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Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal

mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

“La ragazza del mio miglior amico” di Howard Deutch

ASSALTO AL PERBENISMO di Anselma Dell’Olio a ragazza del mio miglior amico di Howard Deutch è una scostumata zano dritte tra le braccia dei loro ex, trasformati d’incanto in principi azzurri rom-com, che con la sua sfacciata scorrettezza politica regala al confronto. Tank è «un terrorista emotivo», e parte dal principio che in Mentre un’ingente dose non letale di piaceri proibiti. Si offenderanno cuor di donna alberga una masochista «che non si accetta», nel nel nostro paese ogni volgo a morte, nell’ordine: femministe ortodosse (quelle rifordelle ragazze-bene italiane. Se il film sguazza alla grande i comici insultano, mate si contorceranno), i cristiani integralisti (il cui sense nella insult comedy, la comicità dell’insulto perfezionato dall’impareggiabile Don Rickles (classe 1926, adorato of humour è strozzato nella culla) e i perbenisti di tutla comicità dell’insulto che sta da Frank Sinatra che lo voleva nelle sue tournée te le risme. La premessa la dice lunga: il protagosfondando negli Usa non ha favoritì né per scaldare la platea prima del concerto), nista Tank Turner (Dane Cook) è il direttore protetti. Ne è un esempio questa scorrettissima non porta alle estreme conseguenze lo sberdi un call center per la vendita diretta di un puleffo alle commedie romantiche della premessa, corificatore d’aria. Se volete una satira sui call center commedia dove Dane Cook raccoglie me si poteva desiderare; ma non si può avere tutto. Il se(senza i ricatti di Tutta la vita davanti e senza le lagne il testimone di un maestro greto del comico dell’insulto è cogliere, e ribaltare contro, sul precariato) questo è il film da vedere. Ma Tank è anche pavezzi e tic del pubblico o di un interlocutore. gato in nero per soccorrere fidanzati scaricati: deve fingere di cordel passato: Don teggiare da par suo le loro ragazze neo-libere. Con il suo comportaRickles continua a pagina 2 mento da maiale maschilista svergognato, le traumatizzate ragazze rimbal-

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Solitudine di Gennaro Malgieri I Simple Minds al sapore di Nutella di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Francesco Petrarca e quella modernissima vocazione all’infelicità di Filippo La Porta

Roma tra ’500 e ‘600, la terra promessa di Claudia Conforti Scrittori e parole secondo Rafik e Marabini con un’intervista di Bibi David

Gli amori estremi di Arnulf Rainer di Marco Vallora


Assalto al

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perbenismo

segue dalla prima

la in orrendi, chiassosi fast food che offrono solo ributtanti pasti unti e ipercalorici. In fine trascinarla in infimi club di lap dance dove siliconate spogliarelliste dimenano le cicce nude in faccia alla clientela ubriaca di schifosi cocktail colorati. Se tutto questo non ha scoraggiato a sufficienza la damigella, Tank passa ad avances, molestie e richieste perentorie di prestazioni lascive. È garantita la fuga nella notte della femmina sotto choc, con telefonata singhiozzante all’ex fidanzato e preghiera di tornare subito per consolarla, con tante scuse per averlo sottovalutato. Il migliore amico di Tank è Dustin, un Jason Biggs che da American Pie in poi ha limato a dovere il suo personaggio: un ragazzo dolce e imbranato con le donne. Dustin è innamorato di Alexis (Kate Hudson) ma quando si dichiara lei lo respinge dicendo «non ho vissuto ancora abbastanza» e lui cade in depressione e chiede aiuto a Tank. Lo zozzone si mette all’opera ma Alexis capta il sadismo strategico e risponde a tono; Tank finisce per innamorarsi per la prima volta. Ma la navigata Hudson è improbabile come donna inesperta e pure il suo personaggio è scollegato. Come ha fatto Alexis a scafarsi al punto da mettere in scacco un bieco turlupinatore di femmine come Tank? Hudson è figlia dell’attrice premio Oscar Goldie Hawn. Si assomigliano molto, ma Goldie è più bella e comica: a lei basta sgranare gli enormi occhi tondi per scatenare la platea, mentre la figlia è la classica attrice romcom, carina e un po’ generica. Anche Kate nel film ha parecchie battute spinte e le esegue bene; ma non è adorabile. Senza rivelare troppo, le scene più esilaranti sono quelle tra Tank e Alec Baldwin, che nel film è suo padre, un impenitente mascalzone sciupafemmine, professore universitario di Studi femminili (Oh, yes.) È un ruolo che calza perfettamente a Baldwin, come si vede nella geniale sitcom 30 Rock, in cui è il capo della fantastica Tina Fey (che Alexis sarebbe stata!). Ci sono battute cattivissime sulle femministe storiche Betty Friedan e Gloria Steinem, e una da tenersi la pancia su Nora Ephron, rodata sceneggiatrice rom-com e regista iper romantica (Harry ti presento Sally, C’è posta per te, Insonnia d’amore). Il film è distribuito dalla benemerita Eagle Pictures e si spera che il doppiaggio sia all’altezza dei dialoghi del film. Non sarà impresa facile, e dopo aver visto la deludente versione doppiata dello spassoso e demenziale Una notte da leoni, in uscita tra poco, è meglio tenere basse le attese. È più facile far piangere che far ridere, e far ridere in una lingua diversa dall’originale è arduo, ma non impossibile. Con le dita incrociate, buon divertimento.

Ospite da David Letterman (è il favorito dei talk show da quarant’anni, con quell’ingresso in scena accompagnato dalla musica per la discesa in arena del matador), prima ha sfottuto la leziosità del padrone di casa che gli faveva gli auguri di Capodanno chiedendogli come l’avesso passato (rivolgendosi sarcastico al pubblico, Rickles ha esclamato: «Tzé, certo, in cima ai pensieri di Letterman è cos’ha fatto Rickles per Capodanno…»). Accanto a lui c’era il premio Oscar Denzel Washington. Il Signore del sarcasmo, dopo una piccola pausa, indica l’attore afro-americano al conduttore e chiede: «Perché sta seduto in poltrona questo… non è qui per fare le pulizie?». Il riferimento allo storico ruolo subalterno dei neri americani sconquassa dalle risate Washington, prima di tutto. Rompere tabù e smutandare ipocrisie è il mestiere dell’insult comic, e Dane Cook è degno erede di Rickles, pur alzando il tiro con un turpiloquio spinto, troppo scandaloso per la prima serata dei canali in chiaro o per i quotidiani. Avviso ai naviganti: il linguaggio spinto «dei giovani d’oggi» del film potenzia la provocazione, che non tutti gradiranno. Se dischi e spettacoli dell’ottantenne Rickles si chiamano Ciao, scemo e Mr. Warmth (Mr. Calore umano, diretto dall’ottimo John Landis per la Hbo), quelli del trentottenne Cook s’intitolano: Grezzo ai bordi e (gulp) Tourgasmo. Cook aggiunge una comicità fisica iperattiva e complicati giochi di parole e parolacce torrenziali, alla faccia da schiaffi di Rickles, che come movimento si limita a qualche doubletake (reazione doppia). Non si ricordano sfottò di colleghi nello stile Rickles, improntato a una fulminea reattività agli altri con battute micidiali improvvisate; ma abbondano comici che fanno il verso a Cook: basta mettersi jeans e maglietta, scompigliare i capelli, menarsi in giro per il palcoscenico, usare molto braccia, gambe e pugni con enfasi, e raccontare con sguardo sbieco la vita quotidiana. Rickles è imbattibile, ma condivide con il suo epigono Cook la capacità di farsi amare nonostante le offese.

Cook ha sfondato in America sfruttando posta elettronica, sms e diavolerie come Facebook. Da comico disoccupato, nel 1999 passava molto tempo sul web, rispondendo ai singoli tifosi e allargando la base dei suoi ammiratori direttamente. Poi è passato ai brevi filmati suYouTube e infine agli album, i dvd, Saturday Night Live e i film. Non ha ancora sfondato al cinema con un film assoluto, e meno che mai all’estero, dove è poco apprezzata la nuova comicità Usa di e alla Judd Apatow (40 anni vergine, Molto incinta, Due single a nozze, SuXbad) che ha per bersaglio il delirio viriloide del maschio contemporaneo, intossicato di testosterone. La ragazza del mio miglior amico prende questo teorema e lo fa girare all’impazzata. (N.B. Il verbo to tank significa «affondare», e come sostantivo vuol dire «carro armato»). I dieci passi di Tank per rimandare una donna tra le braccia di un fidanzato schizzato comprendono: andarla a prendere con una macchina scassata e puzzolente, accoglierla con un cd heavy metal a mille decibel fingendo che il mangia cd sia rotto e non si possa spegnere né abbassare, poi portar-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

LA RAGAZZA DEL MIO MIGLIORE AMICO GENERE COMMEDIA DURATA 103 MINUTI

P.S. Daniele Luttazzi e Beppe Grillo sono comici che insultano, non comici dell’insulto. Il primo è un segaligno strutturalmente antipatico e ideologico; il comico autentico non ha né favoriti né protetti. È un autarchico che ride di se stesso e dell’umanità intera a tutto campo. Grillo è da sempre un tribuno del popolo che escoria il potere, cosa ben diversa dall’infilzare le comuni, umane pochezze. Infatti, nell’ultimo periodo è approdato all’uso indiscriminato del «vaffa» qualunquistico, equivalente adulto del «cacca-culo-merda» che fa sganasciare i bimbi.

PRODUZIONE USA 2008 DISTRIBUZIONE EAGLES PICTURES REGIA HOWARD DEUTCH INTERPRETI DANE COOK, KATE HUDSON, JASON BIGGS, LIZZY CAPLAN, ALEC BALDWIN

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via di Santa Cornelia, 9 • 00060 Formello (Roma) Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938

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parola chiave

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SOLITUDINE gnuno sta solo col cuor sulla terra/ trafitto da un raggio di sole:/ ed è subito sera». Così Salvatore Quasimodo. La solitudine è la condizione naturale dell’uomo. Eppure la sfugge. Come la morte. Entrambe sono connesse all’essere che, inspiegabilmente, ne ha paura. Perciò cerchiamo di liberarci dal pensiero della fine che, al contrario, dovrebbe accompagnarci. E si fa di tutto per esorcizzare la solitudine considerandola alla stregua di una malattia. Ci danniamo l’anima costruendoci paradisi artificiali nei quali tanto l’una che l’altra devono essere assenti. Eppure quanto più le respingiamo tanto più esse ritornano, in forme inimmaginabili talvolta e quasi sempre in momenti inaspettati, a ricordarci la fragilità delle nostre illusioni. La sera arriva prima di quanto ci si attenda. E trascorso il giorno non resta che il ricordo e, forse, la possibile immagine del domani. Ma il Tempo senza la contemplazione che cos’è se non un computo matematico, una scansione meccanica, una sequenza di azioni? Con tutta evidenza la contemplazione o anche soltanto la meditazione o il raccoglimento o la preghiera non sono possibili espungendo dalla nostra esistenza la solitudine. Lo credono le «anime belle» che amano tuffarsi nel gorgo dell’esistenza ritenendo la conquista della materialità il fine ultimo al quale aspirare. E scansano pertanto la solitudine come un fastidio.

«O

Ammiro coloro i quali hanno scelto di essere soli, come i monaci, per essere più vicini agli uomini e a Dio. Ma apprezzo anche quanti nella tormenta dell’esistenza, lacerata da rumori inutili e ossessivi, riescono ad appartarsi in mezzo alla folla. Non hanno un tempio o un romito o una cella sperduta in luoghi impervi, ma sanno cercarsi e parlarsi e connettersi con la propria anima costantemente. Hanno un rapporto con la solitudine probabilmente ritenuto eccentrico, ma non è meno efficace di quello di coloro che hanno deciso di appartarsi dal mondo. Anzi, essere soli sulla terra, amare la terra e nello stesso tempo saper scrutare le stelle, come diceva un solitario per eccellenza, Friedrich Nietzsche, è senza dubbio più esaltante per chi sceglie l’estraneazione allo scopo di trovare la propria realizzazione spirituale. Ancora Quasimodo soccorre il «moderno» che cerca nella solitudine il suo status: «Nell’isola morta,/ lasciato da ogni cuore/ che udiva la mia voce,/ posso restare murato». Già, si resta come reclusi, consapevolmente, ad ascoltare il silenzio o le flebili voci di dentro che ci narrano storie che nulla hanno a che fare con la mondanità cui pure dobbiamo recare tributi onerosi giorno dopo giorno fino alla fine al tempo che ci è stato assegnato. E quel silenzio e quelle voci se sapessimo davvero ascoltarli renderebbero più sopportabile la nostra inquietudi-

In essa sta il fondamento del pensiero e della religiosità. È la sola condizione spirituale che ci immette alla comprensione di ciò che siamo. È connaturata all’essere umano ma l’uomo la sfugge. Liberandoci dal frastuono che ci circonda, dovremmo invece cercarla

In ascolto del silenzio di Gennaro Malgieri

Solitudine non è estraniazione ma polifonia. Poiché ognuno è parte del tutto e nel tutto si possono armonizzare le differenze. Così dall’incontro di due solitudini nascono progetti condivisi, nuovi legami. Come quello stretto con Renzo Foa, direttore di questo giornale, scomparso pochi giorni fa ne fino a trasformarla in quiete. Come accade quando una melodia scende nel profondo delle cavità creative e pretende la disponibilità all’emozione per incistarsi con l’anima desiderante, quasi assetata di armonie. Tutto questo è impensabile senza la solitudine ordinatrice anche delle passioni che possono esplicarsi soltanto quan-

do le si interiorizza, le si ama fino allo struggimento. Si dice, però, che nessuno dovrebbe essere solo. E ci mancherebbe altro. La condizione dell’uomo, come soggetto sociale, creatura destinata a perpetuarsi, è quella di vivere in comunità. Ma ciò non significa che le individualità non possano coesistere insieme e nelle

stesso tempo distinte spiritualmente poiché ognuno è parte del tutto e il tutto non è omologante, ma organico quando riesce ad armonizzare le differenze. Accade sempre più di rado poiché si è perduto tanto il senso dell’individualità che della comunità. Un morbido caos si è steso sopra le forme viventi. Insomma, la solitudine è una qualità che non implica l’estraneazione, ma piuttosto la polifonia. È ciò che manca oggi nella società disarticolata nella quale l’urlo è l’espressione dell’esistenza di tutti e di ciascuno. Ma l’urlo è la metafora della desolazione, a differenza del silenzio che è metafora della ricchezza nel senso appena indicato. Perciò la disperazione del «murato» di Quasimodo è quasi la rappresentazione di un orientamento che, in qualche modo, ci coinvolge come ammalati di frenesia, senza più tempo per ascoltare altre pulsioni se non quelle che si sprigionano dalla voracità di consumare il tempo, di annullare lo spazio, di spezzare i nessi naturali che ci legano al sovrannaturale. Dovremmo essere educati alla solitudine. In essa è il fondamento del pensiero e della religiosità. È la sola condizione spirituale che ci immette alla comprensione di ciò che noi siamo come esseri umani e partecipi di un progetto sacrale. Ma è anche lo «strumento» per comprendere l’abbandono da ciò che si è amato ed è naufragato. Allora, in solitudine appunto, si può riconsiderare un rapporto, un percorso, un’idea quando sbiadiscono per il sopravvenire di eventi che sembrano portarsi via brandelli di noi stessi. Come la perdita di una persona cara.

Giorni fa se n’è andato Renzo Foa. L’ho conosciuto tardi, ma gli ho voluto bene intensamente. Quando il destino s’è incaricato di avvicinarci, provenienti da mondi lontani, mi è sembrato che le nostre solitudini, dovute al disincanto rispetto alle rispettive storie pubbliche e private vissute in ambiti diversi, abbiano fatto da collante più dei nuovi progetti che ci siamo ostinati a mettere in cantiere e in parte a realizzare. Renzo non era un credente; almeno non lo era alla mia maniera. Ma sono certo che in cuor suo, nella sua malinconia che non esibiva mai negli scritti e nei discorsi, sentiva la solitudine come una forza e non come un peso poiché in essa trovava più che l’appagamento alle illusioni nelle quali si era tuffato, lo stimolo per nuove avventure intellettuali e spirituali. Egli ha avuto la forza di essere solo. Fino a quando non si è fatta sera. Dopo, ne sono certo, non è stato più solo. Come non lo è nessuno di noi, soprattutto se ha saputo guardare in faccia, nel corso dell’esistenza, alla solitudine, viverla, amarla, coltivarla per cercare le ragioni ultime (che sono poi anche le prime) di questa nostra straordinaria condizione che il volgare frastuono quasi mai riesce a farci vedere per quella che è.


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cd

n po’ stempiata, col fiatone, ma inorgoglita dall’animus pugnandi, ecco la riscossa dei cinquantenni. Son tornati gli U2 e hanno fatto il botto; i Depeche Mode hanno mantenuto le elettroniche promesse; i Pet Shop Boys, in quanto a ritmi discotecari, danno ancora la paga ai pischelli. Fra i reduci degli anni Ottanta (dell’utile se futile e dell’apparenza «videoclippara», ma anche del technopop e della new wave) mancavano all’appello gli scozzesi Simple Minds capitanati da Jim Kerr (voce) e da Charlie Burchill (chitarra): che con Graffiti Soul, quindicesimo disco in carriera, se le cantano e suonano senza timore d’esser patetici. Ma ricapitoliamo. Nel 1979, quando il punk è abitudine e non più vezzo anarchico, le «menti semplici» incidono due grandi album (Life In A Day e Real To Real Cacophony) miscelando con foga giovanile chitarre elettriche e sintetizzatori. Nell’80, con Empires And Dance, la prima svolta che metabolizza David Bowie e i Kraftwerk. Due anni dopo, la consacrazione epico/melodica con New Gold Dream. Il magic moment della band coincide con l’apoteosi degli U2: i

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musica

Simple Minds al sapore di Nutella di Stefano Bianchi cultori degli scottish da una parte, quelli degli irish dall’altra, rivendicano l’imprescindibilità di Empires And Dance e Boy, New Gold Dream e War. Senonché, Bono e compagni ingranano il turbo con The Unforgettable Fire, The Joshua Tree e Rattle And Hum, mentre i Simple Minds rimangono al palo dopo aver gonfiato il petto con Sparkle In The Rain. Si concedono un poker di canzonigioiello (Waterfront, Up On The Catwalk, Alive And Kicking e Belfast Child) per poi soccombere allo strapotere dublinese. Negli anni Novanta, pur realizzando dischi tutt’altro che disprezzabili come Good News From The Next World e Nèapolis, mantengono un profi-

in libreria

lo basso. Dopo aver salutato la natìa Glasgow, Kerr & Burchill preferiscono godersi il gusto della vita a Taormina (il primo) e a Roma (il secondo) anziché perder tempo a riacciuffare il successo. E li ritroviamo, tali e quali, con Graffiti Soul. Paciosi e disinteressati al top delle classifiche, ma onesti (questo sì) nell’ostentare la non-rivoluzione della loro musica. Questi dieci pezzi, rassicuranti come una cucchiaiata di Nutella, rilanciano il loro copyright fatto di strappi chitarristici e ritornelli da mandar giù a memoria. C’è il rock pulsante di Moscow Underground e di This Is It, anzitutto, a ribadire che la classe non è acqua.

mondo

Ma c’è anche il suono riverberato di Rockets, con quel sentore di Bowie nell’immediatezza del refrain; e il maestoso pop di Stars Will Lead The Way e di Kiss & Fly, che ricorda l’aristocrazia dei Roxy Music. E ancora: il passo sospeso, tinteggiato di blues che scandisce Light Travels, nonché l‘ottima ballata elettrica Shadows & Light. Non fanno sfracelli, i Simple Minds. Ma si concedono il lusso del rock muscolare, in chiusura del disco, rivisitando in bellezza Rockin’ In The Free World di Neil Young. E non è poco. Simple Minds, Graffiti Soul, Universal, 17,00 euro

riviste

NEL FUOCO DEI SONIC YOUTH

UNA COURTNEY LOVE & PEACE

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a quasi trent’anni sulle scene, hanno fatto del noise un concetto artistico e del lavoro sul suono un impegno maniacale ripagato da venti album in carriera e grande seguito di fan. Dagli esordi nel solco della tradizione rock punteggiata dal punk anni Ottanta ai fasti di Sonic Nurse, Chick Stevie indaga la carriera dei Sonic Youth in Psychic Confusion. La storia dei Sonic Youth (Ar-

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ignificativamente intitolato Nobody’s daughter, e funestato da una serie di sinistri ritardi, il secondo album di Courtney Love, la vedova di Kurt Cobain, uscirà con ogni probabilità il prossimo 20 luglio. In lavorazione dal 2005 il seguito di America’s Sweetheart, prima prova da solista dell’ex leader delle Hole, è circondato da fitto mistero. Dopo la consacrazione degli anni

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Chick Stevie racconta la band newyorchese nata trent’anni fa nel solco della controcultura

Il nuovo album della vedova Cobain, “Nobody’s daughter”, uscirà il 20 luglio dopo molti rinvii

Parte a fine luglio il Festival della Provenza: più di cento concerti in location suggestive

cana, 384 pagine, 22,50 euro). Corredato da interviste esclusive ai membri della band, e a collaboratori e amici che hanno condiviso con il gruppo newyorchese il trentennio artistico in stretto sodalizio, il lavoro di Stevie si segnala per il calibrato mix di racconto e testimonianze. Un po’ libro, un po’ saggio, il lavoro dell’autore non si limita a illustrare con parole entusiastiche la parabola di Moore e soci, ma di ritrarre in parallelo ambienti ed eventi in grado di fornire un quadro preciso della controcultura musicale, e della scena underground fiorita sul finire degli anni Settanta. Un humus, quello degli Youth, che ha temprato il suono nel fuoco di una società ribollente.

Novanta con Celebrity Skin e la prestigiosa presenza nella soundtrack di Io ballo da sola, la Love non ha saputo più ripetersi su quei livelli. E così, la tracklist del nuovo lavoro, iniziato dalla cantante tra molte tribolazioni (tra cui un periodo di detenzione per uso di stupefacenti), comprenderà dodici brani dai titoli assai più meditativi che in passato: da How Dirty Girls Get Clean a Letter to God. Testi che, insieme all’attesa Happy Ending, fanno il punto sulle vicende biografiche di Courtney, ormai fermamente decisa a rinunciare all’aura maudit.

amadeusonline.net per la ventinovesima edizione del Festival International de Piano de La Roque d’Anthéron è un autentico parterre de rois. Concentrato in undici splendide località della Provenza, la manifestazione curata da René Martin proporrà dal 24 luglio al 22 agosto più di cento grandi concerti. Anche quest’anno un repertorio variegato, dalla musica barocca al jazz, e grande cura per le location, tra le rocche e i suggestivi vigneti del Luberon, una delle più belle aree francesi. Definito dalla stampa la Woodstock del pianoforte, il Festival vedrà all’opera anche le sorelle Labèque (27 luglio), Aldo Ciccolini (10 agosto) e Grigory Sokolov (14 agosto). Da non perdere.

a cura di Francesco Lo Dico

LA WOODSTOCK DEL PIANOFORTE randi nomi del jazz come Richard Galliano alla fisarmonica (27 luglio), il pianista e compositore giapponese di fama internazionale Makoto Ozone accompagnato dall’Orchestre d’Harmonie de Nantes, La Philhar diretta da Frédéric Oster con musiche di Gershwin (28 luglio), e poi lo straordinario pianista Chick Corea con Gary Burton al vibrafono (29 luglio). Quello annunciato da


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zapping

ASCOLTANDO A CUBA i suoni del mistero di Bruno Giurato os’è un mistero? È una confezione banale (con nastrini, lustrini o carta di giornale) che racchiude meraviglia e pericolo. Cuba è un mistero. Banale come termine ultimo della notte per la civilizzazione occidentale. Banale come prima stazione per tutti los italianos a caccia di baci e coccole nella fiction amorosa (del resto senza finzione non c’è amore). Ma chi scrive, oltre a essere l’unico italiano da un bel po’ atterrato all’Avana per lavorare, appartiene a una generazione troppo svagata, una generazione che a ogni discorso d’amore e d’odio su questa isola e questo sistema risponde stringendo un po’ gli occhi e facendosi serio. Simulazione d’interesse, arrivi ultimo e non sai che pensare. Cuba è e resta un mistero. Per esempio i ragazzi e anche gli anziani vestiti di bianco dalla camicia alle scarpe all’ombrello che si incontrano per la strada. Sono i discendenti bianchi, mulatti o neri, degli schiavi africani che ripetono i loro riti e le loro parole nella stessa lingua. Qui a Cuba si dice che chi non ha di Congo ha di Carabalì, per dire che se non sei nero da una parte sei nero dall’altra. In un paese comunista non sei mai immune al fascino della santeria. Salsa o Reggaetton, canzoni che i ragazzi di qui sanno a memoria e cantano sul Malecon, il lungomare delle lunghe passeggiate di chi tira la sera senza soldi, ma esce lo stesso di casa docciato e profumato. E lo senti che sotto gira un ritmo Yoruba, cioè ancora santero. A un certo punto in mezzo a un sole che ti squaglia ti fermi in una strada. Un vecchio con due campanacci e due padelle porta un ritmo grande come un’orchestra. Il capannello di persone canta con lui e ti sorridono e ripetono: pelota. Un inno al baseball? Un modo di dare un ritmo alla conga e alla giornata? La confezione di un mistero.

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jazz

L’arte del vocalese dai tempi di Beeks di Adriano Mazzoletti n Wikipedia, l’enciclopedia on line, a Vocalese si può leggere: «Stile canoro jazz in cui le parole sono adattate a melodie originariamente eseguite come composizione orchestrale o improvvisata. Mentre il fraseggio scat adopera parole improvvisate e prive di senso, scelte per il loro suono e andamento ritmico, il vocalese usa una normale versificazione, a volte improvvisata, a volte scritta sulla base di un assolo preregistrato. La maggior parte dei versi scritti per il vocalese sono sillabici piuttosto che melismatici, il che porta ad avere versi in cui molte parole vengono cantate rapidamente per adattarsi a una data frase, specie su pezzi di origine bebop». I poeti del vocalese è il titolo di un volume di recentissima pubblicazione che Giuppi Paone, giovane cantante e musicologo oltre che nipote del celebre impresario Remigio Paone, ha dedicato alla storia di queI Manhattan Transfer sto stile e ai suoi maggiori esponenti. Studio di grande impegno, ma soprattutto capacità rara nell’analisi musicale e poetica del vocalese, dal suo apparire nel 1951 agli anni recenti. La nascita del vocalese risale a una sera di novembre 1951 quando all’Apollo di Harlem, in uno dei tanti spettacoli per dilettanti, Clarence Beeks, giovane cantante di Oakdake (Tennesse), rifiutando l’orchestra del teatro, si esibì con il solo accompagnamento di un grammofono su cui suonava il disco I’m in the Mood for Love nell’esecuzione che il sassofonista James Moody aveva inciso in Svezia nel 1949. Beeks cantava all’unisono con la parte incisa dal sassofonista. Ma l’interesse di quella esecuzione risiedeva nel fatto che il cantante aveva aggiunto, all’assolo di Moody, un testo nel quale utilizzava parole di senso compiuto, sia del linguaggio comune sia dello slang nero-americano. Beeks venne subito notato dalla casa discografica Prestige e nel 1952 entrò in sala di incisione. Il suo Moody’s Mood for Love venne pubblicato su disco a 45 giri con il numero di catalogo 924 a nome di King Pleasure, pseudonimo che Clarence Beeks adottò da quel momento. Accanto a lui Blossom Dearie, una giovane cantante e pianista che tre anni

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dopo avrebbe ottenuto la celebrità in Europa. Il successo di quel disco fu immediato e il vocalese divenne la grande novità in quell’inizio degli anni Cinquanta. Fra i pionieri, oltre a Pleasure che può essere considerato l’inventore di quello stile, anche Eddie Jefferson e Babs Gonzales, ma fu il quartetto formato dai cantanti Dave Lambert, Jon Hendricks, Butch Birdsall e Harry Clark che nel 1955 incise Four Brothers, celebre tema di Jimmy Giuffre, a lanciare il vocalese a livello mondiale. Due anni dopo, quel quartetto divenne un trio e Dave Lambert, Jon Hendricks e l’inglese Annie Ross, divennero straordinariamente popolari, seguiti nel 1971 dai Manhattan Trasfer che però resero commerciale il vocalese. Il bel volume di Giuppi Paone tratta ampiamente tutto ciò, ma l’interesse maggiore ri-

siede nei molti testi (con traduzione italiana della stessa Paone), scritti soprattutto da Jon Hendricks, ma anche nelle trascrizioni su pentagramma di alcuni fra i temi più celebri utilizzati nel vocalese: Moody’s Mood (I’m in the Mood for Love), The Bean’s Story (Body and Soul), Parker’s Mood, Four. Una copiosa bibliografia completa il bel libro della Paone, laureata in letteratura americana e docente di canto ai Conservatori di Ferrara e Frosinone. Giuppi Paone, I poeti del vocalese, L’Epos, 192 pagine, 23,80 euro

teatro

A Villa Adriana l’Idiota secondo Nekrosius di Enrica Rosso

n luogo ricco di arte e storia incastonato in un contesto naturale di straordinaria bellezza, degno di un imperatore: Villa Adriana a Tivoli. Un cartellone che vanta l’eccellenza della scena mondiale. Una proposta che spazia dal teatro al circo, dalla danza alla musica. Alle porte di Roma, dal 17 giugno al 16 luglio, in un contesto emozionante: il Festival Internazionale di Villa Adriana. Impossibile resistere a tanta malia. Non perdetevi Eimuntas Nekrosius, ormai una leggenda del teatro contemporaneo, che ci regala la prima mondiale di Idiotas di Fjodor Dostoevskij, sua ultima creazione. Il maestro lituano, da anni insignito dei più prestigiosi premi internazionali, grazie alla coproduzione tra la Fondazione Musica per Roma e il Lhituanian Ministry of Culture inaugura la terza edizione con questa

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messa in scena a 140 anni dalla prima pubblicazione del romanzo. L’evento (in lingua lituana con sottotitoli in italiano) vedrà la sua compagnia presentare la prima parte (Principe Muishkin e Rogojin) il 17, la seconda parte (Aglaya e Nastasia Philipovna) il 18, le due parti insieme il 19 (durata 5 ore). A seguire il 22 e il 23 la prima nazionale di Apocrifu del belga Sidi Larbi Cherkaoui che divide la scena con Yasuyuki Shuto e Dimitri Jourde accompagnati dall’ensamble vocale A Filetta per una coreografia ispirata alla relatività del vero. Il 26 e il 27 un’occasione di divertimento per tutte le età: in prima nazionale Coma Idyllique puzzle autour du cirque dei francesi Hors Pistes che tracciano, in una commistione di linguaggi, la storia di una famiglia dagli anni Settanta a oggi. Il 29 è di scena la musica d’autore con la Pmjo, Parco della Musica Jazz Orchestra residente all’Auditorium Parco della Musi-

ca e diretta dal 2005 da Maurizio Giammarco in Duke Ellington Memorial Concert. Il 2 e 3 luglio ancora una prima nazionale che vede in scena un astro della coreografia inglese. Russell Maliphant propone una retrospettiva dal titolo Two:four:ten in compagnia di tre danzatori di gran classe: Daniel Proietto, Dana Foura (ex ballerina del Royal Ballet) e Alexander Varona. Gino Paoli festeggia i suoi cinquant’anni in musica il 4 luglio con Storie d’estate con una selezione di inediti e grandi successi. Un altro concerto sotto le stelle il 5 luglio: A solo in cui Paolo Fresu ci propone sessanta indimenticabili minuti per ripercorrere la storia del jazz a modo suo. Il 9 e il 10 è la volta del carismatico Israel Galvan. Il grande flamenchista spagnolo si esibisce in prima nazionale in El final de este estado de cosas, redux una composizione in cui incarna l’Apocalisse. Chiusura d’eccezione il 15 e il 16 con il mi-

tico Balletto del teatro Marinskij di San Pietroburgo (alla cui fama hanno contribuito danzatori come Vaslav Nijinskij, Rudolph Nureyev, Mikhail Baryshnikov) che esegue le coreografie create da William Forsythe vero erede del geniale George Balanchine. A rendere più appetibile l’offerta nel costo del biglietto (intorno ai 20,00 euro) è compreso il servizio navetta di andata e ritorno che condurrà gli spettatori dal Parco della Musica di Roma a Villa Adriana.Tutti gli spettacoli si svolgeranno al tramonto, nell’area delle Grandi Terme di Villa Adriana, uno dei più grandi siti archeologici a cielo aperto del mondo, riconosciuto dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. E scusate se è poco.

Festival internazionale di Villa Adriana, Area Archeologica di Villa Adriana, Tivoli, 17 giugno -16 luglio, info: 06 80241281- www.auditorium.com


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narrativa

el 1967 comparvero tre racconti di Simone de Beauvoir intitolati Una donna spezzata. La compagna di Sartre raccontava di una donna che camminava sulle sabbie mobili della solitudine. Colpa degli uomini, si leggeva tra le righe e lo ribadirono i critici. Addirittura Albert Camus, che tollerava poco l’estremismo femminista, anzi il radicalismo infantile di Simone, l’accusò di «aver ridicolizzato i maschi». La frase che fece il titolo, la femme rompue, torna, ma con altra accezione, nel romanzo diaristico di Philippe Besson, da molti considerato lo «speleologo dell’intimo». Si cala nella testa e nel cuore e nelle viscere di una donna abbandonata dal suo compagno e lo fa con una maestria eccezionale, quindi mai stucchevole. Le donne che devono amministrare il lutto sentimentale rischiano di essere lagnose, ripetitive, ridicole nel considerarsi unico essere al mondo. Oppure si abbandonano al rancore e all’invettiva (Shakespeare avvertiva contro il furore delle donne tradite, diceva che sono capaci di «muovere gli inferi»). Louise, la protagonista di questo denso racconto-resoconto, si allontana dagli orribili e dolenti opposti, senza per questo vivisezionare con bisturi affilati la propria sofferenza. Voglia di abissi, pianto, sguardi nello specchio ove appare improvvisamente una persona resa diversa, rimpianti, ricordi: tutti questi elementi entrano nel frullatore dell’anima. Louise decide di lasciare Parigi, e quindi la familiarità di un ambiente che l’ha vista felice, per elaborare quel che resta di una «donna spezzata» in luoghi tra loro diversi. Cuba, New York, Venezia, il treno Orient-Express. E scrive lettere a lui, Clément, mai datosi interamente all’amore, sempre come dietro il velo del non detto o del non promesso, mai sbilanciatosi verso un futuro comune. Louise lancia «bottiglie con messaggi», non barando con se stessa nel senso che sa bene di non ricevere risposta (in effetti in destinatario rimane muto). La palla del dolore rimbalza sul muro della solitudine: dignitosissima e mai scomposta, certo, ma che al-

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Diario di un

libri

mante cubana le dice di essere «inidonea alla felicità». Riflette sul suo essere stata «una parenma ci tesi», scherza anche sopra. E nel suo epistolario a senso unico cita Françoise Sagan, laddove in Un certo sorriso si fa forza di un sovrano distacco: «Ero, lo sapevo, di nuovo sola. Ebbi la voglia di dire a me stessa quella parola. Sola. Sola. Ma in fondo… ero una donna che aveva amato un uomo. Era una storia semplice; non era il caso di farla tanto lunga». Sì, facile da dire. La realtà è fatta di pesi e di ombre. Come quando Louise, rientrando nel suo appartamento parigino, ha la netta sensazione di trovarsi «nell’anticamera della morte». I luoghi sono intrisi dell’altrui (perduta) presenza. Spazi in cui Louise è consapevole d’aver imparato una femminilità nuova e piena, l’orgoglio del proprio corpo, la felicità dell’attesa, la complicità delle notti, e anche la rinuncia della maternità. Continua a scrivere, ben sapendo che «occorre coraggio per resistere all’umiliazione». Ma in fondo qual è la ragione del castigo dell’abbandono? L’uomo amato non è sostituibile, per un certo tempo (o per sempre?). Louise ricorda d’aver avuto un altro uomo, d’averlo fatto entrare in casa e nello stesso tempo d’aver avvertito la sensazione di «un’effrazione, di uno stupro». All’alba se ne andò, con la coda tra le gambe: «Gli uomini fuggono come la peste le donne infelici che si burlano di loro». Poi il diario della donna vira con brusca dolcezza. Se prima c’era la paura di incontrare Clément a una fermata d’autobus, non sarà più così. Per ragioni ben spiegate nelle ultime pagine.

abbandono

di Pier Mario Fasanotti trimenti non potrebbe definirsi. Riemergono le differenze comportamentali. Lui sempre in movimento, lei pigra, anzi «lenta», ma non per questo vuota o inattiva. Sfilano i ricordi della passata intimità, fatta di piccoli gesti e abitudini. E anche di quella «banalità che forgia le coppie più solide». Ma non essendo lei di «sentimenti tiepidi» rivendica, scansando il falso pudore, la convinzione che Clément sia ancora «l’uomo della mia vita». È uno scavo ininterrotto. Anche occasionale come quando una bizzarra chiro-

Philippe Besson, Come finisce un amore, Guanda, 148 pagine, 14,00 euro

riletture

Ironia e dolore nei racconti di Giulio Cattaneo di Leone Piccioni l nome di Giulio Cattaneo si lega a una vasta opera saggistica e narrativa. Per la sua notorietà ha preso forse il sopravvento la parte saggistica, legata soprattutto a due libri che hanno avuto una vasta risonanza: L’uomo delle novità (1968) e Il gran lombardo (1973). L’uomo delle novità era don Ferdinando Tartaglia, un sacerdote di vivo ingegno, di grande fascino, sorretto da molta cultura teologica e letteraria: prete scomodo - uomo delle novità appunto - perché tutto proteso verso una realtà sociale e culturale molto diversa da quella in uso, non potendo evitare uno scontro con la Chiesa che a un certo momento lo condannò. Era seguito soprattutto da molti giovani proprio ansiosi di novità. Ma fu presto abbandonato. Dopo una lunga vita rientrò nella Chiesa. Il libro di Cattaneo è stato ristampato di recente dall’editore Adelphi che ha iniziato anche la pubblicazione di scritti inediti del Tartaglia. L’altro saggio, divenuto di grande uso e di grande importanza, Cattaneo lo dedicò, come si sa, a Carlo Emilio Gadda

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con il felice titolo Il gran lombardo. Cattaneo ebbe grande confidenza con Gadda (lavorarono anche insieme alla Rai e per qualche tempo fui anch’io con loro) e ce lo ha raccontato in un ritratto a «tutto tondo» con grande efficacia anche sul lato della complessa personalità di Gadda, cogliendolo oltre che nei grandi periodi in cui la sua narrativa apparve come la più grande del secolo in Italia, anche nei suoi estri, i suoi scatti, le sue memorabili battute che potevano portarlo a una esilarante «comicità involontaria» che lo caratterizza. Un aspetto che non tutti, a mio parere per mancanza di intimità con lo scrittore, apprezzano, mentre riconoscerne l’esistenza risulta utilissimo e forse indispensabile a ricostruire la sua grande personalità. Ma non c’è soltanto l’opera critica di Cattaneo che pur si pone in un genere da me prediletto, quando impegno critico, approfondimento psicologico e attenzione biografica si fondono insieme. Di Cattaneo c’è l’opera narrativa da considerare molto importante, anche se ingiustamente messa un po’ da parte dall’attenzione dei più, che meriterebbe

ben altra diffusione e la ristampa, almeno, di Insonnia (Garzanti 1984). Da ricordare Da inverno a inverno del ’68 e Le rughe di Firenze del ’70, entrambi editi da Mondadori. Sono libri di racconti con parti di grande ironia, sostenuta da uno spirito tutto toscano che caratterizza anche la conversazione con Cattaneo, fiorentino vero, anche se con ascendenze diverse: per esempio una nonna veneta che spesso ricorre nei suoi ricordi. Citerei Le rughe di Firenze, Bestiario, L’estate torbida, La casa da tè e Da inverno a inverno, in cui Cattaneo descrive soprattutto gli anni della guerra e il suo ritorno a casa a Firenze, anche qui con tante citazioni che si potrebbero fare, ma soprattutto il bellissimo Congedo. Ma il meglio di Cattaneo si trova in Insonnia con un grande promemoria iniziale sul suo primo amore fallito dopo tante alternanze con una compagna di università, e con il ricordo struggente e toccante di Infanzia che Cattaneo dedica a sua figlia Laura, handicappata. Nel racconto Insonnia c’è anche una veritiera ricostruzione dell’immediato dopoguerra incentrata sugli studenti e sui

giovani fiorentini del tempo, che porta a incisivi ricordi degli ambienti scolastici e universitari. Ed ecco allora la figura di Giuseppe De Robertis con il quale Cattaneo si laureò con una tesi sull’Aminta del Tasso, non senza qualche rispettoso dissenso dal professore. Ma ecco anche l’insegnante di italiano al liceo (eravamo compagni di classe) con la cravatta a farfalla, pletorico poeta meridionale ma assai indulgente con noi. «Che cos’è il Machiavelli?» chiedeva. E noi, ad alta voce: «Una miniera!». E ancora: «Che cos’è il Leopardi?». «Una vita strozzata dal dolore!». Io ricordo anche l’illustre professore di filologia romanza che avemmo all’università che con grande emozione ci indicava i «segnali» della poesia romanza. Chiedeva: «Che cos’è l’uccello?». E noi: «Pienezza di vita!» (con tante risate trattenute dentro). Ma non è questo tono, pur molto divertente, a prevalere nell’opera di Cattaneo: c’è anche il dolore, il dolore del mondo! E quel divertimento potrebbe sembrare un modo per mettere da pare, almeno provvisoriamente, la sofferenza.


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filosofia

Vivere, con Goethe, nella percezione dell’eternità di Riccardo Paradisi emento mori, ricordati che devi morire sussurrava l’umile servo all’orecchio dei trionfatori che sfilavano per le antiche vie dell’urbe dopo i successi bellici. Un modo per invitare il generale che raccoglieva gli onori e il tributo della folla giubilante a non farsi sopraffare dalla superbia e dalla mitomania. L’ordine trappista, nell’era cristiana, adottò questa frase come motto proprio: i frati se la ripetevano tra loro continuamente, per penetrare il senso della vita destinata a finire. Un monito utile senza dubbio che però potrebbe rovesciarsi in una formulazione più soave senza perdere il suo senso profondo e la sua fun-

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gialli

zione: ricordati di vivere oltre che di morire. Ricordati di vivere: ecco, è questo il titolo di un bellissimo saggio di Pierre Hadot su Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali, che Raffaello Cortina editore pubblica e distribuisce nelle librerie in questi giorni. Una magnifica meditazione sull’epicureismo e sullo stoicismo antichi attraverso la poesia del grande maestro tedesco che recuperava l’essenza delle due grandi tradizioni filosofiche classiche armonizzandole in una sintesi superiore, di fruzione e godimento consapevole del mondo, fatta di presenza e attenzione all’attimo. Come i Greci, Goethe era infatti convinto della necessità di vivere nel presente, di cogliere la felicità nell’istante anziché perdersi nella no-

stalgia romantica del passato o nel vagheggiamento del futuro: «Se vuoi crearti una vita serena, non devi preoccuparti del passato; non irritarti minimamente ma goditi il presente; soprattutto non odiare alcuno, e lascia al buon Dio il futuro». Gran lettore di Goethe, Hadot analizza proprio come egli si inserisca pienamente nella tradizione della filosofia greca e in un’intervista coeva alla preparazione di questo libro afferma come in ambito filosofico, l’«esercizio spirituale possa considerarsi come una pratica volontaria, tutta personale, destinata a provocare una profonda trasformazione dell’individuo, una profonda metamorfosi del sé». Ma ecco che mentre per alcuni filosofi antichi questa pratica potrebbe

essere messa in relazione con il prepararsi ad affrontare le difficoltà della vita - la malattia, la povertà, la mancanza del necessario -, in Goethe l’esercizio spirituale è uno stimolo per vivere più pienamente la vita, per cogliere l’eterno nel transeunte, il diamante dello spirito nel fango della vita. Per riuscire a farlo dice ancora Goethe, occorre «tenersi saldamente legati al presente. Ogni situazione, anzi, ogni attimo ha un valore infinito, perché rappresenta l’eternità nella sua interezza». E «se l’eterno resta per noi presente ogni istante, non soffriremo per la fugacità del tempo». Pierre Hadot, Ricordati di vivere, Raffaello Cortina editore, 174 pagine, 19,50 euro

Il nuovo Montalbano? Ricorda Pirandello di Mario Donati n Andrea Camilleri in gran forma.Tanto è vero che il nuovo romanzo della serie «Il commissario Montalbano», appena uscito, ha disarcionato il thriller di Giorgio Faletti in testa alla classifica. E meno male perché non c’è confronto possibile in quanto a qualità di scrittura. Montalbano va verso i 60 anni e riflette, sia pure senza ossessioni, su «le vicchiaglie» (la vecchiaia). Ma questo appartiene al suo mondo delle ipotesi temute (per esempio un’intermittente insonnia), non al suo intatto vitalismo sia di poliziotto sia di mangiatore. Quanto all’eros, questo romanzo toglie alcunché alla sua curiosità, e nemmeno alla sua relazione - più fiacca assai quanto a tempi di frequentazione - con la

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società

genovese, e petulante, Livia. C’è da dire però che il commissario siciliano con l’eterna fidanzata dà segni di minor sopportazione, e ciò pone il risalto il lato capriccioso della donna a tal punto da indurre il lettore a «tifare» per una definitiva rottura tra i due, lontani non solo geograficamente. Montalbano dimostra, oggi ancora di più, che il suo mondo affettivo ruota attorno a quello professionale, che la sua vera famiglia è il commissariato. L’ultimo libro delle serie «sbirresca» di Camilleri ha un inizio che è tipico di chi non ha più 40 anni. Montalbano osserva pietosamente un gabbiano morire e la sua strana «danza» prima di chinare il capo. Di qui gli interrogativi, forieri poi di svolgimenti gialli (che non riveliamo, ovviamente). È pure tipico dell’età matura la repulsione verso la burocrazia rugginosa (divertente ed efficace è il riferimento a un vecchio ordine della marina borbonica, che dà proprio l’idea del girar a vuoto su se

stessi), le «chiacchiere» dei giornali, sempre le medesime, la stupidità umana, l’impotenza della politica e della società ad arrivare a conclusioni importanti e magari definitive. Camilleri cita ormai apertamente il suo amato Pirandello. Non solo: lo mette in scena quando Montalbano accenna alla sua poca voglia di portare la fidanzata nel Ragusano perché lì un certo Zingaretti gira una fiction a lui ispirata. È il rimando al doppio, che ha conferma nei dialoghi che il poliziotto fa con se stesso, come se si trovasse allo specchio. Montalbano, dinanzi alle gravi condizioni in cui si trova il suo collaboratore Fazio, perde il suo stare granitico sopra la realtà, addirittura sviene, in ogni caso mostra «scanto» e apprensione. E Camilleri racconta tutto questo senza rinunciare a una forte vis comica. E con qualche lieve variazione dialettale. Come se lo strano impasto linguistico mutasse, anch’esso, con gli anni. Andrea Camilleri, La danza del gabbiano, Sellerio, 267 pagine, 13,00 euro

Se il cristianesimo si muove nel cyberspazio di Franco Insardà a Chiesa al passo con i tempi. Da una parte internet e gli scenari multimediali aperti dal web 2.0, con elevate opportunità d’interazione legate allo sviluppo dei tanti chiacchierati social network, dall’altra la Chiesa con il suo messaggio di salvezza e con oltre duemila anni di storia sono i protagonisti del libro di Vincenzo Grienti Chiesa e Web 2.0. Pericoli e opportunità in rete. L’autore analizza questa nuova fase della Rete, ponendo l’accento in particolare su come la Chiesa comunica all’interno di questo rinnovato «cyberspazio» e sul rapporto tra le enormi opportunità e gli ine-

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vitabili rischi che la nuova frontiera del web offre alla società contemporanea. Papa Benedetto XVI, nel suo Messaggio per la 43esima Giornata Mondiale per le comunicazioni sociali, si è rivolto ai giovani della «generazione digitale» invitandoli a farsi protagonisti attivi dinanzi a queste straordinarie possibilità comunicative: «A voi, giovani, che quasi spontaneamente vi trovate in sintonia con questi nuovi mezzi di comunicazione, spetta in particolare il compito della evangelizzazione di questo “continente digitale”. Sappiate farvi carico con entusiasmo dell’annuncio delVangelo ai vostri coetanei!». Vincenzo Grienti ha analizzato il fenomeno con la competenza che gli deriva dal suo

lavoro nell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Conferenza Episcopale Italiana, dove si occupa, appunto, dell’ufficio stampa e del sito internet chiesacattolica.it. L’autore si interroga sulla «logica del cristianesimo» nella cybercultura per cercare di capire questo nuovo fenomeno: «Occorre entrare in questa nuova mentalità, non per essere avvolti e inghiottiti dall’ipertecnologia, come del resto accade a molti entusiasti del web, ma semplicemente per elaborare un discernimento sia rispetto alle tesi degli entusiasti, sia nei confronti dei critici apocalittici». Monsignor Dario Edoardo Viganò, preside dell’Istituto Redemptor Hominis della Pontifica Università Lateranense, che

firma la prefazione del saggio, sottolinea che «accanto alle grandi opportunità, c’è il serio rischio che il web stia creando un circuito di solitudini di tastiera, di gente che s’illude sul fatto che per comunicare davvero basti usare il mouse, come dimostrano i sempre più frequenti casi di dipendenza e di nevrosi da Internet; insomma non è tutto oro quel che luccica e l’autore è avvertito sul fatto che i social network possono giocare nella perdita della dimensione della realtà e far incorrere nella solitudine del cittadino globale». Vincenzo Grienti, Chiesa e Web 2.0. Pericoli e opportunità in rete, Editrice Effatà, 96 pagine, 8,50 euro

altre letture Un viaggio ironico nelle secche dell’omologazione linguistica, analizzando genesi e storia di frasi fatte e modi di dire. Nel mirino i tic della lingua quotidiana. In brevi capitoli Filippo La Porta delinea in È un problema tuo (Gaffi editore, 111 pagine, 10,00 euro) una critica divertita ma radicale delle mitologie e dei conformismi che risuonano in fraseologie standardizzate. «È un problema tuo», «Tuttaposto», «Non c’è problema». Nelle radio, in tv, nei bar, nelle strade, si sentono ripetere ossessivamente queste e altre espressioni. È come un ronzio ininterrotto, corale, semplificante dietro cui si nasconde forse un vuoto insondabile. Alle divagazioni socio-morali di Filippo La Porta si aggiungono le vignette di Dario Frascoli. Vent’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, un generale e un colonnello cappellano dell’esercito italiano ricevono un mandato gravoso e delicato: ritrovare i resti di molti nostri soldati caduti in Albania. La missione si infrange contro gli scogli di un clima ostile, di una terra impervia, cui si aggiunge la freddezza di un popolo fiero per il quale la guerra sembra essere una condizione di vita. Quando il generale sarà pronto a riportare in patria l’armata morta, si renderà conto di aver esumato, oltre ai poveri resti anche diffidenze e rancori antichi, atavici in un popolo diverso per usi, costumi, senso della vita, della morte e dell’onore, che «ha sempre avuto il gusto di uccidere e di farsi uccidere». Rievocando gli orrori della guerra nel paese delle aquile, Ismail Kadaré costruisce in Il generale dell’armata morta (Longanesi, 222 pagine, 16,00 euro) un romanzo di grande intensità, in bilico tra commedia a sfondo macabro e teatro dell’assurdo, narrazione rarefatta e tragedia epica, in cui emergono in tutta la loro crudezza la forza primordiale della violenza che grava sul destino degli uomini. In una grotta segreta, nascosta fra le cascate ghiacciate dall’inverno, cinque giovani amici aprono un antico baule e liberano una storia che per molti anni era stata chiusa e dimenticata, volutamente dimenticata! Capitan Grisam e l’amore di Elisabetta Gnone (De Agostini, 231 pagine, 14,90 euro) racconta del mistero che avvolge il passato di colui che diceva d’essere un comandante valoroso e toccherà a Vaniglia e Pervinca e al giovane mago Grisam, alla buffa nox e all’intera Banda del Capitano scoprire la verità su William Talbooth. a cura di Riccardo Paradisi


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storia

INDORATORI, PITTORI DI FESTONI, IMBIANCHINI VELLEITARI, MADONNARI, RITRATTISTI IMPROVVISATI E BARBIERI IMBRATTATELE MESCOLATI A GENI SUBLIMI. IL SOTTOBOSCO ARTISTICO DELL’ETEROGENEA SOCIETÀ ROMANA DI FINE RINASCIMENTO RICOSTRUITO DA PATRIZIA CAVAZZINI IN UN LIBRO, DOCUMENTATISSIMO, AVVINCENTE COME UN ROMANZO PICARESCO

Roma, la terra promessa di Claudia Conforti esistenza oltraggiosa di Agostino Tassi e la sua pittura polimorfica e sconcertante sono l’antefatto del libro, davvero sorprendente, che Patrizia Cavazzini ha dedicato alla produzione e alla vita quotidiana dei pittori, di ogni risma e talento, vissuti a Roma tra la fine del Cinquecento e il primo Seicento (Painting as business in early Seventeenth-Century Rome, The Pennsylvania State University Press, University Park). Nella stagione d’oro della pittura romana, dove rifulge l’opera di Caravaggio, sono centinaia gli artisti del pennello, o sedicenti tali, i cui nomi e le cui opere sono oggi inghiottiti dall’oblio. Cavazzini, come è noto, ha frequentato a lungo e a fondo l’opera del Tassi, pittore talentoso quanto scellerato, al quale ha dedicato un libro Palazzo Lancellotti ai Coronari. Cantiere di Agostino Tassi, Poligrafico Roma 1998 e una mostra che, corredata da un dovizioso catalogo, fu allestita nelle sale di palazzo Venezia a Roma nel 2008. Fu l’interesse per la stralunata ed eterogenea pittura di Tassi a spingerla sulla strada di una dettagliata ricostruzione documentaria delle vicissitudini esistenziali dell’artista: una ricerca resa impervia dall’ondivaga identità anagrafica del pittore toscano: se infatti il cognome paterno fu presumibilmente Ponzori, Agostino si firmò preferibilmente Tassi e, in talune circostanze, Buonamici. La biografia di Agostino è maledetta: funestata da crimini e delitti; da relazioni incestuose o improntate alla menzogna e alla violenza (fu accusato di stupro dall’allieva pittrice Artemisia Gentileschi); da processi e da condanne, anche ignominiose come lo fu quella al duro lavoro nelle galere livornesi.

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Per questa via Cavazzini è entrata in contatto con fonti documentarie non usuali per la storia dell’arte, tra cui spiccano quelle conservate nel fondo del Tribunale Criminale del Governatore di Roma nell’Archivio di Stato romano, da dove ha saputo trarre una formidabile e coloritissima messe di informazioni, desunte soprattutto dalle testimonianze verbali che corredano i processi. Altre notizie sono fornite dai cosiddetti Stati delle Anime, cioè i cen-

simenti annuali condotti nelle parrocchie romane per verificare l’assolvimento dell’obbligo pasquale della comunione. Infine una straordinaria quantità di dettagli sui quadri, sulla loro collocazione e sulla loro circolazione è tratta dagli atti notarili, dove si accumulano contratti di vendita, di cessione, matrimoniali etc.; legati testamentari, inventari post mortem. La messe di informazioni è stata costantemente verificata dalla Cavazzini attraverso confronti incrociati, riscontri nelle biografie ufficiali di artisti e di committenti, negli epistolari, nei diari e negli Avvisi. Termine quest’ultimo che indica gli antenati delle notizie giornalistiche che, a stampa o manoscritte, abbondano

Questo studio manda in frantumi la tradizionale fissità che avvolge le opere distanziandole dalle dinamiche sociali e dal commercio minuto. Elementi imprescindibili che veicolano da tempo immemorabile la produzione artistica nelle antiche biblioteche romane. Il materiale così filtrato è stato disciplinato nella trama di una vivacissima narrazione che rende questo libro attraente come un romanzo picaresco. Un libro che non appartiene strettamente alla storia dell’arte, ma che getta un ponte, anzi un colossale viadotto, tra la storia della pittura e la sfaccettata, brulicante società in cui essa nasce e, nella fattispecie romana, prospera. Questo straordinario volume, che si apparenta a un altro da poco (Carocci) pubblicato a Roma da Raffaella Morselli e intitolato Vivere d’arte. Carriere e finanze nell’Italia moderna, manda in frantumi la tradizionale, ieratica fissità che, come un’aureola bizantina, avvolge e separa la storia della produzione artistica dalle dinamiche sociali e dai fantasiosi meandri del commercio minuto che in realtà veicolano da tempo immemorabile anche la produzione «artistica». Il mondo romano della produzione pittorica nel passaggio tra Rinascimento e Barocco si rive-

la, leggendo le pagine di Patrizia Cavazzini, convulso: animato da una moltitudine pulviscolare di indoratori, di pittori di festoni, di imbianchini velleitari, di madonnari, di ritrattisti improvvisati, di barbieri imbrattatele.

Tra essi si mescolano, e talvolta si confondono, geni sublimi, come Caravaggio e Reni; pittori di scintillante talento come Agostino Tassi o Adam Elsheimer. Il quale ultimo si dichiara «pittore e apothecario», cioè artista e bottegaio a un tempo e, a dispetto del suo robusto talento, trascorse l’esistenza romana nel segno di un’inguaribile miseria. Di questa indigenza rimane una toccante testimonianza in un suo schizzo autografo che, conservato al Gabinetto Nazionale di Grafica di Monaco, raffigura la miserabile esistenza della famiglia del povero artista. Prima di inoltrarci in alcuni temi particolarmente curiosi e interessanti, registriamo la struttura del libro, che è illu-


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Accanto, “Gallerie con vedute di Roma moderna” di G.P. Panini. In basso, da sinistra: “Natura morta” di G.B. Crescenzi; “Cleopatra” di Orazio e Artemisia Gentileschi; “Salomè” di Guido Reni; “La negromante“ di A. Caroselli; “Cristo tra i dottori” di A. Gramatica; “L’atrtista disperato” di A. Elsheimer

strato da non più di una settantina di immagini, spesso poco note e singolari, le quali, è bene sottolinearlo, hanno un valore puramente esemplificativo e non sono oggetto di specifiche esegesi critiche. Questo perché non si tratta, lo ripetiamo, di un libro di storia dell’arte convenzionale. Quella a cui ci invita Cavazzini, con un flusso narrativo appassionato e incalzante come un romanzo d’azione, è una spericolata perlustrazione del sottobosco artistico della variegata società romana di fine Rinascimento, dove prospera una produzione artistica eterogenea per qualità e natura, che spesso solo per convenzione possiamo assimilare alla pittura tradizionalmente intesa.Tali manufatti, potenzialmente artistici, una volta finiti o comunque semilavorati, sono risucchiati in una vorticosa circolazione di scambi, di baratti, di permute, di furti, lasciti, confische e, naturalmente seppure raramente, anche di acquisti con regolare pagamento in denaro.

Ma chi fa cosa? E chi acquista cosa? E a quale scopo? I quattro capitoli del libro rispondono generosamente a queste domande, mettendo in campo una casistica mirabolante e pittoresca, a cui l’autrice imprime, con inderogabile rigore critico, un senso compiuto e un significato che trascendono la pur godibile dimensione aneddotica. Nel primo capitolo, intitolato Artists and Craftsmen, sono indagati la natura e il profilo sociale dei produttori di opere

avrebbe affascinato Pirandello e Borges, sul tema dell’identità anagrafica, spesso mutevole e inafferrabile, degli artisti, che ne denuncia la ricorrente attitudine da avventurieri. Le omonimie si rincorrono tra le carte documentali, moltiplicando identità che rischiano di divenire imprendibili nella folla di artisti richiamati a Roma dal miraggio degli incarichi elargiti dalla Curia, dalle corti cardinalizie e secolari, dai conventi e dalle confraternite, numerosi come in nessuna altra città d’Europa. Se a questi innumerevoli, potenziali committenti si aggiungono i ricorrenti Giubilei, appare chiaro come Roma sia la terra promessa degli artisti: un aspetto che viene colto e divulgato già da Giovan Battista Armenini nel suo trattato De’Veri Precetti della Pittura edito proprio nel 1586, dunque nell’intervallo cronologico indagato da Cavazzini.

Nei documenti si celano trappole infernali per lo studioso, nascoste nelle identità, che possono essere sovrapposte, come quella di Agostino (Ponzori? Buonamici? Tassi?); ma anche dei Gentileschi padre e figlia, cioè Orazio e Artemisia, che talvolta si firmano Gentileschi, tal’altra Lomi. La sovrapposizione può darsi anche nel caso di botteghe in cui lavorano contemporaneamente padri e figli, come nel caso del tardo caravaggista e copista Angelo Caroselli che, associato a Pietro Paolini, si confonde con i suoi figli Carlo e Francesco, entrambi attivi come pittori e mercanti di quadri, la cui azione pittorica (e di conseguenza l’identità artistica) risulta indistinguibile da quella paterna. Le confusioni identitarie si danno anche al di fuori della cerchia famigliare: dai documenti affiorano per esempio due Bartolomeo Manfredi, coevi, uno dei quali è un seguace di Caravaggio. Ma l’altro? Ambiguità ed equivoci sono potenziati poi dalla consuetudine dei soprannomi, che ricorrono identici per persone diverse: è il caso per esempio di un «Claudio pittore Lorenese». Il nome e il suo attributo geografico emergono con insistenza nei documenti dei tribunali, anche se nella maggior parte dei casi ragioni cronologiche e logistiche escludono l’identificazione con il famoso paesaggista Claude Lorrain. Per esempio il pittore Jacob de Hase, originario di Anversa, viene iscritto nello stesso registro parrocchiale, in anni diversi, come Giacomo di Sassa, de Mari, D’Ai e Hasa. D’altra parte può ac-

L’identità anagrafica degli artisti, talvolta inafferrabile, ne denuncia spesso l’attitudine da avventurieri. Le omonimie si rincorrono tra le carte documentali che celano trappole infernali. Come nel caso di Agostino Tassi e dei Gentileschi d’arte (o sedicenti tali); nel secondo, Training, sono messi a fuoco gli svariati percorsi di formazione e di apprendimento dei pittori e decoratori, oltre che il loro ruolo istituzionale, in incerto bilico tra il prestigio sociale della neonata Accademia di San Luca e la prassi blandamente corporativa della medievale Compagnia di San Luca. Il pittore fiammingo Karel van Mander, abituato al rigido sistema corporativo olandese, osserva con qualche stupore che a Roma manca un’autorità istituzionale che regoli l’attività artistica, definendone limiti e prerogative. Pertanto qualsiasi indoratore può accreditarsi come pittore. La destinazione delle opere, che sorprende per la sua caleidoscopica varietà, è oggetto del terzo capitolo: The diffusion of Painting; il quarto e ultimo capitolo, The Market, illustra i meccanismi del tumultuante mercato che governa la disseminazione fisica e il riconoscimento sociale delle opere. Il libro si apre con un’esilarante digressione, che

cadere per esempio che nella stessa parrocchia di San Lorenzo in Lucina, siano registrati nello stesso periodo almeno una decina di Nicolò, tutti pittori o associati a botteghe di pittori, tra cui anche il celebre Poussin. Ma che significa essere pittore a Roma tra Cinque e Seicento? Non esiste una risposta univoca a questa domanda che spalanca una gamma di accezioni quasi illimitata. Si definisce orgogliosamente pittore un tale Giovan Battista Galletti che ha dipinto il soffitto di un negozio di barbiere; rivendicano la professione artistica un Francesco Baldini, per avere istoriato le finte pietre per l’apparato di canonizzazione di Sant’Isidoro in San Pietro nel 1621 e un Avanzino Nucci che tinteggia di verde le pareti di alcune stanze del Quirinale. Infine si definisce «pittore di figure» tale Pietro Paolo Besanti, la cui unica, brutta figura, conosciuta è quella che emerge dal processo intentatogli nel 1620 per essersi masturbato davanti alla finestra della sua ex fidanzata.


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Il potere « I delle storie sotto il cielo di Damasco

“La voce della notte” di Schami Rafik: a colloquio con l’autore siriano

scrittori e parole di Bibi David

protagonisti del mio nuovo romanzo La voce della notte sono due: Salim e Damasco. La città è l’anima e lo sfondo insostituibile del libro. Salim, è il suo narratore più famoso. Ruolo non da poco, in un luogo ove si sanno raccontare storie come in nessun altro posto. Proprio Salim, colui che con la sua parola e i suoi racconti da Mille e una notte riesce a trasformare e a trascinare il più insensibile uditore nei deserti lontani e nei mari azzurri fino quasi a fare arrivare a ciascuno perfino profumi e sapori, una notte a causa di un incantesimo perde la voce. Ha inizio così una vera e propria tragedia per lui, un’odissea che si risolve solo quando i suoi sette amici, i suoi sette compagni di narghilè capiranno che per spezzare l’incanto che lo ha reso muto dovranno loro stessi diventare consapevoli del potere magico delle parole. Raccontando infatti ciascuno a Salim una favola o una storia lo riporteranno ad avere la sua voce, il suo vero sé». Così Schami Rafik, il più grande narratore siriano contemporaneo, autore nel 2006 del best seller Il lato oscuro dell’amore, ci presenta il suo nuovo romanzo edito in Italia da Garzanti, tradotto in ventuno lingue in America e in Europa e in testa alle classifiche tedesche. Sì, perché dal 1971, costretto a un esilio forzato, Rafik si è rifugiato in Germania, diventando uno dei più celebri scrittori di lingua tedesca. Ma qual è per Rafik il potere delle parole, così fortemente evocato nel nuovo romanzo, e cosa rappresenta per lui la scrittura? «La storia di maghi e principesse che ci racconta Salim - risponde - ci porta nella sensualità delle notti orientali, negli amori proibiti, dolci e torbidi, della gente di Damasco, nei misteri dei bassifondi siriani. Il potere della scrittura e delle parole è dunque immenso. La parola è l’unica creazione che non muore. Per me scrivere è poter dare un tocco di eternità all’esistenza altrimenti debole ed effimera». Chi sono i suoi modelli letterari tanto nel mondo arabo che europeo?

Conosco a memoria alcuni testi classici della letteratura araba e mediorientale come Il collare della colomba di Ibn Hazm. Adoro la filosofia e la letteratura dei sufi, dei mistici islamici. Non smetto di rileggere i racconti delle Mille e una notte e ammiro, senza riserve, il genio egiziano Nagib Mahfouz. Per quanto riguarda la letteratura europea preferisco la poesia e Shakespeare. Ha nostalgia di Damasco? Come vede la Siria di oggi? Quali sono i suoi contatti con un mondo così diverso da quello tedesco? Resto in contatto col mio paese attraverso i media, giornali e tv. Ho amici e parenti in Siria che sento di frequente ma non ho rivisto con gli occhi di oggi Damasco. Pertanto, da ciò che sento posso dire che paradossalmente niente è cambiato, tutto è restato fermo, ma proprio in virtù di questo ogni cosa si è trasformata. Mi spiego. L’immobilità crea momenti di vuoto ma non ferma il tempo. Spesso in molti paesi arabi vi sono regimi o dittature che durano decenni. Sembra che nulla muti, eppure dietro l’apparente immobilità delle cose si muovono energie che poi in pochissimo tempo creano metamorfosi e rivoluzioni. Ebbene, la Siria di oggi è un Paese che vive a due velocità: la facciata esterna si muove lenta, tra i ritmi interminabili dei caffè consumati nei chioschi dei suk, mentre dentro le case i giovani creano una nuova identità per se stessi e il proprio Paese attraverso i blog, i programmi della tv satellitare e le mille potenzialità del web. C’è New York dentro il fumo dei narghilè nelle vie di Damasco. Come è la Damasco del suo romanzo rispetto a quella reale? È difficile rintracciare il confine tra fantasia e realtà. Io parlo di magia, di caffè orientali bellissimi ove tutto può accadere. Per un narratore però e per un narratore arabo in particolare, ciò che vede la sua mente è la realtà. Le cose si creano con la parola e poi esistono, come e più di quanto non avvenga in quella che gli occidentali chiamano realtà.

Le nuove risonanze che vengono dal cambiamento di Claudio Marabini ambiano i fatti e cambiano gli articoli. Cambia il mondo e cambiano le pagine dei giornali. E cambia lo scrivere. Pare si tratti di un mondo immutabile. Ma non è così. Il mondo in cui viviamo cambia parecchio e ama cambiare. Quel che ci tocca da vicino è il modo di «rendere» questo cambiamento: di scriverne liberamente e di dare il senso vero e netto della «cosa». La «cosa» è il mutamento stesso: che cosa muta e il modo di mutare. Abbiamo fatto in tempo a vivere nell’immutato. Ora non è più così. Ci chiediamo: è cambiato totalmente questo mondo o sono cambiati gli occhi nostri, gli sguardi che lanciamo intorno? L’occhio è mutato? Vero è che tutto è mutato e che occorre fare i conti con questo mutamento: le cose, gli uomini, la società, le «cose» nella loro sostanza materiale. La società tutta intera, spesso come colta in un difficile trapasso, colta in uno stato di «essere» o «non essere»: come in attesa, un’attesa nutrita di grande curiosità ma anche di preoccupazione. Come parlare della so-

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cietà in cui siamo cresciuti e velocemente ci siamo trovati forse diversi da come si pensava di essere? Come descriverla, come viverla, soprattutto come accompagnarla. Non si può assolutamente vivere in una società senza capirla e capirne ogni passo e ogni parola. Soprattutto senza amarla. E allora scriviamo sui giornali, i quali vivono delle nostre parole: delle parole che sono parte intima di noi. Scriviamo ma il nostro occhio segue il mondo, la vita d’ogni momento: ciò che fa il nostro vivere, quella «cosa» che ci avvolge interamente e dunque ci condiziona. Che mondo, che vita descriviamo? C’è qualcosa che ci sembra di toccare, di stringere, e che ci sfugge. Qualcosa che è di questo mondo ma che al tempo stesso va fuori dai confini che siamo (o eravamo) soliti praticare. Qualcosa che sembra nato al tempo stesso da un altro mondo, una diversa società, altre abitudini… Siamo come incerti tra cose e avvenimenti che abbiamo l’impressione ci vogliano sfuggire: quasi abbandonare. Come fossimo colpevoli, avessimo mancato in qualche dovere, necessario per vivere onestamente, con cui aspettare il futuro:

quel futuro che all’improvviso ci appare diverso, ma anche enigmatico, come spogliato del giusto futuro. Ci facciamo domande a cui non sorridono risposte. Domande cariche di senso e di vita, di vita che è in ogni caso ancora e sempre nostra, della nostra giornata, della casa, della famiglia… E perché no: della nostra città, di tutti i nostri luoghi: i quali sono da sempre sembrati a noi eterni, almeno duraturi al di là dai confini che siamo soliti imporre a quelle «cose». Che cosa si è incrinato? È possibile che all’improvviso ci troviamo come spaesati, incerti? Ed è possibile che quasi di colpo la nostra parola batta incerta a una porta che non risponde più, a una finestra che non si apre? Non sarà che il linguaggio - la parola - è mutato all’improvviso, di nascosto da noi? È avvenuta forse una cosa che ci tocca da vicino. La parola rimane all’apparenza quello che sempre è stata, ma suona in altro modo. Il discorso è sempre quello che abbiamo avuto all’orecchio, ma dice cose insolite, diverse da quelle che sempre abbiamo avuto dentro di noi.Tu fai articoli per giornali, ma intanto la lingua

cambia, cambiano le parole, i discorsi viaggiano con diverso passo: dicono altre cose da quelle che pensavi un tempo: e soprattutto dicono a voce netta che il mondo è cambiato, sono cambiate le persone a fondo, ed è cambiato il modo di vivere e di pensare. Tutto sembra immutato, ma invece parole e cose sono diverse, e la tua giornata, il tuo tempo, il tempo su cui sempre hai basato il tuo vivere, è diverso, ed è fatto di altre cose. Pensaci, renditi conto. Il discorso che noi amiamo fare è quello che abbiamo sempre amato… Ma tutto intorno, e molto «sotto», è mutato ed è frutto di un altro mondo, un’altra vita, un’altra società! Che cosa dicono i tuoi occhi? Che cosa risponde il tuo cuore? Eppure anche la parola - quella che si scrive - dice la stessa cosa. Dice che tutto è mutato e che dal mutamento deve sortire. Che cosa? Un avvenire diverso? … Qualcuno lo dice, è vero, anche se noi siamo sempre in attesa. Aspettiamo, come è giusto che sia. Hai paura? Sei incerto? E nell’orecchio suona una voce che mormora, colma di vita, che il futuro è vicino e che sarà bello. Sì, bello e diverso!


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di Pier Mario Fasanotti a ricetta è semplice. In teoria. Quanto a metterla in pratica è un’altra cosa come ci accorgiamo dalla mediocrità di certi sceneggiati. Per confezionare un buon prodotto televisivo di fiction ci vogliono un buon soggetto, un regista non banale e (almeno) un ottimo attore. Operazione riuscita (non importa in quale percentuale) con Nel nome del male, miniserie su Sky. Il soggetto è di Paola Barbato, sceneggiatrice di Dylan Dog (e si vede dalle sequenze del filmato) e autrice di due romanzi editi dalla Rizzoli, Bilico (2006) e Mani nude (2008). A questo punto va detto che la tv dovrebbe rivolgersi più frequentemente ai narratori, non parliamo del teatro che sembra oggi un meccanismo autistico. Per la regia di Alex Infascelli, non immune alle atmosfere di David Linch, l’ottimo Fabrizio Bentivoglio (affiancato da Michela Cescon) rappresenta l’industriale medio del Friuli, con villa di proprietà, benessere costruito con i sacrifici, abitudini consolidate e colpevole disattenzione verso il figlio (Matteo, nello sceneggiato) di sedici anni. Un atto di accusa potente verso tutti i padri che non osano cambiare le lenti della propria osservazione genitoriale e si pongono poche o nulle domande. Il protagonista s’inoltra nel pazzesco mondo - che esiste davvero sia in Italia che altrove, e pare prolifichi - delle sette sataniche, un mondo fatto di rituali rabberciati secondo l’imitazione al contrario del cattolicesimo, di abissali ignoranze e di cinismo finanziario (al vertice) molto prossimo a quello mafioso. Giovanni, alias Bentivoglio, si mette alla ricerca del figlio scomparso e percorre un sentiero tanto inquietante quanto ferocemente banale. È lo specchio di una realtà che la polizia conosce bene, ossia quello delle persone scomparse e dei truffatori del falso-sacro. Le recenti vicende sataniche della periferia mi-

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Fiction italiana: Sky batte Mediaset 1a0 lanese, con morti e scomparsi, lo testimoniano. Strano che nella miniserie la polizia commetta vistose ingenuità inquisitorie e che comunque si tenga in disparte. Strano anche che il parroco dica, almeno all’inizio, cose banali invece che calarsi tra gli indizi sociali del Male, che pur addita da lontano. Polizia e Chiesa non sono così passivi, nella vita reale. Dicevamo prima che la ricetta vincente contempla tutto sommato pochi ingredienti, basta saperli trovare e amalgamare. Anni e anni di esperienza tuttavia non hanno insegnato moltissimo agli italiani, che pure avrebbero a portata di mano gli

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strumenti per intervenire con il lifting televisivo. Ne è prova la fiction di Mediaset Non smettere di sognare. Prova di grande banalità e di scivoloni incredibili per quanto riguarda la struttura dello sceneggiato. Ci appropriamo della critica mossa da Aldo Grasso, oggi il più attento lettore di cose televisive: «Ma quelli di Cologno Monzese leggono i copioni?». Certo, li leggono. Però, diciamo noi: o non si accorgono che fanno acqua o non si adoperano per migliorarli una volta consapevoli che un discreto punto di partenza narrativo magari c’è. Grasso fa bene a puntare la sua penna contro l’insul-

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UOMINI CHE AMANO LE DONNE

saggine di certe battute del copione. Aggiungiamo che qui vien fuori anche un altro difetto: l’imitazione. È vero che essere originali costa fatica, o è spesso un’eccezione, ma pare incredibile, dopo tanta televisione masticata fino a oggi, che certi personaggi siano i cloni di altri personaggi oppure abbiamo come ispirazione le solite figure del mondo dello spettacolo, dei vip e in genere della fannullaggine sociale. Quelli dei copioni sbagliati probabilmente leggono avidamente, e passivamente, i settimanali di pettegolezzi. Nell’illusione di calarsi nell’attualità. Invece sprofondano nella caricatura.

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ALLA GUERRA DEL TENNIS

I COLORI DI VINCENT

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sco a fatica, rantolo ancora per una storia di “X” periodo con una che mi ha scarnificato la vita, e che faccio? Ne scelgo una uguale uguale. Sarà per colpa della chimica? La chimica… avevo più o meno 4 in chimica, più meno che più.Vuoi vedere che tutto ‘sto strazio lo pago perché a malapena conosco la formula dell’acqua?». Ironico e ricco di verve, manandthecity.it è un dia-

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pochi giorni dalla chiusura del Roland Garros, gli appassionati potranno prolungare i piaceri della racchetta con Virtua Tennis 2009, ultimo nato in casa Sega da pochi giorni disponibile per le console. Arcade di notevole impatto grafico, il titolo ha nella giocabilità effettistica e ricca di grandi colpi i suoi punti di forza. Assortito dai campioni più in voga, che si muovono secon-

sercito un mestiere che è sporco e difficile: la pittura. Se non fossi quel che sono, non dipingerei; ma essendo quel che sono, lavoro spesso con gioia e intravedo la possibilità di fare un giorno dei quadri dove ci sarà un po’ di freschezza e di gioventù, essendo la gioventù una delle cose che ho perduto». Antesignano dell’espressionismo, pietra di paragone delle arti figu-

Ironico e frizzante, manandthecity.it presenta racconti e commenti sui rapporti di coppia

Grande impatto grafico e giocabilità piena di effetti sono i punti di forza di “Virtua 2009”

Geniali pennellate e stilettate esistenziali: il ritratto di Van Gogh fra stenti e prodigi

rio frizzante che raccoglie commenti, aneddoti e racconti sulle donne. Seguendo l’ideale scia di Sex and the city, venata di allegria e malumore, gli autori del blog offrono uno spaccato intelligente dei rapporti di coppia. Quelli che nascono, che subito muoiono, che stentano o si avvizziscono per consunzione. Campionario di vite e personaggi, a metà strada tra il commentario d’autore e il forum, il sito brilla per scrittura e simpatia, e consente di nutrire la discussione con commenti e interventi. Non mancano riflessioni su Facebook, recensioni di libri e chiose alle news dal mondo. Di grafica gradevole, manandthecity è una gita nei mutevoli territori del cuore.

do le caratteristiche degli omologhi reali, il titolo presenta poi le modalità carriera e le maggiori competizioni internazionali. È possibile inoltre creare un alter ego e strutturarlo secondo caratteristiche fisiche e sportive ad hoc, e gestire le attività tipiche di un tennista del terzo millennio. Ludico in senso assoluto, Virtua è un gioco senza troppe pretese, ma dal divertimento assicurato. Spiacevoli però i troppi errori di traduzione nella versione italiana, punteggiata di refusi marchiani, e la scarsa cura attribuita agli sfondi del campo, non perdonabili in un gioco mainstream.

rative novecentesche,Vincent Van Gogh condensò nella sua biografia capolavori e disastri in eguale misura. Un amore senza requie, rapporti umani furibondi, un costante e dirompente rimorso che perdurò fino alla mutilazione fisica e interiore. Tra geniali pennellate e stilettate esistenziali, i cinquanta minuti di Van Gogh, documentario divulgativo di Cinehollywood, ripercorrono carriera e stenti di un uomo difficile e sensibile, capace di lasciare all’ammirazione delle folle vertici pittorici come I girasoli, I mangiatori di patate e la Sedia con pipa. Agile ma puntuale, un lavoro che incrocia didassi ed estro secondo una formula ormai consolidata.

a cura di Francesco Lo Dico

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poesia

Quella modernissima vocazione all’infelicità di Filippo La Porta assare dalla Divina Commedia al Canzoniere, negli anni del liceo, può essere traumatico.Anche l’adolescente che si perde volentieri nelle sublimi rime amorose petrarchesche, di perfetta lucentezza e miracolosa semplicità, non può che avvertire una delusione.Tanto Dante è audace, espressionista, visionario e realista, onnicomprensivo, «poeta», quanto Petrarca (Arezzo, 1304-Arquà, 1374) ci appare monotonale, artefice di una lingua poetica media, chiuso dentro una immaginazione quasi autistica, iperselettivo nei temi, letterato. Non potrò mai dimenticare il trattamento che gli riservava Sapegno nella meravigliosa antologia che avevo al ginnasio (Europa): passando appunto dalla Commedia alle Rime del Petrarca «l’orizzonte dell’interesse umano si restringe e si impoverisce, e la tecnica artistica sembra prendere un rilievo predominante nei confronti del contenuto poetico».

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(…) Da’ be’ rami scendea, (dolce ne la memoria) una pioggia di fior sovra ’l suo grembo; ed ella si sedea umile in tanta gloria, coverta già de l’amoroso nembo; qual fior cadea sul lembo, qual su le treccie bionde, ch’oro forbito e perle eran quel dì a vederle; qual si posava in terra e qual su l’onde, qual con un vago errore girando parea dir: “Qui regna Amore”. Quante volte diss’io allor pien di spavento: “Costei per fermo nacque in paradiso!”. Così carco d’oblio il divin portamento e ’l volto e le parole e ’l dolce riso m’aveano, e sì diviso da l’imagine vera, ch’i’ dicea sospirando: “Qui come venn’io o quando?” credendo esser in ciel, non là dov’era. Da indi in qua mi piace quest’erba sì ch’altrove non ò pace. Se tu avessi ornamenti quant’ai voglia, poresti arditamente uscir del bosco e gir infra la gente Francesco Petrarca Dal sonetto 26 del Canzoniere

Eppure da un altro punto di vista Petrarca lo sentiamo vicino, come noi fragile ed esitante, dilaniato da contraddizioni senza soluzione, incerto sull’esistenza di un mondo davvero condiviso. Con lui la modernità entra in poesia come psicologia, conflitto interiore, autointrospezione (a tratti morbosa), e, su un piano sociologico, con la figura dell’intellettuale «professionista», filologo e cosmopolita (perlopiù «disimpegnato», a parte la parentesi di Cola di Rienzo e le poche canzoni politiche, importanti per Machiavelli), sempre in viaggio per l’Europa. A volte non ne possiamo più di sentirci dire il dissidio tra spiritualità celeste e brama di passioni terrene (Laura e la gloria). Ci sembra perfino ipocrita. Nel suo ricchissimo, variegato epistolario si racchiude poi una cellula del personal essay di Montaigne, mentre nel dialogo del suo Secretum Agostino dirà in conclusione a Francesco, tormentato dalla impotenza della volontà: «Ma così sia, quando non può essere altrimenti!» (si riconosce dunque il diritto a essere contraddittori!). E certo le Confessioni di sant’Agostino, primo esempio in Occidente di autobiografia psicologica, sono state un modello per lui ancor più che per il Dante della Vita nuova. E noto come la maggior parte dell’opera petrarchesca, in versi e in prosa (trattati, ecloghe, poemi), sia scritta in latino e che lui considerasse invece le poesie in volgare delle «nugae», ovvero cose da poco, benché artificiosamente difficili (Marziale). Mentre sono state proprio queste poesie il modello assoluto della lirica in Europa per almeno tre secoli. È vero che provasse una malcelata invidia verso Dante, che aveva l’«ansia dell’imitazione», che innumerevoli sono criptocitazioni e calchi danteschi, anche solo sul piano della «memoria ritmica» nel Canzoniere (come dimostrò perfidamente Contini). Ma è anche vero che l’influenza del Canzoniere in Francia, Inghilterra, Spagna, Germania, etc. è difficilmente minimizzabile. Anche Leopardi si dovette ricordare di lui nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (che ho commentato su queste pagine): «Forse s’avess’io l’ale/ da volar su le nubi,/ e noverar le stelle ad una ad una…». Così Petrarca: «Ad una ad una annoverar le stelle,/ e n’picciol vetreo chiuder tutte l’acque» (Canzone 127). Qui mi si perdoni una digressione molto personale, che riguarda un modo di fare critica cui sono particolarmente legato. Il sottotitolo del mio La nuo-

va narrativa italiana (1995) recitava «stili culturali e travestimenti di fine-secolo». Il concetto di travestimento mi appariva decisivo come chiave di interpretazione della nostra letteratura. Ovviamente l’arte ha a che fare da sempre con maschere e travestimenti ma c’è chi «si traveste» per un intimo impulso creativo e chi lo fa per apparire migliore e, ingannevolmente, più raffinato. Quanti esordienti italiani degli anni Ottanta volevano sembrare tanto mitteleuropei! Bene, il modello che segretamente ispirava quelle pagine era De Sanctis, che a proposito di Petrarca scrive: «In verità Petrarca era tutt’altro che romano o latino, come pur voleva parere: poté latinizzare il suo nome, ma non le sue azioni». Lo scrittore latino è tutto al di fuori, nei fatti e nelle cose, mentre il Nostro era «più inclinato alle fantasie e alle estasi che all’azione», poiché la sua «vera vita fu tutta al di dentro di sé…». La strofa che ho scelto dalla sua più celebre canzone è forse il momento più alto di tutta la lirica petrarchesca. Quella pioggia di fiori mi ricorda la bufera di rose di Gottfried Benn: qui il sentimento malinconico, a tratti luttuoso, dell’esistenza, cede il posto all’estasi amorosa, a una luccicante sinfonia cromatica, alla capricciosa, spossante danza floreale. Il poeta crede di essere in cielo. Eppure quando studente imparai a memoria questa poesia avvertivo in essa come un dolce, sublime inganno. Ero tentato di usare i versi, purissimi endecasillabi e settenari, per esprimere la mia passione amorosa verso una compagna di scuola. Ma sentivo che nella canzone di Petrarca la donna concreta non c’era, si dissolveva nelle immagini e similitudini, si esprimeva come impossibilità e assenza (in parte secondo uno schema stilnovista e provenzale). Non tanto il poeta si scioglieva nel mondo quanto il mondo intero si raccoglieva dentro di lui, dentro la sua immaginazione, ricchissima e dolente.

Per il poeta la solitudine era cercata, voluta, perseguita (vedi il suo ritiro in Valchiusa, Provenza), lontano dalla società e dalle «genti». Eppure anche su questo era contraddittorio. Prima scrive: «Solo e pensoso i più deserti campi/ vo misurando a passi tardi e lenti» (sonetto 135). Poi in un altro sonetto: «O cameretta che più fosti un porto/ a le gravi tempeste mie diurne,/ fonte se’or di lagrime notturne/ che ‘l dì celate per vergogna porto» (sonetto 234), dove il «vulgo», benché «nemico e odioso» gli apparirà come rifugio, tale è la paura di restar da solo. Il paradigma insomma sembra essere quello del dubbio, del continuo ripensamento, in una modernissima e fatale vocazione all’infelicità. Borges nelle sue Conversazioni dice che in Europa il primo e più grande scrittore delle tradizioni nazionali non ha veramente niente a che fare con il carattere del suo popolo. Shakespeare e gli inglesi, Cervantes e gli spagnoli, e appunto Dante e gli italiani. Non so per gli altri paesi, ma a ben vedere per noi le cose stanno così. Dante, con la sua severa moralità e ferma intransigenza e mancanza di maniere ci sembra poco italiano. Mentre Petrarca, poeta della mediazione, cultore della forma e del lessico, antiestremistico, tendenzialmente metastorico, sognatore e un po’ freddo, di eleganza insieme squisita e sobria, perennemente incline al dubbio, è proprio italianissimo.


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il club di calliope Ma io non sapevo, non potevo sapere, che il tempo avrebbe come ha fatto, la differenza. Quando mio padre s’affannava al superotto, io non capivo e a volte distratto non credevo, che il tempo avrebbe slavato i colori, i rumori. Guarda, guarda bene, c’erano tutti o quasi. Il cielo d’alluminio e un suono dal mare, come d’azzurro. Queste ed altre cose io non vedevo, andando via di schiena, o forse immaginavo, con la coda dell’occhio. Nicola Bultrini

UN POPOLO DI POETI Gli angoli senza albe nella luce che scende dalle spalle deboli, la voce che avvolge le notti è il nero strato di città che mi giunge e mi dispera non c’è sonno solo un debole ricordo lontano, dolce amica la fiaccola leggera del tempo mi stringe con la sua certezza.

LA POETICA SENZA CONFINI DI PAUL MULDOON in libreria

Matteo Ciani

di Giovanni Piccioni sce presso Guanda Sabbia di Paul Muldoon, con il testo originale a fronte, traduzione e prefazione di Giovanni Pillonca e risvolto di copertina di Valerio Magrelli. Il titolo originale della raccolta uscita nel 2002, premio Pulitzer nel 2003, è Moy Sand and Gravel (Sabbia e ghiaia di Moy) e designa la cava presso cui, a Moy, si estraevano appunto sabbia e ghiaia. The Moy è un villaggio sulle rive del fiume Blackwater, nell’Irlanda del Nord. Lì il poeta trascorse l’infanzia: il luogo diviene spazio mitico di relazioni storiche e permanenti. Paul Muldoon nasce nel 1951 a Portadown, nella contea di Armagh (The Orchard County, «la Contea frutteto») in Nord Irlanda. Frequenta la Queen’s University di Belfast, dove per un certo perio-

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soprattutto all’uso virtuosistico della rima e delle assonanze. In Sabbia risaltano temi, immagini e ossessioni situati in un territorio spaziale e temporale del tutto originale: da un lato fantastico e privo di confini reali, dall’altro assolutamente riconoscibile e personale, identificabile con i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, là dove la presenza ostile delle truppe d’occupazione inglesi contrasta con l’armonia inconfondibile del paesaggio. Fra i non pochi precursori riconosciuti ci sono John Donne e Louis MacNeice. Dal primo e dai Metafisici riprende la capacità di controllo di immagini disparate e inconsuete e la concezione dell’evento poetico come microcosmo autonomo e compiuto. Dal secondo la logica onirica e

Il campanile della chiesa di montagna rimbomba la sua ora, chiede l’ascolto ferito della piana, chi vuole sentire ha la primavera che torna, ma tutto si incrina si inganna, ci si interroga senza pause.

Nicoletta Fascioni

In “Sabbie”, il paesaggio irlandese, i miti celtici, le tragedie della storia, i traumi infantili, gli scontri politici espressi con una libertà linguistica e tematica senza limiti do ha come tutor Seamus Heany, poeta con cui intratterrà sempre una conversazione a distanza e con il quale condivide l’appartenenza alla minoranza cattolica. Dopo aver lavorato per la Bbc a Belfast, si trasferisce negli Stati Uniti dove insegna all’Università di Princeton. Sabbia è la penultima delle dodici raccolte poetiche scritte da Muldoon, autore anche di opere teatrali, di significativi contributi critici e di traduzioni dal gaelico. «Non curandosi affatto… di alcun confine»: così recita l’ultimo verso di Percorso a rischio II, una delle prime poesie di Sabbia, e rappresenta una dichiarazione di poetica che propone il senso di una libertà linguistica e tematica quasi senza limiti. Il paesaggio irlandese delle origini, la natura dolce e accogliente, i miti celtici, i personaggi e le tragedie della storia, la guerra civile, i traumi infantili, gli scontri politici sono pronunciati da un discorso poetico ricco di soluzioni sorprendenti, a volte ironico, affidato al fluire quasi inesauribile della parola e capace di una rara sapienza formale, nel ricorso a forme tradizionali quali la sestina, al plurilinguismo e

l’interazione della bruciante materia contemporanea con la lezione della tradizione poetica antica e recente. In Sabbia è presente un accento elegiaco, legato alla biografia del poeta. Si veda Nostalgia, poesia in cui l’asprezza dell’infanzia viene riscattata dalla citazione di nomi di luoghi noti, accompagnati da un lamento funebre per il tempo e il luogo perduti, recuperati dal dettato. All’insegna del Cavallo Nero, settembre 1999 costituisce la lunga chiusa della raccolta. Sul modello di una poesia di W.B.Yeates, ancora in tono elegiaco, Muldoon passa dalle parole dettate dalla sofferenza per un figlio scomparso prima di nascere alla riflessione sul figlio Asher di madre ebrea (la poetessa americana Jean Hanff Korelitz) e alla persecuzione antisemitica. La poesia diventa un bilancio della storia tragica del Ventesimo secolo, in cui trovano cittadinanza anche le migliaia di sterratori irlandesi morti scavando il Raritan Canal nel New Jersey fra il 1830 e il 1842. Il poeta esprime così un’esigenza di riparazione e un senso alto di solidarietà nella storia.

La mia paura è carne È volto del dubbio Nasconde la mia storia Il corso interrotto degli anni Chissà se avrò speranze Guardando il sole, la luna, Il mare. Chissà se Viene la notte felice E il giorno pieno di altalene Di bambini che urlano Di gioia. Chissà.

Maria Teresa Fini

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

i rendo conto che è la terza volta, nel giro di due stagioni espositive, che m’occupo d’una mostra, allestita in una galleria decentrata e coraggiosa come quella Repetto di Acqui Terme, dopo Jiri Kolar e Sam Francis (il che già dimostra gl’interessi non proprio convenzionali e prevedibili di questa valente sede espositiva. E già dobbiamo prepararci, a settembre, a visitare una promettente mostra internazionale sulle redici storiche della Land Art: Long, Smithson, De Maria, non certo il trans-nostro, dio ce ne scampi e liberi, ma quello vero). Non è una scelta snobistica o «esotica», ma in tante delle nostre più titolate città e gallerie sussiegose non ci par di vedere altrettanto, ed è sorprendente in una cittadina, se vogliamo con una certa tradizione più che dignitosa di mostre e di occasioni culturali estive, ma comunque così defilata e isolata come Acqui, trovare una galleria d’una statura e d’un livello espositivo tanto elevata (si capisce adesso il nomignolo che s’è guadagnata, di «Galerie Beyeler dell’Alta Italia»). E degna davvero d’una sede museale è del resto quest’altissima antologia, mirata, di fogli biffati e gentilmente oltraggiati di Arnulf Rainer, che ha il titolo lirico e rilkiano di L’angelo della sofferenza (davvero la bellezza fa così, dostoievskianamente, soffrire?). È noto quanto Rainer sia collezionista raffinato ed elitario, di grafica manierista e alto-tedesca (magnifica la mostra sulla sua collezione, vista qualche anno fa al Gabinetto delle Stampe del Museo di Ginevra), il che non gl’impedisce però d’intervenire violentemente e sadicamente su alcuni preziosi fogli, originali, di maestri (un poco lo stesso di quello che han fatto, non originalmente ma suggestivamente, i fratelli Chapmann con i Capricci di

M

arti

Gli amori estremi di

Arnulf Rainer di Marco Vallora

Goya, in mostra ora a Palazzo Grassi) importando, Rainer, dentro l’arte dei suoi prediletti, il suo segno alluvionale di carbon liquido, accerchiante e torturatore. Come Baselisz rovescia le figure, Rainer le trafigge e le biffa, quasi un vecchio litografo, che spenga per sempre la lunga vita d’una lastra: ma il suo coprire e avvolgere e volteggiare di nere spire di biacca e carboncino i suoi oggetti del desiderio, è un atto d’amore estremo, cieco e tattile, che non trattiene nulla dell’oltraggio avanguardistico (stile Duchamp-Man Ray) o del brutalismo annullante dei Cobra, è quanto mai amoroso e iper-raffinato: il nero come inatteso belletto. In questo caso, soprattutto (e son fogli superbi, da maestro, nobili risultati con minimo dispendio di forze) privilegiando in gran parte Canova, «l’idolo della mia giovinezza», e il gelido biancore delle loro carni di marmo, ribattute con la tecnica calda del laser-print. «Le sue donne mi facevano dei cenni, mi ammiccavano con gli occhi, mi parlavano e mi mostravano gioiose il loro corpo perfetto. Conoscevano la mia opera, soprattutto i sovradisegni sui dipinti di Friedrich. Entrammo sempre più in confidenza, mi sussurravano di voler essere avvolte, velate al modo dei paesaggi di Friedrich, che avevo soffuso dei miei obnubilamenti. Dicevano di morire di freddo e di essere eccessivamente esposte agli sguardi. A tutto questo accennavano con grazia», la ben conosciuta grazia canoviana, «apparendomi di quando in quando in nuvole di colore». Oppure Piranesi, sovrapponendo una vanitas di teschio, molto nordica, a rannuvolare la sofisticata tavola di presentazione d’un candelabro, che ha l’ambiziosa prosopopea (umiliata) d’essere un obelisco classico. E non meno affascinante è la maschera mortuaria del pittore Menzel, attraversata dalla circolazione sanguigna e funerea della puntuale «cancellazione» di Rainer.

La sofferenza dell’angelo, Acqui Terme, Galleria Repetto, fino al 30 giugno

autostorie

Yaris, così nasce un “piccolo genio” di Paolo Malagodi ochi modelli di automobile sono stati accompagnati, nella loro affermazione commerciale, da una strategia pubblicitaria di tale successo da essere identificati, più che con il loro nome, con lo slogan inventato per la presentazione della nuova auto. Come è avvenuto nella vicenda italiana di una piccola vettura giapponese, debuttante sul nostro mercato nel 1999 in un segmento particolarmente competitivo, del quale è oltretutto indiscusso leader il costruttore nazionale, con modelli del calibro di Punto e Panda. In una graduatoria di preferenze che vede schierate anche Ford Fiesta, Opel Corsa, Renault Clio e Volkswagen Polo, insieme a Peugeot e Citroën in aggiunta a svariati altri produttori. Un composito insieme nel qua-

P

le Toyota ha scelto di entrare con Yaris, mutando i caratteri di una presenza sino ad allora affidata prevalentemente a veicoli fuoristrada e nel dichiarato intento di amplificare le vendite, da posizioni di nicchia a grandi volumi di consegne. Obiettivo al quale stava per accingersi Yaris, arrivata sul mercato con gli elementi giusti per competere su vari fronti, essendo non solo nuova come linea ma incorporando caratteristiche innovative per tutti gli aspetti principali della sua realizzazione. Con un’eccellente abitabilità in rapporto alle dimensioni esterne, la vettura era stata pensata per spazi cittadini, da seconda auto e destinata a clientela femminile o giovanile, ma adatta anche a usi di famiglia e per lunghi percorsi, con motori dalla raffinata tecnologia e dai ridotti consumi. Tanto da orientare le scelte di marketing nella

direzione di comunicare che, con Yaris, era iniziata una nuova era nel segmento delle auto compatte. Anche se, per attestare il concetto, era necessario arrivare a stampare indelebilmente nella mente del pubblico l’esistenza di simili qualità, o quanto meno generare un interesse tale da far partire un meccanismo di passaparola e di generale curiosità intorno all’auto. Il 1998 è l’anno in cui vengono messe le basi per il lancio vero e proprio, in un countdown «Siamo pronti per Yaris» che diventa l’orologio sul quale vengono scandite le varie fasi. Così, nel dicembre di quell’anno, tre prototipi di Yaris vengono esposti al Motorshow di Bologna; non un tradizionale salone dell’auto ma una manifestazione in grado di attrarre soprattutto i giovani, al cui giudizio la nuova Toyota viene sottoposta come «oggetto non

meglio identificato». Mentre si sviluppa, via internet, l’attività di uno Yaris Club che fornisce alle persone interessate le informazioni sul prodotto, insieme alla possibilità di aderire a vantaggiose proposte commerciali. Per arrivare, l’11 aprile del 1999, al lancio pianificato con 37 uscite su quotidiani nazionali, 311 passaggi televisivi, 600 spot radiofonici e 4.300 affissioni di grande formato, oltre a banner su siti web. In un pirotecnico battage condotto sotto l’egida dell’azzeccato slogan «piccolo genio», che - come racconta il giornalista economico Antonio Dini (Yaris, il piccolo genio, edizioni Il Sole-24 Ore, 120 pagine, 16,00 euro) ha contribuito non poco al successo di una vettura arrivata a fare dell’Italia il mercato, solo dopo quello giapponese, in cui Yaris ha incontrato il massimo favore al mondo.


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13 giugno 2009 • pagina 15

moda

C’è una nuova arma di seduzione di massa: il trikini di Roselina Salemi ra da tanto (dagli anni Settanta) che gli stilisti provavano a trovare consensi per la Terza Via, tra il bikini e il costume intero, ma le donne hanno sempre amato il bipolarismo, almeno sulla spiaggia. La praticità scoraggia gli ibridi. Qualcosa, nel frattempo, deve essere cambiata. Indecisione? Fusion estrema? O soltanto bisogno di novità? Tra i due schieramenti, compatti, e ognuno con la sua storia, la trasgressione «atomica» e l’eleganza che mimetizza i cuscinetti, dopo la breve stagione del tanga (archiviato), si è fatto spazio il trikini, must dell’estate 2009. È un costume intero alleggerito da oblò, stringhe, laccetti, è un bikini con parecchie aggiunte e ritocchi. Strisce di stoffa, disegnate strategicamente, collegano il pezzo sopra a quello sotto, tagli asimme-

E

trici anche molto sexy (Hervé Léger ne ha mandati in passerella neri e rosso fuoco, quasi fetish) e declinati in tutte le varianti possibili lo rendono divertente, o almeno, non banale: schiena nuda, maxiscollature, fasce. Ci sono trikini di Emporio Armani e Frankie Morello, di Benetton e di La Perla. Ci sono con le frange (visto su Linday Lohan) con gli strass, di Dsquared2, con cinturine di metallo e di cuoio (indimenticabili su Gisele Bundchen), anelli e fibbie. Ora, a essere sinceri, il trikini, molto chic e di notevole effetto, è scomodissimo per prendere il sole, a meno che non ci si voglia ritrovare zebrate effetto tatuaggio, perciò il duello tra i costumi da bagno è, in realtà inesistente. Bisogna avere un bikini per l’abbronzatura uniforme, un costume intero per nascondere i cuscinetti e un triki-

Il trikini visto da Armani (a sinistra), Benetton (al centro), Fisico (a destra)

architettura

ni, perché ce l’hanno tutte, da mettere all’ombra o nel tardo pomeriggio. Abbinato a un pareo, fa quasi abito da sera. Certo, non si possono avere cinque chili in più per poterselo permettere e, anche se per le donne la prova-costume è sempre stata uno psicodramma, il trikini esige un corpo preparato da mesi all’esibizione: è fatto per sottolineare, catturare lo sguardo, mandare un messaggio. Molto prima che qualcuno inventasse questa nuova arma di seduzione di massa, il filosofo Jean Baudrillard, nel saggio Lo scambio simbolico e la morte, aveva spiegato la funzione delle cinture, dei lacci, dei nodi: un richiamo all’eros, un modo per esorcizzare la paura dell’annientamento, un frutto del cattivo umore, piuttosto che della gioia di vivere. Certo, sono frivolezze. Vedremo le ragazze in trikini leopardato e borchiato, contentissime e ignare di Baudrillard.Vedremo collari alla Histoire d’O e citazioni vintage dei costumi-gonnellino anni Cinquanta, vedremo pizzi, rete e applicazioni all’uncinetto, alla ricerca di quel tocco retrò che sta tanto bene alle giovanissime (e magrissime). E ci rassegneremo all’idea di una perenne liquidità stagionale, tra giornate caldissime alternate a piogge autunnali e tempeste di nuvole, tra timori per il futuro e un presente, tutto sommato, ancora accettabile. Siamo entrati nell’Età dell’Incertezza e il trikini ne è il simbolo rivelatore. Abbiamo trovato la Terza Via, almeno al mare, nell’estate del nostro scontento.

Ritorno alle origini per Palazzo Corsini di Marzia Marandola

ell’eccezionale patrimonio di quadrerie, gallerie e musei che arricchisce Roma, la Galleria Corsini alla Lungara occupa un posto singolare: per la sua collocazione, all’interno di uno dei più fastosi palazzi settecenteschi, e per il sito che, ritagliato tra via della Lungara e il Gianicolo, è avvolto da un’aura campestre e sospesa accarezzata dalla storia. Palazzo Corsini, ampliato dal 1738 da Ferdinando Fuga per i cardinali Neri e Bartolomeo Corsini, nipoti di Clemente XII, ingloba la cinquecentesca villa Riario, che dal 1659 al 1689 fu la residenza di Cristina di Svezia, della quale rimane l’alcova con affreschi cinquecenteschi riferiti a Vitruvio Alberti. Il suo giardino, che giungeva sul Gianicolo, coincide con l’Orto Botanico, dopo che nel 1883 la proprietà passò allo Stato. L’imponente palazzo, traforato da un solenne atrio da cui una spettacolare scala doppia conduce al piano nobile, è suddiviso tra la Biblioteca Corsiniana; l’Accademia dei Lincei e la Galleria Corsini, che occupa nove sale nell’ala meridionale del piano nobile. Essa si è formata su un nucleo di opere raccolte dal cardinale Neri e ordinate con il consiglio di Giovan Gaetano Bottari, bibliotecario di famiglia. Quadri come la magnifica Salomè di Guido Reni, il

N

Trionfo di Ovidio di Poussin, l’Incontro di Rebecca e Eliazar di Maratta o l’Erodiade di Vouet, testimoniano il gusto classicista che orienta sia il cardinal Neri che il suo colto bibliotecario. Tuttavia non mancano nella raccolta opere di altro orientamento: valgano per tutti lo splendente trittico di Beato Angelico, attualmente esposto alla mostra sul pittore ai Musei Capitolini e il drammatico San Giovannino Battista di Caravaggio. Nella Galleria sono testimoniate anche correnti di gusto che hanno contrassegnato la pittura romana tra Sei e Settecento: il paesaggismo, rappresentato da opere di Lorrain e Dughet; la natu-

ra morta, attestata dagli strabilianti virtuosismi di Berentz e dalle composizioni «magnative» di De Caro.Tuttavia, nonostante la qualità delle opere e la loro collocazione prestigiosa, la Corsini è scarsamente conosciuta e visitata. Per rilanciare questa preziosa raccolta e dispiegarne le potenzialità artistiche e ambientali, è stato messo a punto un progetto integrato che, accanto a iniziative di carattere didattico, teatrale e culturale, prevede la riconfigurazione della quadreria secondo l’allestimento originario settecentesco realizzato dal cardinale Neri Corsini con la collaborazione di Bottari, testimoniato da schizzi d’epoca. L’ambizioso piano, che aspira a restituire al pubblico godimento un segmento straordinario del collezionismo italiano, è illustrato nel volume: Galleria Corsini. Il Palazzo delle Scienze e delle Arti che, curato dalla direttrice del museo Paola Mangia, si attesta come primo atto di una strategia che mira alla valorizzazione come colta condivisione del patrimonio artistico nazionale. Paola Mangia, Galleria Corsini. Il Palazzo delle Scienze e delle Arti. Un modello di museo storico nella Roma di Trastevere, Ministero per i beni e le attività culturali, Polo Museale della città di Roma


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fantascienza

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ai confini della realtà

ono già trascorsi cinquant’anni da uno dei momenti più significativi della fantascienza in Italia (non «italiana», e si dirà perché): nel 1959 Einaudi, una delle case editrici più prestigiose, impegnate e sofisticate del nostro paese, pubblicò un’antologia di racconti di fantascienza: Le meraviglie del possibile, curata da Carlo Fruttero e Sergio Solmi. Una pietra miliare perché per la prima volta una narrativa che oggi chiamiamo «di genere» e allora era semplicemente una narrativa «popolare», «di massa», «di intrattenimento» e quindi di «serie B», veniva presentata con tutti i crismi esteriori e contenutistici a un pubblico adulto, «colto» e un po’ con la puzza sotto il naso nei confronti di queste cose. La fantascienza era nota già da sette anni: usciva regolarmente nelle edicole con Urania, mentre da un paio d’anni esisteva anche nella sua versione italiana con il quindicinale Oltre il Cielo e sempre nel 1957 era apparsa una precedente antologia di ottimo livello, ma esplicitamente indirizzata a un pubblico giovanile: Destinazione Universo, a cura di Piero Pieroni (Vallecchi). In quell’anno, come ben si sa, erano stati lanciati i primi satelliti artificiali sovietici, ed era nata la cosiddetta Era Soaziale.

S

Il merito di Fruttero e Solmi fu quello di presentare una science fiction «adulta» per lettori «adulti», rivolgendosi non solo al pubblico delle librerie e non delle edicole, ma anche alla intellighenzia nostrana, sempre un po’ snob. Per la prima volta venivano fatti conoscere i fulminanti racconti di Fredric Brown, la satira grottesca di Robert Sheckley, le inquietantri prospettive di Philip Dick e Margaret St. Clair, i dilemmi religiosi di Arthur Clarke e così via. Insomma, Le meraviglie del possibile resero accessibile una narrativa che non era semplicemente la space opera che in genere pubblicava Urania, qualcosa di letterariamente più maturo e con argomenti meno ovvi e scontati (almeno per allora). Merito di questo andava anche all’introduzione di Sergio Solmi, poeta, saggista, traduttore, che in seguito fu anche uno dei fondatori della Adelphi, il quale si era già interessato di fantascienza in un ampio saggio del 1953 apparso, se non vado errato, su Nuovi Argomenti. La sua introduzione era ed è ancora importante perché indicò una strada che purtroppo non venne presa in considerazione dai critici che dopo di lui si occuparano di questa narrativa, in primis proprio da Carlo Futtero e dal suo amico e coautore Franco Lucentini. E cioé - questa la tesi di Solmi - una science fiction se «bene intesa» poteva assolvere sul piano letterario alla funzione di «reintegrare mito e favola al corpo della poesia e condurci, al di sopra dei ponti, dei corridoi e delle sentine, che vanno facendosi sempre più afosi e chiusi, degli inferni realistici contemporanei, “a riveder le stelle”». Parole veramente anticipatrici anche delle tesi dello stesso Mircea Eliade, per quel loro collegamento tra mito, favola e narrativa dell’Immaginario, il cui scopo è quello di superare gli «inferni realistici contemporanei» e raggiungere così un piano superiore in fatto di contenuti e valori (il «riveder le

Fuori dal ghetto di Gianfranco de Turris stelle» dantesco questo vuol dire). Se si pensa che tesi del genere sono di cinquantasei e cinquant’anni fa, ci si deve stupire del fatto che ben pochi hanno considerato Sergio Solmi un precursore del retto modo di intendere dei generi letterari reputati «minori». Dunque Le meraviglie del possibile dimostrarono concretamente il valore della migliore fantascienza di quell’epoca, la svincolarono dall’essere ritenuta cosa per ragazzini un po’ fuori di testa, la resero appetibile anche alla nostra cultura innalzandola a dignità

sa di quest’ultimo, e un indecente Il quarto libro della fantascienza (Einaudi, 1991) in cui Fruttero & Lucentini raggiunsero un non superabile vertice di inutilità, confusione, riciclaggio, superficialità e sciatteria, che va a loro totale disdoro.

I primi due volumi einaudiani, però, hanno una loro importanza perché accreditarono Fruttero e poi anche Lucentini come i due massimi esperti di fantascienza provenienti dal milieu culturale «ufficiale», quelli che

Cinquant’anni fa “Le meraviglie del possibile”, raccolta curata da Sergio Solmi e Carlo Fruttero e pubblicata da Einaudi, sdoganò la science fiction, presentandola come un genere letterario “adulto”. Merito soprattutto di Solmi che indicò una strada poi purtroppo disattesa da altri critici... letteraria. Fu anche un successo editoriale che venne bissato tre anni dopo con Il secondo libro della fantascienza (Einaudi, 1961) che questa volta Fruttero curò insieme a Lucentini, ancora una volta di buon livello, a parte una mediocre sceneggiatura di Nigel Kneale della serie del professor Quatermass. Fecero seguito un non eccelso Il giardino del tempo (Einaudi, 1983), cioè l’antologia messa su da Fruttero di nuovo con Solmi prima della scompar-

riuscivano a conciliare qualità e aspetto «popolare» delle loro scelte: sicché vennero chiamati dalla Mondadori a curare Urania rispettivamente il primo dal maggio 1962 e il secondo dal giugno 1984. Nel frattempo avevano curato un’altra importante antologia, ma anche in senso negativo: Universo a sette incognite (Mondadori, 1963), in cui affiancavano fantascienza, fantastico e orrore con opere in alcuni casi brutal-

mente amputate. Purtroppo, come si è detto, F&L non seguirono le preziose indicazioni di Solmi e non considerarono la fantascienza «bene intesa» come un contenitore di significati e simboli superiori a quelli trasmessi dalle opere realistiche. Nelle antologie e nel lavoro che fecero in e con Urania per quasi venticinque anni, sino al novembre del 1985, si attennero più a meno a questi criteri: 1) la fantascienza deve essere solo «leggibile» e non trasmette alcun «messaggio»; 2) inutile quindi approfondirla criticamente, importante è quel che racconta e come; 3) non ha precisi confini e nella fantascienza può essere compreso anche il gotico o il fantastico; 4) per questo motivo si può intervenire sui testi tagliandoli, sunteggiandoli, anche modificandoli per raggiungere un miglior risultato di «leggibilità»; 5) gli italiani sono di per se stessi incapaci di scrivere fntascienza (ed ecco perché all’inizio si diceva che Le meraviglie del possibile sono state una pietra miliare della fantascienza in Italia e non «italiana»). Come si vede l’esatto opposto di quel che pensava e scriveva Sergio Solmi. Un vero peccato perché se si fossero seguite le linee-guida critiche di Solmi probabilmente la storia (e l’interpretazione) della fantascienza italiana avrebbero seguito una diversa evoluzione in questi cinquant’anni trascorsi troppo in fretta.


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