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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

“Cadillac Records” di Darnell Martin

ETTA, LEONARD E GLI ALTRI

di Anselma Dell’Olio e si ha un po’ d’amore per la musica, Cadillac Records, sugli anni gloriosi del blues di Chicago e della Chess records, la compagnia discografica che l’ha reso famoso, è un film da non perdere. Il film racconta le avventure degli storici compositori, musicisti e cantanti di colore che hanno creato il leggendario suono, e dell’accortissimo immigrante polacco che li ha imposti per la prima volta all’attenzione di un pubblico vasto e trasversale, liberando il loro genio dal ghetto della race music. È un film musicale di biografie multiple, un ritratto di gruppo che copre una ventina d’anni, riuscito oltre l’immaginabile. Era un’impresa da far tremare i polsi, perché se è già difficile fare bene un film biografico anche su una sola persona, figuriamoci su sette, diversissime e piuttosto complicate. I protagonisti di questa miracolosa schiatta di talenti si chiamano Muddy Waters, il mitico cantante e chitarrista (un formidabile Jeffrey Wright), Little Walter, armonicista, chitarrista e cantante, un indiavolato ribelle con la miccia cortissima (Columbus Short, una rivelazione), Howlin’ Wolf, bluesman supremo sfuggito al cliché dell’artista nero sperperatore delle proprie finanze (Eamonn Walker). E ancora l’immortale Chuck Berry, il chitarrista-cantautore responsabile, secondo autorevoli storici musicali, della trasformazione del blues in rock ‘n roll (il rapper rockettaro Mos Def), e Willie Dixon, figura chiave nel lancio dei Chicago Blues, altissimo ex campione di boxe (vincitore dei pesi massimi ai Golden Gloves), ex galeotto, bassista, cantautore e produttore discografico. La narrazione (sporadica e mai fastidiosa) è affidata al suo personaggio, incarnato dall’eccellente, accattivante Cedric the Entertainer, nome d’arte di Antonio Kyles, attore e comico. In un cast ferocemente dotato, due gemme brillano con particolare fulgore.

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Da non perdere il film sugli anni gloriosi del blues di Chicago e sul discografico Chess che ha liberato questo genere musicale dal ghetto della “race music”. Grande colonna sonora, cast e sceneggiatura eccellenti

9 771827 881301

90530

ISSN 1827-8817

Parola chiave Eroe di Sergio Belardinelli New York Dolls eclettici con le rughe di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Quell’incauto viaggio sul cocchio del Sole di Roberto Mussapi

Ryszard Kapuscinski professione reporter di Enrico Singer L’Arcadia del Nord sognata da Morselli di Pier Mario Fasanotti

Artisti dell’Urss e Louise Nevelson di Marco Vallora


etta, leonard e gli

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segue dalla prima

manti Cadillac dopo i primi successi discografici, e con i loro stessi soldi. Per i neri e non solo, una Cadillac rappresentava l’apice del riconoscimento, lo status symbol principe. Quelle dell’epoca erano lunghissime, di colori accessi e con fanali chilometrici acuminati come tacchi a spillo. Sarebbe stato banale se Martin lo avesse dipinto solo come uno dei molti bianchi furbi, sfruttatori della genialità di neri poco istruiti e in genere poco accorti in questioni finanziarie (Howlin’ Wolf è un’eccezione). Invece Martin ha voluto illuminarlo con tutte le luci e le ombre di un pioniere che, oltre a trovarci il suo bel tornaconto economico, ha saputo far apprezzare trasversalmente a tutta la cultura americana (e quindi mondiale, va da sé) questa struggente, profonda, emozionante espressività musicale, patrimonio sorgivo dei neri d’America.

Una è la diva-cantante Beyoncé, che si laurea attrice fatta e finita nel ruolo della sublime cantante soul-gospel-pop-blues Etta James, di madre afro-americana e padre bianco. Dopo aver visto e sentito l’interpretazione di Beyoncé di At Last e di I’d Rather Go Blind (than see you walk away from me) è consigliabile ascoltare in Internet le versioni originali della stessa James. Solo così si potrà apprezzare a dovere la creazione originale che ne ha fatto la giovane ex leader del gruppo Destiny’s Child, che da quei cavalli di battaglia amatissimi della James si è lasciata ispirare, senza ricorrere all’emulazione. Vien voglia subito di avere la colonna sonora; le canzoni di questo film che esalta i Chicago Blues, interpretate dagli attori stessi, sono sempre più che competenti (rispetto alle versioni originali) e spesso sono semplicemente splendide. Come lo è Adrien Brody (Oscar per Il pianista di Roman Polanski, 2002) nella parte di Leonard Chess, fondatore della Chess Records, fine e lungimirante talent scout e un tempo musicista lui stesso. (Ha suonato la batteria in una delle prime incisioni di Muddy Waters.)

L’ebreo polacco e suo fratello Phil (la cui collaborazione si perde per strada nel film, a beneficio di una sceneggiatura più scorrevole e compatta) sono già ben inseriti nel mondo dei night dedicati alla musica nera nel South Side di Chicago nel 1947. Leonard si mette in contatto con Sam Phillips, fondatore del celebre Sun Records e scopritore di Elvis Presley, e lo sguinzaglia nel Sud degli Stati Uniti alla caccia di nuovi talenti musicali neri da coltivare, incidere e promuovere. (Muddy Waters viene scoperto mentre lavora come bracciante in una piantagione da Alan Lomax, un dotto studioso di musica popolare. Quando ascolta le proprie composizioni sul registratore, Waters esclama: «È come se fossi stato presentato a me stesso per la prima volta!»). In pochi anni Chess scrittura, oltre ai personaggi ritratti nel film, Gene Ammons, Jimmy Rogers, Bo Diddeley, Sonny Boy Williamson, the Moonglows, The Flamingos e tanti altri che entreranno nel gotha di un filone musicale autoctono non più conosciuto solo dalla comunità afro-americana. I Beatles, i Rolling Stones, i Beach Boys, Bob Dylan, per fare qualche nome, sono loro adoratori e debitori. È doveroso spendere ancora qualche parola sull’interpretazione che Brody fa dell’impresario ebreo. Ma prima ancora bisogna parlare di chi questo film l’ha voluto, scritto e diretto. Nata nel 1964, Darnell Martin è stata attrice, assistente cameraman (tra l’altro in Fa’ la cosa giusta di Spike Lee), regista di molte serie tv di successo (tra cui Law & Order, Grey’s Anatomy) e Cadillac Records è il suo terzo lungometraggio come autore. Di madre d’origini irlandesi e padre afro-americano, Martin ha la cultura, il talento e la consapevolezza di fare di Leonard Chess un personaggio complesso e sfaccettato. Non nasconde che era un abile uomo d’affari che regala ai suoi artisti fiam-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

altri

La cineasta ha completato la sua opera di scrittura - il primo miracolo di questo film - facendo collimare gli attori giusti con i ruoli giusti, e il primo tra pari è Adrien Brody. Qualcuno ha detto che se un attore è particolarmente bravo in un certo ruolo, è merito suo; ma se tutti gli attori di un film sono bravissimi, è merito del regista. Il casting è uno dei due fattori fondamentali per la riuscita di un film, a pari merito con la sceneggiatura. Se sbagli il cast, o anche solo il ruolo principale, è impossibile che il film si riprenda dal passo falso. Brody ha lo sguardo liquido, attento e sensibile e un corpo segaligno, dinoccolato e precario, tanto che si trattiene il fiato, temendo che il conflitto interiore tra arte e commercio in Chess faccia collassare quelle ossa spigolose dentro il sacco degli abiti d’epoca un po’ larghi. L’attore vibra con tutte le correnti alternate, le sfumature contrastanti e simultanee di un uomo appassionato, partecipe e con la furbizia necessaria per raggiungere obiettivi concreti. Le scene più indelebili sono quelle della storia d’amore tra Leonard, fino a quel momento marito fedele di una moglie amata, e la spavalda, scorretta, sensuale, impertinente, vulcanica, iraconda, fantastica Etta; e Beyoncé nel ricrearla evoca il genio di Anna Magnani, una nera di pelle bianca se mai ve n’è stata una. Se il film non è perfetto, non ci si fa caso, perché non è mai meno che profondamente soddisfacente. Chi non ha mai approfondito il blues sarà invogliato a farlo dopo aver visto e sentito questa favola musicata vera, vasta, debordante, drammatica, spiritosa, coinvolgente, e che non ha paura di divagare, senza mai annoiare. Ne siamo felici innanzitutto per Darnell Martin, che dopo essere stata la prima afroamericana a firmare un contratto con una major (Columbia Pictures) per il suo primo film Così mi piace (1994), e girato l’interessante ma meno riuscito Prison Song (2001) con la regina del hip-hop/soul Mary J. Blige, ha lavorato per anni solo in televisione. È da augurarsi che dopo la lodevole riuscita di Cadillac Records, avrà modo di regalarci più spesso altre opere dello stesso, appassionante livello. Correte a vederlo: esce in poche copie, e Dio solo sa quanto resterà nelle sale.

CADILLAC RECORDS GENERE DRAMMATICO DURATA 115 MINUTI PRODUZIONE USA 2008 DISTRIBUZIONE SONY PICTURES REGIA DARNELL MARTIN INTERPRETI ADRIEN BRODY, JEFFREY WRIGHT, BEYONCÉ KNOWLES, COLUMBUS SHORT, CEDRIC THE ENTERTAINER

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via di Santa Cornelia, 9 • 00060 Formello (Roma) Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938

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MobyDICK

parola chiave

avalieri, santi ed eroi hanno segnato per secoli l’universo simbolico della nostra civiltà, ma oggi sembrano aver perduto gran parte del loro fascino. Sull’eroe, in particolare, pesa la famosa sentenza di Bertold Brecht: «Sventurata la terra che ha bisogno di eroi!», la quale, messa in bocca a Galileo, nel celebre dramma omonimo, esprime bene, forse senza volerlo, il cambio di paradigma che si registra nell’universo simbolico moderno, sempre più pervaso dalla scienza e dalla tecnica. Ma è proprio vero che non abbiamo più bisogno di eroi? Certamente no, così almeno credo. Ma poiché facciamo fatica a distinguere, poniamo, tra un eroe, un santo o un genio, occorre affrontare preliminarmente un’altra questione: esiste una specificità dell’eroe? A tal proposito, in un saggio postumo di Max Scheler, intitolato Forbilder und Fuehrer (Esempi e guide), ci sono alcune indicazioni preziose. Intanto Scheler considera proprio l’eroe, il santo e il genio come tre tipici rappresentanti di quelli che egli definisce i «valori vitali», la cui principale caratteristica è data dalla loro «esuberanza spirituale». Nel caso del santo, questa esuberanza scaturisce dalla sua apertura alla grazia; nel caso del genio, da quella sorta di continua eccitazione intellettuale cui è sottoposto dalle cose che lo circondano; nel caso dell’eroe, dall’«eccedenza» della sua «volontà spirituale».

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L ’ e r o e è d u n q u e un uomo della volontà, un uomo potente - non un uomo che ha potere, sia chiaro. In genere l’eroe bordeggia il potere e ne diffida. Ma, un po’ come il dio Marte, è un uomo capace di «far accadere le cose». In questo senso l’eroe può incarnarsi indifferentemente in uomini grandi o piccoli, belli o brutti, deboli o forti, ma non in uomini privi di vitalità. La vitalità, la volontà forte, la capacità di mettere in moto la realtà: ecco i tratti dell’eroe. Il genio, ad esempio, è distaccato, e lo è anche quando sembra immerso più di chiunque altro negli affari del mondo; egli deve vedere, sentire, penetrare, trasfigurare; proprio per questo egli deve soprattutto prendere le distanze. L’eroe invece è completamente avvolto nel vortice della vita e qui emerge, se così si può dire, la sua differenza specifica: egli sente con particolare intensità il senso di una realtà che solo a prezzo di grandi sacrifici si piega alla volontà degli uomini. Il mondo è per l’eroe in primo luogo opposizione, resistenza e, in quanto tale, è un mondo realissimo. Se insisto su questo «realismo» dell’eroe, è perché credo che l’epoca moderna lo metta radicalmente in crisi. Gettando discredito sulla realtà, facendola apparire, poniamo, come il frutto di una sorta di inganno da parte di uno spiritello

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EROE Uomo della volontà, vitale, capace di modificare, con il suo gesto imprevedibile, la realtà. Con santi e cavalieri ha segnato per secoli l’universo simbolico della nostra civiltà. Ma oggi la cultura moderna lo condanna all’inazione. Ecco perché...

Il coraggio dell’incertezza di Sergio Belardinelli

Grazie a scienza e tecnica, l’io moderno si è messo sempre più al sicuro rispetto alla realtà che pretende di dominare. Così al mondo reale si è sostituito un mondo di plastica, che non ha più bisogno d’eroi, nel quale viviamo spaesati e con la vaga consapevolezza che ormai le cose si facciano da sole malvagio (si pensi al diavoletto di Cartesio), un certo filone divenuto dominante della cultura moderna toglie letteralmente all’eroe il terreno sotto i piedi; depotenziando il senso della realtà, ne rende inutile e vana la vitalità. Perché mai sacrificare la propria vita, se un’azione vale l’altra e se tutto è indifferentemente lo stesso? Sta qui la difficoltà che abbiamo oggi a narrare gesta eroiche e l’effetto quasi comico che ne scaturisce quando ci proviamo. Del resto sul piano della fiction non si danno eroi. L’effetto eroico, al pari dell’effetto tragico, ha bisogno della durezza e della resistenza della realtà. A questo proposito Max Scheler usa un’espressione che in tedesco è assai eloquente e bella: l’eroe è un Wirklichkeitsmensch, un «uomo della realtà»; è un uomo che sente più degli altri il contatto con

ciò che è reale e vitale. Le idee che il genio sperimenta nella sua intelligenza, l’eroe le porta nella realtà, grazie alla sua forza vitale che può esprimersi nel coraggio, nella forza d’animo, ma soprattutto nella sua capacità di agire, senza temere la morte e senza curarsi dall’esito della propria azione. Per l’azione eroica non sono decisivi il successo o l’insuccesso. Ciò che decide l’eroicità o meno di un’azione è l’impulso vitale che la muove, la connotazione di qualcosa di grande che basta a riassumere il senso di una vita. Ettore che affronta Achille sapendo di morire o Enrico Toti che getta la sua stampella contro il nemico sono il gesto eroico che compiono. Tutta la loro vita si riassume in esso. Se il santo vive nel suo proprio essere santo e il genio nella sua opera, l’eroe vive tutto

per le sue gesta. Riassumendo, mi pare che vadano sottolineate due caratteristiche tipiche dell’eroe: in primo luogo il fatto che egli lotti sempre contro una dura realtà. Come ho già detto, senza un forte senso della realtà, senza una realtà che resiste ai nostri desideri e alla nostra volontà, non si produce l’effetto eroico. Carl Schmitt disse qualcosa di analogo a proposito dell’effetto tragico, a conferma di quanto eroico e tragico siano vicini. In secondo luogo va sottolineata l’incertezza che caratterizza il gesto eroico («non conosciamo i motivi dell’azione» diceva Nietzsche); nell’azione eroica c’è sempre qualcosa di fatalistico; essa non è mai un’azione totalmente sotto controllo. L’eroe non calcola, non fa mai i conti del dare e dell’avere, agisce e basta.

Se dunque è vero che l’eroe ha il suo ubi consistam in un forte senso della realtà e in un forte impulso all’azione, con tutto il suo carico d’incertezza, allora si capisce forse con buona approssimazione perché la cultura moderna metta in crisi gli eroi. Grazie alla scienza, alla tecnica e, paradossalmente, al dubbio metodico, l’io moderno si mette sempre di più al sicuro rispetto alla realtà; quest’ultima gli resiste sempre di meno; è sempre di più un semplice pretesto, sul quale egli può esercitare le sue scorribande, per diventarne «padrone». In questo modo, però, egli perde il senso stesso dell’agire, il quale, a differenza del fare e del produrre, non può mai calcolare con precisione, predeterminare, le proprie conseguenze, ma è sempre strutturalmente esposto all’incertezza. Nel momento in cui un certo filone della cultura moderna esalta la capacità della ragione di «calcolare», di tenere sotto controllo la realtà, è chiaro che l’imprevedibilità e l’incertezza dell’azione diventano quanto meno fastidiose. Succede così che, quasi per un eccessivo bisogno di sicurezza, il bisogno appunto di conoscere in anticipo le conseguenze di ogni azione, si fa largo una diffusa rinuncia ad agire. L’unica realtà che riusciamo più a sopportare è quella che dipende da noi, quella «fatta» da noi; la luce che illumina le nostre azioni non è più data da un «ideale di vita», ma da un progetto «tecnico»; al mondo reale si sostituisce insomma una sorta di mondo di plastica, che ovviamente non ha più bisogno d’eroi, ma nel quale, ciononostante, viviamo sempre più spaesati e con la vaga consapevolezza che, paradossalmente, ormai le cose si facciano da sole. Un universo simbolico che si esprime bene nella faccia stralunata del memorabile «laureato» Dustin Hoffman, quando il giorno della festa per la sua laurea si sente sussurrare dallo zio il suo destino futuro e del mondo intero: «plastica», appunto.


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cd

musica

New York Dolls eclettici con le rughe di Stefano Bianchi i sicuro, del glam rock, i New York Dolls sono stati la faccia più trash. Il fuori dagli schemi (sex, drugs & rock’n’roll) come regola di palco e di vita. Negli anni Settanta, dai putridi bassifondi della Grande Mela, i cinque acchittati da drag queen anticiparono l’ultraviolenza punk citando Stooges e Rolling Stones. Due soli dischi (New York Dolls, ’73; Too Much Too Soon, ‘74) e poi lo scioglimentolampo. Una vita dopo, nel 2004, Morris-

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sey (ex Smiths) propone alle «bambole» di riunirsi a Londra per un unico concerto. Rispondono all’appello il vocalist David Johansen, il chitarrista Sylvain Sylvain e il bassista Arthur «Killer» Kane. Johnny Thunders (chitarra) e Jerry Nolan (batteria), sono nel frattempo saliti in cielo via overdose. E riassaporato il gusto del palcoscenico, anche il buon Kane li raggiunge nel paradiso dei rocker. Johansen & Sylvain, salutato l’amico, si consolano godendosi su disco (Live

From Royal Festival Hall) la testimonianza dell’imprevista rentrée. Fine dei giochi? Macché. I due non ci stanno a ritornare in soffitta: riplasmano la sigla New York Dolls con quattro baldi giovanotti e nel 2006 incidono One Day It Will Please Us To Remember Even This. Duro e puro. Come ai bei tempi. Con pezzi dinamitardi (Punishing World e We’re In Love) a ricalcare i «classici» Looking For A Kiss e Personality Crisis. Saranno pure raggrinzite, le «dolls», ma ci sanno

ancora fare. E adesso, senza un’ombra di lifting, tornano alla carica con ‘Cause I Sez So. Ruspante, inciso alle Hawaii, suonato da dio e prodotto da quel genialoide d’un Todd Rundgren, già responsabile del terremoto sonico del primo disco. Qui, però, di rivoluzionario non c’è nulla. E a parte l’uno-due bello tosto di ‘Cause I Sez So e Muddy Bones (rock stradaiolo + chitarre fiammeggianti), si respira più aria di David Johansen solista che altro (quello post-Dolls: fra ballate elettriche e blues verace). Ma va bene lo stesso. L’importante è filare dritti negli anni Cinquanta (Better Than), incrociare il pop dei Beatles (Lonely So Long), trangugiare blues alcolico (This Is Ridiculous), schioccare le dita al suono del rhythm & blues (Nobody Got No Bizness) e prendere a schiaffi il repertorio chicano, stile Willy DeVille, con Temptation To Exist. In tutto questo pimpante guazzabuglio, la voce screpolata di Johansen ci va a nozze: derapando nella psichedelìa (My World), seguendo il filo logico d’una ballata che si tramuta in rock muscolare (Making Rain), adeguandosi al caos organizzato di Exorcism Of Despair e alle atmosfere tardo «hippy» (con un piede nell’hard rock) che fanno rima con Drowning. Rifacendo addirittura i conti con Trash (fra i capolavori di quel primo, imprescindibile album), che da proto-punk viene manipolato e trasformato in reggae. E le bambole di New York? Sono scese dai tacchi a spillo e hanno infilato le ballerine. Ma è pur sempre un gran bel sentire. New York Dolls, ‘Cause I Sez So, Atco/Wea, 19,50 euro

in libreria

mondo

riviste

MORGAN: BLUVERTIGO E NON SOLO

MARMADUKE DUKE ATTO SECONDO

DALLA FILANDA A ’O SOLE MIO

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vevo capito che con il primo disco non sarei riuscito a esprimere tutto il potenziale di anni di incomprensioni, rinunce e aspirazioni. Acidi e Basi rappresentava l’infanzia a-problematica. Metallo Non Metallo fu il distacco, l’adolescenza. Zero è il superamento dialettico di tutto questo. Una liberazione, non un annullamento nichilista. L’ideale chiusura di un cerchio. Ma per poterlo dav-

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nteressanti esponenti di un rock concettuale fitto di risonanze, gorghi citazionisti e mulinelli sonori, Simon Neil e Jp Reid, altrimenti noti come Marmaduke Duke, pubblicano Duke Pandemonium. Seguito del fortunato The Magnificient Duke, che ha imposto il duo scozzese nelle chart britanniche del 2005, anche il secondo album li vede protagonisti assoluti come autori di testi, mu-

l modo in cui Ruggieri suona la fisarmonica è decisamente originale almeno in rapporto alla nostra tradizione mediterranea - molto deciso e grintoso, fortemente orientato al jazz e marcato dalle influenze riconducibili alle tradizioni latino-americane. La chitarra di De Federicis, in diversi passaggi, si riconduce, tanto per intenderci, agli insegnamenti provenienti dalle linee stilistiche dei grandi Joe Pass,

I primi dischi e gli anni di una collaborazione innovativa scandagliati da Daniele Cianfriglia

Il nuovo album del duo scozzese è un mix di elettronica e funky con spigolature dance

In “Terre” Ruggieri e De Federicis propongono brani originali e classici. Tra jazz e tradizione

vero inscenare avremmo dovuto avere sessant’anni e una carriera alle spalle, quindi questa saggezza è stata solo ipotizzata». Marco Castoldi, in arte Morgan, racconta così i primi dischi di una carriera segnata dall’esperienza con i Bluvertigo. Una collaborazione, intensa e innovativa, scandagliata dalla penna di Daniele Cianfriglia in Bluvertigo & Morgan - Il suono è mille brividi (Arcana, 256 pagine, 14,50 euro). Camaleontico e colto, il suono della band di Castoldi raccolse Duran Duran e David Bowie, Franco Battiato e Depeche Mode.Tre decenni di invenzioni e stilettate nel cuore della radiofonia tradizionale, che hanno fatto di Castoldi l’intelligente metteur en scene di Italian Songbook.

siche e produzione. Il risultato è un sapido pastiche zuppo di spezie elettroniche, schegghe funky e spigolature dance, che rendono l’ascolto un’esperienza stordente. Giocoso, a tratti grottesco, il percorso elaborato dai due scozzesi terribili mima scelte estetiche che fanno pensare a Bobby Conn, e a un grande talento da dirozzare dalla smania di esibire la bravura. Eppure Heartburn costringe a shakerare il corpo e Pandemonium regala un’inesauribile voglia di sorridere. Non manca la corda sentimentale, pizzicata con spassosa ruffianeria, di Rubber Lover. I giovanotti, di certo, si faranno.

Jim Hall e dalla maestria della scuola del nostro Franco Cerri». Maurizio Spennato presenta così su soundcontest.com il nuovo album del duo abruzzese che vanta collaborazioni prestigiose con Antonella Ruggiero e Milva. Le undici tracce di Terre miscelano brani originali come quello, assai interessante, che dà il titolo alla raccolta, e rivisitazioni di classici come ’O Sole Mio e La Filanda. Molto suggestivi anche Taglia la testa al gallo, ripescata dal repertorio di un altro teramano doc come Ivan Graziani, e L’era del cinghiale bianco di Franco Battiato. Venature tanghere, sottile filo malinconico, impasto sonoro delicato ma penetrante. Ruggieri e De Federicis si mostrano eclettici e ispirati, e suonano da maestri.

a cura di Francesco Lo Dico

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zapping

INTERNET E LIBERTÀ: il paradosso etico di Bruno Giurato a Caselli si indigna peché il brano Domani, quello scritto, prodotto e registrato per le vittime del terremoto in Abruzzo, viene scaricato illegalmente. Gli hacker che hanno caricato la canzone in rete sono stati individuati e denunciati. Poi c’è la legge francese che è entrata in vigore, quella che stacca il collegamento a chi viene beccato a scaricare dai siti peer to peer. Altra notizia di questi giorni, YouTube perde quattrocento milioni di euro all’anno. Costa molto mantenerlo, ma le sponsorizzazioni rendono poco. Finora, insomma, non si è trovato il modo di fare dei soldi in maniera stabile con Internet. Il business legato alla rete è fatto di grandi speranze, è un enorme future e, in tempo di decadenza dell’economia finanziaria, il simbolo non esalta. Poi c’è la questione dell’etica di Internet, altro oggetto inafferrabile. Il mio amico Nicola si indigna perché su Facebook ci sono i giochi di mafia, in cui si guadagnano punti criminaleggiando e si può ascendere da picciotto a boss. In preda alla disperazione siamo approdati a una conferenza di Richard Stallman, il guru dei software non proprietari, l’inventore di Linux e Gnu, il profeta fricchettone della libertà digitale e dei pascoli comuni della conoscenza. Ha iniziato a parlare dicendo che il software deve essere «etico», e preconizzando una sorta di religione non-religione, alla Imagine di Lennon. Bello anche se alla fine il simpatico Stallmann finisce anche lui, a modo suo, per invocare una sorta autocontrollo etico sulle attività digitali, e questo è un bel paradosso. Da parte nostra, visto che di soluzioni non se ne vedono, possiamo citare solo una frase del filosofo cattolico Luigi Pareyson (uno che sulla libertà ci ha ragionato più dii Stallmann e Caterina Caselli): «Meglio il male libero che il bene imposto». Ha ragione lui (l’alternativa sarebbe un capillare sistema di recupero crediti, morali e monetari che allunghi la mano fino al portafogli anche mentre dormiamo o siamo in bagno). La tragedia è tutta qui.

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jazz

teatro

Sperimentazioni poetiche con Catullo & co. di Enrica Rosso ll’Atelier Meta-Teatro diretto da Pippo Di Marca un poetico preludio d’estate scandito da quattro differenti scritture inscenate da un unico interprete: Antonio Piovanelli. La personale ha preso avvio il 19 maggio con Catullo e Lesbia; fino a domani sera compresa sarà possibile assistere a Mia mano, fatti piuma, fatti vela: ritratto di Giorgio Caproni che cederà il palco dal 2 al 7 giugno a Virgilio: Eneide, libro II (Concerto dall’Eneide) per concludere dal 9 al 14 giugno con Passione Pasolini. I due appuntamenti centrali della tetralogia godranno della presenza live dei musicisti Roberta Montisci e Antonio Caggiano mentre il primo e l’ultimo sono egregiamente serviti dagli interventi musicali composti appositamente da Franco Piersanti. A questo punto urge una rapida presentazione di Antonio Piovanelli: è attore di grande struttura e potenza espressiva nutrite da un caparbio innamoramento per i versi. Da decenni il suo talento è quindi messo a disposizione dei più grandi artisti e poeti di ogni epoca (ricordiamo con emozione un suo forsennato soliloquiare nel tentativo di fermare l’ispirazione esplorando l’arte di Michelangelo Buonarroti filtrata dalle parole di Giorgio Vasari). Un percorso artistico di valore che negli anni gli ha costituito un tesoretto di rara preziosità. Una galleria di personaggi che si raccontano e rivivono attraverso la teatralizzazione dei loro scritti. Così per presentarci l’irruente, aristocratico Catullo, Piovanelli si immerge nei suoi rinomati ritratti (i celebri Francobolli di Catullo) in un monologare in cui si affastellano infiniti personaggi della vita pubblica e privata che ci restituiscono con acutezza l’uomo e l’artista incastonato nella Roma dei Cesari, in preda alla passione per Lesbia, sua musa ispiratrice. Uno spettacolo forte e appassionato che si consuma tra i rossi cuscini di un rosso divano. Altro l’incantamento che emerge dai disincantati versi del grande Giorgio Caproni nel suo scorrere la vita frugando nel quotidiano silenzio. E forse chissà Piovanelli s’è ispirato al titolo di una raccolta di versi dell’autore livornese (Il passaggio di Enea,Vallecchi editore, 1956) per approdare a Virgilio... del quale coglie, in particolare (nel

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secondo libro si narra dell’inganno del cavallo di Troia e della conseguente fuga dell’eroe dalla città), il senso forte dell’essere fautori del proprio destino lasciandosi alle spalle il sangue che sgorga dalle lotte di potere. Un viaggio nelle solitudini di quattro esistenze eccezionali che ci conduce, in ultima battuta, a incontrare la poesia civile del Novecento di Pier Paolo Pasolini. Il racconto autobiografico di un’Italia che era, vissuto da un intellettuale che il mondo ci invidia. Il testo scandagliato da Piovanelli è forgiato con materiali tratti da Petrolio. Una scrittura asciutta, che basta a se stessa e brilla di luce propria trovando riscontro nella scelta di una scena nuda: unico arredo due sedie. Là dove le istituzioni nicchiano o peggio si contentano di proporre produzioni poco stimolanti ma di grande soddi-

Antonio Piovanelli

sfazione economica ci volevano la sensibilità e il coraggio di Pippo Di Marca, da sempre proteso a dar corpo ai suoi sogni, per accogliere nel suo spazio un esperimento così raffinato e colto, fuori da ogni logica di mercato.

Una tetralogia poetica: Catullo, Virgilio, Caproni, Pasolini, Personale di Antonio Piovanelli, Atelier Meta-Teatro di Roma, fino al 14 giugno, Info: 06/5814723, compagniadelmetateatro@fastwebnet.it

La tromba di Lee Morgan nella fucina di Philadelphia di Adriano Mazzoletti a bibliografia jazzistica sta lentamente ma inesorabilmente modificandosi. Non più le storie globali del jazz - e si è visto quanto queste fossero spesso scorrette nei giudizi e nei fatti - ma studi approfonditi su singoli musicisti, su periodi specifici o su singoli paesi. Insomma, terminate le storie del jazz la bibliografia si sta arricchendo di pubblicazioni di grande interesse e importanza, per una maggiore e più completa analisi di un fenomeno - il jazz - in continua evoluzione. Gli studi di più recente pubblicazione sono stati in questi ultimi mesi L’Africa e il Blues di Gerhard Kubik di cui abbiamo già riferito la scorsa settimana e I poeti del vocalese della cantante e musicologo Giuppi Paone su cui torneremo. L’ultimo è una biografia che il giornalista e docente alla University of Westminster Tom Perchard ha dedicato al solista di tromba Lee Morgan, uno dei maggiori esponenti dei Jazz Mes-

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sengers di Art Blakey da quando, nel 1956, prese il posto di Clifford Brown scomparso a soli 26 anni in un incidente automobilistico nelle vicinanze di Philadelphia. Anche Lee Morgan, nato a Philadelphia nel 1938, morì giovane. A differenza del suo collega, fu per mano di una fidanzata gelosa che lo assassinò nel 1972 a New York. Il volume su Lee Morgan, proprio perché scritto da un giornalista e ricercatore non è la solita biografia di un musicista di jazz, ma un’approfon-

dita analisi della vita di un musicista nero in un quartiere nero, quello di North Philadelphia, così diverso da quello di South Philadelphia a maggioranza italiana. Philadelphia e la Pennsylvania sono luoghi che da sempre hanno dato al jazz un numero imponente di grandi solisti bianchi e neri. Fra i primi, Joe Venuti, Eddie Lang, Tommy e Jimmy Dorsey, Buddy De Franco, Stan Getz, John La Porta, Red Rodney, CharlieVentura. Fra i secondi: Earl Hines, Slide Hamton, Jimmy Smith, Al, Percy e Jimmy Heath, Rex Stewart, Art Blakey, Ray Brown, Roy Eldridge, Erroll Garner e Kenny Clarke. John Coltrane anche se nato in North Carolina crebbe e si formò musicalmente a Philadelphia. Le ragioni di questa concentrazione di eccellenti musicisti sono molte. La presenza di importanti scuole di musica. Fra gli anniVenti e Quaranta la Campbell Music School dove si

formarono Lang e Venuti e negli anni Cinquanta l’istituto tecnico-professionale Jules E. Mastbaum che vantava il miglior corso di musica di tutto lo Stato dove crebbero musicalmente molti dei musicisti della città. Philadelphia era anche la città più industrializzata del paese e non si verificarono particolari segnali di flessione fino alla seconda guerra mondiale. Questa produttività rendeva facile trovare lavoro alle famiglie di colore che dal Sud migrarono al Nord nella seconda metà degli anni Venti.Anche la Chiesa e le famiglie ebbero un ruolo importante nella formazione dei musicisti della città. Tom Perchard riferisce che «i leader religiosi e le loro congregazioni consideravano inscindibili gli aspetti sociali e spirituali della vita e l’apostolato e l’impegno per le riforme sociali». E la musica era sempre alla base di questo impegno. Tom Perchard, Lee Morgan. La vita, la musica e il suo tempo, Odoya Edizioni, 347 pagine con cd, 20,00 euro


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narrativa

libri

Al-Aswani e la difficoltà di essere egiziano di Pier Mario Fasanotti una raccolta di racconti. Ma, vista l’omogeneità di temi e di ambiente sociale, potrebbe essere considerato un romanzo corale quello di ‘Ala Al-Aswani, brillantissimo narratore egiziano. Nella sua quanto mai necessaria prefazione l’autore ricorda quando il primo film fu proiettato nel suo paese, nel 1896. Il proprietario della sala cinematografica, l’italiano Delio Astrologo, avvertì il pubblico che quanto si vedeva sullo schermo era verosimile ma non vero. Lo scrittore usa questa memoria per spiegare che i personaggi e i loro pensieri non sono da identificare con chi li scrive. Ma i censori egiziani, che di letteratura sapevano ben poco, la pensarono diversamente e bocciarono così la sua opera. Con l’accusa di essere anti-egiziano e addirittura contro l’Islam. ‘Al-Aswani pubblicò a proprie spese, col risultato di essere molto famoso e apprezzato dalla critica, ma assai poco venduto. La linfa carsica che fa da collante ai racconti è la meschinità della società egiziana, la sua inutile arroganza nell’ispirarsi a un remoto passato, la sua corruzione, la spavalderia ottusa della classe dirigente, la fatica a emergere da parte di chi ha talento ma è privo di raccomandazioni oppure di quello che egli chiama «smalto», che è poi l’arte dei furbastri indipendentemente dal merito.

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Una società così, si legge tra le righe, non è destinata a essere democratica, ha poche chance per evolversi. «Nient’altro che un servo, ecco cos’è l’egiziano»: questa frase forte introduce la malinconia di un vignettista che, come riferisce suo figlio Issam, «nacque opaco, normale, simile e indistinguibile da milioni di altre persone… un debole, un perdente… ma nonostante questo mi piaceva». È la sua statura umana a redimerlo, a sottrarlo dall’oblio familiare e amicale. Sarà proprio il figlio, con un ingenuo trucco, a far credere al vignettista di essere molto considerato nell’ambiente universitario. Poi Issam, ormai adulto, sfoga il suo risentimento rischiando d’essere accusato d’essere contro la religione ufficiale del paese. Prepotente per carattere ma anche per convinzione intima, e per la mediocrità dell’ambiente professionale, trova consolazione nello studiolo del padre scomparso, in un isolamento crescente. Sprezzante verso la domestica Hoda, con cui pure ha rapporti intimi, esce dalla sua «appagante solitudine» quando incontra un’europea con «occhi da cui non si può fuggire». Dopo un inebriante primo incontro tutto precipita perché la donna diventa quasi un fantasma. Introvabile. Dolorosa è anche la vicenda del signor Guda, «che non si è mai vergognato

delle sue scarpe» di tela, che tenta di dare prove di socievolezza ma alla fine si sente sempre umiliato e a disagio in mezzo agli altri. Il modesto impiegato statale si aggrappa alla convinzione che tutto vada storto per il fatto di non avere camicie adeguate: una vicenda amarissima. Al-Aswani delinea un altro personaggio dolentemente immerso nello stordimento esistenziale, del quale annota «l’impressione di non capire, un senso di angoscia, l’idea di aver subito un’improvvisa e inspiegabile disfatta, una sconfitta pesante e definitiva, e la netta percezione che quando qualcosa si spezza i frammenti fanno un gran baccano, volano via in un’unica soluzione e poi non c’è più nulla». Il punto di rottura è coniugale: sua moglie l’ha

tradito. Lui la picchia. Ripetutamente nell’arco di una sola notte e lei «gli va dietro come un animaletto domestico». Ma alla fine l’uomo guarda alla finestra e piange. La moglie è piena di lividi e di silenziosa vergogna. Al-Aswani, che ha fondato un movimento per i diritti civili, ritrae in modo partecipe e sarcastico l’Egitto che mette al bando persone come se fossero appestati, un paese che si siede sulla propria ipocrisia. In tutti i suoi racconti la protagonista è una piccola borghesia quotidianamente umiliata e sconfitta. Poco importa se rimangono in piedi il decoro esteriore e l’ansia di non perdere la rispettabilità. ’Ala Al-Aswani, Se non fossi egiziano, Feltrinelli, 219 pagine, 16,00 euro

riletture

Il Veneto “barbaro” di Parise e Capellini di Leone Piccioni foglio un bel libro di fotografie che riguardano Goffredo Parise e il suo Veneto; gli scatti, di grande bellezza, sono un centinaio dovuti a Lorenzo Capellini, fotografo di grande finezza e di molta cultura che di Parise fu intimo amico. Si intitola Veneto barbaro di muschi e nebbie (Minerva Edizioni, Bologna), titolo ripreso da un racconto di Parise. Gli altri racconti riprodotti si intitolano Il mio Veneto, Il ghetto di Venezia, Accadde a Cortina. Il libro si avvale di un’introduzione del presidente Gianfranco Fini che si riferisce alla mostra fotografica con immagini di Capellini, realizzata dal Comume di Ponte di Piave e ospitata in marzo alla Camera prima di approdare in pianta stabile nella Casa di cultura Goffredo Parise (l’abitazione dello scrittore a Ponte di Piave ora fondazione a lui dedicata).Tra le testimonianze raccolte nel volume quelle di La Ca-

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pria, Moravia, Vergani, Giosetta Fioroni che fu a lungo compagna di Parise e Giovanni Comisso. Scrive La Capria: «Parise cercò lo stile semplice, quello che sa dire con parole semplici cose che semplici non sono. Con questo stile fece la rivoluzione dei sentimenti perché con la delicatezza che i veri sentimenti implicano, si intromise nella letteratura del suo tempo… Per lui - scrive ancora La Capria - la parola stile assumeva spesso una connotazione negativa,“stile” lui lo contrapponeva ad “arte” e diceva che l’arte era più difficile dello stile perché lo stile è ripetibile mentre l’arte non lo è». Alberto Moravia ci dice che «Parise aveva scoperto che tutto il mondo non è paese, che è sempre diverso e sempre nuovo; e così, finché aveva potuto aveva viaggiato per questo mondo che non è paese… Era l’aspirazione di Parise vivere e scrivere come in una continua avventura». Negli ultimi anni Parise scelse una «piccola

casa di mattoni dipinti di rosa - ci racconta Giosetta Fioroni - che aveva trovato andando a cavallo verso la riva del Piano a Salgareda nel Trevigiano». «Una sorta di fienile - precisa Parise - quasi invisibile… Lo riattivai con piccoli lavori, a Natale entrai in casa con le pareti gocciolanti di umidità. C’era però un camino, un focolare e una stufa a gasolio… Il giorno di Natale nevicò un po’ e passarono le pecore con la loro lentezza. Così passarono stagioni e anni». Di Venezia descrive alcune sconosciute osterie, come quelle che hanno esposti in vetrina «in una bacinella di smalto bianco bordata di blu polpi bolliti, qualche pesce già arrostito, qualche seppia. Entrare. Sedersi a un tavolino senza nessuna fretta e mangiare. Vino rosso siciliano o pugliese. Pagare, ringraziare, andare». Ma uno dei soggiorni più amati da Parise era quello a Cortina d’Ampezzo per vedere gli amici e sciare: «La bellezza di questa neve è nutrita dal

silenzio e dalla luce: una luce fredda e purissima, radente o a picco senza ombre… Allora cominciare a sciare, avendo davanti a sé una lunga discesa immacolata dove nessuno è mai passato, soli, contro il sole, aspirando quel profumo quasi impercettibile che il sole estrae dalla neve, un po’ ozono, un po’ di iodio, ascoltando i suoni interni dei propri muscoli, del respiro, dello sguardo e soprattto il suono della propria energia in espansione, allora e solo allora e per pochi istanti si può dire e ripetere e ricordare: “Sì, sono e sono stato veramente felice di vivere”». E, totalmente consentendo con lui, vorrei chiudere queste piccole note con queste parole di Giovanni Comisso che di Parise fu un po’ maestro e amico grande: «Il mio incontro con Goffredo avvenne con la precisa coincidenza di una fatalità che testimonia la piccolezza del mondo e l’obbligo dei percorsi. Di questo giovane scrittore, posso dire che per me era l’atteso».


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religione

Fede e ragione, la lezione di Cornelio Fabro di Franco Insardà ede e ragione: è questo il binomio che caratterizza l’opera di padre Cornelio Fabro, religioso stimmatino, filosofo e apprezzatissimo docente universitario. Un maestro, come scrive Maurizio Schoepflin nel suo Fabro nei suoi scritti spirituali. Maestro inteso nella sua accezione più alta della tradizione cristiana: colui che ha una autorevolezza speciale che corrobora il suo insegnamento con la testimonianza della vita. Questo ruolo emerge netto dalle scritti spirituali che Maurizio Schoepflin ha raccolto nel suo

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personaggi

lavoro che ha la bella caratteristica di incuriosire e appassionare, non soltanto addetti ai lavori, ma anche neofiti. Segue, insomma, l’insegnamento di Rosa Goglia, una delle più fedeli e appassionate eredi e testimoni della lezione di Fabro: «...si ha la sensazione di aver aperto un “varco” nella sua vasta e poderosa attività di pensiero a sostegno e difesa della dignità dello spirito umano. Agli amanti della bellezza, della verità e della libertà il compito di immergersi e di navigare in questo “grande mare dell’essere e della libertà”, con la navicella del proprio ingegno». La verità, la salvezza e la contemporaneità del cristianesimo,

il mistero pasquale, le meditazioni mariane, i santi i papi, il valore del tomismo, il ruolo della donna tra umanità e santità, la figura di santa Gemma Galgano, ma anche il ruolo dei filosofi tra ricerca e verità e quello di Kierkegaard come pensatore cristiano sono i passaggi che Schoepflin mette in evidenza per tratteggiare il pensiero del religioso di Flumignano di Udine. Padre Cornelio Fabro, come scrive Schoepflin nella conclusione del suo libro: «fu un’anima tanto profondamente speculativa quanto altamente meditativa, capace di coniugare strettamente la dimensione della ragione con quella della fede, ribadendo, se-

condo la più schietta tradizione cattolica, e tomista in particolare, l’esistenza di un legame inscindibile tra esse e riservando alla seconda un ruolo di chiara preminenza». La fede è il filo conduttore dell’opera e della vita di padre Fabro e lo testimoniano gli scritti che Schoepflin ha raccolto e ordinato facendo emergere anche l’attualità e la modernità di un filosofo che, pur con aperture intellettuali, non ha mai derogato dal suo essere profondamente cattolico. Maurizio Schoepflin, Fabro nei suoi scritti spirituali, Edivi, 150 pagine, 10,00 euro

Abisso o sogno? Alla scoperta della donna fatale di Giancristiano Desiderio

non dirci romantici - ha messo al mondo un’infinità di miti e personaggi e Giuseppe Scarafiuseppe Scaraffia, per chi non lo cono- fia, letterato con il gusto della bella società, si è scesse, è un tipo strano, eccentrico che innamorato di almeno due miti: il dandy, apaspira a essere arbiter elegantiarum. punto, che vuole essere, e lei, la donna fatale. Insegna Letteratura francese all’Uni- Femme Fatale è il suo ultimo libro e non si può versità di Roma, ma questo c’entra poco o nul- dire che non sia ben fatto: si vede che l’argola con il seguito dell’articolo. Qualche tempo mento lo ha preso da sempre e che per la donfa, non molto fa, scrisse e pubblicò un libro in na fatale che recita nella vita e sulla scena ha linea con il suo stile di vita e con il suo abbi- sempre avuto più di un debole. Con Gabriele gliamento: Dizionario del D’Annunzio potrebbe ripedandy. Il dandy è un mito tere: «È l’unica donna che romantico come è un mito rispetto» (il vate lo diceva del Romanticismo anche il della marchesa Casati). genio, il dissoluto, il poeta Il libro è composto di ventieroe e più prosaicamente il due ritratti di donne fatali ladro gentiluomo. L’epoca che con le loro straordinaromantica - che per molti rie esistenze hanno segnato versi è una sorta di categoin maniera indelebile la vita ria dello spirito con la quadi numerosi artisti e scrittole noi stessi dobbiamo anri del passato. La loro vita cora oggi fare i conti perera il loro fascino: grandi ché, per quanto razionali e ammaliatrici, furono donne scientifici, non possiamo di grande attrazione fisica e Lou von Salomé

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cronache

intellettuale, dominate dal gusto della passione e dal gusto della provocazione, dal piacere di stupire e dall’esigenza di affermare la propria libertà in ogni campo, privato e pubblico, dal sesso al lavoro. Tra i ventidue ritratti si raccomandano: Cristina di Belgioioso, la Contessa di Castiglione, Lou von Salomé, Berte Courriére, la Baronessa Deslandes. In quarta di copertina c’è una frase di Maupassant che dice: «la mia mente, il mio corpo sono tesi verso di lei fino a farmi male… e, ancora una volta, ricado nell’abisso». La femme fatale è l’abisso? Gli uomini - non tutti - sono alla ricerca della donna fatale, la desiderano, la bramano, la sognano e solo alla fine dei sogni capiscono che la femme fatale - fatta qualche eccezione - è solo un sogno. Lo stesso si può dire delle donne che ricercano il bel tenebroso o il bello e maledetto: miti romantici che vivono nella letteratura. Resta da capire una cosa: il libro di Scaraffia è per uomini o per donne? Giuseppe Scaraffia, Femme Fatale, Vallecchi, 175 pagine, 15,00 euro

La vera storia del vampiro di Ropraz di Mario Donati n critico: «Un piccolo, magnifico libro, che non si può leggere senza tremare». Daria Galateria, nella prefazione, ricorda gli incubi dell’autore, Jacques Chessex, e spiega come abbia «usato il reale per forzarlo fino al fantastico (“più è banale più è orribile”)». Il «reale» è la cronaca. Si parte da un episodio realmente accaduto e si procede, come si legge nella prefazione, verso «il mondo immemoriale dei villaggi sperduti, le ossessioni ataviche, le isterie collettive, i processi sommari, la scienza psichiatrica… la velocità, l’ironia del rovesciamento lasciano senza fiato. Capolavoro di an-

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tropologia con la sua lingua affilata… Chessex approda sornionamente al ridicolo dei miti d’oggi». Località: Ropraz, nell’alto Jorat del cantone di Vaud (Svizzera). Anno: 1903. «Paese di lupi e di abbandono… le idee non circolano... avarizia, superstizione, incesti, crudeltà, paura». E vizi nascosti tra quella gente che a furia di mangiare il maiale gli assomiglia. Febbraio: la ventenne e purissima Rosa Gillièron muore. È figlia di un giudice di pace e deputato. Giorni dopo la sua tomba viene scoperchiata. Se ne accorge un contadino, all’alba. Cadavere violato, tagliato, morsicato. Tracce di liquido seminale. Il cuore è scomparso. Ecco come

inizia la caccia al vampiro di Ropraz. I paesani vogliono il mostro. O un capro espiatorio per espiare «i troppi vergognosi segreti». Viene arrestato il ventunenne Charles-Augustin Favez, sorpreso in atti contro natura nella stalla d’un contadino. Era a scuola con Rosa. Arrivano psichiatri di fama, che non lo ritengono colpevole e ne riconoscono la brutale infanzia di bambino abusato da genitori adottivi. In cella Favez riceve una misteriosa donna vestita di bianco, corruttrice d’un guardiano. Spinta dalla depravazione e dal «vizio funebre» e intesa a rovesciare il rituale dei cimiteri? Sarà lei a spingere Favez, in libertà condizionata, a cercare ciò che per la

prima volta (forse) ha conosciuto da vicino: il corpo femminile. Assale una vedova maliziosa e la morsica sul collo. È la fine, nulla potrà il suo legale che non valuta «la portata del selvaggio senso di colpa che grava su quelle campagne». Lo spiritoso avvocato di città «non conosce la follia opaca nelle teste e nei corpi». Processo. Testimonia una ragazza: m’inseguiva, l’ho visto. Ne è sicura? E lei: «Sì, sorrideva come i vampiri». Ergastolo, commutato in soggiorno psichiatrico. Favez fugge, si arruola nella Legione Straniera. Il resto, che non riveliamo, ha del grottesco. Jacques Chessex, Il vampiro di Ropraz, Fazi, 91 pagine, 14,00 euro

altre letture Attive in misura crecente nella vita politica, non di rado le donne vi raggiungono posizioni di vertice: basti citare, per restare all’oggi e ai maggiori paesi occidentali Martine Aubry e Ségolène Royal, che in Francia si sono contese la guida del partito socialista e la candidatura alle elezioni presidenziali: Angela Merkel, cancelliera tedesca; Hillary Clinton, che dopo aver perso per un soffio le primarie democratiche negli Stati Uniti, ha sostituito Condoleezza Rice nella carica di segretario di Stato. Ma i successi di alcune protagoniste possonoo oscurare i perduranti limiti del ruolo svolto dalle donne in politica? È questa la domanda che si pone Anne Stevens in Donne, potere, politica (Il Mulino, 324 pagine, 32,00 euro), un saggio in cui la condizione femminile è tratteggiata in riferimento allo status sociale ed economico delle donne, alle pari opportunità, ai diritti di cittadinanza, alla presenza femminile negli organi di rappresentanza e in altre organizzazioni. Con una chiave di lettura: l’uguaglianza è necessaria per compensare la differenza, la differenza va riconosciuta per raggiungere l’uguaglianza. Ritorna l’ateismo militante di Michel Onfray che per Fazi editore pubblica ora L’arte di gioire (333 pagine, 18,50 euro) saggio di promozione di un materialismo edonista. Per tradizione - dice Onfray - il corpo è sempre stato trascurato nella storia della filosofia perché, al contrario della mente, dimostrava quanto fossero ancora forti i legami tra uomo e animale. Pur di allontanare questa incontrollabile irrazionalità l’Occidente si sarebbe inventato, secondo Onfray, meccanismi straordinari per mortificare la sfera sensoriale. Per questo Onfray nel suo saggio riabilita l’ideologia edonista e i suoi apologeti: i cirenaici, gli gnostici licenziosi, i fratelli del libero spirito, i libertini eruditi come Sade e Fourier. Fin dall’epoca di Oliver Cromwell, inglesi e americani sono stati convinti che i loro nemici fossero anche nemici di Dio e della libertà. Popoli senza morale e dunque pronti a qualunque bassezza pur di sconfiggerli. Dio e dollaro di Walter Russel Mead (550 pagine, 32,00 euro) tra i massimi esperti di relazioni internazionali, spiega come l’elemento chiave della propulsione anglofona sia stata l’ideologia individualista. Da questa visione del mondo nasce e si diffonde il capitalismo e la sua percezione economicista della vita. Oltre alla convinzione per gli anglofoni di avere una missione nel mondo. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

RYSZARD KAPUSCINSKI HA ASSISTITO A RIVOLUZIONI, GUERRE, COLPI DI STATO. PEZZI DI REALTÀ, LUOGHI E ABITANTI DEL MONDO CHE NEL SUO RACCONTO SONO DIVENTATI LETTERATURA. SOSTENUTO DA UNA GRANDE PASSIONE, DA MOLTO RIGORE E DA UNA RARA UMILTÀ È DIVENTATO UN MAESTRO, UNO DEI PIÙ GRANDI GIORNALISTI DI TUTTI I TEMPI. ORA LE SUE OPERE SONO ENTRATE NELL’OLIMPO DEI MERIDIANI

Professione reporter di Enrico Singer i lui è stato scritto molto. È stato paragonato addirittura a Erodoto, a Marco Polo, a Goethe perché ha fatto del viaggio, e del racconto del viaggio, la ragione e, al tempo stesso, il piacere della vita. C’è stato anche qualcuno che, per denigrarlo, dopo la morte, il 23 gennaio del 2007, nella sua Polonia, è arrivato perfino a dire che era stato una spia agli ordini del regime comunista. Chissà che cosa penserebbe Ryszard Kapuscinski di tutto questo clamore attorno al suo nome. Giornalista, viaggiatore, quasi antropologo, storico di formazione e di fatto, esperto d’arte, scrittore, autore di successo mondiale, come tutti i grandi, Kapuscinski aveva una dote che, purtroppo, è molto rara in chi fa questo mestiere, l’umiltà: «Non mi sono specializzato in niente, ho semplicemente tentato di comprendere le persone incontrate nei luoghi che ho visitato». E il suo non era un atteggiamento. Aveva la consapevolezza profonda che «più si conosce il mondo, più ci si rende conto della sua inconoscibilità e sconfinatezza: non tanto in senso spaziale, ma nel senso di una ricchezza culturale troppo vasta per poter essere davvero conosciuta». Per questo i reportage che ci ha lasciato e i libri che ha scritto sono così semplici e affascinanti. Sono pezzi di realtà fatti letteratura, sono testimonianze uniche raccontate da chi di quei luoghi e di quegli avvenimenti ha avuto esperienza diretta. Senza internet, senza immagini rilanciate dalle tv, senza alcun sentito dire.

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Tra i tanti, c’è un aneddoto che aiuta a far capire chi era Ryszard Kapuscinski. Baghdad 2003, a un tavolo del ristorante dell’hotel Palestine, poco dopo l’abbattimento della statua di Saddam Hussein, gli inviati di giornali e tv di tutto il mondo raccontano la loro giornata. Molti esagerano. Più che riferire quello che hanno visto, fanno a gara per dimostrare agli altri di avere visto di più. Essere tanto vicini alla Storia può dare le vertigini. Poi qualcuno se ne esce con una domanda: «Che cosa avrebbe fatto Kapuscinski in un’occasione del genere?». Una ragazza polacca, che per l’intera serata era stata zitta ascoltantdo i colleghi più scafati, risponde: «Non sarebbe qui in albergo con noi. Lui sarebbe in qualche casa di iracheni, in qualche locanda malfamata».

Ecco, Ryszard Kapuscinski era davvero così. Non giocava a fare Indiana Jones. Non ha indossato neppure una volta una sahariana. Eppure ha coperto rivoluzioni, guerre, colpi di Stato. Al successo è arrivato per caso lavorando per squattrinati giornali polacchi, ma, a sentir lui, seguendo un filo che era scritto nel suo destino. Appena nato a Pinsk, un paesino in una delle zone più paludose d’Europa che allora era Polonia e che oggi è Bielorussia, il 4 marzo del 1932, la sua famiglia fu costretta a scappare prima da Hitler e poi da Stalin. La guerra per lui è stata la palestra della vita. Ecco che cosa ha scritto in Busz po polsku: «Per me gli anni della guerra sono stati l’infanzia, l’inizio della maturazione, la nascita della

Nato a Pinsk (allora Polonia, oggi Bielorussia) nel 1932, fu costretto a scappare con la famiglia prima da Hitler e poi da Stalin. Emblema della corretta informazione, dopo la sua morte non gli è stata risparmiata la falsa accusa di spionaggio coscienza. Per questo mi sembrava che non la pace, ma la guerra fosse l’unico stato naturale, l’unica forma di esistenza e che la vita errante, la fame, la paura, i bombardamenti e gli incendi, le retate e le esecuzioni capitali, la menzogna e il frastuono, il disprezzo e l’odio fossero il naturale e perpetuo ordine delle cose, l’essenza del vivere, il contenuto dell’esistenza… Non ricordavo che cosa fosse la pace, ero troppo piccolo: quando la guerra finì conoscevo soltanto l’inferno».

Di un uomo così è difficile scrivere. Soprattutto è inutile volerlo raccontare con altre parole che non siano le sue. E allora è meglio leggere. Adesso che Mondadori ha raccolto in un prezioso volume dei Meridiani tutte le sue opere, questo è non soltanto possibile, ma è estremamente utile - perché Kapuscinski è stato e resta una finestra unica aperta sul mondo - ed è anche godibile perché le oltre 1.750 pagine del libro contentengono almeno set-


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Accanto, Kapuscinski; sopra, alcuni scatti africani del giornalista; sotto, la copertina del Meridiano Mondadori che raccoglie le sue opere. Nella pagina accanto, un suo ritratto e, in basso, personaggi e luoghi raccontati nei suoi libri: l’Iran di Khomeini, la provincia dell’Unione Sovietica e il Negus

te racconti - Il Negus, La prima guerra del football e altre guerre dei poveri, Shah-in Shah, Imperium, Ebano, In viaggio con Erodoto (da Lapidarium), Taccuino d’appunti e altre poesie - più un’interessante prefazione di Silvano De Fanti e una completa cronologia che anche un lettore distratto può prendere, lasciare e riprendere con l’agilità di chi si appassiona al reportage di cui Ryszard Kapuscinski è stato maestro.

Lo hanno chiamato «il Bruce Chatwin dell’Est». Di sicuro è stato uno dei più grandi giornalisti-scrittori dei nostri tempi. Il suo primo amore è stato l’Africa. Eppure Ebano «non parla dell’Africa, ma delle persone che vi abitano e che vi ho incontrato, dei giorni che abbiamo trascorso insieme. L’Africa è troppo grande per poterla descrivere. È un continente-pianta, un cosmo vario e ricchissimo. È solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa. A parte la sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste». È sempre l’umiltà di Kapuscinski che ritorna. Ma per avere un’idea di che cos’è oggi il continente nero senza andarci, bisogna leggere il suo Ebano. Così come altri suoi celebri libri sono ormai dei classici per chi vuole orientarsi nell’età contemporanea. Nel 1983 Newsweek definì il suo Negus, splendori e miserie di un autocrate «uno dei migliori libri dell’anno». Quella fu la consacrazione per il giornalista che si ostinava a scrivere in polacco e che adesso è tradotto in trentacinque lingue. Nel 1994 con Imperium, un saggio-reportage sul dissolvimento dell’impero sovietico, si impose anche sul mercato mondiale dei bestseller. Nel 1997 uscì Lapidarium, intarsio di esperienze. Poi Ebano, nel 1998, sui suoi decenni di viaggi in Africa durante i quali si era ammalato di tubercolosi e si era fatto curare da africano in ambulatori locali sempre per capire la realtà che lo circondava. Ormai gli editori lo rincorrevano chiedendogli saggi ispirati ai suoi viaggi, sicuri di vendere. Nel 2001 arrivò in Italia Shah-in-Shah, nel quale Kapuscinski racconta il suo anno in Iran, proprio quando - era il 1980 - l’ayatollah Khomeini prese il potere scalzando Reza Pahlavi. È

lì durante i combattimenti nelle strade. Ed è ancora lì quando i riflettori sono spenti a ragionare di «come un popolo decide di cambiare il potere». Poi c’è l’Unione Sovietica che non è solo Mosca. Non è solo il Cremlino, la piazza Rossa e gli altri stereotipi da cultura «falce e martello». L’Unione Sovietica di Ryszard Kapuscinski è immobilismo che si trascina da secoli, coacervo di culture, di etnie, di diversità che partono dagli Urali e arrivano fino ai confini con la Cina che descrive e racconta nel suo Imperium, nel 2002. Oltre cinquant’anni di viaggi nell’ex Unione Sovietica. Centinaia di ore di volo tra la Siberia, la Bielorussia, le Repubbliche del Caucaso. Chilometri e chilometri di terra desolata, gelida. Neve e ancora neve, che confonde il cielo e la terra, nasconde l’orizzonte, acceca, lascia poco spazio alla speranza perché inganna come se quella luce fosse di una giornata di sole. E ancora: aerei che non partono, aeroporti affollati di disperati, coincidenze con il contagocce che costringono all’attesa in disumani bivacchi. Kapuscinski ha raccontato mezzo secolo della Russia del se-

una sola volta nella vita, che probabilmente non ci torneremo mai più e che abbiamo solo un’ora per conoscerlo. In un’ora dobbiamo registrare l’atmosfera e la situazione, vedere, ricordare, sentire più cose possibili. Il viaggio a scopo di reportage esige molta passione. Anzi, la passione è l’unico motivo valido per compierlo. È per questo che così poche persone fanno reportage. Di tutti i reporter che viaggiavano per il mondo negli anni Sessanta sono rimasto soltanto io».

Può sembrare superbia. Invece, ancora una volta, è umiltà. È serietà in un mondo - quello dell’informazione - dove sempre più conta l’apparire, il protagonismo di chi dovrebbe raccontare. Nei reportage di Ryszard Kapuscinski gli unici protagonisti sono gli interpreti della storia, non il loro narratore. E questa è una grande lezione non solo di giornalismo, ma di vita da parte di chi ha scritto «questo è un mestiere troppo difficile per il cinico» e ha sempre considerato «l’amore verso il prossimo» un elemento fondamentale del suo lavoro. «Parlare di

Nei suoi reportage gli unici protagonisti sono gli interpreti della storia. Una grande lezione di vita da parte di chi ha sempre considerato il cinismo un nemico e l’amore verso il prossimo un elemento fondamentale del suo lavoro condo dopoguerra, quella lontana dai palazzi del potere, quella della sterminata periferia, quella delle distese sconfinate e inospitali, fino alla disgregazione dell’impero. L’Imperium, appunto. Una nazione grande quanto un continente, che non si può raccontare se non attraverso le storie della gente, le memorie dei viaggi, dei luoghi, delle situazioni. Con l’obiettivo di comprendere le ragioni che hanno portato al dissolvimento dell’Unione Sovietica, immensa, complessa, difficilmente inquadrabile sotto una sola ottica, affascinante e terribile. «Una civiltà che non si pone domande - scrive Kapuscinski mentre racconta del viaggio verso Vorkuta, in Siberia oltre il circolo polare artico - una civiltà che espelle dal proprio ambito la sfera dell’inquietudine, del criticismo e della ricerca, la sfera che è espressa appunto dalle domande, è una civiltà paralizzata, immobile, al palo». Da qui, da questo limite intrinseco al sistema sovietico, è nato il germe della disgregazione che ha portato alla fine dell’Imperium. Ma Kapuscinski ha saputo raccontare con realismo e profondità la realtà di tanti altri paesi martoriati dalle guerre. In occasione della presentazione a Milano di Ebano alla domanda di un ragazzo che gli chiese come fosse possibile diventare reporter di guerra, Kapuscinski rispose: «Il viaggio per realizzare un reportage esclude qualsiasi curiosità turistica, esige un duro lavoro e una solida preparazione teorica, per esempio la conoscenza del terreno su cui ci si muove. È un modo di viaggiare che non consente un momento di relax, in continua concentrazione e raccoglimento. Dobbiamo essere consapevoli che il luogo nel quale siamo giunti ci viene concesso

guerra e sognare la pace - ha scritto nella prefazione Silvano De Fanti - perché il reportage è sempre raccolta di voci altrui. Kapuscinski ha viaggiato per anni portando con sé nella valigia una copia delle Storie di Erodoto che gli aveva regalato il suo primo redattore capo, la signora Irena Tarlowska, del giornale Sztandar Mlodych, quando lo spedì in India per il suo battesimo da inviato. Una storia a parte, ma che merita di essere raccontata, è quelle avvenuta dopo la morte di Kapuscinski. È la storia della falsa accusa di spionaggio: la pubblicazione del dossier della polizia segreta comunista che, ai tempi della Polonia satellite dell’Urss, schedava tutti i cittadini che chiedevano il passaporto e che, naturalmente, schedò anche Kapuscinski. Un dossier che fu pubblicato integralmente nel maggio del 2007 da Newsweek Polska dopo uno stillicidio di anticipazioni e di stralci usciti dell’Istituto per la memoria che è un’istituzione pubblica voluta per disintossicare il paese da ogni eredità del regime comunista, ma che è stato anche usato come strumento di lotta politica. Soprattutto in quel periodo, quando la Polonia era governata dai gemelli Kaczynski, Lech capo dello Stato (e lo è tuttora), Jaroslav primo ministro (costretto alle dimissioni). I gemelli Kaczynski, nazional-populisti del partito Libertà e Giustizia non avevano mai avuto simpatia per Ryszard Kapuscinski e con la pubblicazione del dossier, tutti i giornali, almeno per un giorno, poterono scrivere - tra virgolette o con il punto interrogativo - che Kapuscinski era una spia. Un’accusa infondata come quella rivolta a un altro grande polacco: al padre di Solidarnosc, Lech Walesa, che proprio sulla base di un dossier simile è stato accusato di avere avuto un ruolo d’informatore della polizia comunista. Dopo queste insinuazioni, Walesa che è stato presidente della Polonia e premio Nobel per la pace, ha minacciato di lasciare il paese e ha denunciato un modo distorto di fare informazione, di strumentalizzarla per fare polica. Proprio quello che Ryszard Kapuscinski non ha mai fatto.


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facile immaginare la smorfia di disappunto che fece Italo Calvino, mente padrona della Einaudi, quando lesse questa frase: «Il compagno Ferrarini ascoltava appena e sorrideva, in uno stato di torpore piacevole». Calvino fu uno dei tanti a sbarrare la strada editoriale a Guido Morselli, autore anche di Il comunista, romanzo che «il grande censore» di Torino respinse argomentando (sic!) che Morselli non conosceva il mondo delle cellule comuniste, manco questi intendesse fare un reportage sociologico. Il peccato grave, per chi seguiva le linee guida del Pci, era vedersi davanti un comunista malato, anti-eroico ed eretico, uomo denunciante l’impotenza del comunismo esaltatore dell’uomo marxiano che domina tutto. Lo stop venne anche da Vittorio Sereni della Mondadori. Un cazzotto dopo l’altro per un uomo che alla fine si tolse la vita con un colpo di rivoltella, nel 1973. E l’anno successivo la casa editrice Adelphi cominciò a pubblicare, con buon successo di vendite e di critiche, i suoi romanzi. «Morselli fu soprattutto un caso» ebbe a dire Giuseppe Pontiggia che dell’Adelphi era ottimo suggeritore. Ma non è vero che Morselli non pubblicò mai, in vita, un libro. Vide (in poche librerie) il suo saggio su Proust, del quale era ammiratore, e anche Realismo e fantasia, edito da Bocca nel 1947. L’opera viene ora riproposta dalla Nuova Editrice Magenta, con la puntuale prefazione di Valentina Fortichiari, esperta e curatrice della prosa di Morselli e, più in generale, fine studiosa del Novecento italiano.

È

Ristampato “Realismo e fantasia ” edito da Bocca nel 1947

L’Arcadia del Nord sognata da Morselli di Pier Mario Fasanotti le». Realismo e fantasia è una voluminosa (un po’troppo) opera a forma di dialogo.Tra un «io» e un certo «Sereno». Guido è il secondo dialogante. Il padre aveva sondato la disponibilità di Garzanti (che aveva pubblicato Proust o del sentimento, 1943) con l’intercessione dell’amico Antonio Banfi. Niente da fare. Uscì da Bocca. La famiglia Morselli si impegnò a comprare 200 copie. La tiratura fu di 700 esemplari. Guido spedì una copia a Benedetto Croce, ma non risulta alcun seguito epistolare. Il nucleo del libro è la funzione conoscitiva, l’autocoscienza, le sensazioni percettive. L’autore era affascinato dall’«ozioso fantasticare di due filosofi peripatetici», intenzionato a mettere su pagina «una filosofia amatoriale con decorazioni sentimentali». Era anche un omaggio alla memoria. Proust aveva lasciato in lui un segno indelebile. Passeggiate e conversazioni tra due amici, nella campagna attorno alla sua casetta di Santa Trinita di Gavirate.

Quanto al rifiuto di Calvino, la Fortichiari riferisce che l’editor-scrittore dell’Einaudi trattò Il comunista «con un senso di benevolenza». Il che equivale a un doppio schiaffo. E aggiunge: «Calvino lavorava per se stesso e probabilmente c’era anche dell’invidia. Però le colpe andrebbero ridistribuite anche su Sereni e Dante Isella, che non si sono mai occupati di Morselli se non dopo il suicidio. La verità è che Morselli non era classificabile, cercavano di assimilarlo a modelli esistenti, ma lui era unico. Era uno scrittore di respiro europeo e internazionale. Lo diceva anche Pontiggia. C’era un gap tra lui e i suoi romanzi: con i suoi innumerevoli “io”Morselli precorreva i tempi e l’industria editoriale non lo ha fatto passare». Questo la dice lunga sulla capacità di intuito letterario (e pure commerciale) dei grandi editori. Ieri e oggi. Dei casi «umani» la macchina editoriale ovviamente non si occupa. È così da sempre. Le rotative sono insensibili alla fatica, al dolore e alle qualità morali di chi riempie pagine. È comunque straziante leggere alcuni brani del Diario di Morselli. Per esempio, alla data 6 novembre ‘59: «Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nella identica maniera. Ho pregato, non ho ottenuto nulla; ho bestemmiato, non ho ottenuto nulla. Sono stato egoista sino a dimenticarmi dell’esistenza degli altri; nulla è cambiato né in me né intorno a me. Ho amato, sino a dimenticarmi di me stesso… ho fatto qualche poco di bene, non sono stato compensato; ho fatto del male, non sono stato punito. Tutto è ugual-

libri

È un’opera a forma di dialogo tra due oziosi “filosofi peripatetici” che dissertano sulla funzione conoscitiva, l’autocoscienza, le sensazioni percettive. Una specie di rodaggio in vista della stagione romanzesca apprezzata però solo dopo il suicidio dell’autore mente inutile». Morselli, laureato in Legge ma ostinatamente avverso a un posto fisso, ebbe un vitalizio (modesto) dal padre (chimico e dirigente industriale) col quale decise di vivere nella tranquilla Varese e lì «oziare» in senso latino, ossia occuparsi di letteratura e filosofia. Raggiunse un impressionante enciclopedismo. Al termine della sua vita si vide costretto ad abbandonare la sua abitazione di campagna per «un’improvvisa, bestiale invasione di motocrossisti che risposero minacciosi e brutali alle sue esasperate rimostranze. Lui era solo, non aveva paura di niente, ma aveva un’atroce paura degli uomini» come ricorda la sua amica Maria Bruna Bassi. I centauri chiassosi e arroganti abbattevano quel muro di inti-

mità e silenzio proustiani dentro il quale lui ambiva a scrivere e a meditare. Prima di accostare la rivoltella alla tempia, scrisse un breve appunto per la Questura: «Non ho rancori». Efficace il titolo del saggio scritto da una delle sue curatrici dell’Adelphi, Sara D’Arienzo: Guido Morselli, lo scrittore tra parentesi. Era uomo schivo, poco avvezzo al vizio italico della raccomandazione, dell’appoggio, del corteggiamento salottiero. Non chiese mai aiuto, «nemmeno quando poteva farlo» ricorda Fortichiari. «Era stato compagno di classe di Giorgio Mondadori, eppure quando era nella casa editrice si nascondeva dietro le colonne per non incontrarlo. Morselli se si sentiva rifiutato non lottava, si ritirava subito, cedeva le armi». Diverso atteggiamento aveva nella vita sentimentale, tanto è vero che era considerato un donnaiolo, anzi «un gonnaiolo» come lo prendeva in giro sua sorella Luisa: «Era capace di fare la corte alla cassiera del cinema, incurante della fila alle sue spal-

«Non si prendeva mai troppo sul serio» scrive la Fortichiari, la quale ammette tuttavia che l’opera è lunga, a volte dispersiva e ripetitiva. Avrebbe avuto bisogno di una equilibrata operazione di editing e di molti tagli. Qua e là vengono alla luce affermazioni che spezzano il dialogo speculativo ma lanciano un’affilata luce interpretativa sull’uomo: «Io credo nella morte e ne accetto il mistero». Frase profetica, senonché contraddetta, in apparenza, da un’altra: «La vita è per sua essenza luminosa chiarità». Un lavoro complesso che l’autore definì «ragno». La tela è spessa. È un aggrovigliarsi di argomentazioni, alle quali spesso sfugge il baricentro filosofico. In quella «Arcadia del Nord» Morselli parla di vini (ne era produttore, sul biglietto da visita scrisse «agricoltore»), di pascoli, di bestiame, di cambi di stagioni, della sua passione per la fotografia. «Aveva un occhio pittorico e cinematografico in grado di vedere la realtà, la natura, e tradurla in immagini di forte impressione: da qui l’osservazione meticolosa del paesaggio, nasce il desiderio di sperimentare suggestioni descrittive nuove e potenti in senso letterario», così scrive la Fortichiari. Emerge anche un’altra sua peculiarità caratteriale: l’amata «patente di dilettantismo che, con una punta di snobismo, sempre amerà opporre al disprezzato specialismo». Un saggio, questo, che suona come un rodaggio in vista della stagione romanzesca. Un humus dal quale emergono l’idea delle varie personalità di un uomo (con riferimento a Goethe, emblema del genio) e la teoria del sentimento come origine dell’opera d’arte (riferimento a Shakespeare). E sempre il tono profetico: «Così non diventerò scrittore, visto che non lo sono mai stato». Si sbagliava: scrittore fu. Soltanto che fu respinto dai padroni della carta stampata.


video Mandrake? MobyDICK

tv

È il clone di Hammer

web

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icordate il detective Mike Hammer, duro, politicamente scorretto, sbrigativo e «macho» con le donne? È la creatura letteraria di Mickey Spillane, autore di vari best seller tra cui il memorabile I, jury, tradotto in italiano col titolo Ti ucciderò. Milioni di lettori e anche un gran successo con le riduzioni televisive. Vecchi tempi, diranno in molti. Ora il machismo, nei serial polizieschi, viene messo al bando. Addirittura, nell’ambiente della Scientifica made in Usa, le donne sono in primo piano e tutte pronte a colpevolizzare uno sguardo maschile diretto a una scollatura o a un fondo-schiena. I comportamenti «ormonali» sono ormai considerati crimine. Da perseguire socialmente e professionalmente. Con l’unica eccezione di quel Tony Di Nozzo (nome italiano, of course) che, divertendo se stesso e gli altri, è tollerato, e a volte incoraggiato, come sciupafemmine nella serie Ncsi (su Fox Crime). Ma ora il canale Fx, che fornisce materiale poco adatto ai minori, manda in onda Mandrake. È un prodotto brasiliano. Se lo giudichiamo in base ai parametri della qualità televisiva dobbiamo dire che fa orrore. Se invece lo valutiamo in chiave comica, ossia come canzonatura di un genere che si ispira al duro e testardo Mike Hammer (che in inglese significa martello: con quella lingua tutto è permesso, una tale

banalità sarebbe una croce addosso a un italiano o a un francese), il personaggio regge. È un clone. Il nome Mandrake già fa ridere. È una parodia stanca. Comunque è il soprannome di Paulo Mendez, avvocato penalista di Rio de Janeiro, tra i 35 ai 40 anni, socio (titolo ereditato dal padre) dello studio legale M&W. Scherza sempre con la segretaria sessantenne e qui la citazione deriva da James Bond. Abita in Copacabana. Premessa essenziale bene evidenziata dal serial: «Rio non è solo quello che si vede dal Pan di Zucchero», ossia non è una cartolina, una foto scattata dall’alto. È una metropoli marcia. E lui s’infila dentro, con occhiali scuri e sigaro. Sempre in giacca, camicia bianca e cravatta. Le vicende di cui si occupa sono l’occasione per intrattenere il pubblico con zoomate su seni e sederi di belle donne brasiliane. Linguaggio e immagini da strada, al limite del pornografico. Nessun filtro linguistico, e qui c’è da sorridere perché il lessico che si origina dalla parte genitale è di per sé limitato. La ripetizione quindi è grottesca. Come anche la descrizione che fa di sé Mandrake: «Amo tutte le donne nel momento in cui faccio l’amore». Si scivola nel fumettistico e pare di vedere le vecchie nuvolette con le frasi-chiave, quando il bell’avvocato viene invitato a essere prudente e lui, stoicamente e senza l’accenno di ironia, risponde «ormai è troppo tardi». Paulo-Mandrake mai non si sottrae all’abbraccio di numerose donne, tutte vogliose di lui ovviamente. Invece della pistola di 007 è armato di parlantina. Mica sempre gli va bene, ma lui lo mette in conto. Anche quando lo conciano di botte, lui ha la sua filosofia spiccia: «So bene che dopo il quinto o il sesto pugno non senti più niente». Inevitabile il finale con la sua faccia tumefatta, l’aria del bravo ragazzo che ha mantenuto l’impegno con il suo cliente e la visione dall’alto delle vie di Rio, tra grattacieli e miserie umane. Gli anni Trenta o Quaranta diventano pioggerella in una città che forse non cambia mai, a cominciare dai politici corrotti e il giro di droga e prostituzione. Mandrake ci vede giusto, dietro quegli occhiali scuri da Hammer laureato in legge. (p.m.f.)

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games

dvd

FAX COME TI PARE

LASCIA STARE I SANTI

L’AFRICA LIEVE DI MAMBETY

er aggirare le antidiluviane fatiche che costringono lo sfortunato di turno a girare interi quartieri alla ricerca di un esercizio commerciale da cui inviare un fax, sono sorti in rete alcuni servizi specifici. Myfax.com, tra i più celebri in rete, consente di inviare messaggi teletrasmessi in 41 paesi del mondo, dall’Argentina agli Usa, passando per il Giappone e la Nuova Zelanda, in

N

on le abbiamo ancora viste tutte. Pronto per le console, e preceduto da uno strascico di polemiche che ne garantiranno, se non il successo, la fama, arriva dall’italiana Molleindustria un picchiaduro controverso. Nell’agone di Faith Fighter, pronti a darsele di santa ragione, Buddha, Maometto, Cristo e altre figure sacre. Protagonisti di una guerra senza esclusione di colpi, presentata però dai produttori

e chiudi gli occhi vedi il buio, ma se li chiudi di più, vedi tante piccole stelle.Alcune sono persone, altre cavalli, altre uccelli. Bisogna mescolarle come cemento. Mentre si mescolano, si deve dire loro come ci si deve amalgamare. Dite loro dove andare, quando fermarsi, dove cadere. Questa è una sceneggiatura. Quando avete finito, date un nome a tutto. Poi, aprite gli occhi e avete un film». A dieci anni

In ”Faith Fighter” Cristo, Maometto e Buddha in una lotta senza esclusioni di colpi

In home video i primi due cortometraggi che resero celebre anche in Europa il regista senegalese

come un momento catartico. Non troppo d’accordo con la tesi il mondo arabo, che affida ad agenzie come Arab News parole di fuoco: «Un gioco che incita alla violenza interconfessionale, offensivo nei confronti dei musulmani e dei cristiani». «Il gioco non vuol recare offesa a nessuna religione in particolare - replica la ditta produttrice - ma se un’organizzazione non coglie l’ironia e il messaggio alla base di questo, significa semplicemente che abbiamo fallito». Molto probabilmente sì. Molleindustria teme che Faith Fighter venga censurato. E forse non sarebbe un male. Aizza i fanti, ma lascia stare i santi.

dalla sua morte, le parole di Diop Mambety, regista senegalese che ha dedicato la propria vita ai bambini e il cinema, suonano semplici ma non banali proprio come il suo cinema. I primi due cortometraggi che lo portarono alla ribalta anche in Europa, Contras’ city (1968) e Badou boy (1970), vengono proposti per la prima volta in home video, rivelando quello speciale mix di rigore e sarcasmo con il quale il maestro africano decise di raccontare la sua gente e l’infanzia africana. Lontano dai piagnistei e dal buonismo didascalico, Mambety filma giovanotti impertinenti, simpatiche canaglie che brillano di innocenza e voglia di vivere. Si può ridere anche in Africa, si può ridere lievi anche delle tragedie.

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”Myfax.com” consente di inviare comunicati in 41 paesi del mondo direttamente dal pc maniera del tutto gratuita. Unica limitazione: il numero di comunicati inviabili in un giorno. Non più di due, e non superiori alle nove pagine ciascuno. Capace di trattare con successo la spedizione di ben 178 tipi di file, compresi quelli associati ai più noti programmi di scrittura e di grafica, myfax non richiede registrazione, converte i file per i numeri di telefono indicati, e indirizza un messaggio di avvenuta trasmissione alla mail eventualmente indicata dal mittente. Interfaccia snella e intuitiva, affidabilità e totale abbattimento dei costi, sono i punti di forza di un servizio semplice che non può mancare tra i nostri segnalibri.

a cura di Francesco Lo Dico

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poesia

Quell’incauto viaggio sul cocchio del Sole di Roberto Mussapi archetipo, più ancora che il prototipo della letteratura di viaggio è, notoriamente, l’Odissea. Il senso ultimo del viaggio è un ritorno, l’impresa finale si profila a Ulisse come ritorno a Itaca, alla piccola isola petrosa e povera da cui è partito, al mondo d’origine. L’Ulisse di Dante non si appaga di questo ritorno, e quindi si rimette in mare con i compagni come lui invecchiati, per un’altra partenza, salpa nuovamente: ma anche in questo caso non vuole fuggire, sottrarsi alla realtà, no, è mosso dalla brama di raggiungerne un’altra, ulteriore perché precedente, intuita come originaria, assoluta. Ulisse cerca un definitivo ritorno, e infatti doppia le Colonne d’Ercole, la soglia vietata, l’accesso all’Oceano che porta a Occidente. Sappiamo che doppiando quella soglia, entrando nell’Atlantico, Cristoforo Colombo incontrerà un continente sconosciuto, che sarà battezzato America. Ma il suo scopo era doppiare il pianeta per mare, ritornare a Oriente, all’Oro dell’India, al mitico luogo dove sorgono il sole e le civiltà. Passando da Occidente, tornare all’origine in senso contrario a quello di Marco Polo. Compie ciò che Dante aveva presentito nel suo Ulisse. Vediamo che alla base della letteratura di viaggio, in modo poi evidentissimo nei grandi autori di mare di lingua inglese, Stevenson, Melville, Conrad, è un inarrestabile slancio verso l’infinito. Credo la ragione sia approssimabile: la poesia è in se stessa un viaggio assoluto, azzera spesso la questione della distanza geografica. In questo senso la lirica che porta in modo leggendario tale titolo, L’infinito di Leopardi, esprime la quintessenza dello slancio da cui nascono sia i grandi viaggi, le esplorazioni, sia l’avventura suprema dell’uomo, la poesia. La sete di infinito può, quando controllata, condurre all’allunaggio di Aldridge e Armstrong nel 1968, come alla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge, alla conquista del K2 e al brivido della Sistina. Ma se incontrollata, se assoluta, divorante, adolescenziale, può portare alla rovina.

L’

Con l’agile corpo Fetonte occupa il cocchio volante, e vi si rizza godendo a maneggiare le briglie agognate e ringrazia il padre contrariato. Intanto Piroo, Edto ed Eoo, e, quarto, Flegetonte i cavalli alati del Sole riempiono l’aria di nitriti fiammanti e percuotono le barriere con gli zoccoli. E quando Teti ignara del destino del nipote tolse schiudendo lo spazio del cielo infinito i cavalli si gettarono sul cammino nel vuoto squarciando con le zampe le accorrenti nuvole, e alzatisi spinti dal moto alato doppiarono gli Euri che dalle stesse regioni spiravano. Ma il carico era leggero e non tale che i cavalli del Sole lo riconoscessero, e il giogo non subiva l’usuale stretta. Come le navi per mancanza di carico nella pancia sbandano, e troppo leggere oscillano in mare senza imboccare la rotta, così il cocchio privo del solito peso balzava nell’aria e presto come se fosse vuoto, si squassa. Come avvertono lo sbandamento, lo sfascio i quattro cavalli aggiogati si scatenano, abbandonando la pista sempre percorsa e cambiando ordine di corsa. Fetonte allora afferra il timone, senza sapere dove piegare le briglie a cui è estraneo, né dove sia la via, né come, se mai lo potesse, riuscire a imporre dominio sui cavalli. Ovidio da Metamorfosi, libro II,150-207 (traduzione di Roberto Mussapi)

Lo vediamo nei due grandi archetipi del viaggio, quello per mare e quello verso l’alto, in cielo. In entrambi l’uomo segue l’impulso a liberarsi della gravità, che spesso diviene un gravame, ha bisogno di solcare le acque per raggiungere terre lontane, oltre l’orizzonte, scivolando su un elemento mobile e trasparente, o volare, librarsi nella regione degli uccelli che confina, e adombra quella degli angeli, degli dei, della divinità, in tutte le sue versioni, dal Sole degli egizi ai divi del Pantheon, al Dio trascendente dei monoteismi. Il rischio della superbia è sempre presente in questa impresa, lo dimostra il destino del Capitano Achab in Moby Dick, eroico nel suo titanico e univoco furore di incontrare il nemico, la Balena Bianca, incontro che segnerà la sua fine. Parallelamente la letteratura del viaggio celeste, accanto a viaggiatori felici, in pace con gli elementi e in armonioso ascolto del creato, ne incontra alcuni che caparbiamente si contrappongono alle leg-

gi della natura. Da una parte il viaggio ariostesco di Astolfo verso la Luna, l’incanto notturno della straordinaria fiaba dell’Orlando furioso. O il volo di Percy Bisshe Shelley, il grande poeta romantico inglese che compone una trilogia di odi agli elementi del cielo: la nuvola, l’allodola, il vento occidentale. Nei suoi versi il poeta diviene nuvola nel cielo, si fa vento, soffiando sulla terra e gonfiando le onde dei mari, ascolta incantato la melodia della voce dolcissima dell’allodola, ammira umilmente quel segreto poetico di armonia che giunge da un piccolo uccello che canta infinitamente in alto, perso nell’infinità del cielo. Meravigliata, incantata, l’avventura celeste di Ariosto, dinamica, potentemente spirituale quella di Shelley, impregnata di leggerezza ventosa, traboccante anima. Accanto a questi felici viaggi nel cielo ne vediamo altri, dall’esito funesto, a causa di un’ebbrezza incontinente dell’uomo che si lancia verso il cielo, insofferente al proprio peso corporeo, alla dura legge di gravità che ci chiama alla terra.

Superbamente luciferino il volo in cielo del Dottor Faustus di Christopher Marlowe: prima trainato da draghi diabolici eruttanti fuoco, poi orgoglioso della ubiquità conquista con il patto con Mefistofele, una condizione di superba superiorità rispetto ai limiti umani che avrà conseguenze nefaste, ma che non è priva qui di un’ebbra felicità giovanile. Faustus, onnisciente e conoscitore di tutti i segreti della natura, ha stretto un patto col diavolo, ottiene ciò che agli umani è negato, in cambio dell’anima. Il suo volo ebbro e blasfemo è una sfida a Dio, e sarà ripreso dai voli notturni nei sabba con le streghe e i demoni del male dal Faust di Goethe. Il viaggio più radicale e assoluto, l’ascesa al cielo, nella sua dimensione tragica e patetica, è rappresentato in uno dei più importanti poemi delle origini della nostra cultura, le Metamorfosi di Ovidio, dove noi assistiamo al volo in alto, sul mare, di Icaro, con le ali elaborate dal padre Dedalo e apposte alle braccia con la cera destinata a sciogliersi per la troppa prossimità all’astro solare, e al generoso, incauto e rovinoso viaggio nel cielo con il cocchio del Sole di Fetonte. Fetonte era figlio del Sole, e quindi per natura estremamente orgoglioso. Ferito dall’insinuazione di un coetaneo, Climene, sulla reale paternità del dio della luce, volle provarla nel modo più sfrontato, mettendosi egli stesso alla guida del cocchio del Sole. Inutili le preghiere del padre, gli inviti a desistere, inutile, quell’alba tragica, l’addio del Sole, presago, al figlio, che salito orgogliosamente sul carro ne fu immediatamente trascinato: i cavalli non gli obbedivano, si lanciarono in una galoppata cieca nel cosmo, tutto l’universo ne fu sconvolto, bruciato, mentre il cocchio dopo una corsa impazzita precipitava nel Po. Il pianto delle sorelle che per lo strazio si mutarono in alberi, il disastro cosmico, la tragedia di un’avventura di esuberante incontinenza, il sogno di luce e volo di un giovane impreparato all’esperienza metafisica.


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il club di calliope

Non dimenticare Dell’Arco

DANZA Lussino è un gorgo che danza una caduta, il piede apre lo spazio è l'incoscienza dell’aurora e la lussuria di luce al tramonto. Tutto lavora si fa scogliera la curva di un fianco la primavera che trema e si bagna e la ruggente audacia dell’estate. Vasto è questo movimento come una donna è reale, libera nella suprema bellezza la segretezza di un giardino che freme nell'attesa d'un cavaliere gentile del fuoco d'un barbaro. Laura Marchig

LA PROVOCAZIONE DI FLAMINIEN in libreria

di Nicola Vacca ean Flaminien è uno dei più importanti poeti di lingua francese. Personaggio appartato e misterioso, la sua poesia è pura fedeltà all’assoluto. Il suo ultimo libro è L’acqua promessa (traduzione di Marica Larocchi, Book editore, 160 pagine, 15,00 euro). L’acqua, per il poeta, è l’elemento dal quale pren-

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luzione bisogna rimanere fedeli al proprio assoluto. Questa è la provocazione inattuale che Flaminien, artigiano del pensiero poetante, lancia in tempi cupi di nichilismo e relativismo. Con lui la poesia torna a essere la chiave d’accesso che decifra gli enigmi, la casa del non detto in cui è possibile dare un significato ai silenzi

“L’acqua promessa”: in tempi di nichilismo e relativismo, il poeta francese rilancia nei suoi versi “salvifici” la pura fedeltà all’assoluto de forma la vita. Nel suo luogo primordiale Flaminien si insinua con una parola trascinante pronta a mettere in salvo gli istanti. Il poeta francese afferra il mondo con i sensi: indossa l’esistenza al centro del caos, riempie la materia con l’interrogazione perpetua sulle domande esistenziali. Flaminien è convinto che, nonostante il disordine imperante, nel mondo c’è qualcosa da salvare. La verità è nell’aria, e soltanto la poesia può offrire a noi le parole giuste per districarsi nel labirinto dell’inquietudine. Siamo di fronte a un’arte poetica di luce che inventa la vita. Ogni verso è destinato al dono: grazie all’acqua la terra si è fatta più vicina agli uomini. Per trovare la so-

tremendi dell’universo e ai suoi misteri. Insomma, quella poesia che confida nella parola «alta», fiume mistico, bosco spirituale, ma anche il luogo dell’infinito nel quale bisogna osare. Jean Flaminien crede nella forza salvifica del verso, l’unico posto nel quale ognuno diventa ciò che contempla. Con la poesia niente più limiti al dono, alla gioia e ai viventi. Un pensiero forte che afferma il valore della vita. Impossibile passare sulla terra senza porre in salvo qualcosa. Flaminien s’immerge per tutti nel limpido istante dell’acqua desiderante per vestire con la parola le pieghe della nudità del tempo che scorre: «In che modo si è fiume?/ Labbra aperte al passaggio/ di un abbandono vasto».

di Luciano Luisi opo Belli, Trilussa e Pascarella, anche Mario Dell’Arco, il quarto (ma non in ordine di valore!) dei grandi poeti romaneschi, ha il suo nome nel cuore della vecchia Roma. A lui è stato dedicato un Largo nel grande parco che circonda Castel Sant’Angelo.Valga anche questa notizia di cronaca a far ricordare questo grande poeta del quale troppo poco si parla. Quando apparve, nel 1946, il suo primo libretto, Taja ch’è rosso, fu accolto da un vasto, stupito, persuaso consenso del mondo letterario e dall’ironica incomprensione dei poetastri romaneschi. Dell’Arco era un famoso architetto (si chiamava Mario Fagiolo) che rinunciò alla sua bella carriera, per dedicarsi, ormai quarantatreenne, interamente alla poesia. Nella prefazione a quella raccolta Antonio Baldini disturbò per lui personaggi come Dante e Belli, Pascoli e Mallarmé, Pontormo e Palazzeschi e Govoni. Si trattava, fuori della norma dialettale, di poesie brevi che rivelavano subito la loro straordinaria novità lessicale, e un «romanesco epurato, lucido, capace di evocare certe orme linguistiche che il Belli non aveva del tutto esaurito» come aveva scritto Pier Paolo Pasolini che poi firmerà con Dell’Arco, nel ‘52, una grande Antologia della poesia dialettale. Sono poesie che abbandonano la gora post-trilussiana, popolare e bozzettistica, e che nascono dalla grande tradizione lirica europea, dal simbolismo all’ermetismo, arricchendo il linguaggio con apporti di parole desuete del variegato catino dei dialetti laziali. I suoi modesti detrattori dissero che scriveva quelle piccolissime poesie perché non aveva il fiato per composizioni più ampie. E Dell’Arco rispose con Ottave: otto poemetti, di argomento romano, dal costume alla storia, in otto ottave. L’adozione del metro ariostesco porta il poeta a comporre larghi affreschi che suggeriscono il confronto con le incisioni del Pinelli, ma sopra tutto, gli consentono di gareggiare con la potenza rappresentativa del Belli, per esempio ne Er sacco de Roma là dove il Papa Clemente, «come una statuva de sasso», esce dal Castello sulla sedia d’oro e i lanzichenecchi «cascheno in gi-

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nocchio». Non è questa la sola prova di «fiato narrativo»: nel ’52 esce il poema La peste a Roma (in otto canti di otto ottave) che ha la potenza provocatoria della pittura espressionista. In quel suo primo libretto, come in La stella de carta, in Tormarancio, nel Ponte dell’Angeli, per citare alcune delle sue cinquantasei raccolte, Dell’Arco si muove in un amabile surrealismo che suscita, a prima lettura, il sorriso, ma - come osserva Giuseppe De Luca - anche la malinconia, anzi la tristezza e qualche volta persino la tetraggine. La vita del poeta è ferita da un avvenimento inaccettabile che violenta le leggi della natura: la morte di un figlio bambino (come accadde a Ungaretti) e Dell’Arco compone una serie di poesie di una tremante emotività, ma come cristallizzata nella purezza della forma. Credo sia raro poter salire oltre la folgorante intensità di questi versi rivolti a quel suo figlio bambino che lo ha preceduto nella morte. «Tu lo sai quanno è l’ora, e io t’aspetto./ In petto er core è un sasso./ Buffo che un ragazzino/ insegni er primo passo/ a un omo: Tu me guardi/ e io cammino». E come non accennare alla tormentata religiosità della sua visione del mondo, tema che attraversa tutta la sua opera fino all’intenso Vangelo secondo Dell’Arco. Ebbene, questo poeta che ha avuto fra i suoi grandi estimatori, Pancrazi, Pasolini, Parronchi, Sciascia, Gadda (del quale è stato consulente per Er pasticciaccio), dopo due esaurienti antologie pubblicate conVallecchi e con Mondadori, tradotto in molte lingue, sembra essere stato dimenticato. Assente delle antologie italiane dove pure sono stati accolti giustamente i dialettali, (cito, per tutte, quella di Mengaldo nei Meridiani), e persino uno specialista dei dialetti, come Franco Brevini lo aveva ignorato nel suo bel panorama einaudiano Poeti dialettali del Novecento e lo ha poi «recuperato», finalmente, nella più vasta rassegna in tre volumi dei Meridiani Mondadori. Troverà dunque Dell’Arco il posto che merita nella letteratura italiana del Novecento? Oppure dobbiamo davvero ripetere con lui «Er verso indove casca è un seme morto»?

UN POPOLO DI POETI Se io scrivo ancora di lei, dopo tutto questo tempo, è per registrare la sua assenza fra le mie abitudini: sto a raccattare appunti su ogni descrizione per chiudere archivi e restarmene a guardare. I ricordi stavano sfondando la fronte. Cosa mi stava succedendo? Ero ubriaco di un’insopportabile obbedienza al passato mentre l’oggi era un sonno senza più sogni.

E il restar senza sogni, il riposo indisturbato sono pur sempre un segno che si è vivi. Son quasi giunto ad amare il modo in cui se n’è andata perché di fronte a ogni individuo sono al cospetto di Dio e lo guardo allora materiale e lo accolgo peritoneale. Ho partorito questa trasfusione perché tutto resti uguale, sangue che rimane sotto le unghie. Enzo Comin

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

ome spesso succede, a Roma o nelle città maggiori, meglio fuggir via dalle mostre più monstres e strombazzate (basta un titolo: Bulgari, tra eternità e storia! Via, facciamola un po’ più corta, un minimo di sapiente understatement non guasterebbe). Dagli eccessi immeditati e arbitrari del Futurismo all’indigeribile Mendini dell’Ara Pacis (davvero, non c’è pace tra le archeologie). Dall’esageratamente capillare e un poco stucchevole Hiroshige (davvero, non si è mai contenti di nulla, o troppo o troppo poco ma è spesso il troppo che stroppia) alle ormai insopportabili «macchine» espositive dedicate al genio meccanico di Leonardo, ce n’è una identica e clonata in ogni città, ogni cortile o antro va bene per tracimare, con cigolanti e troppo spesso in panne ricostruzioni moderne di marchingegni soltanto immaginati (che presunzione passare dai davvero geniali schizzi dei codici a dei risultatini da atlante scolastico dopo-lavoristico! Professor Pedretti omni-sponsorizzante, basta: per pietà di Leonardo!) alla babelica mostra di Giotto, che finge d’essere una mostra epocale e ci fionda dentro di tutto, sino all’insensatezza (certo che Giotto ha visto tutto e tutti hanno visto Giotto, che scoperta. Ma allora a quel punto, visto che anche le categorie storiche son scoppiate, ma perché non metterci pure un Carrà, tanto per fare buon peso?). E poi se certe cronologie si vogliono azzardare o ripensare, pur tra i legittimi dubbi dei veri filologi, benissimo, ma che almeno, negli accrochages stipati, quelle date vengano poi rispettate, altrimenti si deve saltellare come canguri tra un’ipotetica data e un’altra delle tavole proposte, senza più capir nulla. E non si può iniziare con codici miniati pur bellissimi ma assai posteriori, se no si guasta l’occhio ab ovo e c’è il rischio che un qualsiasi miniatore bolognese o lombardo sia molto più moderno di Giotto e visto che si vuol far risaltare soprattutto la sua rivoluzione assoluta, non pare proprio, questa, una soluzione così intelligente... Così non è possibile mettere accanto un autorevole opera di Taddeo Gaddi fianco a fianco a un Giotto assai dubbio e modesto (però di appartenenza guarda caso di una banca prestigiosa, magari pure sponsor) col rischio che l’effetto-concorrenza sia davvero clamorosamente scompensato. Allora meglio riprendere un pellegrinaggio per vie meno ufficiali e publicizzate e scoprire piccole mostre ben più nutritive e sorprendenti. In chiusura, ahimé, quella bellissima di Granet, a Villa Medici, curata con intelligenza e amore da Anna Ottani Cavina, si potrebbe passare a quella d’un contemporaneo a lui, ma molto più teutonico, paesaggista della campagna romana più

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Che miracolo i collages di

Louise di Marco Vallora

arti

che non vero vedutista, che è Johann Martin von Rohden, a Casa Goethe (ma su di lui forse vorremmo ritornare con più calma, se lo merita). Meglio passare allora dalle parti di Via Margutta, alla Galleria di Enrica Fiorentini, dove una sorprendente mostra curata da Duccio Trombadori (che ha ereditato e conosciuto precocemente queste opere per via paterna, quando Antonello Trombadori, il politico-poeta, era di casa nella Russia di transizione tra il disgelo di Kruscev e il ri-sgelo di Breznev) ci fa meglio conoscere quegli artisti che furono soffocati dal regime pre-invasione Cecoslovacchia, e che pure resistettero, tra stenti e ricatti. In modo meno clamoroso ma analogo alle vicissitudini del compositore Shostakovic, qui magnificamente ritratto, nella sua perplessità caratteriale, da uno dei più interessanti artisti in mostra,Yuri Mogilevskij. Sono nomi che ci dicono poco e che è giusto riilluminare, anche perché sono assai migliori delle abituali porcherie giovanilistiche che corrono nelle gallerie contemporanee e soprattutto degli artisti che ci si promette di ammannire alla prossima Biennale. L’unico forse celebre (con Francisco Infante) è Ilya Kabakov, che Trombadori collaborò molto a far conoscere, portando in Italia quella terribile serie simbolica, Voglia di lavarsi, con il getto d’acqua subdolo, «di partito», che circola e schizza dappertutto ma non lambisce mai il corpo della povera vittima. Anche gli altri, grafici peritissimi, e caustici continuatori delle avanguardie, pasticciano e rubano da maestri occidentali, come Klee e Masson, Steinberg e Gabriele Muenter, pur restando degli artisti assai autonomi e proseguendo il discorso patrio, transmentale e suprematista. Anderground si chiamavano, russificando il termine americano, con riferimento al «sottosuolo» di Dostoievskij: giustamente Trombadori sostiene che non sono dei veri artisti del dissenso, ma sono costitutivamente incompatibili con quel regime. Infine, che miracolo, i collages della Nevelson, nata anche lei a Kiev, così diversi dalle sue abituali «sculture da muro», integralmente nere (ce ne sono due in mostra: «Io mi sono innamorata del nero. Per me il nero è tutto»). C’è poco da fare: quando si è grandi artisti, basta un micro pezzetto di legno e il miracolo accade. Con buona pace di quegli ideologi che non capiscono nulla e teorizzano teorizzano senza vedere il piacere del testo.

Pittori contemporanei dell’Urss, Roma, Galleria Enrica Fiorentini,Via Margutta 17, sino a luglio; Louise Nevelson, Collages 1959-86, Roma, Mara Coccia Arte Contemporanea,Via del Vantaggio 46, fino al 25 luglio

diario culinario

Semplicità ed equilibrio, la ricetta del Paradiso di Francesco Capozza nopportuni e troppi Son del tutto per me gli altri apparecchi/ Di molto cacio, di molto olio e untume,/ come se a gatti s’imbandisse mensa». Parole di Archestrato di Gela, scrittore gastronomo del IV secolo dopo Cristo, scritte in spregio dell’eccesso di condimenti (questa e altre dotte citazioni le trovate in Perché agli italiani piace parlare di cibo, di Elena Kostioukovitch, Sperling & Kupfer). Ecco: ad Archestrato l’Osteria Paradiso di Palermo sarebbe andata benissimo, perché nella semplicità e nel non voler strafare ha trovato la cifra dell’equilibrio culinario. Locale conosciutissimo in città, consiste di appena due stanze, cui si accede scendendo qualche gradino dopo aver varcato un in-

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gresso nemmeno troppo evidente. I tavoli sono solo sei, e può capitare di ritrovarsi commensali - sotto l’occhio di papa Wojtyla che benedice da un vecchio calendario - dell’editore Sellerio accompagnato da uno scrittore, di facce da film di malavitosi (crani rasati, giubbotto di pelle, occhiali scuri, croce dorata al collo) o di coppie datate dall’aria benestante. I clienti sono perlopiù maschi, mentre in cucina, dietro una vetrata, si vedono solo donne. Sui tavoli, tovaglie di cotone dorato, coperte a loro volta da teli di spessa plastica trasparente - ma noi, per una volta, eviteremo di fare gli schizzinosi. Il servizio è veloce; e per fortuna, perché altrimenti si farebbe in tempo a saziarsi di ottimo pane croccante al sesamo. Fra gli antipasti bisogna assolutamente assaggiare il bollito alla palermitana, servito a cubetti con olive e

acciughe sotto sale. Ci sono poi ghiotti carciofi e fave piccanti, e insalata di mare (polipo, calamari e cozze). Di primo solo pasta secca e varie versioni di spaghetti, serviti molto al dente: con broccoli; alla «grassa» (con le patate dello spezzatino); con sarde, finocchietto e pan grattato («atturrato»). Per secondo, carne alla pizzaiola, bollito o bistecca panata. Oppure un pesce tra quelli esposti nel bancone refrigerato: fritto, alla griglia o all’acqua pazza. Appena entrato noto un corpulento signore solitario, che mangia con aria beata un dentice alla griglia, grande abbastanza da ricavarne quattro porzioni; mi viene voglia di emularlo, ma finisco per lasciarmi ingolosire dalle triglie, fritte perfettamente in padella. Come contorno, giri (biete) e broccoletti, e, per finire, fichi d’India e cassata. Con un discreto bianco del-

l’Etna sfuso, il conto è nell’ordine dei 30,00 euro. Per digerire, due passi nel parco dell’adiacente Villa Whitaker. Gli alberi di ficus sembrano architetture di Gaudì, con radici simili a stalattiti colate dall’intrico del palco di rami: viene subito voglia di arrampicarsi e scalarli da tutte le parti, come ragazzini. La frescura del verde, nel sole scintillante di maggio, contrasta con la cupezza della sfarzosa e lugubre villa, in stile neogotico veneziano. Gli arredi interni, tutti d’epoca, con pesanti boiseries nerastre, mobili ungulati e caminetto d’aspetto elefantino, sono da castello di Dracula, e per un momento ci si sente straniati, come si fosse catapultati nel bel mezzo dei freddi Carpazi.

Osteria Paradiso, Palermo, via Serradifalco 23. Aperto solo a pranzo, tranne la domenica. Non ha telefono


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architettura

Dal progetto alla costruzione: l’importanza degli archivi di Marzia Marandola gni progetto, di architettura, di urbanistica o di design lascia consistenti tracce grafiche e documentarie, che spesso il tempo dissipa e disperde, ma che in realtà costituiscono un fondamentale strumento di conoscenza e di memoria. La Professione dell’architetto. Frammenti dagli archivi privati è il titolo del convegno che si è tenuto ad Ancona il 21 e 22 maggio scorsi, nel Dipartimento Dardus dell’Università Politecnica delle Marche. Il censimento degli archivi privati delle Marche, avviato nel 2003 dalla So-

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printendenza Archivistica regionale e dal Dardus, ha fatto emergere uno straordinario numero di archivi sconosciuti presenti sul territorio. Prendendo avvio da questa constatazione, il convegno organizza un utile incontro tra università e istituzioni per avviare il censimento e una messa a sistema del patrimonio archivistico regionale e nazionale. Come è noto, ogni progetto è illustrato innanzitutto da disegni, schizzi e appunti che si accumulano nell’archivio privato dell’architetto, o in quello dell’ente pubblico per cui il progettista opera. Per ricostruire la

archeologia

storia dal progetto alla costruzione dell’opera non basta indagare una fonte primaria di informazioni, qual è l’archivio privato, ma esso è certamente il primo gradino da cui partire. La storia di un edificio, come la biografia di un architetto, si ricostruisce attraverso la testimonianza di tante fonti documentarie, attraverso documentazione diretta o indiretta, attraverso la corrispondenza, i filmati d’epoca, le interviste, la bibliografia: solo confrontando le informazioni di origine diversa si può ricostruire correttamente una storia. Il convegno ha affrontato il tema della ricerca e della conservazione dei materiali d’archivio, dai documenti cartacei a quelli digitali, ai filmati, alle registrazioni audio e si è interrogato riguardo alla conservazione di questi documenti e al loro futuro prossimo e remoto. Si è ormai affermato negli studi di architettura e ingegneria l’uso di strumenti digitali, che sostituiscono il foglio, la matita e la china: pertanto gli elaborati richiedono tecniche di conservazione nuove e diverse dal passato. In futuro gli archivi saranno grandi sistemi di hard disk dove conservare files di disegni e di foto digitali che si affiancheranno alle

copie cartacee. Antonello Alici, dell’Università Politecnica delle Marche, con Fausto Pugnaloni, direttore del Dardus, è ideatore e promotore del convegno, che ha coinvolto le istituzioni preposte alla conservazione, insieme a ricercatori e progettisti, italiani e stranieri, per discutere questi temi e avviare una strategia comune. Il convegno ha dibattuto le conseguenze attuali e future dell’evoluzione del ruolo dell’architetto, degli strumenti del progetto, del cantiere e della costruzione. Da Guido Zucconi a Roberto Dulio, attraverso vicende diverse di architetti e di archivi, sono state illustrati i diversi destini professionali e umani di protagonisti dell’architettura italiana, famosi come Gio Ponti o meno noti come il milanese Elio Frisia architetto e fisarmonicista, il cui archivio conserva numerose fisarmoniche!. Dall’Archivio Progetti Iuav, Martina Carraro ha presentato i materiali dell’opera di Edoardo Gellner specialista di architetture alpine, autore del villaggio Eni a Corte di Cadore (1953-65). Infine l’architetto Patrizia Burattini, del Dardus, ha proposto la ricostruzione dello sviluppo urbano e dei progetti per Ancona dopo l’unità d’Italia.

La vita quotidiana all’ombra di Persepoli di Rossella Fabiani

na missione congiunta irano-italiana ha portato alla luce le prime tracce dell’insediamento urbano che sorgeva nei pressi della Terrazza cerimoniale dei sovrani achemenidi. Ad annunciarlo al Teheran Times è stato il direttore italiano della missione, Pierfrancesco Callieri, docente di Archeologia e Storia dell’arte iranica all’Università di Bologna, che ha voluto evidenziare come le nuove scoperte nel sito di Persepoli ovest danno la prima informazione archeologica sulla città dove abitava la gente comune. Le aree scelte per questa prima campagna sono molto vicine alla Persopoli monumentale dove sorgevano i palazzi degli imperatori. Dopo sei sondaggi effettuati nella piana della grande Terrazza achemenide, fino a un chilometro di distanza da questa, il team archeologico ritiene di avere trovato la prima traccia dell’abitato che forse corrisponde alla città di Mattezish ricordata nelle tavolette elamiche di Persepoli. In epoca achemenide (VI-IV secolo a.C.) qui vivevano tutti coloro che svolgevano un’attività collegata alla corte imperiale, dai funzionari agli operai. In una delle due aree indagate dagli archeologi è emersa una struttura notevole, forse la recinzione di uno dei complessi archittettonici della città. Nella seconda area di scavo, invece, è stata individuata una zona artigianale con una fornace e una serie di fosse di scarico, sicuramente connesse alle attività lavorative, con molta ceramica, ma anche frammenti di ossa animali. Il reperto di maggiore pregio artistico è un frammento di raffinata decorazione con il piumaggio di un’ala, appartenente quasi sicuramente alla raffigurazione di Ahura Mazda, massima divinità della religione zoroa-

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striana. La decorazione fu realizzata in un materiale ceramico artificiale di colore blu intenso apprezzato dagli Achemenidi, noto come Egyptian Blue. Dagli scavi è venuta fuori anche una moneta, o meglio una mezza moneta, con ogni probabilità coniata localmente in epoca arsacide (II-I secolo a.C.). Era stata tagliata a metà già in epoca antica e questo dimostra un legame con il tradizionale uso dell’argento tagliato e pesato. Sempre di epoca achemenide, di particolare interesse sono alcune punte di freccia in bronzo a tre alette, ti-

della gente comune in quel periodo. Quanto ai frammenti di carbone, abbondanti nell’area artigianale, saranno di enorme utilità per una datazione assoluta tramite le analisi del Carbonio 14. La prosecuzione degli scavi permetterà una ricostruzione completa dell’antico paesaggio attorno a Persepoli. Lo studio della stratigrafia, per esempio, ha indicato l’esistenza di una sorta di corso d’acqua nei dintorni. Se oggi Persepoli ci appare come un’isola senza nulla attorno, è invece evidente che la maestosa capita-

piche del periodo, e alcune «pietre occhio», ovvero gemme di agata od onice a due strati bianco e bruno, simili a un occhio, usate per essere inserite in statue o in decorazioni di vario genere, ma forse anche come amuleti. I rinvenimenti più abbondanti sono stati quelli di ceramica comune che potranno fornire nuove informazioni anche sulla vita economica oltre a produrre un’affidabile sequenza cronologica della ceramica sinora mancante per la regione del Fars. Anche i frammenti di ossa animali, rinvenuti in notevole quantità, forniranno indicazioni preziose sull’alimentazione

le achemenide non poteva vivere senza un sistema prossimo di supporto logistico. Lo spostamento della ricerca dai Palazzi, finora gli unici a essere stati scavati, alla città è fondamentale. La regione del Fars e Persepoli sono alla radice della cultura dell’Iran e del grande impero degli Achemenidi, il più esteso del mondo antico: una memorabile struttura amministrativa multiculturale, con una solida organizzazione che ha vissuto per oltre duecento anni. Per questo è di grande valore e importanza il lavoro svolto dal team archeologico che è composto da italiani e iraniani.


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i misteri dell’universo

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ai confini della realtà

aolo dal Pozzo Toscanelli è noto, o almeno lo era ai miei tempi quando i programmi di studio delle scuole elementari e medie erano diversi da quelli di oggi e certo più seri, come lo studioso che diede a Cristoforo Colombo informazioni su un continente al di là dell’Atlantico, fornendogli forse anche delle mappe. Questo fatto sul Toscanelli, uomo di immensa erudizione che ne fa uno dei grandi del Rinascimento, è probabilmente vero. Nato nel 1397 e fiorentino, si specializzò in matematica e medicina all’Università di Padova. Tornato a Firenze, si occupò anche di architettura, collaborando con il Brunelleschi nella costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore. Per sua insistenza nella cupola fu inserito lo gnomone, che rese la struttura importante come laboratorio astronomico. Lo gnomone, su cui ha scritto un importante libro il matematico Paolo Zellini, è uno strumento che, facendo passare la luce del sole da un piccolo foro, proiettandola sul basamento della chiesa, permette di calcolare i movimenti del sole, in particolare il giorno del solstizio e quindi la durata dell’anno; è tanto più preciso quanto più alto è il foro d’ingresso della luce, e quello di Santa Maria del Fiore a 90 metri d’altezza non aveva confronti.Vedasi un altro astronomo dell’epoca, lo Ximenes (cui è dedicata una via ai Parioli, a Roma), che lo dichiara più alto di quelli allora costruiti a Santa Maria degli Angeli a Roma, a San Petronio a Bologna e a San Sulspizio a Roma. Morì nel 1482, a 85 anni, una età rara a quei tempi.

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La maggior parte dei lavori di Toscanelli sono perduti. È comunque certo che si occupò di cartografia e anche di carte nautiche. E non è da escludere che nel periodo padovano gli arrivassero notizie circa il viaggio che i cinesi, con 108 navi divise in quattro flotte, avevano organizzato per esplorare praticamente l’intero globo, evento su cui l’ammiraglio inglese Menzies ha scritto un affascinante libro, anche se non tutte le sue affermazioni sono da prendere come certe.Viaggio che causa l’opposizione degli eunuchi di corte, e un incendio al palazzo imperiale, forse provocato ad arte, fu giudicato un malaugurato tentativo di fare uscire la Cina dai suoi confini tradizionali esponendola a perniciose influenze straniere. Quindi al suo ritorno la flotta venne messa in disuso e il materiale raccolto fatto scomparire. Ma grazie alla presenza di naviganti non cinesi nella flotta, una parte arrivò ai paesi vicini, Corea in particolare; e deve essere anche arrivato a Venezia, tramite marinai che frequentavano i porti dell’India dove erano stati arruolati (vista anche l’alta mortalità presso gli equipaggi antichi era usuale arruolare nuovi uomini nei porti di passaggio). E qui sta probabilmente l’origine della straordinaria Mappa di Fra Mauro, esposta in una sala della Biblioteca Marciana di Venezia, aperta solo per richieste motivate, in cui appaiono perfettamente delineate Africa e Asia. La mappa è del 1439, una quindicina di anni dopo la spedizione cinese, e vi sono delineate con incredibile accuratezza anche di longitudine sia le coste orientali dell’Africa, allora non ufficialmente mappate da alcun europeo, sia quelle orientali dell’Asia, e incredibilmente le coste settentrionali dell’Asia, ovvero

Accanto, il “Cartografo” di Vermeer. Sopra, dall’alto: un ritratto di Toscanelli; Firenze con la cupola di Santa Maria del Fiore; spaccato e pianta del Duomo in cui sono visibili la posizione dello “gnomone” e della linea meridana

Le passioni

di Toscanelli di Emilio Spedicato della Siberia, fatto che indica che allora l’estensione dei ghiacci artici era inferiore a oggi, fenomeno questo certo non dovuto a variazione del CO2. Che Toscanelli, noto per i suoi interessi geografici oltre che astronomici, conoscesse chi aveva partecipato alla spedizione è ipotesi ammissibile, e si può anche pensare che avesse avuto informazioni

quel tempo pare più attive e spettacolari di oggi, fenomeno attribuibile al fatto che molte di esse provengono forse dalla frantumazione di una più grande cometa, la super Enke, frantumazione possibile ad esempio, oltre che per esplosione di gas interni vicino al sole, per gli effetti di marea gravitazionale passando vicino a un pianeta (Giove e

Tra i più grandi eruditi del Rinascimento, è noto per aver fornito a Cristoforo Colombo informazioni su un continente al di là dell’Atlantico. Cartografo e astronomo, ha studiato il percorso celeste delle comete e inventato lo “gnomone” di Santa Maria del Fiore sulle coste dell’America che passò a Colombo. Le mappe cinesi che pare siano all’origine della cosiddetta mappa di Piri Reis, ammiraglio turco, risalente ai primi del Cinquecento, rimuovono quindi l’ipotesi spesso proposta che essa risalisse ai tempi di Atlantide, undicimila anni prima… Fra gli interessi ulteriori di Toscanelli furono le comete, in

Saturno in particolare). A fine Seicento una cometa fece prevedere a Newton una possibile catastrofe. Sembra che il forte raffreddamento di quel periodo, in cui per parecchi anni ghiacciarono Tamigi, Senna, Reno etc. dando luogo alle scene che vediamo nei pittori fiamminghi, abbia causato anche il congelamento del Nilo per un intero inverno,

fenomeno mai prima registrato nella storia. Gli studi di Toscanelli, corredati da precise mappe del percorso celeste delle comete, sono venuti alla luce solo nel 1864 dagli archivi dell’osservatorio di Arcetri, e pubblicati dal direttore Donati. La loro analisi fu fatta in particolare dal Celoria (il misterioso personaggio, allora per me, cui era dedicata la via di Milano dove stava l’istituto di Fisica che frequentavo), successore di Schiaparelli come direttore dell’osservatorio di Brera.

Molte delle comete descritte dal Toscanelli si ritrovano negli studi dei cinesi, la cui attenzione per le comete è sempre stata forte ed è presente anche in documenti di quasi quattromila anni fa (i cinesi hanno documentato l’estrema varietà delle code cometali, con tipologie che da secoli non si ritrovano più, tutti segni di un cielo in tempi antichi più ricco di eventi di quanto lo sia oggi). Molto dettagliata è la descrizione che Toscanelli dà della cometa del 1472, da lui osservata quando aveva 80 anni, e presumibilmente ancora con una buona vista. Per saperne di più si consultino gli Atti del convegno di Archeoastronomia del 2006 presso l’Università del Molise, dove tre autori scrivono su Toscanelli e Regiomontano. Fra loro, Letizia Buffoni, che ricordo giovane ricercatrice ai tempi in cui seguivo a Brera le lezioni del professor Zagar, l’ultimo dei grandi astronomi classici italiani. Lezioni dense di trigonometria sferica, mentre oggi gli studenti arrivano a corsi avanzati di matematica senza aver mai sentito parlare di seni e coseni.


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