noi che siamo rimasti svegli quel 20 luglio 1969 in attesa che Armstrong ponesse per la prima volta il suo piede corazzato su quel suolo vergine, un’orma bianca sullo sfondo del cielo nerissimo che però non ha mantenute tutte le sue promesse...


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