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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

“Al bistrot dopo mezzanotte” di Joseph Roth e “L’ultimo dono” di Sandor Màrai

MEMORIE DALLA LIBERTÀ di Pier Mario Fasanotti ronaca, memorie, nostalgia, preveggenza, letteratura, affreschi sociali e indimodello pre-europeo, o intimamente europeo già allora, legato al concetto di frontieviduali, politica.Tutto si può dire in riferimento a quell’eterna e tremula vira che poi la storia orrenda che venne dopo tradusse in esilio, umiliazione, razzigilia che sta a cavallo tra le due grandi guerre, quando un temporale smo, barbarie. Il secondo è Sandor Màrai, ungherese di nascita (1900 a KosiTracce mai visto squassò le radici profonde dell’Europa, sconvolgendo ce), oscillante tra la lingua materna e il tedesco, scrittore tra i più fini e di presente il mondo intero. Ma per favore, non usiamo il termine «Piccolo uomo tra i più disorientati, alla fine suicida in America. Le opere di mischiate a futuro mondo antico». Non è piccolo, semmai è vastissimo perché ha Roth e di Màrai, oppositori del nazismo e del comunismo, sopropaggini geografiche e culturali simili a un’ingomno pubblicate in Italia dall’editore Adelphi. Entrambi viin un impasto di diario, brante piovra. Non è antico perché avvertiamo suldero il lumicino della speranza e del riscatto nell’alcronaca, preveggenze, resoconti le nostre spalle, ancora oggi, quel peso, quella lora «autentica capitale del mondo», la Parigi di due esuli dell’“Austria felix” lezione, assieme all’ammirazione sconfinata verdella libertà orgogliosa e superba. Appena edito so chi ebbe il tragico privilegio di raccontare quei deda Adelphi è quell’impasto di diario-memorie-resoche a Parigi e in America cenni. Due esempi per tutti: Joseph Roth e Sandor Màrai. Il conti di Roth (Al bistrot dopo la mezzanotte, 294 pagine, primo austriaco di Brody (1894), in Galizia, cantore tagliente, trovarono riparo, riscatto 19,00 euro) che nel 1925 partì per la Francia, paese cui si era già e qualche struggente e modernissimo della dissoluzione dell’impero austro-unispirato nella creazione di suoi personaggi e situazioni romanzesche. garico, del crollo dell’«età della sicurezza» (vedi riquadro nella pagina sucsperanza continua a pagina 2 cessiva), della dissoluzione di qualcosa che non era solo territorio o regno, ma

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Matrimonio di Rino Fisichella Il cinema cantato da Claudia Gerini di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Ceccardo Ceccardi inquieto anticipatore del Novecento di Francesco Napoli

Matarazzo & Co. gli spaccacuori di Orio Caldiron Meditando sulla vita in compagnia di Horten di Anselma Dell’Olio

Usa 1929, scatti dalla Grande Depressione di Marco Vallora


memorie dalla

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nerme e impotente, dovetti essere testimone della inconcepibile ricaduta dell’umanità in una barbarie che si riteneva da tempo obliata e che risorgeva invece col suo potente e programmatico dogma dell’anti-umanità». Questa una delle frasi più significative - contenute nel suo libro più famoso, Il mondo di ieri (Mondadori) - di Stefan Zweig, figlio di un industriale ebreo, nato a Vienna nel 1881 e morto suicida in Brasile nel 1942. Dopo la fine dell’impero austro-ungarico Zweing divenne l’autore più tradotto al mondo. Trascorse dei periodi in Italia e Francia. A Cap d’Antibes incontrò Joseph Roth. Nel 1933 le sue opere furono bruciate dai nazisti, stessa sorte toccata a Thomas Mann e Sigmund Freud. Nel ’34 si trasferì a Londra, cinque anni più tardi a New York. Nel Mondo di ieri raccontò un universo perduto, «l’età dell’oro della sicurezza». Dopo «la grande bufera» che travolse il mondo, scrisse: «Sappiamo definitivamente che quel mondo della sicurezza è stato un castello di sogni… eppure i miei genitori vi hanno sempre vissuto come in una casa di granito…. mai una tempesta, o anche soltanto una ventata troppo forte è penetrata nella loro vita comoda e tiepida». Zweig ricorda l’ordine e la tranquillità di un impero giudicato tollerante. E si fece cronista, con venature fortemente nostalgiche, di ciò che gli parve la società ideale: «Nella nostra monarchia

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Zweig e quell’intervallo nel ritmo dell’eterno progredire

Stefan Zweig, morto suicida nel 1942. In copertina, Joseph Roth (il primo a sinistra) in un caffè di Amsterdam nel 1936

segue dalla prima In un certo senso Roth insegue le anime dei suoi racconti, che nella Francia intravedevano la sicurezza economica, il riparo da possibili persecuzioni razziali e la prospettiva di un futuro diverso. Lo scrittore è sempre stato profetico, tanto è vero che già all’inizio degli anni Venti nello Stato tedesco annusava la presenza di «una repubblica senza repubblicani». La Francia, diceva lui di quella nazione ufficialmente «nemica», «manda e riceve scintille». Qui ci resterà quattordici anni, e qui scrisse la maggior parte delle sue opere. S’immaginava da ragazzo la Provenza e il Midì e a essi dava un colore: il bianco. Queste «città bianche» le vide veramente a trent’anni. È attratto da Avignone che, come scrive, «è Gerusalemme e Roma, antichità e Medioevo», terra salvifica, civitas dei. Quel che da eccellente giornalista e scrittore rabdomante individuava come la pacifica fusione di popoli e di credenze. Se Stefan Zweig con il suo Mondo di ieri era nostalgico, Roth non rinunciava all’utopia, all’ideale: «Ogni persona porta nel proprio sangue cinque diverse razze, antiche e recenti, e ogni individuo è un mondo che ha origine in cinque diversi continenti». Pare una frase pronunciata da un progressista spirituale di oggi. Poi, si sa, ci fu la folle parentesi del nazismo. E il sangue di milioni e milioni di vinti, trucidati e azzoppati nello spirito.

«Chi non è stato a Parigi è solo un mezzo uomo»: questa la dichiarazione entusiastica appena sceso dal treno. Ma la propensione per la cronaca veritiera e una lucida vena profetica gli consentiranno di vedere tracce di presente mischiato al futuro. Osserva i parigini ballare nelle strade e sul taccuino scrive: «L’insopportabile alterigia di una casta che ben può competere con quella dei ghigliottinati è ricomparsa». S’infila nella «spaventosa grandio-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato a cura di Gloria Piccioni

quasi millenaria tutto pareva duraturo e lo Stato medesimo appariva il garante supremo di tale continuità. I diritti concessi ai cittadini erano garantiti dal parlamento, dalla rappresentanza del popolo liberamente eletta, e ogni dovere aveva i suoi precisi limiti. La nostra moneta, la corona austriaca, circolava in pezzi d’oro e garantiva così la sua stabilità. ….. Ogni famiglia aveva un bilancio preciso, sapeva quanto potesse spendere per l’affitto e il vitto, per le vacanze o per gli obblighi sociali, e vi era anche sempre una piccola riserva per gli imprevisti, per le malattie e il medico. Tutto nel vasto impero appariva saldo e inamovibile …. Nessuno credeva a guerre, a rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni atto radicale, ogni violenza apparivano ormai impossibili nell’età della ragione. Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli europei, così come non si credeva più alle streghe e ai fantasmi; i nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nella ir-

sità della massa» e ne aspira gli umori. Getta lo sguardo su un cartellone pubblicitario raffigurante un bebè enorme e in splendida salute. È la réclame di un sapone. Ma lui lo legge così: «…un mostro gagliardo che oggi sorride ancora ma che domani sogghignerà, un lattante sportivo con una faccia da pallone colorato in cui si annunziava l’uomo del futuro… questa è più di una réclame, è un simbolo, è l’America: l’America sopra Parigi». Se non è chiaroveggenza questa… Tagliente e un poco acido, osserva gli esuli russi che saltellano con la balalaica, quelli che «nella nostalgia del buon tempo andato degli zar ne cercano la restaurazione con le sete e coi lustrini al varietà». Clown con cipria shakesperiana, ballerine «che non sono né belle né nude», il profumo d’una sinuosa spagnola, il temperamento di Mistinguette, il penoso numero d’uno storpio di fama: «…non scompaiono, anzi risaltano in questo vortice di stupidità». Roth sa mettere da parte l’amarezza - inevitabile prodotto di chi pensa lucidamente - per abbracciare la Francia e tutti i suoi colori. Con trasporto sincero. Con amore. A tal punto che scrive a Bernhard von Brentano: «Non ha veramente senso essere uno scrittore tedesco. Da qui si guarda giù, giù in fondo, come da un’alta torre dell’europeismo e della civilizzazione; la Germania è una sorta di abisso». Quando i giornali per cui scrive lo mandano in Russia, avvertirà la nostalgia della douce France: «Io sono un francese d’Oriente, un umanista, un razionalista religioso, un cattolico con un cervello ebraico, un vero rivoluzionario». La rivoluzione della civiltà, la tolleranza come valore supremo. Anche Sandor Màrai (di cui l’Adelphi ora pubblica L’ultimo dono, 212 pagine, 18,00 euro) fu scrittore vagabondo, ma con un passo sempre dolente e disperato. «Ormai mi vergogno di scrivere» si legge in una delle ultime pagine del suo diario, dove però non riesce ad affondare la brillantezza ironica del suo pensiero. «Ogni tanto sento riecheggiare le parole del vescovo

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

libertà resistibile forza conciliatrice della tolleranza. Lealmente credevano che i confini e le divergenze esistenti fra le nazioni o le confessioni religiose avrebbero finito per sciogliersi in un comune senso di umanità, concedendo così a tutti la pace e la sicurezza, i beni supremi». Poi il baratro, il ritorno a un modo, anche entusiasmante, del vivere idealmente selvaggio. Zweig cerca le ragioni dell’illusione frantumata: «Fummo costretti a dar ragione a Freud, allorché egli riconobbe nella nostra cultura e nella nostra civiltà solamente un sottile diaframma, che ad ogni momento può essere sfondato dagli impulsi distruttivi del mondo sotterraneo, e noi abbiamo dovuto a poco a poco abituarci a vivere senza un saldo terreno sotto i piedi, senza diritti, senza libertà, senza sicurezza. Da un pezzo abbiamo rinnegato per la nostra esistenza la religione dei nostri padri, la loro fede in una ascesa rapida e perenne dell’umanità». Il viennese, esule tra esuli, non rinunciò all’illusione del domani: «Anche dagli abissi dell’orrore nel quale noi oggi ci muoviamo, semiciechi, a tastoni, con l’animo sconvolto e dilaniato, io torno pur sempre ad alzare lo sguardo verso le antiche costellazioni che scintillavano nel cielo della mia infanzia e mi conforto con la fede innata che un giorno questa nostra ricaduta debba apparire soltanto un intervallo nel ritmo eterno dell’eterno progredire». (p.m.f.)

francese moribondo:“Non vado via, vi precedo soltanto”». E ancora: «Vivo completamente solo, dunque non mi annoio». La memoria è pur sempre una scarpa chiodata sopra la testa. Màrai ricorda quel che lo ha sempre affascinato, i ragni. I ragni che comparvero sul soffitto, nel soggiorno dell’editore di Amburgo, «pochi minuti prima che Amburgo venisse colpita dal primo grande bombardamento a tappeto dall’aviazione inglese, in un pomeriggio autunnale del 1944… non sappiamo nulla di certo sull’energia che mette veramente in moto il meccanismo». Il senso di mistero avvolge i suoi ultimi anni. In ospedale sente raccontare da un’infermiera che la madre ha 97 anni, è cieca eppure «fa tutto da sola»: «L’orizzonte umano non conosce contorni» commenta tra sé. Legge l’Etica di Spinoza, ma prova solo disgusto: «Sono soltanto parole, parole e nient’altro. La realtà è muta».

Memorie ungheresi anche, ovviamente. S’interroga sul corrispettivo ungherese di «gene», lo chiede a un amico biologo, lo ascolta ma inciampa nella complicazione scientifica e si chiede come mai questa sia la via più percorsa dalla natura umana. Riceve notizie dalla patria, legge i giudizi sui suoi diari apparsi anche nella terra che dovette abbandonare. Ai comunisti di Budapest non può piacere una considerazione come questa: «…la classe media ungherese, succeduta alla generazione liberale delle riforme, tra le due guerre mondiali rinunciò alle proprie aspirazioni e decise di farsi valere presentando il certificato di battesimo invece del diploma, mise in vendita l’attestazione di nobiltà, quella pergamena screpolata che provvedeva a una qualificazione razziale». Sia Roth che Màrai odiano il marchio, quello che si stampa sulla carne viva delle bestie e in quella degli uomini quando non c’è la libertà. Il marchio è il simbolo della mediocrità più spaventosa e più brutale. Già, perché l’uomo, o un’idea, deve indossare una divisa?

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parola chiave

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MATRIMONIO come matrimonio. Indica che quanto Dio ha unito l’uomo non deve mai separare. Sembra un’imposizione cattolica, ma non lo è. Per comprendere a fondo il matrimonio è necessario compiere un rapido, ma importante, percorso che parte dalla natura per giungere all’impegno sacramentale che è dato dalla Chiesa. Esiste un principio per la dottrina cattolica e si esprime nell’assioma: gratia supponit naturam et perficit eam; la grazia suppone la natura e la porta a compimento. Mai come nel caso del matrimonio questo principio è così determinante, perché la sua grazia vive di quanto la natura ha posto a fondamento della relazione d’amore tra le persone: la stabilità.

Dono e vocazione sono i due termini distintivi di un percorso che partendo dalla natura giunge all’impegno sacramentale. Senza gratuità è impossibile entrare nella logica dell’amore. E il senso della missione consente di superare la passività dei ruoli

Oggi il matrimonio è inserito all’in-

di Rino Fisichella

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terno di un faticoso processo che impegna tutti a un’attenzione particolare circa i cambiamenti che si stanno attuando nella nostra società. Da una parte, infatti, sembra che l’istituzione sia in crisi; dall’altra si vuole imporre un modello di famiglia che rinnega alla base la sua stessa natura. Il matrimonio richiede, anzitutto, di essere riportato all’interno del concetto di mistero. Esso rappresenta il contesto più adeguato per poterlo comprendere ed esprimere. Questa dimensione favorisce la presentazione del mistero dell’incontro dell’uomo e della donna come una chiamata a unire la propria vita in vista della realizzazione della propria identità personale. La conosciuta pagina della Genesi viene in aiuto per esplicitare il senso di questo concetto. Si narra della tristezza di Adamo, dopo la sua creazione, per lo stato di solitudine in cui versava. A nulla servì la sua superiorità sugli animali; il fatto che Dio li conducesse a lui per sottometterli alla sua forza e ricevere da lui il nome, che sarebbe rimasto per sempre, non toglieva ad Adamo il desiderio di avere qualcuno con cui dialogare. Dio allora fece scendere su di lui il sonno e dal suo costato creò Eva, la madre di tutti i viventi. Al suo risveglio, Adamo scoprì qualcosa che prima gli era impossibile: finalmente davanti a sé aveva la donna, carne della sua carne e osso delle sue ossa. Di fronte a Eva, Adamo capisce chi è; Eva diventa la risposta al suo desiderio di non voler restare solo. Dio non ha creato l’uomo per la solitudine, ma per la relazione perché nella scoperta dell’altro rinvenisse il senso più profondo di sé. Il cerchio di solitudine si spezza, Adamo inizia a parlare e nel comprendere se stesso in relazione con Eva sa che non potrà mai dominarla, perché anch’essa è creatura uscita direttamente dalle mani di Dio. Plasticamente, il testo sacro dice che Adamo non dà il nome a Eva; questo è riservato a Dio, come per lo stesso Adamo. Questi potrà solo chiamarla «donna», madre di tutti i viventi. L’uguaglianza tra i due si fonda nell’atto creativo di Dio che in ambedue pone l’immagine e la somiglianza con sé. Eva e Adamo diventano l’uno per l’altro dono di Dio; per questo i due capiscono che la loro esistenza sarà composta in

Il cammino della felicità

Di fronte a Eva, Adamo capisce chi è. Eva diventa la risposta al suo desiderio di non voler restare solo. Dio non ha creato l’uomo per la solitudine, ma per la relazione, perché nella scoperta dell’altro rinvenisse il senso più profondo di sé. L’uguaglianza tra i due si fonda nell’atto creativo di Dio

una unità tale da formare «una sola carne». È richiesto loro di lasciare il padre e la madre per creare una nuova unità che appare ai loro occhi come forma di vita creata esclusivamente per loro. I tratti fondamentali della famiglia cristiana sono qui composti in una sintesi mirabile. La dimensione del dono, anzitutto, come forma primaria dell’amore. Senza questa componente della gratuità è impossibile entrare all’interno della logica dell’amore. Il rapporto sarebbe rinchiuso nell’ambito della conquista dell’uno sull’altro, con alla base una sottile forma di ricatto che si esprime spesso nel manifestare il sacrificio compiuto, costruendo una sorta di impervio dominio destinato a distruggere la sincerità del rapporto. La vita familiare, inoltre, va letta come una vocazione che giorno dopo giorno va conosciuta e attuata per essere realizzata in maniera significativa. La vocazione non è un tratto secondario nella costruzione della famiglia, al contrario; essa caratterizza a pieno il cammino che si deve percorrere per individuare la missione propria a ognuno. Si corre spesso il rischio di rimanere legati al «ruolo» che la funzione impone dimenticando che terminato il tempo del ruolo, gli sposi sembrano cambiare volto e vanno alla ricerca di altre condizioni così da ricevere qualche soddisfazione supplementare che, purtroppo, è solo effimera. La scoperta della vita familiare come vocazione, al contrario, permette il passaggio dalla passività del ruolo alla dinamica attiva della «missione» che ognuno è chiamato liberamente a compiere per realizzazione il piano che Dio ha per ognuno di noi.

La famiglia è certamente un «mistero» di amore, ma essa si pone come «sacramento» che permette di cogliere un amore ancora più grande e profondo. Il patto d’amore che i due sposi si scambiano, unitamente al segno dell’anello nuziale, sono segno di una donazione l’uno all’altro che riguarda tutta la vita; un amore che non fosse «per sempre» sarebbe costruito sulla sabbia della precarietà e non potrebbe mai fregiarsi di essere «amore». Un simile amore diventa genuina donazione l’uno dell’altro nella misura in cui non si trattiene nulla per se stessi, ma «tutto» viene dato alla persona amata, proprio sull’esempio di Cristo che dà tutto se stesso alla Chiesa, sua sposa come ricorda l’apostolo Paolo (Ef 5,21-33). Dinanzi a questo amore, comunque, ognuno si interroga per comprendere come sia possibile che esista una tale forma che in maniera indissolubile lega l’uomo e la donna in una reciprocità di amore tale da diventare perfino fecondo. La fecondità dell’amore, infatti, nasce dal fatto che uno dona tutto se stesso alla persona amata, ma questo viene fatto insieme. Non più «due», ma «una sola carne» danno «tutto se stessi». Solo così si comprende l’amore che genera in maniera responsabile e sempre fecondo. Nel matrimonio, insomma, ognuno fa a gara nell’amare di più perché l’atto della donazione di sé sia così evidente da rendere inutile ogni parola mentre diventa efficace nella vita.


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cd

musica

Le colonne sonore che piacciono a Claudia di Stefano Bianchi o iniziato a pensare a questo disco due estati fa, in un’afosa notte mediterranea in cui mi sono sentita felice, leggera, libera. Da sempre, oltre al cinema e al teatro, amo il canto e la musica. Il cinema, che mi ha permesso di crescere e sognare, è indissolubilmente legato a canzoni che mi hanno rapita e trasportata in mondi fantastici dove tutto era possibile». Claudia Gerini, con Like Never Before, ha coronato il sogno di passare dal set alla sala d’incisione. Inevitabile ragio-

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nare su altre attrici che hanno avuto l’ardire di cimentarsi nel canto: Marilyn Monroe, Doris Day, Nicole Kidman in Moulin Rouge, Scarlett Johansson che giusto un anno fa ha intonato il meglio dal repertorio di Tom Waits. E poi Liza Minnelli e Barbra Streisand, che da subito mostrarono un gran feeling col microfono tanto da risultare più scalatrici da Top Ten che da «box office». E in Italia? Nel 1960, il contagioso refrain di Zoo Be Zoo Be Zoo fece rima con la Sophia Loren del film La miliar-

daria, mentre Anna Magnani affrontò Scapricciatiello, Aggio perduto ‘o suonno e ‘O surdato ‘nnammurato col suo temperamento sanguigno. Gran bella scommessa, per la Gerini. Con prevedibile contorno di malelingue pronte a sibilare: bella forza, è fidanzata con Federico Zampaglione dei Tiromancino! Scontato che prima o poi decidesse di fare la cantante… Sbagliato. L’attrice romana cantava già nel ’96, in Sono pazzo di Iris Blond di Carlo Verdone. Lei e lui, nei nightclub di Bruxelles, facevano technopop

come Iris Blond and the Freezer. E adesso, coi 9 pezzi di Like Never Before, mette la sua voce (che non fa gridare al miracolo ma è gradevole con quel pizzico di sensualità che non guasta) al servizio dei temi da film che le piacciono di più. Di quei brani, cioè, «che evocano sentimenti così intimi, ma al tempo stesso condivisibili con migliaia di ragazzi e ragazze che come me hanno vissuto e amato queste pellicole». La scelta, in particolare, cade su schegge di colonne sonore già di per sé danzerecce: Maniac, estrapolata da Flashdance, si trasforma ad esempio in una sorprendente bossanova; Hey Baby, pizzicata dall’intreccio di Dirty Dancing, si sdoppia fra blues e cabaret; Paradise, dall’omonimo film, svela spagnoleggianti suggestioni; la strafamosa Time After Time di Cyndi Lauper, che si ritagliò uno spazio in una scena topica di Ballroom - Gara di ballo, si nutre di suadenti melodie. Accattivanti, poi, l’intimismo unplugged di Reality (Il tempo delle mele) e le atmosfere vintage di Girl You’ll Be A Woman Soon, composta da Neil Diamond e utilizzata da Quentin Tarantino in Pulp Fiction. Federico Zampaglione, va da sé, cuce addosso alla sua partner efficaci arrangiamenti. E in questo «ciak: si canta», ripesca l’habanera di quella Niña de Luna che Claudia intonò due anni fa nel film Nero bifamiliare. Mentre lei cantava, ironia del destino, lui se ne stava dietro alla macchina da presa. Claudia Gerini, Like Never Before, Edel, 15,00 euro

in libreria

mondo

IL FURORE DEL RAP

riviste

OASIS, DALL’ MP3 AL VINILE

IL METAL IN POLE POSITION

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ato sulla base del ritmo e della rabbia, maturato tra assonanze, allitterazioni e scoppiettante inventiva lessicale, il rap è sorto a metà degli anni Settanta come fenomeno marginale, per giungere ai vertici di tutte le vendite nelle hit parade del Pianeta. Georges Lapassade e Rousselot Philippe ripercorrono le origini di un genere che vanta ormai innumerevoli ramificazioni e crosso-

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n coincidenza con l’inaspettato rifiorire del mercato del vinile, l’etichetta Big Brother annuncia l’imminente ripubblicazione in disco di tutti gli album degli Oasis. Reduci dal grande successo di Dig out your soul, capace di emulare i fasti del passato con il primo posto nelle vendite italiane e britanniche, e riproporre il gruppo di Manchester in una veste sperimentale inedita, la

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Lapassade e Philippe analizzano la parabola di un genere unico: dalle periferie alle hit parade

L’etichetta Big Brother annuncia la prossima ripubblicazione di tutti gli album della band

Il 27 e 28 giugno, a Monza, il meglio dell’hard rock: dai Dream Teather agli italiani Extrema

ver in Rap, il furore del dire (Bepress, 150 pagine, 11,00 euro).Vera e propria poesia orale del nostro tempo, capace di sussumere l’arte trobadorica e di rinverdire l’arte dei cantastorie, l’hip hop visto dai due autori ha saputo dare voce alle periferie di tutto il globo, e di innervare di nuova linfa lo sviluppo del sound contemporaneo altrimenti appiattito sul pop tradizionale. Introdotto da Pierfrancesco Pacoda, lo studio si segnala per agilità e chiarezza espositiva, e formula una prima teorizzazione della poetica rap in un orizzonte musicale ancora in fieri e non del tutto indagato in modo organico. A cavallo tra sociologia, musica e letteratura, lettura solida ma non tediosa.

casa discografica dei fratelli più famosi di Manchester proporrà un cofanetto a edizione limitata che conterrà tutte le emissioni della band, da Definitely maybe a Don’t believe the truth. Compresi nella ristampa anche The masterplan, raccolta di b-sides, e poi anche Standing on the shoulder of giants e naturalmente gli intramontabili del brit pop, What’s the story morning glory e Definitely maybe. Per la gioia dei collezionisti e gli appassionati del modernariato di ritorno nell’era degli mp3, la raccolta di lp sarà proposta in versione one-off, ossia senza ulteriori ristampe.

per tutti. Aprono il week-end gli Heaven and Hell di Ronnie James e gli storici Queensrÿche, senza trascurare gli Extrema, esponenti nostrani del trash metal che presenteranno il nuovo album Pound for Pound. Da non perdere anche Marty Friedman e il glam punk dei Backyard Babes, oltre all’hard rock dei Mötley Crüe in arrivo con il recente Saints of Los Angeles. Domenica imperdibile con il clou della manifestazione: sul palco del Brianteo suonano infatti i Dream Teather. Da ascoltare con piacere anche i Saxon, un trentennio abbondante di carriera alle spalle, e i travolgenti Slipknot, band statunitense che va per la maggiore tra i giovani.

a cura di Francesco Lo Dico

opo l’ultima edizione del 2002, torna quest’anno il più grande raduno heavy metal italiano che riunirà il meglio dell’hard rock mondiale in Brianza. Una due giorni, informa altatensione.it , che convoglierà allo Stadio Brianteo di Monza, il 27 e 28 giugno, ventiquattro band prestigiose ad alternarsi su due palchi con quattro headliners e minutaggio di esibizione parificato


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zapping

SALVATE I METALLICA dal Palalottomatica di Bruno Giurato vviva i Metallica, le chitarre distorte sono meglio del Ritalin. E visto che leggevamo sul he c’è chi il Ritalin lo vorrebbe dare anche ai bambini vien da pensare che le chitarre sono sempre più adatte della chimica. Metallica anche per i bambini, appunto. Truci e incazzosi portabandiera della rabbia cosmica, misura esatta della violenza terapeutica, i quattro di San Francisco scrivono testi meravigliosi che assomigliano a elenchi dei mali del mondo. E poi hanno agganci letterari con HP Lovecraft. E questo basti. Ma il problema è un altro. Perché i Metallica il 24 giugno a Roma debbono suonare al Palalottomatica? Cioè debbono massacrare la loro musica dura e raffinata in quel catino di rimbombi? Fosse d’inverno vabbè. Si sa che nella Roma ex Veltrona ora Alemanna luoghi coperti nella musica rock non ce ne sono. Che il celebrato auditorium (celebrato soprattutto dai cartelli stradali, le indicazioni per raggiungerlo si trovano fino a Torre Maura) sarà buono per i violini, ma appena ci si mette dentro musica amplificata a volume alto stride come una suola nuova sulla ceramica. Fosse d’inverno pazienza. Ma d’estate, con tutti i posti che si trovano all’aperto chiudere una decina di migliaia di persone al Palalottomatica è sadismo. Certo, forse è una mossa voluta, in linea con i temi della band, acustica sofferente per un pubblico che deve soffrire, ma così il gioco è troppo facile: Eschilo invece di scrivere tragedie avrebbe potuto passare in platea con un bastone, e giù botte catartiche. Certo che una location come il Palalottomatica d’estate fa pensare che forse il Ritalin è la soluzione, e invita a lasciar perdere le chitarre distorte.

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classica

Quando Pizzetti si abbandonò al canto di Jacopo Pellegrini lle volte arrivare ultimi è una fortuna. Come quando, dovendo riferire su uno spettacolo, il cronista può appoggiarsi, saccheggiare o discutere le opinioni espresse da altri prima di lui. Prendiamo il caso di Assassinio nella cattedrale, «tragedia in due atti e un intermezzo», parole e musica di Ildebrando Pizzetti (18801968), dal dramma omonimo di Eliot (1936), riapparsa alla Scala a cinquantuno anni dal battesimo ufficiale, celebratosi proprio tra le mura del teatro milanese, e a cento dalla nascita di Gianandrea Gavazzeni, che quella trionfale prima del marzo ’58 diresse. In genere, l’opera ha ricevuto commenti rispettosi, simili a quelli già espressi nei suoi recenti ritorni sulla scena nazionale (Torino, Roma,Trieste, Parma, Bari); ritorni propiziati da cantanti che nella parte protagonistica di Tommaso Becket, arcivescovo di Canterbury, ucciso nel 1170 dai baroni fedeli a re Enrico II, vedono a ragione un veicolo sicuro di affermazione personale. Gli altri solisti, infatti, non hanno tratti individuali: o sono emanazione della massa corale - corifee, sacerdoti -, o si presentano come schiera indistinta - i quattro cavalierisicari; le apparizioni dei tentatori, anch’esse in numero di quattro, risultano, è vero, un po’più caratterizzate, ma sono troppo fuggevoli per imporsi. La centralità di Becket richiama ovviamente altri spartiti che ruotano intorno alla voce di basso, dal Boris Godunov di Musorgskij (molto apprezzato da Pizzetti) al Don Carlo di Verdi (echi di Filippo II affiorano dal declamato di Tommaso); l’impegno richiesto è tuttavia molto meno oneroso (Assassinio dura pressapoco un’ora e mezzo). Da ciò la predilezione che vari artisti non più alle prime armi riservano a questo spartito. Caso verificatosi anche alla Scala, nel ’58 e nel ’69 con Nicola Rossi Lemeni, con Ferruccio Furlanetto oggi. E qui mi tocca contraddire una prima volta l’opinione dominante (tra le rare eccezioni, Avvenire): magnifico in scena, il basso friulano tende però a trasformare il declamato di Pizzetti in parlato puro e semplice, inquinandolo oltretutto con inopportuni piagnistei. Una musica come questa, in cui l’intervallo (la distanza tra le note) è investito di funzioni strutturali, richiede intonazione esattissima. Inoltre, già a partire da Cagliostro (1952) e La figlia di Iorio (’54), e in misura maggiore in Assassinio, Pizzetti, sen-

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tendosi accerchiato e superato dai nuovi movimenti d’avanguardia, smussa la francescana castigatezza del suo linguaggio musicale e scioglie un’inusitata vena di canto: non abbondante, ma persistente sì (corifee e coro femminile, Becket quando predica, il primo tentatore, l’Intermezzo e le due scene corali dell’Atto II). Anche l’orchestra si adegua al nuovo orientamento: dalla sua peculiare limacciosità spuntano barbagli timbrici e spunti più calorosi, quantunque le parentele con Mahler e Berg individuate da alcuni vadano piuttosto reindirizzate verso Wagner (padre di tutti costoro) e verso la Giovane scuola italiana, combattuta dal Pizzetti giovane e modernista, recuperata dal vecchio in funzione antimoderna. Solo che - seconda obiezione - il lodato (non dal Giornale, però) direttore Donato Renzetti, efficiente e

scrupoloso com’è, agguaglia le diverse componenti di una musica non varia in apparenza ma stratificata nella sostanza, sotto il segno di un’espressività magniloquente e un po’ generica, che coinvolge anche i cantanti (lodevoli la Angeletti, Gabba, Cordella e un paio dei cavalieri). Il coro, che secondo il Corriere deve affrontare «asperrime tessiture» nelle voci femminili, si mostra efficace proprio in questo settore. L’allestimento, regia scene e costumi di Yannis Kokkos, riprendeva quello di Trieste: sobrio pulito composto, passerebbe inosservato, non fosse per lo schizzo di sangue che zampilla dalla gola del vescovo ucciso suscitando l’ilarità generale.

jazz

La Roman New Orleans Jazz Band sessant’anni dopo di Adriano Mazzoletti essant’anni fa, nasceva ufficialmente in Italia, con una street parade per le vie del Pincio a Roma, quel movimento conosciuto nell’ambito del jazz, come «New Orleans revival». I responsabili furono alcuni musicisti dilettanti che in quel pomeriggio di una bella giornata di inizio estate sfilavano suonando i classici del jazz. Erano la tromba Giovanni Borghi, il trombone Luciano Fineschi, il clarinetto Marcello Riccio, il sax soprano Ivan Vandor, il pianista Franco Nebbia che nell’occasione suonava i piatti. Al basso tuba vi era Pino Liberati, il tamburo rullante era suonato da Peppino D’Intino mentre suo fratello Rodolfo marciava a fianco dell’orchestra tenendo ben alto un cartello con scritto a lettere cubitali, «Viva Louis Armstrong». Molti amici portavano altri cartelli con scritte inneggianti al jazz e a Buddy

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Bolden, anche se nessun romano aveva mai sentito parlare di lui e non capiva chi in realtà fosse questo signore. Il recupero del jazz tradizionale era iniziato negli Stati Uniti da oltre dieci anni. Le convergenze erano state molte: le ricerche effettuate sul campo da Frederic Ramsey jr. e Charles Edward Smith, che per primi parlarono della nascita del jazz a New Orleans e dei pionieri di questa musica, la riscoperta di Jelly Roll Morton da parte dell’etnomusicologo Alan Lomax e le trasmissioni radio di Rudi Blesh e Orson Welles provocarono un rinnovato interesse per il jazz classico. Fu un movimento che fece molto discutere. Gran parte del mondo intellettuale americano bianco si interessò al fenomeno e contribuì alla sua diffusione soprattutto nell’ambiente della media e alta borghesia. Era il sintomo di un cambiamento nei gusti del pubblico che vedeva in quella musica una manifesta-

zione d’amore per una forma di jazz scomparsa da quasi trent’anni e che invece si voleva perpetuare. In Italia la prima orchestra di stile New Orleans fu dunque la Roman New Orleans Jazz Band, così battezzata da Louis Armstrong quando il 27 ottobre 1949, partecipò a una jam session di fronte ai musicisti americani giunti per la prima volta nella Capitale. Quando la Roman dopo pochi giorni diede il suo primo concerto il successo fu enorme. Nei successivi trent’anni, l’orchestra incise innumerevoli dischi, diede migliaia di concerti, partecipò a numerose tournée, diventando popolarissima. Le esibizioni della Roman indussero il compositore Mario Nascimbene a produrre il primo documentario della storia del jazz in Italia. Incaricò il regista Valerio Zurlini di realizzare un cortometraggio che all’epoca fece sensazione: I blues della domenica con la Roman che eseguiva alcuni brani, soprattutto blues,

scritti da Luciano Fineschi. Quel film ebbe successo e fu proiettato nei cinema di molte città. Sono trascorsi sessant’anni, la Roman non esiste più, ma sono ancora in attività alcuni musicisti che nel tempo hanno fatto parte di questa orchestra nelle due diverse formazioni, i pianisti Giorgio Zinzi e Mario Cantini, il sassofonista Ivan Vandor, il trombonista Marcello Rosa, il clarinettista Gianni Sanjust, il batterista Roberto Podio. Quest’ultimo ha avuto l’idea di far rinascere l’orchestra con Guido Pistocchi alla tromba e Massimo Moricone al contrabbasso. Il debutto avrà luogo a Trieste il 15 agosto. Questa ricorrenza è però inspiegabilmente assente dai cartelloni dei festival romani del jazz, quelli di Villa Celimontana e della Casa del Jazz. Occasione perduta per ricordare il sessantesimo anniversario di un’orchestra che, se non altro, ha portato sempre con grande successo il nome di Roma in giro per il mondo.


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narrativa

libri

Follia e guerra

er un titolo ostico tanto alla pronuncia quanto al rapido intendimento, l’ultimo romanzo di Ugo Riccarelli mette in scena invece una storia di architettura razionalista, fissata su inizio e fine dialoganti e speculari. Comallamore, unica parola derivata da come all’amore, è una sorta di grido di liberazione che uno dei personaggi chiave del romanzo, Fosco, pronuncia in antitesi a alla guerra come alla guerra. Grido di liberazione ma anche progetto, sentimento profondo quello dell’amore che si oppone all’odio e alla guerra del secondo conflitto mondiale. Il romanzo di Riccarelli, che ha quello stesso respiro del suo Il dolore perfetto, vincitore nel 2004 del premio Strega, ha come suo centro di sviluppo il tema della follia indagato sia in un microcosmo di paese con al centro il suo manicomio, sia, pensiero più ambizioso, quello di guardare alla storia del fascismo e nazismo come parentesi di follia. Non nasconde il narratore che la tesi del libro corre sul doppio binario della follia e della guerra insieme. La follia dei singoli malati curati alla vecchia maniera manicomiale della segregazione, e la follia collettiva che sfocia nella seconda guerra mondiale, una teoria enunciata chiaramente sul finire della storia quando una giovane giornalista chiede al vecchio Beniamino, protagonista del romanzo, di raccontare la storia dei matti di Pianoro e del partigiano Comallamore. In principio Beniamino è un giovane vicino alla laurea in medicina vissuta come riscatto di una famiglia contadina. Un incidente durante una partita di calcio lo alletta per mesi facendogli sfumare la laurea e rendendolo zoppo, un episodio che si tira dietro altre sciagure: la morte del padre, il

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con gli occhi di Beniamino di Maria Pia Ammirati

suo immediato impiego (per necessità) dentro la struttura del manicomio che confina con la propria casa. Beniamino, il ragazzo che nel nome porta il bene, arriva in manicomio zoppo e deluso. Avrebbe voluto entrare in quella struttura che conosce da bambino, con l’autorevolezza del medico e la forza della gioventù, e invece deve entrare come allievo infermiere e con una gamba zoppa che lo rende invalido. Ma il manicomio è un mondo alternativo a quello dei sani che abitano fuori e che vedono quello spazio come qualcosa di estraneo e da allontanare, e Beniamino diviene l’anello di congiunzione tra il dentro e il fuori. Mentre la vita in manicomio procede secondo un criterio di quotidianità e di cura, scende su tutto la cappa della paura della guerra. Un evento che sembra lontano ma che irrompe con brutalità e violenza. La follia e l’irrazionale del mondo nazista arrivano fino a Pianoro, tranciano le consuetudini e contaminano lo spazio dei malati. Beniamino, diventato un punto di riferimento dell’ospedale, assiste inerme all’omicidio del primario, giustiziato davanti a tutti da un ufficiale nazista. Un omicidio inutile e rappresentativo come era diventato d’uso nei frequenti rastrellamenti dopo l’8 settembre. Un episodio che accelera la promiscuità tra mondo sano e mondo malato fino a confondere tutto, nulla si ristabilisce se non spostando gli equilibri. «La liberazione fu una cosa da matti», dichiara infine Beniamino. Qualcosa che ha a che fare con l’oscuro che abita l’uomo ma anche con il senso profondo della vita e della giustizia. Ugo Riccarelli, Comallamore, Mondadori, 186 pagine, 18,00 euro

riletture

Onfray e il platonismo duro a morire di Giancristiano Desiderio a quando qualcuno Goethe - ha detto che non c’è più nulla da scrivere perché tutto è già stato scritto non resta altro da fare che rileggere. Anche ciò che è inedito, e che si scrive or ora, fu già scritto e si presenta a noi come «rilettura». Prendete il caso del filosofo francese più noto in Italia: Michel Onfray (vi ho fregati, già eravate corsi con il pensiero a Cartesio e Pascal). Il suo pensiero è una rilettura del pensiero razionalista di Benedetto Spinosa su base edonista. I due titoli più recenti sono La potenza di esistere, edito da Ponte alle Grazie, e L’arte di gioire, portato in librerie da Fazi Editore. Ma sono soltanto gli ultimi due titoli, perché in Italia sembra quasi scop-

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piata una «Onfray mania» da quando, qualche anno fa - in realtà quattro anni fa - venne pubblicato proprio da Fazi il Trattato di ateologia. Fu un caso. Prima in Francia e poi, più relativamente, in Italia. Il filosofo francese, che nel 2002 ha fondato l’Università Popolare di Caen - che, come dice la copertina di L’arte di gioire, dispensa corsi di filosofia a persone di ogni età e ceto sociale - nega l’esistenza di Dio, la nega alla maniera di Nietzsche che si considerava fratello di Spinoza - e cioè come ordine o senso o ragione o logos del mondo e della terra e del cielo e della mente umana. Il Dio dei filosofi altro non è che il bisogno della nostra specie umana, troppo umana, di dominare il divenire, cioè questa realtà terrena e terrestre e la nostra stessa vita biologica che - panta rei - sem-

pre diviene e senza alcun controllo da parte nostra ci trascina via. Sulla base di questa idea platonica della filosofia il pensiero occidentale ha raccontato la «storia della filosofia» come una storia idealistica o razionalistica in cui i valori danno senso al mondo e al corpo. Ma se il Dio dei filosofi muore, allora, si può fare una controstoria della «storia della filosofia» dando spazio a quella «corrente» - anche e soprattutto nel senso ionico della parola - che da Platone in poi è stata messa in minoranza se non rimossa dalla coscienza filosofica: l’edonismo. Che cos’altro ha insegnato Spinoza se non a liberare l’uomo dal peccato e dalla mortificazione dei desideri? Michel Onfray, come lasciano intravedere e capire già i titoli dei suoi libri, esalta l’etica del corpo

liberato dal peccato in nome della «naturalità» e «razionalità» dei desideri umani. Il bene è la stessa realizzazione del desiderio, il bene è l’utile, il bene è ciò che si vuole, l’importante - aggiungeva Spinoza - è volere secondo ragione. Il Dio dei filosofi sarà anche morto, ma l’ateo per eccellenza - Spinoza - è stato il maggior credente nella ragione universale della filosofia: Deus sive Natura, era il suo motto. In Onfray la ragione conserva il suo ruolo conoscitivo, anche se attenuato rispetto allo spinozismo, perché senza il valore «illuministico» della ragione è sempre difficile parlare di conoscenza e, di conseguenza, di liberazione. L’arte di gioire passa attraverso il filtro della ragione. Non basta gioire, bisogna saper gioire. Il platonismo è duro a morire.


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autobiografie

Si chiama Gesù lo “scandalo” di Legrottaglie di Riccardo Paradisi

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uella del calciatore Nicola Legrottaglie, difensore della Juventus e atleta quotatissimo nel borsino del calcio-mercato, è la storia di un outing molto particolare. Che ha fatto gran rumore e ha sollevato scandalo e polemiche, gettando su Nicola un cono d’ombra di sospetto e di diffidenza. Sì, perché Legrottaglie non ha ammesso di fare o di avere fatto uso di sostanze stupefacenti, di coltivare qualche vizio o perversione, di aver comprato o venduto partite, non ha nemmeno nel suo armadio segreto storie di squillo e paparazzi - ricordate lo scandalo dei giri di prostitute per calciatori? - Nicola ha detto di avere incontrato Gesù

personaggi

Cristo e di camminare con lui ogni secondo della sua vita. Uno scandalo appunto: tale da mobilitare sospetti e illazioni. O da apparecchiare gogne mediatiche come il confronto tra Nicola e un esagitato Cecchi Paone che alla trasmissione di Chiambretti aggrediva il calciatore della Juve urlando: «Non ci volete far scopare». Sarà un fanatico? Uno squilibrato? Un visionario questo Legrottaglie? Basta leggere Ho fatto una promessa (Piemme editore), un’autobiografia di Nicola Legrottaglie curata da Matteo Orsucci, un giovane intellettuale toscano della scuola di Papini, per capire che Nicola è semplicemente un cristiano che vive la sua fede. Una fede che lo ha sostenuto in tutti questi anni e lo ha aiutato a rag-

giungere i suoi obiettivi. Il primo di questi era divenire un giocatore professionista ed è da questo desiderio che nasce la promessa del titolo. Una promessa rivolta a Dio: «Se un giorno diventerò un calciatore di Serie A, sarò un missionario nel mondo. Lui la sua parte l’ha fatta, ora tocca a me». «In questo libro racconto la mia esperienza - spiega Nicola - il mio percorso di vita, come calciatore e come uomo di fede. Percorsi che inevitabilmente sono legati, perché Dio e sempre presente, in ogni momento. Il messaggio che ne viene fuori è che Lui è al nostro fianco, sempre, e che dobbiamo solo aprire il nostro cuore per accoglierlo». Parole troppo inattuali per non destare appunto scandalo, per

non seminare sospetti, incomprensione e disagio in una società votata a un consumismo compulsivo e nichilista dietro il quale si nasconde l’antico paganesimo morente, gli esangui dei della tarda antichità che James Hillman ha spiegato essere diventati malattie mentali con la modernità. Chi sfotte Nicola, lasciandolo peraltro perfettamente sereno, in fondo di questo cambiamento ha il terrore. E del resto Cristo aveva avvertito coloro i quali avrebbero seguito i suoi insegnamenti: «Vi mando come agnelli tra i lupi. Siate candidi come colombe ma astuti come serpenti». Nicola Legrottaglie, Ho fatto una promessa, Piemme editore, 196 pagine, 15,50 euro

L’Homo poeticus secondo Danilo Kisˇ di Angelo Crespi difficile condensare in poche righe l’universo poetico di Danilo Kisˇ (Subotica 1935 - Parigi 1989), scrittore tra i più robusti di quelli che vengono considerati o si consideravano dell’Europa centrale, lui jugoslavo, di origine mezza ungherese e mezza montenegrina e di religione ebraica, con alle spalle tutto il dramma dell’olocausto e della scomparsa di quel mondo che aveva capitale in Vienna, deflagrato in mille culture e altrettanti nazionalismi. Milan Kundera, un altro esule letterario dello stesso luogo dell’anima che fu la Cacania di Musil, annota che solo Kisˇ ha «saputo trasformare questo dramma in grande poesia, il solo che, ossessionato dalla politica, non abbia mai sacrificato ai luoghi comuni della po-

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racconti

litica una sola frase dei suoi romanzi». «Da una parte Orwell, dall’altra il maestro Nabokov», è infatti uno dei diktat poetici di Kiˇs che anche in questa raccolta di saggi Homo poeticus esprimeva la sua disapprovazione per lo scrittore engagé, preferendo la poesia alla politica, essendo la «poesia una diga contro la barbarie», mentre la riduzione di tutto alla politica un diabolico fraintendimento. Non a caso sono illuminanti i brevi saggi su Flaubert e appunto Nabokov, chiuso nella «sua aristocratica solitudine» ed estraneo alle lotte politiche, e che rappresenta un modello irraggiungibile ˇ ma geniali sono anche gli per Kis; aforismi e i paradossi del capitolo «Consigli a un giovane scrittore»: «Non scrivere per il lettore medio: tutti i lettori sono medi», ma anche «non scrivere per l’élite, l’élite non esiste, l’élite sei tu»; «non avere una missione», e anche «guardati da coloro che hanno una missione» e poi «abbi il

coraggio di dire che la poesia di Aragon alla gloria della Gpu è un’infamia». D’altronde Kiˇs intende la scrittura come una «vocazione», come «una vanità» ma meno inutile di altre forme di esistenza, in sostanza un modo per sopravvivere all’insoddisfazione della vita. Non poco per chi come lui dovette pagare le tragedie della storia (i suoi familiari sterminati in campo nazista, il resto della vita ramingo), ma che dalla storia non ebbe neppure il piccolo risarcimento morale di assurgere a grande dissidente, essendo sempre libero di viaggiare tra Jugoslavia e Francia in qualità di lettore universitario e riconosciuto traduttore. Il suo, come già detto, fu un esilio poetico e dunque ancor più duro da sopportare, nella molteplicità di lingue e paradossi che hanno determinato quell’Europa sopravvissuta alla caduta della Austria felix e finita dentro il comunismo. Danilo Kis, ˇ Homo poeticus, Adelphi, 364 pagine, 30,00 euro

Famiglie spezzate in un interno

di Pier Mario Fasanotti ena ha circa nove anni. June, sua madre, è nervosa perché Patrick, dal quale è separata, ha annunciato il suo secondo matrimonio. Interno di famiglia spezzata, con dinamiche magistralmente messe in scena da una scrittrice americana che conosce l’entomologia delle piccole e grandi emozioni, senza soffermarsi su nulla al di fuori dei gesti quotidiani: sono questi che riassumono un universo e fanno da mastice all’intera vicenda. June si preoccupa dei propri capelli. Fa domande a Lena, di continuo, le rivela anche di essere «una madre di merda» perché non s’accorge che la bambina ha un’infezione alla

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gola. Chiama una baby sitter, la signora Shefferd. Questa non si limita a fare la badante, paziente e distaccata, di una ragazzina che affronta la solitudine. Le parla, le racconta della sua vita, di un avventuroso episodio che coinvolse la madre tra i ghiacci: il pericolo, il rischio di morire, lo sforzo di rimediare a tutto senza esitare troppo con una lama adatta a togliere escrescenze e incipienti cancrene. Le confida pure della madre suicida, decisa a non continuare una vita dimezzata e umiliante. Si sostituisce, progressivamente in un naturalissimo e caldo clima di intimità, alla madre June, fredda, insicura, ancorata ai simboli materiali della sopravvivenza di donna piacente, probabile cacciatrice di rela-

zioni post-matrimoniali. Lena vorrebbe andare al matrimonio del padre, la madre è contraria. La ragazzina accarezza gli oggetti che questi ha lasciato in casa, ci gioca: sono strumenti dentistici che la signora Shefferd conosce e in teoria saprebbe usare. Eventualmente per estrarre le tonsille della bambina: vere, certo, ma con un valore psicosomatico evidente. Una notte i ruoli si invertono, dopo una serata al circo assieme a un probabile spasimante di June. È la donna a chiedere il sostegno e l’approvazione della figlia. Poi le si infila nel letto, la stringe e viene respinta, piange, torna in camera, disperata per il mai superato strappo coniugale. Il matrimonio di Patrick è la sanzione di una fine, è l’emble-

ma della gioia di lui e del lutto di lei. Sarà la signora Shefferd a sostituirsi all’ospedale, mischiando passato e presente e offrendo ciò di cui Lena ha più bisogno: l’accudimento di un (vero) adulto. Questo il crudo, e crudele, racconto che dà il titolo alla raccolta. Il lettore s’imbatte in fallimenti, desolazioni, squarci vividi di realtà quotidiane. Angela Pneuman, l’autrice, non nasconde niente: lancia una sonda nei complicati meccanismi familiari e aspira il vero senso delle esistenze. Non è l’America dell’upper-class, a volte così finta e caricaturale. Angela Pneuman, Rimedi casalinghi, minimum fax, 227 pagine, 14,00 euro

altre letture Donald Sassoon è storico comparativista presso il Queen Mary College di Londra ed è l’autore di un libro godibilissimo destinato a diventare uno di quegli strumenti intellettuali indispensabili per prendere qualche misura al mondo contemporaneo se non proprio per comprenderlo. Il saggio ponderoso di Sassoon si chiama La cultura degli europei (Rizzoli, 1602 pagine, 45,00 euro) è una guida enciclopedica ai concetti chiave, ai brand del mercato della cultura che hanno formato e plasmato la cultura europea: Victor Hugo e i Beatles, Bach e Internet, Hegel e Cretinetti. E anche l’editoria, il cinema, il ballo, il jazz, la radio, il comunismo. Un vocabolario delle idee degli ultimi due secoli un libro, come dice il suo autore, che «punta l’attenzione, in modo piuttosto sfrontato, sulla cultura intesa come impresa e come professione». Uno dei grandi inviati

della storia del giornalismo è stato Albert Londres (1884-1932). Nel 1914 è corrispondente di guerra per il quotidiano Le Matin viene inviato come corrispondente di guerra a Reims, alla vigilia del bombardamento della città. È qui che realizza il suo primo reportage sull’incendio della cattedrale. Nel 1920 è il primo giornalista francese a visitare la Russia bolscevica. Nel 1922 è in Giappone, Cina, India. Muore nell’incendio della nave che dall’India lo riporta in Francia. Dal 23 giugno al 20 luglio invia le sue corrispondenze dal giro di Francia ora raccolte in Tour de France Tour de souffrance (Excelsior 1881, 173 pagine, 21,50 euro). In quel giro arriva vincitore a Parigi l’italiano Ottavio Bottecchia. Al traguardo finale saranno 60 ciclisti ad arrivare sui 150 che erano partiti. Londres nota inquietanti paralleli tra i ciclisti e i forzati delle colonie penali e inventa la definizione «i forzati della strada». Cronache bellissime che raccontano l’epica del ciclismo che fu e di un’Europa scomparsa.

Scrittore tra i più acclamati, controversi e originali dell’America di oggi James Fray in Buongiorno Los Angeles (Tea edizioni, 553 pagine, 16,60 euro) racconta il volto che volentieri l’America nasconde e lo fa scegliendo come scenario una Los Angeles allucinata, dove si incrociano le vite di homeless alcolizzati, ragazze madri ispanoamericane, coppie tragiche di drogati. Frey segue questi personaggi, dà loro parola in presa diretta, da vicino e intanto allarga la nostra visuale ad altri personaggi e alla città. A perdita d’occhio, fino a che ci rendiamo conto di essere di fronte a un paese intero, a una cultura, a un momento storico. a cura di Riccardo Paradisi


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cinema

NEL 1949 “CATENE” DI RAFFAELLO MATARAZZO È IL PRIMO NELLA CLASSIFICA DEI MAGGIORI INCASSI, PREVALENDO SU FILM E AUTORI MOLTO PIÙ NOTI E IMPORTANTI. È L’ERA DEL CINEMA FEUILLETON, IN AUGE TRA LA METÀ DEGLI ANNI QUARANTA E LA METÀ DEI CINQUANTA. UN PERIODO CHE TRA MILLE POLEMICHE VEDE IL TRIONFO DEL MELODRAMMA ALL’ITALIANA CHE CONFLUIRÀ DI LÌ A POCO NELLO SCENEGGIATO TELEVISIVO…

Gli Spaccacuori di Orio Caldiron egli anni Cinquanta i dibattiti sono riti di esorcismo. Non fa eccezione neppure quello sul cinema popolare che si svolge sulle colonne dell’Unità dall’autunno 1955 alla primavera 1956. Perché milioni di spettatori li premiano con incassi record mentre i critici li bollano come filmacci d’appendice? Tutti insistono sulla disparità di giudizio tra critica e pubblico, ma pochi sono disposti a mettere in discussione i propri strumenti critici. Il fantasma del neorealismo è ancora il mito di riferimento di gran parte della critica che attribuisce all’autore l’aureola del mandato pedagogico-sociale, fuori del quale ci sono soltanto basse speculazioni commerciali e bieche corruzioni del gusto. Il caro estinto continua a essere il parametro, più un imbuto che una chiave di lettura, a cui viene commisurata ogni novità. Non importa che il mondo stia cambiando e il cinema non sia più quello di dieci anni prima. La bestia nera del dibattito è Raffaello Matarazzo. I suoi film sono citati di solito con lo sdegno totalizzante che esclude ogni volontà di analisi, nonostante Catene sia nel 1949 in cima alla classifica degli incassi e Tormento (1950), I figli di nessuno (1951), Chi è senza peccato…(1952) restino sempre tra i dieci maggiori successi della stagione. Nel suo intervento lo stesso regista - che si mette dalla parte del pubblico, in difesa dei trentasette milioni di spettatori che hanno visto i suoi film, tanti per un paese di quarantasei milioni di abitanti - rifiuta il giudizio sommario, respinge l’accusa di facile, deteriore sentimentalismo. L’ingenuità di Matarazzo - che dietro la macchina da presa piange come una fontana mentre Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson si riabbracciano nell’ultima inqua-

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sconvolgere «tutto ciò che normalmente costituisce il “principio di realtà”, con le sue cesure, i suoi compromessi, le sue ipocrisie tranquillizzanti». Nello «scandalo» del melodramma, sempre eccessivo, estremo, inconciliabile, si può finalmente riconoscere non solo lo statuto di un genere d’intrattenimento popolare ma una forma moderna d’immaginario dotata di una interna necessità, che resiste al di là delle trasformazioni. Sin dal primissimo dopoguerra il mélo italiano aveva rivendicato la propria legittimità nell’ambito del cinema spettacolare in cui la continuità prevale sulla frattura, contrapponendosi ai film-manifesto del neorealismo in cui la frattura avrebbe dovuto imporsi sulla continuità. Mario Mattoli - uno dei grandi artigiani dell’anteguerra - si candida a svolgere un ruolo importante nel nuovo corso con La vita ricomincia (1945), in cui affida ad AlidaValli, la sua attrice feticcio, il compito di rappresentare il corpo stesso di un cinema sotto processo che, sullo sfondo sin troppo esemplare delle macerie di Napoli e di Cassino, respinge le accuse e continua a «parlare al vostro cuore». Nessun dubbio sul verdetto. La filosofia del regista che non risparmia le frecciate alla volgarità dei neoricchi e all’ambiguità dei potenti, coincide con la saggezza conciliatrice del professor Eduardo De Filippo: «Niente, è la vita che ricomincia come prima. Non è successo niente, non c’è stato niente. Niente scene, niente declamazioni, niente perdoni». Nonostante Alida sia più bella che mai, non ha altrettanto successo Il canto della vita, l’altro film prodotto in quell’anno fatidico dalla stessa casa. Il veterano Carmine Gallone si affanna ad aggiornare la ricetta del dramma lar-

Mattoli, Gallone, Bianchi, Alessandrini, Bonnard, Bragaglia... Sono alcuni dei registi che, opponendosi alla mitologia del neorealismo, rivendicarono per il mélo italiano una legittimità e lo statuto di genere di intrattenimento dratura di Catene - è la stessa dello scrittore popolare che partecipa alla vita dei propri personaggi e si commuove soffrendo con loro. Non sono molto diversi neppure i meccanismi attraverso cui una narrativa tutt’altro che rivoluzionaria porta la donna alla ribalta affidandole il compito di sciogliere i nodi drammatici e di ristabilire la «normalità», ma facendone anche il tramite nei confronti del mondo notturno dei desideri inconfessabili in cui incalzano le strategie dell’inconscio.

Se sono stati sottolineati a più riprese i limiti mediologici di una querelle che si ostina a ignorare i sommovimenti in corso nello scenario dell’industria culturale di massa, forse non si è insistito abbastanza sulla diffidenza nei confronti dell’universo melodrammatico che squaderna davanti ai nostri occhi lo spettacolo dell’iperbole, mettendo in scena le emozioni nell’«assolutezza di contrapposizioni basilari come tenebra e luce, salvezza e dannazione». Soltanto anni dopo si potrà ammettere senza giri di parole che l’intero sistema retorico del melodramma rappresenta «una vittoria sulla repressione», riuscendo a

moyant, fatta di cinici seduttori e figli della colpa, sfoggiando i contrassegni dell’attualità - rastrellamenti tedeschi, improbabili partigiani, sfilate alleate tratte dai cinegiornali - senza mai riuscire a farli diventare parte integrante della vicenda, arroccata in un’immobile ambientazione contadina. Il tentativo è condiviso da altri infaticabili del cinema popolare che sfornano un gran numero di titoli sintonizzati sul presente. Se Fatalità (1947) di Giorgio Bianchi è una datata storia passionale rivitalizzata dalle illusioni della ricostruzione, L’ebreo errante (1948) di Goffredo Alessandrini mescola con disinvoltura il manicheismo del vecchio feuilleton con l’orrore insostenibile dei lager, oscillando tra l’antica leggenda e un’affrettata pacificazione. Il grido della terra (1949) di Duilio Coletti perde di vista la vicenda sentimentale a vantaggio del tema inconsueto della nascita di Israele, tra soprassalti della guerriglia antibritannica e partecipi incursioni nel vissuto della comunità ebraica. La città dolente (1949) di Mario Bonnard vede la frontiera jugoslava nell’ottica della propaganda anticomunista, enfatizzando le vicissitudini di quanti hanno sacrificato tutto pur di restare italiani.

L’attualità è anche quella della «cronaca nera» che torna alla ribalta dopo la lunga rimozione del ventennio fascista. L’altra (1947) di Carlo Ludovico Bragaglia inaugura il filone del melodramma noir interpretando nella chiave pirandelliana delle molte verità il caso Graziosi, uno dei primi drammi passionali del dopoguerra, appena riproposto da un lungo processo. Tombolo, paradiso nero (1947) di Giorgio Ferroni nella famigerata pineta di Livorno si ritaglia un intero girone di criminali, «segnorine», magnaccia, dando vita a un film a corrente alternata in cui i sopralluoghi neorealisti non interferiscono più di tanto con il gaglioffo voyeurismo della vicenda. Il filone - anzi l’avvio di un filone destinato a crescere negli anni seguenti - suscita le rimostranze di un critico per bene come Mario Gromo che vi riconosce la fragilità della produzione commerciale pronta a scivolare nel conformismo delle formule: «Prima, e per forza, tutti bravi Pierino, tutti a braccia conserte, tutti nel primo banco: ora, e per convenienza presunta, tutti cattivi, tutti cattivoni, tutti cattivacci. Era prima vietato sullo schermo il delitto? E giù delitti. L’adulterio? E giù adulteri. La prostituta? E giù prostitute. Il dopoguerra è stato una


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giori successi arridono a Guido Brignone. Nel ‘49 l’eclettico money-maker riesuma La sepolta viva di Francesco Mastriani e Il bacio di una morta di Carolina Invernizio, nei quali, ormai assenti i fremiti di rivendicazione sociale propri della prima fase del romanzo d’appendice, l’appiattimento sull’universo dei lettori piccoloborghesi e sottoproletari si salda al ripiegamento sugli interni familiari. Sin da queste scelte sembra prevalere un tipo di racconto apolitico, fatto di delitti sensazionali, clamorose redenzioni, figlie perdute e ritrovate, in cui il codice dell’onore ruota intorno ai personaggi femminili. Negli anni seguenti il «modello Invernizio» è più vivo che mai. Il veterano Carlo Campogalliani - classe 1885, nel cinema sin dal 1909, attivo in Italia, Francia, Germania, Sud America - riprende con alterna fortuna quattro dei centoventi romanzi dell’«onesta gallina della letteratura popolare»: La mano della morta (1949), La figlia del mendicante (1950), L’orfana del ghetto (1954), L’angelo delle Alpi (1956). L’effetto boomerang va ben oltre la scrittrice di Voghera fino a investire un’intera biblioteca della narrativa popolare e d’appendice.

A sinistra, le locandine dell’epoca. Sopra, Amedeo Nazzari in una scena di “Catene” e alcune tra le attrici più celebri negli Anni 50: Lucia Bosé, Silvana Mangano, Silvana Pampanini, Eleonora Rossi Drago, Yvonne Sanson e Alida Valli

sentina, un miasma? E giù a frugare in quella sentina, in quel miasma». Nel frattempo Gallone ci riprova con Avanti a lui tremava tutta Roma (1946), in cui il tema resistenziale, con tanto di paracadutisti inglesi e di ufficiali tedeschi, si intreccia alle effusioni diTito Gobbi e Anna Magnani, impegnati dentro e fuori il palcoscenico a rifare la Tosca. Ma è soltanto con Rigoletto (1946) che si assicura il primo posto nella classifica della stagione, rifacendo tale e quale la celebre opera di Verdi. Il singolare campione d’incasso - preceduto di poco da Il barbiere di Siviglia (1946) di Mario Costa - inaugura la fioritura del film operistico, che tiene banco per un decennio con diciotto cineopere, di cui sette firmate dal vecchio maestro.

L’intero repertorio classico dell’opera lirica italiana passa dal palcoscenico allo schermo, dando vita a uno dei primi generi cinematografici postbellici. Il successo del cinema operistico attraversa l’affermazione trionfale del mélo. Saltano agli occhi le differenze di fondo tra melodramma cantato e mélo, tra film opera e dramma larmoyant, ma anche le affinità che si rifanno al grande mo-

Specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame? Non è possibile ripensare al mélo del dopoguerra senza rievocare le presenze fantasmatiche di Silvana Mangano, Lucia Bosè, Silvana Pampanini, Ingrid Bergman, Anna Magnani, AlidaValli, Eleonora Rossi Drago e di tutte le altre - e naturalmente di tutti gli altri - che sono state lo schermo della passione ma anche la passione dello schermo, rimbalzando in migliaia di immagini al fondo delle quali abbiamo intravisto la nostra salvezza o il nostro smarrimento. Ma il cinema dei corpi fiammeggianti cede ormai alle pallide immagini delle truppe di rincalzo. Silvana Mangano - un nome per tutti - passa le consegne a Myriam Bru, la stellina del commendator Rizzoli, protagonista di Ti ho sempre amato! (1953), Appassionatamente (1954), Gli amori di Manon Lescaut (1954), Le due orfanelle (1954). Anche quando si risale alle lontane fonti letterarie, il modello è ancora una volta quello dei feuilleton matarazziani. Non a caso Nazzari spunta in più di un titolo, perfetto testimonial del melodramma all’italiana senza del quale non si celebra il rito, ma anche inappuntabile professionista, quasi sempre più sensibile e misurato di quanto solitamente non gli venga riconosciuto. Lo sceneggiato televisivo è già pronto a raccogliere l’eredità del cinema d’appendice con una pioggia di titoli - Il dottor Antonio, Piccole donne, Cime tempestose, L’alfiere, Il romanzo di un giovane povero, Orgoglio e pregiudizio, Piccolo mondo antico, Umiliati e offesi, Capitan Fracassa, Le avventure di Nicholas Nickleby, Canne al vento, L’isola del tesoro, Il romanzo di un maestro, Ottocento - mobilitando tutti insieme appassionatamente Giovanni Ruffini, Louisa May Alcott, Emily Bront\u0451, Carlo Alianello, Octave Feuillet, Jane Austen,Antonio Fogazzaro,Théophile Gautier, Charles Dickens, Fëdor Dostoevskij, Grazia Deledda, Robert Stevenson, Edmondo De Amicis, Salvator Gotta in un tripudio di grandi sentimenti e di sofferte emozioni che il cinema aveva in parte già attraversato. L’intera filmografia cinematografica di Anton Giulio Majano - sin dall’inizio uno dei maestri dello sceneggiato tv con Daniele Danza, Silverio Blasi, Vittorio Cottafavi, Sandro Bolchi, Giacomo Vaccari, che ebbero all’epoca ascolti da capogiro - s’iscrive nel cinema d’appendice, da L’eterna catena (1952) a Una donna prega (1953), da La domenica della buona gente (1953) a Cento serenate (1954), da Terrore

Trentasette milioni di spettatori su quarantasei milioni di abitanti accorsero al cinema e piansero quando Nazzari riabbraccia Yvonne Sanson nell’ultima scena di “Catene”. Del resto anche il regista piangeva dietro la macchina da presa dello del melodramma musicale ottocentesco, momento decisivo nella formazione dell’immaginario nazionale. L’aveva detto a modo suo anche Matarazzo nella battuta «Io sono uno che viene dal popolo, un contadino che fa della musica» - messa in bocca al genio di Busseto in Giuseppe Verdi (1953), lucidissima riflessione su spettacolo popolare, committenza, modi di produzione, mercato. Il mélo italiano era venuto cercando la propria strada anche nel territorio del romanzo popolare e della letteratura di consumo, riscoprendo schemi narrativi e sentimenti tematici del feuilleton ottocentesco italiano, il frequentato crocevia che vede la nascita del prodotto di massa. I mag-

sulla città (1957) a Il padrone delle ferriere (1959). Il primo - con due fratelli coltelli, uno angelo e l’altro demonio, la fidanzata dell’uno che finisce con l’altro, il losco figuro in odore di stupro, l’innocente ingiustamente accusato, la trasferta nella Legione straniera, la tragica fine del cattivo - è quasi un manifesto. Sono film che ripropongono i motivi ricorrenti della narrativa popolare. I veri autori, più che i soggettisti accreditati nei titoli di testa, sono i cantastorie che nelle piazze, accompagnandosi con la chitarra, raccontano la triste vicenda del giovane vittima della calunnia e della fatalità. Il segreto di Majano - che nelle scene madri tira fuori il fazzoletto come i suoi spettatori - è la sincerità.


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tv

Il delitto di Chiavenna riesumato da Minoli

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ualcuno, con più realismo che ironia, ha proposto di pagare il canone televisivo da settembre a giugno. Nulla nei mesi estivi: se l’apparecchio ricevente è di quelli grandi lo si può sistemare in cantina, se è un plasma ultrapiatto anche sotto il letto. Infatti si vanno ad assottigliare i palinstesti, arriva l’inesorabile carica delle repliche. Rivedremo, almeno nei canali tradizionali, Pippi calzelunghe, Don Camillo e Peppone, la serie con Bud Spencer e Terence Hill che si scazzottano nei saloon, il «come eravamo» attraverso spezzoni di Canzonissima edizione ’87 o miscellanee di gag. I signori dei palinstesti sono convinti che l’Italia intera, con le prime zaffate di caldo, si riversi su strade e piazze, affolli bar e gelaterie, si contorca in gare di liscio o di tango davanti ai sagrati delle chiese di paes§e. Eppure ci sarebbe qualcuno anzi: tanti - che sarebbe contento di vedere quel che ha perso durante l’inverno. Per non parlare di coloro che sono negli ospedali e nelle case di riposo, ormai nauseati dall’abbondanza dei programmi dedicati al cibo, con chef e belle e burrose ragazze che esaltano una vita da seduti a tavola, che ormai è sfuggita alle persone che ogni giorno s’immalinconiscono davanti a una fettina di prosciutto e a una porzione di Crescenza. Insomma se uno non si sente costretto a far «caciara» all’aperto con l’anguria sgocciolante, occorre che aguzzi l’ingegno, telecomando in mano. Un po’ di pazienza e ci si sintonizza su Rai-Educational, dove Gianni Minoli conduce La storia siamo noi. No, non è polvere archivistica per colonnelli in pensione che si scervellano sul ruolo della cavalleria nella piana

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di Waterloo. Sono temi caldi. Sono personaggi che vale la pena di ascoltare. L’impianto ricorda quello del vecchio Mixer, solo che la faccia paffuta e sempre in agguato di Minoli compare e scompare come attore di seconda fila ma incalzante. Vengono privilegiati la vicenda, il resoconto dei testimoni, le immagini del luogo.Atroce e significativo, pur ricordandolo dopo nove anni, il delitto di Chiavenna (Sondrio), dove suor Maria Laura, 61 anni, venne massacrata a pugnalate, di notte, da tre ragazzine dai 16 ai 17 anni. Motivazione: la noia. Il contorno: riti satanici, suggestione dei numeri come il 666 (diabolico per eccellenza) e simboli come la croce rovesciata. E poi sangue e patti di sangue, confusione mentale, assenza emotiva dei genitori, nessun progetto di vita. Milena, Ambra eVeronica a 12 anni sanno già cos’è il sesso, anche quello di gruppo. Ma è una gara o una sfilata esibizionistica con nessun aggancio al pensiero o all’anima. Una gara di paese, che annoia quasi subito. Ci vuole qualcosa di più estremo.Targato Satana. Una delle tre fa una telefonata a suor Maria Laura: «Mi hanno stuprata, sono incinta e non voglio il bambino, ti devo parlare in privato, vieni al sentiero…». Lei accorre. E le tre le affondano nella carne i due coltelli, stupendosi rabbiosamente che non muoia subito. Fa effetto raffrontare, come ha fatto Minoli, le parole scritte nel diario dalla religiosa e le testimonianze rese dalle ragazzine. Suor Maria Laura: «Gesù, rivelami la tua identità, allora sperimenterò l’amore…voglio sempre fare del bene agli altri».Veronica, 16 anni: «Già a 12 anni mi tagliuzzavo le braccia, quando i genitori mi hanno scoperta ho cominciato con le gambe. Mi interessava poco la vita, facevo autostop a tutte le ore, mi davo a tutti i ragazzi. Ho provato anche ad ammazzarmi». Il patto scellerato è siglato in un bar. Si scolano una bottiglia di vodka alla menta. L’idea originaria era far fuori un prete, ma ci hanno ripensato. In ogni caso pensano a «un sacrificio umano». Poi l’agguato, ebbre di vuoto. Ci si chiede, ancora oggi, dove siano i genitori, dove si nascondano, che cosa realmente sappiano dei figli. E ancora: da una parte il convitto «Immacolata», dall’altra i minorenni che vagano come cadaveri sprezzanti e violenti. E in mezzo? Ogni paese ha una terrificante zona grigia, dove non risaltano nemmeno le ombre. (p.m.f.)

games

A CACCIA DI BUFALE SCIENTIFICHE

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NEI PANNI DI TERMINATOR

GLI SPETTRI DI COLUMBINE

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ell’era del giornalismo mordi e fuggi, a rimetterci è soprattutto la scienza, spesso soggetta a marchiani fraintendimenti e grossolane sviste negli articoli che la divulgano e la citano a sproposito. Dall’alto di un’esperienza pluriennale nel mare magnum di internet, il freelance Paolo Attivissimo, esplora miti e abbagli della stampa scientifica nel suo Il disinformatico, blog reperibi-

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spirato al film campione d’incassi di queste ultime settimane, Terminator Salvation è uno shooter capace di riproporre in console le vicende fantascientifiche di John Connor, protagonista interpretato in pellicola da Christian Bale, alle prese con la missione di salvare la razza umana dall’estinzione. Classico sparatutto in terza persona, il videogame segue gli eventi che avvengono due

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Paolo Attivissimo illustra strafalcioni ed errori che spesso accompagnano la divulgazione

Il nuovo spettacolare capitolo della saga di John Connor non brilla per originalità

In ristampa il documentario di Michael Moore, premio Oscar nel 2004, dedicato alla strage

le all’indirizzo attivissimo.blogspot.com. Gradevole e accessoriata di molti link di riferimento, la pagina dell’autore esplora i luoghi comuni dell’astronomia, gli strafalcioni e le false fonti all’origine di numerosi articoli mendaci, da cui derivano talvolta teorie strampalate. Titoli comici come «Sonda giapponese cade sulla Luna. Per fortuna in un’area disabitata», ad esempio, oppure fantomatici impatti lunari visibili a occhio nudo di cui viene data notizia da organi di informazione altamente credibili. Piacevole e non pedante, il disinformatico smonta i giocattoli mediatici e rende giustizia, contro facili allarmismi o distratte fantasie, alla corretta informazione.

anni prima di quelli raccontati dal film omonimo. In una Los Angeles apocalittica, il player si muove attraverso ambientazionei accurate ed effetti luce ben studiati, stretto fra l’azione pura e intermezzi cinematografici di grande impatto spettacolare. Possibile inoltre affrontare gli storici nemici di Skynet in collaborazione con altri giocatori, sebbene soltanto in locale e non in modalità on line. Doppiaggio italiano non proprio inappuntabile e reiterazione dei temi musicali della soundtrack sono i difetti principali di un titolo spettacolare ma non certo innovativo.

omicidi del Pianeta, il lavoro di Moore brilla per ritmo, ironia e spirito critico. Discussa e innovativa, l’opera ha tracciato la scia del nuovo documentario civile grazie alla contaminazione di linguaggi televisivi e cinematografici, immaginario pop e riprese d’archivio, inchiesta e gag involontarie. Come nel coevo Elephant di Gus Van Sant, l’assunto del regista americano tratteggia la strage della Columbine (che ha avuto tristi emulazioni nel resto del mondo) come scaturigine di una cultura della paura e delle armi ormai del tutto fuori controllo, veicolata dai padri ai figli e posta distante da ogni spirito critico dal sistema mediatico. Da rivedere.

a cura di Francesco Lo Dico

remio Oscar come miglior documentario nel 2004, Bowling A Columbine di Michael Moore torna in videoteca il primo luglio, a poco più di dieci anni da quel terribile 20 aprile del 1999 in cui due diciassettenni uccisero dodici studenti nella scuola di Littleton, in Colorado. Analisi impietosa di un paese, gli Stati Uniti, in cui vige il libero commercio delle armi e il più alto tasso di


cinema Nel mondo di Horten MobyDICK

l mondo di Mr. Horten è un’autentica rarità: una commedia deadpan d’essai. Basterebbe lo splendore formale del film per raccomandarlo: precise forme e volumi nitidi e simmetrici scandinavi, con una tavolozza cromatica di pastelli leggiadri, delicati e armoniosi, con uso strategico di macchie di rosso alla Paul Klee. Ma c’è molto di più, e i primi indizi che siamo nelle mani di un nordico burlone si trovano nei nomi. Il protagonista, un macchinista al suo ultimo weekend di servizio prima della pensione, alla guida di un treno sul tratto OsloBergen, si chiama Odd Horten. Odd è un classico nome norvegese, neppure raro, ma i norvegesi, e gli scandinavi in generale, sono quasi tutti anglofoni. Odd in inglese vuole dire strano, curioso, atipico, eccentrico. A questo nome ordinario da una parte e scherzoso dall’altra (per un personaggio che sembra «quadrato» col botto) si aggiunge il calembour contenuto nel nome vero dell’autore Bent Hamer (che a giudicare dalla foto sul web è slurpissimo). In inglese bent significa anormale, piegato, sghembo; il cognome, con la stessa pronuncia e un’emme in più, vuol dire martello. Il regista, dunque, con uno strumento sbilenco racconta la storia di un uomo compassato, che in quarant’anni non è mai arrivato in ritardo né è mai mancato un solo giorno al lavoro, che si trova all’improvviso senza confini.

I

Lo guardo sghembo di Hamer fruga nella vita e nell’animo di Horten (un perfetto Bard Owe), un sessantasettenne la cui vita è scandita con precisione. Si alza all’alba, fa colazione e prepara un termos di caffè.Va in stazione, siede ai comandi del suo treno e accende la pipa. Sfreccia attraverso paesaggi innevati intervallati da gallerie buie. Arriva a Bergen e si presenta a casa della signora Thogersen (Ghita Norby) dove trova la cena pronta e tra le cui braccia passa la notte. Il giorno dopo torna indietro. Ogni giorno chiama la casa di riposo per chiedere se la madre Vera sta bene e se ha mangiato, e le fa regolari visite. Si vengono a sapere molte cose di lui con pochi dialoghi e senza laboriose spieghe. Sul treno l’assistente macchinista commenta la cosa più emozionante e pericolosa che possa succedere: un alce sui binari. Incidenti per niente simpatici; ci s’imbratta di sangue per rimuoverli e non è previsto alcun indennizzo per il disturbo straordinario. Raramente è Horten a comunicare queste informazioni: è un uomo parco di parole e non incline a conversazioni oziose. L’autore ci guida con mano invisibile dentro l’anima del personaggio; ci invita a guardare oltre le banali proiezioni sull’esistenza di un pensionato, quando termina di colpo la routine che ha dato senso e struttura alla sua vita. La fidanzata (parola grossa) di Bergen gli chiede cosa succederà, ora che non verrà regolarmente nella sua città per lavoro. Horten dice: «Potrei venirti a trovare». La signora Thorgerson risponde: «Ma non lo farai». Un collega di lavoro che organizza una festa d’addio commenta che a Horten «non vanno a genio gli scherzi», e abbiamo il quadro di un uomo sobrio, solitario e all’apparenza freddo. In casa ha solo un uccellino, la cui gabbia copre con cura quando parte (il primo giorno da pensionato, sta per coprirla; poi si ren-

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di Anselma Dell’Olio

È una geniale meditazione sulla vita, sul tempo che passa, sulle diverse stagioni dell’esistenza il film del norvegese Bent Hamer dedicato agli ultimi giorni di lavoro di un macchinista di treni prima della pensione. Divertimento e puro piacere visivo assicurati de conto che non parte più e la lascia scoperta: un gesto minimo eloquente.) È in ottima forma fisica, grazie a regolari nuotate nella piscina municipale (dove accade uno sconcertante incidente di percorso che alla fine lo obbliga a fuggire in un paio di graziosi stivaletti rossi col tacco alto). La scena dell’onorificenza nella sala riunioni dei ferrovieri, con discorsetto e consegna di piccola locomotiva d’argento, è sublime nello stile senza gli ammiccamenti del deadpan. I colleghi sono riuniti attorno a un tavolo ovale con una perfetta simmetria in sé esilarante. A fine cerimonia eseguono il loro saluto: i macchinisti fanno all’unisono il rumore del treno (ciug-ciug-ciug) accompagnato da braccia e mani che fanno il movimento delle ruote; alla fine tirano tutti una cor-

da immaginaria e riproducono il fischio d’ordinanza: «Woo-woo!». Si crea nella cassa toracica dello spettatore una letizia interiore impagabile, che subito si espande in tutto il corpo; vedere per credere. È solo una delle meraviglie, bizzarrie e sorprese che il film riserva, in una felice altalena tra letizia e dolore che è la vita terrena, accolta da un’anima aperta allo stupore. Si comincia a capire come la vita di Horten stia per cambiare quando va al portone della casa dove i colleghi lo aspettano per la festicciola d’addio. Il codice non funziona, e quando preme forte i tasti come gli hanno detto di fare, si stacca il panello metallico, che finisce penzoloni sui fili elettrici fuori uso. Senza scomporsi Horten si arrampica su per i ponteggi della palazzina in ristruttura-

zione. Arriva alla finestra di un appartamento di fronte a quello del collega. Entra in punta di piedi e si avvia alla porta. Prima di poter sgattaiolare fuori, s’imbatte in un bambino in pigiama con un giocattolo in mano. Horten gli dice che sta andando dal vicino, e il ragazzino risponde sereno che si tratta di un macchinista, e chiede all’estraneo di restare con lui finché non si addormenti. Odd spiega che non può, lo aspettano. Allora il bambino lo ricatta suonando la batteria che ha vicino al letto a castello. Terrorizzato che possano svegliarsi i genitori e trovare un estraneo col pargolo, Horten si siede rassegnato mentre il moccioso si corica. L’anziano si sveglia di colpo all’alba; ha dormito anche lui e il bimbo non è più nel letto. Si accorge che la famiglia si è alzata. Si butta sotto il letto a castello e poco dopo riesce a filarsela senza farsi sgamare dagli adulti a tavola con i figli. I due piccoli (anche la sorellina lo vede) lo guardano in silenzio.

Per la prima volta in vita sua, l’integerrimo ferroviere arriva in ritardo in stazione e perde il suo ultimo viaggio. Per novanta minuti secchi (lunghezza ideale) si succedono eventi straordinari per un uomo abituato a un tran-tran prevedibile. È sempre asciutto l’occhio di Hamer, anche quando il protagonista va a trovare la madre.Vera Horten non parla, e forse non riconosce nemmeno il figlio, ma il regista non spinge mai il pedale della commozione. Proprio per questo possiamo commuoverci senza ricatti per un rapporto comune a tanti: un anziano genitore in condizioni di decadenza fisica o mentale, relegato alla cura di estranei.Veniamo a sapere che Vera era stata un’atleta; una bravissima sciatrice specializzata nel salto, discriminata nelle gare in quanto donna. Solo quando il figlio le parla degli sci che tiene in camera e le chiede se ha intenzione di saltare ancora, la mamma sorride, divertita. Il film ha un passo formale, tranquillo in superficie, ma sotto pelle fermentano emozioni fortissime. Nel Valchyrien Restaurant dove Odd fa i suoi pranzi, accadono cose gravi e lievi, a volte divinamente ordinarie (come la domanda di un sosia di Gorbachev al cameriere sul prezzo dei francobolli) e a volte preoccupanti, spesso senza altri sviluppi. Esattamente come succede nella vita: osserviamo un incidente, una persona in difficoltà, magari un arresto, come succede al cuoco del ristorante, e non sapremo mai perché, né cosa succede dopo. Anche se non ci si sganascia, si sorride molto in un bagno di benessere. Bent Hamer è un regista e autore raffinato e avvicinabile; i suoi film sono sempre invitati ai festival e anche ben distribuiti all’estero, poiché sono universali e mai punitivi per lo spettatore. Chi ha visto Kitchen Stories o Factotum sa che un film del norvegese è una garanzia di divertimento e di puro piacere visivo. Il mondo di Horten è una geniale meditazione sulla vita, sul tempo che passa, sulle diverse stagioni dell’esistenza, e ha spessore senza pesantezze. Senza rivelare troppo per non guastare il piacere, ci sono buffi e brevi incontri e imprevedibili ribaltoni (incluso quello finale) e si esce dal film felici di stare al mondo. Da non perdere la dedica finale.


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poesia

La musicalità di Ceccardo prima della deflagrazione di Francesco Napoli artì come un merciaio di Lunigiana/ lasciandosi macerie a tergo./ Si piacque d’ombre e di pioppi, di fiori di cardo./ Lui non recava gingilli: soltanto un tremulo verso/ portò alla gente lontana/ e il meraviglioso suo gergo». Vita e poesia di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi sintetizzate in pochi versi di illuminante fulgore firmati da Eugenio Montale che, Nobel per la letteratura, ha più di un debito con il dedicatario di questa lirica certamente meno fortunato. Ma nel tempo è rimasto ambiguo nel suo riconoscimento a Ceccardo. Infatti, se i versi citati appaiono come tributo affettuoso, ma mai edito in volume, se nel 1934, recensendo Primasera dell’altro amato corregionale Angelo Barile a proposito di Ceccardi parla di un «lirico che attende giustizia» e se quarant’anni dopo lamenta come proprio Ceccardi potrebbe occupare «un posto singolare nel primo trentennio del nostro secolo (…) se di lui avessero scritto critici autorevoli», comunque non fece mai particolare sfoggio di tanta devozione nei confronti del conterraneo predecessore cadendo in contraddizione nel lasciar intuire se non proprio ammirazione, certo una conoscenza non superficiale della sua opera.

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GENOVA Un dì le torri, aeree, giganti, munirono le tue darsene fiere com’ira e libertà tra lor balzanti armate, il cor del tuo popolo artiere. Ed ira e libertà strepeanti in nere gronde, o rotto il civil tedio, in sonanti impeti s’esprimevano sincere con virtù di guerrieri e di mercanti. Onde se il Fieschi per serena notte in te percote la grand’Ombra oscura, ed un baratro liquido lo inghiotte; Colombo il cor tenace in tra sarcasmi cresce, e si lancia a gloria sicura per abissi di gorghi e di fantasmi.

Ceccardo Roccatagliata Ceccardi da Sonetti e poemi

Nato il 6 gennaio 1871 a Genova, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi ebbe un’infanzia alquanto complicata dalla separazione dei genitori con molti contrasti che si acuirono all’indomani della nascita del secondogenito Luigi, sette anni dopo. Con i due figli ancora piccoli la madre si sposta vicino La Spezia, a Ortonovo, lasciando il marito a Genova. Sono anni vissuti in forte ristrettezza economica ma, saranno i luoghi così prossimi al Golfo dei Poeti e una inclinazione materna alla lettura, ecco che Ceccardo si avvicina alla poesia, in particolare a Shelley e Keats. Torna poi a Genova per compiere gli studi universitari, laureandosi in Legge, come voleva il padre che lo vedeva ottimo notaio. Ma per lui la letteratura e la poesia son ormai tutto e così inizia a farsi conoscere nell’ambiente culturale genovese dove incontra Sbarbaro, l’altro nume ligure di Montale, e a bazzicare i circoli anarchici, dove si imbatte tra gli altri in Enrico Pea. Deriva da questa frequentazione una sorta di aura maudit che Lorenzo Viani, amico e come lui un po’ spiantato, ha contribuito ad alimentare. All’alba della prima guerra mondiale si schiera apertamente per l’intervento e parte volontario, come Ungaretti, per il fronte ma all’indomani del conflitto, tornato nella sua Genova, nel 1919 muore in povertà quasi assoluta. A lungo lasciata in disparte, a principiare dagli anni Ottanta è iniziata una lenta ma progressiva rivalutazione dell’opera poetica di Ceccardi. Non sarà un caso che sia stato Giorgio Caproni, livornese d’origine ma genovese di formazione e affetto, a dare inizio a una più accorta analisi, attri-

buendogli il merito di aver inaugurato il «frammentismo ligure» con la sua musicalità inconfondibile. Figura unica e di difficile codificazione, posta al crocevia tra Otto e Novecento italiano, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi solo per certi aspetti è raffrontabile a Dino Campana, di poco distante nel tempo: è il filtro fra la triade Carducci-Pascoli-D’Annunzio, molto meno vicino al primo rispetto gli altri due come fin oggi ritenuto, e la poesia simbolista coeva d’Oltralpe. Tra i primi a tradurre in Italia Rimbaud, come ricorda anche Montale, conosce bene anche elementi di secondo piano del movimento francese, quali Leconte de Lisle, Corbiere e Lemoyne, a testimonianza di un interesse reale e profondo, tanto che nel suo esordio con il Libro dei Frammenti (1895) la presenza di traduzioni rigorose e dichiarate esplicitamente nelle didascalie, insieme con altre numerosissime tracce dissimulate e disseminate lungo l’intera silloge, indica non il richiamo convenzionale a una tendenza poetica destinata a dilagare fino a farsi moda, ma piuttosto la volontà di analizzare e interiorizzare la sensibilità nuova che precocemente Ceccardi intuì nei versi dei miti francesi. I suoi Sonetti e poemi (1909) appaiono solo un anno prima dei Colloqui gozzaniani, eppure quanta distanza tra l’ironia del piemontese e la poesia ceccardiana, talvolta confusa con quella crepuscolare. Ci ha pensato Giuseppe Farinelli a dirimere i dubbi residui su ogni contiguità, il raffinato critico, infatti, pur intravedendo nel poeta ligure una possibile fonte per Govoni, ribadisce i caratteri «contradditoriamente carducciani» e decadenti della poesia di Ceccardi.

Roccatagliata Ceccardi ha dato molto ai suoi successori e, infatti, venne riconosciuto da Caproni come poeta anticipatore anche dell’«asprezza della lirica ligustica», e quindi di Sbarbaro, Montale e di se stesso. «Ultimo anello di una catena che dopo di lui si rompe» ha scritto ancora di lui Montale ed è pur vero che lo stesso Roccatagliata Ceccardi si ritiene «un fratello lontano di Tristan Corbière e di Rimbaud e un piccolo cugino di Verlaine», ma accettando le parole di Montale come quelle del diretto interessato, l’opera ceccardiana appare fin troppo proiettata all’indietro, come estrema e ultima espressione della stagione ottocentesca. Meglio, e più calzante, anche alla luce della rinnovata lettura della sua opera poetica, l’assunto finale di Francesca Corvi, ottima curatrice un paio d’anni orsono per le Edizioni De Ferrari di una raccolta completa delle poesie di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi: «La sua poesia era la sublime compresenza di classicità e simbolismo, la sua voce esprimeva il delirio di un romantico col culto delle forme e la sua inquieta esperienza anticipava il fermento della deflagrazione che avrebbe portato alla svolta, alla nuova poesia italiana del Novecento».


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il club di calliope A RENZO FOA

Figlio del pensiero Vorace egoismo Sete della vita Gentile fiordaliso Sospirata carezza di tuo padre Felicità ritrovata

Sandro Bondi

LE DOMANDE SULLA MORTE DI UNAMUNO POETA in libreria

di Nicola Vacca iguel de Unamuno è conosciuto come filosofo e narratore, autore di libri fondamentali come Il sentimento tragico della vita. La sua produzione poetica è poco conosciuta e considerata una parte secondaria della sua attività letteraria. Non è proprio così. Basta leggere la bellissima antologia, curata da Paola Tomasinelli, Verrà di notte e altre poesie (Passigli, 115 pagine,

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glio/ cielo deserto del Padrone eterno?». Questi sono gli interrogativi che Miguel de Unamuno si pone nella sua ultima poesia scritta il 28 dicembre 1936, pochi giorni dopo giunge la morte. Tutta la sua poesia è un teatro filosofico, di continua autoanalisi e interrogazione sul senso ultimo dell’esistere, che utilizza anche personaggi-metafora dei miti classici e letterari come don Chisciotte, Fedra, la Sfinge, Medea, Ra-

Esistenzialista e cristiano. In “Verrà la notte e altre poesie” lo scrittore spagnolo cerca risposte fondamentali al mistero della vita. Tendendo all’immortalità… 14,00 euro), che offre al lettore italiano la possibilità di rendersi conto dell’importanza dell’attività poetica del grande scrittore di Bilbao. I temi dei suoi versi sono quelli cari anche all’Unamuno prosatore. Con la poesia egli scava nell’esistenzialismo puro, tocca ampiamente temi religiosi, confida soprattutto nel credo romantico e nella fede assoluta, nei profondi sentimenti che emozionano. «Esistenzialista - scrive Paola Tomasinelli - ma allo stesso tempo anche cristiano che cerca nel cattolicesimo una risposta al suo problema fondamentale, quello della morte e dell’immortalità. Resterà eterodosso, votato alla pratica del dubbio, al gusto della provocazione e del paradosso». La sua poesia, come tutta l’opera filosofica e narrativa, si consumerà sempre nella ricerca delle risposte fondamentali relative al mistero della vita e della morte. «Sognar la morte non è ammazzare il sogno?/ Vivere il sogno non è ammazzare la vita?/ Perché metterci dunque tanto impegno/ a apprender ciò che oblieremo,/ scrutando l’implacabile cipi-

chele. Si percepisce in ogni pagina l’ansia di immortalità, che anima l’autore e ne determina la spinta verso una ricerca di religiosità. Ma si sente fortissimo anche il senso dell’angoscia che tinge di amarezza e di conflittualità l’esistenza umana. Sono tutti temi che pongono Miguel de Unamuno tra gli anticipatori del pensiero esistenzialista, uno scrittore che rimane ancora oggi una figura problematica nell’interpretazione critica, espressione e incarnazione dell’ambiguità e delle innumerevoli possibilità di comprendere la società moderna. Prima di entrare nella notte, il poeta sfida ancora una volta quel sentimento tragico della vita che è stato il suo più inquietante motivo di ricerca esistenziale. Non è un caso che egli affidi le sue ultime volontà alla verità dello spirito della poesia. In Come si fa un romanzo, de Unamuno scriverà che chi legge una poesia sa che questa è una creatura in grado di scrivere e riscrivere la creazione. Lontano da arroganza e vanità, lontano da qualsiasi presunzione.

UN POPOLO DI POETI Su un’altura del paese Contemplo una coltre bianca. Una strada fatta di luce Fatta di nuvole Che le anime sante traversano Per mirare la luce Del divino Daniele Belloni

La vita non è un foglio bianco, neppure all’inizio. Tutti pensiamo che la vita sia un foglio di carta bianco, immacolato, candido, lucente; e siamo convinti che quello che vi scriviamo sopra dipenda da noi, solo esclusivamente da noi. Che sia colpa nostra se lo scritto è brutto o meschino, o merito nostro se bello e piacevole. Merito o demerito nostro, a seconda dei casi. Ma in realtà non è affatto così. Quel bel foglio pulito è già tutto scarabocchiato, malridotto e sporcato, prima che noi vi scriviamo sopra, prima che noi vi scriviamo la nostra storia. A volte vi sono scritte cose belle, a volte brutte. È già tutto scritto nel nostro destino, e noi non possiamo cambiarne il corso.

Antonio Gabriele

Tu sei come un uccellino che vola nel cielo azzurro e cinguetta tutta la sua felicità e allegria. Lascia perdere la gente che non ti ammira, perché chi non sa vedere oltre non può ammirare la tua bellezza. Paziente come una nuvola che impiega ore ed ore ad attraversare quell’immenso cielo che si stende sul mare e sembra un enorme specchio che riflette tutta la tua bellezza. Serghei Reggiani

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

arti

Usa 1929 scatti dagli Anni Ruggenti

e dalla Grande Depressione

di Marco Vallora

è una fotografia straordinaria, firmata da Walker Evans, che meglio non potrebbe raccontare e condensare il dramma umano di relitti sociali, travolti dall’onda lunga della Grande Depressione americana, dramma semplicemente pietrificato in un taglio magistrale e in un inesorabile gioco geometrico di astrazioni, che non cancellano l’umanità ma anzi la potenziano. A guardarla con occhi soltanto purovisibilisti, potrebbe ricordarci un’opera di Hans Richter o una schiera di automi di Schlemmer: i cerchi, ansiosi e affamati, dei piatti in attesa della zuppa. Le bande verticali e ribattute dei grembiuli da schiavi e dei paletot lisi e donati, ristretti perpendicolarmente in una fila, che s’intuisce infinita e drammaticamente ripetuta. La lieve curva artritica e arpionante della mano nera, che quasi stritola la latta, golosa e fremente di ricevere. Un fila di disperati, a una Mensa da campo per sfollati da un’inondazione, 1937. Non ne individui il volto, tagliato, null’altro che un rivoluzionario piano americano: terribilità spersonalizzante della miseria. Il corpo intercambiabile, risucchiato. Non poteva esserci periodo più adatto, di questa nostra piccola depressione tremontiana, per immaginare una mostra tanto puntuale e ragionata. Far vedere, per immagine, i guasti d’una società americana, prima pingue e spensierata, american way of life, che si reputò e vendette come troppo fiorente e ottimista, e invece ora precipita rapidamente nel baratro. Abisso, che la fotografia aveva però già incominciato a subodorare, con scatti-tagliola, senza possibilità d’evasione grafica. Ed è sorprendente ricordare che fu proprio la politica lungimirante e concreta d’un presidente liberal come Roosevelt, a preoccuparsi di voler documentare, via fotografia soprattutto (e anche questa è una novità, sensibile e intelligente) ma persino con la pittura di Ben Shahn, di un Benton o di un Grant Wood (che poi sono i veri maestri paradossali di Gorky, Rothko, Pollock e altri futuri rappresentanti d’una ben diversa drammaturgia interiore), documentare e visualizzare la miseria, che stava via via attanagliando l’intera America. E soprattutto il nucleo rurale del paese più profondo, falcidiato dalle più inflessibili e ricorrenti carestie, e dall’avvento dell’industrializza-

C’

zione, ora anche nelle coltivazioni contadine. Celebri e magistrali i lavori, a struttura quasi narrativodocumentale, di Walker Ewans, e soprattutto di Dorothea Lange, coraggiosa fotografa-nomade, che inseguiva i suoi eterni emigranti, scacciati dall’assenza totale di lavoro e di assistenza. Due artisti che daranno nascita poi a due leggendari volumi, Let us now praise famous man per Walker, e An american exodus, della Lange, composto insieme al futuro marito-sociologo Paul Taylor. Usciti significativamente a dramma quasi risolto, e cioè nel ’39.Volumi epico-epocali, che sin dal titolo sfiorano quel respiro corale e lirico da poema whitmanniano, nonostante la purezza assoluta del dettato visivo e la rarefazio-

ne, ancor più efficace, del sentimentalismo patriottico-popolare. In questa campagna, voluta intelligentemente da un potere preoccupato di far conoscere, via immagine - la più incisiva ed efficace, dunque - quali erano i reali problemi del paese, non fingendo euforie fittizie (ogni allusione all’oggi è puramente casuale), non troviamo impegnati soltanto i maestri più noti, quali il pioniere dell’immagine documentaria Lewis Hine o il funereo-notturno Weege, apparentemente inflessibile e indifferente. Ma ci sono anche dei maestri da noi poco frequentati, come Russell Lee o Arthur Rothstein, Allan o Engel, che meritano d’esser conosciuti meglio (mentre è noto che Ben Shahn, prima di diventare pittore della povertà subway, fu un ottimo cacciatore di scatti di strada). Sottile idea, quella di Mazzotta, di far precedere questo affresco di depressione fotografica, da un copioso e dissonante nucleo di manifesti della Mather Work Incentive Posters: una fortunata ditta di affiches, sorta di precoce pubblicità-progresso yankee, che con toni perentori, spesso insopportabili e un’esaltazione millenarista, da predicatore presbiteriano, voleva convincere il lavoratore a funzionare di più. Come una macchina ben oliata, per ottenere una sacro-laica «redditività della virtù». In un interessante saggio su quest’inconsueta «segnaletica dell’ideologia», il sociologo Pietro Bellasi, rifacendosi al celebre saggio di Weber sull’etica protestante del nascente capitalismo, spiega bene come questa morale predicatoria (spesso verbosa e complessa) riassunta in affermazioni impositive e quasi minacciose, si sposasse poi bene con un’efficace estetica della semplificazione visiva e della suggestione grafica (che in qualche modo prelude alla pop art di Warhol e Mel Ramos). Ma è curioso: perché quasi sempre questi slogan-visivi imperativi e categorici, trionfalistici e buonistico-borghesi, non riescono a camuffare un’ansia dell’incipiente catastrofe e un’imminenza dell’apocalisse, prossima ventura. Che è davvero l’altra medaglia di questa predica tipografica, sgargiante e ipocrita.

Usa 1929. Lavoro, successo e miseria tra gli Anni Ruggenti e la Grande Depressione, Milano, Fondazione Mazzotta, fino a settembre

diario culinario

Vip e buongustai alla corte di Re Claudio di Francesco Capozza tavola tra piatti, bottiglie e intingoli ci si parla con sincerità. Ci si guarda con maggiore tenerezza, si gustano sensazioni più intime. Regalando gioia a sé, agli amici o semplicemente ai clienti, si diventa cuochi sfornando paste, pietanze, torte e salse. Cucinare, preparare una tavola con cura, scegliere un buon vino da abbinare al menù equivale a delle silenziose dichiarazioni di affetto». Basterebbero queste poche righe di presentazione per capire la filosofia che anima Claudio Dordei e sua moglie Irene e che negli anni (da quando hanno rilevato questa storica osteria romana, nel 2001) ha conquistato indistintamente vip, giornalisti, buongustai e turisti gourmet che oggi fanno la fila per potersi sedere a uno dei pochi tavoli della Gensola. L’osteria

«A

prende il nome dal vicolo che la ospita in pieno Trastevere - e Claudio, forse convinto come i marinai che a una barca non si cambia mai nome per scaramanzia, ha voluto conservare l’antica denominazione. E sotto quell’insegna si sono ritrovati negli ultimi anni tutti, ma proprio tutti, gli appassionati di vino e cucina della capitale che conta. Un aneddoto su tutti: fino alla sua morte il principe Carlo Caracciolo - residente a pochi metri dall’Osteria amava pranzare quasi tutti i giorni («alle 12.30 in punto») al «suo» tavolo che Claudio e Irene amorevolmente gli avevano assegnato. Ma se in un giorno qualsiasi infrasettimanale potrete incontrare Raoul Bova, Ezio Mauro e qualche famoso banchiere (o, per esempio, l’Ad di Bulgari), non è certamente perché venire alla Gensola «fa figo», come si dice a Roma, o perché si è certi di essere paparazzati (qui c’è il rischio che Claudio si ar-

rabbi al solo scintillio di flash, a buon intenditor...). No, da Claudio e Irene si viene perché è difficile non essere sedotti da tanta gentilezza (e franchezza) e bontà dei piatti unite a una grande cantina. Difficile resistere a Claudio e al suo: «fate fare a me? ci penso io?», ovvio che sì può essere l’unica risposta possibile. E allora ecco arrivare, assieme a un calice di vino bianco, un piccolo benvenuto della cucina che vi farà capire con chi e con cosa avrete di lì a poco a che fare: bianchetti al vapore su crema di fagioli di Gradoli con un filo di olio extravergine della Sabina. Semplicità pura ma sposalizio sublime di grande materia prima e tecnica di cottura. Poi ecco arrivare dei grandi crudi di pesce (memorabile la tartare di tonno con maionese leggera montata al momento) o un fritto di moscardini insuperabile. Tra i primi, paste fatte in casa o grandi trafilature al bronzo condite con

ortaggi dell’orto, pesce freschissimo ovvero, in stagione, funghi e tartufi di prima qualità. Ricette Claudio non ama darne, anche perché la sua creatività è legata all’umore suo e a quello del mare o della terra. Se sarete fortunati, però, potrà capitarvi di trovare una cassetta di ricci di mare per condire un memorabile spaghetto oppure una cernia di fondale da fare semplicemente al sale o, ancora, un filetto di San Pietro con funghi porcini spadellati. Sapori netti, cotture perfette, grande equilibrio nell’accostamento degli ingredienti e rigoroso rispetto della stagionalità. Tutto questo è la Gensola, una delle più interessanti scoperte di quest’anno a Roma. Si spende dai 35,00 euro in su, a seconda delle pietanze e della scelta dei vini.

Osteria La Gensola, piazza della Gensola 15, tel. 06.5816312


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20 giugno 2009 • pagina 15

architettura

Miralles, l’artefice del risveglio dal letargo franchista di Claudia Conforti ll’azione progettuale del catalano Enric Mi- profonde dell’architettura spagnola dei primi anni ralles (1955-2000), che ha attraversato il fir- Trenta, recuperando quegli echi, grafici e volumemamento dell’architettura con la luminosità trici, del costruttivismo russo, riproposto dalla folgorante e subitanea di una stella cadente, pubblicistica italiana degli anni Settanta. Il progetè dedicato l’ultimo fascicolo della rivista DC del Di- to di Parets del Vallés è semplice quanto imprevepartimento di Composizione della facoltà di Archi- dibile: consiste infatti in una scattante combinaziotettura di Barcellona. Conseguita la laurea all’Esco- ne di pergole di lamelle di legno, che si librano con la Tecnica Superior d’Arquitectura de Barcelona (Etsab) nel 1978, Miralles intraprende una turbinante carriera accademica che lo porta a insegnare nelle maggior università d’Occidente: da New York a Francoforte, da Londra a Vienna, fino al ritorno all’Etsab, dove a soli trent’anni, diventa professore di progettazione. Contemporaneamente mette a punto le coordinate di un’azione architettonica impetuosa e sorprendente, estranea alle mode e al guazzabuglio Postmoderno, in voga in quegli anni. Al progetto e all’insegnamento Miralles affianca una densa produzione critica, che dà conto di uno sguardo anticonvenzionale, acuminato e rapace, capace di dissezioni affilate nel corpo della storia e della geografia, assoggettate a magistrali contaminazioni tra le arti. Dal 1984 al 1991 fonda con la moglie Carme Pinòs Desplat uno studio che esordisce con un piccolo ma profetico intervento: la sistemazione della piazIl recupero za di Parets del Vallés. Un’opera che del mercato Josep M. Rovira rilegge come manifedi Santa Caterina sto della rinascita dell’architettura ibea Barcellona rica dopo il letargo franchista, per la sua capacità di scavare le radici

A

archeologia

slittamenti e rotazioni su un’intelaiatura dissimmetrica di putrelle e pali di acciaio, suggerendo volumi aerei e filanti. Il palazzetto dello sport di Huesca, il centro sociale di Hostalets de Balenya e soprattutto lo stupefacente parco cimitero di Higualada, confermano l’attitudine plastica e visionaria del giovane studio catalano, capace di calamitare l’attenzione della cultura internazionale, che nel 1996 gli decreterà a Venezia il Leone d’oro. Dopo la fine del sodalizio sentimentale e professionale con Pinòs, Miralles apre con Benedetta Tagliabue un altro studio, a cui si deve lo straordinario recupero dell’ottocentesco mercato di Santa Caterina, nel centro antico di Barcellona. Come a Parets del Vallés, anche qui la scomposizione degli elementi architettonici culmina nel risalto dirompente della copertura. Risucchiati nella stratificata storia del sito, sede di un convento distrutto dalla furia popolare nel 1835 e sostituito dal mercato, i progettisti metabolizzano le preesistenze scarnificate, tanto che gli arconi metallici del vecchio tetto intercettano il fantasmagorico manto di copertura che, corrugato da tre impennate verticali, allude al profilo gotico dell’antica chiesa. Poiché il mercato è una natura morta a grandezza naturale, l’ondulata copertura dispiega una colossale composizione di frutta e verdura in coloratissimo mosaico ceramico che, visibile dai piani alti delle case intorno, si innesta nel tessuto storico come un oggetto Pop Art a scala urbana.

La via della seta? Un mercato globale di Rossella Fabiani

ove cercare le radici di quella che oggi chiamiamo globalizzazione? La via della seta è quel sottile filo pregiato che simbolicamente legò l’Oriente all’Occidente. Un fitto reticolo di sentieri culturali e politici sottoposto alle ferree leggi del mercato globale e all’intransigenza della società cinese. È stato il grande geografo e geologo tedesco barone Ferdinand von Richthofen (1833-1905) nell’introduzione all’opera Tagebücher aus China, pubblicata a Berlino, a parlare per la prima volta di Seidenstrasse, «Via della seta», definendo così il tortuoso groviglio delle vie carovaniere lungo le quali nell’antichità si erano snodati i commerci tra gli imperi cinesi e l’Occidente. Da allora, l’espressione coniata da von Richthofen non è

D

più tramontata. Era il 1877. Il termine indicava una rete di ottomila chilometri di itinerari via terra, mare e fiumi attraversati da carovane che dall’attuale Xi’an (Cina) passavano per l’Asia centrale, l’Asia minore, il Medio Oriente raggiungendo anche la Corea, il Giappone e l’India. Sulla via della seta viaggiavano merci, ma anche grandi idee e religioni, scambi commerciali e culturali importanti per lo sviluppo delle civiltà divenute in seguito le basi del mondo moderno. La seta, come sappiamo, arrivava anche nell’antica Roma che ne ignorava la composizione e l’origine, non sapendo stabilire se fosse animale o vegetale. Un tessuto esotico che non lasciava immuni da una certa fascinazione personaggi quali Orazio, Svetonio e Tacito: una moda o meglio uno status symbol, che si diffuse ben presto tra i membri di quella che oggi chiameremo upper class. Un’attitudine al lusso deprecata pubblicamente dal filosofo Seneca, e prima di lui da Catone il Censore. Il momento più alto del commercio della seta per Roma coincise con l’epoca augustea (I secolo a.C.-I secolo d.C.). La

pax romana, con il lungo periodo di pace imposto a tutte le regioni dell’impero e la crescente prosperità economica, determinò una richiesta sempre più pressante del tessuto orientale. Intanto si veniva a conoscenza di altri prodotti un tempo sconociuti ai più, quali spezie e incensi. «Il commercio a lunga distanza di beni di lusso - commenta lo storico spagnolo Julio López Saco - fu qualcosa di direttamente collegato alle grandi città che si stavano sviluppando in Occidente nei primi secoli dopo Cristo. Senza contare che l’intensificarsi di un sistema mercantile così avanzato fu reso possibile nelle civiltà occidentali, specie quella romana, da un arcaica affezione verso la pratica del dono e del regalo». Il viaggio della seta era lungo e le tappe molteplici, ma era il significato recondito di questo commercio a non variare. Così, dalla remota Cina, i prodotti più pregiati passavano tra le mani dei guerrieri delle steppe per arrivare ai mercanti di Palmira, in Siria e finire poi sulla strada che dall’India conduceva verso il Nord-est. Una circolazione di beni e mate-

riali che dava vita a una contaminazione di idee, linguaggi, religioni e usanze. Merci il cui valore intrinseco erano anche i saperi filosofici di civiltà e mondi che altrimenti non si sarebbero mai potuti incontrare. Su quelle strade si sono incrociati profumi, spezie, oro, pelli, metalli, porcellane, medicinali e quant’altro bene fosse disponibile nel primo millennio dell’era cristiana. Per non parlare di ambascerie, eserciti, missionari ed esploratori. Per migliaia di anni, la Via della Seta, il fascio di strade che univa Pechino al Mar Mediterraneo, è stata il più importante canale di transito delle idee e dei commerci tra la Cina e il mondo occidentale. E allora le radici di quella che oggi chiamiamo globalizzazione sappiamo dove andarle a ricercare.


pagina 16 • 20 giugno 2009

i misteri dell’universo

MobyDICK

ai confini della realtà

L’enigma delle sonde Pioneer di Emilio Spedicato no dei problemi aperti della meccanica celeste, la scienza che studia il moto dei corpi nello spazio e che gioca un ruolo fondamentale nelle missioni spaziali, è capire lo strano comportamento delle due sonde chiamate Pioneer 10 e 11. Pioneer 10 fu lanciata da Capo Canaveral il 2 marzo 1972, con lo scopo principale di esplorare Giove e i suoi satelliti (Galileo ne conosceva quattro e ora sono assai numerosi e se ne scoprono sempre di piccoli). Fu la prima sonda ad avvicinarsi al pianeta gigante e a inviarne foto da distanza ravvicinata. L’ultimo segnale dalla sonda fu ricevuto il 23 gennaio 2003, quando era a circa 13 miliardi di km dal sole, e quindi dalla terra, una distanza pari a circa ottanta volte la distanza terra-sole o 25 volte la distanza Giove-sole. Questa sonda fu per molto tempo l’oggetto di provenienza terrestre più remoto nella spazio, ma fu poi superata dal Voyager 1, che si muoveva con velocità superiore.

U

Il Pioneer 11 fu lanciato il 5 aprile 1973 in una missione simile, ma in una direzione opposta rispetto al sole, vista dalla galassia (la via lattea). Fu inviata verso Saturno e le regioni ancora più esterne del sistema solare, passando a circa 21.000 km da Saturno. Il 30 novembre 1995 questa sonda terminò le sue fonti interne di energia e cessò di inviare segnali. La posizione di questi oggetti nello spazio dipende, nell’approccio classico, dall’azione della forza gravitazionale del sole e, sebbene in misura assai minore, degli altri pianeti, oltre che dagli impulsi provenienti dai motori quando siano attivati. Effetti da cui si

possono calcolare velocità e posizione con le classiche leggi di Newton, in cui la forza di gravità decresce inversamente al quadrato della distanza. Ebbene è stata una sorpresa, ed è un enigma ancora aperto, scoprire che le due sonde non si trovano nelle posizioni calcolate, dalle quali distano alcune centinaia di migliaia di km; la loro distanza reciproca è infatti di circa 400.000 km inferiore al calcolato. Questi valori di distanze sono determinati utilizzando una sofisticatissima tecnologia basata su segnali a microonde inviati alle sonde, da queste riflessi e misurati a terra, fatto straordinario se si

- entrerebbero in gioco effetti legati alla dimensionalità dello spazio che secondo alcuni fisici sarebbe superiore alle tre dimensioni standard spaziali più quella temporale; multidimensionalità generalmente introdotta per spiegare fenomeni a livello particellare, ovvero di scala microscopica (e qui ci sono stati classici risultati di Zichichi), ma che sarebbero evidenziati dalle sonde come presenti anche a livello macroscopico; - l’energia oscura, una variante anche più esotica della materia oscura (sostanza che avrebbe l’interessante proprietà di non poter mai essere rivela-

Furono lanciate nel 1972 e nel 1973, con lo scopo di esplorare Giove (la Pioneer 10) e Saturno (la Pioneer 11). Ma perché le posizioni di questi oggetti distano alcune centinaia di migliaia di chilometri da quelle calcolate? Ecco alcune possibili risposte... pensa alla piccolissima energia di questi segnali; la distanza poi è calcolata sulla base del tempo della riflessione e con l’ipotesi della costanza della velocità dei segnali elettromagnetici. Come spiegazione di questa discrepanza sono stati considerati finora vari possibili effetti: - la materia oscura, ipotizzata dalla maggioranza degli astrofisici per spiegare il fatto che le stelle lontane dal centro della galassia si muovono in modo incompatibile con le leggi di Keplero, potrebbe essere un agente che frena le sonde, aumentando quindi l’attrito «spaziale»;

ta…) agirebbe con un effetto antigravitazionale; - un’ancora più esotica teoria della cinetica quantistica spiegherebbe l’ effetto in termini di forze subatomiche agenti in modo inatteso e non rivelabile sulle sonde. Le proposte di cui sopra, certo non complete, si inseriscono nello scenario corrente della fisica, in cui la cosmologia si basa essenzialmente sulla gravità, che si suppone sia caratterizzata dalla legge di Newton. Qui ricordiamo che Newton mai spiegò perché i corpi si attraggano, spiegazione offerta invece dalla teoria di Eulero e Le Sage,

dove giocano un ruolo delle particelle ben più veloci della luce. Questa ignorata teoria permette di ricavare la relazione fra massa ed energia di solito attribuita a Einstein ma ricavata prima da Olinto De Pretto.

La cosmologia dominante inoltre ignora il ruolo delle forze elettromagnetiche, sebbene l’universo sia prevalentemente costituito da materia allo stato di plasma, e quindi governato essenzialmente da tali forze. Ora una spiegazione semplice dell’anomalia delle due sonde Pioneer si può ottenere proprio tenendo conto delle forze elettriche, come proposto da Wal Thornhill, un australiano autore di un libro sull’universo elettrico. Il suo ragionamento è che subito dopo il lancio una sonda si carica di parte degli elettroni che, prodotti dal vento solare, abbondano attorno alla terra. Quando ne ha presi abbastanza, diventa così carica da respingere gli altri, proseguendo quindi come un oggetto carico negativamente. Ora è noto che il sole ha una carica positiva, che tenderebbe a crescere sempre se il sole non si liberasse a un certo momento dei protoni in eccesso mediante le esplosioni solari ben note, estese anche su aree di molti milioni di km quadri. Quindi la sonda, carica negativamente, subisce un’attrazione da parte del sole, carico positivamente, minuscola ma costante nel tempo, in quanto il campo elettrico è costante nello spazio interplanetario. Tale attrazione ha un effetto frenante e a essa si può quindi attribuire il fatto che le due sonde abbiano perso 400.000 km nella loro distanza attesa.


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