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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Sugli schermi il sesto capitolo della saga del maghetto

ASPETTANDO HARRY di Francesco Ruggeri state che vieni, Harry Potter che vai. Ebbene sì, dopo un paio d’anni di astidava per certo che l’epifania potteriana sarebbe avvenuta sotto Natale 2008. Poi Il Dal nenza, riecco il maghetto più famoso del mondo affacciarsi sulle cavaliere oscuro ha rimescolato le carte in tavola e scombussolato non poco 15 luglio sponde dello stivale. Uscita ufficiale il 15 luglio (la cosiddetta dagli animi. 600 milioni di dollari e rotti solo negli States, un record assote to date, in contemporanea mondiale con America e Reluto battuto, guarda caso, a luglio 2008. Il pensierino è venuto autonelle sale, gno Unito), ma è da almeno un anno a questa parte che non matico: perché non sfruttare l’onda lunga del successo del in contemporanea con America si parla d’altro. I fan della serie rowlinghiana stanno saldark knight nolaniano, sperando in un bis? Decisione tando fuori dappertutto, i siti di cinema sono divenpresa. Inizialmente i Potter-dipendenti hanno storto e Gran Bretagna, nella speranza di battere tati succursali del Potter-pensiero e i download il naso, poi se ne sono fatti una ragione. In foni record di incassi del “Cavaliere oscuro”. Di certo, delle foto più o meno ufficiali non conoscono tredo luglio non era poi così lontano. E difatti ecco“Il principe mezzosangue” ha le carte gua. Magie di Hogwarts. Crisi o non crisi, Harry Potci qui di fronte all’ombra sempre più vicina di questo ter è un marchio che resiste al tempo e lo fa alla grande. ormai celeberrimo «principe mezzosangue» che, ne siamo in regola per non deludere Non c’è moda o calo di interesse che gli resista. Harry continua certi, fra la fine di luglio e buona parte di agosto farà incetta di le attese. Non solo a dettare le regole e la Warner fa del tutto per allestirgli un percorso milioni di euro e di spettatori. dei fan... privo d’ogni ostacolo. Prendiamo l’ormai annosa questione dell’uscita di continua a pagina 2 questo sesto capitolo, Harry Potter e il principe mezzosangue. L’estate scorsa si

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Corpo di Gennaro Malgieri Simenon, Dominique e le vite degli altri di Pier Mario Fasanotti

NELLE PAGINE DI POESIA

Ariosto, cartografo delle passioni umane di Filippo La Porta

Quel tipaccio di Roald Dahl di Mario Bernardi Guardi A Cesare Viviani il premio Cetonaverde intervista di Loretto Rafanelli

I “gioielli” di Pinault sbarcati a Venezia di Stefano Bianchi


aspettando

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harry

segue dalla prima

All’inizio del film il ministro del Ministero della Magia, Cornelius Caramell, dà le dimissioni e gli subentra Rufus Scrimgeour, capo degli Auror. Subito dopo Harry viene a conoscenza del fatto che Silente corre il più grande pericolo della sua vita, visto che Voldemort lo vuole morto e subito. Come se non bastasse, a inquietare Potter ci si mette pure il misterioso Horcrux, definibile come il frammento dell’anima di una persona inserito all’interno di un oggetto qualunque. In altre parole, lo stratagemma occulto grazie al quale Voldemort continua a farla franca e a rimandare il momento di tirare le cuoia. Non è finita. Fra Harry e i compagni fidati di sempre è in corso una vera burrasca, leggi tempesta ormonale. Ron infatti capitola per Hermione, mentre Potter cade nei tentacoli di Ginny Weasley che però è già fidanzata. Poco male, al fascino del maghetto è difficile resistere. Insomma, un gran bel bailamme che somiglia tanto a un vero e proprio tiro incrociato di suggestioni, atmosfere e registri narrativi. Dalla commedia romantica, al gotico, cavalcando tranquillamente l’onda lunga dell’horror. Ce n’è davvero per tutti i gusti.

Il perché (al di là del giudizio sul film in sé) lo sappiamo tutti. Fra le altre cose, c’è da registrare la totale assenza di competitor. I robottoni transformers di Michael Bay stanno sbancando i botteghini in Italia e in Usa, ma fra tre settimane subiranno un calo inevitabile. Per il resto, buio pesto. L’estate cinematografica 2009 la passeremo tutti a Hogwarts.

Al momento di concludere il sesto volume della saga (per l’appunto Harry Potter e il principe mezzosangue), Joanne Kathleen Rowling stava per dare al mondo il suo terzo figlio (una bambina) al quale ha dedicato il libro. Sarà forse anche per questo che, a detta di tutti i massimi esperti della saga, la sesta avventura di Harry è di gran lunga la più appetitosa delle sette. Non sta a noi giudicare, l’unica cosa certa è che mai come stavolta la carne al fuoco è a dir poco abbondante. Non solo. Harry Potter e il principe mezzosangue è intinto in colori e atmosfere che più dark non si può. Il cuore di tenebra della saga si nasconde nelle seicento pagine del libro e nelle due ore e mezzo di film. Dimenticate i toni fiabeschi dei primi due racconti e gli sprazzi gotici del quarto e del quinto. Era roba per bambini. Qui si fa sul serio, anche se DavidYates (regista del quarto e del quinto episodio, riconfermato anche stavolta) ha fatto davvero di tutto per farsi sì che la censura concedesse anche stavolta il nulla osta. Ma a interessarci non è tanto Yates (onesto mestierante e nulla più), ma il vero spirito guida dell’opera. Parliamo di Steve Kloves, il vero artefice del successo cinematografico di Harry Potter. Gli appassionati potteriani lo venerano da anni, la produzione pure. Il perché è semplice da spiegare. Kloves non è si è limitato soltanto a vergare per il cinema gli script delle avventure precedenti di Potter (unica eccezione, Harry Potter e l’Ordine della Fenice), ma ha traghettato verso i lidi di celluloide una saga letteraria tutt’altro che semplice da rendere sul grande schermo. Ha insomma tradotto Potter in una lingua comprensibile a tutti, lavorando di cesello e trasformando bacchette magiche e professori stravaganti in racconti cinematografici che non perdono una briciola del potenziale attrattivo dei libri. È poi è riuscito in una missione praticamente impossibile: quella di tenere a bada la Rowling. Come tutti sanno, la scrittrice inglese non è mai stata tenera con chi

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

HARRY POTTER E IL PRINCIPE MEZZOSANGUE GENERE FANTASTICO

USCITA 15 LUGLIO

DURATA 153 MINUTI

REGIA DAVID YATES

PRODUZIONE USA-GRAN BRETAGNA 2009

INTERPRETI DANIEL RADCLIFFE, EMMA WATSON, RUPERT GRINT, MICHAEL GAMBON, ALAN RICKMAN

DISTRIBUZIONE WARNER BROS

osava avvicinarsi ai suoi testi. Produzione, registi e persino interpreti. Altre scrittrici se ne stanno tranquille a casa e per vedere la traduzione cinematografica della loro opera devono aspettare l’uscita in sala. La scrittrice inglese invece non perde un giorno di set. Fiato sul collo e fucile spianato. Il povero Chris Columbus (regista dei primi due film) ne sa qualcosa. La parola d’ordine per accontentarla è una sola: fedeltà al testo. Ma con Kloves è scattata una scintilla particolare. E poi, forte dell’accoglienza riservata dal pubblico ai film passati, il rapporto ha cominciato a basarsi sulla fiducia. Per Harry Potter e il principe mezzosangue le parole rivolte a Kloves sono state poche e chiare: «So che i film saranno diversi, so che non potranno essere i libri e non voglio che lo siano. L’unica cosa che mi importa è che tu sia fedele ai personaggi». Patti chiari, amicizia lunga. E Kloves è stato di parola. I personaggi sono quelli del libro, tutto il resto pure,

ma non del tutto. Non vogliamo rovinare la sorpresa a nessuno, ma sappiate che le trasgressioni presenti nei passati film della saga sono presenti anche in quest’ultimo film. I cinefili andranno in brodo di giuggiole. E la Rowling se ne farà una ragione.

Quello che salta subito agli occhi è la vicinanza di questa sesta avventura del maghetto occhialuto alla terza, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban. Se nel film di allora (diretto dallo straordinario Alfonso Cuaròn) le vicende di babbani, accademie di magia e creature decisamente mostruose erano declinate sui toni del vero e proprio romanzo di formazione (dall’infanzia, all’adolescenza), qui il passaggio è simile. Harry Potter non si limita a crescere (lo aveva già fatto nel precedente Calice di fuoco) ma entra nell’età adulta. I babbani (nella mitologia potteriana, gli umani) diventano adulti a diciotto anni, i maghetti allevati a Hogwarts invece a diciassette.

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

Harry entra dunque ufficialmente nella maggiore età. E sperimenta per la prima volta quello che in precedenza aveva soltanto assaggiato: l’innamoramento, la gelosia, la rabbia e perché no, la voglia di fare piazza pulita. Di un passato pesante e di un avversario (lo storico Voldemort) di cui intende sbarazzarsi una volta per tutte. Potter entra nel magico regno del decisionismo adulto. Prima era un bambino con grandi doni e grosse responsabilità, ora vuole essere un giovane uomo. Semplice e (quasi) come tutti gli altri. Il faccino ingenuo di anni fa si è trasformato in una maschera di determinazione senza se e senza ma. E non è un caso. In confronto a quello che capita in questo sesto capitolo, i pericoli affrontati da Harry nel passato erano benefiche passeggiate di salute. Ora non esistono (quasi) più demarcazioni e schieramenti. Regna la sfumatura e le zone d’ombra la fanno da padrone. Manca un punto di riferimento certo.

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via di Santa Cornelia, 9 • 00060 Formello (Roma) Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938

Ma quello che colpisce di più di questo Harry Potter e il principe mezzosangue è l’esplosione di un tema che attraversa in filigrana tutta la serie: quello del padre. Prima d’essere uno straordinario mago in erba, l’avversario più temibile di Voldemort e il fiore all’occhiello di Hogwarts, Harry è un instancabile ricercatore di una figura paterna. Perso il padre biologico in qualche falda ancora non chiarita del suo passato, Potter salta da un capitolo all’altro delle sue avventure accumulando compagni di viaggio e pericoli sventati all’ultimo, ma quello che arde nei suoi occhi è il sogno di incontrare un padre. Perso Sirius Black alla fine del quinto film e continuando ad affidarsi alle sagge cure di Silente, Harry si specchia nei surrogati di una famiglia scomparsa troppo presto e va incontro al suo destino. Non a caso quello di battersi all’ultimo sangue contro Voldemort, l’omicida del padre. Insomma, spettacolone coi fiocchi da gustarsi sgranocchiando avidamente pop corn, ma anche riflettendo barthesianamente sul senso più profondo del racconto. Non fu proprio Rolad Barthes a rintracciare nella scomparsa del padre (e nella sua successiva e inesausta ricerca), lo stilema fondante del canone letterario occidentale? L’ennesima magia di Harry…

Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 - 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: redazione@liberal.it Web: www.liberal.it Anno II - n° 27


MobyDICK

parola chiave

ossessione del corpo ci costringe nella prigione del narcisismo. Avendo perduto altri riferimenti non ci rimane che la materialità più prossima per riconoscerci in un qualche ideale. Il nostro ideale di contemporanei avvizziti è la cura estenuante, l’esibizione volgare, il linguaggio indecente (e a volte indecifrabile) del corpo. Al di fuori di esso, perfino la parola se non le è correlata, nulla esiste perché niente è così tangibilmente vero. E allora alla religione del corpo ci siamo votati come fedeli della liquidità sociale nella quale sono già naufragate tutte le idee che trascendono la materialità più nobile perché più nostra: quella delle membra che si muovono, che giacciono, che si fanno ammirare, che suscitano repulsione, che accendono i desideri, che spengono gli entusiasmi, che elevano fino all’inverosimile la vertigine del potere di sopraffare altre membra. Insomma, il corpo è tutto. È il demiurgo della modernità. È il luogoevento nel quale si celebrano i trionfi della creazione e del disfacimento, della morte e della resurrezione, del dinamismo e della atarassia. È simbolo e rappresentazione del successo. Soltanto nel corpo la vita assume un senso, ha un significato. E il corpo, con la sua finta maestosità, copre le asprezze delle noesistenza stra edulcorandole con la trasfigurazione della bellezza nel possesso carnale. Perciò tutto si ricompone nel corpo che parla da solo, senza bisogno di suoni o di parole. La sua espressione è connaturata alla sua essenza. Perciò la pubblicità lo usa, l’uomo e la donna lo commercializzano, l’industria dei consumi se ne serve. È una macchina, un meccano. Senz’anima, ormai nell’apparenza delle realtà che riproduce all’infinito. Non è il corpo dei santi, dei poeti, degli eroi, degli artisti, dei tiranni, dei mendicanti, degli ingenui, dei puri di spirito e dei malfattori. È soltanto il corpo: una cosa. Anzi, la Cosa.

L’

Nei corpi massacrati non si rileva nient’altro che materia inutile. Nei corpi spogliati non c’è che induzione alla depredazione. Nei corpi cosparsi di unguenti e stesi al sole o manipolati da abili ricostruttori si vede soltanto la personificazione dell’abbandono. Costeggiano i percorsi di immortalità apparenti i corpi deprivati di profondità, come carte che assorbono i nostri incubi e i nostri sogni ai margini di strade che svelano il potere della seduzione, ma non lo porgono al viandante che uccide i suoi stessi desideri nell’affannosa corsa verso violazione del mito che, se anche dovesse riuscire, non lo appagherà perché il corpo voluto, inseguito, ottenuto è il corpo di tutti, è tutti i corpi del mondo fissato in uno stereotipo che prevede un tanto di appeal, un tanto

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CORPO Una volta era un Tempio, oggi è poco più di un pagliericcio deprivato dell’anima. Continuamente offeso dall’assuefazione agli stereotipi carnali che sembrano dominare ogni cosa e che cartelloni pubblicitari, tv, cinema e internet non si stancano di proporci

L’illusione allo specchio di Gennaro Malgieri

Il nostro ideale di contemporanei è la cura estenuante, l’esibizione volgare, il linguaggio spesso indecente del corpo. A questa religione ci siamo votati come fedeli della liquidità sociale dominata dalla materialità. Ma rassegnarsi alla fine della bellezza è inaccettabile di nudità, un tanto ancora di sorriso ebete, e per finire un richiamo costante, incessante, nauseante ad abusare di quel che il cartellone pubblicitario, la televisione, il cinema, internet propongono generosamente. Ma è l’illusione che illumina i nostri desideri. Pensateci: il corpo è morto. Noi diventiamo automi quando riduciamo noi stessi alla materialità che dovrebbe riempire e appagare i nostri giorni e le nostre notti. Camminiamo tra cadaveri sparsi, inanimati proprio perché ai corpi non si chiede altro che di mostrarsi, indipendentemente dallo scopo. E se una volta era un Tempio,

come si diceva, oggi non è neppure un pagliericcio. L’offesa che rechiamo a noi stessi si riassume nell’assuefazione agli stereotipi carnali che sembra dominino ogni cosa: la politica, l’economia, la cultura, l’arte, la guerra (ma questa è storia antica).

E il possesso del corpo, dei corpi, della più grande quantità di corpi è segno riconoscibile di un potere tanto più forte quanto più si levano dal sottosuolo le grida di corpi infangati, prostrati, profanati, desiderati, amati, usati, gettati, usurati. C’era una volta la bellezza del corpo. Raccontava di dèi

ebbri e innamorati; raccontava la solitudine splendente di mistici assetati di eterno; raccontava di poeti erranti per le vie dello spirito e dell’amore; raccontava di soldati e cavalieri a difesa di civiltà ancestrali; raccontava di guerrieri e di fanciulle, di vecchi e di vecchie, di ladri e di benefattori. Dove sia finita quella bellezza dei corpi che erano torri eburnee, io non lo so, ma credo non lo sappia nessuno. Ritornerà? Forse, si spera perlomeno. Ma quando la caduta diventa fragorosa, non sappiamo più dove rifugiarci per non vedere, per invocare la cecità, per desiderare che il sole si spenga, che la luce manchi, che la disperazione ci soffochi. Poiché tutto è più accettabile della rassegnazione alla fine della bellezza. E il corpo, per lo più si è ridotto oggi nel canto funebre che neppure un miracolo potrebbe tramutare in sinfonia. A meno che Dio non riappaia e ridia al corpo la sontuosa eppure discreta anima che s’è assentata per prendersi gioco di esso, per vedere, di nascosto, che cosa ne sarebbe stato lasciandolo. Ecco: noi ora lo sappiamo. Noi che leggiamo i giornali, che guardiamo la televisione, che andiamo al cinema, che frequentiamo i teatri, che stiamo in mezzo alla gente, che ci nutriamo di pubblicità. Noi sappiamo che i corpi sono apparenze. Sbiadite immagini una volta seducenti, come il volto di chi li ha creati. Cosa resta degli occhi in cui non si legge un’emozione? Che effetto fa una bocca serrata nel silenzio? Che significato ha il gesto che richiama a un banale consumo che potrebbe essere richiamato da altri elementi, ma non necessariamente da un corpo? Nulla. Ed è la nullificazione della persona diventata oggetto che diventa essenziale alle nostre vite frastornate nelle quali niente è al posto in cui dovrebbe essere. Ci guardiamo dentro e non riusciamo più a leggerci niente. E ci domandiamo: ma come, fino a qualche tempo fa parlavo perfino con me stesso e adesso vedo il vuoto dentro di me? Già, per riconoscerci abbiamo bisogno dello specchio. E quel che vi vediamo riflesso è ciò che gli altri vogliono vedere di noi. Tutto, ma non la bellezza. Sarò fuori dal tempo, ma continuerò ad amare il corpo come tabernacolo dell’anima. E lo onorerò. E pregherò per lui. E lo sosterrò quando sarà debole. E alla fine chiederò che su di esso scenda una benedizione. E, spero, che l’ultima immagine che passerà davanti ai miei occhi sia quella di una bellezza infinita che mi porti laddove le immagini si affollano e gli incontri si infittiscono. Dove le anime accarezzeranno i corpi che hanno abitato, finalmente riconoscendoli per quello che sono. Finirà allora la pandemia che ci assedia e che ci ha rubato la bellezza. Se Dio vorrà.


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cd

musica Jarvis Cocker MobyDICK

il ritorno dell’istrione di Stefano Bianchi i piace, o non lo sopporti. Ammiri quell’indole snobisticamente fra le nuvole che fa nobil rima con dandy, o lo prenderesti volentieri a schiaffi per quell’aria vanesia e il fare da secchione che non c’è verso di farti copiare. Amato o odiato che sia, di Jarvis Cocker non si può non apprezzare l’eccentrico talento da songwriter ben addestrato alla causa del Britpop. Negli anni Novanta, il damerino di Sheffield gestisce le sorti dei Pulp contrapponendosi a Blur e Oasis. Sai che risate: mentre quelli si dichiarano guerra atteggiandosi a novelli Stones e Beatles, lui e la sua band riverniciano il glam rock di David Bowie, Roxy Music e Sparks per estrarre dal cilindro un nuovo «cabaret» elettrico/elettronico, intrigante assai. Non è stato facile, però, sbarcare il lunario. Jarvis Cocker ci prova con la sigla Arabacus Pulp: nisba. Snellisce in Pulp, fra l’83 e il ’92 incide It, Freaks e Separations ma nessuno se lo fila. La svolta, faccia a faccia con l’art rock anni Settanta, è del ’94: His’n’Hers, disco romantico e caricaturale, fa il botto con Do You Remember The First Time e relativo video sulla perdita della verginità. È la Pulpmania, signori: la teatralizzazione del pop, un mélo caustico e struggente suddiviso nei «capitoli» Different Class (’95), This Is Hardcore (’98) e We Love Life (2001); «recitato» da un pallido egocentrico che in scena fa l’istrione ispirandosi a Jagger e Bowie, dietro le quinte disquisisce amabilmente di droghe, davanti alle telecamere sfoggia una maglietta con la scritta «Odio i Wet Wet Wet» e prende per i

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in libreria

fondelli Michael Jackson (bimbi adoranti inclusi). Archiviato il Britpop, si volta pagina. Mr. Cocker, nel 2006, pubblica Jarvis. Fa l’impegnato, l’introverso, e chi ne apprezzava il caustico umorismo rimane un po’ deluso. Ritenta, Jarvis, sarai più fortunato. Per fare il solista come si deve, occorre ben altro. Il guizzo da fantasista, per dirne una. E Further Complications è un buon punto di (ri)partenza, per il quarantacinquenne che s’è fatto crescere una barba da maître à penser e adesso ciondola fra chitarroni da mille decibel e sbuffi orchestrali. C’è hard rock, non ci piove, nei cortocircuiti di Fuckingsong. E scimmiotta Johnny Rotten, nella punkettara Caucasian Blues. Poi, fatalmente, retrocede agli amori «glam»: sia in chiave rock, fra Kinks e T. Rex (Angela), sia in chiave melodica con I Never Said I Was Deep che parte come una torch song di Lou Reed e fila dritta nel musical; Hold Still, che più Bryan Ferry non si può; Leftovers, viziosa come solo certi pezzi firmati Cockney Rebel. È antipatico, Jarvis Cocker. Come da copione. Convinto, as usual, d’essere il più bravo di tutti. Ma quando ti butta lì Homewrecker!, con quel sax ubriacante e quella scorza da Batman Theme anni Sessanta; o quando (è il caso di You’re In My Eyes) fa l’evanescente e il modaiolo con un orecchio alla lounge music e l’altro alla disco, ditemi voi come caspita si fa a volergli male. Jarvis Cocker, Further Complications, Rough Trade/Spin-Go!, 18,90 euro

mondo

TOM, DOTTORE DEL ROCK

riviste

I FAVOLOSI PIXIES

BENTORNATO ELVIS

«L

a vigilia di Capodanno del ’98 fu uno dei peggiori giorni della mia vita... Mi sentii come se fossi uscito di senno. Ogni volta che imbracciavo una chitarra, provavo un enorme disgusto». Le parole che Tom Yorke pronunciò in seguito ai tour estenuanti che portarono i Radiohead all’apice del successo e al fondo delle risorse psicofisiche, sono per la band inglese un ideale spartiac-

A

diciotto anni dal fortunato e fugace Bossanova, che regalò ai Pixies l’ebbrezza del successo e l’incoronazione di rock band alternativa per eccellenza, Black Francis e soci continuano a rinviare il ritorno alla sala di registrazione. Finora molti rumors ma anche qualche indicazione su quella che potrebbe rappresentare la nuova direzione della band. «Il gruppo ha bisogno di la-

er essere il tipo saccente, logorroico, egocentrico e bulimico che certamente è quattro caratteristiche che ce lo fanno amare da sempre in modo quasi ossessivo, Elvis Costello ha sovente avuto, nei confronti della musica tradizionale americana, un atteggiamento stranamente rispettoso e misurato. Ma questo Secret, Profane and Sugarcane, non è soltanto la testimonian-

Gianfranco Franchi racconta la storia di Yorke, letterato di Oxford e anima dei Radiohead

Black Francis lascia intendere che, a 18 anni da ”Bossanova”, il ritorno della band è vicino

Costello di nuovo in scena con le quattordici tracce di ”Secret, Profane and Sugarcane”

que. Investiti dalla fama ma di ostinata indipendenza creativa, tormentati ma creativi come pochi altri gruppi dopo i Pink Floyd, gli ex ragazzi terribili di Oxford vengono raccontati con classe e grinta da Gianfranco Franchi, autore di Radiohead. A Kid (Arcana, 448 pagine, 18,50 euro). Deciso a suonare la musica del tramonto della civiltà occidentale, Yorke appare nella storia di Franchi in tutta la sua verve letteraria e la squisita capacità di intellettualizzare il reale senza perdere nulla in gradevolezza. Libero e coraggioso, poetico interprete di echi che svariano da Carrol a Vonnegut, il ragazzo di Oxford è l’anima del gruppo più inafferrabile e colto di questi anni.

vorare con un regista. Quentin Tarantino o qualcuno di simile. Spargete la voce su questa idea perché penso che funzionerebbe», ha fatto sapere Francis tra il divertito e il sornione. Dichiarazioni che secondo quanto trapelato, rivelerebbero che i Pixies sono già alle prese con la registrazione di una colonna sonora per un importante film. Nati nel 1986 con lo stesso Francis e Joey Santiago, il gruppo sbalordì tutti con Surfer Rosa e incassò nel ’90 con Bossanova la cambiale maturata con l’esordio. Riuniti dal 2004, pare che stavolta ritornino davvero. Sui dischi.

za più soddisfacente delle relazioni intrecciate da Costello con la musica americana, bensì uno dei suo dischi migliori». Gianfranco Callieri presenta così su buscadero.com l’ultimo album di un irriverente cantautore inglese che da trent’anni miscela perle ad affilate polemiche. Realizzato in tre giorni con la collaborazione di Stuart Duncan al violino, Jeff Taylor alla fisarmonica e Dennis Crouch al contrabbasso, Secret, Profane and Sugarcane mette insieme quattordici tracce di incredibile raffinatezza. Sospeso tra il folk e il rock’n’roll, il gospel e il blues, la voce di Costello barcolla in un costante e fascinoso disequilibrio. Una faccia da schiaffi, baciata dal genio.

a cura di Francesco Lo Dico

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MobyDICK

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zapping

Ma l’hippismo rivisitato NON FA BENE ALLO SPOT di Bruno Giurato na delle cose belle dell’estate che viene è lo spot a episodi di una compagnia di telefoni cellulari, quello con il gruppo rock che va in giro per l’Italia su un furgoncino Volkswagen scassato. Quelli che sono partiti «senza ascoltare le voci di quelli che gli dicevano “non ce la farete mai” perché se hai un sogno lo segui e basta». È uno spot che ci insegna tante cose. Innanzitutto che i furgoncini VW esistono ancora, chi scrive ha visto l’ultimo esemplare nel 1989 e sospetta che se anche ci fossero, l’attuale normativa sui gas di scarico non li farebbe entrare in nessuna città. Altro insegnamento fondamentale: si può andare a suonare in giro senza portarsi dietro né un cavo, né un amplificatore (il furgoncino è privo di bagagli), il famoso detto secondo cui un musicista è un tizio che sposta grandi scatole nere da una parte all’altra della città è smentito senza remissione. I tre non hanno nemmeno uno zaino, e in questo saranno seguaci dello straordinario jazzista Gianluca Petrella, che girava l’Italia con uno spazzolino da denti e un paio di mutande nella custodia del trombone. Poi al gruppo si aggiunge una ragazza di nome Fiammetta, che appena si presenta suscita la battuta su cui i copywriter si saranno rotti la testa: «ecco perché sento caldo». Ma soprattutto commuove l’entusiasmo di quella frase: «Abbiamo un contatto con un locale», con quel tono che nemmeno a vincere XFactor. Insomma, il revival hippista ma molto ben docciato, il tenore dei dialoghi fanno pensare che i tre (o quattro) siano un bel po’ fresconi. Il che non favorisce l’identificazione del potenziale acquirente dell’offerta. Pensavamo questo, poi è intervenuta una nuova considerazione: anche chi scrive, oltre che musicista, è un utente della compagnia telefonica dello spot. Quindi un certa misura di fresconaggine se la deve mettere in conto. E non ci capita di mezzo nemmeno una Fiammetta.

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teatro

Il fiore del meraviglioso dal Nô al Butho di Enrica Rosso n’esposizione singolare quella che la Casa dei Teatri di Roma e l’Istituto Giapponese di Cultura a Roma concretizzano per celebrare il Teatro Giapponese in tutte le sue forme. Un percorso a ritroso che dalla sala d’ingresso ci introduce alla conoscenza del teatro post-moderno, per poi ripercorrere i passaggi che hanno portato alla sua nascita. Promossa dall’Assessorato alle politiche culturali e della comunicazione, dalle Biblioteche di Roma e dall’Eti, in collaborazione con Zètema e Roma Multiservizi, schiera per la messa a punto una sinergia di esperti italiani e giapponesi, oltre alle testimonianze inviate dalle stesse compagnie e per la prima volta mostrate al pubblico italiano. Le cinque fresche sale del Villino Corsini, situato nel cuore di Villa Doria Pamphilj, sono luogo ideale per ospitare l’allestimento di un materiale tanto denso quanto onirico. Ecco quin-

U

verso l’esposizione del materiale vivo che lo rappresenta, il multiforme linguaggio di un popolo estremo che per molto tempo è rimasto prigioniero del proprio territorio. Proprio quest’isolamento ha generato la purezza di variazioni sul tema talmente ispirate da divenire pietre miliari irrinunciabili. Risale al 1.300 circa, la tradizione segreta del Nô, «lo stile fatto tutto di incanto sottile, l’emozione oltre ogni coscienza», un teatro di meditazione in cui gli spiriti appaiono per entrare in contatto con gli uomini in un luogo magico tra sogno e realtà, che lascia spazio tra un atto e l’altro al Kyogen, decisamente più lieve seppure altrettanto raffinato. Nel 1.600 nasce una nuova forma di esibizione debordante ed esagerata che prende il nome di Kabuki, mentre la tradizione del Bunraku - teatro dei burattini - in cui la fonte del movimento e quella vocale sono disgiunte, si fa risalire alla fine del XVI secolo.Verso

di che varcata la soglia (come già per la bella mostra di Hiroshige, che collezionando 1000 presenze al giorno, è prorogata nella Capitale fino al 13 settembre) il misterioso Oriente e la sua malia ci avvolgono. L’intera storia del Giappone è scandita dai diversi generi teatrali che attraverso la lente magica della poesia, ne illuminano i passaggi storici salienti. Ogni stile viene illustrato con dovizia di dettagli e ci guadagna una tesserina per la comprensione del grande puzzle che costituisce, nell’arco dei secoli, la variegata tradizione teatrale nipponica. Con una particolarità: nulla perde sostanza o autonomia, ogni linguaggio, che si tratti di danza Butho piuttosto che di teatro Nô, trova la sua collocazione e i suoi ammiratori all’interno di un caleidoscopio artistico che a tutt’oggi non trova eguali in Occidente. Si srotola così, di sala in sala, attra-

la fine dell’800, con l’apertura del Giappone all’Occidente, matura l’urgenza di una scena che si confronti con i nuovi costumi. La corrente di modernizzazione dà luogo a una contaminazione più realistica e meno formale. Ne conseguirà lo Shinpa - la nuova onda - che aprirà i palcoscenici alle donne e darà luogo allo Shingeki che alfine introdurrà in repertorio i classici europei. A ciò si aggiunge il patrimonio del teatro Angura - underground - con una formidabile ricerca sul corpo, che vanta nelle sue schiere registi come Tadashi Suzuki e dulcis in fundo, il Butho, la danza delle tenebre.

Il fiore del meraviglioso. Il teatro giapponese nella storia tra rottura e continuità, Roma, Casa dei Teatri, fino al 6 settembre, info: 06 45460693 - www.casadeiteatri.culturaroma.it

jazz

La vita-romanzo del baronetto Shearing

di Adriano Mazzoletti ssendo cieco dalla nascita, non ho avuto bisogno di abituarmi alla cecità, poiché essa è stata con me fin dall’inizio. Non sapevo, come non so ora, cosa fosse possedere il dono della vista, ma fin dalla primissima infanzia mi sono reso conto che il mondo dei ciechi non esiste: esiste un mondo di vedenti al quale tutte le persone cieche devono adattarsi. Ho attraversato quel mondo, un mondo percepito soprattutto attraverso il suono, ma anche toccando, assaporando e odorando. Una volta adulto sono arrivato alla conclusione che, se anche mi fosse stata offerta, la possibilità di vedere, l’avrei rifiutata perché sarebbe stato troppo traumatico vedere tutto ciò che mi circondava e che fino ad allora avevo conosciuto solo attraverso i suoni». È questo l’incipit di un libro straordinario, scritto da George Shearing nel 2004,

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pubblicato recentemente nella traduzione italiana di Manlio Benigni e Sabrina Placidi per i tipi dell’editore Excelsior 1881 di Milano. Nella sua autobiografia Shearing racconta non solo la sua vita di musicista di jazz, ma anche i particolari più nascosti della sua infanzia a Battersea, un quartiere popolare di Londra dove nacque il 2 agosto 1919. Una madre alcolista, un padre carbonaio impiegato a riempire sacchi di carbone per dodici ore al giorno e otto fra fratelli e sorelle, tutti vedenti, salvo lui - l’ultimo - che per un errore della levatrice perdette la vista fin dalla nascita. Il «romanzo» della sua vita, Shearing lo racconta con una scrittura agile e veloce. Le prime esperienze su un vecchio pianoforte mancante di tre tasti, che il padre ha acquistato per cinque sterline. Le poche lezioni che una insegnante dà al piccolo George che dimostra immediatamente doti musicali innate. Nel 1935, a sedici anni, iniziò la professione di musi-

cista suonando in alcuni pub del suo quartiere. Scoprì immediatamente il jazz grazie ai dischi di Teddy Wilson, Art Tatum, Fats Waller, Bob Zurke, Albert Ammons, Pete Johnson e Meade «Lux» Lewis. «Il mio stile è nato dallo studio completo di questi pianisti» scrive Shearing, che continua: «Mi spiace per quelli che si danno al jazz senza un vero background. È come un musicista classico che dichiari di avere un’ottima educazione musicale, ma che non abbia mai sentito parlare di Johann Sebastian Bach». Nel 1939 il ventenne musicista londinese incise per Decca i suoi primi dischi. Accanto a lui, come secondo pianista, un altro inglese che sarebbe divenuto in seguito un dei più accreditati critici di jazz, Leonard Feather. Allo scoppio del conflitto Shearing ebbe la sua prima grande occasione. Incontrò Stéphane Grappelli che si trovava a Londra con il Quintetto dell’Hot Club di Francia. A differenza di Django Reinhardt, il violini-

sta preferì rimanere in Gran Bretagna e per cinque anni lui e Shearing suonarono assieme. Nel 1946, complice il suo vecchio amico Leonard Feather, si trasferì negli Stati Uniti dove nel 1949 formò quel quintetto che immediatamente divenne una delle più famose formazioni jazz. La ragione del grande successo era dovuta a quel particolare sound derivante dalla combinazione fra pianoforte, vibrafono, chitarra elettrica, contrabbasso e batteria. Fra i componenti del quintetto, la vibrafoinista Marjorie Hyams, il chitarrista Chuck Wayne, il batterista Denzil Best. Nel 1952 Shearing incise una sua composizione dal titolo Lullaby of Birdland, che gli diede fama, onori e ricchezza. Ma non solo. Tornato a Londra, fu il primo musicista di jazz a essere insignito del titolo di Baronetto. George Shearing, Il Tocco di Sir George, Excelsior 1881, 325 pagine, 21.50 euro


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narrativa

libri

Simenon, Dominique e le vite degli altri di Pier Mario Fasanotti stato scritto nel luglio del 1942 (e pubblicato nel ‘45). Siamo a Parigi, esattamente in faubourg Saint-Honoré. Non ci sono echi della guerra, né rumore di stivali o di cingolati: nessuna traccia dell’immane conflitto. L’unico conflitto, non meno tribolato, è quello di una donna di quarant’anni, col naso un po’ storto, fisicamente non brutta anche se - ma per colpa sua del tutto insignificante, una che si fa fatica a ricordare incontrandola per strada. È uno dei romanzi più fortemente sensuali mai scritti da Simenon, che carpisce e descrive il turbamento femminile, la repressione sessuale, la tortuosa volontà non tanto di sognare quanto di ricordare, avvinghiata in un presente del quale lei è interamente parassita. Il presente di Dominique, che vive in un piccolissimo appartamento, sta nelle finestre del palazzo di fronte al suo. Già Simenon scrisse un romanzo intitolato Le finestre di fronte. Quel che si percepisce guardando le case altrui era per lui sia un’ossessione sia un costante spunto narrativo. Un modo per registrare e immaginare eventi che non si mostrano mai nella loro interezza: la vita, del resto, è così. Fin dalle prime due pagine ci imbattiamo nell’afflitta solitudine della donna, che fino a poco prima aveva accudito il padre morente, un generale. Adiacente la sua camera da letto c’è quella che lei ha affittato a due giovani sposi, smaniosi di vita e rumorosi nell’esprimere la loro intensissima intimità. Dominique sa bene che quei due «si muovono nudi, carne contro carne, con la pelle luccicante di sudore, i capelli incollati alle tem-

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pie… si crogiolano in quel calore, in quell’odore di bestia umana…». Dominique continua a rammendare il suo abito, nel punto dove il suo corpo suda di più: sotto la manica. Il suo sguardo è quasi perennemente incollato alle due file di finestre di fronte: ci abitano i Rouet, ricchissimi, infelici. Rouet padre è ingessato nella sua compostezza e intimorito dalla straripante e arrogante moglie, dalla quale ha ereditato una fabbrica e varie opportunità di affari. Poi quell’«armadio» di carne che detta regole. Sotto Rouet figlio, «un ometto scialbo, senza alcuna attrattiva… un paio di baffetti smorti, tagliati a spazzola a fil di labbro…». È malato, è sempre stato debolissimo. Dominique osserva la sua bocca che si apre e non riesce a emettere suoni. Dov’è sua moglie Antoinette? Quella che quando è in casa è sempre in sottoveste e quando esce è vestita in modo impeccabile. Donna sensuale e vitalissima, con origini chiassosamente plebee, frustrata da un marito che ricco è, ma certo non di vita. Dominique assiste alla morte dell’ometto con i baffi. Le gocce curative a lui destinate sono state versate nelle fioriere. Lei ha visto, lei sa, lei scrive di sapere. Per quale scopo? È confusissimo il suo percorso di ricattatrice. Conosce anche i segreti percorsi di Rouet padre, che di nascosto si occupa di prestiti a usura e frequenta giovani prostitute. Dominique dell’amore non sa nulla. La sua me-

moria contiene soltanto lo sguardo di un soldato che partì per la guerra. Solo quello. Fissa la vita che scorre, e finisce, nel palazzo di fronte, a osservare le scene di vita familiare della borghesia che sa così bene apparire meschina. Addirittura si turba quando, durante il rammendo, si toglie l’abito, quando si osserva allo specchio e scopre che i suoi seni non sono affatto cadenti. Ma il suo imbarazzo psico-fisico va oltre: fin da ragazzina s’è abituata a rifare subito il letto dove ha dormito per la paura di osservare le tracce della propria notte. La estroversa vedova Rouet, ormai in conflitto con la suocera, cerca spasmodicamente un amante, lo trova, alla fine dà scandalo. E Dominique? Ricorda quel che le dicevano da bambina: «Sei una sciocchina… ti ricordi che ti hanno sempre trattato da sciocchina… ti mettevi a fantasticare e dimenticavi la cosa principale». La cosa principale era la sua stessa vita. Farà una scelta, alla fine. E immagina quel che diranno i vicini di casa e i parenti di Rennes, Tolone e Angoulême: «A me è sembrato che fosse un po’ infelice… No, no, non lo era». Già, mai nessuno l’ha guardata bene, né fuori né dentro. Era lei che guardava la vita degli altri, senza sapere poi di che farsene realmente. Georges Simenon, La finestra dei Rouet, Adelphi, 177 pagine, 18,00 euro

riletture

E nel Bilenchi “minore” si affacciò la figura del Nonno di Leone Piccioni iberal - ne sono certo - tornerà a dare un giusto e importante rilievo a Romano Bilenchi da qui al dicembre prossimo quando cadrà il centenario della nascita dello scrittore toscano. E a novembre del 2009 ricorrono anche i vent’anni dalla sua morte. Noi per ora ci limitiamo a guardare con attenzione al primo Bilenchi, quello di Vita di Cristo del ’31, di Socialisti di Colle del ’33, del Capofabbrica del ’35. Diremo subito che se il lavoro di Bilenchi si fosse fermato lì ci saremmo ricordati di lui come di uno scrittore minore da configurare nell’area di «Strapaese», il movimento di Mino Maccari. Ma la lettura di quei testi ci interessa anche perché certi spunti, certe situazioni, certi profili sembrano anticipare alcuni dei modi e dei risultati successivi, tra i maggiori della nostra narrativa del Novecento. Diremmo anche subito che in

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quegli anni (1930-1935) Bilenchi apparteneva a quel gruppo di scrittori e di intellettuali (definizione, «intellettuali», che certo non gli sarebbe piaciuta) che aderirono al fascismo avendo creduto in una politica rivoluzionaria, di rinnovamento politico e sociale che avrebbe portato a una certa omogeneità delle classi popolari. Non si erano accorti che il fascismo si era messo al servizio dei grandi proprietari terrieri e degli industriali, con ben pochi interessi per le classi sociali. Con Bilenchi c’erano anche (a non dire altri) Elio Vittorini e Vasco Pratolini. Non è un caso che tutti e tre guardassero con interesse, anche scrivendone, all’immagine del marxismo e dell’Urss. Fu con la guerra di Spagna che si accorsero di quanto sbagliate fossero le loro speranze sul fascismo e divennero, d’un tratto, comunisti partecipando attivamente anche alla lotta partigiana (Bilenchi uscì dal Partito comunista dopo l’invasione russa dell’Un-

gheria e poi rientrò con Berlinguer; Vittorini ruppe con una clamorosa polemica con Togliatti nel ’45 e Pratolini si trovò a vivere una vicenda dubbia e sconcertante, poi finita per il meglio). Bilenchi partì da «Strapaese»: all’ombra di Maccari, suo compaesano di Colle Val d’Elsa e dunque le pagine di Vita di Cristo possono risultare l’equivalente di certo spirito scanzonato e pungente dello stesso Maccari. Ma Bilenchi non possedeva spontanee doti di humor: nel resto dell’opera sua raramente si troverà uno spiraglio d’ironia e di sorriso, che invece possedeva ampiamente in persona.Vi sono rappresentati personaggi emersi da rapidi bozzetti, insieme ai signorotti del paese più volte burlati e scornati. La storia dei socialisti di Colle, apparsa presso la collezione del Bargello, organo di stampa fascista di Firenze, si muove tra documento e polemica con tante riproduzioni di vecchi giornali, di facsimili di schede elettorali, di figurine,

di citazioni. Qui lo «Strapaese» è soffocato dalla polemica politica. Ma ecco subito temi che impegneranno Bilenchi più tardi: i contrasti all’interno della famiglia e in fabbrica, l’odio e la difficile pacificazione, i risentimenti, le pressioni di danaro con finali momenti di solidarietà. E appare anche la coppia del nonno e del nipote che sarà stupendamente ripresa nella Siccità (1941): «Il nonno morì all’improvviso mentre sedeva sulla poltrona dello studio… Solo il nipote s’inginocchiò con gli occhi rossi e la gola serrata presso quel corpo. I ginocchi nudi gli si macchiarono di sangue. Ringraziò Dio per non aver fatto soffrire il nonno e per non aver dato soddisfazione ai parenti. Dopo fu ribelle e aspro con loro».Verranno presto i tempi con la pacata drammaticità del Conservatorio di S.Teresa (1940), di Anna e Bruno (1943) e finalmente, dopo La siccità e La miseria, la magica lucentezza del Gelo (1983).


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spiritualità

Alina Reyes folgorata da Bernadette

di Gabriella Mecucci n libro imprevedibile. La ragazza e la vergine. Storia di Bernadette è un volume affascinante e inaspettato. Inaspettata è innanzitutto l’autrice. Si tratta infatti di Alina Reyes, scrittrice francese di libri erotici, che una ventina di anni fa scrisse Il macellaio che diventò non solo un best-seller, ma un «faro» per chi segue questo genere di letteratura. Ebbene questa scrittrice improvvisamente decide di seguire le orme di Bernadette, di trasferirsi nei luoghi della sua vita, di raccontarne le gesta, di indagare i misteri dell’apparizione. Un lungo percorso che la porta a «una

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storia

conversione», quella povera giovinetta irrisa e attaccata compie il miracolo di trascinare la Reyes verso un profondo confronto spirituale e verso il cristianesimo. Racconta la scrittrice: «Dal 1989, da quando ho trovato questo paradiso, questo casolare fra le montagne a 45 minuti dalla città, Lourdes è diventata per me un luogo familiare… Non ero credente, il kitsch di questa fabbrica del pellegrinaggio non mi piaceva, ma sentivo il desiderio di andarci perché vi provavo una qualità particolare della solitudine». Parte da qui il viaggio della Reynes per toccare le 18 apparizioni, per indagare il significato dei gesti che la Signora chiede a Bernadette di

fare, per capire chi è l’Immacolata Concezione. Lungo questa strada si snoda la ricerca. Domande, risposte: pieni, vuoti. Ma la Reynes non elude il problema: «È la questione di Dio scrive - il vicolo cieco di questa storia. Viviamo in un tempo, già iniziato all’epoca di Bernadette, in cui Dio è associato alla Morte. Per gli uni Dio è colui che dà loro il permesso di uccidere al fine di regnare in Suo nome sul mondo; per gli altri, Egli è Morto, è il grande Scomparso, che lascia l’essere umano solo al mondo, in tutto il suo orgoglio e in tutta la sua disperazione». Il racconto di Bernadette delle apparizioni, dei gesti è l’antidoto a tutto questo. È l’espressione

dell’obbedienza, della dolcezza, dell’amore, della preghiera, della penitenza. E «la penitenza - osserva la Reynes - è la conversione, l’ho capito da poco». Il libro critica duramente «la nostra epoca, orgogliosa e ferita, è quella a cui si assiste a un feroce accanimento contro il mistero e contro l’umano». Bernadette accetta il mistero: «Bisogna che tutto abbia una fine perché nulla muoia». E succede così che un giorno, «in un mattino d’inverno si parta miserabili per andare a raccogliere la legna secca e s’incontri la vita». Alina Reyes, La ragazza e la vergine. Storia di Bernadette, Guanda, 118 pagine, 13,00 euro

Quando il fascismo s’insegnava in palestra di Angelo Crespi ove vennero forgiati i fascisti? In palestra. E chi li educò al verbo del Duce? Ovviamente gli insegnanti di educazione fisica. Su questi assiomi, o almeno in parte, si fondò la pedagogia fascista che nella cura del corpo e nell’attività fisica ebbe i suoi strumenti privilegiati. Ereditata dall’Italia postunitaria l’idea che l’educazione ginnica potesse essere un importante mezzo per la formazione dei cittadini, il Fascismo, giunto al potere, si prodigò nel dare una conformazione giuridica stabile al settore, prendendo in esame la possibilità che la materia po-

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racconti

tesse rientrare o meno nella competenza del Ministero della ubblica istruzione. Ovviamente, i modelli da cui trarre ispirazione erano quelli dei futuristi e degli arditi, poi degli avanguardisti, che in modi differenti rappresentavano il concetto di razza che via via veniva costruito e infine imposto nella società italiana. Dapprima venne dunque istituito, sotto gli auspici di Giovanni Gentile, l’Enef (Ente nazionale per l’educazione fisica); in seguito al fallimento di questo sistema, nel 1926 si decise di affidare all’Onb (l’Opera nazionale balilla) la gestione dell’educazione scolastica e il futuro compimento di quella rivoluzione antropologica degli italiani tanto cara a Benito Mussolini. Per far ciò mancava-

no però i maestri e i professori che potessero risvegliare l’ardore delle masse di giovani pronte per essere irreggimentate. Fu così che nel 1927, venne fondato a Roma l’Istituto della Farnesina «per la preparazione scientifica, morale e tecnica dei docenti di educazione fisica» a cui in seguito sarebbe stato conferito il titolo di Accademia. Gli allievi licenziati avrebbero svolto in seguito una strategica funzione di propaganda nelle scuole medie e superiori, sostituendo poco alla volta il vecchio corpo docente. Quello che oggi resta di quel maldestro tentativo di politica eugenetica è l’edificio progettato dall’architetto Enrico Del Debbio nella zona, allora acquitrinosa, di Monte Mario che poco alla volta si ampliò fino a diventare un complesso, quello del Foro prima denominato Mussolini e poi Italico, dove vennero ospitati per alcuni anni i grandi riti collettivi di autoesaltazione della gioventù fascista. Alessio Ponzio, La palestra del littorio, Franco Angeli, 274 pagine, 32,00 euro

Schulz alla scoperta del “nucleo metafisico” di Mario Donati arebbe diventato il Kafka della Polonia, ma venne ucciso alla fine del 1942 da un ufficiale nazista. Bruno Schulz ci ha lasciato alcuni splendidi racconti. Scrisse anche un romanzo, ma purtroppo andò perduto. Era un timidissimo professore di disegno, a disagio nel mondo. Parlava con la voce bassa, era estremamente mite e gentile. Un giorno arrivò a Varsavia - dalla Galizia orientale dov’era nato - e si adoperò perché una famosa intellettuale della città desse una sbirciatina ai suoi racconti. E lei, dopo premesse arroganti, lesse trenta pagine. Si fece viva al telefono: «Ci sono cose che non so-

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no certa di aver capito, ma mi sembra di trovarmi in presenza di una rivelazione, forse la più importante rivelazione della letteratura polacca degli ultimi anni». A Schulz portarono una sedia perché sembrava svenire. E così questo ebreo polacco nato nel 1892, nativo di Drohobycz (oggi in Ucraina dopo la grande spartizione dell’Europa orientale) conquista la notorietà con due libri: Le botteghe color cannella e Il Sanatorio all’insegna della clessidra. Ora la Einaudi ripropone i racconti considerati migliori. Noi sappiamo che sarebbe meglio leggerli tutti, con il rammarico di non poter gustare il romanzo perduto, intitolato Il Messia. La sua prosa è precisa e raffinatissima, la sua ri-

cerca si indirizzava verso il «nucleo metafisico» dell’uomo, percorrendo strade fantastiche e metaforiche. David Grossman, nella postfazione, dice una cosa acuta, ossia che è lo stesso lessico il protagonista di tutte le pagine. Nella Visitazione Schulz parla del padre, in modo insieme doloroso e comico, seguendo così la tradizione narrativa ebraica. Un padre in declino, sfiorante la follia più o meno lucida, che la notte alza i lamenti e borbotta con Dio salvo poi ripiegare «in una tempesta di singhiozzi confusi e di maledizioni». Un uomo che dà alla famiglia l’impressione di rimpicciolirsi, con la stravagante abitudine di nascondersi negli armadi per poi uscirne ricoperto di polvere. Schulz fa poi

cronaca nuda: «Nodo per nodo, si distaccava da noi, punto per punto perdeva i contatti che lo tenevano legato alla comunità umana». E inoltre manifesta il timore che qualcuno lo butti nell’immondizia, come uno straccio sporco. Nelle Botteghe color cannella c’è la disordinata e felice notte di un ragazzo che si perde nelle strade. Le quali, di notte, «diventano tutte sosia». Si gode l’ultima porzione della notte: «Le trasformazioni del cielo, le metamorfosi delle sue molteplici volte in sempre più ingegnose configurazioni non avevano fine». Bruno Schulz, L’epoca geniale e altri racconti, Einaudi, 140 pagine, 10,00 euro

altre letture È un giornalista

dell’Espresso l’autore di Magistrati. L’ultracasta (Bompiani, 259 pagine, 17,00 euro), questo per dire che non è uno che parte dal presupposto che ogni toga sia rossa, che ogni magistrato sia potenzialmente un pazzo, e che esiste una corporazione di giudici che vuole prendere il potere in Italia. Quella dei giudici e dei Pm, dice però Liviadotti, è la madre di tutte le caste. Uno Stato nello Stato. Governato da fazioni che si sparticono le poltrone in base a una ferrea logica lottizzatoria e riescono a dettare l’agenda della politica. Un formidabile apparato di potere che sventolando, spesso a sproposito, il vessillo dell’indipendenza e facendo leva sull’immagine dei tanti magistrati eroi, è riuscito a blindare la cittadella della giustizia, bandendo ogni forma di meritocrazia e conquistando per i propri associati un carnevale di privilegi.

Le grandi

democrazie europee da tempo aiutano le famiglie a crescere i giovani, assistere gli anziani e a creare ricchezza sostenendo il lavoro delle madri e di tutte le donne. Una tradizione che però in Italia non esiste. Nel nostro Paese infatti le famiglie sono sempre più sole, prive di quel sostegno che migliorerebbe la qualità della vita e favorirebbe lo sviluppo. Un dato già preoccupante e depressivo, che diventa drammatico, come spiegano Daniela Del Boca e Alessandro Rosina in Famiglie sole (Il Mulino, 137 pagine, 11,50 euro) con l’acuirsi della crisi economica.

Turchia in Europa sì o Turchia in Europa no? I fautori dell’adesione sostengono che la Turchia sarebbe un alleato naturale dell’Occidente contro il fondamentalismo islamico. Ma la Turchia di oggi, replica Roberto De Mattei in Turchia in Europa (Sugarco Edizioni, 147 pagine, 15,00 euro) non è quella secolarista di Kemal Ataturk. Le elezioni del 2002 hanno visto la vittoria, confermata nel 2004, del partito del velo. La Turchia inoltre che si avvia a raggiungere gli 85 milioni di abitanti sarebbe il paese più popolato e quello che avrebbe il maggior numero di rappresentanti nel Parlamento europeo. Mentre l’Europa rinuncia alle sue radici cristiane la Turchia presenta un’identità politica religiosa estremamente forte. U’identità a cui la Turchia non intende rinunciare ma vuole imporre in Europa. Ecco perché per De Mattei l’ingresso di questo paese in Europa non sarebbe un beneficio, bensì una catastrofe. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

L’ANEDDOTICA LO DESCRIVE ANTIPATICO, STRAVAGANTE, SPORCO, TACCAGNO, MISOGINO, REAZIONARIO. IN REALTÀ, OLTRE A ESSERE UN RICONOSCIUTO MAESTRO DELLA LETTERATURA PER L’INFANZIA E NON SOLO, ERA UNO SPIRITO LIBERO, ANTICONFORMISTA, ESTROSO, EFFERVESCENTE. CAPACE DI SMASCHERARE, CON FURIA IRONICA E IRRIVERENTE, LA DISUMANITÀ DELLA NATURA UMANA. BASTA LEGGERE I SUOI RACCONTI, ORA RACCOLTI IN UN UNICO VOLUME DA LONGANESI…

Quel tipaccio di Roald Dahl di Mario Bernardi Guardi el film Le ultime 36 ore (1964), a un maggiore americano, catturato dai nazisti nel 1944, vengono date massicce dosi di droga finché si convince che la guerra è finita da anni e si mette a parlare senza problemi dello sbarco yankee in Normandia. Alla fine, però, si accorge dell’inganno, depista i tedeschi e viene salvato da un medico delle SS. Nei Gremlins (1984), ecco un bell’incubo per il divertimento di bambini e di adulti: il piccolo Billy riceve dal papà un regalo natalizio, per dir così, esclusivo: si tratta di un Mogwai, un piccolo, simpatico, buffo animale acquistato da un vecchio cinese. Ma ci sono delle precise istruzioni da seguire per allevarlo, altrimenti… Beh, l’«altrimenti» si verifica: e dall’animaletto si generano mostri che seminano il terrore. Un’altra storia simpaticamente orrifica è Chi ha paura delle streghe (1990). Anche qui c’è di mezzo un bambino, Luke, che insieme alla nonna norvegese fa una bella scoperta: nell’albergo sul mare in cui sono alloggiati per le vacanze si tiene un congresso annuale di streghe. Le quali non si accontentano di relazionare su magia e dintorni, visto che si preparano a trasformare in topi i bambini d’Inghilterra. Riusciranno i nostri eroi…?

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Il gigante e la bambina non è solo una suggestiva e ambigua canzone di Ron, musicata da Lucio Dalla (il tema, neppur tanto velato metaforicamente, è quello della pedofilia), ma anche un film del 1990: Il mio amico Gigante. Qui, però, l’orfanella Sofia non ha nulla da temere: il Gigante che l’ha rapita è una persona come si deve, un Orco buono, gentile, addirittura vegetariano che va a caccia di sogni per insufflarli nella fantasia nei bambini addormentati. E così i due stringono una specie di «santa alleanza» per bloccare altri giganti la cui dieta non è a base di verdura e formaggi, visto che alla carne ci tengono, e in particolar modo a quella umana. In James e la pèsca gigante

(1996), facciamo la conoscenza di un orfanello che, sfuggendo al controllo di due insopportabili zie, si inoltra nei meandri di una pèsca grande come una casa, salpando, in compagnia di insetti amici (cavalletta, ragno, centopiedi, verme, lucciola, coccinella), per la città dei suoi sogni: New York. Anche Matilda è una bambina incompresa: odiosi i genitori, che non si rendono conto di aver messo al mondo un piccolo genio, odiosa la preside che governa la scuola con tirannica spietatezza. Ma anche in questa storia (Matilda 6 mitica, 1996) la buona sorte viene in soccorso dei pargoli afflitti dall’ottusità dei «grandi»: infatti, Matilda sfodera mirabili facoltà telecinetiche con cui va all’assalto del mondo crudele. Del 2005 è il bizzarro e allucinato Charlie e la fabbrica del cioccolato (un precedente: Willy Wonka e la fabbrica del cioccolato, 1971, protagonista

lato: il giardino delle delizie in cui gli eletti entrano offre di tutto e di più quanto a golose prelibatezze, ma chiede loro una serie di terribili «riti di passaggio» cui sovrintende il folle Willy Wonka, in una raffica di bizzarrie e deliri. Dietro i quali c’è - come non aspettarselo? - la sofferta rivalsa di una infanzia strapazzata e stravolta, che ha covato in solitudine pene diventate poi risentimento, livore viscerale, veleno (altro che cioccolata!). Ma, alla fine, inferi non praevalebunt, grazie all’incantata, cristallina innocenza del piccolo protagonista.

I film che vi abbiamo raccontato con l’indispensabile ausilio del Morandini (Zanichelli), sono tutti tratti da storie firmate da Roald Dahl, un riconosciuto maestro della letteratura per l’infanzia nonché della narrativa fantasti-

Nato nel Galles da genitori norvegesi emigrati in cerca di fortuna, subì da bambino l’asportazione del naso per un incidente. Il danno fu riparato e non fiaccò il suo spirito ma certo affinò la sua sensibilità verso il mondo dei più piccoli Gene Wilder), con Tim Burton e Johnny Depp che sguazzano come pesci nell’arricciolato fasto barocco. L’hanno proposto di recente in tv, ma per chi se lo fosse pèrso, ecco un accenno di trama: il piccolo Charlie, che vive in una famiglia scombinata ma affettuosa, in una sorta di allegra miseria, trova uno dei cinque biglietti d’oro che gli permetteranno, insieme ad altri quattro ragazzini e rispettivi accompagnatori, di visitare la mitica fabbrica di cioccolato del misterioso Willy Wonka. Ma come non è tutto oro quel che luce, non è tutto squisito quel che ha sapore di ciocco-

ca, bizzarra e grottesca. Uno scialo di horror e di humour: ecco quel che caratterizza romanzi e racconti di Dahl. Il quale ha piena consapevolezza del fatto che non solo gli adulti, ma i bambini - soprattutto i bambini - sono attratti dai «mostri». Come i mostri sono attratti dai bambini. Mostruoso è il mondo, mostruose sono le sofferenze che ci infligge: e che infligge soprattutto a chi non sa difendersi. Orrori e terrori sbucano fuori dappertutto. La vita è sorprendente. Casi, coincidenze, piccoli o grandi «incidenti» rivelatori, sono lì a giocare con la tua razionalità. Puoi, de-


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Alcune immagini di Roald Dahl. Con la moglie Patricia Neal e in divisa con Ernest Hemingway. In basso, alcune copertine e illustrazioni di suoi libri famosi, la locandina del film tratto da “La Fabbrica di cioccolato” con Johnny Depp e un suo ritratto

vi aspettarti di tutto. Meravigliati pure, se vuoi; poi, però, entra dentro la meraviglia, che, a ben vedere, è la realtà, apparentemente deformata o sparigliata, dunque perfettamente inquadrata nelle sue cifre sotterranee. Entra e vai avanti perché, soprattutto se sei un bambino, le forze misteriose che hai smosso o che la fortuna ha smosso per te verranno in tuo soccorso. Non stupirti della vita. Semmai devi stupirti del fatto che, nonostante tutto, tu sia ancora vivo. Dunque, di nuovo, vai avanti, affronta le sfide, non addormentarti: nel mondo dei sogni e degli incubi - la realtà - bisogna essere svegli. E, del resto, lo insegna la grande tradizione delle fiabe - Grimm,Andersen, Collodi - dove c’è largo posto per la paura e il male ci sono relativi «esorcismi» contro di essi. Da parte di chi non dorme o non dorme più.

Roald Dahl - in libreria, da qualche giorno, raccolti in un unico volume, Tutti i racconti (Longanesi, 825 pagine, 22,00 euro) - queste cose le sapeva bene. Nel senso che la vita lo aveva ammaestrato. Facendogliene capitare di tutte. Nato nel Galles da genitori norvegesi lì emigrati in cerca di fortuna (echi di famiglia nella nonna norvegese di Chi ha paura delle streghe…), subisce da bambino l’asportazione del naso a causa di un incidente d’auto provocato dalla sorellina: il chirurgo fa quel che può e glielo riattacca, ma il naso rimane storto. Non la prende storta il nostro Roald che studia con impegno e poi, nel 1934, a diciotto anni, trova lavoro presso la Shell Petroleum Company e va in Africa. Segue l’arruolamento nella Raf, con missioni in Kenya, Libia e Grecia. Roald abbatte un bel po’di aerei tedeschi, prima di essere abbattuto due volte in Libia e in Siria. È costretto a restare a terra, ma con la memoria e con la fantasia tornerà spesso, da scrittore, all’esperienza «forte» del volo e della guerra, che pure lo ha terribilmente segnato nel fisico (negli anni dovrà sottoporsi a diverse operazioni alla schiena a causa delle ferite riportate). Si veda in Tutti i racconti la sezione intitolata Over to you (raccoglie 10 storie pubblicate nel ’46) dove si evocano le spericolate avventure nella Raf, in un ricco interscambio tra vita vissuta e invenzione. Tessuta di intense suggestioni è, in particolar modo, Morte di un uomo vecchissimo, storia esemplare (con propaggini liriche, oniriche, metafisiche) di un duello tra due aerei - uno Spitfire e un Focke-Wulf - che, colpiti, precipitano al suolo, e tra i rispettivi piloti che, caduti in una pozza, dopo avere incro-

ciato le armi in cielo, in un avvicendarsi di colpi e colpi di scena, si avvinghiano furiosamente nella lotta per la vita. Finché non accade qualcosa… Nell’archivio delle memorie Roald-Raf, poi letterariamente rielaborate, anche una piccola curiosità che ci regala il Morandini: «Gremlin è un termine gergale, inventato - sembra - dagli aviatori inglesi durante la guerra 1939-45 per indicare i folletti ritenuti responsabili di guasti inspiegabili». Insomma, dai folletti ai futuri mostriciattoli Mogwai: il racconto è del 1943, il film è stato girato quarant’anni dopo. Nel mezzo, la vita dello scrittore, ricca di successi, ma tutt’altro che dolce. Anzi, un vero e proprio elenco di disgrazia: la moglie, l’attrice Patricia Neal (la ricorderete almeno nel delizioso Colazione da Tiffany: è la ricca amante di Gorge Peppard, nonché l’antagonista di Audrey Hepburn), tormentata da mille malanni; una figlia che muore in tenera età; un figlio cui capita un gravissimo incidente; una figliastra, Lorina, uccisa da un tumore al cervello… Intanto circola una aneddotica decisamente antipatizzante sull’uomo e le sue idee: viene descritto come un tipo stravagante, sporco, taccagno. E per di più misogino, reazionario e antisemita. Un

sangue e cerebrolesioni acquisite».Vero anche che il 10% dei diritti d’autore derivati dai libri di Dahl viene devoluto a iniziative benefiche promosse dalla Foundation. Onore, dunque, al merito del tipo/tipaccio. Quanto allo scrittore, leggete Tutti i racconti e dite con assoluta franchezza se ce n’è uno che non funziona. Oppure se non si deve riconoscere - come fa osservare Corrado Augias che sono tutti «perfette macchine narrative».

Perfettamente oleate, aggiungiamo, in quello che non è tanto un «cattiverio», quanto una finestra aperta, anzi spalancata, sulla disumanità della natura umana. Un paesaggio variopinto e divertente, inquietante e perturbante, spesso futuribile ma anche fin troppo attuale, dove c’è posto per dolcissime vecchiette assassine, cervelli che sopravvivono alla morte del corpo, casalinghe disperate che si vendicano dei loro disperanti consorti; astute mogli fedifraghe da sempre impunite ma che alla fine la pagano, neonati ipernutriti dalla pappa reale e che improvvisamente si ricoprono di strani peli giallo-marrone morbidi come seta, neonati un po’ piccolini ma che sopravviveranno, eccome! («Adolf deve

Per la Raf compì missioni abbattendo aerei tedeschi ed essendo due volte abbattuto. E in molti suoi racconti volo e guerra sono presenti. Anche il termine “Gremlins” (titolo di un suo famoso libro) viene dal gergo degli aviatori inglesi tipo? Un tipaccio. Però, un grande. Grande scrittore di libri per l’infanzia. «L’assoluto maestro del racconto», proclama The Observer. E il nostro sulfureo Manganelli lo definisce «divertente, estremamente divertente». Aggiungendo: «Roald Dahl è uno degli scrittori più spassosi che conosca». Ancora: «E, soprattutto, è un malvagio». Il che, per Manganelli che, con ogni evidenza sente la «poetica» di Dahl come affine alla propria, vale come complimento. E cioè vuol significare che Dahl è uno spirito libero, anticonformista, estroso, effervescente, e giustamente misogino, misantropo, ipocondriaco e malmostoso come si conviene a tutti quelli che sanno di che pasta è fatta l’umanità. E che sono altrettanto consapevoli di come vada smascherata a colpi di cinismo, di disincanto e di furente, spietata irriverenza. Può darsi sia vero. Vero anche che il «malvagio» Dahl, morto di leucemia nel 1990, è lo stesso che spese ogni sua energia finché non riuscì a salvare il figlio Theo, inventando una valvola speciale per bambini idrocefali.Vero che lo scrittore ha dato vita alla Roald Dahl Foundation: un’istituzione che «sostiene in tutto il Regno Unito le infermiere specializzate in pediatria che si occupano di bambini affetti da epilessia, malattie del

vivere. Deve, deve» dice mamma Klara a papà Alois nel racconto Genesi e catastrofe: e crediamo non ci sia bisogno di aggiungere altro ai fini dell’identificazione); gatti che sono la reincarnazione di Lizst e mandano in estasi le loro padrone, bravi ragazzi di campagna che finiscono insaccati a mo’di carne di maiale, giocatori impenitenti, tra azzardo e scacco, sciupafemmine e sciupamaschi altrettanto impenitenti, con sorpresa incorporata; e, ancora, sinistri derattizzatori che hanno un metodo tutto speciale per far fuori le pantegane, aspiranti scrittori, con poca ispirazione naturale ma tecnologicamente avanzatissimi, che inventano complessi macchinari elettronici capaci di sfornare best-seller, ex-vittime che anelano alla vendetta contro ex-carnefici e barboni che non sanno se e come «vendere» il quadro che da anni portano tatuato sulla schiena e che ora vale migliaia di sterline perché l’ex-giovane povero che eseguì il ritratto, in una notte di risate e di sbronze, gode adesso, sul mercato, di altissime quotazioni… A «casa Dahl» sorprese e paradossi imperano. Già, com’è strana la vita! E gli esseri umani, poi… Perché non parlarne, dice Roald, raccontando la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità?


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di Pier Mario Fasanotti

I viziati: meglio il Crazy Horse

Rosa Fumetto, stella del Crazy Horse, celebre locale parigino. A destra, Italo Moscati, curatore e conduttore dei “Viziati”

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nche in questa estate televisiva domina la replica. Ma Rai 3, che ha sempre la velleità di proporre qualcosa di nuovo, fa un passetto avanti e ci propina una sorta di blog intitolato I viziati (con materiali che provengono da Rai Teche). Non la replica, ma l’antologia. Termine che deriva dal greco e significa «collezione di fiori» o «fior da fiore». Peccato che l’ideatore e regista, Italo Moscati, non riesca a farci annusare alcun buon odore di petali. La colpa è quella di attrarre il pubblico guardone, ma con inserti tipo reportage, che dovrebbero nobilitare il prodottino. È come quando la rivista Playboy voleva passare per intellettuale e raffinata alternando foto di donne nude (seni giganteschi secondo il canone sessualestetico degli americani) con articoli o racconti d’autore. Il guaio è che - per riferirmi allo stesso paragone - il coté serio è una buccia, lucida e corta, messa in mezzo al ciarpame che ormai scandalistico non è più: sfilate e balli di donne in bikini o a seno nudo (le migliori quelle registrate al Lido parigino: la classe francese non è acqua), ammiccamenti corporei di soubrette in passerella, canzoni con riferimento erotico. Ma qual è il filo conduttore? L’amore? O meglio il corteggiamento, più o meno volgare o a doppio senso (che spesso è la stessa cosa)? C’è una comica che mima una psico-sessuologa e parla dell’organo sessuale maschile. Divertente a tratti, ma siamo sempre lì: come se l’Italia avesse lo sguardo fisso genitali. Moralismo, qualcuno potrebbe obiettare? Rispondo: no, soltanto noia, déjà-vue, una ribollita (che è piatto toscano) di cosce in bella mostra per tutto l’inverno, comici da cabaret che mettono alla berlina comportamenti coniugali o regionali (non manca il solito calabrese che vuol fare umorismo aggrappandosi a un’antiquata antropologia). Il trinomio che fa da perno al programma è il seguente: vacanze-sesso-voyeurismo. Quando la moglie è in vacanza: titolo di un vecchio film. Ma qui in vacanza è l’originalità, l’assemblaggio di scene, frammenti di spettacoli, gag. Anche Totò vien fatto vedere. Come? Facile da intuire: in una gustosa scenetta su un vagone ferroviario. Sketch che termina bruscamente con un dito che con, o senza, malizia va a finire sui glutei di una donna che si spoglia. Quel che viene dall’America ci fa rivalutare, e tanto, il glamour francese del Lido o del Crazy Horse. I cow-boy del grandi raduni hanno sostituito i tori con le ragazze in mutandine e maglietta bianca

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aderentissima: le spruzzano d’acqua, è la doccia sexy dinanzi a un pubblico urlante, mentre la candidata alla gara ce la mette tutta, nel senso che s’inarca, si sdraia, allarga le gambe, mima movimenti che rimandano al motel sulla tangenziale. I viziati, in onda dopo le 23, è segnalato sui palinstesti in modo truffaldino. In bella mostra ci sono i nomi di Luciana Littizzetto e Gianni Arbore. La versatile torinese interviene (con uno spezzone tratto da Che tempo fa con Fabio Fazio) e dice cose magari anche facete, ma chiaramente datate e poco in linea con il filo (non)conduttore del programma. Arbore mostra una splendida città della Cina, dotata di lago e passeggiate romantiche: «È la città

degli innamorati, come da noi Venezia».Tutto qui. Spiace per Arbore che, estrapolato così, pare sia vittima di un furto. Poteva, su Rai 3, mancare la sociologia protestataria? Molte ragazze si offrono sul Malicon (litorale dell’Avana) ai turisti e poi mostrano le cadenti catapecchie in cui vivono. «Per mangiare - dice una chica - dobbiamo andare in spiaggia». In ogni caso la tristezza che gronda dalle condizioni di vita esistenti nel paese del Lider Maximo viene travolta dalle zoommate su sederi generosamente perfetti. Insomma è il sedere femminile a vincere sempre. Il resto è contorno. O alibi (ed è peggio).

games

APPUNTI PER IL VIAGGIO

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SE QUESTO È UN SIMS

LA CINA PIÙ VICINA

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ompatibile con tutti i principali browser, iCyte è un comodissimo tool per quanti necessitano di prendere nota di frasi, articoli e dati di ogni genere nel corso della navigazione in rete. Molto più agile e immediato dei consueti editor di testo che impongono faticosi andirivieni al ritmo del copia e incolla, l’applicazione viene integrata direttamente al software di esplorazione

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opo la fitta campagna promozionale a colpi di video e screenshot esclusivi della scorsa estate, il terzo capitolo della saga dei Sims è finalmente tra noi. Il famoso gioco di simulazione, capace di ricreare in console un micromondo in cui muoversi come nella realtà quotidiana, ritorna con significative novità. Innanzitutto legate a una maggiore arbitrarietà nelle scelte di vita dei

«M

”ICyte” è un’applicazione che consente di trasferire i dati raccolti nel web in un click

Il terzo capitolo del gioco di simulazione dà più spazio al libero arbitrio e al look personale

Cremona e De Cecco filmano le vite italiane di cinque ragazze asiatiche in ”Miss Little China”

prescelto. Basta sottolineare il testo di nostro interesse, e inviarlo con un semplice click del mouse al nostro personale assistente, che potrà collocare le informazioni in file dotati di tag da noi prestabiliti. Il tutto può essere inoltre salvato e inviato alla nostra casella mail, ed essere infine trasformato in formato di testo compatibile con i maggiori processori di scrittura. Note, appunti e collage possono infine essere condivisi con amici e colleghi. Completamente gratuito, iCyte regala immediatezza e ordine alla navigazione, sempre più soggetta a un confuso accavallarsi di dati, link e rinvii a ulteriori pagine. Scaricabile all’indirizzo iCyte.com.

nostri alter-ego. È possibile ad esempio rinunciare a obiettivi e strategie lavorative a favore di un dolce far niente che si preannuncia molto promettente. I nuovi Sims potranno girovagare per la città o ciabattare per casa a proprio piacimento. E inoltre esisteranno ampi margini di manovra intorno alla propria silhouette. Peso, capelli, scarpe e vestiti saranno ampiamente personalizzabili, e per i fissati della forma fisica sarà possibile tonificare muscoli e sciogliere l’adipe superfluo in base a dei programmi di lavoro ad hoc. Umano, troppo umano.

co, nel bel libro che lo accompagna, L’Italia dei cinesi. Un viaggio necessario e soprendente, quello dei due registi, che si avventurano nelle storie di cinque adolescenti cinesi residenti nella Penisola, sedotte come le coetanee italiane dal fascino dei concorsi di bellezza e della mitologia televisiva. Ma anche molto diverse, perché le cinque piccole donne sono anche lavoratrici precoci, inserite dunque in un doppio mondo in bilico fra quello d’origine e il nostro. Finalmente, tra le immagini di Miss Little China si scopre quello che i cinesi italiani non dicono, spesso ritratti come afasiche e bulimiche macchine da lavoro. Uno scorcio di vita segreta strappato a infamie e dicerie.

a cura di Francesco Lo Dico

iss Little China fa vedere per la prima volta i cinesi in una dimensione quotidiana. Un’intimità personale e famigliare completamente inedita. Un’occasione rara per entrare in un mondo di cui non si sa niente, al netto di una quantità industriale di luoghi comuni». Raffaele Oriani e Riccardo Staglianò presentano così il bel documentario di Riccardo Cremona e Vincenzo De Cec-


l’ntervista esare Viviani per la sua ultima raccolta Credere all’invisibile (Mondadori) oggi riceve a Cetona, insieme a Seamus Heaney (riconoscimento alla carriera), il Premio Cetonaverde Poesia, forse il più prestigioso premio dedicato alla poesia che c’è in Italia, presieduto dalla poetessa Mariella Cerutti Marocco (la giuria è composta da Ceronetti, Colasanti, Conte, Cucchi, Ficara, Lamarque, Riccardi). Nato a Siena nel 1947, e residente a Milano dal 1972, è uno dei massimi poeti italiani, protagonista delle varie stagioni della nostra poesia, anche come teorico. Ha scritto 13 raccolte di poesia. Presente nelle antologie poetiche più importanti è stato oggetto di studi da parte della più qualificata critica italiana. Di grande interesse pure la sua ricerca nell’ambito della riflessione psicanalitica delineta in varie pubblicazioni. E di questa indagine teorica occorre tener conto per comprendere la sua poesia. «Freud - spiega Viviani - ha detto parole chiare sulle sintonie tra arte e psicanalisi, arrivando ad affermare che il poeta capisce prima dello psicanalista. Poi nel tempo, anche per colpa degli psicanalisti, si è formata un’idea sbagliata che separava i due ambiti: credendo erroneamente che l’esperienza psicanalitica convertisse l’irrazionale in razionalità, si è pensato che così diminuissero anche le potenzialità artistiche. E così gli artisti, salvo rare eccezioni, si tenevano alla larga dalla psicanalisi. Io credo che l’esperienza della poesia e quella psicanalitica si muovano nella stessa direzione: superare il narcisismo e arrivare ai limiti dell’esperienza umana. Ma arrivare ai limiti dell’esperienza e della conoscenza non vuol dire essere superman: vuol dire invece accettarli e sentirsi esseri limitati». La sua poesia è cambiata nel tempo e gradualmente, libro dopo libro ha affrontato varie tematiche, fino al suo recente Credere all’invisibile che ci pare esprimere una profonda connotazione civile, nel senso alto di responsabilità interiore verso l’umanità e la storia, e mistica, proprio di chi, come del mistico, sa spogliarsi di tutto per andare incontro all’altro. Credere all’invisibile non vuol dire certo credere alle suggestioni: vuol dire invece accettati i limiti, affidarsi nella vita a ciò che non è controllabile, verificabile, dimostrabile, dominabile.Vuol dire uscire dal do ut des, dalla logica dello scambio e della garanzia. Credere senza cercare in cambio contenuti o valori descrivibili e rassicuranti, credere senza pretendere promesse o vantaggi. È qui che si può innestare una responsabilità alta e una spoliazione di certezze simile al cammino mistico. A proposito del misticismo nella sua poesia, il rapporto che lei ha col sacro è complesso. Un mal riposto senso del divino, nota in una sua poesia, porta «a cercare Dio negli altari», mentre pur avendo bisogno di un conforto, esso è inaccessibile, a differenza di Cristo. Da L’opera lasciata sola (1993, ndr) ho sempre distinto due dimensioni della divinità: il Dio amico, fratello, padre, pensato come protettore, a cui ci rivolgiamo ogni sera chiedendo conforto e aiuto per sostenere le difficoltà della vita - e questo è un credere per chiedere e per ricevere - e il Dio inaccessibile e indescrivibile, che resta fuori dalle misure umane e a cui non si può chiedere e di cui non

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A colloquio con Cesare Viviani che riceve oggi, insieme a Seamus Heaney, il Premio Cetonaverde

La poesia? È accettare l’invisibile di Loretto Rafanelli si può dire, Incomprensibile come è l’Infinito e l’Universo, di fronte al quale noi, piccolissimi e precari, non possiamo che inchinarci e credere, senza esprimere bisogni e senza cercare contenuti o corrispondenze affettive. Più che sottolineare l’importanza dell’aspetto linguistico (per Cordelli la sua poesia concludeva l’esperienza del gruppo ’63), nelle sue poesie lei ha parlato di visionarietà e di esperienza, termini peraltro che possono sembrare antitetici... Credo di non avere molti debiti con le avanguardie storiche e nemmeno con la neoavanguardia (l’unico dei «Novissimi» che ho davvero ammirato è stato Antonio Porta). Ma certamente ho avvertito una grande sintonia con i «visionari», quei poeti che sono quasi dominati dalla visione: penso a Campana, a Ungaretti, alla Rosselli e, indietro nel tempo, ai maestri del simbolismo e del romanticismo. Visionarietà ed esperienza non sono dimensioni antitetiche, dal momento che la visione è un eccesso di percezione, è concretezza, così come l’esperienza non è solo acquisizione di co-

Tra i massimi poeti italiani contemporanei, nella sua riflessione esperienza poetica ed esperienza psicoanalitica si sono mosse nella stessa direzione. Per approdare al sacro. La vertigine del vuoto - dice - è irrinunciabile. La poesia non rassicura ma pone domande estreme noscenza ma è anche concretezza che non si lascia ridurre a conoscenza, intraducibile, percezione, oscura visione. Nei suoi libri manifesta una sofferenza verso la società attuale, esasperatamente spettacolarizzata e

tecnologica, come peraltro è stato detto da tanti filosofi e scrittori che parlano della fine di una civiltà e di un’epoca. La società attuale ha raggiunto la perfezione della tecnica, con effetti straordi-

nari di comodità e di conforto. Ma ignora sempre più la fluidità contraddittoria dei sentimenti: è sempre più competente nelle prestazioni professionali e nelle attività, e sempre più inesperta nella vita affettiva. Oh se gli uomini fossero buoni quanto sono intelligenti! Il mondo sarebbe un paradiso! Invece oggi domina la pratica, e i valori dominanti sono l’utilità e il denaro. L’invisibile viene fatto sprofondare nel non-valore. E della poesia si coglie solo il visibile, il significato immediato, e non l’invisibile che essa porta con sé. Sui significati della poesia, scrisse una frase che molto mi colpì: «la scrittura è quell’evento quotidiano e miracoloso che traduce il movimento in permanenza, il desiderio di “lasciare una traccia”». Come dire, credo, che la poesia potrà avere sempre uno spazio anche alla presenza di sconvolgenti cambiamenti sociali, ambientali ed economici? Sinceramente non so cosa sarà della poesia. Non sono molto ottimista. In un tempo in cui la tecnica e la pratica soddisfano sempre più il bisogno di sicurezza degli uomini, e la mente umana e la sensibilità si trasformano in questo senso, se il lettore di poesia cercherà sempre più comprensibilità e chiarezza, sicurezza di significati e corrispondenze emotive, ignorando invece la vertigine di vuoto che la poesia porta in sé, cosa sarà della poesia? E cosa finirà per scrivere il poeta? Una questione che spesso ricorre è quella del rapporto che la poesia deve avere con la realtà. Ora lei che è un teorico della scrittura poetica, sa che questa è una problematica enorme, compreso il fatto che al poeta si chiede a volte di non essere estraneo nel suo lavoro poetico, ai fatti storici e sociali. Può il poeta farsi carico di questo? La poesia ha rapporti illeggibili con la realtà, e con la biografia dell’autore. Chiunque cerchi relazioni chiare ed esplicative tra il testo della poesia e il contesto sociale o gli accadimenti dell’esistenza dell’autore, chiunque eserciti una critica contenutistica, esprime solo un desiderio di dominio e di controllo sulla poesia. Non accetta l’invisibile, e sbaglia di grosso, perché la poesia è per sua essenza irriducibile a ogni cattura e utilizzazione. La poesia non si lascia dominare. Il poeta non può farsi carico della politica, perché si fa carico di molto di più. Ai poeti sta molto a cuore essere letti e riconosciuti, forse c’è anche la speranza di avere un po’di fama, ma la realtà è terribile: i poeti non sono affatto noti (e quelli che lo sono è perché divengono «elementi» di spettacolo, come la pur brava Merini), pochi sono i lettori, abbastanza deserte le platee in occasione di letture pubbliche. Lei su questo tema ha scritto parole di grande intelligenza, che spostano il discorso sulla questione vera: il senso della poesia, il suo essere destabilizzante e non rassicurante. La poesia non rassicura e non diverte. La poesia pone domande estreme, apre confronti radicali, naturali, veri: per questo non ha molti lettori. Ma guai se il poeta insegue il successo, la quantità, la popolarità, la pubblicità: se lo fa, perde il contatto con la scrittura poetica, con la sua precarietà, con il suo abisso.


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poesia

Ariosto, cartografo delle passioni umane di Filippo La Porta onfesso che impararsi a memoria dei versi di Ariosto - ad esempio l’ottava qui trascritta - mi dà un godimento tutto particolare. Quando poi capita di recitarli a qualcuno ti senti non tanto sapiente o erudito quanto un po’ bambinesco, sprofondato nel mondo fiabesco dell’infanzia. Alla giocosa levità dei suoi endecasillabi si aggiunga poi una storia intricatissima di castelli incantati, ippogrifi, magie, duelli… Eppure questa è la sfida dell’Orlando furioso, opera inclassificabile, policentrica e poco rispettosa delle norme: poema epico di ispirazione bretone-carolingia (altro che il New Italian Epic)? Romanzo in versi? Usare una convenzione letteraria da tutti riconosciuta - il poema cavalleresco - (continuare l’Orlando innamorato di Boiardo), e poi non tanto parodiarla quanto trasfigurarla, e dilatarla in ogni direzione. Alla fine si crea un mondo parallelo, ma con le proporzioni interne analoghe a quello reale. Sortilegi, fantasie, menzogne, sogni a occhi aperti, al fine di disegnare una sterminata cartografia delle passioni umane (amicizia, fedeltà, devozione, odio, ebbrezza, rancore…). Proviamo a usare anche noi l’ippogrifo, questo «grande e strano augello» per sorvolare il poema soffermandoci solo su alcuni temi e passaggi più rilevanti.

fissa l’esteriorità nel punto che è viva (…) non la scruta, non l’interroga, non cerca dal di dentro, non la palpa, non la maneggia per vederla abbellire (...). Non c’è il poeta, ci è la cosa che vive, e si muove, e non vedi chi la muove, e pare si muova da sé». E non si tratta altro che della «visione» italiana del Rinascimento, la stessa che affiora dai quadri di Leonardo, Mantegna, Bellini, Raffaello, Sebastiano del Piombo, Tiziano… tutti quegli artisti che incontriamo all’inizio del canto XXXIII e che nel rappresentare «la cosa che vive», senz’altri fini, non sfigurano al confronto con gli antichi.

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Se ci limitiamo ad antologizzare le prime ottave dei canti, prima ancora che l’autore si addentri nella complicatissima vicenda romanzesca, ci ritroviamo con una «scienza» sconfinata e per noi ancora preziosa dell’animo umano, fatta di meditazioni originali, citazioni di classici, osservazioni sul quotidiano, ripresa di proverbi popolari. Sentite questo attacco del canto XLIV: «Spesso in poveri alberghi e in picciol tetti,/ ne le calamitadi e nei disagi,/ meglio s’aggiungon d’amicizia i petti,/ che fra ricchezze invidiose et agi/ de le piene d’insidie e di sospetti/ corti regali e splendidi palagi,/ ove la caritade è in tutto estinta,/ né si vede amicizia se non finta». Quando poi Ariosto parla delle donne fa pensare davvero, se la formula non risultasse goffa, al primo vero romanzo «femminista» della nostra letteratura. Il repertorio è illimitato. Cito solo dalla prima ottava del canto XXXVII: «Se, come in acquistare qualch’altro dono/ che senza industria non può dar Natura,/ affaticate notte e dì si sono/ con somma diligenza e lunga cura/ le valorose donne (…)». E continua dicendo che se le donne si fossero dedicate a «quelli studi» che danno l’immortalità non avrebbero avuto bisogno dei poeti (spesso malevoli) per celebrare le proprie capacità. In generale la visione ariostesca evita giudizi teologico-morali, rifugge da ogni riferimento alla trascendenza. Né si illude sulla perfettibilità umana e sulle possibilità della pedagogia. E infatti non si può che accettare la propria natura, immodificabile e segnata una volta per sempre: «Convien ch’ovunque sia, sempre cortese/ sia un cor gentil, ch’esser non può altrimenti». Gli stessi valori eroici del mondo cavalleresco che intende prendere a modello, e che immagina idealmente riflessi negli Estensi, svelano la loro ambiguità e contraddittorietà. Anche se, beninteso, il poeta invoca un equilibrio e una misura nella stessa follia, non sopporta i vizi tipici della corte quali l’adulazione, l’affettazione, etc. e considera la «esecrabile Avarizia», la «ingorda fame di avere» un fattore di grave corruzione. Ma ancora una volta è Francesco De Sanctis ad avvicinarsi più di tutti alla sostanza ariostesca: «Il poeta

Altri in amar lo perde, altri in onori, altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze; altri ne le speranze de' signori, altri dietro alle magiche sciocchezze; altri in gemme, altri in opre di pittori, ed altri in altro che più d'altro aprezze. Di sofisti e d'astrologhi raccolto, e di poeti ancor ve n'era molto. Ludovico Ariosto dall’Orlando Furioso, Canto XXXIV

Rinaldo rinuncia a bere nella coppa (l’«odiato vaso») che potrebbe rivelare l’infedeltà della donna amata: rifiuta la trasparenza (in fin dei conti un’altra illusione), cui antepone la certezza dell’amore: «Pensò, e poi disse: - Ben sarebbe folle/ chi quel che non vorrai trovar, cercasse./ Mia donna è donna, et ogni donna è molle:/ lascian stare mia credenza come stasse» (Canto XLIII, 6). Ha finemente osservato Giulio Ferroni che qui si intravede un modello di saggia «follia»: da una parte accettare l’instabile capricciosità degli esseri umani e dall’altra impedire che ciò impoverisca la nostra vita emotiva. Ariosto ha scritto anche che «Se ‘l vero annoia, e il falso sì mi piace/ non oda o vegga mai più vero in terra» (canto XXXIII, 63). Il che rivela in Messer Ludovico, poeta di corte e direttore di scena, non tanto una avversione al «vero» ma la consapevolezza, malinconica o giocosa, che la verità appartiene a un ordine superiore, quello della poesia, dell’amore, delle donne e dei cavalieri, del rutilante spettacolo quotidiano delle passioni umane in conflitto. Credo che in Ariosto si esprima, in modi sublimi, l’ambivalenza della nostra stessa tradizione.Tutto questo potrebbe infatti tradursi in una sorridente rimozione del tragico, in una ornata refrattarietà all’introspezione, nel rifiuto della «profondità» in nome della superficie dorata e sempre cangiante delle cose. A che serve approfondire se il fondo è inafferrabile (proprio come Angelica), se comunque sempre ci rinvia alla vanità dell’esistenza, incline a inseguire desideri illusori come nel castello di Atlante? A che pro inseguire una qualche coerenza se la vita consiste precisamente in un errore, in una «follia» (sia essa d’amore di altro…). Qui si nasconde un tratto tipico, che appartiene alla nostra stessa civiltà, e che poi ritroviamo nel melodramma, straordinaria invenzione italiana che nell’Ottocento si contrapponeva al romanzo europeo. Suppongo che per Rossini la ricerca romanzesca dell’«aspra verità» potesse apparire come una impresa abbastanza futile e l’esame di coscienza risultasse incomparabilmente tedioso. Insomma non serve tanto indagare o analizzare pazientemente i conflitti quanto viverli, patirli, cantarli, metterli in scena. Certo, Ariosto, che pure considera la noia il peccato più imperdonabile («che v’annoiasse il troppo dire») non intende solo dilettarci. Il metro e il verso dell’Orlando furioso rendono quasi fisicamente tangibile il ritmo dell’universo, la imperscrutabile armonia di guerre e conflitti e amorose inchieste. Così come la sua multiforme commedia umana rivela una sapienza psicologica illimitata. Sta agli italiani del Terzo millennio, sempre più refrattari (e non per ottime ragioni come Rinaldo!) a bere nella coppa della conoscenza, fare tesoro della loro Grande Tradizione, e ritrovare sulla luna almeno una parte dei propri talenti.


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il club di calliope LAGO DEL RITORNO Tornano, vedi, ricomposte le visioni sono la prima e la penultima, i buoni tramonti di ogni cosa, di ogni cosa: riposa nell’unica durata, nel battito delle tangenziali e della mente, nel centro del buio, un’antica rima mescolata alla vita, un calice sparso sul catrame e, ancora prima, il sacro rottame di ogni cosa: perciò riposa, ti supplico, riposa in questa quiete di fanali, interrompi il soprassalto, sono dolci le mezze luci dei piazzali sono queste, guarda, sono assorte e tu accettala, la tua unica, la tua gentile, lentissima morte. Milo De Angelis (da Biografia sommaria, Mondadori)

BÁRBERI SQUAROTTI, UNA VITA IN VERSI in libreria

di Nicola Vacca iorgio Bárberi Squarotti è uno degli ultimi rappresentanti della grande critica del Novecento letterario. Ancora oggi il professore torinese, con grande signorilità e colta raffinatezza, studia e si occupa di letteratura. I suoi libri, i suoi studi e i suoi articoli sono un punto di riferimento. Squarotti ha sempre dedicato un’attenzione particolare alla poesia. Ma soprattutto è un poeta straordina-

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Squarotti mette in scena una vita in versi, la sua. Con una leggerezza pensante si racconta nella fragilità del proprio tempo. Ancora oggi nelle storie che narra c’è l’entusiasmo e la malinconia di un cercatore di bellezza che mostra al lettore il giorno sempre nuovo della vita che accade.Tutti i testi del libro sono datati e nascono da un’occasione. Ogni frammento è un modo di leggere la realtà. Il poeta mette in fila luoghi, cose e perso-

Nella nuova raccolta, “Gli affanni, gli agi, la speranza”, il critico si racconta poeticamente nella fragilità del proprio tempo. E suggerisce antidoti contro il nichilismo rio che affonda le sue radici nell’identità della lingua italiana. Con Gli affanni, gli agi, la speranza (L’arcolaio editore, 76 pagine, 11,00 euro), Giorgio Bárberi Squarotti torna alla poesia. Anni fa parlando della sua attività poetica disse: «I versi che ho scritto negli ultimi quattro anni vogliono rappresentare sia la bellezza della vita nei paesaggi, nelle stagioni, sopra tutto nei corpi giovani, sia la fiducia e la fede nel Dio che tutto ha creato. Ma sono anche la protesta e la negazione dell’orrore della vanità della storia, che ripete stoltamente le vicende del potere, di violenza, di oppressione, di crudeltà, di trionfi. Per questo insisto a comporre testi congiunti di entusiasmo e di malinconia, per il rinnovarsi continuo dell’esistenza e per la consapevolezza della fragilità, ormai, del mio tempo». Una dichiarazione di poetica che oggi troviamo in questi nuovi versi impreziositi da una musicalità esistenziale.

ne. Prende il dato esperienziale della quotidianità e inventa la vita dei giorni in affanno. Nella poesia di Bárberi Squarotti si intrecciano gli indizi terrestri e umani della quotidianità con la quale siamo costretti a fare i conti. Il poeta vuole raccontare il suo amore per la vita, per questo ha deciso di mostrarsi attraverso gli altri che ha incontrato, e che adesso sono diventati il materiale umano dei suoi versi. In questo libro Squarotti non ha fatto altro che raccontare gli affanni, gli agi e la speranza di questa nostra esistenza, dove il respiro è affaticato e il cuore trema. Egli non è soltanto uno dei più autorevoli testimoni dell’ultima grande società letteraria, ma è soprattutto un poeta che ha qualcosa da dire, va verso la gente, cerca ascoltatori. Questi versi si insinuano nella decadenza dei giorni per cercare la bellezza, la grazia e l’armonia di una civiltà che non può cedere definitivamente al nichilismo.

UN POPOLO DI POETI Non ci sono più guardiani al mio cancello. Scende la sera. Troppo tardi per mettersi in cammino.

È sera Fiorina Piergigli

Non respirerò più, acquei sogni volatilizzati, foschia impalpabile già sfiorita, in te l’essenza del petalo perduto. Giuliano Cardellini

Se aspetto la tua voce in questo buio, vivo il cielo su queste pieghe di vita, vivo il mare nel rumore dell’onda, il mio mare che scende sulla collina bagnata dal vento, quando vedrò la mia ombra andare oltre il confine della certezza, oltre il respiro di una amore, che lascio nel rumore sordo del treno deserto, che lascio solo tra le fredde terre dei monti. Maria Teresa Doci

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

a cominciato quarant’anni fa, d’istinto, acquistando un quadro di Paul Sérusier. Quella donna, dipinta nell’aia di una fattoria, gli ricordava l’infanzia trascorsa a Champs-Geraux, in Bretagna. Da allora François Pinault, settantatreenne mecenate e imprenditore di beni di lusso, non si è più fermato: le sue opere d’arte, duemilacinquecento pezzi, oggi lambiscono il miliardo d’euro di valore. Al cento per cento arte contemporanea: quella che «mette continuamente in crisi le nostre certezze», ha dichiarato il collezionista che ama le sfide, porsi faccia a faccia con le avanguardie, tenere a battesimo gli emergenti e condividere col pubblico la sua tenace passione. Anziché esporre una minima parte del tesoro (trecento opere) a Parigi, Berlino, Londra o New York, Pinault ha scelto Venezia, città che fonde antico e ultramoderno, nostalgia e progettualità estrema. Dopo avere acquisito nel 2005 dalla Fiat il prestigioso Palazzo Grassi e aver messo in scena le collettive Where Are We Going, Post-Pop e Sequence 1, Pinault ha privilegiato quello che considera «il vero simbolo della Serenissima»: l’edificio triangolare di Punta della Dogana (nel XV° secolo Dogana da Mar), spartiacque fra il Canal Grande e il Canale della Giudecca, situato alla punta ovest di Dorsoduro. L’ha ottenuto in gestione dal Comune, in cambio di una ristrutturazione da venti milioni di euro. Quattordici mesi di restauro (dal 21 gennaio 2008 al 16 marzo di quest’anno), mobilitando una media di centoventi operai per trecentomila ore di lavoro, hanno restituito al mondo la magia di questa location emblematica e razionale, che l’architetto giapponese Tadao Ando (già autore del restyling di Palazzo Grassi) ha restaurato all’esterno e ridisegnato all’interno. Resuscitando un capolavoro con l’umiltà di chi si mette in disparte di fronte a ciò che già esiste e riporta alla luce le pareti in mattoni (cinquemila metri quadrati) e le centotrenta capriate con l’ambizioso risultato di ridare all’edificio l’originaria potenza marinara. Nello spazio, immenso, avvolto in un grigio che «assorbe» (ma senza annullare) la luce che penetra dalle vetrate,Tadao Ando ha inserito l’unico elemento destabilizzante: una «scatola di calcestruzzo», tutt’altro che invasiva, che riunisce idealmente passato, presente, futuro. L’arte contemporanea, dunque, riparte da Punta della Dogana. Con un adolescente nudo, en plein air, rivolto verso il bacino di San Marco, che stringe in pugno un ranocchio come fosse un trofeo. È il marmoreo Boy with Frog scolpito dall’americano Charles Ray, fotografatissimo «biglietto da visita» della collezione e per non pochi veneziani già «mascotte» della città. È lui a introdurre ciò che si vedrà «dentro», nella mostra Mapping the Studio curata da Alison Gingeras e Francesco Bonami (catalogo Electa, 60,00 euro), distribuita anche negli spazi di Palazzo Grassi. Il titolo, preso in prestito da un’opera del concettuale

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arti

Dall’intimità dell’atelier alla collezione di Pinault di Stefano Bianchi

Tre sculture esposte a Punta della Dogana a Venezia: in alto il cavallo impagliato di Maurizio Cattelan, il “Boy with frog” di Charles Ray e il “Bourgeois Bust” di Koons

Bruce Nauman, allude al processo creativo di ogni artista che parte dall’intimità del suo atelier, ricerca e crea l’opera per poi divulgarla al pubblico. «La collettiva che inaugura Punta della Dogana - spiega François Pinault - aspira ad andare oltre la semplice descrizione del perimetro e del contenuto della raccolta, per esplorare il percorso peculiare del collezionista: che non si limita a decidere di acquistare delle opere, ma desidera accompagnare per quanto possibile il processo creativo degli artisti. Correndo così dei rischi e operando delle scelte: prima fra tutte, quella di condividere le sue passioni e le sue idee con un pubblico allargato». Passioni e idee che dettano un’arte a volte dura, estrema, disturbante. Ma fascinosa. Lassù, conficcato nel muro, c’è il cavallo impagliato di Maurizio Cattelan. E a terra, allineate, le nove sculture in marmo di Carrara che l’artista padovano ha intitolato All. Lenzuola, sudari: che coprono poveri corpi martoriati dalla guerra. Due sale, con lavori già esposti nelle passate Biennali, ospitano il guizzante astrattismo di Cy Twombly e il dark di Sigmar Polke. Rovesci della medaglia: i pupazzi di stoffa Rat and Bear griffati Fischli & Weiss e le nippo-sculture My Lonesome Cowboy e Hiropon, di Takashi Murakami, che sono un prorompente inno alla fertilità. In questi spazi, dove perfino un tendaggio di perline di plastica è arte (Blood di Felix Gonzalez-Torres), si delineano scenari contrastanti: una sfilata di fluorescenti minareti (Kandors Full Set di Mike Kelley) preannuncia i plastici di Fucking Hell (Jake & Dinos Chapman), con un’apocalisse di nazisti in miniatura che commette crimini efferati citando Hieronymus Bosch. Tutto, a Punta della Dogana, risponde a una logica contemporanea: i monocromi argentati dell’altoatesino Rudolf Stingel, i teschi d’acciaio e plastica di Matthew Day Jackson, gli autoscatti metamorfici di Cindy Sherman. Perfino Jeff Koons, che in Bourgeois Bust bacia Cicciolina (lui e lei, avvinti nel marmo immacolato), si trasforma da poppettaro a neoclassico. Basta che un raggio di sole entri dalla finestra. Potenza di François Pinault. E di questa collezione da sogno.

Mapping the Studio: Artists from the François Pinault Collection,Venezia, Punta della Dogana

diario culinario

Il neo-bistrot: la grandeur a portata di tutti di Francesco Capozza è chi afferma che la cucina francese sia datata, immobile nel tempo, povera di innovazioni. Altri, con fare da addetti ai lavori, la giudicano troppo pesante, monotematica, basata su salse e condimenti a base di solo burro. Ancora, c’è chi - addirittura - si compiace di come, rispetto alla vicina Spagna, la Francia sia rimasta indietro, per tecnica, per modernizzazione dello stile nella composizione dei piatti e nell’arredo della tavola. Niente di più sbagliato, niente di più lontano dalla realtà. Se da un lato nelle grandi maisons francesi si respira ancora l’aria della grandeur (in particolar modo nei grandi hotel parigini che ospitano al loro interno un firmamento di stelle Michelin da fare invidia a tutto il resto

C’

d’Europa messo insieme) si sta, di contro, ritagliando sempre più spazio (e successo) una nuova forma di ristorazione: il neo-bistrot. Proprio così. Da qualche tempo, ormai, una nutrita pletora di giovani talenti della cucina parigina, con esperienze in moltissimi casi di altissimo livello (molti di questi hanno fatto la gavetta da Pierre Gagnaire, Alain Passard, Alain Ducasse o da Senderens), vanno aprendo in più punti della capitale francese locali con un ottimo rapporto qualitàprezzo. Il tutto in ambienti molto semplici, caldi, spesso in storici bistrot solamente rinfrescati dall’aria nuova che soffia in cucina. Che cosa c’è di più interessante e piacevole, infatti, che mangiare in un locale giovane, con un servizio veloce e sorridente, senza nessuna costrizione sull’abbigliamento (nei grandi ristoranti

francesi c’è ancora l’obbligo della giacca), bevendo bene - a prezzi giusti - e mangiando spesso in maniera eccezionale, pagando cifre talvolta davvero basse? Nulla, çà va sans dire! E allora, se si viene nella Ville Lumière per un fine settimana romantico, o per visitare uno dei meravigliosi musei, vale la pena fiondarsi letteralmente in uno degli indirizzi che da ora in poi saltuariamente vi consiglieremo. Senza dubbio sarà un’esperienza soddisfacente e appagante, talvolta divertente. Le Chateaubriand, per esempio, è senza dubbio la novità più interessante degli ultimi anni. Inaki, giovanissimo cuoco di origini basche, compagno di merende di Louis Andoni (tre stelle al Mugariz, in Spagna), esperienze al Cafè des Delices, a fianco di quel geniaccio di Gilles Choukroun, poi passaggio alla Famille e infine qui, in questo locale modesto ne-

gli arredi ma eccezionale nella proposta cucinata. Non è il caso di passare subito a tavola: ci si può fermare al bancone, sorseggiando un bianco, magari biologico, accompagnato da un Pata Negra di perfetta stagionatura o qualche altra tapas. Una volta seduti si può scegliere uno dei piatti proposti da una carta - un unico foglio svolazzante - che cambia con frequenza settimanale. Noi abbiamo gustato uno strepitoso tonno scottato con emulsione di melograno e julienne di carote bianche, un agnello accostato magistralmente a un filetto di aringa affumicata (su un purè da far tremare le vene nei polsi al grande Robuchon), un sensazionale sorbetto alla rosa. Il conto? Trenta euro spesi felicemente per un’ora di puro piacere.

Le Chateaubriand, 129, Avenue Parmentier (XI Arr.), Parigi, tel. +33143574595


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architettura

Spiegare la modernità nell’era del computer di Guglielmo Bilancioni n ogni nuova Storia vi è il senso del superamento di un’epoca: i differenti registri di interpretazione attivati dalla necessità di scriverla stanno per trasformarsi nelle idee dell’epoca successiva. Anche nella Storia dell’architettura contemporanea di Marco Biraghi si assiste con ammirata apprensione a un passaggio epocale: il mito del movimento moderno viene rivelato come intenzione e discusso nei suoi limiti, e i dettami rigidi come prescrizioni di quel che fu, nel Novecento, la Modernità vengono sottoposti alla revisione critica dell’urgente superamento. Con molti titoli euristici, come Principi architettonici nell’età del computer, Biraghi sa far vedere il presente nel passato e il futuro nel presente. E sa spiegare lo spirito della materia, che è l’essenza fondamentale dell’architettura. Il procedimento di descrizione, che presuppone una attenta classificazione e misurazione dei fenomeni, mira all’interpretazione, il cui valore didattico (il libro è già un cult fra gli studenti che studiano) è la conoscenza istantanea, quella conoscenza ricca di intuizioni e di connessioni che fa vedere tutto dappertutto: l’importante risultato di un metodo euristico-iconologico. Storia delle idee, mosaico più che affresco, dalle tessere-cluster che si illuminano reciprocamente, quella di Biraghi è una critica produttiva, una sintesi entusiasmante dove scegliere e includere hanno un an-

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archeologia

damento sinfonico. Poiché, qui, il lavoro della selezione è pari a quello della attribuzione di significato. Si tratta, scegliendo e per questo omettendo, di dire tutto: da Loos che è moderno perché è classico, all’ordine della luce in Mies, e Berlage, «perenne più che antico», e Otto Wagner «che attua una unificazione semantica di Vienna», l’unità che si compie nella frammentazione in Pikionis, il cimitero di Modena di Rossi, «gioco dell’oca della vita e della morte», la torre comunista di Tatlin «gigantesco meccanismo a orologeria», la scuola di Amsterdam che scopre l’individualità della forma, il Rundbogenstil e i silos, il layer e il display, la catena di vetro e il «fiume in piena» di Wright, la «scienza del camaleonte» di Philip Johnson, il soft pop di Ronchamps, i grattacieli, che sono «investimenti a tre dimensioni», il realismo biologico deluxe di Neutra, la technocraft di Piano, la «prestidigitazione» di Koolhaas, fino a Fuksas «apocalittico e catastrofico». Biraghi sceglie e insegna a scegliere e a studiare. Con una aggettivazione ricercata e appropriata ogni appassionante descrizione delle opere è una mirabile

ekphrasis degli edifici. La sobrietà iconografica dei volumi, cui ha collaborato con sapienza Mario Viganò, è il sigillo della potenza della qualità. Di edifici e città, Biraghi mostra il significato. Con il coraggio delle sue scelte subordina la sensibilità alla verità, e unifica in armonia gli aspetti simbolici, le necessità monografiche e gli impulsi enciclopedici; è capace, come sarebbe sempre doveroso, di mostrare l’arcaico nel moderno e il groovy nell’antico, e di spiega-

re con semplicità che una fonte non è mai tale se non è oggetto di interpretazione. L’esegesi dell’«oggetto a reazione mediatica», la perdita del valore di eternità delle opere, divenute arbitrarie e mutevoli come le mode, e la sopraggiunta incertezza delle culture, avverano la diagnosi di Biraghi: «la cultura della forma particolare sta avvicinandosi alla fine».Tutto inutile tranne l’intelligenza, allora, in questa instabile contemporaneità che raccoglie e mette in salvo, serba per il futuro. Soltanto così l’illuminazione continua della creazione critica potrà proseguire, e muovere ancora verso molteplici disvelamenti: il significato dell’immaginazione, la persistenza degli archetipi, il nesso fra Cultura e disciplina. La Storia dell’architettura contemporanea di Marco Biraghi è critica dell’ideologia contemporanea, critica del funzionalismo, storia delle idee e delle tecniche per realizzarle, ma, soprattutto, fenomenologia della forma. Un lampo, nel testo, folgora, facendo capire tutto: «formale cioè spirituale».

Un disegno di Aldo Rossi per il Cimitero di Modena

Marco Biraghi, Storia dell’architettura contemporanea, Einaudi, 2 voll., 444+547 pagine, 60,00 euro

Nella Grotta di Hohle Fels la prima Venere del mondo di Rossella Fabiani n Germania, nella grotta di Hohle Fels, gli archeologi dell’équipe che porta avanti l’esplorazione del sito hanno fatto una straordinaria scoperata: una minuscola statua in avorio, raffigurante una Venere. Risale ad almeno 35 mila anni fa ed è la più antica scultura oggi nota. In passato, il sito aveva restituito numerosi oggetti in avorio, ma questa è la prima volta che torna alla luce una figura antropomorfa che, inoltre, si presenta in ottimo stato di conservazione: sebbene ritrovata in frammenti, la Venere è stata quasi completamente ricomposta e risulta priva solo del braccio e della spalla sinistra.Tale circostanza indica che il reperto non ha subito danni particolari all’interno della stratigrafia in cui era inglobato e, soprattutto, non si può escludere che l’ampliamento dello scavo possa portare al recupero delle parti oggi mancanti. La Vene-

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re è stata recuperata in un livello che si trova alla base del deposito ascrivibile alla fase aurignaziana, proprio al di sopra dei livelli di argille sterili che separano questa porzione del deposito dai sottostanti strati riferibili al Paleolitico Medio. Campioni di ossa e di carboni provenienti da questi livelli sono stati sottoposti all’esame del radiocarbonio nei laboratori di Oxford e hanno fornito date fra i 40 mila e i 31 mila anni fa circa. Negli anni passati altri reperti provenienti dai livelli aurignaziani della grotta di Hohle Fels erano stati analizzati nei laboratori tedeschi di Kiel e avevano fornito date oscillanti fra i 35 mila e i 31 mila circa. Una simile ampiezza, già riscontrata nella vicina grotta di Geissenklosterle, potrebbe dipendere dalla preparazone dei campioni e dalla loro eventuale contaminazione, ma il respnsabile delle ricerche, Nicholas Co-

nard, ritiene, comunque, che tale circostanza non sminuisca l’importanza della scoperta: egli, anzi, è convinto che l’attribuzione della Venere a un momento collocabile intorno ai 35 mila anni fa sia del tutto verosimile. E anzi, nel caso in cui le analisi che indicano date ancora più antiche dovessero trovare conferma, la figurina diverrebbe di gran lunga la prima nel suo genere a oggi nota.Tale eventualità appare assai probabile a Conard, il quale, nell’articolo in cui ha presentato la scoperta alla comunità internazionale (Nature, vol. 459, 14 maggio 2009), spiega che la Venere giaceva al di sotto di una serie di strati sicuramente riferibili all’Aurignaziano e ritiene probabile che il reperto appartanesse al momento d’esordio di questa fase culturale nella Grotta di Hohle Fels. I livelli sovrastanti la statuina hanno restituito numerosi strumenti in selce e in materiali organici, ornamenti, nonché tre opere d’arte figurativa. A oggi non si hanno dati attendibili sui tempi che possono essere stati necessari per l’accumulo dei vari strati che compongono il deposito, né sulla durata esatta della fase aurignaziana, ma quella di Hohle Fels è una delle grotte più grandi e più facilmente localizzabili del Giura Svevo, circostanza che, sempre a giudizio di Conard, autorizza a credere che sia stata perciò rapidamente occupata dalle prime comunità del Paleolitico Superiore presenti nella zona. La Venere di Hohle Fels associa caratteristiche che la rendono unica nel suo genere, a particolari che la accomunano a immagini analoghe riferibili a orizzonti cronologici più recenti. Al momento, considerando che futuri scavi potrebbero integrare la sagoma della Venere, le dimensioni massime della statuina sono 59,7 mm di lungheza, 34,6 di larghezza per un peso di 30 grammi.


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i misteri dell’universo

n precedenti articoli abbiamo considerato alcuni casi in cui i parametri del moto dei pianeti del sistema solare e della terra in particolare possono cambiare, in modo alquanto veloce. Restando nell’ambito degli scenari standard, quelli ora accettati dalla maggioranza degli astronomi, si possono citare i seguenti casi, da collocare in tempi assai antichi, miliardi di anni fa: - la perdita del mantello di Mercurio, pianeta che è essenzialmente un nucleo metallico, con densità di oltre 7 g al centimetro cubo (contro i 5 circa della Terra) e un forte, inatteso campo magnetico. È ipotesi corrente che un impatto di colossale entità abbia frantumato l’originale mantello e la crosta, disperdendoli nello spazio in forma vaporizzata, e lasciando il nucleo nudo (i crateri che vi appaiono si sono formati successivamente per impatti con comete, asteroidi...). Ora un impatto che spogli il nucleo dalla sua copertura esterna deve sicuramente cambiare anche i parametri orbitali e rotazionali del pianeta, avvicinandolo o allontanandolo dal Sole a seconda di dove provenisse il proiettile impattante. Va comunque detto che esistono teorie alternative alla mancanza di mantello, fra cui quella di Ackerman che vi vede nientemeno che l’originario nucleo di Marte, perduto al termine di un complesso processo su cui qui non possiamo soffermarci; - sull’origine della Luna, la trentina (almeno) di teorie esistenti prima che l’uomo fosse in grado di raccogliervi rocce e analizzarle, sono state quasi tutte scartate, in quanto i rapporti isotopici in tali rocce non sono compatibili con quelli delle rocce terrestri, e sembra non esistere un meccanismo che spieghi tale diversità. Ne segue quasi necessariamente che la Luna deve essersi formata non insieme alla Terra, come prima generalmente ipotizzato, ma dopo una qualche interazione con un corpo formatosi in ambiente diverso. Due letture di questa ipotesi sono quelle di astronomi giapponesi che hanno proposto che una Luna «vagante» sia passata vicino alla Terra, sia stata rallentata da una primordiale atmosfera più estesa e densa e quindi catturata (la cattura non può avvenire in un problema a tre corpi senza rallentamento). Un’altra teoria, ora la più accreditata, ipotizza un colossale impatto tangenziale fra la Terra e un corpo di dimensioni marziane, con composizione diversa, dai cui detriti entrati in orbita si sarebbe formata la Luna per condensazione. Ma chi scrive sta considerando una teoria di cattura a quattro corpi, dove il frenaggio non è necessario, e che spiegherebbe anche una serie di dati nei testi e nelle tradizioni antiche. È chiaro che un tale evento cambierebbe in modo sostanziale i parametri orbitali e rotazionali della Terra; - la perdita di un satellite di Nettuno passato a Plutone, dove è l’oggetto chiamato Caronte, scoperto da non molti anni, e facente con Plutone essenzialmente un sistema di pianeta doppio. Scoperta inattesa, ma siamo ben lungi dall’esaurire le sorprese nel sistema solare e nei tantissimi sistemi extrasolari, di cui ora noti

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MobyDICK

ai confini della realtà

La Luna si allontana

e il giorno si allunga di Emilio Spedicato sono oltre duecento. In questo caso le variazioni dei parametri sopra considerati sarebbero estreme.

Mentre scrivo queste note, i parametri che caratterizzano la Terra e la Luna continuano a cambiare, anche se in modo minuscolo. Cambiamenti che sono stati rilevati solo da pochi decenni e sono sotto stretto controllo da pochi anni, grazie allo straordinario sviluppo dell’elettronica e degli strumenti basati su di essa (laser, rivelatori...), dove è possibile

fatto osservato per la prima volta una trentina di anni fa, e che, sebbene praticamente non rilevabile a livello delle attività biologiche, ha creato vari problemi di gestione, ai fini delle ricerche astronomiche dove va considerato un riferimento temporale preciso; problemi in particolare relazionati alle corrispondenza fra il tempo misurato dalla rotazione della terra e quello misurato dagli orologi al cesio, e al dover gestire una discontinuità. Un secondo all’anno sembra poco, ma è oltre un minu-

Sono due fenomeni rilevati in tempi recenti, grazie allo straordinario sviluppo degli strumenti elettronici di registrare variazioni fino al miliardesimo del miliardesimo. Come quella della lunghezza del giorno, di circa un secondo in più all’anno. Mentre l’allontanamento della Luna è più complicato da calcolare controllare certi fenomeni con una precisione che ha dell’incredibile, fino al miliardesimo di miliardesimo. Con tali strumenti si sono accertati due fatti: la lunghezza del giorno (siderale, misurato rispetto a stelle lontane un tempo, ora rispetto a certe radiosorgenti situate in galassie esterne alla nostra) aumenta e la distanza Terra-Luna pure aumenta. La variazione della lunghezza del giorno è di circa un secondo all’anno,

to al secolo, e oltre un’ora in 10.000 anni, un periodo che corrisponde grosso modo alla presenza dell’uomo sulla Terra dal tardo Paleolitico. Queste stime di tipo lineare sono tuttavia da prendere con le pinze, in quanto il fenomeno è nonlineare e certamente nei 10.000 ultimi anni la terra ha subito vari eventi di natura anche catastrofica che hanno agito più pesantemente sulla velocità di rotazione (uno studio dell’inversione

dell’asse di rotazione terrestre, suggerita da affermazioni in Erodono, Pomponio Mela e nel Corano, da una variazione di circa 8 minuti della durata del giorno…). La causa del rallentamento è una perdita di energia dovuta all’interazione con il Sole e la Luna, che costituisce una coppia frenante, in grado di dissipare ben 6 terawatt di energia, e rallentare la rotazione terrestre di circa un milionesimo di miliardesimo di miliardesimo di angolo di rotazione al secondo… tale azione frenante è apportata essenzialmente dall’azione delle maree in mari poco profondi, in particolare il Mar dei Caraibi e il Mar Giallo.

È stato anche osservato un allontanamento della Luna, con la tecnica di misurare il tempo di andata e ritorno di un segnale laser inviato da una stazione terrestre su certi specchi collocati sulla Luna nel corso di missioni spaziali. L’analisi di questo allontanamento è più complessa, dato che la Luna si muove su un’orbita solo approssimativamente ellittica e del tipo a tre corpi. Un movimento complesso che il grande Newton cercò a sua volta di risolvere in una semplice equazione orbitale, senza riuscirci, e poi si dimostrò che la cosa era impossibile con i mezzi a sua disposizione; e Newton si rimediò quasi un esaurimento nervoso.


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