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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Il libro tra passato e futuro

BYE BYE GUTENBERG di Pier Mario Fasanotti

e per caso, o per fortuna, uno ha un figlio in età scolare, l’esistenza di un rapporto quasi erotico con le pagine (uno scrittore lo ha amDal si avvicina al privilegio di captare il futuro che sta attorno o immemesso candidamente), cominciamo ad abituarci a sentire, a volte capire, diatamente davanti a noi. Il genitore particolarmente attento parole come e-book, kindle. E molte altre, come «Interfaccia». racconto si accorge del moto di fastidio che spesso accompagna il A osservare bene i nuovi lettori viene subito da smentire quanorale alla scrittura. gesto del ragazzo nell’afferrare e sfogliare un libro. Parlo to Umberto Eco disse anni fa: «Il libro appartiene a quella Dal rotolo alla pagina. Dal del libro che esiste, grazie alla stampa di Gutenberg, generazione di strumenti che, una volta inventati, non da circa seicento anni. Oggi la vera calamita è lo possono essere più migliorati. Appartengono a manoscritto alla stampa, ai libri senza schermo. Il testo digitale. Il giovane lettore lo questi strumenti la forbice, il martello, il colcarta. Ecco perché il popolo dei lettori, nell’era sposta a suo piacimento, ne riduce o ne intello, il cucchiaio e la bicicletta: nessuna barba grandisce il formato, ne cambia i caratteri, crea a di designer danese, per tanto che cerchi di migliodel digitale, sta vivendo una “quarta margine spazi esclusivamente suoi, scompone la pagila forma di un cucchiaio, riuscirà a farla diversa da rare rivoluzione”. E pensare che già na, fa il copia-e-incolla, addirittura potrebbe leggere e insiecom’era duemila anni fa… il libro è ancora la forma più maPlatone sosteneva me ascoltare musica, pertinente o no (poco importa) alle parole neggevole, più comoda per trasportare l’informazione. Si può legche scorrono davanti al suo occhio iper-veloce. E noi, amanti feticisti gere a letto, si può leggere in bagno, anche in un bagno di schiuma». che… del libro, del quale apprezziamo spesso l’odore o addirittura confessiamo

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Parola chiave Sempre di Sergio Valzania Grande spettacolo per Henze e Mishima di Jacopo Pellegrini

NELLA PAGINA DI POESIA

L’altra voce di Roberto Sanesi di Francesco Napoli

Sulle ali di Frida Kahlo di Enrica Rosso Un Principe di Persia contro i neocons di Pietro Salvatori

La mania del mix invade anche Parigi di Marco Vallora


bye bye

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Il supporto digitale, ossia lo strumento che elimina la carta offrendoci uno schermo insieme alla possibilità di trasportare migliaia di libri in un rettangolo che pesa meno di un chilo, non è la morte del libro. È la sua traEcco sformazione. perché si parla di rivoluzione. Gino Roncaglia, docente informatico ed esperto di discipline umanistiche, ha intitolato il suo libro La quarta rivoluzione (Laterza, 285 pagine, 19,00 euro). Essenziale per capire ciò che sta succedendo. Perché «quarta» rivoluzione? Si è passati dall’oralità alla scrittura, dal rotolo al libro paginato, dal manoscritto al libro a stampa. Infine il salto verso il digitale. Insomma, il libro non è un cucchiaio. Facile da spiegare ricorrendo ai tempi antichi. Una delle più vecchie e più belle epigrafi funerarie romane (II secolo a.C.) così recita: «Straniero, ciò che ho da dirti è poco: fermati e leggi. Questo è il sepolcro non bello di una donna che fu bella. I genitori la chiamarono Claudia. Amò il marito con tutto il cuore. Mise al mondo due figli: uno lo lascia sulla terra, l’altro l’ha deposto sotto terra. Amabile nel parlare, onesta nel portamento, custodì la casa, filò la lana. Ho finito, vai pure». Un esempio di virtus in meravigliosa e sintetica prosa. Ma c’è di più, a pensarci bene. L’autore dell’epigrafe invita il viandante a fermarsi. Il testo non se lo può portare con sé, è ancorato al luogo in cui la pietra venne collocata. Spiega Roncaglia: «La lettura richiede un avvicinamento fisico del lettore al supporto del testo, e non del supporto del testo al lettore, come avviene invece nel caso del libro».

Quasi tutte le grandi civiltà erano strettamente collegate ai testi. E così le religioni. In forma brillante e geniale, Galileo sostenne che la natura è da considerare un libro scritto in linguaggio matematico. Il libro è il mondo. Il Dio delle grandi religioni monoteiste si esprime attraverso un libro. Il Corano chiama Ahl alKitab, le «genti del libro». Ma anche altri fedeli, come induisti e zoroastriani si riferiscono a testi considerati di origine divina. Il

passaggio dall’oralità al testo scritto comportò conseguenze sociali e anche tutta una serie di diffidenze di carattere religioso. Non a caso la rivoluzione di Gutenberg che portò alla diffusione della stampa fu, secondo alcuni studiosi, uno dei fattori che facilitò l’allargamento della Riforma protestante. Molti infatti definirono «scandalosa» la lettura individuale - quindi non fatta in gruppo e ad alta voce - della Bibbia.

Il libro digitale, prima di essere oggetto di continuo perfezionamento negli anni che stiamo vivendo (le variazioni tecnologiche e commerciali sono così numerose e complesse da mettere vertigine), fu il sogno, fatto finzione letteraria, di alcuni scrittori di fantascienza. Nel 1951 Isaac Asimov, il più famoso dei narratori di questo genere, in un racconto intitolato Chissà come si divertivano!, immagina un gruppo di ragazzi (siamo nel 2157) che trova un vecchio libro su carta che parla della scuola. Margie si stupisce e ricorda quel che le diceva il nonno a proposito della sua infanzia: «Si voltavano le pagine, che erano gialle e fruscianti, ed era buffissimo leggere parole che se ne stavano ferme invece di muoversi, com’era previsto che facessero: su uno schermo, è logico. E poi, quando si tornava alla pagina precedente, sopra c’erano le stesse parole che loro avevano letto la prima volta». L’amico Tomy commenta così: «Mamma mia, che spreco. Quando uno è arrivato in fondo al libro, che cosa fa? Lo butta via, immagino. Il nostro schermo televisivo deve avere avuto un milione di libri, sopra, ed è ancora buono per chissà quanti altri. Chi si sognerebbe di buttarlo via?». Se nel racconto di Asimov cancelliamo la parola «televisivo» e la sostituiamo con «libri elettronici» o «tele-libri», ci troviamo proprio nel mezzo dell’epoca nuova, quella che viene promessa dagli e-book. Asimov ovviamente non è l’unico a fantasticare con strabiliante esattezza sul futuro della lettura. Nel film

Uno scriba e un bambino con un videobook Sopra, Platone, l’iPad e l’ebook anno III - numero 26 - pagina II

gutenberg

hanno scritto dei libri... «Bob-Bon aveva dato fondo a biblioteche che nessun altro aveva sondato; aveva letto più di quanto altri avesse l'idea che si potesse leggere; aveva capito più di quanto chiunque altro avrebbe pensato di poter capire». Edgar Allan Poe «Il contenuto del libro si staccava da me, ero libero di pensarci o non pensarci; subito recuperavo la vista ed ero assai stupito di trovare intorno a me un'oscurità dolce e riposante per i miei occhi». Marcel Proust «Il lettore che non può smettere, che continua sempre a leggere, sempre di più, e sempre di più cose antiche, e così diventa una figura non trascurabile, una specie di uomo di fiducia degli altri, che si affidano a lui: troverà, purché non smetta mai essi pensano - anche la cosa decisiva». Elias Canetti «Un libro, dunque, è come riscritto in ogni epoca in cui lo si rilegge e ogni volta che lo si legge. E sarebbe allora il rileggere un leggere: ma un leggere inconsapevolmente carico di tutto ciò che tra una lettura e l'altra è passato su quel libro e attraverso quel libro, nella storia umana e dentro di noi». Leonardo Sciascia «Cosa ci stanno a fare, anche la pittura, e la scultura, e l'architettura, e le arti minori, e la Neue Musik, e la danza, e il teatro, e il cinema, e la grafica, e la pubblicità, e la televisione, e la radio, e magari la Nouvelle Vague, e addirittura l'agrégation, e La littérature et le mal, e Sade mon prochain, e lo stesso Sartre, in un mondo che ha Fame? O in quei certi mondi che mangiano, e quando hanno mangiato non leggono più una riga?». Alberto Arbasino

2001, Odissea nello spazio, vediamo per esempio gli astronauti maneggiare piccoli congegni elettronici contenenti parole. E non sono libri, certamente. Il futuro corre veloce. Negli anni Novanta e nei primi del nuovo millennio c’è stata una certa diffusione dei Pda e degli smartphones, «dispositivi - spiega Gino Roncaglia - che non si proponevano come lettori dedicati, e per i quali la lettura era solo una delle funzionalità disponibili (e non la più importante). Dispositivi che non avevano alcuna pretesa di sostituirsi ai libri, ma si rivolgevano alla fruizione in mobilità». Poi il fenomeno dei Keitai, o m-books (mobile books): romanzi e racconti giapponesi destinati allo schermo del telefonino. Scrittura rapida, essenziale, con il ritmo del fumetto. Non a caso, nel 2000, uno dei primi autori del genere si chiamava Yoshi, ed era giovanissimo. Oggi si tentano strade sempre più sofisticate. A poche settimane dal lancio sul mercato, l’i-Pad della Apple ha avuto notevoli picchi di vendita, anche in Italia. Ci si può abbonare a un quotidiano e «sfogliarlo» manualmente (basta un dito). Si possono scaricare libri. Pesa pochissimo, sta in una borsetta, consente un collegamento a Internet, funge da agenda e con esso si può consultare la mappa di Londra o di Roma (linee della Metro comprese).

Pare una stranezza, ma parlando dei nuovi libri, quelli senza carta, occorre ricordare Platone. In un famoso passo del Fedro, il filosofo attribuisce a Socrate un’acutissima critica del testo scritto. Non condanna «E quindi si rassicurino i lettori. Si può essere la scrittura in sé, anzi riconosce colti sia avendo letto dieci libri che dieci volte lo al testo la formidabile capacità di conservare la parola nel temstesso libro. Dovrebbero preoccuparsi solo colopo. Tuttavia muove un’obiezioro che di libri non ne leggono mai». ne: il testo ha il carattere esteUmberto Eco riore della memoria scritta, che rischia di far perdere la capacità di ricordare «dall’interno di se stessi». Risultato: una sapienza apparente. Platone sottolinea come limite l’assenza di interattività: «… se tu, volendo imparare, chiedi loro (le parole, ndr) qualcosa di ciò che dicono, esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo in iscritto, ogni discorso arriva nelle mani di tutti, tanto di chi l’intende tanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato e offeso oltre ragione, esso ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché esso non può difendersi né aiutarsi». Geniale anticipazione di un futuro che il grande greco non era in grado di descrivere. «I libri, loro non ti abbandonano mai.Tu sicuramente li abbandoni di tanto in tanto, i libri, magari li tradisci anche, loro invece non ti voltano mai le spalle: nel più completo silenzio e con immensa umiltà, loro ti aspettano sullo scaffale». Amos Oz


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parola chiave

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SEMPRE trana parola sempre, dai molti significati. I più comuni sono umili. La usiamo come sinonimo di «ogni volta», quando diciamo «in questo ristorante mangio sempre la carbonara». In altre occasioni significa «ancora», nelle frasi del tipo «è sempre in gamba, nonostante i suoi anni». È già più ambiziosa quando assume il senso di «continuamente», come in «il fiume scorre sempre verso il mare». In tutti questi casi sempre conduce la vita tranquilla di un avverbio di tempo con le spalle larghe, di un lavoratore della nostra lingua. Un centrocampista che porta la palla, si direbbe in gergo calcistico. È capitato però che gli venissero affidati ruoli importanti, da protagonista. Tutti gli italiani ricordano «Sempre caro mi fu quest’ermo colle», anche se non molti sanno proseguire nella recitazione leopardiana. Dante lo fa lavorare parecchio nella sua Commedia. Il debutto arriva fin dal trentesimo verso del primo canto, per dire che il poeta cammina in salita, inventando il celebre «sì che il piè fermo sempre era ‘l più basso». Lo lascia solo in Paradiso, al verso 111 dell’ultimo canto, per ricordarci l’immutabilità della forma di Dio «che tal è sempre qual s’era davante». Nel corso della maggiore opera dantesca la nostra parola è comparsa nel frattempo altre settantatrè volte, battuto come numero di occorrenze solo dalle preposizioni, dai verbi ausiliari e da avverbi meno strutturati a livello di significato, per esempio da poi. Questa ricchezza di apparizioni dipende anche dal fatto che nella Commedia sempre assume di frequente il suo significato più ambizioso, e persino misterioso, come in «là dove il suo amor sempre soggiorna» (XXXI,12) in riferimento a Dio. Allora sempre diventa una delle parole più care agli innamorati, che quando la usano non pensano né a ogni volta, né a continuamente, ma si riferiscono invece a una immutabilità di sentimenti senza fine nel tempo.

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In certe situazioni è facile lasciarsi andare, ma a mente fredda non è semplice fissare negli occhi la parola sempre così intesa, immaginare la complessità e la pienezza del suo significato quando indossa gli abiti della festa. Diventa persino complicato immaginare quale possa essere stata la sua carriera, come gli sia stato possibile conquistare un livello così assoluto di significazione. Sempre è un avverbio di tempo, ma quest’ultimo è quasi sinonimo di trasformazione, di cambiamento. Anche se al suo interno tutte le cose ritornano, come ammonisce il Qoelet, non sono mai le stesse. «Non c’è niente di nuovo sotto il sole» non significa che viviamo in un mondo immobile quanto che la nostra è un’esperienza effimera, che non può neppure ambire all’unicità.

Un semplice avverbio dai molteplici significati che è anche sinonimo di cambiamento, perché se anche tutte le cose ritornano non sono mai le stesse. È per questo che è una sfida allo scorrere dei giorni...

La sconfitta del tempo di Sergio Valzania

Per gli innamorati vuol dire immutabilità di sentimenti. Non una semplice speranza destinata a infrangersi, ma un lampo di consapevolezza, una conoscenza privilegiata dovuta a una condizione felice. Del resto la manifestazione di Dio si afferma di continuo nella forza dell’amore Eppure nella lingua degli uomini è cresciuta una parola che sfida il tempo e nel suo significato più alto lo vince. Il Salmo 41 recita «sia benedetto il Signore da sempre e per sempre», senza porre alcun limite alla devozione del creato per il suo Creatore. Nell’Apocalisse una delle rappresentazioni del Cristo dice a san Giovanni: «Ora vivo per sempre e ho potere

sopra la morte e sopra gli inferi» (1,18). La sconfitta del tempo si preannuncia come assoluta e il sempre ne è il vincitore in termini linguistici. Il senso di queste frasi non si avvicina a quello che deriva da concetti come continuo o perpetuo, ha una potenza ben maggiore. Il sempre cui si fa riferimento non abita il tempo ma gli sfugge, lo trascende e

lo domina. Ci suggerisce, come del resto fanno le maggiori teorie della fisica moderna, che il tempo non sia altro che un’illusione della quale la nostra condizione ci rende prigionieri senza scampo, almeno con i nostri strumenti umani. Allo stesso tempo ci lascia immaginare un punto di vista più largo, rispetto al quale lo scorrere delle ore e dei giorni non sia un movimento irreversibile ma semplicemente la modalità secondo la quale la vita si manifesta alla nostra consapevolezza. Come la bobina di un film, che è già tutta lì e si trasforma in una storia solo perché attivata da un proiettore. Uno strumento diverso, predisposto per uno sguardo capace di cogliere in un attimo il senso complessivo di tutti i fotogrammi potrebbe proiettarli in una sola volta. Assistiamo ogni giorno ad accelerazioni, rallentamenti, riavvolgimenti di quella che spesso non è più una pellicola ma un insieme di dati digitalizzati.

Torna in mente la dimostrazione dell’esistenza di Dio proposta da sant’Anselmo d’Aosta, che nella sua forma più semplice può essere considerata nel riconoscere che l’uomo non è capace di immaginare l’idea di un’entità più grande di lui, comprendente tutte le perfezioni senza che la sua esistenza reale stimoli in quella direzione il suo pensiero. Quello che in altri termini si dice sostenendo che il più piccolo non è in grado di contenere il più grande. Quando il nostro pensiero si concentra sul sempre il suo significato tende a sfuggirci, come nelle riflessioni sull’infinito e sulla sua pluralità, individuata dalla matematica moderna e inserita in formule complesse che rimandano con difficoltà a dati fattuali, interni alla nostra esperienza e finiscono con il ricordarci la complessità della realtà nella quale viviamo. Allora viene da credere che le parole degli innamorati abbiano un senso profondo, non siano frasi fatte, semplici speranze, ambizioni destinate alla delusione del tempo. Piuttosto appaiono come lampi di consapevolezza, conoscenze privilegiate dovute a una condizione felice. La realtà profonda del mondo non è nascosta, o riservata ai pochi che sono capaci di forzarne la natura attraverso la scomposizione della materia e lo studio delle sue leggi fisiche. È invece disponibile per tutti coloro che ne vogliono e ne sanno godere: risiede nella forza dell’amore. Per i cristiani nella potenza di Dio che attraverso l’amore fonda il creato e in esso si manifesta di continuo affermando la forza del sempre contro la transitorietà del tempo. Questo è solo il setaccio dell’apparenza, condannato a scomparire insieme all’insensibilità del mondo. Ogni atto d’amore invece, anche il più piccolo, è destinato a rimanere per sempre, punto d’incontro sicuro fra l’uomo e Dio.


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Classica

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musica

MAÎTRES À PENSER? Meglio le canzonette di Bruno Giurato

di Jacopo Pellegrini hi è assente ha sempre torto: anche stavolta la massima ha trovato piena, esplicita conferma. Il 53° Festival dei due mondi si è trionfalmente aperto coll’unico titolo operistico (scandalosamente) in cartellone, Gogo no Eiko, versione in lingua giapponese del libretto, originariamente steso in tedesco, che oltre vent’anni fa Hans Ulrich Treichel cavò dal romanzo omonimo di Mishima per la musica di Hans Werner Henze. Al Teatro Nuovo, qualche vuoto in platea e parecchi palchi sgombri. Peggio per tutti coloro che non sono venuti; un giorno, a chi glielo chiederà, dovran dire: io non c’era! Si sono davvero persi qualcosa. Qualcosa di bello, intendo. I primissimi minuti hanno fatto temere il peggio sul fronte strumentale (Orchestra Verdi di Milano in trasferta); poi, le cose sono andate via via aggiustandosi sotto la guida sicura e solerte, se non ispirata, di Johannes Debus. Questo giovane direttore difetta ancora del fuoco, che suscita e sostiene la tensione interna del «discorso» (sonoro e, in caso di teatro, narrativo) per l’intera sua durata. Fuoco senza dubbio posseduto dal dedicatario di Gogo no Eiko, quel Gerd Albrecht inizialmente previsto al podio a Spoleto, poi non si sa bene perché datosi alla macchia, coll’aggravante d’essersi tenuta stretta la partitura dell’opera (l’unica disponibile della stesura nipponica, a quanto pare). Da ciò la necessità di ricostruirne una sulla base della registrazione audio realizzata nel 2006. Compito onorevolmente assolto dalla triade Bonolis-Morimoto-Onorato: sia reso loro il giusto merito. Il comparto orchestrale, anche dopo il progressivo aggiustamento di tiro, non è riuscito a garantire fino in fondo il suono adamantino - trasparenza e affilatezza, - che la scrittura strumentale di Henze esige: organico nutrito, con ben sei percussionisti assegnatari d’un numero incredibile di arnesi, impiegati dal compositore colla consueta maestria (a cominciare dal colpo di frusta che in-

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Jazz

zapping

genzia «ma la fate una canzone, v’ammazzino?» (per i non conoscitori: frase storica detta al celebre pianobarista Gioacchino Bonacaro durante un matrimonio). Ha iniziato qualche anno fa Mina proprio su liberal settimanale a fare opinione non solo musicale, poi sono arrivati gli editoriali di Celentano, dopodiché il diluvio: s’aprì la porta ai pensatori, commentatori, chiosatori cantanti e musicisti, s’aprì la porta al secondo mestiere di chi di mestiere dovrebbe averne già uno ma non s’accontenta. È la sindrome del reality forse, l’idea che si possa parlare di tutto da tutti i punti di vista; o la figura del comunicatore che prende piede e lo mette mica solo in due scarpe, no, lo mette in una calzoleria. Abbiamo Guccini che scrive libri - l’ultimo è pure interessante - e va in classifica, Edo Bennato che parla con competenza di storiografia risorgimentale filoborbonica - viva il Re con la famiglia, per carità -, Fiorella M’annoia che si confronta con quelli di Farefuturo; De Gregori che parla con il peso del saggio posato, posati anche gli strumenti, vedi la stanchissima reunion con Dalla, che suona pochissimo il clarinetto ma in compenso fa il regista teatrale, anche lui ha un secondo mestiere. E poi ci sono gli Mtv days in questi giorni grazie ai quali veniamo a sapere da Paola Turci che la democrazia è a rischio, da Samuele Bersani che l’Italia è a casa (non solo quella calcistica). Piero Pelù e Ghigo Renzulli parlano nell’aula magna dell’Università Statale - più che università è multiversità, ma questo è un altro discorso. E insomma a tutti costoro viene da ripetere la massima citata all’inizio: «La fate una canzone, v’ammazzino?». Grazie.

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Grande spettacolo

per Henze e Mishima nesca il Preludio iniziale, dove - come in una sintesi «morale» dell’intera opera s’incontrano i nuclei motivici principali), ma organico spesso ridotto a pochi sparsi timbri (fenomenale il clima creato dal quintetto d’archi), quando non a uno soltanto (i sax o il pianoforte, alter ego strumentale, nel suo insistere su scale da studio tecnico per principianti, del tredicenne Noboru). Molto buona la compagnia di canto; il fisico non proprio adolescenziale del tenore Murakami (Noburu) è tutto quanto le si può onestamente rimproverare. Efficaci, musicali e affiatati, tutti; perfettamente fusi, eppure altrettanto perfettamente delineati nella loro identità vocale, i cinque teppistelli (i baritoni Kwang e Hoon, il controtenore Asawa, il basso Taihwan e il citato Murakami, che disbriga con buoni risultati una parte ovviamente più estesa e onerosa); colori, spessori ed emissioni di pretta marca operistica per la coppia degli «amorosi», Fusako e Ryuji, al secolo il soprano JiHye Son e il baritono Carlo Kang: alle prese, l’una, con lunghe frasi legate verso l’acuto (stupendo l’involo cantabile del suo monologo verso la fine dell’opera, coronato da una cadenza vir-

tuosistica con tanto di violino concertante), l’altro con un declamato asciutto e severo che volentieri si coagula in disegni simmetrici da romanza o da canzonetta (certo apprese nei suoi viaggi per mare). Ma il pezzo forte della proposta spoletina è stato lo spettacolo: nella scena sobria suggestiva semovente di Gianni Quaranta, negli abiti semplici ed eleganti di Maurizio Galante (un unico rimprovero: Fusako, in visita alla nave di Ryuji, dovrebbe vestire all’europea non in kimono, sennò le contraddizioni socio-culturali del Giappone moderno restano in ombra), nelle luci eccezionali per forza emotiva e suggestione spaziale di AJ Weissbard, la regia senza fronzoli di Giorgio Ferrara racconta molto bene la vicenda e, soprattutto, mette in risalto, con pochi indovinatissimi accorgimenti, la dimensione onirica e simbolica della musica, quei concertati vocali in cui tutti i sentimenti si sospendono e confondono (amore, ira, paura, violenza), quelle cellule minime bloccate in ostinati ipnotici, rituali, scopertamente orientali, quelle complesse stratificazioni di ritmi diversi che accrescono l’angoscia dell’attesa, la cieca brutalità dell’esito fatale.

Da Rollins alla Gambarini, parola d’ordine: autenticità nizierà a Perugia, venerdì prossimo 9 luglio, la consueta kermesse di Umbria Jazz, giunta ormai alla trentacinquesima edizione. Sette lustri che hanno visto avvicendarsi nella piazze, nelle strade, nei giardini, nei ristoranti, negli alberghi, nei teatri e nelle sale da concerto umbre, un numero impressionante di grandi e a volte meno grandi musicisti di tutto il mondo. Anche quest’anno, in dieci giorni, potranno essere ascoltati ben sessanta complessi, orchestre, jazz band - quella di Guido Pistocchi con Gianni Sanjust - e brass band più o meno equamente divisi fra tutti i generi musicali che da qualche anno a questa parte godono della protezione di quella magica parola che è «jazz», sotto il cui ombrello trovano ormai riparo pop singer, rapper, rocker e fortunatamente anche musicisti di jazz. Quest’anno la rappresentanza americana di jazz

I

di Adriano Mazzoletti comprende Sonny Rollins, Roy Hargrove, Tom Harrell che si esibirà in duo con Dado Moroni, Marcus Miller nella rivisitazione di Tutu, uno dei capolavori di Miles Davis, il grande vibrafonista Bobby Hutcherson con Cedar Walton, Chick Corea con Roy Haynes e Kenny Garrett, Hilary Kole Pat Metheny, Herbie ospite Hancock, Tony Bena Umbria Jazz nett, i Manhattan Transfer e Ron Carter con Mulgrew Miller. Non mancheranno i cantanti fra cui la bellissima Hilary Kole, ma anche Allan Harris e Mitch

Woods. Ma su tutti emergeranno Tony Bennett e Roberta Gambarini che, per coloro che non l’avessero ancora ascoltata, è assolutamente necessario un viaggio a Perugia. Roberta si esibirà, malauguratamente, una sola volta, nel pomeriggio di venerdi 16 al Teatro Morlacchi. Chi invece potrà essere ascoltato ogni giorno, accompagnato da Massimo Moriconi, sarà Renato Sellani, uno degli ultimi grandi rappresentanti, con Franco Cerri, del jazz italiano del periodo au-

reo, quando la scena italiana era dominata da musicisti di talento come Nunzio Rotondo, Umberto Cesari, Gianni Basso, Oscar Valdambrini. Nell’edizione di quest’anno non è stato dimenticato il centenario della nascita di Django Reinhardt. A ricordarlo saranno diversi musicisti devoti al grande chitarrista manouche, David Reinhardt, Florin Niculescu e soprattutto Christian Escoudé. Non mancheranno infine musicisti importanti della scena italiana ed europea, Fabrizio Bozzo e Rosario Bonaccorso, Rosario Giuliani, Gabriele Mirabassi, Pietro Tonolo, Giovanni Tommaso con il suo nuovo gruppo Apogeo, Enrico Rava, Giovanni Guidi oltre al clarinettista e sassofonista francese Louis Sclavis e all’eccellente pianista svedese Bobo Stenson. Quasi la metà del festival dedicata al jazz autentico.Tutto ciò è davvero consolante.


arti Mostre

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o so che dovrei scrivere d’un’altra mostra e anzi lo stavo già facendo, ma il ricordo che ho negli occhi delle cose viste a Parigi, per beccare ancora la coda della mostra, d’incredibile successo, dedicata da Jean Clair al tema, non soltanto dostoevskiano, di Delitto e Castigo (la colpa e la sua condanna, il male e la redenzione: da David a Degas, da Hugo a Duchamp, da Goya a Sickert, ecc. ecc.), mi consiglia, quasi mi costringe, a cambiar direzione e a riflettere più in grande (come le mostre all’estero spesso permettono. Talvolta anche se non sono riuscite. Ma l’errore è più intrigante, meno sciatto). Parlare di arte non è soltanto vedere una mostra e resocontarla, subito: conta anche riflettere, prendere idee, subire suggestioni (che ti fanno deviare, evviva, dal retto cammino). Per esempio, s’è detto di Jean Clair, ma Jean Clair è pur sempre Jean Clair. E invece ecco che, in Francia, incominciano a moltiplicarsi, ahimé, delle mostre solo velleitarie, che mescolano un po’ d’arte, un po’ di scienza, un po’di psicoanalisi, però senza il rigore e la sapienza che è del pur sempre ostacolato e travisato Clair. Credo d’avere un po’ visto, di possedere una minima capacità, ormai, di decifrazione delle mostre, ma quella che ho visto al Quay Branly, La fabrique des images (pur con magnifici pezzi etnici, che bastavano a sé, invece di unirsi a forzate miscele, per suggerire chissà quali tesi) proprio non l’ho capita. Forse ero stanco, dopo tante belle mostre, e non avevo troppa voglia di se-

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Archeologia

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Lo spirito del tempo nella mania del mix di Marco Vallora

guire le pappardelle sulle pareti, che discettavano di animismo versus oggettività (termini assai discutibili). Ma che assurdo contrapporre per esempio delle magnifiche maschere o dei feticci primitivi, a dei ritratti fiamminghi o a delle nature morte olandesi, quando non tornano le date, i contrasti sono troppo dissonanti, le tesi riescono forzate e vanamente meccaniche. Però è proprio la tendenza contemporanea, ormai più che trasparente: siccome i prestiti sono sempre più difficili, le idee vere mancano, tutto è già stato proposto e soprattutto si è convinti che il contemporaneo «tiri da matti» e trascini le folle, ecco che ormai non si fa altro che fare punturine di botulino smart, miscelando tutto a gogò, e pazienza se i risultati sono peregrini. Caravaggio s’incontra con l’altro scapestrato Bacon, Kelly dialoga chissà come con Ingres (così in Italia) ma anche, a Parigi, Buren si affianca a Giacometti (boh, se ci sono due più lontani!) e non mancano altre combinazioni choc, ma solo per gli allocchi. Anche Brera ficca Fontana e Burri là dove hanno ben poco senso (basta un titolo di giornale italiano a dire tutto: «Brera coi tagli al passato, diventa un Sacco più bella»: questo il livello. Ma su questo possiamo anche tornare). Nessuno si spaventa delle connessioni tra antico e moderno (se non fa decoratorino da rivistina cheap), figurarsi. Se sono motivate (lo abbiamo fatto anche noi); ma quest’ansia di mettere il contemporaneo ovunque, e quest’uso saprofita delle non-opere ultime, che approfittano di luoghi prestigiosi, per darsi un tono, ma soprattutto per «essere» qualcosa, non si

tollera davvero più. Avevamo deciso di parlare di cose belle, da Parigi e ce ne sono (delle più varie: da una mostra sulla storia dei bottoni a una sull’uso solo maschile dei monili e degli ornamenti nei rituali tribali; da una discutibilissima mostra di Kitano, il regista giapponese - che fa anche il pittore (!) e il comico da strapazzo - accanto a una rigorosa sul Tao, dal rapporto architettura/ massoneria, a quello tra musica e arte in Chopin, sino alla caricaturale testa a pera di Luigi Filippo e potremmo continuare all’infinito, ma in effetti sono gli indici negativi che allarmano. La nullità assoluta, in una mostra «giovane» e alla moda, al Palais de Tokyo, con titolo furbetto Dinasty. Ma anche molta presunzione francese (come sempre, la mostra è firmata Rastellini) in una rassegna discontinua dedicata a Munch, alla Pinacothèque, che ha addirittura la presunzione d’intitolarsi L’anti-Urlo. Ma dai, dì sinceramente che l’Urlo non te lo avrebbero dato mai e non vantarti del fatto, che mostri «solo opere di collezione privata!», ridicolo! Certo, ci son cose interessanti, e mai viste, ma basta questo a disegnare l’ipotesi d’un-altro Munch alternativo e a presentarlo, rappresentativamente, al pubblico francese? Se funzionano benissimo le kermesse sui mostri sacri intramontabili, da Aragon (e i suoi amici artisti) al soprano Règine Crespin, da Proust a Chopin, da Yves Saint-Laurent (con le sue vanitas elegantissime) a Monet, padre dell’astrazione, è proprio il senso di morte e di disfacimento a dominare, in questi frangenti. Che siano le vanitas, gli scacchi clamorosi, le ambizioni mancate. Castigo senza delitto.

Il porto “ricavato” di Pandotéira, dispensatrice di beni li antichi greci la chiamavano Pandotéira, colei che dispensa ogni bene. Così bella e dalla natura aspra continuamente sferzata dai venti, l’isola di Ventotene occupava una posizione strategica nel panorama delle antiche rotte marittime e commerciali, trovandosi al crocevia di rotte che dal mar Egeo, e quindi dai porti d’Oriente, raggiungevano le coste italiche per spingersi poi fino alle coste Ispaniche e alle Colonne d’Ercole. L’ambiente poco ospitale e la quasi inaccessibilità delle sue coste non hanno mai reso possibile nell’antichità una facile permanenza dell’uomo su quest’isola che non offriva le condizioni necessarie affinché una comunità vi si potesse installare. È solo con i romani che abbiamo la presenza di un primo insediamento stabile. Nel 29 a.C. Augusto comincia l’opera di acquisizione patrimoniale delle isole dell’arcipelago pontino (di cui fa parte Ventotene) e le testimonianze archeologiche e le fonti antiche ci dicono che per il 2 a.C. tutti gli interventi strutturali (porto, cisterne, condotte idriche, ville), per far sì che l’isola di Ventotene diventasse fruibile, furono realizzati, tanto da essere già in grado di ospitare personalità della famiglia imperiale relegate qui in esilio. La prima di esse e forse la più nota fu la stessa figlia di Augusto, Giulia, accusata di aver violato la lex Iulia sulla moralizzazione pubblica e che re-

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di Ludovico Bitetti sterà al confino per cinque anni. Tra le varie costruzioni lasciate dai romani sull’isola, quella che colpisce per tecnica ingegneristica e soluzione logistica è senza dubbio il porto, la realizzazione del quale è stata possibile grazie alla friabilità del tufo che ha agevolato non poco il lavoro delle maestranze. Senza ombra di dubbio, la soluzione più appropriata e adatta alle caratteristiche del luogo, un porto letteralmente «ricavato». È stato calcolato che per realizzare l’opera portuaria sia stato necessario asportare tufo pari a circa 60 mila metri cubi scavando fino a raggiungere una profondità di 3,50 m. sotto il livello del mare e

questo avrebbe certamente permesso l’utilizzo del porto da parte di navi con un tonnellaggio di media portata, e in caso di necessità poteva anche ospitare imbarcazioni lunghe fino a 30-35 metri. La forma del porto è allungata e si estende da sud verso nord parallelamente alla linea di costa; presenta l’imboccatura a est ma per entrare all’interno del bacino l’imbarcazione deve virare di 90° verso nord. Anche se questa disposizione rendeva difficoltose le operazioni di ingresso nel porto, permetteva l’accesso anche in condizioni di tempo cattivo lasciando il bacino interno pressoché con acque calme. Mentre il molo orientale era adibito solamente all’ormeggio delle imbarcazioni, diversa funzione spettava al molo occidentale. Da questa parte del porto sono stati localizzati e scavati in fase di progettazione da parte dei romani tutti gli ambienti legati ai magazzini per lo scarico delle merci, scanditi da un portico di pilastri con pianta quadrangolare ricavati anche’essi nel tufo. Condotte per l’approvvigionamento di acqua dolce giungevano dalle cisterne dell’isola per rifornire le imbarcazioni di passaggio. È la zona adibita allo scarico e imbarco delle merci, la zona «viva» del porto che è stata fortemente alterata nel tempo in epoca moderna. Nonostante l’incuria dell’uomo e le colate di cemento, il porto conserva ancora quel fascino antico che lo rende una perla agli occhi dei visitatori.


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agdalena Carmen Frida Kahlo Calderòn nacque il 6 luglio del 1907 a Coyoacan, ai bordi di Città del Messico. Il padre «era molto interessante, i suoi gesti, la sua andatura erano alquanto eleganti. Era tranquillo, lavoratore, coraggioso…». Wilhelm Kahlo originario di Baden-Baden, di professione fotografo, aveva deciso dopo la morte della mamma di trasferirsi in Messico dove sposò in seconde nozze Matilde Calderòn, «una donna piccola, bruna, aveva bellissimi occhi e una bocca molto sottile… Molto simpatica, attiva, intelligente. Non sapeva né leggere né scrivere; sapeva solo contare i soldi». Quando la coppia decise di costruire in calle Londres 126 la casa Azul, mai avrebbe immaginato che nel giro di qualche decennio sarebbe divenuta un museo intitolato alla figlia. Frida - riconducibile al tedesco fride cioè pace - era la loro terzogenita, dopo Maria Luisa e Margarita frutto del primo letto di Wilhelm e cresciute in convento. Era maggiore solo a Cristina, a cui era legatissima e con cui condivise praticamente tutto, marito compreso. La madre di Frida era una donna molto semplice, di grande religiosità e di salute precaria, per cui la bimba venne allattata da una nutrice indiana. Questo dettaglio sarà motivo di grande orgoglio per la futura pittrice che farà del suo legame con la terra natia il leit-motiv della sua arte, tanto da decidere di contraffare

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fibbiato per via della malformazione, Frida torna a essere una campionessa di monellerie. Si fortifica con la molta attività sportiva: gioca a calcio, nuota, fa lotta libera, tira di boxe, ma la gambina resta più esile e le burle non cessano. Allora decide di giocare la carta della stravaganza: eccentrica, trasgressiva ed esagerata, spesso vestita in abiti maschili; insomma un tipo. Dopo un primo periodo di formazione presso il Colegio Alemàn, la scuola tedesca in Messico, il suo amore per la medicina le fa tentare l’iscrizione alla Escuela Nacional Preparatoria, la migliore del Paese. A due passi dallo Zòcalo, la piazza principale di Città del Messico, riuscire a entrarci era già assicurarsi una qualità d’istruzione determinante per un futuro vincente. Frida in più fu una delle prime 35 allieve femmine ammesse su un totale di duemila studenti. Ovvio che una struttura così importante raccogliesse la miglior gioventù dell’epoca in un brulicare di energie nuove pronte a prendere il sopravvento per restituire il Messico ai messicani. Qui s’innamorerà di Alejandro Gòmez Arias, il fascinoso capo carismatico dei Cachuchas, il gruppo di intellettuali di cui Frida fa parte e in cui muovono i primi passi i futuri leader della sinistra messicana. Andrè Iduarte, compagno di ventura e direttore negli anni Cinquanta dell’Istituto delle Belle Arti, ben descrive l’atmosfera del momento: «Fu un’epoca di verità, di fede, di pas-

Dopo aver scelto di studiare medicina, si dedicò alla pittura perché “annoiata, lì a letto, dentro un busto di gesso”. Con un talento ammirato anche da Picasso l’anno della nascita per sovrapporlo a quello della rivoluzione Zapatista.

Frieda - così le piaceva esser chiamata in un primo tempo per onorare le origini paterne - era una bimba impetuosa, travolgente nella sua sete di vita, gioiosissima e immediatamente autosufficiente. Malgrado le precarie condizioni economiche in cui versa la famiglia (la caduta del regime dittatoriale di Diaz fece perdere al padre l’incarico di primo fotografo ufficiale del patrimonio culturale nazionale messicano), la prima infanzia scorre a meraviglia: Frida ha energia da vendere, tutto la innamora, la incanta, fa scorta di felicità. Oltre a imparare a cucire, cucinare, occuparsi della casa, partecipa all’economia domestica con piccoli lavoretti. Tutto questo fino al compimento del sesto anno quando la poliomielite che la colpisce alla gamba destra l’assoggetta all’isolamento prima e allo sberleffo da parte dei coetanei poi, tanto da indurla a tentare di camuffare la gambetta atrofizzata con molti strati di calze. Nonostante la complicità del padre di cui da sempre è la prediletta, la bimba si chiuderà in se stessa al punto da crearsi un’amica immaginaria che la consolerà nei lunghi mesi di forzato isolamento. «Avevo alitato sul vetro della finestra della mia camera di allora e con un dito avevo disegnato una porta... dove la mia amica immaginaria stava aspettando». Lasciatasi alle spalle pata de palo, gamba di legno, il nomignolo che le avevano afanno III - numero 26 - pagina VIII

sione, di nobiltà, di progresso, di aria celestiale e di acciaio molto terrestre. Siamo stati fortunati, insieme a Frida, siamo stati fortunati, noi giovani, ragazzi, bambini della mia generazione: la nostra vitalità ha coinciso con quella del Messico; noi siamo cresciuti spiritualmente mentre il paese cresceva in moralità».

Il 17 settembre del 1925, la diciottenne Frida e Alejandro, al termine delle lezioni, salgono sull’autobus in direzione Coyoacan. Frida ha però smarrito un ombrellino. Decidono di scendere a cercarlo e prendere l’autobus successivo. All’altezza del mercato di San Juan il deragliamento di un tram darà luogo all’incidente in cui perderà la schiena e la verginità. Il corrimano del tram si spezza e la trapassa da parte a parte. Alejandro viene sbalzato fuori, lei denudata dall’urto e ricoperta dalla polvere d’oro fuoriuscita dal pacco di un imbianchino tanto da far gridare agli astanti «la bailarina, la bailarina!». Da qui in avanti la sua vita è consegnata al dolore. Sopravvissuta per caso, diviene schiava dei busti e quindi quasi sempre allettata. La sua camera diventa il suo spazio vitale, il baldacchino del letto, su cui poggia lo scheletro in cartapesta della Llorona - la morte -, il suo cielo. Quella che nasce per caso, per inedia, risulterà a breve essere lo scopo della sua esistenza: «Non mi era mai capitato di pensare alla pittura fino a quando, nel 1926, mi ritrovai a letto per via di un incidente automobilistico. Ero maledettamente annoiata, lì a

il paginone

Un’incontenibile gioia di vivere, pur costretta per quarantuno anni a un’esistenza spesa a lottare contro i tormenti della poliomelite prima e di un incidente devastante poi. È il tratto fondante della personalità e dell’opera della pittrice messicana a cui è dedicata in questi giorni a Berlino un’importante retrospettiva

Sulle ali

Alcuni dipinti di Frida Kahlo: sopra, “Senza speranza” 1945; in alto, sopra il titolo, “Autoritratto con collana di spine” 1940 e “La colonna spezzata” 1944. Accanto, Frida con il marito Diego Rivera e in una foto di Nickolas Muray. A sinistra l’ingresso della casa-museo Azul


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Esposto l’ultimo dipinto inedito ino al 9 agosto è possibile visitare a Berlino, al Martin-GropiusBau (Niederkirchnerstr. 7), la più completa retrospettiva dedicata a Frida Kahlo, con più di 120 dipinti e disegni provenienti da collezioni private messicane, musei nordamericani e altre importanti collezioni Usa. Il pezzo forte della mostra è l’ultima opera dell’artista, fino a oggi mai esposta e i circa 70 disegni, gran parte dei quali mai pubblicati fin’ora, che rivelano alcuni lati inediti di Frida (nelle metamorfosi dei suoi paesaggi disegnati, la Kahlo rivela fantasie sessuali e lati umoristici con giochi di parole e immagini). La mostra è accompagnata da un’esposizione di fotografie di proprietà della famiglia e degli amici, curata dalla fotografa Cristina Kahlo, pronipote di Frida.

F

di Frida di Enrica Rosso letto dentro a un busto di gesso, così decisi di fare qualcosa. Rubai degli oli a mio padre e, visto che non potevo stare seduta, mia madre mi fece confezionare una tavolozza speciale. Fu così che cominciai a dipingere». Un filtro indispensabile tra lo scorrere delle interminabili giornate passate in posizione orizzontale e un’energia vitale che solo lo spazio bianco delle tele può in parte accogliere e mutare in visioni: «Dipingo la mia realtà. La sola cosa che so è che dipingo perché ne ho bisogno e dipingo tutto quello che mi passa per la testa, senza prendere in considerazione nient’altro». Le sue composizioni risultano essere tanto personali da sembrare surreali, ma lei surrealista non ci si sentiva: «Surrealismo è la magica sorpresa di trovare un leone nell’armadio dove, invece, eri sicuro di trovare delle camicie!». Fortemente influenzata dallo stile dei retablos, gli ex-voto tradizionali, troverà nell’assenza di prospettive e nella perizia dell’esecuzione la sua cifra stilistica. Dei suoi quasi duecento autoritratti, spesso di pic-

cole dimensioni, colpisce la totale inespressività e al contempo magnetica forza dello sguardo che buca la tela per incontrare quello di chi guarda in un reciproco mettersi a nudo.

Il muralista Diego Rivera, all’epoca già una star, incarnava le sue due fondamentali ragioni di vita: la pittura e l’impegno politico. Fu Frida a decidere che lo voleva, fu lei a cercarlo e corteggiarlo. Il signor Kahlo gli affidò la figlia confidando al Maestro: «È un diavolo». E Rivera di contro: «Lo so». Lei lo ripagò donandogli tutta se stessa come si evince da questo stralcio di poesia a lui dedicata: «Nella saliva/ nella carta/ nell’eclisse./ In tutte le linee/ in tutti i colori/ in tutti i boccali/ nel mio petto/ fuori, dentro/ nel calamaio/ nella difficoltà a scrivere/ nello stupore dei miei occhi/ nelle ultime lune del sole/ (il sole non ha lune) in tutto» (da Frida Kahlo - Lettere appassionate, Abscondita 2002). Sposatisi nel ’29, formeranno una coppia chiacchieratissima per vari motivi, a co-

minciare dalle differenze fisiche. Pantagruelico e gran godurioso lui, minuscola e dotata di volontà ferrea lei. La loro casa sarà punto di riferimento dell’intellighenzia internazionale di quegli anni. Le lunghe permanenze all’estero iniziate per seguire l’adorato Rivera, la porteranno a vivere a San Francisco, Detroit, New York città che testimonierà la sua prima personale - e Parigi, e metteranno a dura prova il loro matrimonio: lei non condivide l’entusiasmo di Diego per quel mondo di Gringos così poco attenti al tessuto sociale del Paese: «Sono noiosi e le loro facce sembrano panini crudi».

In quegli anni Frida dovrà fare i conti con l’impossibilità di diventare madre attraverso il lutto di tre aborti. Troppo egoico Diego, sempre a caccia di gonnelle, troppo fragile Frida per sopportarlo, divorzieranno nel ‘39 per risposarsi l’anno seguente, dopo la frequentazione di numerosi amanti da parte di entrambi. Da anni costretta sulla sedia a rotelle - «spesso sono disperata, in un modo indescrivibile. E tuttavia ho ancora voglia di vivere» -, porta la sua croce con incredibile dignità. In questi anni affronterà sette operazioni alla colonna vertebrale, più numerose amputazioni parziali al piede che non riusciranno a scalfire il suo fascino esotico e la sua trascinate joie de vivre. Nel frattempo i dolori diverranno coì atroci da farla passare da un ottimistico «a che mi servono i piedi, se ho ali per volare?», iscritto in calce a un disegno del ’53 e ispirato all’amputazione della gamba destra

netliaco. La sera prima, con un certo anticipo, aveva offerto a Diego il suo ultimo regalo per un anniversario di nozze mai onorato, il venticinquesimo: «Sento che presto ti lascerò», gli aveva detto.

Neppure il suo funerale fu cosa da poco. La bara fu esposta per le esequie nell’atrio del Palacio de Bellas Artes, sotto la responsabilità dell’antico compagno di scuola Iduarte, ma durante la veglia funebre venne coperta da una bandiera del partito comunista trasformando il feretro della pittrice in un’icona politica con tanto di guardia d’onore. Dopo l’ultimo commiato che vide esponenti di spicco dell’arte e della politica unirsi nel saluto affettuoso ai tanti amici e ai molti cittadini accorsi, fu infine consegnata sotto una pioggia battente al forno crematorio. Le sue ceneri, amorevolmente raccolte in un panno rosso dallo stesso Diego, totalmente sconvolto, riposano ora all’interno di un’anfora precolombiana a forma di busto di donna nella camera da letto di Frida nella casa Azul. Quella stessa casa in cui è nata e vissuta per gran parte della sua vita, quella in cui si è, in ultimo, arresa alla morte e che Rivera, un anno dopo, ha donato in eredità al popolo messicano così com’era, offrendo a tutti la possibilità di incontrare ancora Frida e il suo mondo, ammirando la sua collezione d’arte con le opere di Paul Klee,Tanguy, Duchamp, Josè Maria,Velasco e Orozco; la raccolta di oggetti folkloristici e di arte precolombiana, le bambole, i costumi che indossava, i gioielli, i busti ornati di piume e lustrini, i libri, le tante dichiarazio-

L’assenza di prospettive e la perizia dell’esecuzione sono la sua cifra stilistica. Nei suoi autoritratti colpisce la forza dello sguardo che buca la tela e si mette a nudo fino al ginocchio, ad «attendo con gioia la mia dipartita… e spero di non tornare mai più», frase conclusiva del diario iniziato nel ’42; praticamente un epitaffio. Dopo un primo momento di totale scoramento seguito all’operazione era riuscita ad abbandonare il letto e a percorrere brevi tratti con l’ausilio di una protesi, ma era esausta. Ciò non di meno a pochi mesi dalla sua morte si recò in ambulanza all’inaugurazione della sua prima mostra monografica in Messico nella cui galleria era stato allestito un giaciglio per ospitarla. Dopo un’esistenza spesa a lottare contro i tormenti che l’accompagnavano incessantemente da quarantuno anni, all’alba del 13 luglio del ’54 si spense stroncata da un’embolia polmonare. Erano trascorsi sette giorni dal suo quarantasettesimo ge-

ni d’amore al marito, le lettere agli amici importanti sparsi per il mondo, le foto che la ritraggono nella sua imperiosa bellezza. E soprattutto l’atelier di Frida, proteso verso il cortile interno in cui campeggia, di fronte alla sedia a rotelle, il cavalletto con il ritratto incompiuto di Stalin a testimoniare come negli ultimi tempi fosse in balia dei troppi antidolorifici e delle droghe assunte per sfuggire alle morse di uno strazio insopportabile. Le linee grossolane rivelano una mano malferma, non più padrona del pennello, incapace di tracciare quei tratti da miniaturista che avevano contraddistinto le sue opere e che tanto avevano inorgoglito Diego alla lettura della missiva inviatagli da Picasso: «Né Derain, né tu, né io siamo capaci di dipingere una testa come quelle di Frida Kahlo».


Narrativa

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libri Massimo Gramellini L’ULTIMA RIGA DELLE FAVOLE Longanesi, 249 pagine, 16,60 euro

assimo Gramellini è un giornalista di lungo corso che ha da poco esordito nella forma romanzo. Un passaggio importante e, a detta dell’autore, agognato perché trovano spazio, all’interno dei contesti narrativi, scritture e temi lontani dal lavoro di routine del cronista. Forse anche il titolo del romanzo, L’ultima riga delle favole, cerca di sfuggire alle maglie del giornalismo quotidiano dedicato per lo più alla notizia e ai fatti del giorno. Il romanzo infatti staccata la spina dall’attualità è un testo allegorico e per tanto da leggere sulla spinta di un altro mondo e dei possibili suggerimenti interpretativi che ne vengono. Il testo, volutamente piano sul versante espressivo, è la storia di un giovane protagonista,Tomas, in perenne ricerca della felicità dove per felicità si intenda l’amore. In questo testo, ordinato quasi per cantiche, ha grande valore il prologo dove, canonicamente, lo scrittore riassume i fatti a cominciare dall’incipit: «C’era una volta - e c’è ancora - un’anima curiosa che vagava per gli spazi infiniti senza trovare un amore dentro il quale tuffarsi». Amore è la prima parola che fonda l’alfabeto del romanzo, seguono dolore - «invece siete finiti in gabbia, e le sue sbarre le ha costruite il dolore» - e anima - «lei è la tua anima… se non te ne innamori, non amerai mai niente». A seguire quindi la storia dove l’alfabeto si struttura in plot: Tomas, cuore solitario e deluso, è allergico all’amore al punto che ai primi segni di innamoramento viene colto da una strana reazione psicosomatica e comincia a starnutire. La reazione corporea così evidente lo spinge a fuggire ogni possibile relazione e a fuggire le donne fino al giorno in cui incontra Arianna: «Arianna era esattamente il genere di ragazza di cui avrebbe potuto innamorarsi. Doveva darsela a gambe, prima che fosse troppo tardi». E poiché a fuggire stavolta è Arianna, Tomas si innamora. La sera in cui Arianna si sottrae al primo incontro Tomas va al mare, qui mentre è sul pontile ad ascoltare il mare e a pensare malinconicamente alla sua vita, finisce in acqua a causa di un alterco con un

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La favola di Tomas alle Terme dell’anima La grande letteratura del viaggio tra contemporaneità e allegoria nell’esordio narrativo del giornalista Massimo Gramellini

Autostorie

di Maria Pia Ammirati

gruppo di balordi. In mare (ambigua la caduta che fa pensare alla morte per acqua) comincia l’avventura favolosa di Tomas; accolto in uno spazio chiamato le Terme dell’anima, il protagonista subisce ogni sorta di trattamento benefico, una vera e propria disincrostazione dello spirito fatta a opera di figure (qui l’allegoria) che ricordano infermiere, massaggiatrici, medici. Il luogo del benessere, come tanti a cui il moderno turismo ci ha abituati, è uno spazio neutro che allude di volta in volta a mondi letterari contaminati con la moderna cultura del viaggio. L’avventura di Tomas, nelle terme che curano l’anima, nei passaggi forzati da una vasca dell’Io a una vasca dell’Agape, da un salotto delle tisane a una palestra, è un’avventura di volta in volta concreta e culturale, allude agli spazi della nostra vita contemporanea (i famosi nonluoghi teorizzati da Marc Augé) con un cenno di ironia, e pensa alla grande tradizione del viaggio da Ulisse a Dante.Tomas viaggia per guarire dalla fastidiosa allergia all’amore, Tomas rinasce dopo un viaggio in un altro mondo, un mondo immateriale fatto di sogni. Quando Tomas esce dalle terme, grazie all’invisibile filo d’Arianna che lo conduce fuori a ricercare la realtà, il racconto si srotola verso la fine e la fine, come occhieggia il titolo, sembrerebbe mettersi per il verso giusto, tranne che, sorpresa, Gramellini lascia aperta l’ultima riga e non sappiamo se la ricerca d’amore - «un pensiero senza amore è un veliero senza vento» - sarà proprio il finale che Tomas si aspetta e con lui il lettore. Un romanzo di grande disincanto e di gioco, capace di praticare una sana e robusta forma di autoironia verso simboli e mode dei nostri tempi. A margine ricordiamo che il testo, come ogni degna favola che si rispetti, è illustrato dai disegni di Paolo d’Altan (nella foto).

Se Marinetti salisse su una Lamborghini...

a quando ne è stata avviata la produzione, all’automobile è stata naturalmente accostata l’idea della velocità. Un binomio celebrato, del resto, con aulici toni nel Manifesto del Futurismo pubblicato da Le Figaro a Parigi il 20 febbraio 1909. Che poneva al quarto posto, tra gli undici capisaldi del movimento artistico e letterario fondato da Filippo Tommaso Marinetti, il ruolo dell’automobile: «Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi, un automobile ruggente è più bello della Vittoria di Samotracia». Automobile che, come si può notare nel testo di Marinetti, a inizio Novecento tende più al genere maschile che a quello femminile. Un’ambiguità che porterà, anni dopo, Gabriele D’Annunzio a risolvere «la questione del sesso già dibattuta: l’Automobile è femminile». Ma, al di là delle questioni grammaticali e nonostante la vagheggiata velocità, alla data del Manifesto gli «automobili» erano più simili a traballanti

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di Paolo Malagodi carrozze semoventi, che a veicoli dotati di grandi capacità velocistiche nonché di accettabile tenuta di strada. L’enfasi del fondatore del Futurismo troverebbe invece oggi piena soddisfazione se, per esempio, a un redivivo Marinetti fosse concesso di provare una Lamborghini; marca che, forse più di ogni altra, sa interpretare «il sogno della velocità. La sana follia di chi vede oltre i limiti e rifiuta i compromessi, la voglia di credere nelle imprese apparentemente impossibili, nelle sfide di rottura, nell’anticonvenzionale. È la creatività tipicamente italiana, nata dal sogno visionario di Ferruccio Lamborghini nel 1963, in un capannone situato nel cuore dell’Emilia, tra lunghi rettilinei che sembravano pensati per spingere le auto alla massima velocità possibile». Così argomenta Stephan Winkelmann - presidente e amministratore delegato della casa emiliana - nell’introdurre una elegante edizione (Automobili Lamborghini, Mondadori Electa, 180 pagine di grande forma-

Un volume dedicato al marchio (ora sotto egida tedesca) che esalta la bellezza della velocità

to, 80,00 euro) curata dal giornalista Decio Carugati, in un testo corredato di raffinate immagini fotografiche rese ancor più spettacolari dalle pagine a specchio, incentrato sulla lettura di auto che «palesano nel dettato morfologico, nel design della forma-funzione, l’eccellenza di una tecnologia senza paragone, per una sportiva senza compromessi». Assunto ribadito dallo stesso Winkelmann, per il quale «le nostre vetture sono più estreme rispetto a quelle della diretta concorrenza, si possono considerare nicchia nella nicchia. Oggi noi vendiamo più di duemila supercar all’anno e sono oggetti che non si giustificano per l’utilità del servizio, bensì mezzi atti unicamente a procurare infinite emozioni». Concetti che, pur a distanza di un secolo, appaiono la perfetta traduzione di quella marinettiana «bellezza della velocità» che ogni possessore di Lamborghini ha il privilegio di assaporare. In una élitaria produzione che, dal luglio 1998, è passata sotto l’egida - tramite la propria divisione Audi - della tedesca Volkswagen che si rende, nondimeno, garante dell’identità tutta italiana di un marchio che rappresenta un toro «nell’atto di caricare, simbolo di veemente, prorompente dinamica».


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poesia

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L’altra voce di Sanesi di Francesco Napoli erché portare a termine/ quando nessuno, in giardino,/ ha mai visto il mio glicine concluso./ Se allora fosse il fiore il fallimento,/ questa, diremmo, è la bellezza del mondo,/ la sua esperienza visibile». Non ha molti versi memorabili la poesia italiana contemporanea, forse perché non esistono più circuiti letterari e non viene trasmessa in modo adeguato o forse, ancora, perché priva di reale adesione alla società. Ma questi versi di Senza data di Roberto Sanesi che concludono la raccolta ultima pubblicata in vita, Il primo giorno di primavera (2000), conservano un carico di memorabilità quasi profetica - di lì a qualche mese l’autore sarebbe prematuramente scomparso - e un’incisività espressiva degna dei vertici poetici italiani per quell’immagine ossimorica tra l’inconcludenza dell’agire dell’uomo, l’incapacità di finalizzare dello stesso che appare la sua vera finalità, bella come un semplice fiore. Oggi che un’antologia curata da Renzo Cremante (Poesie 1957-2000, Oscar Mondadori, 346 pagine,15,00 euro) riconduce a un pubblico più ampio, spero, la figura poetica, ma non solo, di Roberto Sanesi (1930-2000), appare opportuno riconsiderare l’azione di questo intellettuale a massima vocazione europea, forse uno dei più votati all’attenzione verso quanto sul piano culturale, e artistico più in generale, avveniva Oltralpe.

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Sanesi nasce a Milano nel 1930, città «in cui coltivare l’incognito, il riserbo, l’isolamento, per garantire e difendere la mia identità» scriverà nel 1969, da una famiglia d’origine toscana. Nel capoluogo lombardo cresce e si forma nel segno di un precocissimo interesse letterario nato da un aneddotico incontro con un soldato della V Armata americana durante la seconda guerra mondiale che gli regala un volumetto di Collected Poems di Eliot. «Altrettanto liberi e precoci i primi passi di una presenza subito animosa e militante nella vita culturale milanese e nel mondo della carta stampata», scrive Cremante nella sua Introduzione. È la Milano anni Cinquanta, quella del magistero universitario di Antonio Banfi e del Piccolo di Paolo Grassi e Giorgio Strehler e di un esordio per Sanesi, nel 1952, sotto la stella di Enzo Paci, con un saggio proprio sull’amatissimo Eliot, apparso su aut aut, rivista cardine a Milano in quegli anni, e dal titolo Un’altra voce. Sì, proprio «un’altra voce» andava cercando Sanesi allora nella ferma convinzione che fosse giunta l’ora di portare in Italia la cul-

il club di calliope

A ENZO PACI, IN GIARDINO La relazione del tempo con il disordine, con le forme del giardino, con le figure possibili, estese, sospese fra la betulla e il muro, equivalenti come coloro che passano e non dicono precisamente il nome, o la funzione, ma solo la loro identità, mentre sfuggono, e tuttavia così limpide in qualche direzione che noi non conosciamo. ? in questo spazio la loro presenza terribile, insieme, essendo qui e più tardi, alba e tramonto, ciò che saranno con l’ombra, necessarie senza forma al disegno, antecedenti, aperte, all’aria che le assenta al nostro sguardo, e solo oltrepassandosi finite. Immer Wieder insiste questa voce che mi segue, la tua che mi precede lungo i sentieri del glicine che si attorciglia.

tura anglosassone del Novecento. Molto è dovuto da Sanesi a Enzo Paci, come lui stesso riconoscerà in alcuni versi lanciati sull’onda del comunemente amato Rilke: «Immer Wieder/ insiste questa voce che mi segue, la tua/ che mi precede lungo i sentieri del glicine/ che si attorciglia». Basterebbe dunque scorrere l’opera critica di Sanesi, le traduzioni operate magistralmente nel medesimo lasso di tempo, per rendersi conto di dove andava a mirare l’intellettuale toscolombardo e cosa ha prodotto la sua azione: monografie su Dylan Thomas, Byron, Eliot e Poe; traduzioni degli stessi Thomas, Eliot, della poesia inglese de dopoguerra e, in modo più ampio, dei poeti inglesi del Novecento. E poi ancora: Yeats, i metafisici inglesi del Seicento, Aiken, Hart Crane, allargandosi così verso gli anglofoni d’Oltreoceano. A lui guardano con grande interesse alcuni poeti all’esordio negli anni Settanta, da De Angelis a Giancarlo Pontiggia a Mussapi, consapevoli che impugnare con Sanesi il vessillo della poesia anglofona significava portare avanti una battaglia d’avanguardia culturale contro l’avanguardia letteraria dominante la scena italiana anni Settanta. Sanesi girerà un bel po’: negli Stati Uniti è invitato a Harvard come resident poet, ma le relazioni e i viaggi in mezzo mondo - Europa e Stati Uniti, certo, ma anche Messico e Africa settentrionale - diventano occasioni irripetibili di scambi intellettuali produttivi per chi, come lui, faceva dell’apertura ai nuovi orizzonti ragione di fondamento per la propria crescita culturale. Eppure Milano resterà il suo «luogo», una presenza fondamentale soprattutto nella poesia. Ci ha lavorato anche come critico d’arte, un’attività con lo conduce ad accompagnare il percorso di pittori e scultori come Del Pezzo e Fontana,Arnaldo e Giò Pomodoro,Tadini e Scanavino; conosce pregi e difetti della città, imparando così a decifrarla in profondità eppure ricavandone per lo più frammenti e

Roberto Sanesi da Il primo giorno di primavera

citazioni, collage e ritagli che costituiscono un’autentica geografia della mente e dello spirito. Una mappa viva nella sua lirica, tracciata, come ebbe a scrivere su Poesia nel 1992, «non per cancellazione o comunque rifiuto dell’essere stato lì, proprio in quel luogo, e nemmeno, meno che mai, per rimpianto, o nostalgia, per esempio di periferie dove pure sono cresciuto».

Lo immagino allora ancora andare in giro per la sua città, piazzarsi «vicino alla darsena,/ mentre l’autunno inclina verso il rosso e il bruno», o «pedinare», per adottare un verbo caro alla sua poetica, il movimento di un pensiero che segue con apprensione l’incendio di Milano, ancora utilizzando un’espressione a lui molto cara, sempre meno attenta all’arte e alla cultura, in altre parole, all’uomo. Perché così stava scivolando, ieri come oggi, la sua Milano, un tempo molto «simile a un osservatorio, a un armadio, a un retrobottega da rigattiere, piena di cassetti miracolosi da frugare, con voci che arrivano a intermittenza» come scrisse in prosa, quando è scomparsa del tutto la «vecchia città brumosa di lampioni illuministici/ dove tre quattro amici con Stendhal in tasca/ si credono/ giustificati e protetti» nell’adottare una «lingua espressivo-comunicativa che varia da soggetto/ a soggetto ma resta culturale», come scrisse in versi.

EPIGRAMMI SULLE RADICI DELL’ANSIA in libreria

APOPTOSI

di Loretto Rafanelli

Per scomparire qui nel bel cortile coloniale di Zapopan bardato per la festa del Natale di poinsezie in maschera da abete stringi più forte il respiro nelle braccia lascia anche gli occhi e solo il nome in coda all’elenco, storpiato come sempre, risponderà all’appello. Isabella Panfido

obydick è una piccola casa editrice di Faenza che pubblica da un trentennio, con serietà e rigore, libri di letteratura italiana e straniera. Nella collana di poesia «Le nuvole», che annovera nomi di sicuro valore, ora esce il poeta Klaus Merz, nato nel 1945 in Svizzera, nel Cantone tedesco, con la raccolta antologica Le radici dell’ansia (96 pagine, 11,00 euro, a cura di Riccarda Novello, prefazione di Fabio Pusterla). Merz, noto soprattutto a livello internazionale per il romanzo Jacob dorme, usa scrivere testi brevi, lapidari, quasi degli epigrammi. Egli segue un percorso di interrogazione e di conoscenza attraverso una sospesa e rarefatta scrittura, che più appare lontana più tende ad avvicinarsi al vero significato delle cose, alla «realtà muta», all’esperienza umana, pur non potendo la poesia «nominare fino in fondo la vita». Merz è un poeta dalle intense illuminazioni e dalle singolari meravigliate immagini, dalle scoppiettanti accensioni e dagli intelligenti sguardi sul nostro mondo.

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di Pier Mario Fasanotti nutile fare della morale o lanciare appelli: l’estate televisiva è quella dei ritorni. Si fruga nel magazzino e si offre ai telespettatori quel che hanno già visto. Mi piacerebbe sapere, da chi ha dimestichezza con i numeri e le statistiche, quante volte abbiamo già visto Camillo e don Peppone, immancabile perla nel mare grigio dello schermo. Il ragionamento «ma tanto chi è che vede la tv d’estate?» è traballante.Tuttavia il «chiuso per ferie» è diventata legge di mercato, quindi non rovesciabile. Questa la premessa per essere invece contento di un ritorno, quello del Commissario Navarro in prima serata su Rete 4. È tornato il protagonista, il bravissimo Roger Hanin che ci accompagna in una Parigi che, occorre dirlo, è in assoluta sintonia con storie poliziesche e umane. Da questo punto di vista la capitale francese - anche per le letture che ognuno di noi ha o può aver fatto - è teatro privilegiato. Non è New York, ma non è nemmeno Milano, è dunque quell’Europa nella quale tutto sommato molti vorrebbero abitare. Navarro guida la stessa squadra di detective, ma le storie che ci propone sono nuove, come l’annunciatrice di Rete 4 tiene a sottolineare pronunciando due parole davvero poco estive: «prima visione». Non ci sono grandi novità per quanto riguarda il dipanarsi della trama, salvo che la serie ha robusti agganci con i temi più scottanti dell’oggi. Per esempio, nell’episodio intitolato Autobus notturno i responsabili di uno stupro e di un’aggressione mortale sono da ricercare tra i reclutati (tutti palestratissimi e ottusi) di un’agenzia privata di vigilantes. Fossimo in Italia, parleremmo di ronde: e per fortuna il nostro sistema giuridico le ha fermate, dopo le infiammate leghiste e lo sbandieramento ad arte dell’emergenza sicurezza. Navarro assomiglia un poco a Maigret. Per la stazza fisica, per la bonarietà, per il senso della legge e dello Stato. Anni fa lo avevamo lasciato alle prese

I

danza

Televisione Il fascino di Parigi si addice a Navarro MobyDICK

spettacoli DVD

L’ULTIMO VIAGGIO DELL’OLANDESE VOLANTE n vecchio riparte per la Cina con una cinepresa, a novant’anni, con un progetto folle: catturare il vento». La didascalia che apre l’ultimo film che il grande Joris Ivens realizzò insieme all’amata Loridan, dice tutto di una carriera straordinaria. A metà tra il documentario e la metafisica, Io e il vento è il canto del cigno di un uomo giunto alla fine dei suoi giorni. Dopo giorni trascorsi a filmare guerre e rivoluzioni, il vecchio olandese volante siede paziente ad attendere il vento ai confini di un mondo quasi sconosciuto. Se in paradiso ci fosse una sala d’attesa, vorremmo che fosse ispirata a questo film.

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PERSONAGGI

L’X-FACTOR SECONDO LUCIANO Nel clima da “chiuso per ferie” spicca la nuova serie del commissario interpretato da Roger Hanin con la figlia che frequentava le scuole medie. Lui, vedovo, si occupava teneramente di lei, l’aiutava a fare i compiti, si preoccupava della propria assenza per il lavoro senza orari fissi. Era lei la sua vera emergenza. Oggi la ragazza studia Legge all’università e questo dà modo alla coppia di dialogare sulle norme e sulla polizia. Un po’ leziosamente, questo è vero. Tanti altri piccoli difetti ci sono (anche ambientali: nel

giro di un’ora si passa dalla neve al sole primaverile), resta tuttavia in piedi quello che è il baricentro della detective-story, ossia la figura a tutto tondo del protagonista. Il telespettatore familiarizza, si affeziona a una persona onesta, e a tutti coloro che le girano attorno, ossia gli ispettori. La composizione della «squadra» riflette l’amalgama sociale della Francia: non importa il colore della pelle o il cognome slavo o italiano, quel che ha peso sono la funzione, il grado, la professionalità. In questo senso Parigi, che non abbandona mai le sue gradevolissime radici storico-comportamentali, diventa internazionale. Noi italiani fatichiamo tanto su questa strada.

ll’Olimpico di Roma parte il 9 luglio il nuovo tour di Ligabue, ma la vera notizia legata alla rockstar emiliana è che le tradizionali tappe in giro per l’Italia saranno caratterizzate dalla grande novità di un talent show abbinato. Oltre a essere aperta dagli emergenti Rio (Fabio Mora e Marco Ligabue), ogni data vedrà anche l’esibizione di alcuni artisti emergenti scelti grazie a un apposito contest. L’iniziativa, promossa da LigaChannel, sfrutterà la tecnologia offerta dal web per quanto riguarda la fase eliminatoria. I partecipanti saranno infatti giudicati dal pubblico di internet che valuterà i brani su YouTube.

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di Francesco Lo Dico

Il Sahara dei Tuareg tra fusion e tradizione

ei prossimi giorni, chi si recherà al Parco delle Cascine di Firenze vi troverà un angolo di deserto; a disegnarlo non saranno dune e sabbia, ma suoni e danze, che mostreranno al pubblico italiano un aspetto ancora poco noto della più famosa area desertica del pianeta, il Sahara. Dall’8 al 10 luglio, musicisti e danzatori del Mali, del Niger e della Costa d’Avorio si incontreranno all’interno dell’Anfiteatro delle Cascine con alcuni artisti europei e statunitensi per il Festival au Desèrt - Presenze d’Africa, una tregiorni di musica, danza e dibattiti sulla condizione dei Tuareg, popolazione nomade dell’area sudsahariana. Gli incontri di Firenze sono una costola del più ampio Festival au Desért che si svolge a Essakane, a due ore da Timbuktu, i primi di gennaio. Nato nel 2001, il festival africano è, allo stesso tempo, una rilettura dei Takoubelt e Temakannit,

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di Diana Del Monte periodici incontri della tradizione nomade, e una celebrazione de La Flamme de la Paix, una gigantesca cerimonia nata nel 1996 per ricordare la fine della crisi ivoriana. Inizialmente nomade anch’esso, il Festival negli ultimi anni ha trovato la sua collocazione a Essakane e, da questo luogo, promuove tanto lo sviluppo locale quanto l’incontro con gli altri popoli, ricercando una fusione tra tradizione e modernità. L’edizione fiorentina si aprirà

giovedì 8 luglio alle 18,00 con una Sabar, una danza senegalese che prende il nome dall’omonimo strumento a percussione, generalmente danzata durante le cerimonie e i festeggiamenti, per poi proseguire con una Wekele, danza del popolo Senufo, e chiudersi, domenica notte, con una serie di concerti. Già da diversi anni, il nomadismo dei Tuareg ha raggiunto una dimensione internazionale, scoprendo il potere e la forza della notorietà attraverso il mondo della world music. Il mito del guerriero con fucile e chitarra evocato dai Tinariwen, un gruppo di combattenti passati alla carriera musicale grazie a un impresario francese, ha affascinato la vecchia Europa, sempre alla ricerca di rinnovati esotismi, e convinto le giovani generazioni berbere a percorrere la via musicale per affermare le loro idee. Negli ultimi dieci anni i festi-

val dell’area sahariana si sono, dunque, moltiplicati, accompagnati dalle danze tradizionali africane che ne stanno seguendo il medesimo destino. Da una parte, dunque, un mercato ancora affamato di «espressioni identitarie» che dà voce a una manciata di giovani artisti desiderosi sia di affrancarsi dalle ben note condizioni a cui sono destinati in patria, sia di denunciare la situazione della loro gente, relegata a un preoccupante isolamento. Dall’altra una mediatizzazione che, com’è già avvenuto per i Tamil, rischia di condurre a una lettura superficiale o a un fraintendimento del fenomeno. Nel frattempo, non possiamo che assistere a questo mutamento culturale che ha già segnato le tradizioni berbere; i giovani Tuareg, infatti, hanno scoperto la paternità artistica individuale, trasformando musica e danza da espressioni culturali collettive a momenti di affermazione personale. Adattamento e fusione, dunque, si mescolano energicamente alla tradizione in questo fenomeno artistico che, durante gli appuntamenti fiorentini, saprà sicuramente affascinare gli amanti del genere.


Cinema

MobyDICK

isbeth Salander non disse nulla per dieci minuti. Di colpo i suoi occhi erano diventati neri.“Ancora un uomo che odia le donne”mormorò alla fine». La citazione è tratta dal terzo e ultimo capitolo della saga di Stieg Larsson, La regina dei castelli di carta. Dopo Uomini che odiano le donne e La ragazza che giocava con il fuoco, ritorna l’eroina dark dello scrittore svedese, tatuaggi total body e cresta in testa, che assieme al giornalista Mikael Blomkvist è una dei due incontrastati protagonisti della trilogia Millenium, dal nome della rivista attorno alle cui inchieste si muove l’intero castello narrativo dell’epopea scandinava. Tempo d’estate, tempo di andare al cinema per recuperare quello che è sfuggito per distrazione o mancanza di tempo. Caricare il dvd dei primi due capitoli nel lettore, aggiornarsi sulla storia dei personaggi e infilarsi in sala. Troveremo Lisbeth e Zalachenko, il padre della nostra eroina, nonché cattivo per eccellenza della storia, fianco a fianco nei loro letti d’ospedale, dopo il durissimo scontro che li ha contrapposti alla fine della Ragazza che giocava con il fuoco. Lo sceneggiatore aveva l’esigenza di snellire le oltre 800 pagine di cui consta il romanzo. Due i filoni narrativi prescelti: la lotta di Lisbeth contro il padre, che ha tentato di ucciderla più volte («sembra di essere in una tragedia greca», commenta en passant un personaggio secondario), e il processo che la protagonista deve affrontare per aver tentato a sua volta di ucciderlo. Il regista, Daniel Alfredson, predilige nettamente questo secondo spunto. E allora via i misteri da risolvere, gli enigmi da svelare. Il regista elimina quell’aura di macabro mistero e di azione che aveva caratterizzato i primi due capitoli, per costruire un legal thriller ben dosato, che non priva lo spettatore di quella sana dose di suspance che occorre per arrivare fino in fondo senza sbadigliare. La violenza subita dalle donne, si sa, è la sottotraccia con la quale Larsson ha innervato tutta la sua epopea. Nella civilissima Svezia, si calcola che almeno una donna su due è stata oggetto di percosse in famiglia. E se i primi due capitoli puntavano alla descrizione psicologico-emotiva del drammatico fenomeno, La regina dei castelli di carta si sofferma sulla diffidenza con la quale la gente comune accoglie il coraggioso coming out di una donna che, come Lisbeth, è stata più volte violata nell’intimo. Tutto il processo, vero nocciolo narrativo del film, ruota, in fin dei conti, intorno alla difficoltà con la quale la società fa i conti con fatti così gravi, e al pervicace tentativo di rimozione che si effettua fin quando non si viene inchiodati dalla tragica evidenza dei fatti. Un finale scontato e la non eccelsa qualità del prodotto cinematografico, la cui confezione lascia un po’ a desiderare, probabilmente non conferirà al film svedese quell’entusiastico 4 su 5 tributato dai lettori italiani al libro di Larsson sull’Internet Books Store.

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Un Principe di Persia contro i neocons di Pietro Salvatori

Compiace la Hollywood antibushiana il pur divertente film tratto dal videogioco-mito di due generazioni. È un buon legal-thriller con giusta dose di suspance l’ultimo capitolo della saga di Stieg Larsson. Armarsi invece di pomodori se si è proprio tentati dalla visione di “Sex and the City 2”

Se per “La regina dei castelli di carta” l’entusiasmo non è assicurato, per Sarah Jessica Parker e amiche sono pronti i pomodori. Eccole infatti di ritorno le eroine di Sex and the City, protagoniste di un nuovo lungometraggio, il secondo. Dunque una bufala la voce che voleva il primo film quale degna e definitiva conclusione della serie tv che gli sceneggiatori avevano malignamente lasciato in sospeso. O forse no, considerata la totale inutile vacuità di questa seconda pellicola, già ampiamente massacrata dalla critica, e che piace solo ai (alle) fans incalliti, visto il voto del sito Imdb, riferimento dei cinefili di tutto il mondo, che la inchioda su un misero 3,8 su 10. Un’operazione commerciale vuota e inutile.Tra borsette e paillettes, la speranza è che i produttori non decidano di replicare una terza volta. Terza uscita già avvenuta invece per Prince of Persia. Dopo il videogioco che spopolò trent’anni fa e la sua riedizione in

3d, il mito di due generazioni arriva sul grande schermo, con il volto di Jake Gyllenhall. Un plot che richiama vagamente quello del Gladiatore. Dastan è figlio adottivo del Re, ucciso dal suo primogenito per sete di potere. La colpa, manco a dirlo, ricadrà sul trovatello, costretto alla fuga. Una splendida e altera principessa, un pugnale magico completano lo scoppiettante quadro. Cammelli, sabbia e inseguimenti fanno da sfondo. Altro passo, altro ritmo rispetto alle ansie giudiziarie di Larsson e alle imbolsite vamp di Sex and the City. D’altronde il film è targato Walt Disney, una griffe che sa come divertire il proprio pubblico, e Mike Newell, regista che non aveva sfigurato alla guida di Harry Potter e il calice di fuoco. Per sostenere l’altissimo ritmo degli inseguimenti tra mercati e dune del deserto, i produttori hanno ingaggiato anche Ben Kingsley (a dire il vero un po’sotto tono rispetto al suo solito, probabilmente prigioniero di un ruolo che non gli si addice del tutto), e Alfred Molina, che da solo conferisce una sana dose di ironia all’intera storia. Due spalle d’eccezione per un Gyllenhall innamorato della macchina da presa, alla quale regala moine e sorrisetti beffardi in gran quantità invece che preoccuparsi di recitare. Non manca la chiave di lettura politica. La cor-

te dei persiani invade infatti una città avvalendosi di prove false: armi ovviamente, non di distruzione di massa, ma pur sempre armi. Il saggio e anziano re rimprovera i suoi generali: «Ci voleva più di qualche indizio per occupare. Questo non piacerà ai nostri alleati». Manco a dirlo, il re verrà tolto di mezzo di lì a poco per dare libero spazio all’invasione dei «cammellieri illetterati» che profanano luoghi che profumano di storia. Più espliciti di così, si potevano solamente inserire nel testo le parole Bush, Iraq, Colin Powell e Nato. Al netto del suo tributo alla Hollywood che rifugge le dottrine neocons come se fossero predoni del deserto, il film diverte, senza pretese, come è ovvio che sia. Le analogie con l’ultimo capitolo della saga di Indiana Jones sono moltissime e rendono l’idea di cosa ci si debba aspettare al cinema. Con due nota bene: 1) Gyllenhall non è LaBeuf, il giovane e talentuoso protagonista dell’ultimo capitolo di Indy; 2) occhio al finale, perché l’essenziale è invisibile agli occhi.


i misteri dell’universo

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on è vero, come tutti hanno scritto, che è la prima volta che fantascienza, Ufo, extraterresti e simili siano approdati fra i banchi dei sempre più temuti esami di maturità. Nessuno se lo ricorda, ma un caso simile si verificò nientemeno che venti anni fa, quando nel luglio 1991 per gli alunni dei licei scientifici e degli istituti tecnici venne proposta la seguente traccia: «La fantascienza nella letteratura, nel cinema e nella televisione. L’interesse per l’immaginario fantascientifico è solo ricerca o svago? O vuol dire invece che l’uomo non può appagarsi solo di una realtà sperimentale e verificabile?». I commenti, specie quello di Giulio Giorello, filosofo della scienza, furono positivi. Ma una rondine non fa primavera e nel corso di quattro decenni, che io mi ricordi, il coraggioso exploit rimase tale e i burocrati del Ministero della Pubblica Istruzione preferirono mantenersi nell’ovvio e lo scontato, ancorché racconti di fantascienza siano sempre più presenti nelle antologie scolastiche, ne esistano parecchie specificatamente dedicate alle storie di science fiction con schede, formulari ecc. e quindi l’argomento per i ragazzi delle superiori non risulti essere certo una novità. Anzi, a ridosso nel 1991 ne erano uscite parecchie e di questo tema (fantasia/fantascienza/ immaginario) se ne discuteva parecchio sulle riviste dedicate alla didattica e alla letteratura giovanile: il che forse influenzò gli esperi di Viale Trastevere (dove ha sede, a Roma, il Ministero della Pubblica Istruzione, ndr).

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Purtroppo però, come detto, una rondine non fece primavera, le speranze andarono deluse e non si insistette su quella via innovativa riproponendo l’argomento, sotto varie angolazioni è chiaro, in qualcuno degli anni successivi. È invece dovuta passare quasi una generazione e solo adesso, giugno 2010, è ricomparsa una traccia non certo uguale, ma simile, e sempre per l’ambito tecnicoscientifico, vale a dire: «Siamo soli? Il candidato deve sviluppare il tema sulla possibile esistenza di vita oltre il pianeta Terra. L’argomento interessa sia la scienza che la filosofia e può essere supportato con considerazioni e citazioni di Steven J. Dick, Vita nel cosmo. Esistono gli extraterrestri?; Pippo Battaglia-Walter Ferreri, C’è vita nell’Universo? La scienza e la ricerca di altre civiltà; Immanuel Kant, Critica della ragione pura; Stephen Hawking, L’universo in un guscio di noce; Paul C.W. Davies, Siamo soli? Implicazioni filosofiche della scoperta della vita extraterrestre». L’argomento

MobyDICK

ai confini della realtà

Oggetti volanti

sui banchi di scuola di Gianfranco de Turris si può pensare che sia esclusivamente scientifico-filosofico, ma visto che nei brani allegati degli autori cui la traccia fa riferimento, Hawking cita addirittura Star Trek (scritto però Star Treck: se non c’è almeno un errore nelle tracce al Ministero non sono contenti…), pare ovvio che le divagazioni possono essere diverse. Strano piuttosto che non ci fosse un estratto di Giordano Bruno sulla pluralità dei mondi… C’era però addirittura un brano di Kant che diceva. «Sarei pronto a scommettere i miei averi che almeno in uno dei pianeti che vediamo vi sono abitanti». In teoria un ragazzo di oggi, letteralmente bombardato da questo tema sotto forma essenzialmente di film, non avrebbe avuto grandi difficoltà a scrivervi su: e a quanto pare questa traccia

all’interno di queste di altri sistemi solari e anche, di recente, di pianeti simil-terrestri, non si sono sottratti alla speculazioni in merito, peraltro anticipate come spesso avviene dalla fantascienza del secondo dopoguerra con il famoso A Case of Conscience di James Blish (racconto 1953, romanzo 1959). Ad esempio: eventuali extraterrestri sono nati o non sono nati con il peccato originale? Hanno avuto una rivelazione? Hanno conosciuto un messia? E se così non fosse sarebbero da evangelizzare, o da lasciare nella loro «innocenza»? E se adorassero invece altre divinità? Tutti questi problemi avrebbero potuto benissimo entrare nella speculazione proposta dalla traccia ministeriale. La semplificazione giornalistica l’ha subito presentata come il «tema sugli Ufo». Pur se tra gli au-

A vent’anni di distanza, la science fiction torna a essere argomento di un tema di maturità ai licei scientifici e agli istituti tecnici. Da Luciano di Samosata a “Star Trek”, ecco come si sarebbe potuta svolgere la prova d’italiano è stata la terza fra quelle prescelte (19 per cento). Però ovviamente non ci si poteva limitare a un discorsetto fantascientifico, ma prendere lo spunto sia dagli estratti scientifici sia da quelli filosofici per ampliare il panorama. La possibile esistenza di altri essere viventi nel cosmo risale già ai filosofi greci e i teologi dopo l’accettazione del sistema eliocentrico e la scoperta di altre costellazioni e

tori di riferimento non ci sono ufologi ma fisici, astronomi e divulgatori scientifici, la semplificazione non è del tutto errata. Infatti, se esistono civiltà extraterrestri ci si deve porre il problema se sono o non sono più avanti scientificamente e tecnologicamente di noi, e se lo sono se potrebbero o non potrebbero venire a esplorare la Terra, e se sì perché, e se no perché. Come si vede, gli «oggetti

volanti non identificati» in un certo qual modo rientrano in questo argomento. E il tema - o come oggi caspita si chiama avrebbe potuto svolgersi su diversi livelli o piani, avendo le conoscenze e la duttilità necessarie.

In sostanza, la traccia implicava apparentemente solo due livelli: il primo è sicuramente quello strettamente scientifico: a che punto siamo con la ricerca della vita sugli altri pianeti? Ed essa è possibile, sia sotto la forma che conosciamo sia sotto altre possibili forme?; il secondo è filosofico: la speculazione filosofica ritiene possibile l’esistenza di altri esseri viventi nell’universo? Ma ce ne potevano essere almeno altri tre cui si è accennato: quello religioso, sulle ipotesi teologiche in merito; quello ufologico, sulla questione della esistenza dei «dischi volanti» e simili; e quello fantascientifico: come la narrativa avveniristica ha immaginato la questione. E qui si poteva partire addirittura dal romanzo greco con Luciano di Samosata che nella sua Storia vera descrive gli abitanti della Luna, per arrivare - appunto - alle molteplici razze galattiche descritte in Star Trek, specie nelle sue ultimissime serie, Deep Space Nie,Voyager e Enterprise. Insomma, da scriverci un’enciclopedia. Lo avessero proposto a me un tema del genere agli esami di maturità! Ma ormai (quasi) cinquant’anni fa a Viale Trastevere non la pensavano come oggi…


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