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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

ALLA GUERRA DEI ROBOT “Transformers 2 La vendetta del caduto”

di Anselma Dell’Olio Hollywood raccontano che i due registi virilistici quasi coetanei che ta e movimenti di macchina, e si ride pure. Nessuno dei due film ha un attimo Con giravano in contemporanea i due più strombazzati popcorn modi noia. Persino chi non è appassionato del genere, non sentirà l’esigenza vie dell’estate, Michael Bay (Transformers: la vendetta del di guardare spesso l’orologio. Il ritmo è troppo veloce, ci sono sem“Terminator pre molte cose da guardare sullo schermo, e si arriva alla fine caduto) e McG (Terminator Salvation) si sono sfidati a Salvation” è il più magari esausti ma non sfiniti dalla noia. Terminator Salvadimostrare chi aveva più testosterone come confezionatostrombazzato “popcorn movie” re di film d’azione a colpi di minacciosi e pensanti rotion, uscito qualche settimana prima, è più drammatidell’estate. Giocato sui toni della commedia bot giganti, esplosioni a go-go e battaglie assorco, e secondo alcuni (non noi) si prende troppo danti. Dopo aver letto un’ampia scelta di resul serio. Gli ultimi superstiti della Terra sono irriverente, narra della lotta tra i cattivi Decepticon censioni, non c’è gara: la palma va al califoruniti in una Resistenza (sic) contro il Male, i e i buoni Autobot. Tra inseguimenti, niano Bay (Pearl Harbour, Armageddon, TransforTerminator artificiali che si sono impadroniti del esplosioni e donne sinuose, pianeta, l’hanno ridotto in un panorama di rovine e ora mers l) che batte Joseph McGinty Nichol, di Kalamazoo, vogliono eliminare gli ultimi esseri umani ancora capaci di Michigan, alias McG (Charlie’s Angels e moltissime serie te150 minuti combatterli. Coinvolge anche se non si capiscono tutti i dettagli. levisive). Non perché Transformers 2 sia più bello in assoluto di di divertimento Terminator Salvation, ma perché è più lungo, 150 minuti contro 115, e continua a pagina 2 molto, molto più rumoroso, con più effetti speciali, location, montaggi-saet-

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Normalità di Sergio Belardinelli Demis Roussos, ritorno al passato di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Il canto di Catullo e la grandezza dell’umiltà di Roberto Mussapi

Giovanna la pazza, la regina tradita di Gabriella Mecucci Le punture di Ceronetti di Pier Mario Fasanotti

Ritratti visionari dallo zoo di Pinocchio di Claudia Conforti


alla guerra dei

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segue dalla prima

tato senza successo di iscriversi a ottime scuole di cinema come la University of Southern California, e ha finito per frequentare la Art Center College of Design a Pasadena. Grazie a un amico è entrato nel mondo discografico e ha cominciato a dirigere videoclip per Tina Turner, Meat Loaf, Aerosmith, Lionel Richie e altri. È anche stato un premiato regista di spot pubblicitari per la Coca Cola, Nike, Reebok, Budweiser e altre aziende, prima di passare al cinema. Il suo stile rapido e spettacolare è tipico di chi si è fatto le ossa con gli spot.

Transformers è più semplicemente la guerra di robot cattivi (Decepticon) contro robot buoni (Autobot) alleati dei terrestri. Sia i buoni sia i cattivi hanno la capacità di trasformare tutto quello che di metallo gli capita a tiro in macchine da guerra semoventi e mastodontiche. La vera differenza è che il nuovo film, sulla lotta di tutti i buoni (umani e Autobot) per sconfiggere i terribili Decepticon, prima che riescano nel loro intento di annientare la Terra attraverso la distruzione del sole, è giocato sui toni della commedia irriverente. Ci sono Autobot nanetti che sono i pagliacci delle scene di battaglia, come lo sono in generale i genitori di Sam Witwicky (Shia Leboeuf) e in particolare la mamma (Julie White) che hanno il compito di fare i clown umani, con un aiutino da John Turturro, che arriva a circa metà film nel ruolo di Simmons, ex agente dell’agenzia governativa Sector Seven, smantellata e sostituita da una nuova di nome Nest (il cui capo somiglia a Donald Rumsfeld). Si è riciclato - pardon, trasformato - in salumiere e macellaio nella bottega della mamma, ma è richiamato in servizio dal protagonista. Mikaela (Megan Fox) è la stangona di turno, esperta di motori e motociclette e atletica compagna d’armi del fidanzato Sam. All’inizio del film il giovane è in partenza per l’università, ma presto deve abbandonare gli studi per salvare il mondo: Mikaela, meccanico e proletaria, sarà al suo fianco.

La lotta tra Autobot e Decepticon c’era già nel primo film, e anche l’automobile gialla Bumblebee, che in realtà è un Autobot protettore che alla bisogna si trasforma (parola d’ordine) in robot guerriero. Nel film precedente era stato mandato come scudiero di Sam dal capo degli Autobot Optimus Primus, un enorme camion articolato che si trasforma quando serve in macchina da guerra, morto nel primo film. (Sarà questo il senso del sottotitolo La vendetta del caduto, l’annuncio del ritorno di Optimus; ma non ci mettiamo la mano sul fuoco). Se la trama resta oscura, è normale. Certi punti del plot restano misteriosi anche per chi ha seguito attentamente, prendendo appunti e senza subire colpi di sonno. Solo gli appassionati ne capiscono tutti gli infiniti e complicati sviluppi. Ma non è affatto necessario afferrare ogni dettaglio per godersi il film. (Per approfondire ci sono i fumetti d’origine e la serie animata per la tv da consultare). È già un’impresa distinguere i buoni dai cattivi: tutti gli androidi che si trasformano in guerrieri sono enormi ammassi di ferraglia. Forse sono più appuntiti e scudiscianti i Decepticon, e più tondeggianti e bonari gli Autobot, ma sono sempre gigantesche accozzaglie di pezzi di ricambio ed elettrodomestici schiacciati insieme, che si dimenano e si menano tra loro furiosamente. Il regista dei primi due Transformers farà anche il terzo prossimo venturo. Nato nel 1965 e cresciuto a Los Angeles, Michael Benjamin Bay è figlio adottivo di madre psichiatra infantile e libraia e di padre professionista. È cresciuto in ambiente agiato e con i figli della Hollywood che conta. Dopo la laurea a Wesleyan University, ha ten-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

robot

Il film-debutto Bad Boys con Will Smith è stato un trionfo al botteghino per i produttori Jerry Bruckheimer, Don Simpson e Columbia Pictures. Subito dopo ha girato The Rock, un action movie sull’isola penitenziaria di Alcatraz con Sean Connery e Nicholas Cage. Armageddon, (disaster movie su una squadra di trivellatori di pozzi di petrolio, incaricati di penetrare un asteroide e farlo esplodere con una bomba prima che distrugga la Terra) ha accumulato quattro candidature tecniche agli Oscar e 650 milioni di dollari al box office. Solo nel 2001 con Pearl Harbour, Bay ha tentato un film con ambizioni drammatiche. Pur essendo lodato per la professionalità del prodotto, e accumulando altre quattro nomination tecniche all’Oscar (ha vinto per il montaggio del sonoro nel 2002), la critica l’ha massacrato per le inesattezze storiche, i dialoghi elementari e i personaggi di cartapesta. Dopo il flop di L’isola, un film di fantascienza con Ewan MacGregor e Scarlett Johansson, e Bad Boys II, sempre con Will Smith, è avvenuto il sodalizio con Steven Spielberg per il primo Transformers. Il successo è stato istantaneo, di critica e d’incassi, e le previsioni per la nuova puntata sono rosee, tanto da rendere inevitabile la terza. Bay è il primo a dire che i suoi film sono fatti per maschi adolescenti. «E allora… è un reato?» si difende. Sa di essere odiato da molti critici, e dice di seguire il consiglio del produttore Jerry Bruckheimer di non leggerli mai. Dopo che hanno scritto «Michael Bay è il diavolo», gli ha telefonato Quentin Tarantino per consolarlo: «Tranquillo, di me hanno scritto che sono l’Anticristo». In un’intervista, Bay ha detto: «Dicono che ho rovinato il cinema, che il mio stile di montaggio è troppo veloce. Ma è bello avere uno stile, e adesso l’hanno adottato in tanti. Poi ci si può anche reinventare. I miei film hanno fatto molti soldi in giro per il mondo: più di due miliardi di dollari. Sono tanti biglietti venduti». Questa fine di stagione cinematografica è un’autentica cuccagna, con molti film di qualità da vedere: Cadillac Records, Settimo cielo, Amori e disastri, Garage, Il mondo di Horten, Coco avant Chanel, e film da rotolarsi come I Iove Radio Rock, La ragazza del mio miglior amico, Una notte da leoni. Ma se i teenager, quelli veri o quello che alberga in voi, hanno voglia di botte da orbi, violenza, inseguimenti all’ultimo respiro, donne sinuose, motori e il fiato sospeso, prendete la confezione formato gigante di popcorn e accomodatevi in poltrona a vedere Transformers, la vendetta del caduto. Due ore e mezzo passeranno in un lampo e il buonumore è assicurato.

TRANSFORMERS LA VENDETTA DEL CADUTO GENERE AZIONE DURATA 147 MINUTI PRODUZIONE USA 2009 DISTRIBUZIONE UNIVERSAL PICTURES REGIA MICHAEL BAY INTERPRETI MEGAN FOX, SHIA LABEOUF, HUGO WEAVING, RAINN WILSON, JOSH DUHAMEL, JOHN TURTURRO

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via di Santa Cornelia, 9 • 00060 Formello (Roma) Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938

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parola chiave

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NORMALITÀ tante l’uso poliziesco e discriminatorio che se ne è fatto nel passato, parlare di «normalità» è diventata oggi una provocazione. Possiamo concedere che si parli ancora del normale battito cardiaco di una persona o del normale decorso di una malattia; ma guai a parlare della normalità di un comportamento, di un’azione, di un’istituzione o della normalità di certi gusti sessuali. Scardinata da qualsiasi ordine naturale delle cose, diciamo pure da un’antropologia, capace di fare i conti con una natura umana universalisticamente intesa, nella cultura odierna la «normalità» può essere accettata al massimo come una convenzione. Normale è ciò che viene considerato tale dalla maggioranza delle persone. Qualsiasi altro discorso rischia di sconfinare in cattiva metafisica. Ieri era normale che venissero bruciati gli eretici, che si andasse a messa la domenica, che le donne non fossero ammesse al voto, che soltanto una coppia eterosessuale potesse formare una famiglia; oggi non lo è più. Non c’è altro da aggiungere. C’è soltanto da prendere atto di una evidenza statistica, la quale ci dice che la nuova «normalità» è caratterizzata ormai dal primato dell’eccezione.Tanto più una cosa è particolare, unica, conforme ai nostri gusti e alle nostre scelte personali, e in questo, appunto, eccezionale, e tanto più essa ci sembra apprezzabile, meritevole di essere perseguita. Fatto salvo il principio che non bisogna invadere lo spazio dell’altro - un principio invero sempre più debole, vista l’indifferenza, il narcisismo e il cinismo che contraddistinguono sempre di più i nostri comportamenti sociali -, qualsiasi azione, qualsiasi stile di vita, diciamo pure, qualsiasi «eccezione» ci appaiono legittimi, quindi «normali». Persino di fronte ai comportamenti più criminosi esitiamo ormai a considerarli «anormali», tanto ci sembra usurato, stantio, esteticamente fastidioso il lessico della normalità.

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Proprio come aveva tragicamente intuito Max Weber e, prima di lui, Hegel, l’irruzione sulla scena del mondo della singola coscienza individuale manda irrimediabilmente in frantumi l’antico ordine, l’antica «totalità etica», diciamo pure l’antica «normalità». La società, come direbbe Bauman, si è fatta «liquida»; tutto è dunque pretesto per esaltare la differenza, la frammentazione, l’effimero, la capacità di adottare una pluralità di ruoli, di fare e disfare a piacimento qualsiasi relazione. La natura umana, si dice, non è altro se non «cultura», scelta, invenzione. Eppure, per quanto in questa affermazione ci sia molto di vero, essa non dice tutta la verità. Senza dubbio, «per natura», l’uomo si eleva al di sopra di sé e della sua stessa natura biologica; è un essere che trascende naturalmente la propria natura. Sta forse in questa trascendenza il vero motivo, tanto caro ai relativisti culturali, che rende difficile la definizione o l’ipostatizzazione di una compiuta «natura» umana. Ma qui sta anche il motivo per cui, nel definire la «normalità» umana, non possiamo prescindere totalmente da ciò che si sottrae per principio alla nostra dispo-

Normale è oggi ciò che viene considerato tale dalla maggioranza delle persone ed è per lo più caratterizzato dal primato dell’eccezione. Ma il vero criterio normativo di tutti i nostri comportamenti non può che costituirsi sulla dignità della persona

Tra natura e cultura di Sergio Belardinelli

I pensieri e le azioni degli uomini non sono mai un semplice riflesso biologico o un correlato della realtà socio-culturale. Proprio in quanto uomini, trascendiamo noi stessi e quindi anche i nostri condizionamenti. Protesi verso una totalità stabile e permanente, fonte di diritti comuni a tutti gli individui... nibilità: appunto la natura, inclusa la naturale, inviolabile dignità di ogni uomo. Per certi versi è come se fossimo passati da una normalità intesa in senso puramente naturalistico, del tutto dimentica dell’elemento culturale, ossia del peso che sulla normalità viene esercitato dalle tradizioni e dalla libertà dell’uomo, a una normalità intesa in senso puramente culturalistico, del tutto dimentica dell’elemento naturale, ossia del fatto che, accanto alla storia, alle tradizioni e alla libertà dell’uomo, anche la natura continua a giocare il suo ruolo fondamentale. Si trat-

ta invece di comprendere che, quando parliamo dell’uomo, il ricorso alla semplice natura biologica è tanto poco naturale, quanto l’allontanamento da essa.

Trattandosi di una natura «vissuta», oltre che «vivente», la natura umana non è riducibile alla natura dei fiori o a quella degli altri animali. Per certi versi si potrebbe dire che il rapporto in cui, nell’uomo, vengono a trovarsi natura e libertà, natura e storia, natura e cultura si manifesta già a questo livello nella sua particolarità. Non si può scindere la libertà dalle

sue condizioni naturali o storico-sociali; allo stesso modo non si può immaginare un approccio alla natura umana che non trovi nella ragione, nella libertà, nella storia (concretamente unite, ma anche irriducibili l’una all’altra e quindi analiticamente separabili) il tramite, attraverso il quale la natura stessa, diciamo così, ci si schiude. Natura e cultura non sono insomma separate da confini netti. Ma non possiamo nemmeno pensare che tali confini siano puramente «culturali», quasi che la natura offra semplicemente un materiale grezzo sul quale esercitare la nostra attività creatrice. Dire dunque che la natura dell’uomo è una natura culturale significa dire che, a differenza degli altri animali, l’uomo non realizza spontaneamente la propria natura, ma lo fa, assumendola come un compito, entro un universo socio-culturale che varia appunto da cultura a cultura. Ciò significa, tra le altre cose, che ogni uomo è, sì, plasmato dall’equipaggiamento genetico col quale viene al mondo e dalla cultura nella quale nasce e vive. Ma i pensieri e le azioni degli uomini non sono mai un semplice riflesso biologico o un semplice correlato della realtà socio-culturale nella quale essi nascono e vivono. Per quanto il nostro equipaggiamento genetico e il mondo nel quale siamo nati rappresentino per noi un destino che ci rende inevitabilmente degli esseri biologicamente, socialmente e culturalmente condizionati, la relazione che instauriamo con i nostri condizionamenti è tuttavia sempre più o meno creativa, proprio perché, in quanto uomini, trascendiamo costantemente noi stessi e quindi anche le condizioni biologiche e socio-culturali della nostra esistenza. Nessun uomo è riducibile a queste.Allo stesso modo nessuna cultura, pur esprimendo una totalità di significato, può arrogarsi il diritto di coprire tutto lo spazio di dicibilità di ciò che è «umano». Significa tutto ciò relativismo? Dobbiamo forse trarne la conclusione che non abbia alcun senso parlare di una «normalità» umana e che l’uomo non sia altro che una costruzione sempre arbitraria di se stesso: «antropo-poiesi», come dicono gli antropologi? Non direi. Anzi, proprio la pluralità delle culture e la consapevolezza che in ogni cultura è comunque l’uomo che si esprime spingono al confronto, sollecitano la ricerca di parametri che impediscano di mettere sullo stesso piano i comportamenti più diversi, poniamo, la pratica dei sacrifici umani e quella della carità. Non è normale far violenza a un innocente; non è normale torturare gli avversari politici; non è normale che un padre o una madre non si prendano cura dei figli; non è normale vivere nella povertà più estrema; e si potrebbe continuare. In una parola: non è normale che si offenda la dignità degli uomini. La quale, lungi dall’essere una semplice «finzione», costituisce il vero criterio normativo di tutti i nostri comportamenti e di tutte le culture. È alla luce della incommensurabile dignità di ciascuno, che possiamo affermare con Benedetto XVI «l’esistenza certa di una natura umana stabile e permanente, fonte di diritti comuni a tutti gli individui, compresi coloro stessi che li negano».


musica Demis Roussos MobyDICK

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cd

ritorno al passato di Stefano Bianchi aneggiare (e ascoltare) con cautela. Pensiero tutt’altro che stupendo, quando mi hanno recapitato il nuovo disco di Demis Roussos confidenzialmente intitolato Demis. Lo ammetto, sono prevenuto. Perché solo a sentirlo nominare, in ordine sparso mi vengono in mente: una montagna d’uomo, la barba ispida da Mangiafuoco, le tuniche over-over-oversize, quella voce da cherubino che a lungo andare non se ne poteva più, le sue canzoni via via più melense. Il greco Artemios Ventouris Roussos, classe 1946, cantante e bassista, is not my cup of tea, come suol dirsi. Lo shock di vedermelo in tivù un sabato sera sì e l’altro pure (erano gli anni di Teatro 10, Canzonissima e varietà cantanti) me lo porto ancora appresso. Gli Aphrodite’s Child, ecco cosa salvo. La band fra progressive rock e folk greco-mediterraneo gestita con maestria dall’omone e da Vangelis Papathanassiou, futuro compositore delle colonne sonore di Blade Runner e Momenti di gloria. A parte un paio di sciagure cantate in italiano nel ‘69 (Lontano dagli occhi di Sergio Endrigo e Quando l’amore diventa poesia di Orietta Berti), c’è un disco che si mangia tutto il resto del loro repertorio (666, hard rock e atmosfere pastorali, uscito nel ’72 a scioglimento già avvenuto) e almeno tre pezzi da favola: Rain And Tears, It’s Five O’Clock e Spring, Summer, Winter And Fall. Detto ciò, dopo aver letto una dichiarazione di Roussos («Gli interpreti della mia generazione, di solito, pubblicano compilation o reincidono i loro successi con qualche giovane cantante alla moda»), paventavo ritornelli da Billionaire infarciti da quel canto in falsetto, oramai screpolato come il Partenone. Sorpresa: la voce è sì scre-

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in libreria

mondo

polata, ma bella tosta. In bilico fra Joe Cocker e Rod Stewart, rinuncia agli insopportabili «birignao» del passato solista per assecondare il mood di September (I’m On My Way) che somiglia non poco a You Can Leave Your Hat On di Randy Newman (songwriter citato, altresì, nel sarcasmo di What They Say). Da qui, si dipanano canzoni tutta sostanza e zero artificio che puntano al mainstream: vedi On My Pillow, corposa ballata dal piglio rock-blues; Hit Me, con quel pizzico di country e un orecchio ai Blues Brothers; la disossata Help Me, per voce e chitarre, che non farebbe una grinza nel repertorio di Johnny Cash; Spoiled Brat, così schiettamente bluesy. Poi, è la black music a farla da padrona. E riesce a cogliermi in contropiede, Demis Roussos, quando in Love Is strizza il rhythm & blues adattandolo al dinamismo di certi musical stile Hair; o quando, fra le pieghe di I’ll Be Home, coglie la più autentica sacralità del gospel. Nell’anno delle celebrazioni di Woodstock, ci va a pennello quest’album sinceramente «passatista». Tanto più se l’ultimo pezzo in scaletta (Who Gives A Fuck), corroborato dal respiro psichedelico di sitar e tablas, rispolvera in un sol colpo la creatività degli Aphrodite’s Child. Demis Roussos, Demis , Cream/Spin-Go!, 17,00 euro

riviste

VINICIO SENZA REQUIE

L’IRRESISTIBILE DISCESA DEL CD

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referisco rimanere un’impressione, preferisco le impressioni. Le impressioni emozionano. È inutile conoscere: molto meglio supporre». Cantautore eclettico, di smisurato talento e finezza compositiva, Vinicio Capossela ha sempre rifiutato etichette e casellari biografici univoci. Elisabetta Cucco ne sonda vicende e tecniche creative nel suo Vinicio Capossela, rabdomante

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l cd è destinato a sparire a favore dei supporti digitali. Dal rapporto dell’industria discografica statunitense, arriva una proiezione molto chiara di quello che sarà il mercato: entro il 2013, il formato mp3 rappresenterà l’82,6 per cento degli introiti del settore. Paul Verna, analista di eMarketer che ha curato le stime dello studio Digital entertainment meets social media, è convin-

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Elisabetta Cucco sonda vicende e tecniche creative di Capossela, poeta e cantautore

Le proiezioni dell’industria Usa: nel 2013, l’mp3 rappresenterà l’82,6 per cento degli introiti

In onda da luglio”Move on air”, nuovo programma radio dedicato alle soundtrack

senza requie (Auditorium, 144 pagine, 12,50 euro). Nella nuova edizione della biografia dell’artista italo-tedesco, le pagine intrecciano biopic e indagine semiotica di brani musicali che, nella tipica ratio compositiva di Capossela, possiedono calibro poetico e candore poliverso. Tematiche e concetti propri dell’autore di Ovunque proteggi passano sotto il vaglio minuzioso della scrittrice, illuminando con un apparato critico di primo livello, quella che nelle intenzioni di Vinicio, e nei risultati, appare come letteratura messa in musica. Ideale complemento di Non si muore tutte le mattine, dello stesso Capossela, è uno strumento essenziale per chi ama la musica di qualità.

to inoltre che la flessione globale proseguirà ben oltre il 2013 e che la velocità di sostituzione tra dischi e file digitali, almeno in America, sarà più rapida di quanto comunemente si creda. In termini di incassi, si tratta di una picchiata libera che porterà il business dai 5,76 miliardi di dollari dell’anno scorso a meno di un miliardo nei prossimi cinque anni. Una caduta accelerata di un processo di erosione che ha visto il fatturato crollare di oltre il 60 per cento dal 1999. Il sorpasso delle vendite di musica on line ai danni degli store tradizionali è fissato invece per l’anno prossimo.

sì il nuovo programma interamente dedicato al mondo del cinema e della musica da film, in onda dal 1 luglio 2009 sul circuito radiofonico nazionale Le 100 Radio. Suddivisa in temi ogni giorno diversi, la trasmissione condotta da Julian Borghesan ospita autori e compositori di punta del mondo delle soundtrack, a partire dalla prima puntata che vedrà in studio Claudio Simonetti, storico musicista che firmò con i Globin i temi di Profondo rosso. Tra interviste e musica, arricchiranno Movie On Air una rubrica sui film a noleggio e la classifica dei brani più amati dagli utenti. Orari e programmi disponibili sul sito cinevox.it, dove il programma sarà scaricabile in podcast.

a cura di Francesco Lo Dico

FILM PER LE MIE ORECCHIE ovie On Air è un appuntamento settimanale di mezz’ora che vi farà rivivere i più bei momenti dei capolavori cinematografici di sempre attraverso le loro colonne sonore. Un’occasione per riascoltare le soundtrack di successo, ma anche per scoprire preziose rarità. Un viaggio sonoro dai temi orchestrali al jazz, dal lounge al rock». Colonnesonore.net presenta co-


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zapping

LA LEGGE BACCHELLI? Applichiamola ai Litfiba di Bruno Giurato vviva la Bacchelli, più Bacchelli per tutti. Da queste parti siamo in controtendenza rispetto alle lagne generazionali: aiutare i musicisti giovani ci sembra una gran perdita di tempo. Del resto anche Eduardo, a chi gli chiedeva come favorire i giovani attori rispondeva: «Rendetegli la vita difficile». Epperò una mano bisognerebbe darla, i pochi spiccioli dei diritti d’autore a qualcuno si dovrebbero mettere in tasca. Più Bacchelli per tutti e soprattutto per i musicisti, quindi. Diamo i soldini agli anziani. E specialmente a certi anziani. A condizione che riducano o smettano la loro attività. Prendi i Litfiba, ormai da tempo immemorabile senza Piero Pelù. Hanno annunciato un altro disco. Sarà la solita inutile simmenthal di rock alla fiorentina ma senza sangue e senza carne. Verrebbe da dire al chitarrista della band, unico superstite dei Litfiba gloriosi e antichi: caro Ghigo, ti piace metterti gli stivaloni e andare a pesca. Perché devi ancora massacrare un nome storico? Vabbè che da parte sua anche il glorioso frontman Piero Pelù sembra un po’ stagnante, vabbè che la presunta voglia dei fan innesca strani circuiti nei cervellini di chi si esibisce, vedi il caso U2, così autoconvinti di essere necessari che, ci scommettiamo, faranno una tournée potentissima a supporto di un cd vuoto come una camera anecoica (in cui si salvano quasi solo Magnificient e Stand up comedy). E allora oltre alla Bacchelli bisognerebbe usare il trucco raccontato da Guareschi in uno dei suoi racconti. Far stampare dei giornali ad hoc, in una copia, da cui risulta che il soggetto in questione è in prima pagina. Hai visto Ghigo, sei ancora il re del silenzio. Ma mo’ vai a pesca, dài.

teatro

Madame Ardant nella “perla” di Lagarce

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jazz

na scrittura netta, minimale, del tutto priva di fronzoli. Un palcoscenico messo a nudo, uno sgabello, una vedette di gran classe e due immancabili boys. Questi gli ingredienti di Music hall di Jean- Luc Lagarce che il Napoli Teatro Festival Italia sceglie di onorare con un duplice allestimento. Quello a cui abbiamo assistito, con la regia di Luis Miguel Gonzales Cruz, ha ormai esaurito le sue rappresentazioni, ma ieri sera (con repliche fino a domenica) ha debuttato la versione francese che vede in scena la Signora Fanny Ardant, Eric Guèrin e Francis Leplay, diretti da Lambert Wilson. Malato di aids, il francese Jean Luc-

U

“Music Hall” nella messinscena di Luis Miguel Gonzales Cruz

Lagarce, se n’è andato a soli 38 anni lasciandosi alle spalle una carriera d’autore breve, ma intensa. Così intensa da essere oggi uno degli autori più rappresentati in patria dopo Shakespeare e Molière. Acuto costruttore di testi geometrici, rigorosi, è stato spesso paragonato a Beckett per la sua lucidità e il suo humour. Le sue qualità di drammaturgo sono state però riconosciute solo dopo la morte (come peraltro è avvenuto per un altro grande autore della sua generazione: Bernard Marie Koltès) anche perché gran parte della sua opera - in tutto 23 piecès - è stata resa nota quando lui era ormai deceduto. L’Italia lo ha scoperto e importato solo quest’anno. Il Piccolo Teatro di Milano diretto da Luca Ronconi

gli ha dedicato due messe in scena (I Pretendenti per la regia di Carmelo Rifici a gennaio e Giusto la fine del mondo per la regia dello stesso Ronconi in marzo); contemporaneamente Ubulibri, la casa editrice diretta da Franco Quadri, ha dato alle stampe alcuni suoi testi col titolo Teatro I. Persino «Face à face», la più blasonata rassegna-vetrina di interscambio teatrale tra Italia e Francia, lo ha eletto autore dell’anno. Il testo che viene presentato nell’ambito del Festival risulta essere uno dei più amati: una perla di teatro dell’Assurdo. In un palcoscenico spoglio, affacciato su una platea buia e vuota, inutile specchio del nulla che ossessivamente tre teatranti si ostinano a ripercorrere, viene scandagliata la ritualità del mettersi compulsivamente in scena nel tentativo di sondare il senso dell’umano vivere. I tre sono preda di una reiterazione che li assorbe e li fa esistere, giustifica il loro ruolo e nel riconoscerlo li rende indispensabili. È un gioco serio e crudele quello che si svolge sotto i nostri occhi in cui le vittime sono al tempo stesso aguzzini di se stessi, mai paghi. Un infinito rappresentare qualcosa che non è mai stato, ma che è in grado di evocare un ipotetico percorso, l’illusione di un vissuto, quindi di giustificarsi, quindi di esistere in quanto apportatore di una realtà tanto inconsistente quanto necessaria. Il testo è tutto: punto di partenza e luogo di arrivo, si dipana in un parlare d’altro per non dar voce al nulla, per sottrarsi all’evidenza. Una scrittura semplice e contemporanea che riverbera i classici per profondità di pensiero. Lo spettacolo di Luis Miguel Gonzales Cruz, che utilizza la traduzione di Fernando Gomez Grande, risulta però essere penalizzato dall’idioma straniero che obbliga i più a far riferimento ai sopratitoli italiani, fondamentali per cogliere a pieno la grana della scrittura. Questo crea un danno al ritmo interno della rappresentazione che risulta essere decisamente faticoso nonostante la presenza in palcoscenico dell’affascinante Marina Andina affiancata da Chema Ruiz e Angel Solo.

Music Hall di Jean-Luc Lagarce, Teatro Mercadante Teatro Stabile di Napoli, 26 27 28 giugno

Grandi concerti “made” in Sicilia

di Adriano Mazzoletti a produzione discografica si sta arricchendo di nuove etichette specializzate. Ultima a giungere sul mercato «I grandi Concerti». Iniziativa del Brass Group di Palermo che il pianista Ignazio Garcia aveva fondato nel 1974 e che fra alterne vicende continua la sua attività concertistica quasi sempre di alto livello. I primi dischi a essere pubblicati da questa nuova etichetta comprendono parte dei concerti che il Brass Group aveva organizzato fra il 1976 e ’92 con musicisti altamente significativi, Lee Konitz, Woody Shaw, Dexter Gordon, Max Roach, Joe Henderson, Chet Baker, Milt Jackson, Charlie Mingus, Phil Woods, Max Roach oltre a Massimo Urbani e l’Orchestra del Brass diretta da Gil Evans. I due cd provengono da un archivio di 284 nastri conservati presso la nastroteca del Cricd (Centro regionale per l’inventario,

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di Enrica Rosso

catalogazione e documentazione) istituito dalla Regione Sicilia nell’ambito dell’Assessorato Beni Culturali Ambientali e Pubblica Istruzione. Iniziativa di grande importanza e significato atta a non disperdere l’immenso patrimonio di registrazioni dal vivo. La pubblicazione di questi primi dischi dimostra innanzitutto l’eccellenza di quei concerti che ricordano quelli organizzati dalla Rai nella seconda metà degli anni Sessanta. Oltre al Brass Group i dischi sono stati realizzati anche con il fattivo aiuto economico della Regione Sicilia. Un modo encomiabile per impiegare il pubblico denaro. Ma veniamo ai due cd. Il primo si apre con una eccellente versione di Subconscious Lee nell’esecuzione del suo autore, Lee Konitz, accompagnato da Dave Cliff, Peter Ind e Al Levitt, il batterista che era giunto in Europa con la prima tournée di Chet Baker. Non esitiamo ad affermare che si tratta di una delle mi-

gliori interpretazioni di questo celebre tema che Konitz inserisce assai raramente nei programmi dei concerti. Ricordiamo un’altra eccellente versione dello stesso motivo risalente al 1954. È anch’essa una registrazione dal vivo realizzata da Konitz sempre con Al Levitt, allo Storyville di Boston. Difficile indicare quale delle due sia la più riuscita. Il cd prosegue con il quintetto di Woody Shaw (Steppin’ Stone) a cui segue All the ThingsYou’re di Chet Baker con Jacques Pelzer al flauto e una sezione ritmica tutta italiana, Ignazio Garcia, Giovanni Tommaso e Gianni Cavallaro. Ma è il secondo cd il più interessante. Sono le registrazioni di Milt Jackson, Charlie Mingus, Phil Woods e Max Roach con i loro complessi a contendersi la palma. Malgrado che la sera prima Milt Jackson, Monty Alexander, Ray Brown e Grady Tate avessero suonato a Düsseldorf e fossero giunti a Palermo dopo un viaggio lungo e faticoso, la loro versione

di Whisper Not, registrata al Teatro Biondo il 15 dicembre 1980, non risente affatto della stanchezza che i musicisti avevano accusato. Eccellente anche l’edizione palermitana di Remember Rockefeller at Attica che Mingus aveva composto e inciso nel 1974 con Jack Walrath, George Adams, Don Pullen e Dannie Richmond. Due anni dopo, con la stessa formazione, salvo Danny Mixon al posto di Pullen, riproponeva lo stesso brano al pubblico del Brass Group. Occasione unica per mettere al confronto le due esecuzioni. Quella palermitana del 1976 è eseguita con una forza e una vitalità dovuta alla presenza del pubblico che accoglie Mingus e i suoi con grande calore. Un’altra pagina di Mingus, Orange was the Color of her Dress Then Blue Silk composta nel 1963, è qui eseguita dalla Big Band del Brass sotto la direzione di Gil Evans. Occasione per ascoltare un’orchestra di qualità diretta da uno dei grandi del jazz.


libri Storie di ordinaria incomunicabilità MobyDICK

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narrativa

di Pier Mario Fasanotti iceva Lev Tolstoj che tutte le famiglie felici si assomigliano. Quella descritta in questo romanzo non assomiglia a nessuna. Nemmeno il gatto, nevrotico, egoista, amante delle fughe per inseguire gli odori. Mesi fa ho scritto in termini entusiastici del peruviano Santiago Roncagliolo, autore di I delitti della settimana santa, che giallo proprio non era in senso stretto. Scrittura precisa, elegante, efficace. Non a caso qualcuno lo indica quale erede di Mario Vargas Llosa. Un po’ azzardato non tanto per la densità e l’arguzia narrative, ma perché certi raffronti devono essere misurati su centinaia di chilometri, non su piste finora inevitabilmente corte da parere velodromi. La Garzanti a poca distanza dal primo romanzo manda in libreria Pudore, ritratto di gruppo di una famiglia che pare non abbia alcun collante intimo e sentimentale, sgangherata diremmo, formata da persone ciascuna delle quali insegue - come appunto il gatto - i suoi odori esistenziali, senza per questo comunicarlo agli altri. Chi per primo non riesce a comunicare è Alfredo, il capofamiglia. Per una ragione o per un’altra - e tutte sono collegabili al pudore - non dice alla moglie Lucy che gli restano solo sei mesi di vita. Tentativo non riuscito anche con la sua segretaria, che equivoca sul suo caldo desiderio di vicinanza e si calerà, maldestramente, nel ruolo dell’amante occasionale (frustrata sessualmente) per poi decidersi di adottare una definitiva quanto violenta distanza, con parole umilianti verso l’uomo che nella camera d’albergo non s’è mostrato «all’altezza». Lucy, non bellissima ma ancora molto piacente, ha un potente risveglio di fantasie e di sensi quando trova nella borsetta, giorno dopo giorno, biglietti d’un misterioso uomo, il quale dice di ammirarla e le dà appuntamento ora qui ora là. La donna non troverà mai nes-

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suno, ma per lei sarà occasione di riscoprire e infiammare una femminilità fino ad allora sopita. La figlia Mariana, appena adolescente, si considera brutta e marginale in tutto. All’inizio stabilisce un sodalizio con una compagna di classe, anzi una sorta di patto di sangue, salvo poi rivaleggiare con lei con tutta la sua irruente e disordinata goffaggine. È alla ricerca, come la madre, della femminilità piena ma in questo è poco aiutata dal suo corpo infantile. Con l’aiuto di spinelli e di birre varcherà la soglia, salvo poi sentirsi ferita, svuotata, delusa. Suo fratello minore è convinto di vedere i fantasmi, soprattutto dopo la morte della nonna. In modo macabro intreccerà idee di cadaveri a giochi innocentemente maschili fino a trovare, con l’aiuto di un’amichetta, un vero corpo senza vita, la sua ossessione iniziatica. La vita in quella famiglia è fatta di linee rette che non s’incrociano mai. Nemmeno quando la provocante Lucy costringerà una notte il marito a fare l’amore. L’intimità è soltanto formale, fisica. Quella vera non risiede nella camera matrimoniale: «Senza sapere perché, Alfredo capì che entrambi avevano fatto l’amore a migliaia di chilometri di distanza». C’è poi il nonno Papapa, consapevole d’essere privo ormai di desideri virili salvo la nebulosa attrazione per un’anziana che vive la sua ultima stagione in una casa di riposo. Esilarante, ma anche tristissimo, è l’episodio della mancata seduzione del nonno: fatta scattare da lontani ricordi piuttosto che da una esigenza dell’anima o del fisico. La densa nebbia di Lima confonde le varie tristezze individuali. In quella famiglia ognuno vive a metà le proprie illusioni, senza mai spezzare i silenzi. Un modo di comunicare indiretto. Quanto mai modernissimo. Santiago Roncagliolo, Pudore, Garzanti, 167 pagine, 15,60 euro

riletture

Il breviario di Cau per salvarci dall’effimero di Angelo Crespi orse uno dei libri più inutilmente fortunati e destinati per chissà quale motivo a diventare manifesti di un’epoca è quel manualetto di postmodernità che va sotto il titolo di Lezioni americane, compilato nel 1985 prima della morte da Italo Calvino. Le 6/5 lectiones sono infatti una comoda barca per navigare tranquilli nel mainstream, godendo del paesaggio pittoresco che ci sta attorno e non accorgendosi che i gorghi sottostanti presto ci faranno naufragare. Agli antipodi, un meno citato libricino anch’esso postumo di Jean Cau (Il popolo, la decadenza, gli dei) si eleva appunto come una sorta di manuale di sopravvivenza per naufraghi, quali noi siamo qui nel mondo contemporaneo. Tanto infatti Calvino si spreca nell’elogio della leggerezza, tanto Cau (anche lui sul limitare della vita, nato nel 1925 muore nel 1993) replica

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con un suo accorato «elogio sconveniente del pesante». E se il primo ci fornisce gli strumenti interpretativi per vivere bene nell’effimero, il secondo ci dà gli strumenti tecnici per salvarci dall’effimero. Peraltro, le riflessioni di Jean Cau - premio Goncourt nel 1961, assistente di Sartre, poi autoesclusosi dalla gauche caviar, fino ad approdare alla nuova destra di Alain de Benoist - sono altrettanto fulminanti seppur di segno opposto rispetto a quelle di Calvino. L’idea di fondo trae origine dalla banale constatazione che oggi usiamo il rasoio Bic e dopo poche barbe lo buttiamo senza nessuna nostalgia; e come del rasoio, ci disfiamo degli accendini usa e getta, dei piatti di carta, delle forchette di plastica, e poi delle automobili, degli elettrodomestici, cioè di tutti quegli oggetti, in verità simulacri di oggetti, che una volta persa la loro funzione predeterminata, smettono di esserci utili. Quanta diffe-

renza, fa notare Cau, rispetto ai rasoi di suo padre, custoditi gelosamente in un cassetto per decenni, quanta differenza coi coltelli del nonno che duravano da secoli e per questo acquistavano valore. Esempi solo per raffrontare la nostra epoca di leggerezza rispetto alle epoche precedenti quando «anche il tempo tirava in lungo e c’era durata ovunque, negli oggetti come nei muri delle case, nei fidanzamenti come nei matrimoni, nei sogni come negli amori. Era solido. Durava». Mentre oggi tutto passa, la società si è fatta liquida, e come nello schermo di un televisore le immagini sfilano e non ne puoi trattenere nessuna e per paradosso, a differenza di Eraclito, neppure puoi bagnarti nell’acqua di quel videofiume. Una società che ha tutto il carattere, i vizi, le brutture, la crudeltà di quelle culture nomadi e predatrici della nostra storia, i barbari, gli unni, i tartari, i mongoli, che sono ben più efferati dei sedentari «hanno una tenda

per casa, un carro per palazzo, vanno, corrono, bruciano, non conservano niente e il limo per loro prezioso è il rasoio Bic». Certo noi postmoderni siamo barbari e come tali distruggiamo il nostro passato, lo splendore dei nostri templi. In più, abbiamo paura e dobbiamo sfuggire da questa sensazione di distruzione: anche per questo ci alleggeriamo, perché siamo in perpetua fuga, e nell’epoca del leggero nessuna sporta o peso vale. In più, siamo nell’epoca del non plus ultra: anche i bambini hanno già visto tutto, nulla stupisce, tutto è solo un brutto ricordo. In più siamo nell’epoca dell’amore finito, perché non siamo capaci di nessuna fedeltà dunque neppure di amare come si dovrebbe. Questa l’amara conclusione, di un breve saggio che è stato pubblicato in Italia nel 1996 dall’Edizioni Settecolori e che varrebbe la pena rileggere: illuminante e reazionario quanto basta.


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storia

Quando il Duce dichiarò guerra alla Francia di Enrico Singer na missione disperata. E fallita. Ma non per questo, anzi, proprio per questo, da non ignorare perché quasi sempre la storia arriva a un passo da un bivio che potrebbe cambiare il suo corso e poi, purtroppo, imbocca la strada sbagliata. Come accadde in Italia, il 10 giugno 1940, con l’entrata in guerra di Benito Mussolini al fianco di Adolf Hitler. La missione disperata è quella di André François-Poncet, l’ultimo ambasciatore francese in quel periodo a Roma, che tentò di tenere il fascismo lontano, se non dall’alleanza con la Germania nazisata, almeno dal conflitto. È una

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personaggi

pagina di diplomazia finora trascurata, anche se le memorie di François-Poncet sono già state pubblicate in Francia nel 1961 in una piccola edizione ormai introvabile. A restituirle oggi all’attenzione - non solo degli studiosi - è un diplomatico italiano di lungo corso, Maurizio Serra, che è stato direttore dell’Istituto Diplomatico del ministero degli Esteri ed è docente di relazioni internazionali all’Università Luiss-Guido Carli di Roma. A Palazzo Farnese, memorie di un ambasciatore a Roma 1938-1940, accompagnato da un’introduzione dello stesso Maurizio Serra, ripercorre attraverso il racconto del suo protagonista una vicenda che pochi conoscono. Dal-

le 140 pagine del libro esce il ritratto di un’Europa avviata alla catastrofe in cui le due «sorelle latine» Italia e Francia sono sopraffatte da una serie di rivendicazioni e di reciproche incomprensioni. André François-Poncet descrive con tocchi incisivi il clima di crescente tensione che, soprattutto dopo la fulminea avanzata tedesca del maggio 1940, portò alla fatale decisione del duce di passare dalla politica di «non belligeranza» alla dichiarazione di guerra a Francia e Inghilterra. Tra le tante rivelazioni delle memorie, forse la più forte, per la drammaticità quasi teatrale del momento, è la ricostruzione dell’incontro - alle 16,30 del 10 giugno - con Galeazzo Ciano che gli con-

segna la dichiarazione di guerra che sarà, di lì a poco, annunciata da Mussolini dal balcone di PalazzoVenezia in quello che è stato poi definito «il giorno della follia», il giorno del suicidio per il regime fascista.Anche Ciano, nel suo Diario, ha ricordato quell’incontro e se ci sono molti punti in comune nei due racconti, ci sono anche delle significative differenze. A partire dal famoso «colpo di pugnale» che è dans le dos, alla schiena, per François-Poncet e «a un uomo in terra» per Ciano. André François-Poncet, A Palazzo Farnese, memorie di un ambasciatore a Roma 1938-1940, Le Lettere, 140 pagine,16,00 euro

Passione e potere: ventuno ritratti di donne libere di Mario Donati iceva Seneca: «Quelli che erano considerati vizi ormai sono consuetudine». Vero forse nella Roma di allora, peccato che la storia fa salti indietro: basti pensare al dileggio patito da Oscar Wilde e da Bernard Shaw. In ogni caso il rapporto tra cultura libertina e potere, nelle donne, è stato oggetto più di fantasia che indagine a tutto il Medioevo. Malgrado un giudice americano abbia dichiarato, salomonicamente, che «l’idea di ricorrere ai censori per eliminare i Caterina pensieri di carattere sesdi Russia suale è pericolosa visto che una persona che ne è priva è anormale». La studiosa in psicologia Paula Izquierdo, spagnola, esamina 21 donne che hanno lasciato una grande orma nella storia e punta i riflettori sulla relazione tra sfera senti-

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scrittori

mentale e l’autorealizzazione. Caterina di Russia detta «la grande» (1729-1796) governò col pugno di ferro il suo paese per 34 anni. Sposò a 16 anni il cugino Pietro, che pare fosse impotente. Dapprima, di fronte all’indifferenza del marito, che amava, accarezzò idee suicide, poi si risolse a cercare parentesi di felicità nelle braccia di altri. Avuto un figlio dal nobile Serge Saltykov, affrontò la minaccia di divorzio di Pietro e rispose con qualcosa che assomigliava a un golpe, consolidando il suo potere a San Pietroburgo. Saltykov non fu l’unica passione della donna di ferro. Ci fu Grigoroj Orlov, e Caterina riuscì a occultare varie gravidanze. Ma Orlov si mostrò politicamente inetto come mediatore tra Russia e Turchia: diventò un ostacolo alle ambizioni di Caterina, fu allontanato e finì pazzo, inseguito dall’os-

sessione di Pietro il grande. George Sand, nata nei pressi di Parigi, si chiamava in realtà Aurore Dupin. Scrittrice di romanzi e racconti, era nota per vestire come un uomo e fumare sigari. Nell’intimità era sfrenata e capricciosa anche se il suo collega Prosper Mérimée anni dopo la paragonò a un cimitero. Aurore dalla presunta frigidità non s’intese mai nemmeno con Stendhal. Si consolò con Chopin, uomo controverso e difficile, e divenne una paladina del femminismo. Lola Montes (1818-1861) nacque in Irlanda da madre creola. Molto disinibita, capì che occorreva cavalcare scandali per ottenere la fama. Come ballerina, secondo gli esperti, non era granché, ma era eccezionale come scenografa di se stessa. E poi era molto bella. Dopo aver sposato un ufficiale inglese, si fece promotrice della «causa» femminile. Aveva abbondato Luigi I di Baviera, costretta dai moti di ribellione politica contro l’infatuazione del sovrano per la danzatrice. Paula Izquierdo, Libere!, Cavallo di Ferro, 239 pagine, 15,00 euro

Narrare è... una barca che scivola sul fiume di Giancristiano Desiderio oglio recensire l’ultimo libro di Gaetano Cappelli che in realtà è il primo. Capita così: quando si ha successo con uno o due libri, l’editore ti chiede di riprendere e ripubblicare anche i tuoi libri precedenti. Oppure è lo stesso autore che, preso dalla eccitazione e dal desiderio di avere sempre più successo e apprezzamento, suggerisce all’editore che sarebbe il caso di portare in libreria quelle opere che all’epoca della loro prima edizione non ebbero granché successo, ma ora avrebbero l’apprezzamento commerciale e magari anche letterario che meritano.

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Cappelli è diventato uno scrittore di successo da quando gli ultimi due suoi libri - Storia controversa dell’inarrestabile fortuna del vino aglianico nel mondo del 2007 e La vedova, il Santo e il segreto del Pacchero estremo del 2008 editi da Marsilio - hanno conosciuto un picco di vendite, prima attraverso il classico passaparola, poi attraverso una serie di recensioni positive e invitanti all’acquisto e alla conoscenza dell’autore su giornali e settimanali di punta (e di tacco). Così, in poco tempo, l’editore veneziano ha riportato in libreria anche i precedenti libri del Cappelli e tra questi l’ultimo, cioè il primo, è Volare basso. Il romanzo non l’ho ancora letto o, meglio, lo sto leg-

gendo. Quindi dovrei astenermi dal parlare di un libro che ancora non ho letto. Al momento, mentre scrivo, ho mandato giù solo le prime venti pagine. Un po’ poco per esprimere un giudizio attendibile. E se le restanti duecentossessanta pagine si rivelassero una porcheria? Non può essere e vi dico perché. Gaetano Cappelli, anche se non è uno scrittore che passerà alla storia della letteratura italiana e invece sarà ricordato come un autore minore dell’età postmoderna Cappelli, rassegnati, sarà così, ma lo so che non ne farai un dramma - è uno scrittore che rientra a pieno titolo nella categoria dei narratori. Sì, è evidente, ogni scrittore è un narratore, diciamo pure che

chiunque scriva, narra. Tuttavia, c’è chi sa narrare e chi no. C’è chi scrive con l’intelletto e si ingarbuglia, si incasina, si intorciglia dentro la sua stessa scrittura; e c’è chi scrive come se bevesse un bicchiere d’acqua, come se narrasse una favola e si fa prendere dal gusto della narrazione come una barca che scivola via sul fiume senza ostacoli e sforzi. Cappelli rientra in questa seconda categoria. Narra che è un piacere leggerlo. Fidatevi, non di me, di Cappelli. Non delude. Neanche con il suo primo romanzo che ora, finito l’articolo, andrò a leggere. Gaetano Cappelli, Volare Basso, Marsilio, pagine 285, euro 17,50

altre letture Tra le più importanti opere contemporanee di antropologia Le strutture antropologiche dell’immaginario (Dedalo, 576 pagine, 22,00 euro) di Gilbert Durand rappresenta una sintesi delle ricerche sulle strutture e sulla tipologia dei contenuti simbolici, quali risultano dai miti e dai frequenti rimandi alle arti, alla letteratura e alle diverse civiltà. Una sorta di giardino delle immagini, un repertorio organizzato attorno ad alcuni grandi schemi razionali dove l’immaginario si manifesta in una retorica profonda che conferisce il primato allo spazio figurativo. Una casa non è solo una casa: dall’antropologia alla psicologia del profondo, dalla storia delle religioni alla letteratura sono molte le discipline che insegnano come l’abitare dica molto di chi abita un luogo, di come la casa plasmi e contenga l’anima di chi ci vive. Interior Italia, di Patrizia Catalano e Maurizio Barberis (Mondadori arte, 232 pagine, 45,00 euro) è un libro fotografico su trenta case d’autore che illustrano lo stile dell’abitare urbano da Torino a Milano, da Venezia a Roma, da Napoli a Bari, attraverso quattro coordinate: la passione per il collezionismo, il comfort ricercato delle atmosfere glamour, la contaminazione eclettica di stili e arredi, il design. Gli autori fotografano lo stile di vita di alcuni protagonisti del professionismo italiano: stilisti, art director, imprenditori, designer, architetti, galleristi, antiquari, guru della comunicazione o dell’arte contemporanea, nella convinzione che «l’abilità di scegliere quell’oggetto, quel quadro, quel colore per affermare la propria cifra stilistica e culturale fanno di ogni casa italiana un luogo di suggestione». A chi non è capitato di sentirsi fuori luogo in mezzo a tanti sorrisi? Oggi tutti si dichiarano felici o aspirano a esserlo. In una cultura per cui la soddisfazione è un valore e la tristezza un disvalore rischiamo di apparire drogati di felicità. Preoccupato da questa dittatura del sorriso ci condanni a una visione piatta e inerte della vita Eric Wilson in Contro la felicità (Guanda, 159 pagine, 15,00 euro) si lancia a spada tratta in difesa della malinconia, una disposizione d’animo così controcorrente eppure così feconda di visioni innovative e soprattutto di conoscenza. Il melanconico infatti con l’introspezione caratteristica della sua indole riesce a cogliere la complessità del cosmo in tutta la sua bellezza terribile. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

GIOVANNA D’ARAGONA E CASTIGLIA FU AL CENTRO DI UNA LOTTA DI POTERE COMBATTUTA FINO ALL’ULTIMO SANGUE: CONTRO IL MARITO, FILIPPO IL BELLO, IL PADRE, FERDINANDO D’ARAGONA E, IN ULTIMO, IL FIGLIO, L’IMPERATORE CARLO V. NE USCÌ SCONFITTA MA AL TEMPO STESSO VINCITRICE. VITA PUBBLICA E PRIVATA DI UNA DONNA SU CUI LA STORIOGRAFIA SI È A LUNGO INTERROGATA E CHE SI È VOLUTO CREDERE PAZZA

La regina tradita di Gabriella Mecucci una lotta titanica quella di Giovanna la Pazza contro i tradimenti, le violenze, gli inganni che caratterizzavano la vita delle monarchie fra la fine del Quattrocento e il Cinquecento. Una lotta drammatica, in cui lei mette tutta se stessa e dalla quale esce sconfitta e al tempo stesso vincitrice. Ne scaturisce un quadro del potere quasi diabolico, in cui la famiglia è il luogo dei peggiori intrighi. Giovanna deve combattere contro centinaia di inganni, e prima di tutto contro quelli del marito, Filippo il Bello, arciduca delle Fiandre. Poi tocca al padre, Ferdinando d’Aragona, infierire, e infine al figlio, l’imperatore Carlo V. Fu davvero pazza Giovanna? O fu una figura straordinaria che impersonò il dramma della Spagna, ormai divenuta una delle più grandi potenze: anzi con la scoperta dell’America forse la più grande, eternamente in lotta con la Francia e l’Inghilterra? In questo contesto si svolge la vita pubblica e privata di una donna su cui la storiografia si è lungamente interrogata: la sua era follia oppure la giovane regina era semplicemente una persona intelligentissima e passionale che rispose colpo su colpo con il cuore e la ragione alle trame organizzate contro di lei? La definirono malata di mente i suoi nemici solo per trovare un modo, quello più estremo, per sbarazzarsene visto che non riuscirono mai a piegarla? La seconda risposta è quella che più caldeg-

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ta e bruciante: sarà una gioia e una rovina per Giovanna. Anche l’arciduca delle Fiandre è molto attratto da quella ragazzina: alta, occhi caldi, carnagione scura. Una vera spagnola. Appena la vede la vuole «prendere» subito.Viola tutte le regole e se la porta a letto lasciando senza parole la corte fiamminga e ancor più il seguito di dame spagnole. Giovanna è colpita da quei modi spicci ed è ebbra di quelle notti di amore. Il matrimonio religioso seguirà di qualche giorno, con grande scandalo, per il comportamento di Filippo ma anche per la cedevolezza della princesa. L’infanta di Spagna resta incinta e scodella figli uno dietro l’altro con gran facilità: il secondogenito è Carlo (diventerà Carlo V) e narra la leggenda che sia stato partorito mentre la madre, la regal madre era al gabinetto. Giovanna vive una vita d’incanto con quel marito bellissimo che passa il suo tempo ad andare a caccia e ad amarla. Ma la felicità dura poco. Quando muore Giovanni, il figlio maschio

Intelligentissima e passionale rispose colpo su colpo, con il cuore e la ragione, alle trame organizzate contro di lei. C.W. Gortner ne ricostruisce in un libro la vicenda, narrata dalla protagonista in prima persona, come in un’autobiografia gia C. W. Gortner, autrice di una bellissima biografia, dal titolo L’Ultima regina (Il Corbaccio, 420 pagine, 19,60 euro). Il libro è scritto in prima persona, l’io narrante è Giovanna stessa che in una notte scrive la sua drammatica autobiografia. È un libro bellissimo che racconta la tragedia di una donna, ma che riesce anche a regalare al lettore uno straordinario spaccato della vita e del potere a cavallo fra il Quattrocento e il Cinquecento.

Una storia che all’inizio si avvicina molto alla vita normale di una donna quasi normale. Una ragazza giovanissima, 17 anni, che per ragioni di alleanze politiche parte da Granada, riconquistata dalla cattolicissima Isabella, sua madre, e attraversa tutta la Spagna per imbarcarsi verso le Fiandre. Lo fa controvoglia, ma la regina e le cortes hanno deciso che dovrà andare in sposa all’arciduca Filippo di Asburgo. Sembra un banale matrimonio d’epoca per sancire un’alleanza, come si faceva fra case regnanti, e invece Giovanna incontra il grande amore della sua vita. Filippo è protervo, arrogante, ma il suo corpo è perfetto ed è anche un grande amante. Nasce fra i due una passione immedia-

della cattolicissima Isabella e, quando, poco dopo, tocca alla sorella, la princesa finita nelle Fiandre diventa erede al trono di Castiglia. A quel punto si scatena il finimondo. Filippo comincia a tramare per diventare Re al posto della moglie. Quasi contemporaneamente Giovanna scopre la lunga teoria di donne con cui il marito intreccia storie di sesso. Lo vede con i suoi occhi mentre entra nei letti di cortigiane, o bacia e palpa prostitute fatte arrivare da Bruxelles e da Parigi. La princesa si rende protagonista di una violenta scena di gelosia: quella reazione, tutto sommato abbastanza normale, viene considerata la prima prova della sua pazzia. Eppure, nonostante tutto, l’arciduchessa perdona il marito. È ancora conquistata dalla sua bellezza e dalla sua passionalità. Lo guarda, lo tocca, e passa lunghe notti fra le sue braccia sperando che il peggio sia passato e che tutto sia tornato normale sotto il cielo delle Fiandre. Le trame di Filippo riprendono stringendo rapporti con la Francia, nemica giurata

della Spagna. Il suo comportamento è così sconsiderato che, quando la giovane coppia arriva in Castiglia, toccò alla regina Isabella in persona chiedere con fermezza al genero di piantarla: non era sopportabile che il re consorte tenesse simili comportamenti.

La grande protettrice di Giovanna è la madre e quando anche lei muore, la situazione precipita. Filippo vuole a tutti costi che firmi una carta in cui lo indica come re. Aiutato da Don Manuel cerca alleanze nelle cortes e fra l’aristocrazia e mentre architetta piani su piani che la legittima erede sconfigge con intelligenza e coraggio, la violenta e la mette incinta ogni nove mesi. In modo da fiaccarla nel corpo oltreché nello spirito. Il giovane Asburgo non le risparmia nulla: minacce di morte, di farla mettere agli arresti, maldicencenze di ogni tipo sul suo conto, trame che lambiscono anche il padre, re Ferdinando. L’infanta sventa tutte le manovre, ma non dimentica, in nome del potere, di essere anche una buona madre: gioca con i figli e impedisce al marito di sottrarglieli. Alla fine viene a sapere che Filippo, che ormai ha una vera e propria corte di prostitute, è ammalato di sifilide. Ma non morirà subito, anzi vivrà ancora a lungo. Giovanna non ne può più e decide di avvelenarlo con le sue mani. Il


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infatti promesso in sposa Giovanna al re d’Inghilterra che tiene praticamente prigioniera la sorella Caterina. Se la regina di Castiglia accetterà, concederà tutti gli onori a Caterina e la darà in moglie al figlio Enrico. Il tradimento paterno si arricchisce così anche di un vero e proprio ricatto affettivo. Ricatto che viene scandito con la voce gelida di chi non ti dà scampo. Giovanna capisce che la situazione è pressoché inestricabile. Nella sua mente si affollano pensieri. Capisce che la vendetta del padre è stata lungamente studiata ed è prima ancora che contro la figlia, contro la madre Isabella, grande regina che lo aveva sempre dominato e, intorno alla quale, aveva dovuto sempre scodinzolare. I due si guardano negli occhi e Ferdinando incalza: se non vuoi fare quello che ti propongo - prorompe - allora hai una sola strada: abdicare. Giovanna pensa intensamente e rapidamente ai suoi figli, poi risponde: non lascerò il mio trono, io resterò regina e qualsiasi cosa tu possa fare, sarà un mio discendente a regnare sulla Castiglia. A quel punto a un segnale preciso di Don Ferdinando, la regina viene arrestata e trasferita nel castello di Tordesillas dove rimarrà prigioniera per ben 46 anni. La sua vita era distrutta: i figli lontani, il suo potere in frantumi. Restava solo il ricordo di Filippo, del primo Filippo, bello e protervo, che l’aveva però amata appassionatamente. Giovanna per ore e ore passava la notte a pregare sulla tomba del marito piangendo e ricordando i balli e i giochi della sua prima giovinezza, la bellezza della campagna fiamminga e di Gent.

Carlo, il primo erede maschio della regina, era stato educato nelle Fiandre, e Don Ferdinando regnò per pochi anni ancora senza riuscire ad avere un figlio. Alla sua morte il secondogenito di Giovanna dimarito muore e naturalmente tutti i sospetti cadono su di lei che è perdipiù di nuovo incinta. Ormai è una regina debole, ma sa che in Spagna due categorie di persone non vengono toccate: le donne gravide e le vedove che hanno perso da poco il marito. Decide così che la salma di Filippo è la sua migliore difesa e gira tutta la Spagna dal Sud al Nord con quella bara che ormai emana orrendi fetori.

Una notte, sommersa dai sensi di colpa, la fa aprire (è questo il racconto che più di ogni altro fa sospettare che sia stata davvero pazza). Alla fine arriva a Toledo dove partorisce ed è colta da terribili incubi. Il peggio è ormai passato e gli intrighi del marito finiti per sempre. Ma la vita di Giovanna si arricchisce di una nuova tragedia: il tradimento del padre. Filippo era aggressivo ma in qualche misura trasparente, re Ferdinando dissimulava con aria mite. Eppure tramava contro la figlia per mettere le mani sul trono di Castiglia. La trentenne regina, nonostante alcuni segnali evidenti, non vuol credere all’inganno paterno. Le sembra davvero impossibile. Ed è così che quando si accorge che lui la fa spiare, che legge le sue lettere e che

Con l’arciduca delle Fiandre la passione fu immediata e bruciante. Con grande scandalo delle corti, consumarono il loro matrimonio combinato prima che fosse celebrato. Ma per l’infanta di Spagna, figlia di Isabella, fu l’inizio della fine non le fa arrivare a destinazione, sebbene la ragione le suggerisca di guardarsi dal padre, il cuore le fa scegliere la strada della fiducia. Quando però Don Ferdinando si fidanza con Germaine de Foix e le sue dame la informano del fatto, non è più possibile negarsi la dolorosa verità. Perchè - si domandò Giovanna - mio padre vuole sposarsi con una donna nata in una terra che aveva disprezzato e combattutto per tutta la vita? Fatta la domanda, la risposta fu immedita e fu orribilmente chiara. Una nuova moglie significava una nuova regina di Spagna. Prima di tutto naturalmente una nuova regina dell’Aragona, di cui Ferdinando era già re. Ma ciò che più contava in questo gesto era la stretta alleanza con la Francia che rendeva inutile quella con la Castiglia e quindi con Giovanna. La Castiglia tuttalpiù andava annessa e naturalmente la figlia doveva essere sbattuta lontana. Il vecchio re-padre per ottenere ciò ha architettato un piano perverso da far impallidire Filippo e i suoi violenti inganni. Don Ferdinando ha

ventò imperatore col nome di Carlo V e re di Spagna con quello di Carlo I. Fu un sovrano di grandissima rilevanza. Si narra che dicesse: «Sul mio regno non tramonta mai il sole», alludendo ai possedimenti spagnoli d’oltreoceano conquistati dalla nonna materna. La regina che in tanti avevano voluto dipingere come una pazza era riuscita così a salvare il suo trono per tramandarlo al figlio. Ma in cambio non ne ricevette alcuna gratitudine: Carlo V infatti la incontrò una sola volta. non la scarcerò, la lasciò là dove l’aveva rinchiusa Don Ferdinando. Fu l’ultimo tradimento della grande regina. L’imperatore dovette combattere numerose e sanguinose battaglie. Fra queste la rivolta dei nobili tedeschi legati a Martin Lutero. Quando stava in Spagna, alloggiava nel cupo palazzo dell’Escorial. Lasciò il trono nel 1555, tre anni prima di morire, perseguitato dalla mania degli orologi. Contemporaneamente, all’età, di 76 anni, passò a miglior vita sua madre Giovanna. A Tordesillas rimasero sepolti molti segreti di quel feroce scontro di potere che vide protagonista l’infanta di Spagna, suo marito, suo padre e suo figlio.


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ella prefazione del suo ultimo zibaldone, Guido Ceronetti (nato a Torino nel 1927) si fa promotore di un’associazione chiamata Insetti senza frontiere. È il titolo della raccolta di pensieri e aforismi pubblicata da Adelphi (166 pagine, 12,00 euro). Conoscendolo, è strano che la dizione sia un po’ banale e mutuante, o comunque non all’altezza delle sue invenzioni linguistiche e concettuali, molte delle quali paion nate per provocare o addirittura per dar prova di arguzia, non importa rivolta a chi o contro chi, e di vasta erudizione, a dispetto talvolta della pietas o di quella complessità della quale pare vantarsi. Contraddizioni in questo personaggio che si definisce burattinaio di strada ce ne sono, e tante. Legge, traduce, cita, chiosa nel silenzio della toscana Cetona, ma nello stesso tempo elogia quel filosofo che aveva in casa solo 130 libri.

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Insetti, dicevamo: pungono, come fa lui. Vorrebbe fosse sancita la libertà di pungere, appunto, di quei piccoli esseri che «dotati di pungiglione difensivo-offensivo indispensabile alla loro sopravvivenza, a scapito, se necessario, di quella degli umani». Provocazioni? Sì, certo. La sua prosa ne è piena. A volte irrita, a volte rotola nel calambour vischiosamente attratto più dalla battuta che dal concetto, a volte sfiora il geniale, a volte rimane vanitosamente dotto e criptico, e questo per un poeta-burattinaio-comunicatore come lui è peccato di non poco conto (ma certe sue prose riscattano, prendendo spunto da minuscole realtà cronistiche). Sostiene, in questo divertissement para-filosofico che sono sacri i ragni, «in quel filamento che è il loro tempio». E precisa: «È falsa la rima in lingua francese che colloca la vista di un ragno di sera tra i segni di speranza e fa di un ragno visto al mattino un presagio di giorno nefas. Noi gli opponiamo la rima seguente: “Ho visto un ragno/ nella gioia mi bagno”». Entusiasta, ma non è certamente Montale. Tenacemente legato alla sua solitudine, salvo che per cenacoli con pochi ed eletti invitati, me lo ricordo anch’io quando ero un giovane redattore de La Stampa, a Torino. Piombava in redazione con l’aria di chi non sapesse bene dove si trovava. Più che domande, voleva che gliene facessimo. Aveva con sé una borsa logora, piena di fogli: se ci metteva le mani dentro non era infrequente che i fogli cascassero, tra risate trattenute e il rispetto per lo strano intellettuale senza giacca, cravatta, e banali ambizioni. Però al giornale ci veniva, coi suoi capelli elettricamente scomposti. Ricordo questo leggendo una sua frase dal suo ultimo libricino: «Nessuno è perso, nell’infinito.Terribile è perdersi, sentire di essere persi, nel finito». A distanza di molti anni ho compreso quella sua espressione mite ma anche tenace nel suo elegante e stravagante solipsismo. Oggi ho compreso, prima avevo solo intuito. Intellettuale sì, ma snob assai. A proposito della gran coda per vedere a Roma le incisioni di Rembrandt (non molte per la verità) scrive con l’arsenico: «Il significato è di disperazione perché, nelle loro esistenze, bello è soltanto un luogo comune da applicare a vanvera: nel Bel-

libri

Il nuovo zibaldone dello scrittore “burattinaio di strada”

Le punture di Ceronetti di Pier Mario Fasanotti

Elogia l’uso del pungiglione difensivo-offensivo alla maniera degli insetti. Arte nella quale eccelle con la sua prosa piena di provocazioni irritanti e geniali. Che rivelano la personalità spesso contraddittoria di un intellettuale non privo di snobismo… lo che folgora vedono una salvezza. Così un bello teatrale autentico può suscitare una gratitudine collettiva di cani liberati da una prigionia perpetua: ma possiamo più immaginarla che pensarla - dappertutto il fine della scena, quasi vergognandosene, non è di creare bellezza. Il fatto di aver contribuito soltanto a tenere in piedi una venerabile istituzione fa uscire la gente del biglietto mogia e più grigia». Caro Ceronetti, siamo proprio sicuri che questi «cani» abbaino soltanto? Siamo proprio sicuri che la sua strada, così adatta a burattinate, sia l’unico Eden della cultura, l’autentico di contro all’artificioso? Lei che ne sa, davvero? E poi: non c’è magari il rischio di offendere persone delle quali non sa un bel niente? Non tutti hanno il privilegio dei silenzi meditativi dell’eremo di Cetona, sia pure con la legge Bacchelli che gli assicura solo 1500 euro al mese. È la stessa domanda, più o meno che gli rivolse Ernesto Ferrero, scrittore e patron della Fiera del Libro di Torino allor-

quando Ceronetti annusò l’occasione d’essere il guastafeste della manifestazione. Fu proprio in quell’occasione che ricordò che Spinoza aveva - in casa precisiamo noi - solo 130 volumi. E ancora: «Il libro è amico del silenzio e non può certo amare l’accanimento editoriale insito in manifestazioni culturali come questa di Torino, un accanimento che ci spinge a riempire sempre più i nostri scaffali di libri». Ferrero gli rispose per le rime: «Ceronetti recita una parte che non condivide nemmeno del tutto, le sue sono divertenti boutade fuori del tempo… quando fa così, mi sembra un po’ Woody Allen».

C’è in lui la voglia del falò: «Fare a pezzi un giornale quotidiano è l’unico mezzo per liberarsi, d’un colpo, da ladri, assassini, truffatori, apostoli, catastrofi». Insomma straccia la realtà. Sulla quale tuttavia scrive, e per giunta su un giornale. La stessa corrosività la applica a concetti che si tramutano in giochi di parole: «Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio… non ci resterebbe niente. Proviamo a non dare niente a nessuno dei due». Eppure, poco più in là, scrive: «Senza un’idea concre-

ta, per nulla astratta, famigliare, dominante della Tenebra, non c’è nessuna luce». E ancora: «Libri. Quanti di noi sarebbero naufraghi senza speranza in una notte atlantica, senza le voci che si levano dai libri». Lo riconosce per sé, nobilmente. Per altri - la massa che fa coda al botteghino - un po’ meno. Altro pensiero altamente snob riguarda il famoso discorso di Martin Luther King, «I have a dream»: «Non ho nulla da riprovare a quell’uomo buono, e la banalità della frase gliela posso passare, tutto dipende dai momenti del profferire. Una cosa soltanto mi è intollerabile di quell’angelo rappresentativo: il suo essere predicatore. Quel pezzo di predica mi riga l’anima… annuso in quella persuasione così bene fabbricata dalla voce predicante qualcosa di demoniaco… la predicazione in sé è maligna, antitetica alla liberazione dalle catene che diffonde. L’uomo che pensa non predica, non ha microfoni, non zarathustreggia, imbavaglia ogni tipo di sonorità che non sia un discorso piano, emenda il linguaggio, evita di informare sui propri sogni di bene futuro, in verità tende a non fare. È già molto non risvegliare credenti, agitare con leggerezza le foglie di tè perché l’acqua bollente ne assuma appena il colore, il tè della verità predestinato a pochissimi». Ovvio chiedersi se Ceronetti abbia mai pensato che i libri, i suoi libri come le sue marionette, non siano in qualche modo assimilabili agli odiosi altoparlanti del nero americano Luther King. Che fu ucciso.


video La scacchiera MobyDICK

tv

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del mondo spiegata (bene) da Buttafuoco e ci fate caso è sempre più infrequente sentire la frase «televisione intelligente», solitamente accompagnata da un accorato appello. La frase è quasi diventata un ossimoro, una contraddizione in termini. Che stia per entrare nei pori della nostra corteccia cerebral-televisiva il veleno della rassegnazione? È la resa alle veline, al parlar di corna, di coppie che si divertono a enumerare, con laicissima soddisfazione, le macchie nei panni più intimamente coniugali? È la resa ai quiz squinternati e ad agitatori del niente come Teo Mammuccari con la sua Sarabanda? Quando meno te l’aspetti sbuca dal cappello delle sorprese un programma che dell’intelligenza fa il suo perno, senza per questo rinunciare all’appeal delle immagini, al mix di ricordi e attualità, insomma a ciò che è in grado di farci capire, o solo intuire, la direzione in cui va il mondo. Mi riferisco a Il grande gioco (Rai 2 ore 22,50) condotto dallo scrittore e giornalista Pietrangelo Buttafuoco, coltissimo e sobrio. Ha scelto, per descrivere e spiegare i cambiamenti, la scacchiera. La famosa mossa del cavallo, direbbero gli scacchisti, nel senso che si è passati dal particolarismo di un singolo fatto o personaggio alla visione dall’alto, senza la quale nessuno potrebbe seguire lo spo-

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starsi delle pedine nei rettangoli bianchi e neri delle nostre superfici terrestri e acquatiche. Buffafuoco ha ribadito giustamente che i libri di storia, quelli che alcuni di noi hanno frettolosamente richiuso magari sotto la suggestione della «fine della storia», devono rimanere riaperti. Il passato è anche presente. In quello che ha chiamato «destino». La Russia, per esempio. In un lago della Lituania, il 25 giugno 1807, Napoleone e lo Zar si incontrarono. Sostanzialmente per spartirsi il mondo. L’Occidente ai francesi, l’Eurasia ai russi. C’era però una spia al servizio degli inglesi, che riferì a Londra. Oggi, con il crollo del comunismo e del Muro di Berlino, qual è l’influenza di Mosca? Conviene non solo ai paesi limitrofi ma anche all’Europa avvicinarsi alla Russia? «Sarebbe troppo imprudente» afferma lo scrittore Salman Rushdie, «il cuore dell’Europa non ha nulla a che fare con la Russia, diventato paese insieme capitalista e sovietico, con venature repressive». Però ci sono di mezzo gli interessi economici, tanto è vero che la Germania ha stretto rapporti energetici molto stretti con Mosca. Fa parte di una tradizione che risale all’Ottocento, ricorda Carlo Rossella, ospite in studio assieme allo storico Franco Cardini. Buttafuoco insiste sul concetto di Occidente e si chiede se il bussare alla porta

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della modernità da parte di tradizioni ben radicate e solidissime non faccia altro che ridimensionare lo sbandierato primato dell’Ovest. Secondo Cardini Europa e Occidente sono sinonimi imperfetti. In mezzo c’è il Caucaso, via obbligata verso le ricchezze del mondo. Qui, sempre sulla scacchiera del mondo, ci sono sia oleodotti sia scoppi bellici, vedi l’anno scorso l’invasione georgiana dell’Ossezia e la pronta reazione di Putin. Ma la scacchiera è ormai larghissima. Nel 1996 è nata la «Shangai Cooperation», con l’idea di creare, grazie anche a una moneta comune, un impero di mezzo potentissimo. Aderiranno anche l’Iran e l’Afghanistan? Buttafuoco, tra un quesito e l’altro, segnala alcuni libri che potrebbero spiegare l’evolversi della storia, al di là degli stereotipi e della difettosa informazione giornalistica. Per esempio il volume di Parag Khanna, I tre imperi (Fazi). E, sempre per spiegare le varie tradizioni, è interessante leggere L’educazione siberiana (Einaudi) di Lilin Nicolai, il cosiddetto «criminale onesto», appartenente a una minoranza che tie-

games

ne le armi sotto le icone religiose. Poi c’è la Turchia, altra entità cultural-geografica che bussa all’Europa. Buffafuoco lancia spunti a raffica, ma seguendo un binario ben preciso. Che impedisce, a noi che reclamiamo intelligenza sul piccolo schermo, di giocare col telecomando. (p.m.f.)

dvd

NELLA RETE DEL SERIAL WRITER

AL VERTICE DELLA TENZONE

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ate sentire in inferiorità il lettore: bombardatelo di citazioni, nauseatelo con metafore stantie e costringetelo all’apnea. Nascondete la reggente dietro una siepe di subordinate, e cambiate il soggetto per dispetto». La fresca voce di Beppe Severgnini è la migliore presentazione per un sito che raccoglie suggerimenti, talvolta densi di ironia, per una buona scrittura

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incipit è un classico dell’horror centrato sulle perdita e la ricerca. Eric Simmons, un alpinista coraggioso, sfida le impervie montagne di una fosca terra sulle tracce del fratello scomparso. Cursed Mountain,nuovo gioco prodotto per Wii dalla Deep Silver, aggiorna il motivo della detection contaminandolo con le logiche imprevedibili del genere e l’indeterminatezza di uno scenario

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”Appuntidiscritturacreativa” raccoglie suggerimenti ed esercizi per giovani narratori

”Cursed Mountain” porta il giocatore nello scenario suggestivo e infido dell’Himalaya

Rivisto oggi, ”Africa Addio” è un pamphlet pieno di sbavature ma anche di vis polemica

creativa, destinata alla rete o alla pagina tradizionale. Ricco di link, video, esercizi e risorse, appuntidiscritturacreativa è il giusto indirizzo per quanti intendano produrre testi di qualità con un occhio all’impostazione grafica e alle nuove esigenze della lettura sul web. Pieno di note e commenti dei lettori, capace di deviare lo scrittore in erba dai più vieti luoghi comuni e dagli sbagli tipici dell’apprendista, il sito è una fucina di dritte e news, che non disdegna lo humour e l’aspetto ludico congenito nell’invenzione di storie. Disponibile, insieme a una guida gratuita, a un indirizzo complicato quanto prezioso: appuntidiscritturacreativa.tumblr.com.

spettrale come quello dell’Himalaya.Il protagonista dell’action dovrà vedersela con tumultuosi monaci devianti da infilzare con disparate armi d’accatto come la sua picozza. Complice l’alto grado di realismo che una console come la Wii può garantire, Cursed Mountain sfrutta la fisicità dei controller e l’elevato impatto audiovisivo di una lotta in prima persona che stanca e sfinisce davvero. Un titolo che atterrisce e che oltre ai nervi, mette i tendini a dura prova. Attenzione all’altitudine: man mano che l’eroe si inerpica in alto, si appannano sue le abilità fisiche.

quell’Africa che seppure riemerge dalle proprie rovine più moderna, più razionale, più funzionale, più consapevole, sarà irriconoscibile». Gualtiero Jacopetti e Franco Prosperi presentavano così il controverso documentario Africa Addio, David di Donatello nel 1966, riproposto in questi giorni in dvd. Accusato di apologia del colonialismo, il pamphlet dei due registi mostra marchiane sbavature e ricostruzioni disinvolte, ma anche la forza disturbante di un punto di vista che non fa sconti a nessuno. Mau Mau e bracconieri, terroristi bianchi e neri, violenze e sopraffazioni. Visto come libello filmato, Africa Addio conserva ancora interesse e vis polemica.

a cura di Francesco Lo Dico

UN CONTINENTE “NERO” Africa dei grandi esploratori, l’immenso territorio di caccia e di avventura che intere generazioni di giovani amarono senza conoscere, è scomparso per sempre. A quell’Africa secolare, travolta e distrutta con la tremenda velocità del progresso, abbiamo detto addio. Le devastazioni, gli scempi, i massacri ai quali abbiamo assistito, appartengono a un’Africa nuova, a


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poesia

Il canto di Catullo e la grandezza dell’umiltà di Roberto Mussapi e non hai un occhio adatto a vedere il Simorgh, non avrai nemmeno un cuore brillante come uno specchio per rifletterlo. Per eccesso di bontà ha fatto uno specchio in cui si riflette. E questo specchio è il cuore. Guarda nel cuore, vedrai la sua immagine». Così il poeta e mistico Attar attribuiva agli uccelli la ricerca dell’eternità che agita e muove, spesso offuscata e obliata, il cuore umano. Chi parla è l’upupa, l’uccello più nobile a sapiente che conduce il grande incontro di tutti gli alati del mondo. In quest’opera poetica straordinaria, nel concerto di voci degli esseri che popolano il mondo volando tra la terra e il cielo (dove secondo Shakespeare vi sono più cose che in tutti i libri dei filosofi), prendono la parola, nella celestiale lingua degli uccelli, tutti i più nobili e famosi rappresentanti della specie: il falco, vanitoso cacciatore, orgoglioso della sua amicizia con il re, l’anatra, entusiasta della sua coabitazione con l’acqua, che identifica con una sorta di purezza elettiva, l’ibis che vive tra le rovine alla ricerca dei tesori, l’usignolo, con la sua voce che subito svela la conoscenza dei segreti dell’amore.

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Piangete, Veneri e Amori, e voi tutte anime gentili. Il passero, delizia della mia donna, è morto il passero della mia donna, che ella amava più dei suoi occhi. Era dolce come il miele e la capiva naturalmente come una bimba la madre, e non si muoveva mai dal suo grembo, ma saltellando qua e là, con le zampette, solo alla sua padrona cinguettava. E ora scende il cammino tenebroso da cui nessuno, dicono, ritorna. Maledette, maledette tenebre dell’Orco, che divorate ogni dolcezza, rapire un passero così bello! Che disgrazia, piccolo passerino… A causa tua gli occhi della mia donna son gonfi e rossi per le lacrime.

Catullo (Traduzione di Roberto Mussapi)

E poi il pappagallo, verde smagliante, rosso, giallo e turchese, ornato di una collana d’oro, fiero della sua bellezza smagliante, offeso di essere spesso catturato e chiuso in una gabbia, la pernice in stato di ebbrezza, con il suo becco rosso, il piumaggio aurora, il sangue ribollente negli occhi, la cutrettola dalla testa gialla, con il suo corpo debole e l’aspetto tremante, il pavone dal vestito dorato e dai mille colori, il magnifico strascico di 150 penne di tinte sgargianti, l’airone infatuato del mare e dei venti come uno skipper vanitoso… e tanti altri uccelli, di ogni paese, d’acqua e di montagna, di boschi e pianure. L’upupa richiama gli uccelli, vale a dire la nostra parte spirituale, alla contemplazione nella bellezza divina: il Simorgh non è solo il re degli uccelli, in questo capolavoro della mistica e della poesia islamica, ma una delle raffigurazioni del divino. Anche nella letteratura occidentale l’uccello ha un ruolo centrale, di messaggero celeste, tramite alato tra il mondo divino e quello terreno: l’albatro della ballata di Coleridge, angelico messaggero, portatore di buoni venti, il cigno di Baudelaire, spodestato re dei cieli e degli specchi d’acqua, umiliato in un serraglio parigino, i cigni che s’innalzano potenti nelle poesie di Yeats e nella fiaba di Andersen, l’allodola di Shelley, dalla voce irraggiungibioe, l’abitatore delle altezze celesti che per il poeta costituisce il modello inarrivabile di ogni lirica umana. Come l’usignolo dell’altro grande romantico inglese John Keats. Tutti questi uccelli sono messaggeri, esseri angelici che mettono in comunicazione i due mondi. Sia nella Lingua degli uccelli di Attar, sia nel-

la grande poesia occidentale non compare il più diffuso di tutti gli uccelli, il più umile e domestico, il passero. O meglio appare, in Leopardi, ma con una funzione e un ruolo diversi, e inferiori, a quelli appena citati e alla tradizione orientale in materia. Leopardi, convinto della realtà maligna e illusoria, crudele della natura, pacificante solo negli istanti di vuoto siderale, non percepì alcun messaggio, celeste o comunque straniero, nel canto del passero, al punto che lo usò come allegoria dell’uomo, in modo non dissimile da Esopo, Fedro, La Fontaine, seppur con esiti poetici molto superiori.

Esiti straordinari, ma solo perché la poesia, quando è un dono, salva tutto. Dal punto di vista del pensiero, Leopardi vede l’uccello in una prospettiva solo umana, anzi, antropomorfa: quel passero, come il corvo o la cicogna in Esopo, è solo una maschera. In un teatro siamese vedremmo l’ombra di un passero cantare il dolore di un uomo. Non credo che, realmente, intendo nella realtà, gli uccelli siano questo, il passero sia questo. L’uccello è un messaggero, ma è anche una parte di noi, o quanto meno condivide qualcosa di congenito con noi. Lo intuì Catullo, poeta dall’immediatezza fulminante, piangendo per il passero di Lesbia. «Piangete, Veneri e Amori,/ e voi tutte anime gentili./ Il passero, delizia della mia donna,/ è morto il passero della mia donna,/ che ella amava più dei suoi occhi./ Era dolce come il miele, e la capiva/ naturalmente come una bimba la madre,/ e non si muoveva mai dal suo grembo,/ ma saltellando qua e là, con le zampette,/ solo alla sua padrona, cinguettava./ E ora scende il cammino tenebroso/ da cui nessuno, dicono, ritorna./ Maledette, maledette tenebre dell’Orco,/ che divorate ogni dolcezza,/ rapire un passero così bello!/ Che disgrazia, piccolo passerino…/ A causa tua gli occhi della mia donna/ son gonfi e rossi per le lacrime». Catullo intuì che con quella piccola creatura alata non moriva solo il passero ma una parte della donna amata, e una parte di sé, del poeta, era ferita, aveva palpitato con quel minuscolo cuore. Da allora guardo sempre i passeri, spesso sogno uno di loro, piccolo, che mi chiama. La sua voce non è bella come quella dell’usignolo, e il suo volo non si proietta in alto come quello del falco, è qui, è sempre accanto, e lo era anche quando non lo sentivo, e l’upupa disse che Simorgh è da sempre accanto a noi, anche se lo abbiamo dimenticato. Catullo mi dilatò la conoscenza del passero, del bene che abbiamo accanto, umile, grandioso. A questo servono i grandi poeti. A dare voce, a svelare non ciò che è lontano ma ciò che ci è accanto, non visto o inascoltato. Lessi il passero di Catullo e tutto mutò, in me. E la cronaca non fu più solamente tale, accesa dalla poesia.


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il club di calliope SULLE MURA D’ADOLESCENZA segni questa stagione di vento e acque, tu violaciocca, fiore dei dirupi, delle muraglie ripide e contorte fiore della breve stagione di passaggio, luminosa come l'adolescenza col gomito sulle mura e il vento in faccia, t'assediano le nubi ma poi rischiara, sul bel volto risplendi che t'è accanto, in quella primavera remota della vita Umberto Piersanti

SOPRAVVIVENDO AI PEDAGGI DEL DOLORE in libreria

di Loretto Rafanelli vevamo già avuto modo di parlare di Mariarita Stefanini, in occasione della recensione del libro Nell’ora bianca e per segnalare la plaquette natalizia Luci di mar. Dicemmo allora di una delle più belle voci della giovane poesia italiana e oggi che ci giunge il suo nuovo libro (Deserto e siamo vivi, La vita felice, 64 pagine, 10,00 euro), abbiamo la conferma che non ci eravamo sbagliati, anzi ulteriormente si rafforza quel

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ferite nude»). Il connotato risulterà monocorde oltre ogni dire (ma chi sa di Paul Celan, sa che con quel termine non si vuol dare un senso negativo all’opera), misurato dal silenzio, dal battere scandito dal materno e labirintico mare, che è speranza e vita, di amori e di figli, ma pure il metronomo del dolore di una perdita («Chi è solo ha tagli di mare sul corpo/ cucce che aspettano il buio…»). Pensavamo al tempo di Nell’ora bianca che la strada della

La nuova raccolta di Mariarita Stefanini, “Deserto e siamo vivi”, rafforza il giudizio positivo su una delle voci più incisive della giovane poesia italiana giudizio. Infatti, ancor più il linguaggio si presenta maturo, segno di un lavoro lungo e accurato e la tenuta ci pare forte, senza cadute e approssimazioni. Si avverte la complessità di una poesia che sembra giungere alla poetessa da una voce lontana, sotterranea, siderale, orfica; da un ascolto intenso, commosso, emozionato («L’ascolto/ è il volto senza suono/ il suono dell’ascolto i minimi/ smisurati gesti del volto»). La poesia della Stefanini è una dolente e abissale traversata tra le mille stanze di una fine, forse solo alleggerita da una delicata espressività e da un pathos colmo di grazia e di sussulti. Ma non sfugge che questa sia una poesia profondamente votata all’osservazione di un passaggio inquietante, fissata alle amare e difficili vicende umane, proprie e altrui (perché ella vuole reggere le angosce di tutti), che divengono lacerazioni perenni («Il nostro tempo è un pedaggio al dolore»). Una poesia quella della scrittrice marchigiana che sembra svelare un’armatura di ferite («La terra/ brucia le mie

Stefanini si indirizzasse soprattutto alla ricognizione dello scorrere degli anni trascorsi attorno al suo mare Adriatico («Nella brama decifrata e inconsapevole/ di comporsi con il mare»), come lo sfogliare di un album ingiallito, ma non è stato esattamente così, perché la lacerazione dei luoghi si interseca con la necessità della poetessa di dire di un asfittico, balbuziente, disagio esistenziale. Ecco allora che si comprende quel deserto richiamato nel titolo, che le fa dire: «Il nostro tempo è finito». L’aggiunta siamo vivi, fa pensare che quasi ella voglia mitigare una sensazione che risulta però totale e invadente. La sensazione di chi in verità può solo considerarsi un sopravvissuto («Ecco l’ora./ Una lamiera di vento scuro/ e il buio.// Ora tra i sopravvissuti»). Forse, per scontare un peccato che non si può nominare, non rimane altra via che invocare il perdono, «…il perdono che chiedi/ ai morti che chiami/ nel respiro che ascolta. Nasciamo da questo bisogno/ vivo nel profondo della terra».

UN POPOLO DI POETI guardiani al mio cancello. Scende la sera. Troppo tardi per mettersi in cammino. È sera Fiorina Piergigli

Fragranza totalizzante di baci salmastri, volto lontano rifratto in astro parlante di ambigua quiete, valle ventosa profuma di acacia la tua pelle, solitario ulivo in una dimensione dove non ti appartiene immobile lampione in una stanca notte afosa, soffice zeffiro che non rasserena l’essere, stella morente dentro me. L’amore Giuliano Cardellini

Quando si sfonda con il volo La via del cielo e il tempo Mi viene incontro nel suo segreto La città mi porge il fuoco del suo andare E tra le nuvole adesco Il segreto dell’amore Vedrò il sapore del vento Dal canto che giunge E mi spiana. Teresa Donni

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

el 1881 Carlo Lorenzini, con lo pseudonimo Collodi, toponimo del villaggio toscano dove ha trascorso l’infanzia, scrive un lungo racconto, intitolato La storia di un burattino. Pubblicato a puntate sul Giornale per i bambini, esso narra la storia, improntata a un sottile e spietato surrealismo, di un pezzo di legno che, dotato di parola, viene rozzamente modellato nelle forme di un fanciullo da un falegname. Mastro Geppeto lo chiama Pinocchio e ne prende cura paterna. La creatura si rivela però diabolica: il suo comportamento concentra i peggiori vizi degli esseri umani, bambini e non, ai quali si abbandona con immemore ostinazione, tanto da meritare l’impiccagione finale a un ramo di quercia. Il crudele epilogo scatena però nei piccoli lettori una protesta tale da convincere l’editore e lo scrittore a ripubblicare la storia che, modificata nel titolo, Avventure di Pinocchio, e nel finale, vede il pupazzo pentito e infine premiato con la trasformazione in essere umano. Il successo travolgente del crudele apologo surrealista, divenuto a forza favola a lieto fine, vale a Pinocchio l’edizione in volume dall’editore Felice Paggi, con le celebri illustrazioni, in ruvido bianco e nero, di Enrico Mazzanti. Da allora il burattino è oggetto di interpretazioni, grafiche, scultoree, televisive e cinematografiche, generalmente improntate a una soavità di maniera, che non solo è assente nel racconto di Collodi, ma che anzi ne contravviene la lettera e lo spirito, in nome di un’illusoria bontà infantile, volta a consolare gli adulti. È solo in virtù di un’insolente ironia che si sottrae a queste clausole melense il parco di Collodi, allestito negli anni Cinquanta sulle avventure di Pinocchio da un geniale gruppo di artisti tra cui Giovanni Michelucci, Emilio Greco,Venturino Venturi, Lionello De Luigi. Le ruvide illustrazioni di Mazzanti e le pungenti figurazioni del parco di Collodi sono i precedenti delle stupefacenti immagini in mostra nel prezioso museo Boncompagni Ludovisi per le Arti Decorative, che sorge a Roma, a due passi da via Veneto. L’autore è Filippo Sassoli, artista e illustratore dallo straordinario talento visionario, che ha raffigurato le creature dello Zoo, o meglio del Bestiario, che trapuntano il racconto di Pinocchio. Sono infatti numerosi gli animali che si affacciano, in veste di attori o di semplici comparse, tra le pieghe del libro. Animali indicati con il nome della specie in maiuscolo, come il Gatto, la Volpe, il Grillo parlante o il gros-

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Ritratti visionari dal bestiario di Pinocchio di Claudia Conforti

arti

so Piccione; altri dotati di nome, come i cani Melampo, Alidoro e Medoro; animali che dialogano e interagiscono con il protagonista, altri che si limitano ad affiancarlo fuggevolmente. Ma sempre animali, che non sono omologati mimeticamente all’uomo, come avviene invece nella rappresentazione di Walt Disney. Gli animali che intersecano la mirabolante avventura del pezzo di legno parlante non indossano di regola abiti e accessori mutuati dall’uomo. Eredi dei bestiari medievali, essi potenziano il loro antinaturalistico realismo con caratteri ipertrofici e sorprendenti, che ne suggeriscono la funzione metaforica e il ruolo ammonitore. È pertanto un realismo allucinato e stravolgente a guidare la mano di Sassoli, quando indugia con la precisione ossessiva del miniaturista gotico sui dettagli dei peli, dei piumaggi, delle scaglie. Segni ora risentiti e taglienti, ora lievi e sfumati ordiscono tessiture astratte, ciclopiche e surreali, che gareggiano con i fondi perlacei e marezzati, screziati dal nero della notte e dal candore spezzato del lampo.Tali effetti fantasmagorici sono ottenuti con inchiostro nero (puro e diluito) a penna e a pennello, vergato su carta cotone sottoposta a una prima bagnatura; i segni sono drammatizzati con grafite e con strumenti obsoleti, come le punte metalliche, o eterodossi come lamette e carta vetrata. Gli animali, ritratti nella loro prima apparizione nel testo di Collodi e commentati dal brano corrispondente del racconto, squadernano un irrituale procedimento filologico, che restituisce l’originario colore narrativo della favola nera di Collodi. Un colore che «è scuro: Pinocchio è un noir», afferma Sassoli nel breve testo intarsiato nel catalogo di Giunti, con saggio critico di Lea Mattarella. Il nero nelle sue più inafferrabili sfumature è declinato con acrobatica sapienza da Sassoli per imprimere immediatezza visiva e impeto espressivo al percorso terribile e fantastico dall’infanzia all’adolescenza: un itinerario iniziatico, dove si incontrano Serpenti la cui coda fuma come una ciminiera; Grilli e Civette che risanano il corpo e l’animo e dove la malinconica saggezza dell’Orango conferisce un paradossale tocco di umanità all’esercizio astratto della Giustizia.

Lo Zoo di Pinocchio. Galleria di ritratti dei personaggi-animali. Disegni di Filippo Sassoli, a cura di Mariastella Margozzi e Filippo Sassoli, Museo Boncompagni Ludovisi per le Arti Decorative, Roma, fino al 27 settembre

autostorie

Mauro Forghieri, il racconto di una vita da corsa di Paolo Malagodi ra i nomi di maggior fama e prestigio nel mondo della Formula 1, quello di Mauro Forghieri rimanda a una «vita da corsa» premiata da 4 titoli del mondiale piloti e 7 di quello costruttori, nonché da 9 campionati mondiali per vetture sport e granturismo, nel corso di una carriera iniziata il 2 dicembre 1959, quando un ventiquattrenne ingegnere meccanico varcava i cancelli di Maranello. Nato a Modena nel 1935, il giovane laureato rinunciava così all’idea di dedicarsi ai motori aeronautici a turbina e al sogno di trasferirsi negli Stati Uniti, in un’azienda del settore. Optando per un’assunzione decisa personalmente da Enzo Ferrari che lo assegnò all’Ufficio Tecnico, allora diretto dall’ingegner Carlo Chiti, per progettare

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motori da corsa e con un primo incarico sui calcoli dei nuovi propulsori a 6 cilindri, poi montati sulle monoposto del Cavallino che vinsero il mondiale del 1961. Risultato che porterà Ferrari a convocare, il 31 ottobre 1961, il nemmeno trentenne ingegnere per nominarlo responsabile delle attività sportive della scuderia. Una novità conseguente al licenziamento in tronco di Chiti e di altri sette dirigenti, tra cui l’ingegner Giotto Bizzarrini, rei di una lettera di lamentele su presunte interferenze della signora Laura, moglie di Ferrari, nella conduzione della squadra alle corse. Spettava ora a Forghieri il compito di affinare la mitica 250 GTO, imbattibile nel granturismo, insieme allo sviluppo di motori che colsero la prima vittoria iridata in Germania, il 4 agosto 1963. Con alla guida John Surtees, quarto

nella classifica di quell’anno, che nel 1964 portò la Ferrari ideata da Forghieri al titolo sia piloti sia costruttori di Formula 1. È il travolgente avvio di una quasi trentennale sequenza di successi, che vedrà Mauro Forghieri quale progettista e responsabile del reparto corse della Ferrari sino al 1987; sempre in ottimi rapporti con il non facile carattere di un Ferrari che, nel nominarlo alla guida tecnica, lo congedò con la battuta: «Se ne sono andati i generali, ma io andrò avanti con i caporali». Scelta della quale il Drake non ebbe a pentirsi, con grande stima per il talento tecnico di Forghieri salvo bacchettarlo, nelle riunioni, con frasi del tipo: «Piano a definirla la mia macchina, è una Ferrari e porta il mio nome». Come spiega, in una miriade di particolari per gran parte inediti, il racconto sviluppato in prima persona da

Mauro Forghieri e che, con la collaborazione del giornalista sportivo Daniele Buzzonetti, si è tradotto in un volume (Mauro Forghieri, 30 anni di Ferrari e oltre, Giunti editore, 220 pagine, 20,00 euro) dalla avvincente lettura, corredata da un centinaio di fotografie in bianco e nero o a colori. Che fissano alcuni momenti della carriera spesa sulle piste di tutto il mondo, oggi continuata in una società di engineering fondata nel 1995, per la progettazione e la costruzione di prototipi da corsa. Ampliando un discorso che l’ingegnere modenese, dopo l’uscita dalla Ferrari, aveva iniziato nel 1993 con l’applicazione di un Lamborghini 12 cilindri alla McLaren, per un uso rimasto tuttavia senza seguito e nonostante i positivi giudizi allora espressi da un collaudatore d’eccezione, quale Ayrton Senna.


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moda

Oggi direttore marketing, domani in mobilità… di Roselina Salemi i questa edizione del Pitti probabilmente resterà nella memoria oltre all’idea lanciata da Gaetano Marzotto (incentivi statali alla «rottamazione-rigenerazione» degli abiti: non è male), la dichiarazione non meno significativa di Lapo Elkhann, che poi sarebbe l’incarnazione del dandy eco-compatibile: «La crisi spazzerà via la mediocrità e resterà lo stile, giovane, dei

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architettura

nuovi Mastroianni e delle nuove Brigitte Bardot». Sembra che il look calciatore-tronista sia al tramonto, e basta con le linee aderenti pensate per mettere in mostra gli addominali. Anche se non tutti sono d’accordo e il filone tamarro-chic è sempre potente, pare stia nascendo un’eleganza leggera, fatta di abiti sportivi, informali, giubbotti, picot da marinaio, più polo che camicie, più bomber che cappotti. Tutto, se possibile, a impatto zero. C’è, per esempio, la maglietta biodegradabile, una t-shirt in jersey di bambù, antibatterica e antiallergica. Quando vi siete stufati, piantate Ecoflage in un vaso da fiori e lì, dolcemente si dissolverà senza lasciare traccia nell’ambiente e nell’armadio. C’è Bobby Kennedy, venticinquenne nipote di Robert ed Ethel, figlio di Ted, che combatte per i diritti dell’acqua e parla di moda etica: jeans e camicia di lino firmati Jaggy. Tornano i tessuti naturali, la canapa, la seta, la mussolina, il «cotone Massaua», storico tessuto usato nell’industria inglese dell’Ottocento per le divise degli operai, tornano i cappelli di paglia, le maglie così leggere che è possibile infilarle dentro una bottiglia di acqua di minerale (Biagiotti), i colori allegri, arditi a volte (dal menta al lilla). E torna l’idea dei vestiti «che restano», un ossimoro assoluto per il pianeta fashion. Ma a dirlo è il designer Philippe Starcke, matita geniale e superpagata, che esordisce con Ballantyne: tagli netti, cappucci, forme decise e pulite. «Non volevo fare quella moda che cambia ogni sei mesi.Voglio che i miei abiti restino a mio figlio e al figlio di mio figlio». E funziona: non sono tempi che invitano allo spreco. Il presente è il passato raccontato in un altro modo. Abbondano le citazioni vintage: la polo di Paul Newman (spalla bassa, linea abbondante) sul set di Lady L, con Sophia Loren, un must, il lino di Mar-

cello Mastroianni, lo stile di un giovanissimo John Kennedy, rappresentato oggi dal principe William di Inghilterra, e qualche squarcio di anni Settanta (ricordate Helmut Berger?). Così, sembra proprio che l’abito formale sia destinato a rare occasioni, mentre spopolano i «cargo», il denim e l’effetto stropicciato, pensati per un giramondo che porta anche i pantaloni arrotolati sotto il doppiopetto, altro che riga perfettamente stirata e camicia senza grinze. Se la moda è davvero la trascrizione frivola del mondo che cambia, questo look, spendibile per il lavoro, come per il tempo libero, esprime forse il liquefarsi dei confini tra i vari territori e anche la fluidità, per non dire la precarietà, della condizione contemporanea: oggi direttore marketing, domani in mobilità. E da uno status all’altro non c’è bisogno di cambiare il guardaroba.

L’uomo in abito intero visto da Salvatore Ferragamo

Giardini delle meraviglie da Caserta all’Eur di Marzia Marandola

a celebre tradizione delle ville italiane si associa intimamente a quella dei giardini monumentali che configurano, ancora oggi, uno straordinario patrimonio di progettazione del verde e del paesaggio. Grandi architetti si sono cimentati nella formalizzazione dei giardini e tra di essi si annoverano personalità di spicco come Luigi Vanvitelli, Giuseppe Jappelli, Andrea Vici, Giuseppe Damiani Almeida, Gustavo Giovannoni e Luigi Moretti. A supporto degli architetti paesaggisti si schierano tecnici di vario ordine e grado: fontanieri, idraulici, giardinieri, mastri muratori e botanici, che contribuiscono in termini conclusivi alla creazione del giardino formale. Se la conoscenza del committente, dei suoi gusti e delle sue predilezioni è la chiave per comprendere obbiettivi e finalità di un giardino, l’esatta consapevolezza del ruolo che i singoli tecnici svolgono nel lento processo fondativo è determinante per comprenderne le fasi costruttive e l’intreccio delle tecniche e delle discipline che ne soprintendono le ragioni artistiche. Proprio per queste ragioni, a cui si aggiungono la frammentarietà politica e culturale e le differenze climatiche del territorio nazionale, tracciare un profilo generale del giardino storico italiano

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degli ultimi due secoli è impresa titanica e sfuggente. Per venirne a capo Vincenzo Cazzato, professore di Storia dell’architettura e studioso di giardini storici di lungo corso, ha messo a punto un dispositivo complesso e risolutivo: ha fatto ricorso al dizionario biografico, un prodotto perfezionato dalla cultura po-

sitivista, la cui utilità non ha mai subito offuscamenti. Atlante del Giardino Italiano 1750-1940 è il titolo che raggruppa due volumi, curati da Cazzato, nei quali sono riunite oltre 1500 voci biografiche, riferite a protagonisti e comprimari che, in quel varco cronologico, hanno tessuto, nelle diverse regioni d’I-

talia, la meravigliosa trama di giardini, che sopravvive, almeno in parte, al dilagare opaco delle periferie e degli anonimi centri commerciali. Per raggiungere questo monumentale risultato scientifico Cazzato si è avvalso di una rete di oltre duecento studiosi che, sparsi sul territorio e organizzati in manipoli suddivisi per regione e coordinati da uno o più responsabili scientifici, del calibro di Marcello Fagiolo, Luigi Zangheri, Carlo Mambriani e Franco Panzini, hanno raccolto, confrontato e selezionato fonti e informazioni connesse agli innumerevoli giardini storici italiani e ai loro, spesso ignoti, operatori. Novello Giorgio Vasari, Cazzato racconta, attraverso le vite di nobili proprietari, di umili giardinieri, scultori, architetti e ingegneri, schierati in ordine alfabetico e per gruppi regionali, l’ultima memorabile stagione del giardino all’italiana: dal parco reale di Caserta (1750) ai giardini pubblici dell’E42 a Roma (1940).

Atlante del giardino italiano 1750-1940. Dizionario biografico di architetti, giardinieri, botanici, committenti, letterati e altri protagonisti, a cura di Vincenzo Cazzato, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2 volumi, 1158 pagine, 100,00 euro


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i misteri dell’universo

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ai confini della realtà

ina Cigna è stata uno dei grandi soprani drammatici del Ventesimo secolo; stupì Toscanini all’audizione accompagnandosi da sola al pianoforte, cantò la Turandot 498 volte e fu soprannominata signora Turandot. A Leyla Gencer che le chiedeva se avesse cantato la Traviata rispose sì, circa trecento volte… Smise nel pieno della sua arte, causa un incidente dell’autobus su cui viaggiava; continuò a insegnare, restando in grado sino alla tarda età di arrivare all’ottava sopracuta. Era cugina di una mia compagna di liceo, Lia Cigna, e il suo medico personale, Dario Marini, era anche lui un compagno di liceo, lo presentai al grande mezzosoprano Giulietta Simionato che aveva un problema quando il suo medico era in vacanze. Gina Cigna morì a 101 anni, un anno più di quelli raggiunti da un’altra grande cantante soprano, Ester Mazzoleni, palermitana di adozione, che raggiunse i 100. La Simionato e la Olivero quest’anno raggiungono i 99, e che superino il secolo è probabile. Il decano dei cantanti è un altro soprano italiano, Licia Albanese, di Bari, a New York da oltre mezzo secolo, prediletta anche lei da Toscanini, vedova di un ricchissimo finanziere, presidente di una associazione pucciniana, e la cui età è variamente stimata fra i 100 e i 105 circa (Stinchelli in Stelle della lirica la dice del 1909, ma il soprano Antonietta Stella, altro miracolo della lirica italiano, mi ha detto che quando conobbe Licia, lei le disse di essere maggiore di 25 anni ….; so che non si chiede l’età alle signore, ma dovrei incontrarla e spero allora di risolvere questa questione).

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L a s u p e r i o r e u s u a l e longevità delle donne rispetto agli uomini è una questione di cui non conosco risposta; la maggiore longevità di numerose persone nel mondo musicale potrebbe essere legata a una migliore respirazione, e al sentirsi realizzati in una professione che unisce valori spirituali e sensitivi. Qui brevemente consideriamo in un contesto e generale e particolare il problema della longevità. Partiamo dal presente con un occhio al futuro. Nel corso del Novecento l’età media è più che raddoppiata in Occidente e almeno quadruplicata in India. Nell’Emilio di Rousseau troviamo la seguente frase, impressionante per i cambiamenti che implica: e si avvicinò un vegliardo di circa 50 anni. Paul de Kruif, lo scrittore che con il libro Cacciatori di microbi affascinò milioni di lettori e ne spinse molti a divenire medici, scrivendo verso i quarant’anni, nella prima metà del Novecento, un secondo libro, nell’introduzione si dichiara statisticamente alle soglie della morte, in quanto allora la vita media in Usa di poco superava i quarant’anni. Ora in Italia ci sono più di mille centenari e decine di migliaia di nonagenari, molti ancora attivi pur non essendo stati soprani o tenori (ricordiamo che il grande biologo Mair publiccò la sua opera principale a 93 anni e che Bethe pri-

Vecchi come…

Matusalemme di Emilio Spedicato ma di morire a 99 anni lamentava solo di non avere più la bella memoria dei 90 anni; e che Artur Rubinstein disse che gli anni più belli sono i 90). Le punte di longevità in Occidente arrivano ai 120 anni, si può ricordare il caso della francese che cedette a un avvocato la casa con diritto di uso e una pensione vita natural durante, e che l’ avvocato morì prima di lei… Guardando all’Oriente, il

Dalai Lama ha scritto di un suo monaco che avrebbe avuto circa trecento anni, come si è pure detto del maestro del primo docente di yoga in America, Paramahansa Yogananda, autore della famosa Autobiografia di uno yogi.

T a l e m a e s t r o è anche noto non solo per meditare seduto sulle acque del Gange, ma per il corpo che

Nel Novecento l’età media in Occidente è più che raddoppiata mentre in India è quadruplicata. Tra le cause che spiegano il fenomeno ce n’è una poco indagata: l’aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera. Essa agisce su parti del cervello che controllano crescita e longevità...

non lascia ombra, fatto personalmente osservato dal professor Gabriele Mandel, che ha anche scattato fotografie. Passando al futuro atteso, uno studio di qualche anno fa del presidente dell’associazione dei demografi francesi faceva per il 2400 le seguenti stime, che cito a memoria: età media 140 anni, eliminazione della menopausa, donne con un secondo figlio dopo i cento anni, una popolazione del pianeta sui venti miliardi, fra cui 2 di cinesi, 3 di indiani, 9 di africani e meno di mezzo miliardo di bianchi, specie in estinzione e probabilmente protetta… Ovviamente sono solo giochi previsionali, perché nessuno sa i fattori che varrano nel futuro. L’aumento della vita nel Novecento ha varie cause, forse non tutte note. A parte la diminuzione della mortalità infantile, dovuta un tempo ad acqua non potabile e scarsezza di cibo, si devono considerare la migliore alimentazione (anche se l’eccesso di cibo e la qualità troppo ricca non sono a favore della longevità), le cure mediche, e forse l’aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera, fattore praticamente ignorato, su cui è bene dire qualcosa. Nel corso del Novecento l’anidride carbonica nell’atmosfera è aumentata sensibilmente, insieme con altri gas che contribuiscono al riscaldamento (ma nessuno sa con certezza quale sia la causa reale del riscaldamento ovviamente manifesto nello scioglimento dei ghiacciai e del permafrost, e nell’aumento del livello degli oceani, …). La CO2 aumenta per la combustione di sostanze fossili, e per l’emissione dagli oceani, che riscaldandosi possono tenere dissolta meno CO2. Ma accanto agli effetti usualmente considerati l’anidride carbonica ne ha altri. Uno è l’aumentata crescita delle piante, che raggiungono volumi maggiori. È accertato che le foreste della Finlandia oggi hanno circa il 30% in più di legname che a fine Ottocento. Il secondo è un effetto documentato nella letteratura da quasi un secolo, ma incredibilmente ignorato. È stato studiato in Unione Sovietica all’epoca leninista, quando si fecero anche esperimenti di accoppiamento uomo-scimmia, e recentemente è stato confermato su topi all’università dell’Oregon a Portland (ricerca finanziata anche da chi scrive!). Tali esperimenti suggeriscono che la CO2 agisca su parti del cervello che controllano crescita e longevità, con il risultato di produrre corpi più grandi e una durata di vita maggiore. Se ciò è vero, si avrebbe una ulteriore spiegazione del perché nel corso del secolo passato non solo l’età media sia cresciuta così tanto, ma anche la statura degli uomini sia aumentata, di un 5-10%, fatto notevolissimo, di solito attribuito solo alla disponibilità di cibo in quantità anche sovrabbondanti. Possono questi fattori spiegare le grandi età dei patriarchi biblici, i 969 anni di Matusalemme, gli oltre 900 di Adamo, Enoch, Noè? Probabilmente no, va forse considerato un altro fattore su cui ritorneremo.


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