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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Letture incrociate sul teatro

ESSERE O FARE QUESTO È IL PROBLEMA di Nicola Fano è una foto dell’inizio degli anni Ottanta in cui si vede Samuel Beckett lo più allestendo testi beckettiani. Beckett e Cluchey divennero amici e lo scrittodi spalle: la sua sagoma è perfetta, inconfondibile, con i capelli a re accettò di firmare la regia dei suoi testi per una nuova serie di allestimenBeckett, spazzola che tolgono ogni dubbio di identificazione.Tiene in ti della compagnia. La foto di cui parlo si riferisce a quel periodo e con di spalle, mano una penna con le sue dita lunghe e spigolose. Di ogni evidenza immortala Beckett, il silenzioso Beckett, mentre dà dà consigli al suo attore fronte a lui e all’obiettivo c’è Rick Cluchey, attore celebrato, consigli a Cluchey. Che cosa mai potrà aver detto, un autore tanto ritroso e avaro di parole, con quel fare un po’paterex ergastolano di San Quintin recuperato alla civiltà prediletto, l’ex ergastolano no, al suo attore prediletto? Quando mi capitò di coproprio da Beckett (nel senso di persona e di reperRick Cluchey. Una foto che suggerisce noscere Cluchey nel 1984 fu la prima cosa che torio): nel 1961 Cluchey mise in scena Beckett slittamenti di significato, come il saggio gli chiesi: «Sam - lo chiamava così - mi diceva in carcere con i suoi compagni i quali furono tancose semplici, di quelle che aiutano gli attori. Aspetto folgorati dall’esperienza da volersi trasformare lendi Massimo Cacciari dedicato all’autore tamente in attori teatrali professionisti. Fu una storia che tando Godot? Facile: Vladimiro è un punto esclamativo, di “Aspettando Godot”, commosse la comunità culturale internazionale negli anni SetEstragone un punto interrogativo. Mi disse una cosa così». Soad Amleto e tanta, perché a forza di petizioni (tutti gli attori-carcerati erano ergano andato a controllare: è vero. stolani) quei singolari personaggi furono liberati e la loro compagnia San a Josef K. continua a pagina 2 Quintin Drama Workshop poté cominciare a girare liberamente il mondo. Per

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Mare di Sergio Valzania Melody Gardot una voce da brividi di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

La poetica di Bodini ancora da svelare di Francesco Napoli

Thayaht, l’uomo che inventò la tuta di Mario Bernardi Guardi Isabelle nel gorgo del senso di colpa di Anselma Dell’Olio

Le vedute meticolose di von Rohden di Marco Vallora


essere o fare, questo è il

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segue dalla prima Ho ripensato a quella foto e a quell’episodio leggendo le speculazioni filosofiche sul teatro contenute nel nuovo libro di Massimo Cacciari, Hamletica (Adelphi, 133 pagine, 18,00 euro). Perché la semplicità geniale dell’indicazione di Beckett contrasta - formalmente - con la complessità dell’analisi di Cacciari. Il suo libro, infatti, si compone di tre saggi: uno su Amleto, uno su Josef K. di Kafka e uno sull’opera complessiva di Beckett, appunto.Tre tappe di un discorso che ha una sua evidente unicità, comunque. Cacciari parte da uno slittamento: il celeberrimo to be or not to be shakespeariano diventa to do or not to do. Nel senso che il cuore della sua analisi è il fare, non l’essere, dal momento che egli considera l’essere sostanziato dal fare. Amleto, dunque, è un uomo che vorrebbe fare ma non ci riesce perché ancora troppo invischiato nel suo passato (è la prima volta, per esempio, che mi capita di leggere un saggio su questo testo che tenga conto della sinistra omonimia tra Amleto padre e Amleto figlio: elemento di straordinaria importanza, anche oltre le considerazioni di Cacciari). Josef K. fa ciò che la società gli impone, come se altri gestisse il suo arbitrio. I personaggi beckettiani (Cacciari si sofferma quasi esclusivamente su quelli teatrali piuttosto che non su quelli narrativi) faranno per l’eternità, come se il loro fosse un ripetere perenne gli stessi gesti, le stesse parole, tutto ormai privo di significato proprio perché replicato all’infinito.

È una bella intuizione, questa su Beckett, perché rovescia le prospettive consuete sul proverbiale «immobilismo» dei suoi

tazione. Questa suprema finzione coincide ora col vivere». Chissà se Cacciari ha mai letto L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares. In quel breve romanzo, lo scrittore argentino immagina che il Morel del titolo abbia inventato un proiettore in grado di replicare all’infinito un frammento apparentemente reale di vita.

Così, su un isola

personaggi (si pensi a Watt o a Winnie in Giorni felici o all’ultimo spaventoso Uomo in Catastrofe). Dice Cacciari: «La recita del “suicidio” da parte di Amleto si compie nella pantomima finale di Aspettando Godot».

E poi spiega con maggior precisione il concetto: «Nessuna “evidenza” poteva “convincere” l’agire del principe di Danimarca. Eppure agisce, con spietatezza ma riesce solo a uccidere, non a decidere. E se qualcuno è destinato a ereditare l’infelice regno, è quel Fortebraccio che sembrava costituirne la più terribile minaccia: una promessa di guerra continua, non di ordine e pace. Amleto è l’agire divenuto straniero a se stesso: altro è il suo passato, altro il suo destino. Il fare non è che alienarsi - senza dialettica che lo riconcili a sé, senza “balsamo della conciliazione”. La stessa situazione assume in Beckett il timbro irrevocabile di un cristallo che abbia consumato tutta la sua luce: l’Altro, se è, non può rispondere, esattamente come se non è; se potesse rispondere, il suo messaggio non arriverebbe; se arrivasse, non ci sarebbe a riceverlo nessuno. Ma questo Nessuno è pure “qualcosa”, e precisamente quel “qualcosa” che finge di esistere anche dopo l’ultimo giorno, in cui to do è mero to act, ricerca, domanda, attesa trasformata in immobile reci-

magnifica e altrimenti disabitata, alcuni amici fissati in eterno dall’invenzione di Morel ripetono in continuazione le stesse parole, gli stessi gesti, lo stesso inutile fare che non consente loro di essere realmente vivi. Dice Cacciari a proposito di Amleto: «Il passato comanda; ma perché ascoltarlo se non ne conosciamo il nome? Come sapere che esso destina veramente le nostre azioni, il nostro vivere-agire, se il suo nome ci rimane oscuro?». Beckett risponde che no, non c’è ragione di porsi questa domanda poiché non è il passato a comandarci ma un nulla che si è fatto cosa e in quanto tale è diventato la nostra quotidianità. Continua Cacciari: «L’unica ‘obbedienza’ possibile alla sua [del passato] voce diviene quella di continuare a interrogarlo. Questione interminabile. Azione che in ogni momento misura la distanza tra sé e il proprio possibile fondamento, e dunque tra la forma dell’indugio e del rimando che la caratterizza e quella dell’autentica decisione». Altri più semplicemente l’hanno chiamato dubbio amletico. È per tale slittamento che m’è tornata in mente la foto di Beckett e Cluchey, leggendo questo sapiente libro. Perché consente di misurare la distanza fra la semplicità del teatro e la complessità della sua esegesi. Su YouTube c’è un filmatino di pochi secondi nei quali appare Beckett in carne e ossa, sia pure bloccato nella vanità di una ripresa video ri-

problema

producibile all’infinito, proprio come fosse il frutto spurio dell’Invenzione di Morel. Con una voce un po’ squillante dal tono troppo alto, Beckett dà un’indicazione succinta a un interlocutore. Forse parla di Non io, forse no: non sono stato in grado di capirlo. Di sicuro, Beckett ha una voce incredibile che non somiglia affatto a quella nasale che gli avevo sempre attribuito (senza conoscerla, naturalmente). E altrettanto sicuramente dice cose quasi banali che però, come la storia diVladimiro-esclamativo e Estragone-interrogativo, hanno un risvolto geniale. La distanza fra questo pericolo di banalità e l’interessante pensosità del saggio di Massimo Cacciari è il teatro. Un oggetto così diretto da poter sembrare semplice. Anzi, da poter essere semplice. Esserlo davvero. Perché - per esempio Amleto smuove anche un piacere di superficie: è il gusto della storia, della trama complessa e avvincente dove nulla è inutile e dove i colpi di scena si susseguono (basti pensare alla genialità spettacolare dell’uccisione di Polonio: a chi sarebbe potuta venire in mente una morte tanto stupida e tanto spettacolare al tempo stesso?). Ossia: uno spettatore privo degli strumenti offerti da Cacciari non si perderebbe nulla del proprio piacere di veder rappresentato Amleto.

E che dire di Beckett? Proprio nella scorsa stagione s’è vista anche in Italia una versione di Atto senza parole II di Beckett

In copertina Samuel Beckett, di spalle, dà consigli al suo attore prediletto, l’ex ergastolano Rick Cluchey. In alto un’altra immagine di Beckett e, a destra, Massimo Cacciari, autore del saggio “Hamletica”. Accanto a sinistra, Laurence Olivier in “Amleto”, a destra Franz Kafka

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via di Santa Cornelia, 9 • 00060 Formello (Roma) Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938

diretta con straordinaria nitidezza da Peter Brook. Il pubblico rideva a crepapelle (e non solo nel corso della replica alla quale ho assistito, a quanto ne so), evidentemente cogliendo senza ulteriori preoccupazioni il primo livello della pantomima beckettiana. Ma naturalmente c’erano anche spettatori che afferravano (o cercavano) segnali meno concilianti e meno esclusivamente comici.

Proprio il comico è uno dei temi con i quali Cacciari si misura ma è il terreno nel quale la sua speculazione si allontana di più dall’essenza del teatro che è fatta dal gioco a due fra attore e spettatore e dove nessuno dei due può abdicare alle proprie funzioni e alle proprie voglie in rapporto a quelle dell’altro. Ma d’altra parte, dire che questo di Cacciari non è un libro sul teatro è addirittura sciocco, per quanto è palese fin dai presupposti. Semmai è un omaggio estremo al teatro, seppure non per le ragioni che Cacciari immagina, forse. Nel senso che gli affanni di Vladimiro e Estragone o la morte di Polonio fin dalla loro meraviglia di superficie sono molto più godibili tanto del saggio di Cacciari quanto (nel suo piccolissimo e fatte le debite proporzioni) di questo articolo che lo riguarda. Esclamativo e interrogativo, mi spiegò Rick Cluchey e alla mia sorpresa («tutto qui?» dovevano esprimere, muti, i miei occhi) aggiunse: le emozioni più profonde hanno bisogno di poco. Qualche anno fa ho saputo che aveva avuto nuovi problemi con la giustizia, ma poi li ha risolti: se volete vederlo in scena, a luglio Rick Cluchey, il grande Cluchey, recita al festival di Volterra L’ultimo nastro di Krapp che gli cucì addosso Samuel Beckett nel 1984. Anche Cacciari potrebbe andarlo a vedere.

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MobyDICK

parola chiave

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MARE pì oinopa ponton, sul mare colore del vino, recita misteriosamente il verso 183 del primo libro dell’Odissea. Omero coglie così uno degli aspetti più evidenti, e insieme nascosti, dell’elemento che copre la maggior parte della superficie del globo sul quale viviamo e che fa della Terra il Pianeta Azzurro. Il mare, la massa d’acqua che prevale su ogni altra presenza e condiziona la vista dallo spazio come avvolge il navigante, fino a nascondere ogni altra presenza quando ci si allontana più di una ventina di miglia dalla costa, costituisce una presenza bisbigliante e misteriosa. Solo l’abitudine alla sua vista ce la rende familiare, pur nella sua assoluta estraneità. La vita della Terra è uscita dal mare, ma l’avventura umana se ne è anche distaccata. Il mare non è l’ambiente dell’uomo, che non può neppure bere l’acqua di cui è composto, ma continua ad affascinarlo con la sua meraviglia ondulatoria e cangiante. Se la terra è immobile, il mare invece non riposa mai. In un romanzo della saga fantascientifica di Dune, scritta da Frank Herbert, uno dei protagonisti incontra un mercenario ormai a riposo, ritornato sul pianeta di sabbia dove è nato. Gli chiede le ragioni della sua scelta di vita, il perché della sua decisione di andare a combattere lontano da casa, nello spazio e su pianeti diversi dal suo. L’uomo risponde che a spingerlo a lasciare i suoi cari e i luoghi della sua infanzia è stata una curiosità intensa, un desiderio struggente. Nato su di un pianeta dove l’acqua è quasi del tutto assente e rappresenta un bene prezioso, che si estrae a fatica da pozzi profondissimi, ha sentito dire di luoghi nei quali la massa liquida è tale da ricoprire la terra, da riempire l’orizzonte. Non voleva morire senza aver visto il mare. Solo per questo aveva sacrificato la propria vita alla guerra, e ora se ne stava nella propria casa in attesa della morte. La vista del mare lo aveva appagato.

E

La potenza evocativa del mare sorprende sempre. Nell’immaginario dell’umanità stanno due opere fondamentali nelle quali esso è protagonista, e che probabilmente vanno considerate la scrittura e la riscrittura dello stesso testo: l’Odissea e Moby Dick. Ulisse che trascorre le sue giornate sull’isola di Calipso a guardare il mare rivive nel capitano Achab, che scruta l’orizzonte alla ricerca del suo nemico: la balena bianca, quell’unica balena che lui odia e la cui caccia rappresenta ormai l’unica ragione della sua vita. Meno significativa dal punto di vista letterario, ma altrettanto onirica e generatrice di mito è l’avventura sottomarina del Capitano Nemo in 20.000 leghe sotto i mari, romanzo di pochissimi anni successivo

Ha dato origine alla Terra ma non è l’ambiente dell’uomo che pure continua a esserne affascinato. Forse perché la sua potenza evocativa, sempre sorprendente, fornisce la dimensione del concetto di mistero. Che precede qualsiasi razionalizzazione

Da Ulisse ad Achab di Sergio Valzania

Unisce e separa dando forma alle società umane secondo formule diverse. È insieme barriera e mezzo di comunicazione. Per i moderni Stati nazionali è confine, ma sulla sua capacità di essere collante di etica e cultura si formano alleanze. Come quella stipulata dai frequentatori delle sponde del più grande dei mari... a Moby Dick nel quale i ruoli sono ribaltati. Il Nautilus è un cetaceo unico, in cerca di una vendetta inattingibile, dato che l’uomo non è in grado di dare pace a se stesso. Nelle occasioni letterarie come in quelle fisiche il mare rivela l’uomo e lo rende essenziale. Anche nell’insegnargli a navigare lo obbliga a spazi ristretti, ma soprattutto gli fornisce una dimensione forte del concetto di mistero, precedente a qualsiasi razionalizzazione. La stranezza della massa d’acqua che riempie lo sguardo mentre sta in continuo movimento, collegandosi in modo ritmico alla terra attraverso le onde è palese. Come lo è la sua capacità di cambiare umore, pas-

sando dalla rabbia della tempesta alla calma piatta, quasi con un gusto per la sorpresa o lo sgomento che le sue trasformazioni possono creare.

L’Ulisse di Pascoli è costretto a liberarsi dalla sua malia per ottenere una morte serena. Deve andare ramingo per il mondo fino a incontrare un popolo che non conosce il mare, solo così sarà liberato. Porta un remo in spalla e solo quando esso viene scambiato per una pala da forno può finalmente sacrificare un gallo a Nettuno e tornare in pace alla propria casa. Persino i bambini di fronte al mare interrompono i giochi per guardare lontano, dove l’orizzonte è una linea

retta, oppure sciolgono il tempo osservando il frangersi di onde sempre diverse. Gli ebrei non erano un popolo di navigatori, eppure le scritture si riferiscono spesso al mare e ai suoi abitanti. Giona vive tre giorni nel ventre del pesce che lo inghiotte per volere divino, e Matteo ricorda l’episodio nel suo vangelo, indicandolo fra i segni anticipatori del destino di Gesù. Il Leviatan, mitico dominatore degli abissi, compare nel Salmo 104, dove la preghiera celebra Dio esaltando gli splendori della creazione, compreso «il mare spazioso e vasto/ dove guizzano senza numero animali piccoli e grandi» fra i quali spicca «il Leviatan, che hai plasmato perché in esso si diverta». Nel Libro di Giobbe, quando Dio dialoga per l’ultima volta in modo diretto con un singolo uomo, si trova una lunga descrizione di questo animale favoloso «i cui occhi sono come le palpebre dell’aurora», che diviene simbolo esso stesso della potenza divina. Poco prima Dio aveva ricordato a Giobbe di essere stato lui a «chiudere fra due porte il mare» imponendogli le regole di esistenza: «Fin qui giungerai e non oltre e qui si infrangerà l’orgoglio delle tue onde». Il mare è in questa occasione un essere dominato da Dio, ubbidiente ai suoi ordini. Non però a quelli dell’uomo, che lo frequenta e lo teme allo stesso tempo. Così il mare vive nella doppia natura di barriera e di mezzo di comunicazione, unisce e separa dando forma alle società umane secondo formule diverse. L’impero ateniese si costituì attorno all’Egeo e quello romano visse lungo le coste del Mediterraneo, tanto che Pirenne indicò nella rottura dell’unità commerciale del bacino la fine dell’antichità. Da occasione di unione e di scambio il mare si trasformò poi in ostacolo, difesa, confine considerato naturale per i moderni Stati nazionali. Nonostante questo la più potente alleanza militare che sia mai esistita sulla Terra si fonda, come dichiara nel nome, sul fatto che i suoi aderenti si riconoscono come frequentatori delle sponde del più grande dei mari: l’Oceano. Il Patto Atlantico è sopravvissuto alle ragioni per le quali era sorto, tanto robusta è la forza attrattiva del mare, la sua capacità di essere collante di etica e cultura. Più forte di tutti rimane però il mistero fisico e psicologico sul quale si fonda il suo essere liquido, che gli dà muscoli capaci di sostenere il peso di navi immense, senza negargli il diritto a essere capriccioso. Solo l’abitudine alla vista e alla frequentazione della sua superficie ha appannato la nostra capacità di riconoscere in esso uno dei luoghi più affascinanti nei quali Dio ha nascosto la sua potenza, perché essa non risultasse accecante per le deboli creature alle quali pure Gesù assicura: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno». (Lc 12,32)


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cd

musica Melody Gardot MobyDICK

una voce da brividi di Stefano Bianchi i ho già sentiti, i soliti sapientoni della critica, emettere le loro sconclusionate sentenze: somiglia a Norah Jones, Duffy, Madeleine Peyroux, Amy Winehouse. Come dire: copia che ti ricopia, qualcosa resterà. Melody Gardot (basterebbe ascoltarla un po’ meglio, soprattutto quando intona in chiave calypso Over The Rainbow, resa celebre da Judy Garland), vola ben più in alto: nell’intimismo di Laura Nyro, Joni Mitchell, Eva Cassidy. E nel blues di Janis Joplin, che spontaneamente la ispira quando interpreta Who Will Comfort Me facendosi avvolgere da fiati ruggenti che l’accompagnano fino al gospel. «Sapete qual è la differenza fra me e Norah Jones? Lei vince i Grammy Award, io vivo come se li avessi vinti». Brava Melody, ragazza del New Jersey. Con quel nome, puoi dire ciò che vuoi. E mettere fior di ugole sull’attenti cantando e suonando con chitarra e pianoforte quel pop jazzato che riempie fino all’orlo My One And Only Thrill. Melody Gardot: la ragazza che visse due volte. Aveva diciannove anni, quando una jeep la investì mentre andava in bicicletta. Si ritrovò immobilizzata in un letto d’ospedale, per un anno intero, con la memoria azzerata. L’ha salvata la musicoterapia («Se non altro, riuscivo a camminare nella mia testa») sottoforma di chitarra, da pizzicare distesa sul letto. Oggi la cantautrice ha ventiquattro anni, un bastone da passeggio su cui appoggiarsi, un’ipersensibilità ai suoni e alla luce che probabilmente non esorcizzerà mai e una sedia speciale di cui ha bisogno, ogni

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in libreria

mondo

volta che si esibisce in concerto («Ma solo in quei momenti - tiene a precisare - non avverto il dolore»). Merito della musica, già coccolata nei nightclub di Philadelphia prima dell’incidente, che si è trasformata in priorità assoluta. Ragione di vita. Un amore grande, insostituibile, sviscerato nelle sei canzoni di Some Lessons - The Bedroom Sessions, poi nell’album Worrisome Heart e adesso nel repertorio di questo disco impeccabilmente malinconico che si affida alle orchestrazioni di Vince Mendoza, già collaboratore di Joni Mitchell, Joe Zawinul e Kyle Eastwood. Ascoltatelo a luci soffuse, My One And Only Thrill: per meglio assaporare le swinganti delicatezze di Baby I’m A Fool, che lei impreziosisce con qualche tocco di scat. O il jazz notturno di Your Heart Is As Black As Night, così vicino a certe interpretazioni di Billie Holiday. E ancora: la carezzevole bossanova che scandisce If The Stars Were Mine, il capriccio francese di Les Etoiles che ricorda Saint-Germain-des-Prés all’epoca parigina delle caves, l’inappuntabile stile di My One And Only Thrill che ha le carte in regola per diventare la nuova My Funny Valentine. C’è tenerezza e sensualità nella voce di Melody, dono divino che lei tramuta in pura classe lasciandosi corteggiare dal pianoforte (Lover Undercover) e accarezzare da viole e violoncelli (Our Love Is Easy). Bravissima. Al prossimo disco, con altrettanto coraggio. Melody Gardot, My One And Only Thrill, Verve/Universal, 18,90 euro

riviste

LA PARRUCCA DI MOZART

UN MENESTRELLO EVERGREEN

«M

io fratello era un bimbo al contrario, nacque che era già grande e crescendo divenne sempre più bambino… mentre io crescevo e diventavo grande, lui cresceva e ringiovaniva». Così Nannarella presenta l’enfant prodige per eccellenza, Wolfgang Amadeus Mozart, nella fantasiosa opera musicale, a metà fra libro e pièce, La parrucca di Mozart (Einaudi, 100 pagine, 15,50 euro).

A

nticipato dal godibile singolo Candy, è in uscita Sunny Side Up, secondo album del cantautore italo-scozzese Paolo Nutini. A tre anni da These Streets, l’artista ha reso disponibili in streaming le nuove tracce su MySpace Music. Undici pezzi ben assortiti: da Coming up Easy e No other way, singoloni che ricalcano le orme di Otis Redding ed esaltano le venature blues della

«I

Jovanotti narra con brio e dotta leggerezza la parabola dell’enfant prodige di Salisburgo

Dopo il successo di ”These streets”, Nutini torna in scena con il superbo ”Sunny Side Up”

”Il Fronimo” dedica un omaggio a Francisco Huerta, virtuoso della chitarra dimenticato

Scritto con dotta leggerezza da un artista sempre più sorprendente come Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, il testo nasce come libretto di un’opera teatrale, elaborata a Cortona nel corso di un laboratorio per ragazzi, nel 2006. Ricco di verve, aneddoti e racconti, l’opera è un ensemble di buffezza e didassi, di schizzi densi di attrattiva e vaporosa malinconia. Protagonista assoluto è naturalmente il genio di Salisburgo, tratteggiato nelle fasi più significative della sua esistenza, specie in rapporto all’infanzia che ne fece, bimbo prodigio educato da un padre severo, quello che fu. Per grandi e piccini, un testo candido e squisito, che spande amore per la musica a ogni riga.

vocalità di Nutini, a Growing up beside you e Chamber music, ballad che rievocano il mood di Cat Stevens. Figurano poi l’orecchiabile Candy e la magnifica Tricks of the trade, spoglia e vibrante come poche cose sentite di recente. Aggiungono sapore il rock’n roll sbarazzino di Pencil Full of Lead, l’assolato country di High hopes e la dylaniana Simple things, che sembra uscire dagli extra di un Radio America. A parte l’intensa Worried man, memore di un cult come John Barleycorn must die. Poco più che ventenne, Nutini ha già il carisma di un menestrello evergreen.

rio senso ritmico e virtuosismo senza pari, Huerta incantò tra gli altri Victor Hugo e Hector Berlioz. Poco noto ai contemporanei, a causa di un’ultima parte di esistenza vissuta in miseria, il chitarrista spagnolo fu il primo, nel 1825, a tenere concerti da solista negli Stati Uniti. Nel tentativo di fare delle sei corde uno strumento sinfonico, non mancò di dividere i gusti della critica. Autore di più di 64 composizioni per lo strumento, un recente cd pubblicato per l’etichetta Harmonicorde ripropone al pubblico alcune sue opere scelte. Con un secolo di anticipo su Andrè Segovia, Huerta elevò la chitarra a una dimensione musicale assoluta.

a cura di Francesco Lo Dico

IL PAGANINI DELLE SEI CORDE potizzando che potesse esistere un prototipo ideale del chitarrista errante, bohémien, misterioso, esotico, avventuriero, giramondo, questo sarebbe stato senza ombra di dubbio Francisco Trinidad Huerta». Così, Josep Ma Mangado, presenta colui che nell’Ottocento fu definito il Paganini della chitarra, nell’ultimo numero di Il Fronimo. Strumentista dotato di straordina-


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jazz

zapping

YOKO ONO E QUEL VUOTO concettualmente rilevante di Bruno Giurato icchetta qui, ticchetta là. Gli eterni ritorni sono il brand dell’intelligenza di oggi. Segnano il tempo, danno pace all’anima e trippa ai gatti dello Spirito. Sono noiosi, è vero, ma proprio per questo sono un magnifico valium per le nostre testoline, un continuo re-vival che manda un odore strano di re-mortal. Alla biennale di Venezia avremo come superpremiata niente di meno che Yoko Ono, cioè la signora Lennon, cioè l’artista del revival (o remortal) più eclatante del pop. Ticchetta qui ticchetta là, uno si chiede: ma che ha fatto Yoko Ono? Ticchetta qui ticchetta là si risponde: ha fatto la moglie di Lennon, ha fatto la musicista, e poi ha fatto l’artista concettuale. E qui aggiungiamo che la sua attività di musicista è il nodo per capire il ticchiettio del tempo, il metro concettuale su cui si misura il calibro d’artista. Per esempio la canzone Why del 1970, in cui la Ono urla la parola “Why” per cinque minuti. Non si può ascoltare, ma è concettualmente interessante. Così come è concettualmente interessante la trovata di esporre come opera d’arte la camicia insanguinata che Lennon indossava quando fu ucciso da Chapman. E altrettanto originale, concettualmente, il comportamento che la Ono teneva quando accompagnava i Fab Four in sala di registrazione, allorché ripeteva: «rifare, Beatles». Senonché alla fine siamo contenti del fatto che verrà a Venezia, la Yoko, e già pregustiamo delle paginate sull’acume della signora, sull’ambiente maschilista che ha cercato di opprimerla da piccola, sul fatto che è la più famosa artista sconosciuta, perché nessuno si ricorda una sua opera. Ecco, tutto il ticchettio che si può fare e si farà intorno al vuoto. È già questo è concettualmente rilevante.

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danza

Billy Hart al Café Damberd di Adriano Mazzoletti

l Cafe Damberd di Gand, in Belgio, è uno di quei locali dove il jazz è di casa. L’Europa è costellata di questi piccoli café, caves, jazz club dove regolarmente si esibiscono musicisti grandi e piccoli, stelle del jazz ed esordienti. Celebri solisti di jazz, a differenza dei loro colleghi accademici, non disdegnano di disertare le sale dei concerti per far ascoltare la loro musica dovunque ci sia un pubblico di appassionati. Giorni orsono in uno di questi locali, il Petit Journal St. Michel di Parigi, suonava Claude Bolling, una delle icone del jazz francese e non solo. Pianista di talento, compositore fra i più prolifici, sue la Suite for cello and piano scritta perYoYo Ma o l’altra Suite for flauto and piano per Jean Pierre Rampal, ma anche autore di colonne sonore per celebri film fra cui Borsalino. L’ottantenne Bolling, al Petit Journal, suonava i grandi temi di Fats Waller e Duke Ellington accompagnato da contrabbasso e batteria, facendo saltare sulle sedie un centinaio di persone affascinate dal suo Harlem Piano Stride. Certo in Italia non vedremo mai celebrità del suo livello esibirsi, solo per il piacere di suonare per un pubblico di fans, all’Alexander Platz di Roma o in altri posti del genere. In molti casi queste esibizioni vengono registrate e pubblicate su disco. È il caso del trio di Billy Hart registrato al Café Damberd e pubblicato recentemente da Enja, la celebre casa discografica tedesca. Billy Hart è dal 1960 uno dei più importanti e apprezzati batteristi della scena jazzistica. Musicista di grande esperienza, ha saputo sempre apportare un contributo di scintillante creatività ai vari gruppi cui ha preso parte nel corso della sua lunga carriera, distinguendosi per un approccio progressista alla musica che trae tuttavia ispirazione e linfa creativa da saldissime radici nella tradizione e nello spirito più autentico del jazz. Le sue collaborazioni registrate con il chitarrista Wes Montgomery, con l’organista Jimmy Smith, con Herbie Hancock, McCoy Tyner, Stan Getz, Miles Davis, Gil Evans, Lee Koniz hanno sempre dimostrato la sua capacità di dare grande spessore al suono dei complessi e delle orchestre con cui ha suonato e inciso. Dalla seconda metà degli anni Settanta ha anche realizzato moltissime incisioni a proprio nome e ha spesso diretto propri gruppi sia negli Stati Uniti che in Europa. Una sua incisione del 2005, Quartet pubblicata dalla High Note, ha ri-

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scosso notevoli consensi ed è stato incluso tra i dieci migliori dischi di jazz del 2006 da Time Out e dal New York Times. Recentemente Hart si è anche esibito in Italia con un quartetto comprendente l’eccellente pianista Dado Moroni, il sassofonista Stefano Bedetti e il contrabbassista Ed Howard riscuotendo un notevole successo personale. Nel suo ultimo disco dimostra ancora una volta le sue qualità di accompagnatore. Perfezione nell’uso delle spazzole sui tempi rapidi e una pulsazione precisa e continua. I sei temi composti dal sassofonista Johannes Enders, con l’esclusione di Voyage dovuto all’estro di Kenny Barron, tutti ese-

guiti in trio - oltre a Enders anche il contrabbassista Martin Zenker - ricordano le famose incisioni che Sonny Rollins, Wilbur Ware ed Elvin Jones realizzarono nel lontano 1957 al Village Vanguard di New York. Un disco da ascoltare attentamente anche per approfondire la conoscenza di due eccellenti musicisti europei, il tedesco Johannes Enders e lo svizzero Martin Zenker. Billy Hart Trio, Live at the Café Damberd, Enja, !7,50 euro, Distribuzione Egea

Fuor di metafora la Biancaneve di Preljocaj di Diana Del Monte

emplicemente spiazzante. Parliamo dell’ultima creazione di Angelin Preljocaj, Biancaneve, presentata in prima nazionale al Teatro Regio di Parma il 28 e 29 maggio. Se ci proponessero, infatti, di sottoporci a quel gioco/test - ormai troppo famoso in tv - per cui bisogna associare a un oggetto, o situazione, la prima parola che ci viene in mente, il primo, e per molto tempo l’unico, aggettivo che abbineremmo a questo balletto sarebbe proprio «spiazzante». Quando, lo scorso settembre, Biancaneve ha debuttato alla Biennale de la danse de Lyon, il coreografo francese ha lasciato la critica attonita e il pubblico piacevolmente soddisfatto. Una situazione che si è ripetuta quasi identica a Parma, dove, a una critica che esibiva un grande punto interrogativo, si contrapponeva un pubblico felice ed estasiato che definiva la rappresentazione «originale e divertente». La situazione è ben lontana dall’essere paradossale e originale, ma, come sem-

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pre, fa riflettere. In realtà Biancaneve, lavoro per cui il coreografo rivendica il titolo di balletto narrativo, è un connubio perfetto tra la terminologia della nuovelle danse francese e la grammatica classico-accademica, fatta di ensemble, passi a due e assoli. Una soluzione interessante che si ispira al balletto romantico ottocentesco e che, in effetti, rende veloce e facilmente fruibile un genere non sempre apprezzato dal grande pubblico, la nouvelle danse appunto. Ma torniamo all’opera. Dimenticate le metafore complesse, le analisi psicologiche, i protagonisti dalle personalità tortuose, Biancaneve è solo la storia di Biancaneve, così come l’hanno scritta i fratelli Grimm. Narrativo fino a essere quasi fumettistico, questo adattamento della favola ci narra di una matrigna cattiva che è solo e sinceramente cattiva e di una bella e buona Biancaneve che è davvero bella e buona, vestite, neanche a dirlo, di nero la prima e in bianco la

seconda. Unico trait d’union fra le due, il colore rosso: rosso il bordo del vestito della matrigna, rosso il foulard che Biancaneve riceve in dono dal suo principe, rossa la mela che le unisce nel momento dell’avvelenamento. I costumi, disegnati da Jean Paul Gaultier, si presentano nella migliore tradizione dello stilista, ormai costumista affezionato alla danza contemporanea francese, con una Biancaneve soave e quasi sublime. La matrigna, aggressiva e un po’ trash, invece, ci ricorda uno dei personaggi

La nouvelle dance di Angelin Preljocaj

del Rocky Horror Picture Show e ci fa rimpiangere un po’ l’altera e terribile Carabosse della Bella addormentara nel bosco di Petipa. Lungo le quasi due ore di spettacolo, tuttavia, Preljocaj inserisce diversi spunti interessanti, come la danza verticale dei settte nani o il passo a due finale tra il principe e Biancaneve. In quest’ultimo, Biancaneve, ancora incosciente, viene raggiunta dal principe che la bacia e, subito dopo, inizia a ballare con lei. Qui è interessante la scelta di Preljocaj, che lascia la sua protagonista priva di sensi per quasi tutta la durata del passo a due, una soluzione che esalta la tecnica della nouvelle danse. Insomma, al di là del giudizio, in questo balletto si mostrano la ricerca e la sperimentazione di un coreografo che ama essere spiazzante. La sua Biancaneve viaggerà per tutta Europa questa estate, al pubblico il piacere di scoprirla e giudicarla.


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narrativa

Se Mussolini fosse morto nel ’24 di Maria Pia Ammirati onta le stelle, se puoi, ultimo romanzo di Elena Loewenthal, è una densa storia dove domina il grande tema del tempo. Tempo come struttura, come gioco della storia, come destino. E il tempo preferito dalla narratrice è il futuro, nell’accezione del poter essere, e nel sistema anticipatorio che permette al lettore di sapere prima che il fatto ci venga successivamente spiegato. Il poter essere della declinazione di questo tempo futuro ha il germe rivoluzionario della Storia che può essere riscritta, del deprecabile sarebbe potuto essere se, che si assume invece la responsabilità di riscrivere un periodo oscuro e maledetto della nostra storia recente, per ribaltarlo e dare un versione meravigliosamente vitale dell’esistenza. Una riscrittura come catarsi ma anche come coraggioso atto di affermare la vita sulla morte. Il colpo di teatro, che tramuta per sempre una saga familiare documentabile in una storia romanzesca, avviene nel 1924 quando la narratrice decide di chiudere l’ascesa del Fascismo con l’improvvisa morte di Mussolini, una morte avvenuta per un colpo secco che tramuta le sorti della nazione ma soprattutto della comunità ebraica italiana. Una grande famiglia gioca il primato di questo travolgimento dei fatti, una famiglia inserita nella comunità ebraica di Torino che nasce e si sviluppa attorno alla figura del nonno Moise Levi, un giovane commerciante di tessuti (ma partito con un carretto pieno di stracci), scappato dalle campagne cuneesi per seguire il sogno di una ricchezza che in pochi anni raggiunge.

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libri

Una famiglia che non si sperderà nell’annientamento della Shoah, ma percorrerà come tante altre famiglie normali una via di lenta modernizzazione del secolo. Nonno Moise è il capostipite di una dinastia articolata che dall’Ottocento si estende fino ai nostri giorni, personaggio che riassume i tratti caratteristici di tutti gli altri scoperti pian piano, cioè un fondo di serenità disturbato da un’irrequietezza indecifrabile. Un’ambivalenza che procede con i salti e le regressioni del Novecento, che trova ampio spazio nella personalità dei personaggi, in particolare delle donne che dominano anche numericamente la grande famiglia. Nonno Moise del resto ha quattro figlie femmine, i suoi nipoti sono prevalentemente femmine. I maschi, per una serie di strane coincidenze giocano una partita minore. Ma la giocano anche per un motivo essenziale, avendo riscritto la storia con un se, le donne posso concepire e allevare molti figli. Per poi mandarli nel mondo liberi di creare ovunque un pezzo della storia di famiglia. Se la storia non avesse preso quella piega malvagia che ha annientato le famiglie, avrebbe potuto essere riscritta come il trionfo della vita normale, che pone al centro dell’uomo la creazione. L’inquietudine dei nostri personaggi si traduce spesso in una sorta di fuga, in viaggi che allontanano Torino come patria per ricostruirne altre in Terra Promessa o nel mondo nuovo, l’America. È la spinta verso la libertà minacciata che aleggia sempre nel libro che costringe alla fuga, un senso di pericolo che nonno Moise aveva tradotto così: «Quando c’era il duce nonno Moise smise di parlare… dopo che al duce gli era preso quel colpo secco… diventò chiacchierino come forse non era mai stato prima». Elena Loewenthal, Conta le stelle, se puoi, Einaudi, 256 pagine, 17,50 euro

riletture

HH, Parmenide e l’inizio della filosofia di Giancristiano Desiderio i verrebbe da scrivere così: HH. Che nella prosa pubblicistica italiana significa Helenio Herrera, il Mago della Grande Inter. Ma, proprio perché per chi scrive non c’è differenza tra calcio e filosofia, può anche significare Hegel e Heidegger: il primo fu uno splendido centrocampista, il secondo giocò in gioventù nel ruolo di ala sinistra. I due giocatori tedeschi, in quanto filosofi hanno una cosa in comune: la storia della filosofia. Per il primo, Hegel, la storia della filosofia è la graduale manifestazione della verità, per il secondo, Heidegger, la storia della filosofia è l’oblio dell’essere. In entrambe le straordinarie giocate, il campo da gioco e di pensiero è la storia della filosofia che viene «ri-

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letta» dai due grandi filosofi e anche giustamente usata per giocare meglio in casa propria, ossia con la propria filosofia. Cosa rileggere? Iniziamo da Hegel. La Laterza ha pubblicato le Lezioni sulla storia della filosofia con traduzione, introduzione di Roberto Bordoli. Un lavoro importante perché le lezioni di Hegel sulla storia della filosofia fanno capire il sistema di pensiero di Hegel come nessun altra opera hegeliana. Ma Hegel non pubblicò i testi delle sue lezioni e la versione di questa traduzione è da considerarsi inedita: non riproduce la versione del Michelet del 1840-44, bensì il corso berlinese del 1825-26 pubblicato in Germania alla fine del Novecento. Le lezioni hegeliane sono una grande cavalcata nella prateria della verità in sella allo spirito. La forma-

zione o fenomenologia dello spirito è il costituirsi della libertà moderna e della sua coscienza. Libertà e storia della filosofia sono quanto mai legate a doppio filo. Nel pieno della seconda guerra mondiale, semestre invernale 194243, Heidegger dedica le sue lezioni a Parmenide e al suo poema Sulla natura. Ma non si limita alla esegesi del testo che diventa un pre-testo per dedicare attenzione alle parolechiave della storia della verità nella storia dell’Occidente: aletheia, mythos, logos, epos, polis, dike, praxis, theoria, theion e quindi veritas, ratio, imperium, iustitia. Per Heidegger il pensiero aurorale dei Greci è il fondamento della storia dell’Occidente, ma anche ciò che l’Occidente, padrone degli enti del mondo, ha dimenticato. Il testo del corso è quello pubblicato da

Adelphi e reca come titolo Parmenide. Qui si potrà rileggere anche l’introduzione, sempre precisa come era sua abitudine, di Franco Volpi, recentemente scomparso. Sia Hegel sia Heidegger sono «amici» dei Greci. Sia Hegel sia Heidegger vedono in Parmenide il calcio di inizio della storia del pensiero. Dice Hegel: «Fu un immenso passo in avanti. Per la prima volta, grazie alla scuola eleatica, il pensiero comincia propriamente a essere libero per sé, come essenza, come l’unico vero; il pensiero comprende se stesso». Heidegger dissente: «Per la metafisica moderna di Schelling e Hegel il tratto fondamentale della verità non è mai l’aletheia nel senso della sveltezza, bensì la certezza nel senso di quella certitudo che, da Cartesio in poi, caratterizza la veritas». La partita continua.


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saggi

L’arte del racconto secondo Cortázar di Luisa Arezzo sageratamente alto, le mani grandi come pale di mulino, gli occhi enormi e stupiti, la faccia da bambino perverso, capace di mettersi sempre in discussione, di rivendicare il suo cammino nel fantastico, con un coraggio e un gusto della sfida (che certo a lui non mancava) che spesso il nostro tempo più non concede. Per chi lo ama, Cortázar è una cicatrice. Indelebile. Privo di parametri certi, capace di sguinzagliare la fantasia verso mondi inesplorati ma paradossalmente reali perché inseriti in un cerchio temporale ordinario. Eccentrico, più europeo che argentino, più apolide che sudamericano, in questa sua raccolta di testi inediti ci immerge in un lago di parole. Ci

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società

inchioda a riflettere sull’arte dello scrivere, sul ritmo (in questo caso il jazz) e l’intensità, ovvero la sottrazione, la capacità di eliminare tutte le idee e le situazioni intermedie, i riempitivi, le fasi di transizione che invece il romanzo impone. E ci rivela che il fantastico, per lui, significa nostalgia, «una tregua nel duro, implacabile assedio che il determinismo tende all’uomo». Utile a eliminare la bestia, l’Indicibile, l’Urlo che è in ogni autore, ma dedicato al lettore. È un saggio sul suo modo di scrivere Del racconto e dintorni, con spigolature umili e ben lo chiarisce: «Quando scrivo un racconto cerco istintivamente di fare in modo che mi sia estraneo in quanto demiurgo, che prenda a vivere una vita indipendente e che il lettore abbia, o possa avere, la sensa-

zione che in certo qual modo stia leggendo un qualcosa nato da sé, in sé e addirittura per sé». Così, dopo aver scelto un tema significativo (o esserne stato scelto), lo scrittore di racconti deve saper adottare uno stile basato sulla tensione, uno stile in cui gli elementi formali ed espressivi si adattino, senza la minima concessione, all’indole del tema, gli diano la sua forma visiva e auditiva più penetrante e originale, lo rendano unico, indimenticabile, lo fissino per sempre nel suo tempo e nel suo ambiente. Convinto da sempre che le etichette e i generi letterari fossero «sull’orlo di una bancarotta», in questi brevi (non poteva essere altrimenti!) saggi, il Gran Cronopio come precisa Bruno Arpaia, curatore del libro - prende parte al-

le vicende del suo tempo, si schiera, «risponde a modo suo alle domande sulla responsabilità dello scrittore, sul rapporto tra intellettuali e politica, non piegandosi mai ai commissari politici dell’impegno che, negli anni Sessanta e Settanta, esigevano dagli artisti l’adesione a facili slogan ideologici». Da segnalare i due saggi conclusivi del testo: Realtà e letteratura nell’America Latina e il consequenziale Su ponti e sentieri, un illuminante breviario sui vasi comunicanti e i rapporti tra il Sudamerica e l’Europa. Chi meglio di lui poteva fotografare questo confine? Julio Cortázar, Del racconto e dintorni, Guanda, 184 pagine, 17,00 euro

L’Infinito di Leopardi? Leopardare di Angelo Crespi

e non ci fosse da piangere, si potrebbe ridere. Ridere degli strafalcioni degli alunni, dell’ignoranza degli insegnanti, della protervia dei dirigenti scolastici e della burocrazia scolastica in generale, di cui Mario Giordano si diverte a collezionare «perle» a migliaia. Dai corsi più astrusi (sul cinema, il formaggio, la filatelia, la danza cubana) inventati per drenare i fondi europei, passando per gli errori marchiani degli studenti che non sanno usare il congiuntivo, credono che Moro sia stato ucciso dalla mafia, e che l’Infinito di Leopardi sia leopardare, il quadro descritto dal direttore del Giornale è quello di un di-

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narrativa/2

sastro impossibile da rimediare. Impossibile perché dietro le rovine della scuola s’aprono quelle della famiglia e più in generale della società: genitori allevati nel Sessantotto che scendono in piazza più volentieri dei propri figli, li accompagnano solerti alle manifestazioni, ne condividono le occupazioni, perfino li sostengono nelle proteste contro il ministro di turno. E il risultato è inquietante: secondo le statistiche di organismi super partes abbiamo meno laureati del Cile, i nostri ragazzi sono gli ultimi per preparazione rispetto ai coetanei europei, anche le elementari e le medie che un tempo erano un vanto cominciano a perdere colpi e a sfornare asini che non conoscono l’ortografia, non sanno leggere, hanno gravi difficoltà con

la matematica. Non è un caso che nel nostro paese si torni al neoanalfabetismo, 800 mila sarebbero gli analfabeti, 2 milioni gli analfabeti funzionali, 5 milioni gli italiani che non hanno neppure la licenza elementare. Il bello è che davanti al tentativo meritorio di riforma proposto dal ministro Gelmini, insegnanti, famiglie e studenti facciano massa critica per scongiurare qualsiasi cambiamento anche minimo, forse ricordando l’aforisma di Leo Longanesi: «Tutto quello che non so l’ho imparato a scuola». Certo una flebile speranza resta e fa bene Giordano sul finire del saggio a ricordarcelo. Gli esempi positivi esistono e anche se sono pochi possono essere un modello da cui ripartire: scuole dove vige ancora la disciplina, il rispetto, c’è voglia di insegnare e desiderio di apprendere. Mario Giordano, 5 in condotta, Mondadori, 214 pagine, 18,00 euro

Tacere (in Iran) per non tradire la verità di Pier Mario Fasanotti è un proverbio in Iran: «La morte dei poveri e il crimine dei ricchi non fanno rumore». Una verità che può essere estesa a molti paesi. Solo che la falsa democrazia persiana, ossia un regime teocratico che non riconosce e quindi non rispetta i diritti fondamentali dell’uomo, porta sulle sue spalle il fanatismo islamico. Sono le donne, soprattutto, a patire impiccagioni, lapidazioni, abusi d’ogni sorta. Questo breve e intenso romanzo, scritto da una donna costretta a lasciare l’Iran dopo la «rivoluzione» del 1979 e oggi esule a Parigi, ambienta una vicenda che mette i brividi in una cittadina di

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miseria e di violenza. È il diario della quindicenne Fatemeh che in carcere aspetta di essere impiccata. Un guardiano gentile le offre razioni di oppio per lenire le ferite sul corpo, e sarà lo stesso uomo a consegnare a un occidentale lo scritto dell’adolescente. Fatemeh racconta di sua zia, muta e bella, considerata già vecchia pur avendo solo 29 anni. Non parlava pur avendo parlato fino a dieci anni: «tacere» scrive la ragazzina «significava forse non tradire la verità». La gente la considerava «pazza» perché aveva comportamenti liberi, «ed era sempre a capo scoperto». Era quindi già marchiata al cospetto dei tutori dell’ortodossia islamica, padroni delle vite degli altri, decisori di vita e

di morte. La muta s’innamora del giovane zio di Fatemeh. La scoperta dei loro corpi nudi e felici farà scattare l’obbrobriosa «giustizia» che considera la muta un’adultera in quanto promessa sposa di un mullah. La famiglia, povera, ignorante e sottomessa, non protesta. L’ira divampa invece in Fatemeh che vedrà la zia impiccata («appesa tra cielo e terra») nella piazza principale. Ma suo padre la consegnerà come sposa allo stesso mullah, per lavare l’offesa familiare. «Perdonami» le dirà davanti al portone del cinquantenne grasso e lubrico che ha scelto Fatemeh come terza moglie. La ragazza di nemmeno quattordici anni non sa se pregare o bestemmiare. Nella sua mente si

è conficcato il ricordo della zia colpevole solo di amore. Percorre il vergognoso cammino della donna privata di futuro, ormai schiava. Gli eventi precipitano, partendo dal desiderio di ribellione di Fatemeh. Lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun nella postfazione spiega come «il fanatismo religioso sia focalizzato sulla sessualità e la ossessività». E aggiunge che «questo modo di vivere l’islam è un tradimento del messaggio essenziale del Corano». La condanna delle donne, secondo lui, ha come alibi l’islam. Alibi, chiediamo noi, o secolare humus di anime sporche? Chahdortt Djavann, La muta, Bompiani, 94 pagine, 12,00 euro

altre letture La rete è un universo senza confini e chi la frequenta è costantemente in bilico tra l’arricchimento delle competenze e l’alienazione. Questo sostiene Ubaldo Fadini in La vita eccentrica (edizioni Dedalo, 188 pagine, 16,00 euro), un saggio su soggetti e saperi nel mondo della rete. L’importanza crescente della rete nella società contemporanea pone infatti continui problemi di interpretazione e di comprensione nell’agire umano. Una nuova comunicazione e un nuovo linguaggio che mettono in connessione milioni persone in uno spazio affatto diverso da quello fisico tradizionale e senza alcuna presenza delle corporeità materiale dei parlanti. Una dilatazione senza precedenti delle possibilità di conoscenza e una flessibilità dei ruoli che trasforma la tradizionale distinzione tra lavoro e non lavoro, tra tempo di vita e tempo mentale che ci costringe a ripensare la nostra condizione di uomini. «Impara le rune della

vittoria e l’otterrai! Usa le rune della tempesta. Né tremende maree, né terribili onde, ti impediranno di arrivare in porto. Impara le rune dell’eloquio arriverai nel fondo del cuore degli uomini. Ma soprattutto le rune della mente devi imparare a riconoscere se vuoi avere l’anima più pura, se vuoi essere il più saggio». Sono gli antichi versi del Volsunga Saga il poema tradizionale nordico che parla delle rune, le lettere di un antico e misterioso alfabeto che ha nel mito di Odino la propria origine. Runemal, il grande libro delle rune (Edizioni l’Età dell’Acquario, 456 pagine, 27,00 euro) di Umberto Carmignani e Giovanna Bellini è uno studio corposo sull’origine, la storia e l’interpretazione dell’antico alfabeto runico. Uno lavoro che, al netto di certi accenti neopagani, segue un rigore scientifico e s’appoggia al contributo di autorevoli studiosi dell’argomento.

Cos’è l’anima? Dove si trova? Da dove viene? A queste domande eterne cerca di rispondere addentrandosi in modo rigoroso nella pluralità di senso che è intrinseca a questo concetto la Breve storia dell’anima di Luca Vanzago (Il Mulino, 258 pagine, 13,50 euro). Trasformandosi continuamente - dice Vanzago - l’anima ha sempre fatto ritorno dopo ogni dichiarazione di morte, di volta in volta trasfigurata da nuove idee o rinnovate polemiche, ma capace di adeguarsi a ognuna di esse. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

ERNESTO THAYAHT FU UNO DEI PROTAGONISTI DELL’INTERVENTISMO CULTURALE NOVECENTESCO. PITTORE, SCULTORE, STUDIOSO DI ESOTERISMO FU ANCHE UN INNOVATIVO E ORIGINALE STILISTA DI MODA. PRATICITÀ E CONSUMO FURONO LE SUE INSEGNE, APPLICATE CON GRAZIA ALLA SCELTE DELLA DONNA CHE GIÀ ALLORA LUI VIDE “MODERNA”. LA MOSTRA SUL DÉCO IN CORSO A ROVIGO CE LO FA RISCOPRIRE…

L’uomo che inventò

la TUTA di Mario Bernardi Guardi

l Déco in mostra a Rovigo (Pinacoteca di Palazzo Roverella, fino al 28 giugno) illustra di sequenza in sequenza la complessità di un’avventura culturale che, negli anni tra le due guerre, coniugò avanguardia e tradizione, invenzione creativa e gusto decorativo, suggestioni immaginifiche, fiabesche, oniriche e acuta percezione della realtà, colta e rappresentata nelle sue forme più moderne e innovative. Il Déco è radicato in un tempo e a quel «suo» tempo volge sguardi ammiccanti e complici, traducendone con plastica eleganza credenze ed esigenze, ma ama anche le vaporose ambiguità, gli echi sinuosi del lontano e del profondo (non del perturbante, però), la calligrafia del simbolo, le fughe liberatorie nell’esotico, i divertimenti della fantasia, i tornei in cui si cimenta il «multiforme ingegno» dell’artista.

I

sgargiante abito giallo, il copricapo a raggiera intarsiato di perle, le altre perle che contornano la fronte, il collo, il petto, il morbido drappeggio della veste, le scarpette trapunte d’oro, sono comunque il «costume» di una signora altoborghese, il segno concreto di una «appartenenza».Tutto quello che, insomma, la rende sicura di sé e delle sue scelte.Tanto da indossarle al pari di una sovrana, capace di sfide perché sicura della finale vittoria. Forse è proprio qui la «cifra» déco: turbini rimossi e grovigli risolti. E il via libera a sensibilità espressive plurali - cubiste, futuriste, fauve, liberty ecc. - che, moltiplicate in colori e forme, si compongono in un gusto unitario. Ne seguono moduli e modelli, registri e ritmi dal sapore classico. Dunque, l’invenzione déco è all’insegna di una vivida, brillante compostezza; i tratti rie-

Così lo descriveva nel 1930 Fosco Maraini: «Vestiva con la cura di un artista che ama farsi notare anche come persona: calzini chiarissimi stirati perfettamente, scarpe color crema, maglione giallo oro da cui fuoriusciva il colletto di una camicia rosso mattone» Passioni? Sì, ma come decantate. Tutto, in qualche modo, trova risoluzione nello stile: emozioni, effervescenze, ebbrezze, esplosioni conquistano la loro misura in un possesso calmo e stabile, in un’estetica che è ormai ordinata «attenzione» e non più concitata «tensione». E proprio questo comunica il ritratto di Wally Toscanini, vera e propria icona della mostra, che, campeggiante sulla copertina dello splendido catalogo curato da Francesca Cagianelli e Dario Matteoni (Déco. Arte in Italia 1919-1939, 240 pagine, 35,00 euro), esprime l’«eterno femminino» con una sorta di tranquilla voluttà. Certo, dagli occhi scuri e dalle rosse labbra della bella dama, immortalata da Alberto Martini in abito da odalisca, sprigiona un fascino magnetico che strega e stabilisce siderali distanze, ma lo

scono a essere, al tempo stesso, levigati e preziosi, lineari e ornamentali, a contenere rotondità e angoli; tutto è in qualche modo «scena illustrata», ma le frivolezze estetiche non confliggono con la disciplina della forma e con una certa vocazione all’«essenziale»: e questo vale per le inflessioni decorative di Chini, Sartorio, Bocchi; per le nuove sintesi di Martini, Geranzani, Conti, Bucci, Dudovich; per gli orizzonti esotici di Marussig e Cavaglieri; per le tempere, gli arazzi, i vasi in vetro di Zecchin; per le incisioni colorate au pochoir di Brunelleschi e Thayaht; per le divagazioni futuriste di Balla e Depero; per le donne del futuro di Fillia, Prampolini, Peruzzi; per il déco severo di Funi e Oppi, Casorati e Ghiglia, Capogrossi e Campigli, Sironi e Carrà; per il sogno

dell’antico di Pulvirenti, Chini, Ram; per i vasi, i piatti, le coppe di Giò Ponti; per le sculture di Ciambellotti e Castaldi, Prini e Andreotti.

Il Déco come «via» eclettica - e modernissima - all’ordine e all’armonia? Forse. E ce ne offre una verifica quello che, tra i linguaggi dell’arte, è considerato il più fatuo e il più effimero: la moda. Firmata Sensani, Brunelleschi e Thayaht, nelle incisioni colorate au pochoir. E cioè? A illuminazione del lettore, ecco quel che scrive AlessiaVedova, curatrice di un piccolo e utilissimo «vocabolario» déco: «Dagli inizi del Novecento, fino alla metà degli anni Trenta, la colorazione au pochoir, cioè a mano mediante piccoli stampi ritagliati internamente, fu largamente impiegata,


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soprattutto in Francia, nel settore dell’illustrazione di moda e, più in generale, della grafica déco (…). Questo procedimento semplice e pratico consentiva di ottenere in serie disegni già stampati, adoperando stampi, i pochoirs, ricavati da lamine sottili di zinco o di rame traforate in corrispondenza delle zone da colorare, dentro le quali il colore veniva steso con pennelli di varia forma e grandezza (…). Molti ateliers, parigini riproducevano con grande raffinatezza, attraverso questo sistema, stampe di diverso genere, chiamate spesso per estensione pochoirs, che venivano raccolte in album e cartelle».

Gli «arcani» di questo variopinto universo, che coniuga magìe d’Oriente, seduzioni del Settecento veneziano e modernissime stilizzazioni, facendo di ogni figurina femminile una deliziosa sorpresa, un raffinato segno di novità, un emblema di libertà ed emancipazione, sono esplorati in lungo e in largo: ed è una ricognizione che consente di rivalutare figure di protagonisti dell’interventismo culturale novecentesco come Ernesto Thayaht. Scrive Dario Matteoni: «Ernesto Thayaht pubblica a partire dal 1922, sulla Gazette du Bon Ton, una serie di tavole colorate secondo la tecnica del pochoir, rivolte a divulgare i modelli della MaisonVionnet con la quale intratteneva un saldo rapporto di collaborazione. È indubbio che tali illustrazioni, al di là della loro specifica destinazione, forniscano una vivida rappresentazione della società dei primi anni Venti e dei suoi mutamenti, in particolare nella progressiva emancipazione della donna. Non meno interessante è l’iconografia scelta: la modella non compare mai in una posa statica, ma è ritratta quasi sempre in movimento, mentre risulta evidente la corrispondenza tra l’abito e lo stile di vita che si intende comunicare. La donna appare comunque moderna, a partire dalla scelta dei suoi abiti: sportiva di giorno, elegante di sera, privilegia pur sempre la praticità. Ma vi è di più: Thayaht sembra esemplificare proprio in quale misura i linguaggi delle avanguardie, in particolare la riflessione sulle geometrie, si possano trasformare in immagini di largo consumo... » (Il gusto déco: non solo stile, in Arte in Italia. Déco 1919-1939, cit.). Dunque, logica geometrica, ma anche «praticità» e «consumo». E ancora, a conferma che nihil sub sole novi, e che, per così dire, le avanguardie recuperano gli archetipi, ecco una serie di «schemi compositivi» che si ricollegano all’arte e all’architettura della Grecia e dell’antico Egitto. Insomma, la modernità del Déco, ci dice Matteoni, utilizza sapientemente la classicità e i linguaggi dell’avanguardia. Ed è la geometria del mondo classico a suggerire all’artista il logo della casa di moda di Madeleine Vionnet: «Se, infatti, nei primi studi l’artista muove dall’idea di rappresentare un corpo umano libero nello spazio, l’immagine finale mostra un evidente richiamo alla classicità, non solo nell’ordine ionico della colonna, ma anche nel cerchio che racchiude la figura femminile, sottile allusione allo schema vitruviano del corpo umano». Un abile, intelligente «contaminatore» l’anglosvizzero-americano-fiorentino Ernesto Henry Michaelles, in arte Thayaht, futurista e fascista di sicura fede (celeberrimo il suo Dux, una testa in bronzo di Mussolini, Nella pagina a sinistra, in alto Ernesto Henry Michaelles, in arte Thayaht, in tuta, frutto della sua creatività. In basso, tre sue opere pittoriche. A destra, in alto alcuni suoi modelli realizzati con la tecnica “au pochoir”; sotto il disegno della tuta; in basso la scultura “Dux”

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creata nel 1929)? Certamente, un tipo poliedrico: pittore, scultore, studioso di esoterismo, innovativo e originale stilista di moda. Nonché inventore della tuta, l’abito del Novecento «rivoluzionario». Davvero, quel «grande artista alle origini del Made in Italy» cui si intitolò la Mostra, organizzata nel 2008 dal Museo del Tessuto di Prato. E che faceva seguito alla Rassegna di Forte dei Marmi, dedicata un anno prima a Thayaht al fratello Ram, con una ricca collezione di dipinti, sculture, oggetti, abiti, accessori ecc., frutto della loro fantastica inventiva. Ma dicevamo della tuta, anzi della TUTA - il termine è coniato da Thayaht - e cioè l’abito unitario a forma di T, che fonda la sua essenza sul concetto di praticità, economia e riproducibilità, e che da più di ottant’anni ha segnato il costume e la moda attraverso mille varianti, di tipo sportivo, militare, da lavoro ecc. (e ricordiamo quelle con la griffe dell’alta moda, da Emilio Pucci a Krizia, a Ken Scott, a Capucci). Ma ecco come La Nazione - il quotidiano fiorentino che ne promosse la diffusione - presenta la TUTA-prototipo in un articolo del 17 giugno 1920: «Sopravveste di un sol pez-

colgono la forza liberatrice, in polemica col provincialismo bigotto e conformista dell’«Italietta» (la donna di Thayaht si muove, ha carattere, sa quel che vuole e quanto vale, si muove con scioltezza nei salotti, è colta, viaggia, di giorno indossa un comodo abito che è un gioco di moderne geometrie, di sera tira fuori tutte le sue riserve di fascino con sontuosi drappeggi, mantelli e fusciacche). Ci credeva,Thayaht, all’immagine. Anche alla propria. Così, infatti, lo descrive, nel 1930, un giovanissimo Fosco Maraini: «Vestiva con la cura di un artista che ama farsi notare anche come persona: calzini chiarissimi stirati perfettamente, scarpe color crema, maglione giallo oro da cui fuoriusciva il colletto di una camicia rosso mattone». Insomma, un dandy, un eccentrico cosmopolita di vocazione italianissima, che sceglie di abitare in Versilia, prima nella «casa gialla» di Tonfano, poi nella «casa bianca» di Fiumetto. Un uomo pieno di progetti e già carico di ricordi. In cima, quelli parigini. L’alto artigianato alla Maison Vionnet, l’assidua frequentazione dei Balletti Russi di Sergej Djagilev:

Spirito libero, fu “uomo di Mussolini” cui dedicò la celebre scultura “Dux”. Ma dal fascismo non ebbe i riconoscimenti che avrebbe meritato e nel dopoguerra patì l’isolamento e l’oblio. Morì nel 1959, dopo aver coltivato, in Versilia, l’interesse per gli Ufo zo con pantaloni e maniche, di robusto cotone o di fibre speciali, indossata da operai, sportivi e persone che svolgono particolari attività». E Tuta, nell’intenzione di Thayaht, valeva per Tutta: «Un indumento che veste tutta la persona con utilizzo di tutta la stoffa». Quanto alla «t» perduta, ci informa il Dizionario Etimologico della Zanichelli, essa veniva sostituita con il modello a «T» della «tuta». Dunque, un gioco grafico, di invenzione e di visione, in perfetta linea con il tumulto di immagini scatenato dal futurismo.Vien fatto di pensare che, il segno/disegno della tuta volesse rappresentare anche un’idea di totalità, con un forte impulso all’«immaginario» che attraversava la politica, la cultura e il costume. E che suggeriva un profilo nuovo dell’Italia, fatto di creatività e vitalità, giovinezza e voglia di futuro, bellezza e ardimento, slancio verso la modernità e forte sentimento identitario. Tutte cose a cui Thayaht credeva: verrebbe voglia di dire, tutte cose che praticava. Con una vocazione estetica palpabile. Si vedano le incisioni au pochoir esposte a Rovigo: sfondi essenziali rettangoli, cerchi, qualche ricamo che non si perde in riccioli -, rapidi tocchi per disegnare un ambiente, profili delle modelle all’insegna di un nitore che ne accentua la suggestività, abiti da giorno e da passeggio, che si impongono alla vista col loro taglio netto, preciso e deciso, ma nulla tolgono alla femminilità, anzi ne

un vero e proprio centro di creatività «plurale» visto che vi si mescolavano musica e teatro, scenografia e arti decorative, moda e arti figurative, in un gran tumulto di provocazioni avanguardistiche.

Innamorato della vita e dell’arte, Thayaht pensa, progetta, inventa. Per vent’anni è un vulcano di idee e di cose: stoffe, tappeti, cuscini, statuette in bronzo o in terracotta, mobili, lampade, oggetti di oreficeria, manifesti pubblicitari, raffinate rilegature, fotografie, cravatte. Addirittura un Carro-Vela per correre al vento sulle spiagge di Versilia. E naturalmente c’erano i disegni, i quadri, le sculture. La conoscenza di Mussolini, attraverso Marinetti, nel gennaio del ’29. Il dittatore che commenta in questo modo il Dux di Thayaht: «Sì, mi piace. Sono io! Così mi sento! Così mi vedo!», e che scrive sulla foto che riproduce la scultura: «Questo è Benito Mussolini così come piace a Benito Mussolini». Come piaceva anche a Thayaht che, però, al pari del fratello Ram, non ebbe dal Fascismo tutti quei riconoscimenti ufficiali che avrebbe meritato. Tuttavia, anche lui, spirito libero quanti altri mai, fu «uomo di Mussolini» e nel dopoguerra patì l’isolamento e l’oblìo. Gli furono di conforto la Versilia, con pochi ma buoni amici, una sorta di appassionata identificazione con Paul Gauguin (spicchi di Tirreno diventarono nei suoi quadri paesaggi tahitiani carichi di sogno) e l’antico gusto per il mistero, con un interesse crescente per la Quarta dimensione e per gli Ufo. Al punto che, nella sua casa di Fiumetto, nel 1954, fondò il Cirnos (Centro indipendente raccolta notizie osservazioni spaziali). Gli restavano cinque anni di vita, prima della fuga nel Chissà-Dove della Bellezza.


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tv

video

di Pier Mario Fasanotti

Glob l’informazione di Bertolino costellata di battutacce

web

olti ricorderanno che nella loro infanzia c’erano quei pupazzetti di legno o di plastica forniti di molla interna che comparivano e scomparivano, su pressione di un dito. La stessa cosa capita in televisione. Sta per finire, ma ritornerà, Glob, l’osceno del villaggio (Rai 3 alle 23,30). A condurlo è il comico - ma lui si definisce ex - Enrico Bertolino. È uno che lancia raffiche di battute, non così azzeccate e originali, con quella perentorietà milanese che sottintende una certezza: dovete ridere e se non ridete vuol dire che non capite niente. In ogni caso fa il suo mestiere senza clownerie. Ed è già molto. Il suo programma ha l’ambizione di occuparsi di informazione e di comunicazione. Inevitabile che abbia affrontato l’argomento più rovente di queste settimane: l’«affaire Noemi». Mai nominata peraltro da Bertolino che ha preferito mandare in onda spezzoni di Blob. Nulla ha aggiunto, nemmeno un sorriso o una smorfia. Cose che abbiamo abbondantemente consumato in questi giorni. Agganciato al tema minorenni e non (basta siano di bellezza generosa) un po’ troppo vicine a chi ha la guida del paese, il comico che vuole essere ex comico ha intervistato un imitatore di Pier Silvio Berlusconi. Battute come «A tirar troppo la sottana si fa la fine di Mentana» francamente sono modeste, e gratuitamente offensive. Si è poi scivolato nella comicità genitale - poteva mancare quella? - e in quella muscolare, questa però riferita alla sinistra che ne è priva, «vedi Piero Fassino». La bassa temperatura del programma è stata rialzata con filmati e dichiarazioni dello scrittore e docente universi-

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games

DIETE A VOLONTÀ

tario Walter Siti. Questi ha ribadito il pericolo che generano la confusione tra reale e finto e la spettacolarizzazione di tutto. Con un’avvertenza pungente: «Non crediate che il web sia meglio: fa finta di assecondare la volontà dei singoli e alla fine crea individui tutti uguali, ma in maniera personale». E poi l’ospite d’onore, introdotto da Bertolino con dichiarazioni strombazzanti di stima come «una delle rare voci fuori dal coro». Il tema era: siamo o non siamo vittime della propaganda? Con aria ormai da maestro del vivere, il giornalista Marco Travaglio ha dato la netta conferma della sua mutazione. Se prima in tv manifestava quasi lo stupore di esserci e diceva cose argute o provocanti con il piede sul freno o sulla frizione, oggi la sua macchina mentalcomunicativa è priva di dispositivi di sicurezza e assomiglia a quella azionata dai guru, gente che sembra nata senza dubbi. La sua macchina corre e l’interlocutore di turno pare un paracarri da evitare, o da non guardare. Travaglio ha anche lodato Anno zero, programma di Santoro «il cui merito è quello di raccontare fatti che scompaiono dai tg». Francamente somiglia a una leccata di stivali. Poi ha difeso la macabra vignetta di Vauro che ha mischiato umorismo e morte. Travaglio ha detto che in sostanza non abbiamo capito niente, che Vauro intendeva puntare il dito sulle vittime non del terremoto ma della speculazione edilizia e dai condoni avviati prima da Craxi e poi da Berlusconi. Peccato che le vittime - diciamo noi che rispettiamo più il lutto che il finto umorismo - c’erano ed erano tante. Indipendemente da chi ha trasformato persone in cadaveri. La tv è occasione per annunci personali. Non se l’è lasciata sfuggire il torinese con la maschera di Buster Keaton: ha annunciato la nascita (in autunno) di un (suo?) quotidiano. Pochi commenti, tante notizie. Il giornalista che ormai guarda più il suo lontano orizzonte che non chi gli siede accanto e di cui è ospite ha detto che sarà essenziale vista l’inflazione di giornali con troppe pagine. Ha confessato che lui stesso non riesce a leggerli. Forse ne ha dimenticato alcuni. Fa niente: bisogna avere marmoree certezze per voler racchiudere l’universo creato in sedici pagine.

dvd

PINDARICI VOLI LOW-COST

LE SIGNORINE DELLO SWING

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agioni balneari vogliono aperta di questi tempi la caccia al rimedio miracoloso che possa rendere presentabili le silhouette al cospetto degli ombrelloni. Portale ricco di risorse e informazioni, dietaland.com offre una panoramica delle migliori soluzioni disponibili per perdere peso e tonificare il corpo. Possibilmente senza annoiarsi o trasformare la propria esistenza in una conse-

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igliore dei simulatori di volo gratuiti, FlightGear è un’ottima alternativa open source ai rivali di categoria commerciali. Nato per ovviare alle esigenze degli utenti insoddisfatti dai games a pagamento, il programma ha i suoi punti di forza nella flessibilità e nella possibilità di personalizzare le opzioni in base ai continui aggiornamenti. Disponibile per i maggiori sistemi operati-

adrine del vocalese, signorine dello swing che accompagnarono un’Italia povera e sognante sino alle soglie di una guerra che le spazzò via, Sandra, Giuditta e Caterinetta Leschan furono celebri come il Trio Lescano. Pioniere della radiovisione, icone irridenti di un’ironia danzante sul filo della tragedia, le Tre grazie al microfono tornano a luccicare in Tulip Time - The

”Dietaland” raccoglie consigli utili per quanti intendono perdere peso e vivere in forma

Simulatore di volo gratuito,”FlightGear” ricostruisce con minuzia aeroporti e geografia

De Stefanis e Boniotti raccontano ascesa e caduta delle sorelle Leschan in ”Tulip Time”

gna militaresca. Dallo shakti dance, preziosa variante ballabile dello yoga, agli alimenti più indicati per dare smalto alla propria abbronzatura, da puntuali dissertazioni sui dolcificanti agli accorgimenti sulla masticazione corretta, il portale fa il punto su questioni alimentari non troppo dibattute. Niente di trito, insomma, a favore di nozioni e dritte tutta sostanza. Aggiornato di frequente e di impatto grafico gradevole, dietaland.com va oltre i consueti armamentari dietetici in favore di una concezione di benessere fisico più ampia. Suddiviso in aree tematiche, i naviganti possono inviare al portale le proprie segnalazioni e fare ricerche per parole chiave.

vi, FlightGear permette di scegliere fra tre tipi di volo dinamici, presenta più di 20 mila aeroporti esemplati su quelli reali, e gode di una minuziosa rappresentazione della geografia dei luoghi sorvolati. Laghi, fiumi, strade e città, appaiono fedelmente ricostruiti sulla base dei dati satellitari più recenti. Poco ingombrante, senza troppi fronzoli, il gioco ha nel realismo la dote più apprezzabile. Non resta che individuare tra i vettori, dall’Aerostar Super 700 al Boeing 707, dall’Airbus A300 al Cessna 150L, il mezzo preferito per eccitanti avventure a molte miglia dal suolo.

Rise And Fall Of The Trio Lescano. Opera delicata di Marco De Stefanis e Tonino Boniotti, il documentario ripercorre la carriera delle sorelle a partire dai primi spettacoli circensi che le videro impegnate come acrobate. Lanciate in Italia dall’impresario Carlo Prato, indimenticate interpeti di hit intergenerazionali come Maramao perché sei morto e Mille lire al mese, le sorelle Leschan rivivono nella pellicola come testimoni di un tempo complesso che ne decretò l’ascesa e la disgrazia, e come figure femminili di straordinaria abilità artistica e aguzzo senso critico. Qualità che le resero capaci di fare televisione, prima ancora che fosse inventata, e poi, svuotata.

a cura di Francesco Lo Dico

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cinema

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Isabelle

amore nascosto, tratto dal romanzo di Danielle Girard Madre e ossa (Baldini&Castoldi) è un film sul mancato amore tra madre e figlia. Il romanzo è indubbiamente autobiografico: la protagonista ha lo stesso nome e cognome dell’autrice. Danielle è la tragédienne impenitente Isabelle Huppert, in uno di quei ruoli di cui l’attrice è maestra: una donna parecchio più in là di una crisi di nervi, inseguita da démoni interiori, pericolosa per sé e forse per gli altri. Al terzo tentativo di suicidio fallito, Danielle è ricoverata in una clinica privata, elegante, lussuosa, con pochi padi Anselma Dell’Olio zienti e tanto personale gentile e discreto. Il film è girato in una vasta gamma di bianchi, grigi e neri molto luminosi, con qualche sprazzo di colore nelle scene con la bellissima, giovane Sophie (Mélanie Laurent), l’odiata figlia della protagonista. La stupenda fotografia è del maestro delle luci Luciano Tovoli (Professione Reporter di Michelangelo Antonioni, Titus di Julie Taymor, Ciao, maschio di Marco Ferreri, Suspiria di Dario Argento) e per la prima volta si pensa al perché le cliniche psichiatriche hanno pareti e mobilia sempre di un candore abbagliante. Non solo per questioni igieniche, ma forse per offrire una tela candida, vuota, neutra, priva di segni e di coloÈ la storia dell’odio tra madre e figlia “L’amore ri, che permette ai pazienti di nascosto”, dove la tragédienne Huppert giganteggia pescare dall’inconscio e proietin uno di quei ruoli nei quali è maestra. tare in superficie (con lo psichiatra o la psicoanalista) l’in“Garage” è un film irlandese delicato e sconvolgente terminabile, ripetitivo film intecome la vita. Mentre “Terminator Salvation”... riore che scorre ossessivamente nelle loro teste. Quello di Danielle riguarda il rifiuto integrale che sen- gue e nel dolore come le bestie, non posso- rante il trasferimento in una te per sua figlia sin dalla gravidanza. Qual- no, come loro, anche distruggere i cuccioli clinica meno costosa fuori che critico ha parlato di depressione post- se vogliono. Non ama nemmeno il marito, Parigi (Sophie è stufa di paparto irrisolta. Ma quella di Danielle ha ra- Danielle, sposato per indifferenza e che lei gare la retta esosa) in cui vadici antiche dentro se stessa, perché non disprezza in quanto sudaticcio, inetto, a lei ga per le strade, si fa rimorera certo una donna felice prima, anzi; ma devoto, che «con la violenza della sua dol- chiare da un estraneo, e dola storia non si occupa delle origini della cezza mi ha costretta a diventare madre». po l’amplesso gli dice di nevrosi di Danielle, solo del suo rapporto Non ispira particolare simpatia la mam- «sperare di non essere rimamalato con la figlia Sophie. All’inizio della ma-orchessa, e semmai la nostra compas- sta incinta». L’uomo senza storia, Danielle è in clinica con la bocca sione va piuttosto alla figlia Sophie, che nome le dice di stare trancucita. Il rifiuto dell’amore materno si è come la madre è divorziata dal marito. quilla: è sterile. Danielle latramutato in un rifiuto di comunicare con Delle tre donne del film, Danielle, Sophie scia la camera e cammina sotto la pioggia, chicchessia. La dottoressa Nielsen (Greta e la psicoanalista, solo l’ultima ha un ma- e s’accascia per strada dove poi sarà racScacchi, in un’interpretazione talmente rito in carica. All’inizio ci meravigliamo colta da un’ambulanza. Il finale dovrebbe priva di vanità da essere quasi preoccu- quando (molto spesso in oversound) Da- essere tranquillizzante ma non lo è, e sempante) convince Danielle a scrivere i suoi nielle sostiene di essere «senza un lavoro e bra sconnesso da tutto quello che si sa delpensieri. (S’intuisce che la scrittrice di Ma- senza un soldo», perché la clinica è ovvia- le disfunzioni famigliari: ossia che la mordre e ossa deve aver trovato la via d’uscita mente molto costosa. Poi si scopre che a te di una persona a noi vicina detestata dalla psicosi rovesciando in un romanzo le pagare è la figlia poco più che ventenne, crea più problemi di quanto non ne risolsue angosce). La protagonista sente tutto il con i suoi soldi, non quelli del facoltoso va. Eppure la storia calamita l’attenzione, peso del tabù che offende con la sua osti- marito. Ha a sua volta una figlia piccola, e se è spesso irritante non annoia. Il film lità materna e i sensi di colpa la schiaccia- Dominique, e se ricambia l’odio viscerale non dà catarsi emotiva, ma persiste nella no. Chiede ugualmente alla psicoanalista della madre, adora la sua bambina. E non memoria, disturba e fa discutere. (Una cuperché, se le donne partoriscono nel san- si fida di Danielle nemmeno come nonna, riosità biografica del regista Alessandro e l’accusa di non essere af- Capone: è noto per commedie come Feifatto pazza, ma di recitare sbum, e fiction come Distretto di polizia, una parte per egocentrismo, più che per film d’essai.) come ha sempre fatto. Il film può essere anche irritante, Finalmente esce da noi Garage, film ircome nell’uso scontato della landese senza attori noti, invitato alla musica discordante per ri- Quinzaine des réalisateurs del Festival di flettere il conflitto interiore Cannes 2007. Il film racconta la vita di Jodella donna. La macchina sie, un uomo semplice e dolce, talmente da presa si concentra sul vi- buono e mite che sembra, e forse è, ritarso della Huppert, come al dato. È capace, però, di fare il benzinaio in solito struccata, con lentig- un garage che appartiene a Gallagher gini a vista, e sulle sue mani, (John Keogh), un suo vecchio compagno che si tormentano senza so- di scuola. Se il capo gli dice che deve lavosta, come una Lady Mac- rare più ore durante i weekend, Josie è febeth che cerca inutilmente lice di farlo. Non sospetta che il capo lo di liberarsi della colpa. C’è sfrutta, in attesa di vendere bene la prouna fuga della malata du- prietà isolata, fuori da un piccolo centro

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nel gorgo del senso di colpa

rurale. Ma non è incapace di intendere e volere. Quando Josie (Pat Shortt) viene brutalmente maltrattato, se ne accorge eccome, anche se la sua protesta consiste solo in qualche parola sommessa. Le sue giornate scorrono tranquille: apre e chiude con cura il garage, saluta tutti con gentilezza e un sorriso e si preoccupa di sistemare la rastrelliera con i barattoli d’olio al posto giusto. La sera fa la spesa prima di rincasare, e saluta la bionda cassiera (Anne-Marie Duff) che ama senza speranza. Beve una birra al bar, poi torna a casa, si prepara la cena e ascolta la radio prima di dormire. Il suo più caro amico è un cavallo solitario e mansueto come lui, legato dentro un recinto. Lo saluta con affetto e gli regala mele succose. Un amico umano poi arriva. È David (Conor Ryan), figlio adolescente della donna di Gallagher, mandato a imparare il mestiere di garagista. Bevono la birra in silenziosa compagnia, guardano insieme le luci del tramonto. Un giorno un amico camionista lascia a Josie una cassetta porno: «Le regalano perché ci sono i dvd». Josie è candido, ma sa di che si tratta, e usa la parola «pervertito»; ma guarda il filmato e sorride. Nella sua totale assenza di malizia lo fa vedere «per gioco» al minoren-

ne, che reagisce scappando via. La vergogna di David sorprende il pur sensibile Josie, stupito dalle turbe del ragazzo, al quale si è affezionato; per lui era solo un gioco. La storia ha una svolta inaspettata e drammatica: coinvolge la polizia, il ragazzo, il cavallo e il lago dove Josie andava per svago con David e i suoi amici. È un film profondo, delicato e sconvolgente come la vita. Esce in poche copie in una stagione ingrata per il cinema. Da non perdere.

Terminator Salvation è un film-confezione di raro divertimento. Ha un passo veloce, ritmato, è scritto e diretto molto bene, e gli effetti speciali e le scene di battaglie sono buoni. Figli e mariti saranno contenti, e le donne non moriranno di noia. Christian Bale nei panni del Resistente John Connor è bravo come sempre, ma la vera rivelazione è il co-protagonista Sam Worthington, il misterioso Marcus Wright, sexy e molto bravo. È notevole anche Moon Bloodgood, atletica e conturbante anche più di Linda Hamilton nel Terminator del ‘94. Si vede perfino un giovane e virtuale Arnold Schwarzenegger, prima della sua avventura politica. Un film per tutti in una notte di tarda primavera, che arriva perfino a commuovere con una storia di esseri umani contro androidi.


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poesia

Bodini, una poetica tutta da svelare di Francesco Napoli ell’intera opera poetica di Vittorio Bodini, nato a Bari ma da famiglia leccese, classe 1914, scomparso nel 1970, possono essere forse identificati alcuni libri fondamentali. Il primo è La luna dei Borboni e altre poesie (1962), dove realtà e simbolo si fondono nella «visione» dell’archetipo lunare-materno irradiato nel paesaggio «dove ogni cosa, ogni attimo del passato/ somiglia a quei terribili polsi di morti» (Foglie di tabacco, 4), nel lavoro umano e negli affetti famigliari della «piccola patria» salentina («umili luoghi dove termini,/ meschinamente, Italia, in poca rissa/ d’acque ai piedi d’un faro», Finibusterrae), sempre arcaica e viva per il nostro, esemplare e se si vuole un po’ amara, imbevuta in quel surrealismo spagnolo («Cade a pezzi a quest’ora sulle terre del Sud/ un tramonto da bestia macellata», Foglie di tabacco, 5). Sarà poi proprio il surrealismo spagnolo fonte per Bodini di un continuo confronto non solo nel tradurre poeti di quella corrente ma anche come costante alimento della propria poetica. Il secondo libro potrebbe essere quel Metamor (1967), versi di una appassionata partecipazione alla crisi anni Sessanta, e, a ben vedere, anche i frammenti di Collage, apparsi postumi nel 1972 in un attento quanto amorevole Tutte le poesie di Oreste Macrì, difensore e mentore critico del poeta leccese.

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LECCE Biancamente dorato è il cielo dove sui cornicioni corrono angeli dalle dolci mammelle, guerrieri saraceni e asini dotti con le ricche gorgiere. Un frenetico gioco dell’anima che ha paura del tempo, moltiplica le figure, si difende da un cielo troppo chiaro. Un’aria d’oro mite e senza fretta s’intrattiene in quel regno d’ingranaggi inservibili fra cui il seme della noia schiude i suoi fiori arcignamente arguti e come per scommessa un carnevale di pietra simula in mille guise l’infinito Vittorio Bodini da La luna dei Borboni e altre poesie

Vittorio Bodini è stato un poeta dal pirotecnico carattere per il quale non può sorprendere perfino una partenza tardo futurista quando, appena diciottenne, dà corpo a un curioso slancio provinciale verso il maestro Marinetti, «torrente instancabile di fede Futurista» (A F.T. Marinetti), in un futurismo dell’ultima ora che si fonde in altri testi coevi con residui di tradizione postromantica - Pascoli, Carducci e crepuscolari - «le testine pazze/ di 100.000 papaveri/ si piegano accalorate/ sul filo tremulo/ dei loro gambi» (Vecchio e nuovo in campagna). Per questo futurismo ritardato, negli ultimi anni della sua esistenza entrerà in contatto, e anche frizione, con le neoavanguardie anni Sessanta italiane che lo accarezzano e lo blandiscono. Un po’ più in piccolo quello che fu fatto per il grande Aldo Palazzeschi quando la Neovanguardia era alla ricerca di padri autorevoli e storici del proprio fare. Verrà anche per Bodini, poi, un risciacquo in Arno della poesia all’altezza della fine degli anni Trenta. Ma il «bagno» durò poco, prima di rientrare fino al 1944 nella fossa di Lecce, per fortuna sua, o almeno così ritenne che andarono le cose quando in un racconto edito postumo da Renato Aymone (Firenze) sentì di esprimersi in questi termini: «La brevità della mia esperienza ermetica mi lasciava libero di cercare alla fine dello sfacelo nazionale un’altra via, un altro linguaggio poetico». Giunse poi nel 1944 a Roma laddove il suo ermetismo, più intriso di Gatto che dei fiorentini, iniziò a fondersi con

il barocco. La capitale è per il poeta pugliese anche l’inizio di un progressivo e compiaciuto avvicinamento alla poesia surreale spagnola. Ma nel far questo insegue un po’ anche se stesso. Insegue una particolare vena onirica che ritrova nei sempre più amati iberici: il tono di nenia di Larrea, l’infanzia di Alberti e le ninnenanne nella poetica di Lorca. Bodini però appare attento a non confondere il vuoto surrealista con l’assenza mallarmeana, stando con decisione dalla parte spagnola, vivendo così nella sua poesia una sorta di ispanismo di ritorno.

I primi contatti sono all’altezza della metà degli anni Quaranta quando, come appena accennato, lascia la sua amata terra salentina per andare a Roma. Siamo ancora in una fase di Spagna previssuta e pregustata nelle voraci letture e nelle fitte traduzioni, specialmente di poeti del Novecento iberico, battistrada Carlo Bo. Bodini sta meditando di raccogliere una prima volta La luna dei Borboni, nel 1952, e manca poco al suo viaggio in Spagna: l’ermetismo bodiniano si arricchisce di intrusioni barocche («per me il barocco è rivolta» scrive in una lettera dell’aprile 1946), un barocco teso tutto sulla linea Ungaretti-Scipione-Mafai che si mescola con la riscoperta spagnola di Gongora e una traduzione dello stesso fatta da Ungaretti consultando proprio Bodini. Si sta allora affacciando in Bodini la luna sfregiata, cattiva e insanguinata, salentina e lorchiana allo stesso tempo di Nozze di sangue, figurazione complessa della Madre Terribile, Patria Ingrata e altro ancora. Si demonizza la bestia («Un cavallo furioso e disumano/ divorava a ogni mamma il suo bambino», Notturno); si scinde il nesso luna-madre («Rosse lune salivano nei prati/ armano contro i teneri vagiti/ dei propri figli il braccio delle madri;/ o i denti che risplendono d’un tristo/ incantesimo d’odio», Se dell’infanzia); regredisce il poeta con la madre «breve stanza in tenebra nell’infinito (…) eri tu il pianto (…) ed io piccolo come un pennino sgangherato:/ ero il silenzio, e seppi che ti odiavo», Cosa dire). Unico nel panorama italiano della poesia del Novecento appare il percorso di Vittorio Bodini, un’unicità che l’ha relegato ai confini forse per quel temperato irrazionalismo quasi romantico-simbolista che lo contraddistinse, unito alla magia filosofica della sua terra («Tu non conosci il Sud, le case di calce/ da cui uscivamo al sole come numeri/ dalla faccia d’un dado», Foglie di tabacco 1). La poesia bodiniana ha come attraversato e poi lasciato alle spalle un po’ tutte le esperienze del Ventesimo secolo: dal futurismo preistorico all’ermetismo, dal barocco ispanicoromano al surrealismo fino all’informale di Metamor. Ma nulla sembra aver aderito alla sua poetica in maniera definitiva, come se Bodini sia sempre rimasto aderente a se stesso in una poetica ancora tutta da rivelare.


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il club di calliope A VIA CAVOUR Sono venuto al mondo dopo la mareggiata, in una strada altera di Ravenna, una fila di logge appese ai muri, i vicoli sui fianchi, generati dal buio, e le grida dei giocatori con il re sfolgorante tra le dita di mio padre. Mi dirà che sul muro di fronte un manifesto argento e nero annunciava “non praevalebunt, vincerà la vita”, e già sceglieva il posto entro le mura rosse del Candiano, un canale di navi e di defunti che iniziava in città, davanti alla stazione.

UN POPOLO DI POETI Piccola sirena, tu Venuta da mari e oceani Primo angelo su questa terra Eri là, come per mantenere una promessa Così impaurita dai miei occhi Ti ho imbrogliata per incontrare il tuo sguardo Così dolce, così nostalgico Angelo della vita Come potrebbe un padre Rimproverare sua figlia? Forse non conosco il tuo nome Ti ho chiamato Gioia E se il mare bussasse alla mia porta Saprei da dove sei venuta Dolce figlia, sei così ricca Canto di Sirena Alberto La Femina

Sergio Zavoli da La parte in ombra (Mondadori)

QUANDO LA MALATTIA SI FA PERSONA in libreria

di Loretto Rafanelli escrivere il sé e il mondo attraverso gli occhi della malattia, questo è un esercizio a cui sono ricorsi numerosi autori, da Nietzsche a Kafka, da Mann a Bufalino. La malattia come straordinaria occasione interpretativa e creativa e come metafora del mondo. In alcuni scrittori si trattava di un’implicazione puramente letteraria, che, comunque, li portava a ribaltare l’ottica delle cose e le normali re-

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da noi, poeta fiorentino Piero Bigongiari, morto nel 1997, di cui si è interessato settimane fa proprio su queste pagine Francesco Napoli. Iacuzzi nel suo libro, proprio perché mosso da personali esigenze espressive, non segue, crediamo, i canoni poetici del maestro, piuttosto i suoi riferimenti sono Ezra Pound, Eliot, Walcott, Heaney e altri poeti internazionali. Il modello è la struttura poematica. La sua esigenza quella di non racchiudere il rac-

Angelo azzurro che sei sempre nel mio cuore che vedi sbocciare gli amori e poi li vedi appassire tra i raggi del sole, guarda i miei occhi bagnati da lacrime di dolore per un amore fuggito via negli scuri abissi del cielo. Angelica Marcone

In “Rosso degli affetti” Paolo Fabrizio Iacuzzi traccia un bilancio amaro di un disagio personale e collettivo. Con una scrittura originale che sfugge ai canoni minimalisti di oggi lazioni umane. Ma per altri, invece, lo stato di malessere era reale, fisico: allora qui la letteratura lascia il posto a una lacerante sofferenza, che modifica radicalmente la prospettiva, soprattutto nella quantità e nel tono di ciò che si deve dire. Ad esempio, è probabile che lo scrittore risulti una sorta di megafono incontrollato dei disagi propri e del mondo, e che il linguaggio divenga una iperbole della realtà, con un conseguente magmatico fiume di parole. Insomma, quando la malattia si fa persona allora ne discendono ben altre conseguenze e non di rado nella versificazione emerge un intricato coacervo linguistico esistenziale, con tentativi anche esasperati di scrittura totale. Crediamo, senza averne la certezza, ma rifacendoci ad alcuni cenni della nota, bella, di Ernestina Pellegrini, che questo sia il caso di Rosso degli affetti di Paolo Fabrizio Iacuzzi (Aragno Editore, 104 pagine, 12,00 euro). L’autore, quarantenne toscano, è il curatore, meritorio, degli scritti del grande e amato, almeno

conto umano nella «tirannide» della sintesi ermetica (come era dei fiorentini da Luzi allo stesso Bigongiari). Certo è che questa poesia si presenta come sicura novità, come ebbe a dire in più occasioni Giovanni Giudici. Scrittura originale perché esce dai canoni monotematici e intimistici, afasici e minimalisti di molta poesia di oggi. Iacuzzi ci pare invece che intenda costruire una grande storia, magari un libro di marmo, descrittivo della vita dei nostri tempi, partendo da spezzoni di vita familiare («Come fu la tua infanzia?/ Fu strana. Attraversata da queste foto/ del babbo e della mamma…/ L’infanzia fu il mare dei miei»), che sembrano vere e proprie sequenze cinematografiche sugli anni Sessanta-Settanta. Solo che questo affresco è tracciato con il sangue, con la carne di un soggetto martoriato, dove brandelli di organi umani compongono e strutturano la poesia. Una dolenza sentita, il bilancio amaro di un disagio personale e collettivo. E la luce? In fondo, appena.

Una piena euforia che porta alla estranietà, le immagini si susseguono veloci e ci si perde nel niente e i pensieri sono confusi e offuscano e improvvisamente cerco di sfiorare quel viso perfetto, irreale, che mi sbrana come una fiaba quella immagine poi se ne va e finisce il freddo sonno. Giulia Morcaldi

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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pagina 14 • 6 giugno 2009

mostre

on era certo un innovatore, Johann Martin von Rohden, basterebbe confrontarlo con quell’altro grande e lui sì vero sperimentatore francese di vedute e tableautins, e quasi suo contemporaneo, Granet, per vedere l’abisso. Ma lo sappiamo bene, ormai, che non si vive di sola innovazione, e la sua visione diligente e meticolosa del mondo, ha le sue debite ragioni d’esistere, anticipando quella poetica del vero naturalista, che avrebbe poi trionfato di lì a poco, nell’Ottocento positivista: paesaggismo spento e decantato, che avrebbe nutrito anche i taccuini romani di Zola. E siamo grati a questa fedele esposizione alla casa di Goethe, che ci permette di recuperare un antecedente (certo più pedante) del vedutismo di Corot, nella Roma nazarena e pre-romantica, e un artista singolare e molto elogiato, dai compatrioti (perché ricco e fortunato) che soltanto a inizio Novecento è stato riabilitato e riscoperto da uno storico esigente come Hugo von Tschudi: «Proprio come Kock, anche Rohden dipinge la campagna circondata dall’esile profilo dei colli Sabini e dalle cascate di Tivoli, ma in realtà un profondo divario separa le due concezioni pittoriche e proprio qui le strade dei due artisti si dividono nettamente: l’uno difatti conduce a Boecklin, l’altro agli Impressionisti». In effetti Rohden cancella con la sua probità un po’pedante e una rigorosa verosimiglianza pittorica, che rispetta ogni mimino anfratto di grotta e ogni nervatura di foglia, qualsivoglia ombra di mistero presimbolista e ogni tentazione di tensione sublime: non c’è posto in questa sua natura à la Lorrain per satiri o sorprese. Preferisce raccontare ogni volta un cielo terso e un poco polveroso (come Picasso, non permetteva che nessuna scopa o domestica entrasse nel suo studio, ma solo che un fiasco d’acqua fresca irrorasse puntualmente la polvere naturale del suo atelier, visitatissimo... ma che abisso nei confronti della lucida follia dello spagnolo!) si diletta a rimettere a posto le figurine dei suoi paesaggi, quasi fossero decalcomanie, come una adolescente, che giochi con gli abiti delle bambole: frammenti di cartoline del cuore, da rimontare ogni volta in un puzzle, meticolosissimo e modulare. Anche quando (in modo simmetrico ma diversissimo da Granet) dipinge l’interno d’una grotta d’eremita, o l’arco naturale d’una cascata, dalle parti dell’amata Tivoli, la luce un po’frigida e impomatata di cera, del suo riconoscibile stile basso, caldo, convalescente, fruga dappertutto, bonifica la veduta stessa d’ogni ombra sospetta, neutralizza ed esorcizza ogni effetto di pathos (in questo senso è ancora davvero

N

Von Rohden luce, colore e fedeltà di Marco Vallora

arti

un illuminista. Ma stanco di cercare: non inventa nuovi itinerari, non sperimenta i capricci di nuvole e tempeste, forse nel senso di Tschudi, anticipa però la devozione impressionista alla verità dei mutamenti metereologici. Ma non è capace di sperimentare la romantica nuova ansia metereopatica). È curioso, perché chi evoca in modo anche contradditorio (è una vera leggenda locale vivente) la sua verve incontenibile di narratore d’aneddoti (lo chiamano «il gran bugiardo») e la sua stazza imponente di cacciatore, in stile Tartarin di Tarascona (lui è perennemente a caccia di qualche dettaglio pittorico) ne parla sempre come d’un uomo vivace, elettrico, spiritoso. Esattamente il contrario della sua pittura, pedissequa e forbita, un po’esalante lo spirito del tramonto (per celiarlo, dicevano che dipingesse pure il retro delle sue foglie, anche se non si potevano vedere. Paradosso quasi viscontiano) e lui stesso, che doveva essere davvero simpatico e spiritoso (quando tornava da caccia con il carniere vuoto, sosteneva che almeno l’aveva riempito di aneddoti divertenti) ogni tanto s’annoiava a stare nel suo studio, dove la grande tela «in corso» era capace di rimanere sul cavalletto anche per vari anni. E lui, invidioso della verve di Kock o del successo di Hackert, non ne poteva più, di se stesso: del resto forse è uno dei pochi casi d’artista (con Balthus) che può vantare, nella sua longeva vita di nonagenario, il record (negativo) di 27 tele a olio e meno d’un centinaio di disegni (godevolissimi e puntuali: lo si evince anche dalla mostra, che espone pure un grand’abbozzo di Veduta di Subiaco non terminato, e che ci permette di studiare così il ruminante laboratorio del suo lentigrado procedere). Perché allora fortunato? Perché non solo riesce a evadere dal suo freddo staterello germanico (a 17 anni è già cittadino di Roma, in patria non ci ritorna quasi più) ma riceve pure laute prebende dal suo avaro Principe Elettore (e tutti ne sono più che sorpresi), non ha problemi di committenza, con quello stipendio fisso e in più ha sposato pure la ricca figlia del locandiere di Tivoli. Che cosa si vuole di più (era rincorso persino, secondo il favolista Grimm, lo scrive pettegolo a Von Arnim, da muse adoranti, che non gli davano tregua, come quel «sanguinaccio poetico» d’una volitiva poetessa, che «s’era messa appositamente in ghingheri per lui»)? Forse un po’ più di fuoco. Ma non si può chiedere di darsi del genio a chi non ce l’ha. «Luce, colore e fedeltà alla madre terra!».

Johann Martin von Rohden. 1778-1868, Roma, Casa di Goethe, fino al 21 giugno

diario culinario

Trifola e grandi carni nell’Angolo d’Abruzzo di Francesco Capozza n luogo pieno di calore dove passare qualche ora di autentico piacere coccolati da una delle più belle famiglie della ristorazione italiana. Quest’Angolo d’Abruzzo (risparmiato dal terremoto) vi farà commuovere per la cura e la ricerca dei prodotti (commuovere, sì, questo è l’unico termine adatto a esprimere la sensazione procurata dall’assaggio della meravigliosa ricotta servita ancora tiepida come antipasto e accompagnata da fragranti pani fatti in casa), per l’amorevole cura di ogni piccolo dettaglio (dall’apparecchiatura alla piccola pasticceria servita con l’ottimo caffè), per l’immensa cantina - una delle più importanti del Belpaese - dai ricarichi onestissimi (noi abbiamo scovato una Barbera d’eccezionale opulenza, il Bricco dell’Uccello-

U

ne 1996 di Braida a soli 50,00 euro), per gli impagabili sorrisi offerti a profusione da Lanfranco Centofanti e dai suoi due giovani ma già molto esperti figli. La cucina si basa sul patrimonio gastronomico d’Abruzzo e sui meravigliosi prodotti tipici della zona (soprattutto, in stagione, funghi e tartufi). I piatti, tutti di grandissimo livello, sono il risultato di sapiente creatività, equilibrio e tecnica che la famiglia Centofanti impiega da anni per ricercare materie prime selezionatissime che si trasformano in proposte spesso indimenticabili. Si inizia con un benvenuto della casa, un ottimo Cà del Bosco millesimato accompagnato da un cannolo di pane croccante farcito di purea di melanzane affumicate e da una zeppola di ricotta di pecora (insuperabile). Tra gli antipasti sarebbe un peccato non assaggiare i salumi - alcuni affinati dallo stesso Lanfranco nella sua

cantina - e le bruschettine con patè di funghi e tartufi rigorosamente fatti in casa, ma anche l’uovo al tegamino con gli orapi strascinati (una verdura di campo rarissima) merita l’assaggio. Immergersi nella lettura dei primi piatti è una gioia per l’immaginazione palatale ma un dilemma per la difficile scelta: tutte le paste, infatti, vengono fatte in casa in maniera artigianale (col mattarello, per intenderci) e arricchite da intingoli lussuriosi dal nome all’assaggio: su tutti consigliamo le pappardelle al ragout d’agnello o il risotto (selezione Aquerello) con orapi e ricotta salata. Passare al secondo, dopo tanta gola, potrebbe sembrarvi difficile, ma se volete un consiglio sarebbe un vero peccato non gustare le grandi carni locali cotte sulla griglia (tenuta sott’occhio dal proprietario in prima persona). Un tripudio di agnello, braciole di maiale, spuntatu-

re di vitello e scamorze davvero irresistibile, il tutto accompagnato da una semplice cicoria ripassata in padella o da veli di patate fritti in olio extravergine d’oliva. Inutile dire che il capitolo dolci è irrinunciabile e che la scelta andrà comunque a buon fine: dal panetto del pecoraro (ove torna a far capolino l’eccellente ricotta) al semifreddo alla nocciola dei boschi limitrofi. Grandiosa la selezione dei distillati, dai rum alle grappe locali passando per una formidabile scelta di armagnac e cognac. Da qualche anno Lanfranco ha deciso di valorizzare il vero e proprio tesoro che riposa nella sua cantina e così, accanto al ristorante, ha aperto un grazioso (e goloso) wine bar, aperto solo la sera. Al ristorante si spendono sui 55,00 euro.

Angolo d’Abruzzo, Piazza Aldo Moro 8, Carsoli (Aq) tel. 0863997429


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6 giugno 2009 • pagina 15

moda

Nell’era del pigiama party il privato diventa pubblico di Roselina Salemi arebbe un argomento molto privato, la lingerie. Se troppo sexy suggerisce l’idea di signorine equivoche, ammantate di pizzi e piume di struzzo «per serate particolari», rovinafamiglie comunque. Ma è diventato fashion, intanto perché è l’unico settore in crescita (vedere per credere i conti dei vari Intimissimi e Yamamay) e poi perché anche le firme nobili della moda hanno messo in campo push-up e brasiliane, string e completini maculati con bordi di pizzo rubandosi testimonial di prima scelta, da Adriana Lima a Monica Bellucci, passando per Victoria e David Beckham senza dimenticare David Gandy. In principio era Victoria’s Secrets, storico marchio americano, le cui sfilate sono diventate leggenda. Modelle guarnite con veli e piume, ali di farfalla e ali d’angelo, metri di tulle, pietre dure e cristalli. Modelle famose e strapagate. Insomma, non più mutande, ma strumenti di seduzione, in linea con le tendenze. Certo, all’inizio i prezzi erano alti (il top di gamma in Italia è sempre stato La Perla), ma poi è arrivato anche nell’intimo il fenomeno low cost che ha fatto la fortuna di Zara e H&M: cosette carine, divertenti, economicamente sostenibili. A firmare lingerie ci si sono messe in tante: dall’icona sexy del burlesque (Dita von Teese) alla Monroe de noantri (Valeria Marini) e, più i tempi sono deprimenti, più si cade in tentazione. Senza voler fare troppa sociologia, anche questo è il frutto maturo della crisi: anziché l’abito compri la sottoveste. In più, abbiamo le star a dare l’esempio e chi avesse la curiosità, può sapere che Paris

S

archeologia

Hilton ama i reggiseni con le fragole e Cindy Crawford i completini rossi. Il passo successivo è: ma se sono così chic, e per giunta firmati, perché non farli vedere? Non è più la provocazione di Madonna, ai tempi scandalosa, è piuttosto un esorcismo della noia, che ha preso il posto del diavolo. Ed ecco Pamela Prati che mostra il reggicalze, ecco il dibattito sulle autoreggenti del ministro per il Turismo Michela Brambilla, le spalline del reggiseno sexy di Kate Moss, il pizzo che spunta fuori dalla scollatura di Simona Ventura nella familiare domenica pomeriggio di Raidue. Dappertutto un occhieggiare, un intuire, un gioco di trasparenze, stringhe, gancetti del tanga in bella vista su fondoschiena femminili, elastici firmati Calvin Klein o Dolce&Gabbana che sbucano dai jeans maschili, strappicchiati e stinti, una promessa su che cosa c’è sotto,come una confezione regalo fatta per ingolosire o per stupire. Sembra normale, sembra una delle tante stramberie destinate a passare, macinata dal tempo, a suscitare orrore, quando una ventina d’anni dopo si guarda l’album delle fotografie, ma proprio perché nessuna moda è neutra, nessuna è innocente, mai, anche questo capitale di lingerie non ancora intaccato dai tagli, anzi gioiosamente esibito, è il segnale di un’altra frontiera caduta, di un altro muro crollato in silenzio. Il privato è diventato pubblico, come nella cupa profezia di Jean Baudrillard, come nell’ultimo Marcuse. Siamo tutti invitati a un grande pigiama party e non ce ne eravamo accorti.

I progressi della ricerca attraverso i tessuti copti di Rossella Fabiani e l’avvio ufficiale dell’indagine archeologica in Egitto è legata all’opera e alla figura di Mariette, creatore del Servizio delle antichità egiziane al Cairo, è doveroso riconoscere che né l’uomo né il suo progetto hanno avuto vita e avvio facile. Lo stesso Mariette amareggiato si rende conto che si continua a rilasciare firman operativi a individui la cui unica qualifica culturale appare quella d’essere résident depuis longtemps en Egypte et… qu’on cherche à satisfaire. Un destino che s’applica a tutte le opere dissemi-

S

nate sul territorio egiziano: dall’epoca faraonica alle prime età islamiche. Un periodo, quest’ultimo, per il quale è cruciale, nel mese di dicembre 1881 (stesso anno di morte di Mariette), il decreto che dà vita al Committee for the preservation of islamic and coptic monuments in Egypt a firma del Khedive Tawfiq. Prima preoccupazione del Comité è la redazione del primo inventario dei monumenti d’arte islamica e copta presenti in Egitto. È in questo clima che il tessuto copto assume un ruolo determinante grazie alle figure di Georg August Schweinfurth, del canonico Franz Bock, Gaston le Breton Vladimir de Bock, Albert Gayet, Emile Guimet ed Ernesto Schiaparelli. Quando Georg August Schweinfurth si stabilisce al Cairo, al tessuto viene per la prima volta dedicato un interesse veramente scientifico. Tuttavia anche in questo settore, la presenza dei mercanti antiquari è, come certifica il dono di alcuni tessuti fatto da Nicolas Tano al Museo del Louvre nel 1884, ancora agguerrita. Nel 1885 il canonico Franz Bock, dopo essersi applicato alla creazione di una collezione di tessuti medioevali provenienti dalle chiese belghe, olandesi, tedesche e svizzere, decide di recarsi in Egitto. I numerosi frammenti da lui raccolti provengono da scavi non ufficiali condotti ad Akhmin. L’anno successivo, nel 1886, T. Graf è impegnato nella ricerca di

tessuti nella località di Arsinoe. Tre anni dopo, mentre Alois Riegel è impegnato alla redazione del catalogo dei tessuti copti della collezione Graf approdati nella città di Vienna, Gaston le Breton chiede al ministero dell’Istruzione pubblica francese di raccomandarlo al console di Francia al Cairo. Scopo del viaggio è l’acquisto di pezzi utili all’allestimento di un museo simile al South Kensington Museum e del Museo des Tyssus di Lione. Nei primi mesi del 1889 le Breton, insieme al mercante Nicolas Tano e a Daniel Fouquet, è ad Akhmin negli stessi scavi che avevano permesso a Gaston Maspero di mettere in luce un cimitero d’epoca greco-romana. Nomi di siti quali Er Rubayat, Abousir el-Melek, Hawara e Akhmin entrano nel lessico ufficiale, ma la ricerca ancora soffre d’inesperienza e pressapochismo. Punto di svolta in questo settore è il 1894: anno nel quale l’industriale Emile Guimet chiede e ottiene dal ministero degli Affari esteri francese una lettera di raccomandazione che lo accompagna in un viaggio di studio sulla diffusione del culto della dea Isis nel bacino del Mediterraneo. Il Guimet si reca prima in Italia e poi in Egitto (Dahchour, Fayyum, Karnak) dove ha modo di frequentare Jacques de Morgan, nuovo direttore del Servizio d’antichità, che autorizza il Guimet a scavare nella zona d’Antinoe. Da questo momento lo studio del tessuto copto uscirà trasformato. È infatti proprio attraverso le campagne di scavo condotte ad Antinoe che i tessuti copti arrivano in Francia stimolando nuove attività di ricerca e studi più approfonditi. Che continuano ancora oggi.


ai confini della realtà Gli epigoni del nomadismo

pagina 16 • 6 giugno 2009

essere & tempo

l comportamento nomadico è sicuramente iscritto nel codice genetico. Si tratta di una motivazione primordiale associata alla sopravvivenza della specie. I nostri progenitori si allontanavano da casa per giorni alla ricerca di cibo oppure si portavano dietro tutta la famiglia o la tribù verso nuove zone di caccia. Se non avessero avuto questa spinta all’esplorazione non sarebbero sopravvissuti, seguendo né più né meno un comportamento che condividevano con tutto il restante regno animale. Qualcuno di loro deve essere anche andato al di là delle necessità genetiche e del bisogno fondamentale di nutrimento altrimenti non si spiega come alcune popolazioni siano finite a decine di migliaia di chilometri dal loro punto iniziale di partenza e in zone molto più impervie di quelle da cui erano partite. Se si pensa che l’homo sapiens sarebbe originario dell’Africa, come mai è finito in Siberia? Non erano sufficientemente ospitali le zone temperate? Ma anche la colonizzazione del Nord America lascia delle domande aperte. Era poi così necessaria la conquista del West? Non si potevano fermare prima? Alla fine si sono accumulati tutti in California.

I

Con l’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento degli animali da parte di qualche pigro o furbo del tempo, il nomadismo divenne sempre più inutile ed è rimasto radicato in pochissime popolazioni, neanche fra le più fortunate (vedi rom e beduini), mentre la caccia viene ancora praticata da patetici personaggi che tentano di giustificare l’uccisione di tordi con un istinto naturale irrefrenabile. La tendenza alla stanzialità portò come conseguenza naturale la fondazione delle città dove la maggior parte della popolazione del pianeta si è sistemata abbastanza comodamente. In tutta questa evoluzione antropologica ultramillenaria, una o più volte l’anno, la pressione dei geni, mai del tutto sopita, sale e la razza cittadina sente la necessità di seguire le gesta degli antenati e prendere il cammino delle vacanze. Alcuni, di pressione genetica bassa, prenotano anno dopo anno la stessa pensione o appartamento (quando vado in vacanza mi piace stare comodo, come a casa), non potendo permettersi seconde case marinare o montane piene di cose smesse dalla città, vecchi arredamenti, lenzuola troppo usate, materassi scomodi, soprammobili ridicoli e tutto un po’ più piccolo: soggiorno, letti, bagni, terrazzo. In genere vengono «aperte» due o tre settimane prima del fatidico arrivo durante spedizioni di fine settimana. C’è chi prova a resistere al richiamo atavico della partenza e rimane in città apprezzandone lo svuotamento e l’ondata di eventi

MobyDICK

di Leonardo Tondo

La spinta all’esplorazione è iscritta nel nostro codice genetico. Ma dall’homo sapiens a oggi, sono cambiate le motivazioni. Una volta era la sopravvivenza della specie, poi sostituita da una più confortevole e civilizzata stanzialità. Oggi sono le vacanze più o meno intelligenti a spingerci verso altri lidi...

simil-culturali (vacanze intelligenti, parte prima). Sono gli stessi che ridacchiano delle telecronache di file chilometriche verso i vari litorali (salvo cercare un invito per il Ferragosto ovunque) e si vantano di passare l’agosto in città. Come se tutti gli sfigati obbligati a prendere ferie quando chiudono fabbriche, uffici e negozi non farebbero lo stesso anziché rimanere intrappolati nei traffici autostradali e pagare doppio in alberghi e ristoranti pur essendo anche i meno affluenti. Poi, però, il cittadino ferragostano lascerà la città a suo piacimento verso l’Umbria o le Langhe per i sapori e odori pre-autunnali, l’India dopo i monsoni o i Caraibi post-uragani (vacanze intelligenti, parte seconda).

Ma siccome tutta l’orchestra del viaggio e del comportamento esploratorio è diretta dalla dopamina del cervello, i giovani, più dopaminati di tutti, sono quelli con la più alta voglia di partire, di andare senza una meta precisa purché si viaggi. Al contrario dei vecchi che preferiscono piccoli spostamenti verso lidi conosciuti. Per non dire poi dei molti nonnetti a cui si fa il favore di non essere spostati e vengono lasciati in città senza aria condizionata. La segreta speranza è che non resistano e lascino le due stanze e cucina al nipote precario che non potrà accedere a un mutuo per i prossimi trent’anni. Invece, il normale bisogno di esplorazione spinge la maggior parte dei comuni mortali a partire e tornare raccontando le imprese durante appositi incontri con famigliari e amici che sostituiscono le varie saghe di tradizione nordica. Narrano di alberghetti deliziosi a costi irrisori per camere doppie e prime colazioni; di risparmi di dieci euro dopo aver passato ore a controllare tutti i siti possibili da Trip Advisor in giù; di ristoranti trovati per caso dopo aver sbagliato strada dove hanno mangiato la migliore faraona al forno con funghi o i rustichelli alla mandorla, come quelli di una volta. Ma anche di Maldive di sogno (tacendo sui nubifragi estivi). E, naturalmente, non sarebbe una saga senza la proiezione di foto o video digitali che riescono a distruggere storiche amicizie mantenute faticosamente negli anni, un po’ per la noia mortale e un po’ per l’invidia. Supporti digitali fissi o in movimento a testimoniare la più recente avventura nel mondo, raccolti durante abbuffate bulimiche (tanto non costano nulla), catalogati, numerati e ritoccati a futura memoria ma che raramente verranno rivisti. Forse le scopriranno dei nipoti curiosi nel vecchio computer del nonno sempreché i programmi di accesso nel frattempo non saranno radicalmente cambiati (rivincita delle foto stampate).


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