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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Il nuovo romanzo dello scrittore anglo-indiano

LA PACE SECONDO RUSHDIE di Nicola Fano lla metà del Cinquecento Niccolò Machiavelli era già una celebrità. bro di Machiavelli non era un decalogo della trama papale nel mondo ma un All’epoca, potenti e puttane erano più còlti di oggi (o comunque manuale di buona politica scritto dall’autore nella speranza di essere Barocco, ostentavano meno la loro ignoranza) e non c’erano la televireintegrato a Firenze nel ruolo politico che i nuovi Medici gli avevaimmaginifico, sione né internet né Michael Jackson: sicché si poteva no tolto all’inizio del Cinquecento. No, in Europa per lo più si costupendo. “L’incantatrice essere celebri per le proprie idee.Tanto bastava. E Machianosceva il capolavoro di Machiavelli tramite una traduziovelli aveva assai idee, per globale convinzione. Anche ne in lingua francese che era stata usata come base sia di Firenze” è un viaggio estremo se non tutti sapevano bene quali idee avesse in per la celebre versione inglese d’età elisabettiana in un mondo sospeso nella sfida costante concreto. Le aristocrazie intellettuali europee sia per quella compilata dai luterani tedeschi tra passato e futuro. Solo l’incontro dei Cinquecento in larga misura conoscevano negli stessi anni. E i francesi non avevano a l’italiano e almeno in parte lo leggevano, ma le cuore per niente il genio di Machiavelli, anzi: lo tra culture può proiettare in una masse del potere (i cortigiani, i nobili che riscuotevano consideravano un nemico, in quanto ispiratore di tutti dimensione feconda le tasse, i capi militari) avevano poca pratica della nostra linquei mestatori politici italiani che Caterina de’ Medici s’era portata a Parigi nei suoi lunghi anni da Regina madre di Francia. gua. Sicché pochi, dopo la metà del Cinquecento, avevano letto Il l’umanità di Principe di Machiavelli nella lingua originale, ossia pochi sapevano domani continua a pagina 2 esattamente che cosa ci fosse scritto; pochi sapevano chiaramente che il li-

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Orizzonte di Sergio Valzania Total rock in memoria di Richey di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Dimesso e crepuscolare: Marino Moretti trent’anni dopo di Francesco Napoli

Vita e opere di Padre Gemelli di Maurizio Schoepflin La colonna sonora della “meglio gioventù” di Francesco Ruggeri

Contro la deportazione delle opere d’arte di Marco Vallora


la pace secondo

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segue dalla prima Divide et impera era il credo politico di Caterina, e non è un caso che ancora oggi questa massima sia attribuita a Machiavelli. Il quale, semmai, la offre ai suoi lettori come una dottrina efficace sul breve periodo, ma sconveniente e controproducente, alla lunga. Insomma, Machiavelli è stato sicuramente un uomo di enorme rilievo intellettuale e politico, benché sia stato uno dei più mistificati intellettuali dell’Evo moderno. Il guaio è che ancora oggi è oggetto di molte mistificazioni. È per questo, soprattutto, che stupisce il fatto che Salman Rushdie abbia deciso di fare di Machiavelli, in concreto, il protagonista del suo più recente, barocco, immaginifico e stupendo romanzo: L’incantatrice di Firenze. Nella ottima tradizione di Vincenzo Mantovani lo ha pubblicato Mondadori, è lungo 373 pagine, compresa una utile quanto articolata bibliografia, e costa 20 euro. James Joyce, con una certa compiacenza nei confronti dei suoi lettori, diceva che aveva impiegato diciotto anni per scrivere Ulisse e che riteneva ne fossero necessari ventiquattro per leggerlo; aggiungendo che solo sei anni in più tra scrittura e lettura erano un gran complimento alle capacità dei lettori. In effetti. Credo che Rushdie impieghi meno anni di Joyce per scrivere i suoi libri (L’incantatrice di Firenze è stato scritto in due anni, a quanto se ne sa) ma penso pure che per Rushdie il rapporto fra tempi di scrittura e tempi di lettura possa essere simile a quello di Joyce: una scorsa veloce (e inutile) come quella che certuni hanno dato a questo libro prima di recensirlo senza alcuna consapevolezza non fa loro onore. Io ho impiegato più di due mesi a leggere L’incantatrice di Firenze, altri gliene dedicherò in futuro per cui mi scuso se non aspetto una seconda, ancora più attenta lettura per parlarne: ci sono troppe cose che premono.

Intanto, il fatto che Machiavelli sia stato compreso così a fondo da Rushdie. Egli nella bibliografia fa riferimento alla biografia di Machiavelli di Maurizio Viroli, un grande storico italiano che vive e insegna tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti i cui studi di storia politica, naturalmente, qui da noi sono per lo più sconosciuti: i nostri media e i nostri leader amano abbeverarsi ad altre fonti. Forse fonti più spicce. Di sicuro Rushdie ha fatto bene a rivolgersi a Viroli, perché lo ha aiu-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

Rushdie

tato a centrare la parabola di un personaggio geniale, pieno di energie e contraddizioni da mettere al servizio del proprio tempo: Machiavelli è prima un ragazzo scapestrato ed esagerato, poi un uomo assai innamorato del potere e infine un vecchio saggio e giusto. Ma comunque questo perfetto Machiavelli (il cui spirito «giusto» aleggia per tutto il libro) è una delle figure di contorno della storia: una storia molto complessa. Diciamo, per brevità, che il libro, ambientato nella seconda metà del Cinquecento racconta di un ragazzo di origini fiorentine che raggiunge la corte Mogol dove regna Akbar il Grande: ha urgenza di raccontare al sovrano la sua storia, la vicenda folle e meravigliosa di una magica e affascinantissima zia di Akbar di cui il giovane fiorentino si crede figlio. Così il ragazzo, Niccolò Vespucci, narra la sua storia: una favola che inizia lontano, quasi un secolo prima, quando tre bambini, Niccolò Machiavelli, Antonino Argalia e Agostino Vespucci, nei dintorni di Firenze vanno in cerca di una strana erba magica, la mandragora, alla quale il loro destino resterà appiccicato. Dei tre, uno (Machiavelli) è destinato alla politica, uno (Argalia) alla guerra e l’ultimo (cugino del celebre navigatore) alla mollezza di corte, a Firenze. La sorte porterà Argalia in giro per il mondo, fino a diventare guerriero mitico, nell’impero ottomano, dove riscatterà dalla schiavitù una principessa vinta in battaglia: Qara Köz. È lei la zia dell’imperatore: donna magnifica che ha abbandonato le radici e ha accettato di affrontare il proprio destino a viso aperto, sognando

disfazione per averlo seguito fin lì in questo viaggio estremo e magnifico in un mondo sospeso tra voglia di futuro e fango conservatore. Un mondo incredibilmente simile al nostro, così come qualunque mondo può somigliare a un altro: dipende solo dal punto di vista e da chi ce lo racconta. Per esempio, Rushdie narra in Firenze un curioso, significativo aneddoto. Durante una festa popolare, ha vita un combattimento tra orsi e leoni (capitava spesso, nelle grandi corti, all’epoca) quando all’imLa vicenda si svolge nella seconda metà provviso, un grosso leone azdel Cinquecento e Machiavelli è un personaggio zanna per il collo un orso e s’appresta a ucciderlo. Al ché chiave della storia, nella quale aleggia sempre una leonessa si mette in mezzo il suo spirito “giusto”. Di certo Rushdie, e difende l’orso: il leone lo laaiutato dalla biografia di Maurizio Viroli, scia ma la leonessa patisce per il resto della propria vita l’ostraha compreso a fondo l’autore del “Principe” cismo della propria razza per essersi presa cura di una vittil’eventualità di accarezzare la libertà. Che per lei signi- ma - come dire? - straniera da sé. Scrive Rushdie: «Nei fica «usare» gli uomini. Insomma, quando le trame po- giorni e nei mesi che seguirono ci furono molte discuslitiche ottomane costringeranno Argalia (che ormai s’è sioni sul significato dello strano avvenimento. L’opiniofatto turco) a tornare in Occidente, egli si offrirà come ne corrente era che la leonessa rappresentasse Qara capo dell’esercito di Lorenzo II de’ Medici. Così, prima Köz; ma chi era l’orso e chi il leone? La spiegazione di entrare in Firenze, ritroverà i due amici perduti: Ma- che finì per prevalere, e che si impose come la verità, chiavelli è in esilio nei pressi della città e sta iniziando fu fatta circolare in un libello anonimo il cui autore, a scrivere Il Principe; Vespucci invecchia quieto, quasi ignoto a tutti tranne a qualche fiorentino, era Niccolò senza più voglie, ma finisce per innamorarsi di Qara Machiavelli, popolare drammaturgo ma uomo di poteKöz, donna misteriosa e bellissima, che trascina il suo re caduto in disgrazia. La leonessa aveva dimostrato di mistero fin nel cuore di Firenze, tanto da diventarne essere pronta a interporsi tra la sua specie e un’altra l’Incantatrice. Ma quando per Argalia ci saranno nuo- nella causa di pace, scriveva il libellista». vi rovesci e la morte, la donna fuggirà in un altro mondo a completare le sue avventure - sempre libera e Abbiamo sempre un’occasione per affrancare sempre legata a un uomo - stavolta con il sostegno del noi stessi dalla nostra cattiva stella, dice Rushdie. vecchio Agostino Vespucci. E qui, nel nuovo mondo, na- Perché l’assenza di pace, la violenza, il sopruso sono scerà il giovane viaggiatore giunto poi fino in India per solo una somma di cattive stelle, legate alla sfida costante tra passato e futuro. «Il passato era una luce raccontare la storia per come essa è andata. che, se ben diretta, poteva illuminare il presente più Akbar il Grande ascolta tutto con passione; come vivamente di qualunque lume contemporaneo»: così, si inseguirebbero un mito e una favola. Finisce con l’ac- con questa lampara da palombaro il grande scrittore cettare la versione del giovane narratore e vagheggia anglo-indiano dipana le ragioni del meticciato nel pure di affidargli il futuro del suo regno, perché da so- passato, perché siano da faro al presente e, dunque, vrano avveduto e illuminato sa che solo l’incontro fra al futuro. Proprio come accade in uno dei suoi role culture può dare frutti fecondi all’umanità di doma- manzi migliori, L’ultimo sospiro del Moro, che forse ni. Ma sa pure che il presente è fatto di recriminazioni, è quello col quale il nuovo L’incantatrice di Firenze di rabbie, distinguo e identità malcerte che non cerca- ha più d’un punto di contatto. Nell’un caso e nell’alno futuro ma conferme nel proprio passato. Sicché fi- tro, lo scrittore mette in fila società, personaggi e fanisce per separarsi dal suo amabile raccontatore, non vole imperfette, sospese tra deliri fanatici e tenerezsenza aver colto (e corretto) la fase finale della sua sto- ze estreme, tra buoni esempi e cattive azioni. La moria. Che, come è ovvio in un contesto del genere, con- rale è che la perfezione non esiste ma che può essetiene un colpo di scena magistrale che Rushdie di fatto re utile cercarla in noi stessi e nelle nostre cose. Purpropina al lettore all’ultima pagina: come a dargli sod- ché lo si faccia con moderazione, ovviamente.

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ORIZZONTE orizzonte non esiste se non quando lo si guarda. È una creazione dell’uomo e ciascun uomo costruisce il suo. Eppure su di esso è stata calcolata per secoli la posizione delle navi, sotto la sua linea si è tentato di nascondersi. Nell’immensità del mare, ai navigante che hanno osato per primi allontanarsi dalla vista amichevole della costa, ha spiegato in silenzio che la terra è rotonda, confermando che il mondo è il libro di Dio. Basta saperlo leggere. Il sole che tramonta dietro l’orizzonte ha creato l’illusione dell’immobilità del nostro pianeta e in questo modo ha dato a quelli che lo abitano la presunzione di essere il centro dell’universo.

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L’orizzonte trova la sua realtà enigmatica in una percezione, non in una solidità tangibile, della quale è privo. Basta spostarsi per metterlo in movimento, per spingerlo ad allontanarsi. Sulla terra ferma, dove si presenta con linee mosse e spezzate, risponde al movimento cambiando anche nell’aspetto, e mentre fa questo rimane sempre se stesso, anche nella sua identità di speranza o di timore, il confine estremo posto alla vista dell’uomo. La memoria evidente del suo essere limitato. Dietro l’orizzonte si può nascondere di tutto, in bene e in male. Ed è inutile andare a guardare cosa si incontra oltre a esso, o meglio, non è possibile compiere quest’azione in modo definitivo. L’orizzonte ci sfugge, è irraggiungibile, come e più della base dell’arcobaleno sotto la quale si dice si trovi nascosta una pentola piena di monete d’oro. Anche per questo l’orizzonte è diventato una metafora potente della condizione umana. Dietro l’orizzonte si cela il futuro e si ritira il passato, per nascondersi dopo essere stato presente in un attimo abbagliante. Neppure l’immobilità salva da questa condizione di incertezza. Sotto la linea retta del mare e delle pianure o al di là di quella ondulata delle montagne non possiamo sapere cosa si trovi, se ci stia venendo incontro una minaccia oppure se ci sia un’occasione favorevole che ci sta sfuggendo per sempre. Certo, per chi naviga, come per chi viaggia per terra, ci sono le mappe e le carte, tracciate da quelli che lo hanno preceduto. Esse hanno una funzione simile a quella degli aruspici, con capacità di previsione persino maggiore. Ci dicono che andando in quella direzione incontreremo questo o quel luogo, cartelli posizionati ai lati delle strade ce lo confermano, ma non ci sanno dire cosa incontreremo lì, dove pure sappiamo che stiamo andando. Il pellegrino che da Roncisvalle si mette in marcia verso Ovest, seguendo la direzione che la Via Lattea gli indica dal cielo, sa

È il confine estremo posto alla vista dell’uomo. Sfuggente e irragiungibile, basta spostarsi per metterlo in movimento. Esiste solo quando lo si osserva, ma accettare di guardarlo significa espandere il proprio io e confondersi con ciò da cui ci separa

La memoria del limite di Sergio Valzania

Per Dio l’orizzonte non esiste. Per il Creatore tutta la creazione è nota, fin dall’inizio e in ogni sua parte. Nascondendo all’uomo ciò che è da lui lontano nello spazio e nel tempo diventa così un dono di Dio e forse il luogo dietro il quale Egli si cela al suo sguardo, nell’attesa dell’incontro che dopo cinque settimane di cammino arriverà a Santiago, alla tomba del Santo, e che passerà prima da Puente la Reina ed Estella, Burgos e Leon, Astorga e Sarria.Tutti luoghi che al momento della partenza l’orizzonte gli nasconde, anche se sono lì, pronti ad accoglierlo. Ugualmente egli non sa nulla degli incontri che lo aspettano sul cammino, del tempo che incontrerà, di quello che potrà imparare e di quanto sarà cambiato al momento dell’arrivo. L’orizzonte fisico, materiale, che ci basta guardare lontano per riconoscere,

ne nasconde un altro, a esso intrecciato, quello del tempo. Altrettanto impenetrabile, se non di più. Tutti gli oggi hanno un domani, per poi diventare ieri, fino a confondersi nella memoria con tutti gli altri giorni della vita.

L’orizzonte ci è davanti. Se giriamo la testa abbiamo di fronte un altro orizzonte, sappiamo che i luoghi fisici di quello di prima esistono ancora, ma data la sua natura soggettiva e personale dobbiamo ammettere che esso ha perso il suo carattere decisivo di limite al

nostro sguardo. Se scrutiamo nel tempo ci accorgiamo che esso si comporta in modo più capriccioso dello spazio. La cartina, l’agenda, sulla quale tracciamo il percorso del nostro futuro, fatto di appuntamenti, impegni di lavoro, vacanze predisposte, pranzi e cene, risvegli e colazioni alla stessa ora, ha caratteri persino più incerti di quelli sempre più sbiaditi dei ricordi, che sfumano se non li rinverdiamo, e sono poi diversi in modo preoccupante da quelli di chi sappiamo essere stato al nostro fianco, anche in passaggi decisivi della vita. La memoria è attività creativa per eccellenza, se non la si svolge in comune porta a esiti divergenti. Attività creativa è anche guardare l’orizzonte. Quando si cammina bisogna stare attenti a dove si mettono i piedi, nella guida occorre seguire la strada e fare attenzione al traffico, in navigazione lo sguardo è sugli strumenti e scruta il mare per evitare incontri imprevisti. Per prestare attenzione all’orizzonte bisogna decidere di farlo, scegliere di portarlo all’esistenza e nello stesso tempo di abbandonarsi a esso. Guardare l’orizzonte significa confondersi con quella riga lontana e con quello che da essa ci separa, espandere il nostro io fino ai limiti del possibile fisico, forzare il tempo verso il futuro. E accettare i pensieri che questa attività comporta. Le domande e i dubbi sul nostro essere, sul senso della vita, sul rapporto che abbiamo con i nostri simili e con il mondo nel quale viviamo, e le responsabilità che portiamo sulla forma che esso ha assunto. Nei momenti più intensi il pensiero addirittura scompare, esce da noi e ci lascia senza mediazioni linguistiche o concettuali. Una sorta di trance, dovuta alla sproporzione delle forze in campo, fa sì che ci accorgiamo di quanto siamo piccoli, ma anche di quanto siamo grandi. Per chi crede si tratta di una modalità di preghiera senza parole e senza meschine richieste da avanzare. Cosa desiderare di fronte all’infinito? Per altri si tratta di una modalità più intensa di essere, oppure uno spazio di meditazione dal quale uscire con un’inquietudine. La sua durata è comunque breve, il nostro io pensante è come un cucciolo, non riesce a star fermo, sente lo stimolo prepotente a muoversi di continuo. Per Dio l’orizzonte non esiste. Qoelet scrive: «Riconosco che qualunque cosa Dio fa è immutabile; non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere». Per il Creatore tutta la creazione è nota, fin dall’inizio e in ogni sua parte. L’orizzonte, che nasconde all’uomo ciò che è da lui lontano nello spazio e nel tempo è quindi un dono di Dio, e forse il luogo dietro il quale Egli si cela al suo sguardo, nell’attesa dell’incontro.


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cd

roppe volte avrebbero desiderato che Richey riaffiorasse dalla nebbia. Sì, lui: il leader dei Manic Street Preachers, quartetto gallese nato con la voglia di spazzar via le rockband della generazione precedente, incidere un disco esplosivo e poi dileguarsi nel nulla. È Richey James Edwards, invece, a sparire: il 1° febbraio 1995, alle 7 del mattino, lascia l’Embassy Hotel di Londra. Quattordici giorni dopo, la sua auto viene ritrovata nel parcheggio della stazione di servizio Severn View, vicino a Bristol. Dopo aver marchiato a fuoco la ruvida bellezza e le claustrofobìe di Generation Terrorists (’92), Gold Against The Soul (’93) e The Holy Bible (’94), il vocalist e chitarrista folle, geniale e anoressico che aveva risposto alle insinuazioni di un critico dubbioso sull’autenticità del gruppo «tatuandosi» con una la-

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musica

Total rock in memoria di Richey di Stefano Bianchi metta 4 real sull’avambraccio, non tornerà mai più. Suicidio? Cos’altro? Le indagini sono buchi nell’acqua. E c’è chi giura d’averlo visto, ramingo, in India. Dopo lo shock, il chitarrista James Dean Bradfield, il bassista Nicky Wire e il batterista Sean Moore decidono di sciogliersi. Ma è la famiglia di Richey a convincerli a continuare. Wire prende in mano le redini del gruppo, Richey non viene rimpiazzato, Bradfield ri-

prende a sfoggiare la sua incredibile voce. I Manic Street Preachers, fino al 2007, seminano schizzi di rock e melodie dai contorni epici. Nei loro dischi (un paio, all’altezza dei primi: Everything Must Go e Lifeblood), cova un disagio strisciante, un quieto e raggelante pessimismo. Sta per chiudersi il 2008 e Richey viene ufficialmente dichiarato morto. Si scopre che prima di sparire aveva destinato oggetti personali

ai suoi compagni. A Nicky Wire, in particolare, taccuini colmi di frasi smozzicate e ipotetici versi di canzoni. Quegli appunti, ora, sono l’anima di Journal For Plague Lovers. Ed è come se quelle parole penetrassero nel viso tumefatto del bimbo in copertina, dipinto dalla young british artist Jenny Saville pensando a Rubens e a Lucien Freud. Sotto la scorza di tredici canzoni registrate in presa diretta, graffiano chitarre in distorsione. Al di là dell’abile produzione di Steve Albini, vecchia volpe del circuito indipendente sin dai tempi del grunge, Journal For Plague Lovers esprime il miglior total rock possibile. Da molti anni in qua. Merito del trio di Cardiff, che finalmente può dar voce a colui che non può più parlare. E lo fa, scrutandone gli ultimi scritti, col linguaggio rock che a lui era più congeniale: di volta in volta barricadero (Peeled Apples, All Is Vanity), post-punk (Jackie Collins Existential Question Time), lacerante (Marlon J.D.), marziale (She Bathed Herself In A Bath Of Bleach), lisergico e possente (Me And Stephen Hawking). L’epilogo, poggia su versi che commuovono: «Auguratemi buona fortuna, mentre mi salutate con la mano / Siete i migliori amici che abbia mai avuto». Riposa in pace, Richey James Edwards. Ovunque tu sia. Manic Street Preachers, Journal For Plague Lovers, Columbia/Sony Music, 20,60 euro

in libreria

mondo

GLI ANNI 70 RIVIVONO CON GLI AREA

riviste

MEGADETH SENZA FINE

SUONALA ANCORA, GLEN

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uesto gruppo ha quattro anni di vita, che non son molti chiaramente.Vuole coagulare diversi tipi di esperienze: fonde il jazz, come il pop, la musica mediterranea e la musica contemporanea elettronica. Vogliamo abolire le differenze che ci sono fra musica e vita. Vogliamo trarre spunto dalla realtà e dalla strada, chiaramente». Demetrio Stratos presentava così nel

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ono più elettrizzato per questo disco di quanto lo sia stato per qualsiasi nostro altro album dagli anni Ottanta. Direi dai tempi di Rust in peace. Quest’album è l’offerta più energetica che ho scritto negli ultimi dieci anni». Dave Mustaine presenta così Endgame, nuovo album dei Megadeth in uscita a settembre, a due anni da quel United abominations che aveva segnato la

l cinema è il fantasma sempre presente in questa bellissima raccolta di canzoni attraversate dallo spirito jazz di Van Morrison e da un motore che spinge il desiderio del suono verso l’immagine e quello della parola verso la materia del suono». Michele Faggi presenta così su indieeye.it, l’album che Glen Hansard ha realizzato insieme alla pianista ceca Marketa Irglova. Inti-

Coduto racconta la storia di Demetrio Stratos e compagni: la band che anticipò la world music

Mustaine e soci tornano a settembre con ”Endgame”, album energetico in stile anni 80

Hansard in coppia con la pianista ceca Marketa Irglova, in un disco da riscoprire

1976 il progetto di una band nostrana capace di influenzare con le sue innovazioni il panorama musicale internazionale. Gruppo progressive italiano, in grado di anticipare il concetto di suono totale inseguito dalla world music, Stratos e compagni rivivono in Il libro degli Area (Auditorium, 192 pagine, 12,50 euro) di Domenico Coduto, da poco in ristampa. Ispirati dal grande John Cage, da battaglie politiche e quadri allegorici, dal free jazz e dalle sperimentazioni liriche, gli esponenti del gruppo italiano vengono raccontati dall’autore con vivezza e lucidità. Un lavoro accurato, che mostra in controluce incubi e sogni degli anni Settanta.

difficoltosa reunion. Un lavoro che si preannuncia ricco di quelle dirompenti scariche di decibel che hanno caratterizzato i migliori lavori della heavy band californiana. Già ufficializzata la presenza di Headcrusher, How the story ends, This day we fight e 1,320 nella tracklist, Endgame riproporrà il ritorno al metal delle origini che ha fatto le fortune del gruppo negli anni Ottamta. Tra assoli stupefacenti, ritmo supersonico e riff sospesi nel nulla, Mustaine e soci puntano al definitivo rilancio di due album dopo lo sciagurato Risk. Vic testa a sonaglio, è pronto a mordere ancora.

tolato The Swell Season, il progetto nasce dall’esperienza cumulata dai due artisti lungo viaggi e concerti tra la Repubblica Ceca, l’Irlanda e gli Stati Uniti. Un lavoro nato inizialmente per la soundtrack del film Beauty in trouble, che nel corso del tempo ha aggiunto alle due tracce previste altre otto scelte fra quelle sorte da session vissute in stato di grazia. Si va dalla trasognata The Swell Season, che dà il titolo all’album e una gemma al mondo della musica, al minimalismo incorporeo di Just Walk away, brano che si attorciglia in un solo verso e mille rivoli sonori. Passato inosservato in Italia, il lavoro di Hansard e Irglova merita una lunga e duratura riscoperta.

a cura di Francesco Lo Dico

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zapping

ELOGIO DI COBAIN genio dell’angoscia di Bruno Giurato evival per revival, evergreen per evergreen, ognuno si scelga i suoi, giusto? Chi l’ha detto che mi devono piacere gli Spandau Ballet sono perché ero adolescente negli anni Ottanta? Chi l’ha detto che mi devo commuovere ascoltando Rick Astley, Taffy, i Via Verdi? Se postmoderni dobbiamo essere allora esercitiamo la libertà di reinventare la nostra storia, almeno. Ecco, per esempio, musicalmente gli anni Novanta furono meglio degli Ottanta. Si vede per esempio Ten dei Pearl Jam, un capolavoro dalla prima all’ultima nota. E si veda soprattutto quell’oggetto ancora misterioso chiamato Nirvana. Sì, lo so, alla prima occhiata si pensa a quelle camicie scozzesi di flanella che indossava Kurt Cobain, alla sua disperazione cosmica, al fatto che si è sparato in bocca, alla moglie punkettona-rovinata che di nome fa Courtney Love. Ma a vent’anni esatti dal primo disco dei Nirvana, Bleach, si potrebbe render loro omaggio parlando di un oggetto che di solito passa in secondo piano, la musica. E allora diciamolo, finalmente, che Kobain era un compositore dalla straordinaria perizia, soprattutto armonica. Si parla di armonia, quella cosa codificata da Bach. Cobain, provenendo dal punk, si era inventato un modo suo di concatenare melodie e accordi, una creatività che ha un solo precedente, John Lennon (e infatti Cobain era un Lennon col mal di stomaco e senza hippismo). Solo nelle canzoni dei Nirvana si può sentire un ritornello in minore uscir fuori da accordi maggiori. A differenza di tanti gruppi rock di oggi, che con gli accordi minori (cioè tristi) costruiscono le loro oasi di disperazione, Cobain aveva il genio dell’angoscia che partiva dal dispositivo armonico più solare, illuminista e ottimista, la triade maggiore. Alcuni grandi jazzisti, come David «Fuze» Fiuczynski se ne sono accorti e hanno cominciato a suonare le canzoni di questo grande compositore. Alla faccia delle camicie a quadri.

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jazz

Il coraggio (e il talento) di China di Adriano Mazzoletti

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uello che si è svolto, fra mercoledì 24 e venerdì 26 giugno, nella splendida cornice dei giardini rinascimentali di Villa Medici a Roma, è stato un vero piccolo autentico festival di jazz, ma ciò che più conta, di quel jazz sincero e genuino come ormai raramente è consentito incontrare nelle molte manifestazioni che si svolgono lungo la nostra Penisola. Certo eccellenti concerti di jazz qua e là si incontrano, ma quasi mai nell’arco di tre giorni consecutivi. Forse per aver questa fortuna bisogna metter piede in territorio straniero anche se nel nostro caso il «territorio» si affaccia su quel miracolo che è Trinità dei Monti. Organizzato, come le scorse edizioni, dall’Académie de France, le tre serate hanno riservato molte piacevoli sorprese fra cui China Moses ancor poco o per nulla conosciuta in Italia che ha inaugurato «Jazz a Villa Medici». Ed è stato questo il primo regalo offerto dalla manifestazione. Chi sia questa deliziosa ed eccellente cantante oltre che piacevole enterteiner, che meriterebbe una importante presenza nei cartelloni dei festival italiani, è presto detto. Figlia trentenne di Dee Dee Bridewater e del regista Gilbert Moses è cresciuta con la madre in Francia dove nel 1995 è entrata prepoten-

temente nel mondo del jazz e dello show-business. È una delle presentatrici di Mtv News sul canale musicale Mtv France. Il suo primo album China risale al 1997 seguito da On tourne en rond (2000), Good Lovin’ (2004) e l’ultimo, This One’s for Dinah pubblicato all’inizio di quest’anno da Blue Note. È un omaggio che China ha voluto rendere a Dinah Washington, una delle regine del blues e della musica nera americana, scomparsa a soli trentanove anni nel 1963, la cui influenza su Diana Ross, Dionne Warvick e Nancy Wilson è stata determinante. Nessun’altra cantante aveva osato riprendere alcuni dei maggiori successi di Dinah Washington come Evil Gal Blues, prima incisione realizzata dalla Washington nel 1943 con Lionel Hampton, oppure Blue Gardenia incisa nel 1955 due anni prima di Nat King Cole. China Moses, che nel corso del concerto ha eseguito molti altri celebri temi del repertorio della Washington - What a Difference a Day Made oppure quel successo a doppio senso che è Teach Me Tonight - ha dimostrato qualità non indifferenti, straordinaria vocalità, senso profondo del blues, capacità di tenere il palco come poche cantanti oggi sono in grado di fare. Splendidamente accompagnata dal pianista Raphael Lemmonier a cui si deve l’idea dell’omaggio a Dinah Washington, dalla tromba François Bienson, dal batterista Jean-Pierre Derouard e dalla contrabbassista Patricia Labeugle, ha chiuso con grande successo il primo dei tre concerti di Jazz a Villa Medici. La sera successiva è stata la volta di Aldo Romano, ben conosciuto anche in Italia dove ha molto suonato. Bellunese di nascita, ma gloria del jazz francese ha presentato un trio con il contrabbassista Henri Texier, di cui è doveroso ricordare esperienze importanti con la European Rhythm Machine di Phil Woods e con Unit di Michel Portal e la giovane sassofonista Géraldine Laurent, seconda piacevolissima sorpresa. Mentre di Aldo Romano sono ben conosciute le doti di compositore e accompagnatore - il suo gioco con le spazzole sul tamburo rullante non ha nulla da invidiare a quello di specialisti come Denzil Best e Shelly Manne - sconosciuta è invece la Laurent. Ebbene, sono sicuro che di questa giovane sassofonista sentiremo molto parlare.Tecnica ineccepibile, grande espressività, coerenza nella costruzione degli assolo, sonorità potente e un ritmo propulsivo sono le sue principali caratteristiche messe vieppiù in valore dallo swing inarrestabile creato dalla coppia Texier-Romano. Alla terza serata, tutta italiana, si è presentato un nuovo gruppo a nome Roberto Gatto ed Enzo Pietropaoli. Con loro due giovani di grande talento, il sassofonista Daniele Scannapieco e l’organista, ma anche pianista Luca Mannutza, che ha concluso con esito favorevole le tre serate a Villa Medici.

classica

Al “Géza Anda”, Jinsang Lee sbaraglia tutti di Pietro Gallina Géza Anda, grande pianista ungherese nato a Budapest nel 1921, emigrato in Svizzera nel 1943, ivi naturalizzato nel 1955 e morto nel 1976, si deve il grande Concorso Pianistico Internazionale di Zurigo che porta il suo nome, che si svolge ogni tre anni dal 1979 e che è giunto alla sua 11° edizione. In verità l’istituzione di tale concorso non si deve solo al celebre pianista in questione (che ha avuto maestri quali Zoltan Kodály e Ernst von Dohnányi o colleghi e collaboratori come Mengelberg, Clara Haskil, Fischer e Furtwängler), ma soprattutto al fortunato matrimonio dello stesso Géza Anda con Hortense Bührle, vedova eroica che è stata essenziale nella creazione della Fondazione a nome del defunto marito e alla quale si deve il mantenimento di questo importante concorso. Si rammenta che seppur con personale lodevole sforzo, i mezzi finanziari a disposizione per l’av-

A

vio della Géza Anda Stiftung certo non mancavano: la famiglia Bührle tra l’altro è proprietaria di una collezione privata di quadri tra le più importanti del mondo, la E.G. Bührle Collection di Zurigo, specializzata soprattutto in pittori impressionisti. Il vincitore del concorso di quest’anno è davvero una sorpresa. Si tratta del sudcoreano Jinsang Lee che ha letteralmente sbaragliato i due finalisti russi Alexey Zuev e Tatjana Kolesova che si sono piazzati rispettivamente al secondo e al terzo posto. Dopo aver assistito per anni a vari concorsi Géza Anda, mai si è visto acclamare un vincitore quasi all’unanimità come Jinsang Lee che ha anche stravinto tutti i premi collaterali: il premio del pubblico, il Premio Mozart, il Premio Schumann. In genere si arrivavav ai premi finali sempre con qualche insoddisfazione sull’assegnazione, vociferando su complotti o accordi interni tra giurati, ma quest’anno tutto è filato liscio e Jinsang Lee a 28 anni, è l’incontestato campione del concorso che ha

visto sfilare nel mese di giugno 37 pianisti di 17 nazioni impegnati in vari test fino alla quarta prova finale, durante la quale i tre finalisti di fronte all’entusiastico pubblico dell’esaurito Tonhalle, hanno eseguito i loro concerti scelti tra un numero di nove: tre di Beethoven, due di Brahms, Schumann, Chopin, Bartók e Grieg. Jinsang Lee ha scelto il Primo di Brahms, mentre il russo Zuev si è confrontato col Quinto di Beethoven e la moscovita Tatjana Kolesova con il Quarto sempre di Beethoven, tutti accompagnati dalla Tonhalle Orchestra Zurich diretta da Eivind Gullberg Jensen. La Kolesova seppur tecnicamente preparata non ha saputo dosare le asprezze dell’interpretativamente difficile Quarto Concerto beethoveniano. Alexey Zuev è parso invece oltre che tecnicamente valido, anche capace di un acceso brio, perdendosi però nella profondità delle parti liriche e cantabili che hanno bisogno di un po’d’emozione, alternandola al controllo della mente: lui sembrava

abbastanza glaciale e freddo nei suoi pseudo abbandoni. E finalmente Jinsang Lee (i suoi studi sono cominciati alla Korean National University of Arts e poi in Germania con Wolfgang Manz, Julia Goldstein e Pavel Gililov a Colonia), il quale ha mostrato una tecnica davvero notevole, vellutata, perlacea, capace di prodigiose densità e sfumature di suono, senza dire di una miracolosa capacità di canto e di un non ostentato virtuosismo. Con questo giovane vincitore abbiamo riascoltato un indimenticabile Primo Concerto di Brahms quasi rivitalizzato nelle intime, quasi timide infuocate profondità, un pianto di nostalgia che lava la terra liberando lo spirito dalle sempre presenti meschinità umane.


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narrativa

di Maria Pia Ammirati a prosa stringente del romanzo storico trova il suo compimento nella precisione dei dati e dei dettagli assieme alla capacità di creare la fabula, cioè l’invenzione dei fatti. Se non fosse per questo, spesso inestricabile, groviglio di verità e invenzione il romanzo storico sarebbe una gelida cronaca o un trattatello. Ritornare sulla storia di uomini illustri è sempre più spesso uno strumento di libertà per indagare tra le pieghe di verità intuite o solo possibili, come avviene nello Stupore del mondo, il romanzo storico di Cinzia Tani che intesse, attorno all’imperatore Federico II e alla sua corte, una trama fittissima costruita attorno allo svevo che amava la poesia e la cultura come l’arte della guerra. Ma Federico II che ebbe una vita piena e intensa, anche se non lunghissima (morì a 56 anni), non è il protagonista del romanzo. È un’ambigua figura di burattinaio, di narratore o costruttore di storie in cui prevale la ricerca di quell’elemento umano che sempre forse fu la vera passione dell’imperatore: il coraggio e la modernità. La storia di Federico è stata ricca di guerre, donne e di figli eppure la Tani tiene tutti questi elementi sul fondo della scena per far balzare in avanti i veri protagonisti. Ecco quindi che su una Storia scenografica e di fondale, la geografia dei luoghi diviene fondamentale: un’Italia divisa e parcellizzata in piccole porzioni di territorio, il Regno d’Italia, lo Stato della Chiesa, il Regno di Sicilia, la Puglia. Andiamo alla trama complessa non solo da date e luoghi di battaglie, ma di un vero affollamento di personaggi che animano la corte numerosa e cangiante dell’imperatore. La Sicilia e la Puglia si contendono le regge più belle e ricche, fino all’inverno del 1227 quando Federico decide di trasferire la corte e la giovane moglie quindicenne, Jolanda in attesa del primo figlio, dalla corte normanna di Palermo al palazzo imperiale di Foggia. A

L

libri

Amori e misteri alla corte di Federico II Foggia, nella bella residenza vicina al parco della Capitanata, dove si esercita la caccia, si incontrano i vari protagonisti che incrociano in maniera indissolubile le loro vite. Qui si conoscono Matteo e Flora, un giovane cavaliere dell’imperatore e la giovanissima dama di Jolanda, finissima ricamatrice nata a Mazara in Sicilia e approdata alla corte pugliese attraverso la dama Marianna, una donna più matura di Flora ed ex amica di Matteo. Con l’incoraggiamento di Federico II, Flora e Matteo si sposano. La storia deve a questo punto essere rapidamente riportata all’indietro, alle prime pagine, alla nascita di Matteo venuto al mondo come secondo gemello. Il fratello Pietro al momento del parto scivola dalla mani della nutrice, e resta sfigurato per sempre. Pietro cresce isolato e rancoroso al punto da essere espulso dalla famiglia dopo un grave episodio di sangue. Pietro è l’alter ego di Matteo, tanto Matteo incarna la fedeltà all’imperatore e al comandante militare, tanto è sottile la perfidia (ma anche la dolorosa vicenda privata di Pietro) del gemello. Le loro vite corrono parallele ma sconosciute: Pietro infatti è l’amante segreto di Marianna a cui carpisce le mosse dell’imperatore, è un infiltrato e Marianna una spia. L’amore quindi come grande molla umana che infittisce la trama ma anche il mistero di questo libro poderoso, che non rinuncia a costruire dentro la storia ufficiale di un grande uomo, un romanzo ricco di colpi di scena che non abbandona la vena noir cara all’autrice. Cinzia Tani, Lo stupore del mondo, Mondadori, 389 pagine, 19,00 euro

riletture

Il Vecchio Piemonte di Edoardo Calandra di Giancristiano Desiderio ultima edizione risaliva al 1964, curata da Giorgio Petrocchi per l’editore Cappelli di Bologna. Ora le edizioni Otto-Novecento ristampano e ripubblicano questo «piccolo classico» della nostra letteratura del primo Novecento: La signora di Riondino di Edoardo Calandra. Qui rivive il vecchio mondo piemontese: i suoi costumi, le sue storie, i suoi paesaggi, il suo spirito. La signora di Riondino è un lungo racconto affascinante: narra la storia dell’animo di Enida che è colpita e deturpata dal vaiolo durante l’assenza del marito, Ludovico, che è lontano, in guerra contro i francesi a Staffarla, nel 1690. Enida, giovane e fresca e bella sposa, è turbata: piacerà ancora al suo sposo?

L’

Lui, Ludovico, la amerà ancora? È un tormento. Così decide di sfidare il destino: si traveste da uomo e si fa accompagnare al campo dove il marito combatte. Riesce, non veduta, a vederlo un momento. Per l’ultima volta. «Un soldatuccio che si aggirava fra i corpi come una iena, frugando ingordamente ora questo ora quello, la vide… Lì per lì non pareva che avesse intenzione di nuocere, ma poi, senz’altra ragione se non che portava un’arma: “Tue, tue!” gliela spianò contro e sparò. Ella alzò le braccia a difesa del viso, e andò giù, volgendosi mollemente sopra se stessa come un fiore rotto nel gambo». Ma chi è Edoardo Calandra? Si direbbe un «minore» della nostra ricca storia letteraria. In un saggio critico del 1911 Benedetto Croce osservava che leggendo le sue pa-

gine «si prova la confortevole impressione di avere da fare con un galantuomo, che crede o sogna ancora che vi siano fra gli uomini anime elette, tempre fini, cuori leali; che esistano l’amore grande e forte, la fedeltà, la bontà, la devozione, il coraggio». Il giudizio di Croce - riportato da Riccardo Reim in apertura della sua introduzione al romanzo di Calandra - appare generico, eppure dopo la lettura delle pagine dello scrittore piemontese apparirà vero. Sin dalle prime battute, il racconto di Calandra vi trasmette un mondo di valori che, al di là della loro esistenza o della loro passata storia, riescono ancora a parlare al nostro animo, senz’altro hanno qualcosa da dire a un animo gentile. La definizione di Calandra come «romanziere galantuomo» sembra quanto mai indovinata,

giusta. E dopo, soltanto dopo verranno le differenze letterarie e critiche: il suo presunto manzonismo, il decadentismo, la nostalgia del piccolo mondo antico, l’interiorità di Enida, il romanzo psicologico che è alle porte. La lettura di La signora di Riondino vi restituirà prima di tutto il bisogno di credere nell’umanità: il coraggio, la lealtà, la bontà, il disinteresse, la devozione. Moneta rara, siamo d’accordo, ma proprio per questo ricercata. Il racconto di Edoardo Calandra sembra a metà strada tra Manzoni e Fogazzaro: «Il Vecchio Piemonte di Calandra - ha detto Nunzio Zagno - è scenario di esistenze inquiete e sensibili» e rivela «una maggiore affinità con la narrativa decadente che con quella veristica». Da rileggere. Diciamo pure leggere.


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tradizione

La quantità genera mostri, parola di Guénon di Riccardo Paradisi ra i critici del mondo moderno, ormai innumerevoli, René Guénon merita di essere segnalato come uno dei più radicali, limpidi e coerenti… Il regno della quantità e i segni dei tempi è certamente la sua opera più completa e più rigorosa, e quindi anche la più utile… Guénon - e in particolare questo suo libro, a preferenza di altri - merita di essere letto per togliersi dalla comoda illusione che il mondo sia necessariamente come noi siamo abituati a pensare che debba essere». Il lettore scuserà la lunga citazione ma non c’è migliore attacco a una recensione dell’opera

«F

personaggi

più intrigante e sconvolgente di René Guénon di quella contenuta in queste poche righe del compianto Sergio Quinzio. Opera sconvolgente perché il mondo moderno, il nostro mondo cioè, per Guénon rappresenta un’anomalia o meglio una mostruosità che corrisponde però esattamente alle condizioni di una certa fase del ciclo metastorico. Ciclo che si sviluppa nella dottrina tradizionale delle quattro età: quella che la tradizione occidentale definisce l’età del ferro mentre quella indù il kali yuga. Fra i tratti caratteristici della mentalità moderna e come argomento centrale del Regno della quantità Guénon prende soprattutto in esame la tendenza a ridurre ogni

cosa al solo punto di vista quantitativo. «Tendenza talmente radicata nelle concezioni scientifiche - scrive - e reperibile anche negli altri campi come quello sociale, da permettere quasi di definire la nostra epoca essenzialmente e innanzi tutto come il regno della quantità». È così che di mostruosità in mostruosità il tempo viene mutato in spazio, lo sciamanesimo in stregoneria, lo spiritualismo in spiritismo, e lo spirituale ridotto allo pischicio. È così che l’iniziazione al sacro diventa controiniziazione al demoniaco, che le élite si mutano in oligarchie, la forza degenera in violenza e la giustizia in arbitrio. E l’uomo scivola nell’animale e poi infine nel robot. Perché questo

dice il divino Guénon: che l’umanità senza Tradizione e la luce dello spirito degrada e impazzisce, trasformando il suo esistere individuale in follia e quello sociale in caos da termitaio. La cattiva novella è che noi saremmo pienamente calati, secondo il filosofo tradizionalista francese, in questa epoca nera. La buona è che la ruota dei cicli gira e che in fondo, più buio che a mezzanotte non è. Un’opera grandiosa, suggestiva, ispirata che, come avvertiva Quinzio, rischia di trasformare per sempre lo sguardo di chi la legge con attenzione. René Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi, Adelphi, 270 pagine, 14,00 euro

Storia di Glenn Gould e del suo mitico CD318 di Angelo Crespi na strana bella biografia quella di Katie Hafner che, raccontando le vicende di un pianoforte, descrive una delle figure più complesse della musica novecentesca. Il pianoforte è il mitico CD 318, uno Steinway a coda lunga; il musicista ovviamente risponde al nome di Glenn Gould. Come si siano incontrati, pianoforte e musicista, è il tema del libro che da un lato narra la vita assai sregolata di un genio, dall’altra insiste, senza mai stancare, su come gli artigiani della Steinway & Sons siano riusciti in tempo di guerra a costruire uno strumento tanto perfetto. E soprattutto di come un accordatore cieco, Verne Edquist, abbia preparato il piano in quel particolare

U

ragazzi

modo così perfetto per il tocco di Gould. Fin dall’inizio, Gould, Edquist, e il pianoforte, sembrano legati da un destino che alla fine li farà incontrare nel 1960. Ma ognuno dovrà superare vicissitudini e difficoltà. Gould ebbe un’infanzia dorata, protetto dalla madre anch’essa musicista che riconobbe nel figlio precoci doti. Edquist, al contrario, proveniva da una famiglia poverissima che dovette lasciare il figlio in affido in un istituto per ciechi. Dietro il CD 318 c’è invece la storia di un’intera dinastia di ebanisti, gli Steinwag, che nel 1850 decisero di lasciare la Germania, cambiare nome, e cercare fortuna negli Usa fino a diventare i costruttori di pianoforte per antonomasia. Su tutto però aleggia la musica, soprattutto la musica di Bach di cui Gould fu ma-

gistrale interprete. Le Variazioni Goldberg, composte da Bach intorno al 1740, e incise da Gould nel 1956, restano uno dei capolavori del secolo e, per inciso, il disco di classica più venduto di tutti i tempi. Gould le suonava nel suo strano modo, quasi abbracciando il pianoforte, abbarbicato su una bassa seggiolina che si trascinava concerto dopo concerto e che ora è archiviata al Canadian Museum of Civilization, canticchiando e ritmando col piede, incredibilmente veloce nelle dita, ma preciso e con un tocco leggero, capace di mandare in delirio i suoi fan come una star del rock. Poi, a partire dal 1964, quando aveva appena 31 anni, e fino al 1982, anno della morte, Gould si ritirò dalla vita pubblica, autoconfinandosi nella natia Toronto col suo amato Bach e il suo amato CD 318, in un confronto col sublime, al pari dei grandi artisti di tutte le epoche, che oggi può sembrare perfino stravagante. Katie Hafner, Glenn Gould e la ricerca del pianoforte perfetto, Einaudi, 208 pagine, 24,00 euro

Ripensare a Blake per comprendere Skelling di Pier Mario Fasanotti er comprendere meglio questo straordinario libro occorre ripensare alla vita e al pensiero di William Blake (1757-1827), poeta e pittore non tra i meglio esaminati e valutati artisti inglesi. Serve ricordare una sua frase: «L’immaginazione non è uno stato mentale: è l’esistenza umana». Sulla scorta di questo concetto, e di altri che riducono le distanze tra noi e l’infinito, leggiamo l’opera di David Almond, che ha vinto tanti premi e presto diventerà film, dopo essere stato adattato per il teatro e per la lirica. Michael è un ragazzino che si è appena trasferito nella nuova casa, al lato della

P

quale c’è una sorta di garage pericolante, ingombro di polvere, oggetti e insetti morti. La sua famiglia vive ore di tensione perché la sorellina di Michael, nata prematuramente, lotta tra vita e morte. Il garage è un’attrazione irresistibile, malgrado il divieto dei genitori di entrarvi. È qui che trova uno strano essere umano (ma fino a che punto?) che si esprime, e bruscamente, con poche parole. Nella penombra pare molto vecchio, ma invece non lo è. Dirà, dopo molte ritrosie, di chiamarsi Skellig. Reso curvo dall’artrite, magrissimo, accovacciato e lento nei movimenti, riceverà da Michael alcuni doni: aspirina, piatti di cucina cinese e birra scura. Michael condivide il segreto con la

coetanea Mina, che studia privatamente, disegna, passa il tempo libero sugli alberi e sa dialogare con gli uccelli. I due si accorgono che all’altezza delle scapole di Skellig ci sono, o così sembrano, due ali. Il misterioso uomo-uccello viene trasportato in un posto più sicuro. Nel frattempo la sorellina di Michael deve subire una delicatissima operazione al cuore. La madre racconterà di aver sognato una figura del tutto simile a Skellig: afferrava la neonata, soffiava sul suo volto e con lei s’impegnava in una danza. Un sogno soltanto? Michael e Mina discutono sull’evoluzione degli esseri umani e recitano alcuni versi di Blake cercando di sgombrare la mente e percepire ciò che di so-

lito non si sente. Michael, per esempio, avverte dentro di sé anche il battito del cuore della sorella. Mina intesse una «conversazione» notturna con i gufi ed è attentissima alla protezione degli uccellini appena nati. Più volte vanno a trovare Skellig e si accorgono che le sue ali non sono il frutto di immaginazione o suggestione. Skellig si nutre con ciò che i gufi gli portano, si muove con maggiore agilità. Poi i due ragazzi saranno costretti ad accettare il segreto della sua sparizione. È, questo, un libro per ragazzi? Sì, anche ma non solo. La sua poesia annulla le classificazioni. David Almond, Skellig, Salani, 151 pagine, 11,00 euro

altre letture Ci sono domande che di solito si fanno ai giornalisti, che sono poi quelle che i giornalisti fanno a se stessi. Domande di questo tipo: come si scrive un buon attacco di un pezzo? Come si realizza l’intervista perfetta? Quali sono i libri da leggere e rileggere e i modelli da seguire? Ecco, queste domande e molte altre ancora Mariano Sabatini le ha rivolte a molti giornalisti italiani, da Pierluigi Battista a Vittorio Feltri, da Maurizio Cannoni a Sandro Piccinina, da Riccardo Barenghi a Sandro Ruotolo. Una serie di interviste che ha dato vita a Ci metto la firma. La gavetta dei giornalisti famosi (Aliberti editore, 356 pagine, 18,00 euro), un libro che deve leggere chi vuole sapere che cosa significa fare il giornalista, al di là dei miti e delle leggende che circondano questo mestiere. Un lavoro, con le sue routine, le sue miserie, le sue soddisfazioni. Malgrado la vecchia storia che fare il giornalista è sempre meglio di lavorare. Tra l’VIII e il XV secolo si è consumato nella penisola iberica un lungo conflitto tra cristianità e Islam. Di questo complesso fenomeno, durato sette secoli, molto si è scritto: battaglie, incursioni e assedi sono stati al centro di ricostruzioni molto accurate. La riconquista di Alessandro Vaioli (Il Mulino, 236 pagine, 12,50 euro) offre una sintesi che va oltre la storia politica e militare, e tratta il tema dell’espansione musulmana e della lenta riconquista cristiana anche in termini di storia culturale. Col supporto di fonti sia latine che arabe viene illustrata tutta la fitta rete di relazioni quotidiane - scambi commerciali e rapporti culturali - che caratterizzano il periodo in questione. Nell’ultimo scorcio

del 1940, a pochi mesi dall’ingresso dell’Italia in guerra, venne affidata a due giovani diplomatici la missione segreta di portare due valigie, ognuna contenente un milione e mezzo di dollari, da Washington a Rio de Janeiro. Lo scopo era quello di dotare le rappresentanze diplomatiche italiane in America Latina di denaro in vista della paventata entrata in guerra degli Stati Uniti. Due valigie di dollari (Le lettere, 83 pagine, 9,00 euro) è un resoconto scritto in forma diaristica di un episodio sconosciuto e inedito di storia minore. Un esempio di diplomazia di guerra. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

PADRE GEMELLI FONDATORE DELL’UNIVERSITÀ DEL SACRO CUORE, È STATO UN PROTAGONISTA DEL CATTOLICESIMO ITALIANO DEL VENTESIMO SECOLO. SPIRITO POLEMICO E RIBELLE, STUDIOSISSIMO E AUTORITARIO, LA SUA FIGURA È STATA SPESSO AL CENTRO DI CRITICHE PER I SUOI RAPPORTI CON PADRE PIO E CON GLI EBREI. A CINQUANT’ANNI DALLA MORTE, VITA E OPERE DI UN FRANCESCANO CAPACE DI INCIDERE NELLA VITA CIVILE, ECONOMICA E SOCIALE DEL NOSTRO PAESE

La scuola di Agostino di Maurizio Schoepflin ono certo pochi coloro che ignorano l’esistenza del policlinico Gemelli, il grande ospedale collegato all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, dove, tra gli altri, fu più volte ricoverato papa Giovanni Paolo II. Si può addirittura sostenere che il «Gemelli» viene considerato, tra tanti nosocomi italiani famosi, per così dire l’ospedale per antonomasia. Non tutti, invece, sapranno che il suo nome deriva da quello di Agostino Gemelli, il fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, scomparso esattamente il 15 luglio di cinquant’anni fa. Chi fu questo personaggio così insigne, che ha saputo realizzare una tale grandissima opera e che ha lasciato una traccia tanto significativa e duratura della sua attività? Nato a Milano il 18 gennaio 1878 da una famiglia anticlericale appartenente alla media borghesia, Agostino Gemelli, che al secolo si chiamava Edoardo e assunse il nome con cui è noto quando diventò frate francescano, ricevette un’educazione decisamente laica, dovuta in parte al padre, massone, in parte alle scuole che frequentò, il milanese liceoginnasio Parini, ma soprattutto la facoltà di medicina dell’Università di Pavia, presso la quale si laureò sotto la guida del professor Camillo Golgi, premio Nobel per la medicina nel 1906; in questi due ambienti predominava un clima culturale positivista, che piacque molto al giovane Edoardo e ne influenzò la formazione.

S

Gemelli si distinse subito per la notevole stoffa di studioso (ancora prima di laurearsi aveva pubblicato ben otto saggi scientifici di istologia e fisiopatologia) e anche per la passione politica: aderì infatti al movimento socialista, ottenendo subito incarichi di una certa responsabilità dallo stesso Filippo Turati. Spirito polemico e ribelle, la sua vita mutò radicalmente quando, nel 190203, per adempiere agli obblighi di leva, trascorse un anno di volontariato presso l’ospedale militare di Milano. Fu in questo periodo, infatti, che si verificò la sua conversione religiosa. Sui motivi che lo condussero, quasi improvvisamente, a compiere tale passo, Padre Gemelli non volle mai fare chiarezza, mantenendo il più stretto riserbo: si sa però che con ogni probabi-

lità furono due persone a determinare almeno in parte la sua scelta, e precisamente l’amico di una vita, Ludovico Necchi, cattolico convinto e uomo per il quale il Nostro nutrì sempre grande stima e sincera ammirazione, anche se con lui ebbe non pochi scontri, e il padre francescano Andrea Mazzotti, incontrato proprio all’ospedale di Milano.

La conversione fu immediatamente seguita dall’ingresso del Gemelli all’interno dell’ordine francescano: una scelta dovuta essenzialmente alla venerazione che sempre egli aveva nutrito per la figura e il messaggio del grande santo di Assisi. Gli ambienti politici e culturali di Milano furono sconvolti da questa notizia, e celebre è rimasto il com-

gurata a Milano nel 1921, dopo un anno di spasmodica attività tesa a ottenere prima di tutto l’approvazione e l’appoggio della Santa Sede, e poi a reperire i fondi, il luogo e l’attrezzatura necessari per dar vita a un’opera così colossale. Per far questo poté avvalersi del fattivo appoggio non solo di Necchi, ma anche di monsignor Olgiati, altro suo grande amico, e soprattutto di Armida Barelli, alla quale faceva capo la Gioventù femminile cattolica italiana, che sarà d’ora in poi il bacino cui Gemelli attingerà per propagandare e sostenere il neonato ateneo. Le prime due facoltà a essere fondate furono Scienze sociali e Filosofia: tale scelta derivò dal fatto che Gemelli, che filosofo non era e del filosofo non aveva neppure le caratteristiche, nutriva la

Nato a Milano nel 1878 e cresciuto in una famiglia anticlericale e in un clima positivista, aderì al movimento socialista, ma tra il 1902 e il 1903 si convertì alla fede cattolica. Evento che Turati definì un “suicidio dell’intelligenza” mento di Turati, il quale, a proposito dell’adesione di Gemelli alla fede cattolica, parlò di «suicidio di un’intelligenza». Nella sua nuova qualità di religioso, Gemelli intraprese immediatamente gli studi di filosofia e di teologia, con «molto entusiasmo» e «nessuna preparazione», come dirà con grande modestia. Nel 1908 fu ordinato sacerdote e successivamente iniziò la sua battaglia antipositivista e intraprese quella vivace attività di organizzatore culturale che non abbandonò mai. Nel 1914 fondò la famosa rivista Vita e Pensiero, destinata a un vasto pubblico, che decise di inaugurare con un articolo molto critico nei confronti della cultura moderna, da lui ritenuta estremamente disorganica, e alla quale intendeva contrapporre una cultura unitaria, tutta incentrata sul cristianesimo. Fu proprio sulla spinta di questo ideale che Padre Gemelli volle dare concretezza a quello che era da lungo tempo un desiderio dei cattolici italiani: la creazione di una Università Cattolica. Essa fu inau-

profonda convinzione che proprio attraverso un rinnovato sapere filosofico si sarebbe potuto riportare la società ai valori cristiani. Egli occupò la cattedra di psicologia e mirò a fare di tale disciplina un’antropologia integrale, dando in tal senso un importante contributo alla ricerca filosofica. A Gemelli si deve, fra l’altro, la fondazione di uno dei pochissimi laboratori di psicologia attivi in Italia in epoca fascista: con vera lungimiranza, egli lo pensò e lo volle come uno strumento per la promozione della psicologia nella cultura e nella società italiane negli anni Quaranta del secolo scorso.

Inizialmente, le posizioni prese dall’entourage della Cattolica sui principali problemi che venivano discussi, ovvero quelli della conoscenza e dell’interpretazione della filosofia moderna, furono di grande apertura; poi però, profilandosi all’orizzonte il pericolo che si affermassero posizioni eterodosse, l’Università preferì una chiara e univoca adesione al tomismo; tale scelta finì col non favorire il dialogo con la cultura del tempo, dialogo originariamente finalizzato alla conquista della leadership culturale in ambito cattolico, finalità della quale peraltro Gemelli non aveva mai fatto mistero: emblematico in tal senso fu l’allontanamento dall’insegnamento di Giuseppe Zamboni, sacerdo-


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te esemplare e notevole studioso di filosofia, accusato di concedere troppo spazio ad atteggiamenti critici che avrebbero potuto, a parere di Gemelli, rischiare di minare l’ortodossia del pensiero.

Riguardo all’itinerario filosofico di Padre Gemelli, ha scritto Giuseppe Cenacchi: «L’articolo Il nostro programma, definisce la prima fase della neoscolastica di Gemelli, che deve farsi carico, in modo del tutto speciale, della criteriologia e dell’ontologia secondo il metodo tomistico di cui il Gemelli evidenzia l’importanza, per il dibattito filosofico del suo tempo, di cercare e trovare un criterio di certezza veritativa e oggettiva della conoscenza e di proporre la filosofia dell’essere o “metafisica realista” allo scopo di aprire un dialogo con le scienze sperimentali. [...] la cultura moderna, laicista e illuministica, è povera, mentre la filosofia della scolastica medievale (con al culmine San Tommaso) seppe scoprire i grandi principi universali dell’esistenza e della trascendenza ed ebbe nella religiosità la sua anima per correlare scienza, metafisica e teologia. [...] Dal 1919 in poi inizia la seconda fase della scolastica di Gemelli con accentuazioni meno apologetiche e con interessi rivolti al piano teoretico e storico, particolarmente in funzione antidealistica ... e con il riconoscere il progresso che ha avuto il pensiero dopo il Medioevo». Gemelli fu inoltre uno strenuo difensore di Duns Scoto, e per questo entrò in polemica con Padre Mattiussi, che sosteneva che Scoto aveva indebolito la ragione: a suo giudizio, il filosofo scozzese era stato «un acutissimo scolastico che si oppone alle tendenze intellettualistiche di Tommaso». Ebbe poi una predilezione speciale per San Bonaventura e aderì intimamente alla scuola filosofico-teologica francescana. Nei confronti del fascismo, regime sotto il quale il Nostro si trovò a operare, mantenne sempre una posizione di sostanziale autonomia. Si è parlato di una sbandata da parte di Gemelli, in occasione della sua presunta condivisione della condanna del sionismo: da tale posizione però si riprese subito, e quando il fascismo impose che nelle università gli ebrei sostenessero gli esami a par-

In alto, alcune immagini di Padre Agostino Gemelli che lo ritraggono in epoche diverse. A destra, il Policlinico romano a lui intestato e Padre Pio con i suoi confratelli. A sinistra, il logo dell’Università Cattolica Sacro Cuore

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te, egli si rifiutò di dare seguito a tale provvedimento, e anzi si prodigò per aiutare i perseguitati. Col passare del tempo, Gemelli assunse atteggiamenti sempre più autoritari, e ciò determinò l’abbandono dell’Università da parte di molti di coloro di cui egli stesso aveva curato la formazione, ma che non si sentivano più di condividere la sua linea. Dopo il 1940, in seguito a due gravi incidenti automobilistici, fu obbligato a usare la sedia a rotelle, ma non perse né la forza d’animo né l’ottimismo: continuò i suoi studi e rimase pure alla guida della Cattolica. Dopo la fine della guerra, vide molti dei suoi salire alle più alte cariche del nuovo Stato: Fanfani, Dossetti, Lazzati, La Pira, Gonella, Giacchi, tanto per citarne alcuni. Non riuscì però ad assistere alla nascita della facoltà di medicina, che era il suo grande sogno. Ebbe in vita molti riconoscimenti e quando compì i 75 anni il presidente della Repubblica lo nominò Rettore a vita dell’Università Cattolica.

padre Agostino Gemelli, perlomeno se si dà credito all’immagine tante volte evocata dagli organi di stampa, dalle fiction televisive e dalla stessa storiografia, che per anni - fatte salve alcune rilevanti eccezioni - ha nutrito una vera e propria idiosincrasia nei confronti del fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. [...] Dunque, personaggio scomodo, per le sue “colpe”più o meno note o inconfessabili che ne hanno fatto una sorta di fantasma per posteri ed eredi. Bastino soltanto due esempi: il rapporto con Padre Pio e quello con gli ebrei, che seppur con dinamiche diverse - hanno pressoché magnetizzato l’interesse dell’opinione pubblica».

In realtà, si legge ancora nell’editoriale, Gemelli fu un protagonista non solo della vita della Chiesa, ma dell’intero Novecento italiano; non è possibile ricostruire la storia della cultura, della scuola e dell’università senza fare i conti con lui e con la

A una cultura moderna disorganica voleva opporre una cultura unitaria incentrata sul cristianesimo. Lo fece dapprima su posizioni di grande apertura filosofica che via via si trasformarono in un’univoca adesione al tomismo Non si può passare sotto silenzio il fatto che Padre Gemelli sia stato, durante la sua esistenza e anche dopo la sua morte, una figura piuttosto controversa, spesso al centro di vivaci polemiche. In particolare, non si possono dimenticare il suo aspro e contrastato rapporto con Padre Pio, del quale Gemelli dette un giudizio sostanzialmente negativo, e il suo presunto antisionismo. Per gettare luce sulla personalità di questo grande e discusso protagonista del cattolicesimo italiano del Ventesimo secolo sembrano particolarmente utili le seguenti considerazioni scritte in un editoriale pubblicato nel febbraio di quest’anno proprio su Vita e Pensiero, la ben nota rivista dell’Università Cattolica: «Una figura scomoda e ingombrante, quella di

sua straordinaria attività. Seguendo un preciso progetto, egli dette un fondamentale contributo alla formazione di cattolici capaci di incidere nella vita civile, sociale ed economica del paese; e di fatto l’Università Cattolica è stata una fucina dove sono stati forgiati moltissimi giovani che hanno poi occupato posti di grande prestigio e responsabilità nell’Italia repubblicana, dalla scuola alla pubblica amministrazione, dalle istituzioni economiche al Parlamento. Ed è in tale prospettiva che risulta ancora oggi sicuramente opportuno - conclude l’editoriale di Vita e Pensiero - «affrontare la figura di padre Gemelli e interrogarsi con rigore intellettuale sulla portata delle sue iniziative e sugli esiti e i percorsi che esse hanno prodotto».


video White Hands e Wallander MobyDICK

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tv

l’estate salvata dal giallo di Pier Mario Fasanotti n questa estate televisivamente desertica, dove zampettano i cloni, le repliche e le festicciole con i soliti vip (ma che noia!) qualcosa di buono si trova. Prodotto dalla francese Rft, è assai buona la fiction in quattro puntate intitolata White Hands (su Fox Crime): mani bianche, sia perché risalenti a cinquanta-ottant’anni prima, sia perché sono in perfetta sintonia cromatica con le saline del nord della Francia, paesaggi stupendi. Vi ricordate di Bruno Cordier? Era, nella fiction dedicata al commissario Cordier, il figlio del poliziotto, di professione giudice. Lo ritroviamo in questa serie: un attore che mai si rivela uguale a se stesso, quindi ottimo attore. È Bruno Madinier, ma stavolta non si chiama Bruno (sarebbe troppo) bensì Franck Mercoeur, capitano della polizia di Saint Nazare (nella Loira atlantica). Giaccone in pelle marrone scuro, come i suoi collaboratori: un aspetto molto francese, ma mai caricaturale (questo è sempre il rischio dei cugini d’Oltralpe, quando hanno la tentazione di fare gli spiritosi). Bruno in veste di giudice era un trentenne ostinato ma anche obbediente (alla legge e al padre), donnaiolo, legatissimo alla famiglia, sorridente. Nei panni di Franck è invece il flic che non fa battute, risoluto anche quando rischia di essere considerato, proprio lui, il colpevole di macabri delitti. La storia ha inizio con il ritrovamento di alcune mani nei mucchietti di sale. Da Parigi arriva l’antropologa Marion Ravel, efficace nel suo lavoro, procace donna e straordinariamente somigliante alla moglie scomparsa del capitano. Gli sguardi d’intesa sono in agguato e si comprende presto che l’amore nascerà: peccato veniale in una fiction che tiene inchiodato il telespettatore per l’originalità della trama e le sequenze mozzafiato, ben assemblate. È ovvio che i «lettori» più smaliziati sanno dove cercare, o almeno gettare i sospetti. Se c’è una mela marcia, quasi sempre questa viene collocata dall’autore del giallo in alto. Raramente in basso. E non aggiungo altro. La fiction si avvale delle tecnologie di ricostruzione facciale, dell’esame ultrascientifico dei cadaveri o dei frammenti ossei. Aleggia la figura misteriosa e inquietante di

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web

uno psichiatra, morto anni prima.Traspare un passato poco edificante (ma in fondo una ragazzata) che riguarda lo stesso capitano e il figlio dello psichiatra. La regola fondamentale del poliziesco, almeno di nuova generazione, c’è: il crimine ha radici nel passato. Questa è anche una storia di follia, di pazienti deliranti, di ombre che vanno e vengono. E di confusione patologi-

ca tra le vicende del 1918 e quelle più recenti, compresa un’identità presa a Kenneth prestito. Altra regola classica del thriller è la vendetta: in questo caso c’è un Branagh rimando a quell’Edmond Dantes (il Conte di Montecristo) che ha fatto tanta (a sinistra) scuola tra gli scrittori del genere. Ma in White Hands lo scenario è diverso e è l’ispettore Wallander; la complicazione della trama dipende sia dal tipo di ossessioni sia da comin basso, plotti che non starebbero in piedi senza il supporto della scienza moderna. Bruno Le mani ritrovate (quattro) nella salina sono legate a una linea di successio- Madinier ne genetica. Rispunta la vecchia teoria del criminale come predestinato dal è il “flic” suo stesso Dna. Di eguale (ottima) tenuta è la serie dedicata all’ispettore di “White Kurt Wallander, figlio letterario del giallista svedere Ennning Mankel (lo Hands” pubblica l’editore Marsilio). A dare il volto al poliziotto è un grandissimo attore nordirlandese, Kenneth Branagh, anche regista e produttore, brillante interprete delle opere di Shakespeare. La sua presenza, così come le trame di Mankel, è una garanzia. Recitazione misurata, mai scontata o debordante: non a caso Branagh proviene dal miglior teatro britannico. Il suo volto (reso) cupo bene si adatta alla desolazione della Svezia del benessere e degli alcolisti, delle famiglie smembrate e del continuo corteggiare la morte come unica via di salvezza.

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A

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Gratuito e scaricable, il software convoglia tutti gli account in rete in una sola interfaccia

Atteso per fine anno il secondo capitolo di ”Army of two” tra novità di gioco e sorprese

Burchielli esplora i contesti sociali di una nazione segnata dall’abuso di cocaina

interfaccia i disparati account dell’istant messaging e della chat, è scaricabile in forma del tutto gratuita e senza limiti di gestione. Basta inserire username e password di accesso, e tutte le notifiche verranno radunate in un quadro unico di aspetto gradevole e impatto grafico lineare. Personalizzabile con skin, Digsby consente inoltre di sospendere o riattivare i singoli servizi intestati all’utente in qualunque momento. Nelle versioni per Mac, Linux e Windows, il software ha tutte le carte in regola per semplificare le sempre più selvagge terre del social network, e ricondurre in un solo bacino i sempre più innumerevoli affluenti della comunicazione globale.

to il sistema di copertura automatico, che consentirà di mettersi al riparo nelle vicende belliche più pericolose. Sarà possibile inoltre delegare lo sgancio di ordigni e le tecniche di assalto a tasti predefiniti che renderanno meno laborioso il confronto. Divertenti anche i mezzucci che i personaggi potranno mettere in atto per salvarsi la pelle. Potranno simulare la morte o la resa, tendere trappole e approfittare delle distrazioni nelle file nemiche per sferrare attacchi a sorpresa. In grande evoluzione la sensibilità del controller e la giocabilità. Si annuncia un inverno di fuoco.

sciano. Un viaggio tra lavoratori cottimisti, che usano la cocaina per incrementare sforzi e paghe misere con ore di straordinario, e giovani di periferia che ne traggono velleitarie fughe dalla noia. Il regista passa al vaglio contesti urbani in cui la droga è uno strumento letale di aggregazione sociale e disintegrazione personale, un precipitato energetico che consente di sostenere i ritmi forsennati della sussistenza al tempo dell’eterno precariato. Quella ritratta da Cocaina è una società connivente con il denaro sporco della malavita, che mette in liquidazione la dignità, a favore di un miraggio che per poche ore lasci credere nel successo e nell’idea di contare qualcosa.

a cura di Francesco Lo Dico

L’ITALIA IN POLVERE omplice il successo di Sbirri, nelle sale, arriva in dvd Cocaina, documentario di Roberto Burchielli che fa luce su traffici e abusi di polvere bianca nel Belpaese. Da sostanza elitaria, per vip e combriccole del jet-set, lo stupefacente si è saldamente insediato nel sistema economico italiano. Burchielli segue trame e testimonianze che spostano la storia da Milano ai paesini del bre-


cinema artiamo dal meraviglioso titolo originale: The boat that rocked (letteralmente «la barca che naufragò»). In tre parole, un abisso di significati, ma anche un gran gioco di parole. Accontentiamoci comunque del titolo nostrano, I love Radio Rock, che la dice lunga sull’ossessione celebrata nel nuovo film di Richard Curtis. Rock, rock e ancora rock. In epoca di revisionismi a manetta, ex di lusso e prese di distanza, c’è chi ha ancora il coraggio di ostentare medaglie e gagliardetti del passato. Specie se sanno di controcultura, radio libere e Bowie come se piovesse. Della serie, je ne regrette rien. Insomma, stretto fra uscite tecniche e saracinesche (quelle delle sale) già abbassate a metà, I love Radio Rock fa miracolosamente centro. Esce in sordina, guadagna consensi e riceve la sacra benedizione del passaparola che spesso conta più di campagne di marketing milionarie. In poche parole, il film del momento. Quello che i quotidianisti non si aspettavano, quello che il pubblico voleva. Prima del letargo estivo, una bella doccia rigenerante che profuma di passato e che sa guardare al futuro.

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R i c h a r d C u r t i s d’altronde la sa lunga. E se la sua filmografia come regista langue (è appena alla seconda regia), quella come sceneggiatore farebbe invidia a chiunque. Vi basti sapere che il buon Richard ha tirato fuori dal cilindro lo Hugh Grant inguaribile romantico di Notting Hill e quello sornione di Quattro matrimoni e un funerale, gli irresistibili cuscinetti di grasso della Zellweger del Diario di Bridget Jones e lo stordimento geniale di Mr. Bean. In anni di vacche magre per il cinema di Sua Maestà, non c’è di che lamentarsi. Con questo fiammeggiante I love Radio Rock Curtis non ha voluto celebrare soltanto un frammento importante della sua storia privata, ma anche un momento di aggregazione civile irripetibile. Il titolo originale allude a una fantomatica boat. Ci troviamo nel 1966 e una manciata di coraggiosi diskjockey capaci di andare avanti soltanto a Who e Jimmy Hendrix, dicono addio alla speranza di poter trasmettere in un etere franco. Gli emissari della Regina infatti non vedono di buon occhio la faccenda e poi si sa, un certo tipo di musica odora di diabolico e mette strane idee alla gente. Ergo, vita dura, anzi, impossibile. Così il disk-jockey diventa sotto i nostri occhi un perfetto lupo di mare, cominciando a trasmettere da una radio pirata che solca i gelidi mari del Nord. Imprendibile, irrintracciabile, libera come il vento. E, soprattutto, trascinante come il mare. Che la Swinging London abbia inizio, anche se la radio promotrice di ogni anelito di vitalità viaggia in differita a migliaia di chilometri di distanza. Per fortuna la vita a bordo dell’ammiraglia invisibile è uno spasso. C’è il ragazzetto spaesato in cerca del padre (lo troverà dove meno se lo aspetta…), il cosiddetto Conte (principe capo della stiva di disk-jockey con lunga barba rossa e appetito niente male), il ciccione allupato e

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La colonna

sonora

della “meglio gioventù” di Francesco Ruggeri

È uscito in sordina e prima del letargo estivo è una doccia rigenerante. “I love Radio Rock” racconta la rivoluzione musicale combattuta da una radio libera in Inghilterra nel 1966. Senza dietrologie né pesantezze, è un film riuscito e divertentissimo

diversi altri ancora. Senza dimenticare la fantastica presenza di Quentin (il manager della radio, nonché variopinto coordinatore del gruppo) e quella dell’incontenibile (sessualmente parlando) Gavin che cercherà di strappare lo scettro al Conte. Insomma, una pazza nave virata al maschile fatta eccezione per la lesbica di turno che cucina, raccoglie confidenze e aspetta l’anima gemella.

Tutto fila liscio, almeno fin quando il ministro Dormandy (un impagabile Kenneth Branagh quasi irriconoscibile) decide che è ora di finirla. E che è giunto il momento di far riattraccare la nave in porto. C’è un problema: i giovani londinesi lavorano, studiano e fanno l’amore cullati dalla dolce brezza sonora emanata dalla radio pirata di Quentin e soci. Bisogna trovare uno stratagemma infallibile, qualcosa che metta fine una volta per tutte alla musica del diavolo. L’idea vincente ha un nome altisonante: Marine Offences Act. Con lo spauracchio che le onde trasmesse da Radio Rock possano interferire con eventuali operazioni di salvataggio in mare, il governo inglese ne ordina la chiusura. Che i pirati facciano pure le valigie, insomma. Il resto non lo sveliamo, ma vi anticipiamo che il rocambolesco finale ha a che vedere con le peripezie catastrofiche di Titanic e illustra perfettamente il senso del boat that rocked… Due sequenze da incorniciare: quella in cui il Conte (interpretato da un sempre meraviglioso Philip Seymour Hoffman) sfida a duello Gavin (Rhys Ifans, già visto in Notting Hill) sull’albero maestro della nave e quella in cui uno dei disk-jockey cerca a tutti costi di salvare un disco, rischiando l’affogamento. Poi ci sarebbero da menzionare tutte quelle scene in cui la musica la fa letteralmente da padrone, ma non finiremmo più… Un film che è qualcosa di più di una semplice operazione nostalgica. Qui da noi qualche anno fa il buon Mimmo Calopresti provò una carta simile a quella giocata da Richard Curtis in Lavorare con lentezza (omaggio alla nascita della mitica Radio Alice), ma il suo film era debole e risaputo, anche perché avvinghiato a una dimensione politica asfissiante. I love Radio Rock invece si smarca da tutto e tutti prima ancora di dare inizio alle danze. Parafrasando Gertrude Stein («una rosa è una rosa è una rosa»), il film di Curtis è musica alla potenza. Pura, semplice, elementare e contagiosa. Il che significa che è anche politica, società, individuo e sguardo sul mondo. Ma sguardo leggero e impalpabile, senza dietrologie, senza pesantezze, senza distanza. Curtis gira come se «la fantasia al potere» fosse ancora roba di mesi fa e riesce a catturare come un vero pirata del tempo quell’atmosfera, quegli odori, quella libertà di fine anni Sessanta che oggi sembra preistoria. E allora è impossibile non commuoversi di fronte all’esuberanza sfrontata di un gigantesco Seymour Hoffman e alla benedetta sinfonia di profumi e magie portate dal vento, incastonate a prua e sciolte in un ballo liberatorio che sa di rivoluzione finita bene.


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poesia

Dimesso e crepuscolare: Moretti trent’anni dopo di Francesco Napoli on era un fulmine di guerra a scuola Marino Moretti (Cesenatico 1885-1979) e abbandonati gli studi convinse i suoi genitori a iscriverlo alla «Regia Scuola di recitazione» fiorentina di Luigi Rasi, la stessa frequentata da Aldo Palazzeschi e da Gabriellino D’Annunzio. Siamo nella Firenze di inizi Novecento, in quella città che si sta predisponendo a essere il punto di riferimento obbligato dell’Italia intellettuale. Tutte le nuove tendenze europee trovano nelle riviste fiorentine, dall’Hermes di Borgese alla Lacerba di Papini e Soffici alla Voce di Prezzolini, e nel dibattito culturale lì particolarmente vivace, il terreno più fertile per un confronto con le nostre patrie lettere. Marino Moretti respira quest’aria, casomai appena un po’ defilato, ma ne risulta comunque fortemente attratto e stimolato. Si forma più che sulle tavolacce dei palcoscenici, sui tavoli amati e frequentati delle biblioteche del Gabinetto Viesseux e della Nazionale incontrando nei libri quel Giovanni Pascoli e le sue Myricae che tanto lo impressionarono. L’interesse letterario prende in lui decisamente il sopravvento e stringe con Palazzeschi un’amicizia solida e duratura nel tempo. I due recitarono pure insieme Goldoni, nel Ventaglio per la precisione, ma se la scuola teatrale servì a qualcosa, oltre che a farli incontrare, è perché ne uscirono poeti. Anche con il piccolo D’Annunzio la connivenza letteraria si fece forte e fu proprio il giovane Gabriellino a consentirgli di entrare in contatto con Adolfo De Carolis. Un connubio esaltante per il giovane Moretti che ebbe l’onore di averlo come illustratore delle sue prime raccolte, Fraternità (1905) e La serenata delle zanzare (1908), al pari dei mostri sacri della poesia italiana Pascoli, D’Annunzio e Carducci.

N

NON T’ILLUDERE Non t’illudere, fratello, se il cielo è tutto di rosa e l’anima riposa sotto il suo triste fardello: sappilo, non ti rimane che un pezzo di pane. Non t’illudere per via se in ora crepuscolare tutto qui sembra affrettare l’ansia dell’avemaria: sappilo, non ti rimane che un suon di campane. Non t’illudere; hai finito di pretendere qualcosa: colta hai l’ultima tua rosa, l’hai sciupata in un convito: è molto se ti rimane fedele il tuo cane. Marino Moretti da Fraternità

A questo fecondo rapporto artistico Casa Moretti ha voluto dedicare una straordinaria mostra, Armonia delle Muse. Moretti e De Carolis tra arte e poesia aperta sino al 15 novembre per celebrare con giustezza i trent’anni della morte del poeta. Una esposizione di edizioni rare, incisioni xilografiche e reperti preziosi che illustreranno il periodo più dannunziano e liberty della cultura letteraria e artistica del nostro Novecento, realizzata da Casa Moretti in collaborazione con il Museo «Adolfo De Carolis» di Montefiore dell’Aso e altri istituti di conservazione italiani. L’influenza delle poetiche europee di matrice simbolista di fine Ottocento condizionarono infatti il Moretti crepuscolare e molti scrittori della sua generazione. Si trattò di un gusto che pervadeva la letteratura ma soprattutto l’arte, in particolare quella di Adolfo De Carolis, illustratore delle migliori edizioni di D’Annunzio, Pascoli e Carducci ma anche dei poeti crepuscolari come Corrado Govoni. Le iniziative per il trentennale, numerose e diversificate, si svolgeranno nell’arco dell’anno e si chiuderanno nell’autunno con

un convegno, realizzato con la Repubblica di San Marino dove venerdì 23 ottobre studiosi e italianisti parleranno del romanziere e in particolare del Trono dei poveri, opera del 1928. A Cesenatico il giorno successivo, sabato 24 ottobre, si terrà un Convegno di studi sul memorialista dal titolo Il tempo migliore di Marino Moretti e a seguire la Cerimonia della IX edizione del Premio Moretti nel Teatro Comunale dove verrà allestito anche uno spettacolo di letture tratte dalle migliori pagine dello scrittore.

«Provinciale» riplasmato in una visione crepuscolare alla Rodenback o alla Maeterlinck, Moretti si distinse per una poesia dimessa e talvolta perfino uggiosa, se si vuole, fondata su un linguaggio aderente a una leggibilità immediata e alla semplicità del parlato piccolo-borghese e con tutto il repertorio lessicale e oggettuale dei crepuscolari in regola (campane, candele, avemarie, sguardi pallidi e anime stanche e sole e così via). Il dettato sembra fondarsi per contrasti ora tra le cose e i sentimenti, ma anche tra il mondo esterno e la più intima interiorità dell’uomo. Marino Moretti con le sue Poesie scritte col lapis (1910) fu recensito da Borgese in quel famoso saggio che sancì con il termine «crepuscolare», forse dato in senso minimizzante, la nascita e la certificazione di un movimento che ebbe proprio nel nostro una delle voci più rappresentative con la sua prima fase espressa fino al 1914 e riassunta per Treves nell’antologia di Poesie 1905-1914. Con questo libro Moretti sembra congedarsi come poeta dal suo pubblico per darsi soprattutto alla memorialistica e alla narrativa nella quale certo eccelse arrivando a vincere nel 1959 un Premio Viareggio contornato di polemiche per il mancato successo di Pasolini. Vi ritornò sulla poesia, in anni avanzati, tra fine Sessanta e metà Settanta, con alcune raccolte culminate nei due diari conclusivi di questa rinnovata stagione poetica: Diario a due voci (1973) e Diario senza le date (1974). Apparentemente è come se dalle modulazioni da lui praticate a inizi secolo non fosse passato alcun tempo, ma qualcosa si è in realtà mosso e questo qualcosa vien colto con sagacia critica da Carlo Bo che sullo stimato Moretti ultima fase osserva quanto si fosse liberato di «quelli che erano gli schemi iniziali riconducibili alla lezione crepuscolare». Oggi di Moretti è possibile leggere un ben riuscito ritratto in quello firmato da Pierluigi Moressa nel suo L’amara felicità. I sentimenti quotidiani nella scrittura di Marino Moretti (Raffaelli Editore). L’autore ci ha consegnato in queste pagine una raffigurazione molto partecipata e veritiera sul poeta, riuscendolo a leggere nella più sincera e discreta quotidianità della «sua» Cesenatico, la cittadina sempre presente nel suo animo e in qualche misura nella sua opera, la cittadina di tutta una vita.


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il club di calliope con me si alza la preghiera e il respiro del sangue trasuda dalla lesa veste del corpo. Ciò che vi chiedo è che la morte non mi avvolga nella cupa ombra della sera che sia viva l’attesa Alberto Cappi da Il modello del mondo, Marietti Domenica 28 giugno nella sua casa di Ostiglia, è morto Alberto Cappi, poeta tra i più importanti della scena nazionale (pochi giorni fa gli era stato assegnato il prestigioso Premio Mario Luzi), ma anche traduttore e saggista, organizzatore di eventi culturali, animatore di riviste e fogli letterari, editore. Di Cappi rammentiamo soprattutto la grande generosità e l’attenzione e la cura che riponeva nei rapporti umani, come pure la semplicità, rara, dei comportamenti. Cappi era una persona squisita e gentile e aveva una naturale inclinazione a sdrammatizzare le situazioni, anche ricorrendo a una certa dose di sottile ironia. Ricordiamo anche la sua apertura nei confronti dei giovani scrittori e la continua alta intesa con gli amici poeti e la disponibilità, direi fanciullesca, a sostenere progetti e iniziative. Aveva un animo nobile ed era un vero entusiasta. Era un poeta «totale». Piangiamo un amico, un caro amico, che abbiamo voluto ricordare con una sua recente poesia. (l.r.)

WISTAWA SZYMBORSKA DALLA PREISTORIA A OGGI in libreria

di Giovanni Piccioni a gioia di scrivere (Adelphi editore) propone tutta l’opera poetica di Wistawa Szymborska, dal 1945 al 2009. Il volume, curato da Pietro Marchesani, contiene oltre alle dieci raccolte «riconosciute» dall’autrice, poesie tratte da Raccolta mai pubblicata del 1945, da Per questo viviamo del 1952 e da Domande poste a me stessa del 1954. Si tratta della preistoria poetica della Szymborska, di testi che segnano l’inizio del suo percorso poetico. In particolare, la secon-

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fede marxista-leninista e del sistema comunista restano solo rovine: «La storia che non si affanna/ alle trombe mi accompagna./ Gerico viene chiamata/ la città da me abitata./ Mi frana di dosso pezzo/ a pezzo la cinta muraria./ Sto in piedi tutta nuda/ sotto la divisa dell’aria./ Suonate trombe, e come si confà/ suonate insieme a più non posso./ Ormai solo la pelle cadrà/ e mi discolperanno le ossa». Ma nella raccolta non compare solo la storia e il suo carico di delusioni. È presente anche il tema

UN POPOLO DI POETI Mi pernotta ancora sulle labbra il profumo che distendi senza gesti sull’orma vecchia del destino. Cascata d’ambra e miele di capelli dentro gli occhi d’una buona attesa. Assolutamente indecente

Alberto Princis

L’occhio non sa di essere reale, vive l’antico prodigio di guardare, abbandonato s’un altopiano arido. Quando il sonno lo invade, fumo di strani accampamenti lo raggiunge; l’occhio mette denti, dilaga nello spazio bianco, spalanca il suo piatto abisso, su sbuffi e nuvole di talco. Dentata balbuzie dell’occhio; e il corpo che lo segue come un mostruoso nervo ottico.

L’occhio Tommaso Meozzi

Tutta l’opera poetica dell’autrice polacca raccolta in “La gioia di scrivere”. Nel quale sono comprese alcune poesie disconosciute, legate al periodo dell’adesione al comunismo da e la terza raccolta sono state disconosciute dall’autrice. Esse rappresentano il periodo dell’impegno politico, della poesia socialista, ideologicamente orientata di una donna assai giovane (la poetessa è nata nel 1923), che s’iscrisse al Partito comunista nel 1952, per uscirne nel 1966. Quanto alla Raccolta non pubblicata, all’epoca non poté essere stampata perché in contrasto con l’atmosfera ideologica e politica nata dal Congresso degli scrittori a Stettino nel 1949, allorché il realismo socialista sovietico diventò l’unica dottrina artistica ammessa anche in Polonia. Ma è già nel 1957 che avviene la rottura con il Partito comunista grazie alla raccolta Appello allo Yeti, nel nuovo clima di liberalizzazione politica e culturale che si affermò in Polonia con l’inizio del processo di destalinizzazione e con la nomina a primo segretario del Partito di Wladislaw Gomulka. Appello allo Yeti si situa accanto alle opere poetiche antistaliniane, di riflessione critica e sociale. Si veda in proposito una strofa della poesia Riabilitazione: «Li credevo traditori, indegni dei nomi/ poiché l’erbaccia irride i loro tumuli ignoti/ e i corvi fanno il verso, e il nevischio schernisce/ - e invece Yorik, erano falsi testimoni». Della

dell’amore: è una forma d’amore detta in tono ironico, calata in situazioni molteplici e che trova inusuali collocazioni esistenziali e metafisiche. I temi delle nove raccolte successive ruotano attorno alla quotidianità del mondo reale, dietro cui si celano mondi possibili, frutto dell’immaginazione. La riflessione della Szymborska è semplice e complessa al tempo stesso, aliena da ogni forma di retorica, arguta e ironica. L’inesauribile ricchezza del mondo provoca uno stupore metafisico: la creatura umana si trova di fronte al miracolo della vita, accettata fin dalle forme più semplici del suo apparire. È poi vivo il senso della presenza degli altri e della compassione espresso con la leggerezza tipica dell’arte della poetessa. Artista solitaria e di difficile collocazione in correnti e tendenze, così ha scritto di sé in Epitaffio (dalla raccolta Sale del 1962): «Qui giace come virgola antiquata/ l’autrice di qualche poesia. La terra l’ha degnata/ dell’eterno riposo, sebbene la defunta/ dai gruppi letterari stesse ben distante./ E anche sulla tomba di meglio non c’è niente/ di queste poche rime, d’un gufo e la bardana./ Estrai dalla borsa il tuo personal, passante,/ e sulla sorte di Szymborska medita un istante».

Vorrei tu fossi Come la rugiada al mattino Per posarti sul mio viso E dissetare le mie labbra Di un sapore di prati in fiore E di erba bagnata Di un canto di grilli In amore sotto le aiuole Che lentamente si asciuga Al sorgere del sole

Rugiada Alberto La Femina

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

di Marco Vallora o risfogliato il catalogo della mostra, così m’è tornata una bella carica di rabbia, il che va bene, per mettersi a scrivere. Chi sbircia questa rubrica sa che evito polemiche e consiglio sempre le cose più raccomandabili: inutile sconsigliare, demonizzare, c’è tanto di bello da vedere! Ma ogni tanto protestare contro le proterve scemenze organizzative, che invandono il mondo dell’arte, davvero ce vò. Ma possibile che nessuno (tranne Jean Clair e pochissimi altri. Richard Hughes ormai s’è fatto davvero troppo schematico) si occupi mai di miseria dell’arte contemporanea? In questo caso non si tratta d’opere, ma di pochezza organizzativa (mostra vorrà pur sempre dire: avere un’idea). Allora: da capo. Apologo. (E pure vero, reale, contemporaneo). Incontro, nella giusta euforia della Fiera di Basilea, un vecchio amico, illustre francesista di Torino. Si parla con entusiasmo delle mostre collaterali, magnifiche, mi dice: ho consigliato a un amico, che non è mai stato a Basilea, di non andare allo Schaulager, per quanto sia suggestiva la costruzione di Herzog e De Meuron, e non tanto perché spesso lì le mostre non reggono, ma per chi non ha mai visto gli Holbein, gli Hoedler, i Boecklin della Kunsthaus, il museo principale, sarebbe crimimale gettarsi prima qui (come invece fanno tanti fanatici modernisti e retro-paraocchi). Saggissimo consiglio, condivido. Il bello della scemenza organizzativa contro cui vogliamo sparare, è invece che gli Holbein e i Boecklin e gli Hoedler sono qui allo Schaulager.

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Tanto per fare lo scherzetto al visitatore diligente, che vuole trovarsi L’Isola dei Morti dove è sempre stata (che barba, che noia, ci facciamo un giretto, sor Holbein? Beh, che diamine, certo che no, il livido, insuperabile Crocefisso di Holbein, davanti a cui Dostoevskij ebbe la prima crisi, quello è stato a casa, ma voglio sperare che un caposaldo come quello sia intrasportabile a vita, per arginare proprio queste demenze curatoriali). Invece di finire qui, fuori contesto (non vorrei sbagliare, ma è proprio così), dentro una finta quadreria sparpagliata su gelida spalliera di hall contemporanea, dove i quadri più in alto non li decifra mai nessuno. E così, di seguito: il geniale cavaliere atterrato di Degas, e la Natura morta e compostiera di Cézanne, Hodler, Léger e Picasso: su, da bravi, un giretto. E così quel poveraccio di beté, munito di guida Michelin e di onesta cultura, che è andato a cercaseli al legittimo museo (a me, per esempio, che non manco mai di fare un giretto sotto i piani alti delle mostre-tira pubblico, erano parsi misteriosamente latitare. Ma un conto è sottrarli per motivi legittimi di restauro o scientifici, inviati a una mostra dove sono essenziali, non certo per queste deportazioni criminali) rimane fregato a vita: magari sarà il suo unico giorno a Basilea: da non tornarci, in effetti (lo Schaulager è in capo al mondo, gli orari svizzeri come guardiani di ferro).

arti Da Holbein a Tillmans MobyDICK

contro la deportazione delle opere d’arte

Due immagini dell’allestimento della mostra “Holbein bis Tillmans” (la locandina accanto al titolo) nelle sale dello Schaulager di Basilea. Sopra, “L’isola dei morti” di Boecklin trasportata per l’occasione dal Kunstmuseum, suo luogo di appartenenza naturale

Qualcosa di gravissimo, che dovrebbe esser stigmatizzato dal Borgomastro, prima che dal mondo-pastafrolla della critica tuttomistabene: e questo non per essere misoneisti o conservatori, ma soltanto logici, deontologici. A chi gioverà, alla fine, questa libido-flipper di tele spostate vertiginosamente, per dare aria ai musei e arie ai curatori, convinti che la novità fa comunque bene ed è chic? Trasferte per anziani afasici (s’intende Boecklin, Picasso, Braque) che non posson nemmeno sputare in faccia a conservatori-boy scout? Allora, raccontiamola bene dall’inizio. C’è la direttrice in questione dello Schaulager, Theodora Vischer (che non fa onore al suo quasi omonimo purovisibilista della Scuola di Vienna), la quale viscidamente si arrampica sugli specchi del catalogo (in puro e solo tedesco: ma si capisce subito che non porta davvero nulle parte, con i suoi paroloni grotesques, basta avere qualche rudimento di filosofia…) per giustificare una banalissima operazione di trapianto. E che chiama, pomposamente: «Ospiti preminenti dal Kunstmuseum di Basilea» (qualcosa tipo «l’eccellenza» di cui si sproloquia in tv). E mentendo poi clamorosamente: dicendo che il Kunstmuseum, avendo la grande mostra su Van Gogh, non poteva mostrarli. Vere palle: è da decenni, da Legér a Schwitters, da Holbein stesso, poveraccio, a Twombly, da Picasso a Rauscheberg, ebbene si son viste mostre bellissime, ed esattamente nelle stesse sale di Van Gogh, senza che mai Holbein o Boecklin abbian dovuto sloggiare: si scendeva di piano ed erano lì, in attesa (anche del Temporale Vischer). Dunque bugiarda e senza argomenti: è ovvio che se un museo fosse chiuso, ben venga un trasloco, e pure in un museo di arte contemporanea, anzi! Ma qui il problema non sussiste: forse questa de-funzionaria, più ko che kapò dello Schaulager, avrebbe potuto dire, più schiettamente: signori, qui non c’è più un picco per far mostre, io non ho un’idea, accettate questo tè tra signore, tipo Compton Burnett, e siccome non so nemmeno contare gli spazi, beccatevi pure questa ubriaca quadreria, dove ho gettato tutto a caso (non vi ho forse aperto la mostra con l’immagine di Rodney Graham, l’Allegoria della Follia, col cavaliere che galoppa all’incontrario, per farvi capire per quale porta si va di qui?). Non è che comincia con Graham e prosegue cronologicamente a rovescio, come una retrocarrellata, no, no, incomincia proprio come un bignamino suisse dal primo ritrattino, tipo miniatura, di Holbein (che

nel suo contesto originario rafforzava il resto, qui, nel bianco infermierale, ciondola come un portachiavi) per arrivare - udite! udite! - passando per i grandi fiorami di Warhol (figurarsi se una padroncina di casa zelante come Frau Vischer se ne dimentica) sino a Tillmans! Dio luterano, che impressionante simiglianza, in effetti, tra quel ritratto rinascimentale e il fotoritratto! Ci credo, son due volti umani. Però, grazie Theodora, ritorneremo dalla tua mostra rinnovati e più profondi. Ma non basta, Theodora ha sette vite ed ecco che la vera fine cheack to cheack bis Holbein è riservata a quella minus sempiternamente up to date di Tacida Dean, che filma imperturbabile il decrepito e malandato Mario Merz, gli punta addosso una videocamera come una pistola, lo sputtana col silenzio e lo lascia, dopo un bel po’ di nulla temporalesco, rientrare in casa, senza pietà: come se fosse un povero demente, rimuginante il perché di questa insulsa corvée (ovviamente uno può anche dire, come troppi: poesia della senilità, meditazione leopardiana sul nulla, violenza sublime della non-partecipazione. Ma, ahimé, ci sono i confronti: che abisso lunare, con quegl’insuperabili minuti di silenzio, carico di esplosivo cosmico, di Erza Pound, afasico non per video-gioco, filmato da Pasolini. Ma questi sono uomini, mica maccheroni. E dire che così si piantumano d’ignoranze stabili le Biennali.Tacita Dean è una gloria).

Poco altro, in mostra: per esempio, una gran sala di nature morte fiamminghe, degnissime, e poi il colpo di «sgenio» di una natura morta di Picasso, a contrasto, dove però c’è l’anta semicercolare abbassata del tavolo, che vagamente ricorda - pendent decorativo da maestrina-décor stile Annabella - la mezzaluna semicircolare d’un mastello fiammingo, con storione. Uh!, una fitta tale di emozione che non si regge e bisogna riguadagnare l’aria fresca (son quelle soluzioncine d’asilo, tematiche, che han già fatto ridere il mondo alla Tate e sono state subito radiate, ma qui...). Poi, uno può anche dire, consolatevi con la stanza di Kabakov, che abitualmente non si vede. Ma ci voleva proprio tutto questo can can d’investimento inutil-economico (il catalogo è un esempiolimite di dissenterico perbenismo avanguardistico) per permettere a sora Theodora di forgiare una squisitezza neo-hegeliana di questa fatta: «flessibilità ispirativa delle mostre oggi»? Flessibilità: che a dire il vero è concetto più vicino a Bernanke che a Benjamin. Che Dio e una bella risata ci liberi dalle Theodore: l’arte è davvero una cosa troppo seria per lasciarla tra le meningi vizze dei curatori.Viva le opere dove stanno. Basta certa gente nelle istituzioni. Holbein bis Tillmans, Basilea, Schaulager, fino al 4 ottobre


MobyDICK

4 luglio 2009 • pagina 15

moda

Pazienza la caviglia nuda... ma il borsello proprio no! di Roselina Salemi l momento più importante delle sfilate è il dopo, quando cioè i buyer fanno gli ordini. E per la moda uomo, la differenza tra passerella e produzione è fondamentale. Compreremo quello che arriva in negozio l’estate prossima, non quello che abbiamo occhieggiato nel veloce spettacolo delle sfilate. Perciò sarebbe simpatico che i buyer ci salvassero dalla camicia trasparente con spolverino di Calvin Klein, dalla canotta ricamata aperta sui fianchi (solo per tronisti?), dalle camiciole a fiori, dalle spalle tipo ussaro rinforzate con una struttura di acciaio (Roberto Cavalli) nonché da tutte quelle meraviglie perfette per fare kite surf, prendere il tè nel deserto, giocare a golf, tuffarsi nell’Oceano. Come se la vita non fosse già difficile, rischiamo di affron-

I

danza

tare plotoni di uomini abbigliati curiosamente da baseball, da green o in tenuta da paracadutista per l’happy hour. Jackerson, cargo, leggings scuba, military. Sarebbe da incontrare il legionario in vacanza di Versace, con una djellahba leggerissima come camicia, la sahariana di pelle e i pantaloni Tuareg, anche se non è chiaro dove. In coda all’ufficio postale? Piaceranno molto, speriamo, gli abity city di Prada, grigi, con infinite variazioni e quelli di Armani, che usa il jeans per il tre pezzi formale, ma è probabile che l’estate prossima molti ragazzi portino i bermuda con la cravatta (qualcuno osa già adesso) e bisognerà farci l’occhio. Colori: fango, blu, grigio, avana, azzurro fino al pervinca, bianco totale, verde e tartufo (Bottega Veneta) con lampi di rosso, arancio e pistacchio.Tutto un po’ meno lezioso, a cominciare dai ciclisti mandati in passerella da Emporio Armani con la performance di Vittorio Brumotti, campione del mondo di bike trial. Salti su due ruote: dovremo fare acrobazie? Qualunque sia la scelta, però, nessuno ci salverà dalle caviglie nude... Passato il tempo in cui le signore, prigioniere di busti, corsetti e crinoline, potevano lasciarne intravedere una porzione - ed erano tormenti, desideri, storie d’amore che cominciavano - adesso toccherà a lui usarla come strumento di seduzione. I pantaloni sono corti, oppure arrotolati (sembra che gli stilisti si siano messi d’accordo), perciò la cavaliglia deve essere perfetta, lucida ed eventualmente depilata (facile, non è come esibire i pettorali), per attirare lo sguardo, in una singolare inversione dei ruoli. Va bene tutto, va bene la destagionalizzazione, per cui le collezioni estive sono piene di giacche, giubbotti e redingote, va

bene il tecnico, per cui ci sono pantaloni che abbassano la temperatura di dieci gradi, smoking di air-tex (il tessuto delle sneakers), parka lana termosaldati e jekerson con gli inserti per le mani sudate, va bene tutto, ma Dolce&Gabbana non dovevano farlo. Che cosa? Rilanciare il borsello, che è «pratico e bello», come nella canzone di Piero Focaccia. Indispensabile negli anni Settanta, condannato a morte per manifesta tamarraggine e poi sparito, torna nella versione originale con manico antistrappo (e in tante misure e colori), accostato ai jeans strappati, ma doppiati, alla scarpa lucida e alla caviglia nuda. Dicono gli esegeti, che tutto ciò è virile.«C’è un amore in ogni borsello/ un borsello di vero budello», ricordano Elio e le Storie Tese. Che i buyer ci salvino.

Con Roland Petit sulle note dei Pink Floyd di Diana Del Monte

n giorno mia figlia Valentine, che allora aveva circa quindici anni, mi porta un disco e mi dice: papà, bisogna che tu faccia un balletto su questa musica». A parlare è un mostro sacro della danza novecentesca, Roland Petit, che racconta così la nascita di Pink Floyd Ballet, il balletto cult nato negli anni Settanta grazie al geniale capriccio di un’adolescente che, per fortuna, riuscì a vincere le prime reticenze del padre con l’entusiasmo tipico della sua età. Pink Floyd Ballet è in scena al Teatro alla Scala di Milano (l’1, il 2, il 3, il 7, il 9 e 10 luglio) e presto sarà in tourneé a Parma (l’8), Como (l’11), Cremona (il 14) e Torino (il 15 e il 16). Il tempio italiano della lirica e del balletto, dunque, apre le porte a questo capolavoro, tra i più innovativi del maestro francese oggi settantaseienne, e per la prima volta in Italia nella sua veste definitiva. Come nella migliore tradizione di Petit, infatti, il balletto è stato più volte ampliato e rimodellato. Dai primi 4 movimenti si è arrivati, via via, a un programma composto di 13 brani, un mosaico sonoro tratto da The Wall, The

«U

Dark Side of the Moon, Meddle, Relics, Is There Anybody Out There? e Obscured by Clouds. Quattro le étoile impegnate in quello che si pone come uno dei grandi eventi della stagione scaligera: Svetlana Zakharova, Massimo Murru e le Guest Star Guillaume Côté, étoile del National Ballet of Canada, e Altankhuyag Dugaraa, che ha già danzato nell’edizione giapponese dell’Asami Maki Ballet. Il debutto del 1972 a Marsiglia di Pink Floyd Ballet fa parte, ormai,

della mitologia contemporanea. La band, che suonava dal vivo dietro ai danzatori, aveva messo il suo rock, esplosivo e struggente, al servizio del coreografo. «Quando gli proposi l’idea, i Pink Floyd la raccolsero subito. Non solo accettarono di suonare, ma si offrirono anche di modificare alcune parti dei brani in funzione del balletto» ha raccontato Petit alla presentazione della prima scaligera. «Non ero sicuro - ha aggiunto - se continuare a proporre lo spet-

tacolo senza il supporto live dei Pink Floyd». Ma il coreografo non si è lasciato spaventare e il successo è stato immenso, in tutto il mondo. Novanta minuti di danza «assoluta» in questo «balletto rock» che si avvale di movimenti dal solido impianto classico per incontrare la potenza evocatrice della musica visionaria dei Pink Floyd. «È un balletto che offre momenti che rimangono impressi e che impegna tutto il Corpo di Ballo in brani d’insieme, assoli e passi a due sempre differenti e con diverse combinazioni d’interpreti» dice Petit, che in Pink Floyd Ballet crea atmosfere e stati d’animo dai più intimi ai più galvanizzanti. La luce è pensata come un abito luminoso che avvolge i movimenti dei danzatori e caratterizza ogni singola scena: «La scenografia è fatta di luce» spiega il coreografo. «Il mio assistente Jean Michel Désiré ha fatto in modo che ogni brano abbia un suo specifico “vestito”». Il risultato è un’inondazione di luci ed effetti degni delle più note sperimentazioni live della band inglese in cui si muove un Corpo di Ballo diretto da un genio della coreografia del Novecento.


pagina 16 • 4 luglio 2009

fantascienza

l «fantastico» (in senso lato) ha costituito per la nostra narrativa una tradizione o una tentazione? Vale a dire: a partire dall’Ottocento il gotico, il nero, il fantastico, il surreale, il magico, lo spiritico, il bizzarro, ma anche il protofantascentifico, in che modo sono stati accettati e hanno influenzato la nostra narrativa popolare e più «alta»? Il problema ha almeno venticinque anni: da quando Italo Calvino scrisse l’introduzione a Racconti fantastici dell’Ottocento (1983) con solo autori stranieri teorizzando un fantastico «intellettuale» e uno «emozionale», e subito dopo Enrico Ghidetti curò con Leonardo Lattarulo i due tomi della fondamentale antologia Notturno italiano (1984) dedicati all’Ottocento e Novecento italiani privilegiando gli autori «colti». Dieci anni dopo, nel 1993, Fausto Gianfranceschi e Lucio D’Arcangelo presentarono Enciclopedia fantastica italiana, che in realtà doveva intitolarsi Spettro solare, in esplicita contrapposizione al precedente Notturno italiano, perché proponeva di individuare in questo aspetto più solare e meno notturno, la spedificità del fantastico italiano che si faceva iniziare con le Operette morali di Leopardi (1827), anche qui privilegiando gli autori della letteratura «alta». Adesso, dopo altri sedici anni e uno stallo editoriale di parecchio tempo, esce Ottocento nero italiano. Narrativa fantastica e crudele a cura di Claudio Gallo e Fabrizio Foni (Aragno, 540 pagine, 38,00 euro). Un’opera corposa e importante, non priva dal mio punto di vista di singolari prese di posizione, ma che di certo si pone, dopo quelle citate, come una nuova pietra miliare nel cammino per la completa riscoperta, sia bibliografica che critica, dell’«immaginario» italiano (uso questo termine perché maggiormente inclusivo di tutti i «generi» sopra elencati).

MobyDICK

ai confini della realtà

I

Alcuni dati, importanti per la nostra analisi: gli autori presenti sono 30 con 36 testi; il periodo cronologico preso in considerazione è un secolo (1827-1927: quindi l’inizio, con Guerrazzi, è lo stesso di quello scelto da Gianfranceschi, ma con Leopardi), con 11 testi rappresentanti il Novecento ma quasi tutti raggruppati nel suo primo decennio e quindi ancora influenzati dall’atmosfera ottocentesca. Di questi 30 testi, 11 sono estratti di romanzi; 12 sono racconti ripresi da raccolte di un singolo autore (e dei quali non si dice, a parte un paio, se in precedenza avessero avuto una pubblicazione su giornali o riviste); 2 sono brochure autonome; 12 sono ripresi da periodici. Di questi ultimi, possiamo considerare «popolari» soltanto quelli a maggiore diffusione a partire dalla fine dell’Ottocento: dal Fanfulla della Domenica, alla Tribuna illustrata, La Domenica del Corriere, Il Secolo XX, La Lettura, sino al settimanale Il Giornale illustrato dei viaggi. L’opera di ricerca, scavo, recupero e documentazione di Gallo e Foni è imponente e originale perché si è indagato in una direzione specifica, senza rifarsi a precedenti esperienze: il loro intento è stato quello di rintracciare in autori del nostro Ottocento noti a vari livelli (da Guer-

Iperrealisti dell’Ottocento di Gianfranco de Turris razzi e Balbo a Mastriani e Invernizio, da De Marchi e Serao a Salgari e Di Giacomo) oppure ignoti, dimenticati e tralasciati dalle nostre storie letterarie (Sauli e Mistrali, Savini e Patuzzi, Chelli e «Jarro», Zucca e Roggero, Fava e Bevione, il figlio di De Amicis Ugo e Bisi, Martella e Silvestri) un filo conduttore: quello appunto del «fantastico e crudele», del gotico si potrebbe dire con tutto il suo codificato armamentario carat-

È questa, dunque, un’operazione importante che segue il filone GhidettiGianfranceschi nonostante che Gallo e Foni ne vogliano prendere polemicamente le distanze, mentre in realtà ne seguono le orme: da un lato ampliando alla narrativa popolare l’opera pionieristica di Ghidetti-Lattarulo e dall’altro ampliando al lato nero e crudele la ricerca di Gianfranceschi-D’Arcangelo. Non una contrapposizione ma un ampliamen-

Un’imponente e originale antologia, a cura di Claudio Gallo e Fabrizio Foni, ricompone la mappa dell’immaginario italiano nella letteratura del XIX secolo. Da Guerrazzi a Invernizio, da De Marchi a Serao, da Salgari a Di Giacomo, così fantastico e crudele hanno accomunato autori noti e meno noti terizzato però da un brivido agghiacciante, malvagio e/o sanguinoso, più di quanto ci avessero fatto conoscere gli scrittori inglesi che hanno fondato il genere e che, guarda caso, come nota Luca Crovi nella sua introduzione, da Walpole alla Radcliffe e anche Lewis, avevano ambientato il loro romanzi in una Italia oscura e geograficamente di fantasia, ma teatro di grandi efferratezze al limite del fantastico.

to di punti di vista. Il tutto è servito, come scrivono Gallo e Foni, per documentare «l’estenzione storica della letteratura dell’immaginario italiana». Sicché, l’elenco un po’ pignolo delle tipizzazione dei testi e delle fonti di questa antologia effettuato in precedenza ha lo scopo di chiarire come Gallo e Foni siano stati «costretti» a evidenziare il genere delle storie «fantastiche e crudeli» inizialmente solo in romanzi e antologie di

novelle, e soltanto verso la fine dell’Ottocento nelle riviste popolari, a dimostrazione che una diffusione di una certa importanza di questo genere a loro caro (e quindi un interscambio autore/lettore) sia avvenuta solo dal momento della nascita dei periodici popolari. In precedenza si trattava di una tendenza influenzata dai modelli romantici stranieri. Quindi non una contrapposizione fra alto e basso, notturno e solare, ma un completamento fra i vari filoni italiani: «La letteratura è composta da una pluralità di voci e di esperienze: non esiste un modello unico», dicono del resto i curatori a conclusione della loro postfazione.

Quel che però ci pare singolare è che Gallo e Foni sembrano accettare la controversa definizione di fantastico data da Todorov quasi quarant’anni fa, cioè una «esitazione» (se esitazione non c’è si tratta di meraviglioso). Così non è però, se come essi stessi scrivono la percezione del fatto sovrannaturale mette «in crisi l’assoluta concezione della realtà, fa vacillare le certezze razionali del personaggio (e di riflesso quelle del lettore) e non di rado riesce a scardinarle». Il che rimanda alla più efficace concezione del fantastico di Caillois e non certo a quella di Todorov. È poi curiosa l’affermazione secondo cui «se è dunque difficile (anche se possibile) che un racconto fantastico non sia anche crudele, non è affatto raro che un racconto crudele esuli dal fantastico»: vera la seconda parte, opinabile la prima perché di racconti fantastici assolutamente privi di «crudeltà» se ne contano a bizzeffe (a meno che questi ultimi Gallo e Foni neghino che siano «fantastici»). Oggi poi, la storia crudele ed efferata è soprattutto realistica, anzi iper-realistica.


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