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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

COSÌ PARLÒ IL CANE Il miglior amico dell’uomo nella letteratura del ’900

di Filippo Maria Battaglia ome un Giano, peggio di un Giano. Due immagini speculari, un cona Giuseppe Tomasi di Lampedusa, da Primo Levi a Paolo Volponi, da Elsa Motrasto che si fa stridente fino a tradursi in ossimoro. Da sempre, rante a Mario Rigoni Stern: il campionario è davvero sterminato. Eppure, Da Italo il cane richiama a sé l’icona del più fedele amico dell’uomo, quasi mai il cane assume un ruolo davvero autonomo rispetto al suo Svevo a Tomasi il confidente silenzioso che cristallizza l’anima più pura padrone. Nella novella Pallino e Mimì di Luigi Pirandello, il più dell’umanità. Inevitabile, in questo caso, il riferimento ad fedele amico dell’uomo si trasforma ad esempio nell’osserdi Lampedusa, da Primo Levi Argo e alla sua fedeltà a Ulisse. Eppure, la dimensiovatorio privilegiato per un’analisi spietata del decoro a Volponi, da Pirandello ne canina riserva al contempo un tratto più agpiccolo borghese. Dopo essersi accoppiato per gressivo e ringhioso, quello di Cèrbero, il castrada con un randagio (Pallino, appunto), alla Morante... L’animale a quattro zampe ne a tre teste posto a implacabile guardia delMimì viene abbandonata per strada a Chianè descritto in pagine memorabili dove l’Ade. L’immaginario letterario dell’animale a quatciano, rea di aver commesso un peccato che il perconcentra spesso in sé gli aspetti benismo della società contemporanea non può sopportro zampe, però, non è affatto recluso alla tradizione antica. Nella letteratura del Novecento nostrano, le sue improntare. «Nessuno si mosse a prenderla, nessuno la chiamò. E più umani del suo te restano bene impresse in alcune memorabili pagine, di recente Mimì seguito a vagar, sotto la pioggia… padrone scovate da Andrea Giardina in un dettagliato saggio da poco pubblicacontinua a pagina 2 to da Le Lettere, Le parole del cane (269 pagine, 24,00 euro). Da Italo Svevo

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Migrante di Gennaro Malgieri La mutazione dell’Iguana di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Izet Sarajlic il cantore di Sarajevo di Francesco Napoli

La verità su Galileo di Franco Cardini Levinson e le star politically correct di Anselma Dell’Olio

Omaggio a Soffiantino di Marco Vallora


così parlò il

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cane

Madgie, Fidele & Pallino ogol, Bulgakov, Il’ja Sel’vinskij: tre autori, tre esempi significativi della familiarità tra la letteratura russa e il più fedele amico dell’uomo. Nel Diario di un pazzo, due schizzinose e smorfiose cagnette, Madgie e Fidele, si scambiano lettere pettegole e piene di civetterie. E, anche qui, il cane diventa proiezione di un personaggio, ovvero dell’incipiente pazzia del protagonista, Popriscin. Tocca altre corde Cuore di cane di Michail Bulgakov. Stavolta, a tenere la scena è il rozzo Pallino che, dopo un prodigioso trapianto da parte di un luminare della scienza, si ritrova addosso ipofisi e ghiandole sessuali di un uomo. I temi sono assai simili a quelli che sei anni più tardi Il’ja Sel’vinskij tratterà nella commedia in versi Pao Pao. Al centro della storia c’è la questione, assai cara a Bulgakov, della metamorfosi uomo-bestia. Un angolo di osservazione privilegiato, che permette allo scrittore nato a Kiev di anatomizzare la società moscovita degli anni Venti. È Angelo Maria Ripellino a notare come «benché a differenza

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A sinistra, la copertina del libro “Cuore di cane” di Michail Bulgakov (nella foto a destra). A fianco, il quadro di Renoir “Alfred Berard col suo cane”

del gatto nero Behemoth del romanzo Il Maestro e Margherita, il cane umanoide di Cuore di cane non abbia nulla di demonico, pure nel suo comportamento balena qualcosa della rivolta dell’omuncolo contro il proprio creatore. Ma soprattutto: che campionario, che epitome di trivialità questo Pallino. Brulica di pulci, sputa semi di girasole e contumelie e torrenti di turpiloquio, butta cicche per terra e cenere sul polsino, si rimpinza di polvere dentrificia, putisce i gatti azzannati, pizzica il seno delle signore, si sbornia con loschi figuri. Sebbene per molti versi assomigli al tanghero Prisypkin de La cimice, persino in quel debole per le cravatte dai colori atroci, non è mai inerme e sperduto e come l’eroe di Majakovskij nella frigida società del futuro». L’animale di Bulgakov offre inoltre il destro a una spietata analisi dell’avvenirismo scientifico e degli infiniti rischi in cui si può incorrere se scienza ed etica non vanno a braccetto. Un’ulteriore riprova per comprendere come il legame uomo-cane possa connotarsi di nuove e attualissime interpretazioni. (f.m.b.)

segue dalla prima

ferro che comprime la plastica scura, ecco che emerge, sotto un duro manto di peli e di sangue, il corpo di un uomo. Spetta a un pensoso Don Camillo chiosare come «la coscienza per farsi sentire può prendere a prestito anche la voce di un cane».

Di tratto in tratto s’arrestava a guardare con gli occhietti cisposi tra i peli, come se non sapesse ancora comprendere come mai nessuno avesse pietà di lei così piccola, così carezzata e curata: come mai nessuno la prendesse per riportarla alla padrona, che l’aveva perduta, alla padrona che essa aveva cercato invano per tanto tempo e che cercava ancora. Aveva fame, era stanca, tremava di freddo, e non sapeva più dove andare, dove rifugiarsi». A tradire, dunque, è quasi sempre l’uomo. È lui che, con l’abbandono, si illude di sgravarsi di una responsabilità morale. Da par suo, lo scrittore non fa che registrare il rapporto, annotarne i tratti, riportandoli fedelmente o, alle volte, sovvertendoli: l’uomo si assimila così alla bestialità canina; per converso, il cane concentra in sé gli aspetti più umani del suo padrone.

Ma il rapporto uomo-animale nell’opera del premio Nobel siciliano non è destinato a concludersi qui. Tocca al più celebre degli esclusi pirandelliani, Mattia Pascal, ripescare l’animale a quattro zampe e farne una cifra della solitudine e della privazione umana. Possedere un animale vuol dire infatti delimitare la propria libertà. Ne consegue che proprio quel desiderio va categoricamente evitato: «Ero… stanco di quell’andar girovagando sempre solo e muto. Istintivamente cominciavo a sentire il bisogno di un po’ di compagnia… Sotto un fanale scorsi un vecchio cerinajo… gli scoprii tra le scarpacce rotte un cucciolotto minuscolo, di pochi giorni, che tremava tutto di freddo e gemeva continuamente, lì rincantucciato. Povera bestiola! Domandai al vecchio se la vendesse. Mi rispose di sì e che me l’avrebbe venduta anche per poco, benché valesse molto… Comprando quel cane, mi sarei fatto, sì, un amico fedele, ma avrei dovuto anche mettermi a pagare una tassa: io che non ne pagavo più!». Tenerezza e fedeltà, dunque. Ma anche una certa dignità, messa alla prova nel momento più drammatico. Per il cane, l’istinto primordiale è infatti quello di

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

fuggire da una fine violenta: «Come tutti gli animali, - nota Giardina - non ama rendere pubblica la sua sofferenza, né vorrebbe, in ogni modo, mostrarla. La sua dimensione è quella del silente pudore. La sua morte ideale è la buona morte, chiudere gli occhi vicino al padrone senza che nessuno se ne accorga. Un abbandono silenzioso, un fin de partie che non incomoda nessuno». Così succede al quadrupede di don Emilio Messena, raccontato da Sciascia in Occhio di capra, che muore in silenzio, senza neppure un guaito, tanto che per diversi giorni nessuno, nemmeno il suo padrone, si accorge del tragico epilogo. «La morte violenta - annota il critico - sembra costringere il cane a un ruolo che non desidera, lo espone allo sguardo degli uomini, in qualche modo ne fa una preda o un oggetto scomodo con cui intorbida la relazione col padrone». E se a morire è l’uomo? Qui la fedeltà canina tocca il suo zenit, specie se il trapasso è percepito dall’animale come bruciante e inatteso. Stavolta è Giovanni Guareschi a raccontare dello strano ritrovamento di un cane nero, ferito in mezzo a un canneto e disteso sopra un sacco che galleggia. Quando Peppone, armato di ronchetta, recide il fil di

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

La cieca obbedienza può però apparire più irritante dell’insubordinazione e assumere i contorni grigi e indefiniti della condanna e del disprezzo. Così Giorgio Manganelli, quando osserva come «i cani hanno cessato secoli or sono di essere animali, allo stesso modo per cui si dicono animali le tigri e le giraffe. Il cane ha rinunciato a tutti i termini della sua qualifica psicologica, ed è diventato un’altra cosa. Oserei dire che è diventato un sintomo. Il cane-animale, simpatico e fantasioso chiassone, non esiste più; al suo posto abbiamo questo strano prodotto non esattamente genetico delle inquietudini, dei disagi, dei malumori, degli estri, dei dispetti dell’uomo incivilito». Un’involuzione - aggiunge lo scrittore quasi speculare a quella della nostra civiltà: «Ecco ci furono millenni in cui il cane fu “naturale”, come l’acqua e il fiore; ma oggi non è naturale, è come noi. Un’artificiale trovata, un’invenzione. Forse uomo e cane sono nel mondo i soli esseri che abbiano conseguito una totale, irreparabile innaturalità. Il cane è la nostra nevrosi, il simbolo di qualcosa che non possiamo mai amare abbastanza; e quale sorta di malattia siamo noi per il cane? Una malattia che lo ha reso schiavo». Non pare esserci scampo dunque: il più fedele amico dell’uomo è condannato a seguire il proprio padrone ovunque e, alle volte, a divenire lo schermo proiettivo delle sue fragilità. E infatti Asor Rosa, alla sua Cana narratrice fa dire: «Quel che io porto agli umani non è l’essere simile a loro: è piuttosto la zona d’ombra in cui non c’è umano né animale, bensì le due cose confuse insieme». La più alta missione del cane si rivela un’inesorabile condanna da scontare senza scampo. Nel tragico destino che lo accompagna, la sua lealtà è destinata a trasformarsi in una colpa inespiabile.

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parola chiave

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MIGRANTE n Occidente a lungo abbiamo creduto di essere soli. È stata la nostra debolezza culturale a indurci in questo errore. Eppure avremmo potuto evitarlo se soltanto fossimo stati consapevoli della nostra storia; di quando l’Occidente, cioè, non esisteva e la comunità civile si contrapponeva a quella barbarica, intesa come straniera, sconosciuta, ma non per questo da combattere, semmai da «civilizzare», da associare, da includere. Poi i confini si sono ristretti. L’Occidente ha disegnato se stesso come un fortilizio sempre in pericolo di essere assediato. Si è negato all’altro da sé. E lo ha riconosciuto soltanto come soggetto a sottomissione. La lunga storia del colonialismo non è stata l’esplicitazione dell’affermazione di una volontà di potenza, ma dell’avidità: la differenza con la romanità e perfino con il germanesimo medievale postvandalico è evidente. La ragione, insomma, degli egoismi democratici e liberali si è trasformata in una macchina produttrice di asservimenti e negazioni. Un paradosso della modernità del quale non si tiene mai abbastanza conto quando ci si confronta con i diversi (che diversi non sono), con i lontani (che sono più vicini di quanto si possa immaginare), con i differenti (che si vorrebbero giudicare con l’indifferenza di chi ha molto e teme di cedere qualcosa, senza neppure immaginare che prima o poi è destinato a perderlo, come sempre è accaduto). Nella sua pretesa (e preservata) solitudine, l’Occidente si è creato un nuovo nemico. Nel senso schmittiano del termine: l’hostis, cioè il nemico pubblico, non l’inimicus, vale a dire il nemico privato. È il migrante, il fuggitivo, il «dannato della Terra», il disperato per antonomasia, cioè colui che non ha più una identità ma che vorrebbe veder riconosciuta la propria dignità, della quale, nonostante tutto, è consapevole e perfino fiero. E, per quanti sofisticati distinguo si possano mettere in campo, rimane sempre l’estraneo, l’indesiderato, l’inquinatore. In altre parole, colui che va respinto.

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Non c’entra niente il razzismo o la pulsione xenofoba: è soltanto l’ignoranza che genera mostruosità prossime alla criminalizzazione di chi non si conosce. Accadeva agli inizi del Novecento ai migranti italiani che approdavano sulle coste americane; accade oggi a coloro che dagli angoli più disparati dell’Africa e dell’Asia giungono ai confini dell’Europa. Creano problemi: come tutti, come sempre quando le società sono intrinsecamente disordinate. E le società occidentali sono disordinatissime. Non sono loro che portano lo scompiglio, ma lo produce chi deve accoglierli e non è preparato a farlo. Pren-

O viene considerato una risorsa, alla stregua di una merce, o un fastidio da respingere. In tutti e due i casi è la centralità della persona che le politiche di immigrazione negano per pregiudizio. Così il nostro Occidente pauroso sceglie ancora la solitudine

Il nemico è dentro di noi di Gennaro Malgieri

Come può un paese di 60 milioni di abitanti come l’Italia spaventarsi per qualche milione di immigrati? È la loro cultura, la loro fede, il loro stile di vita, le loro tradizioni a far vacillare la sesta o settima potenza mondiale? Se è così siamo di fronte a una tragica ammissione di impotenza che sconcerta e allarma diamo l’Italia: come può un paese di sessanta milioni di abitanti spaventarsi di fronte a qualche milione di immigrati? È la loro cultura, la loro fede, il loro stile di vita, le tradizioni a cui restano fedeli a far vacillare la sesta o settima potenza mondiale? Se è così siamo di fronte a una tragica ammissione di impotenza che sconcerta e allarma. Sarebbe il caso di capovolgere l’ordine delle cose. L’immigrazione non è una questione di ordine pubblico (eccetto i casi di delinquenza che valgono per tutti, a cominciare dagli autoctoni). È una problematica, vasta e complessa, che afferisce alla cultura dei popoli e alla maturità delle società. In un mondo che conta poco più di sei miliardi di persone non è

possibile individuare «nemici» in base alla provenienza e considerarli come «intrusi». I migranti sono cittadini di un Pianeta la cui geografia muta rapidamente e, di conseguenza, i costumi e i modi di pensare si integrano e si allontanano creando difformità talvolta difficilmente decifrabili. Quel che rimane per certo è la percezione delle realtà da parte delle soggettività, più o meno omogenee, che si lasciano permeare o che respingono la permeabilità in base al loro modo di essere, ma che non negano per questo l’inclusione dell’altro. C’è molta confusione a questo riguardo che si cerca di esorcizzare in due modi: o ritenendo gli immigrati una risorsa (e dunque considerandoli alla

stregua di «merce»); oppure un fastidio perché portatori di modi d’essere incompatibili con il nostro. L’una e l’altra prospettiva non aiutano a inquadrare e a comprendere il fenomeno. Entrambe prescindono da un dato fondamentale: la centralità della persona alla quale non si chiede nulla, ma si giudica soltanto dal comportamento. È questa centralità che viene negata dalle politiche di immigrazione in aderenza ai pregiudizi sommariamente citati.

Dunque, il vero «nemico» è dentro di noi, sotto le forme del pregiudizio appunto. E si spiega. Infatti, è più facile tacitare le coscienze con l’individuare nell’altro il «pericolo» per la convivenza che organizzare la società per quello che sta diventando, nonostante leggi e divieti, cioè a dire multiculturale e multietnica. Trasformazioni queste che non vale negare «ideologicamente» o per vellicare gli istinti più bassi insiti nella società del benessere, dal momento che le tendenze demografiche impongono prese d’atto che non si può far finta di non vedere. Semmai dovremmo rafforzare, nell’ambito delle società occidentali, un’identità culturale, esistenziale e religiosa non come barriera difensiva, ma quale patrimonio a cui tenerci aggrappati per attivare un confronto proficuo e non impaurito. Ma c’è un altro nemico ed è tra di noi. È la mafia che recluta i «dannati», li assolda, utilizza la loro disperazione, alimenta le paure che li portano a delinquere talvolta, li schiavizza, compra la parte peggiore di loro, come di ogni essere umano, li getta tra le incandescenti lave del crimine. Questa mafia non sembra destare le preoccupazioni di chi invece teme l’imbarbarimento a opera di portatori di stili di vita e costumi esotici. Eppure si è consapevoli che il rifugiato è sempre l’elemento più debole di una società liquida dove il grande criminale non usa vestire i panni che dovrebbero essergli propri: si nasconde, si confonde, si cela al cospetto dei potenti e si insinua il più delle volte tra di essi. Mercanti di carne agitano il sospetto che tutti coloro i quali approdano sulle nostre rive sono malfattori e si assumono il compito di irreggimentarli per meglio controllarli, dicono, tenerli a bada. I nuovi schiavisti non sono diversi dagli antichi: a differenza di quelli hanno meno remore e non si limitano a incatenarli o a farne dei servi, ma gli mettono tra le mani armi micidiali per i loro orrendi scopi. Il nemico è dentro di noi; il nemico tra di noi. Non cerchiamolo tra chi viene soltanto per sopravvivere. Nelle pieghe dell’Occidente s’annida la paura: è comprensibile. L’Occidente, infatti, è solo. Per sua scelta. Sciaguratamente.


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cd

musica La mutazione dell’Iguana MobyDICK

di Stefano Bianchi on sopporto più chi spara fuori musica idiota dalle chitarre. Così, ho ricominciato ad ascoltare dischi della scena di New Orleans, jazz stile Louis Armstrong, blues alla Jelly Roll Morton. E poi, mi sono sempre piaciute le ballate…». Roba da non credere. Iggy Pop che abiura il rock. Proprio lui, che col rock belluino c’è campato una vita. Non ne può più, Iggy, di fare lo sguaiato denudando la caricatura di se stesso (anche se il fisico, matassa di nervi e muscoli, a sessant’anni suonati non mostra cedimenti). L’Iguana mette una pietra tombale sull’elettricità di I Wanna Be Your Dog, 1969, Search And Destroy. In più, il chitarrista Ron Asheton è morto da qualche mese: quindi, basta Stooges e concerti da far scoppiare le coronarie. È successo che Iggy s’è appassionato al romanzo La possibilità di un’isola, pubblicato nel 2005 dal francese Michel Houellebecq («maledetto» come lui). L’ha comprato a Miami, se l’è portato in valigia fino a Cabourg e lo ha letto tutto d’un fiato riconoscendosi in quell’intreccio di morte, nichilismo, sesso, bastarda razza umana e… un cane. «Ho pensato subito che quel libro fosse un vero stronzo». Poi s’è messo a scavare nei suoi, di ricordi bastardi, e ha buttato giù canzoni. D’istinto. Préliminaires, è il risultato. Sublime. Che si concentra su dodici interpretazioni calde e il più delle volte pacate. Io, che tifavo affinché l’Iguana tornasse a giostra-

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in libreria

re la voce su registri bassi e ammaliatori come ai tempi di The Idiot e Lust For Life (anni Settanta) e nelle scarne, jazzate canzoni di Avenue B (’98), vado in sollucchero e mi commuovo anche un po’. Préliminaires inizia e si congeda con Les Feuilles Mortes (parole di Jacques Prévert, già nelle corde di Edith Piaf e Yves Montand), rivisitata dall’ex rocker con una passionalità che Serge Gainsbourg avrebbe volentieri applaudito. Poi si confronta con How Insensitive, perla jazz di Antonio Carlos Jobim, ed è crooning seduttivo. Negli altri pezzi, che pedinano i passi salienti di Houellebecq, ci sono Daniel (protagonista della storia), il suo cane che in King Of The Dogs viene benedetto dal dixieland e da una sghemba interpretazione alla Tom Waits; Isabelle ed Esther, tormentati ed erotizzanti amori. E ci sono le diafane melodie di Spanish Coast e I Want To Go To The Beach, nonché il recitato che griffa A Machine For Loving. C’è il blues: nudo e crudo, modello Howlin’ Wolf, per voce e chitarra (He’s Dead/She’s Alive); imbastardito col pop francese (Je Sais Que Tu Sais); distorto e pulsante (She’s A Business), quasi a voler rivisitare la Nightclubbing incisa nel ’77 con David Bowie. E il rock? Se ne preoccupa ancora, Iggy Pop? Sottoforma di Nice To Be Dead, inizia come China Girl e prosegue pulito ed essenziale. Infilato un po’ a caso, per non deludere i fan più tosti. Che dovranno farsene una ragione, prima o poi. L’Iguana ha mutato pelle. Iggy Pop, Préliminaires, Virgin/Emi, 19,00 euro

mondo

I SUONI DELLA PACE

riviste

IL ROCK IN CATTEDRA

ARETHA, MERAVIGLIA DELLA NATURA

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n omaggio all’omonimo poema di Goethe, il direttore d’orchestra Daniel Barenboim e lo scrittore Edward Said, fondano nel 1999 la West Eastern Divan Orchestra, ensemble sinfonico votato a musica squisita e ancor migliore ispirazione umanitaria. Nata per favorire il dialogo fra uomini provenienti da paesi e culture storicamente nemiche, ma unite dalla naturale fraternità conte-

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due anni da Send away the tigers, i Manic Street Preachers rientrano in grande stile con Journal for plague lovers. Un album necessario e dolente, che dimostra ancora una volta come la band inglese, vera istituzione del rock britannico da più di dieci anni, debba quasi tutto alla qualità dei testi, venati di fuoco e spirito poetico, e quasi niente alla cosmesi del show business. Ba-

na forza del cielo si riconosce. Si riconosce qualcosa creato da Dio. E Aretha è un dono di Dio. Quando si tratta di esprimere se stessi attraverso il canto, non c’è nessuno che riesca a raggiungerla. Aretha ha tutto - la potenza, la tecnica. Lei è la ragione per cui le donne vogliono cantare». Mary J. Blige, regina dell’hip hop soul e campionessa di vendite nel settore R’n’B, com-

Elena Cheah racconta la storia della West Eastern Divan Orchestra, i musicisti dell’amore

”Journal for plague lovers”, album schietto che segna il ritorno dei Manic Street Preachers

”Rolling Stone” elegge la Franklin miglior voce di tutti i tempi. Nella hit 2004 era quinta

nuta nella musica, l’orchestra della pace ospita musicisti provenienti da Israele, Egitto, Giordania, Siria, Libano e Palestina. Elena Cheah ne ricostruisce percorsi ed esperienze nel suo Insieme.Voci della West-Eastern Divan Orchestra (Feltrinelli, 224 pagine, 18,00 euro). Testimonianze, squarci lirici, frammenti di dialogo, prendono corpo in una scrittura che coniuga passione e realismo, ironia e vita vissuta. Sotto la spinta potente della musica e della convivenza, della bellezza e dell’arte, il pianeta Terra visto dall’orchestra, sembra tornare un luogo di speranza e di pace. Dall’amore della musica all’amore per chi la suona. Ovunque, e di qualunque colore sia.

sato sugli appunti lasciati dal chitarrista del gruppo, Richey Edwards, scomparso nel nulla nel 1995, il lavoro dei Msp ha nella produzione di Steve Albini, storico mentore del grunge, un grande punto di forza. Pochi fronzoli, molta energia, e sound schietto che trapassa lo sterno senza troppe fibrillazioni campionate. Quattordici canzoni senza belletto, carne rock nuda e cruda, da divorare in quaranta potenti minuti di palingenesi emotiva. Nessuna hit radiofonica, niente orpelli flessuosi o arbre magique umettati. Solo l’odore ferruginoso del rock vecchio stampo.

menta così per Rolling Stone, il primato attribuito dalla storica rivista alla star di Detroit. La Franklin, che è risultata essere la capofila dei cento migliori cantanti di tutti i tempi, quest’anno raggiunge il vertice migliorando il quinto posto che lo stesso magazine le aveva attribuito nella classifica del 2004. La voce della Franklin, ufficialmente dichiarata dallo Stato del Michigan «meraviglia della natura», continua dunque a stupire nonostante i quasi cinquant’anni di una carriera iniziata con Songs of Faith nel 1956 e sbocciata già negli anni Sessanta con hit come Rock-a-bye Your Baby with a Dixie Melody. Una pietra miliare, che non smette di rotolare.

a cura di Francesco Lo Dico

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zapping

Cremonini e i provinciali DALLA LINGUA ARROTATA di Bruno Giurato remonini Cesare è fresco, è bravo e si dice sia bello. E adesso c’è anche un suo libro tra l’autobiografico, il romanzesco (e il jackfrusciantesco, trattandosi pur sempre di storie sbarbine a Bologna) che si intitola Le ali sotto ai piedi, Rizzoli. Ma per chi scrive Cremonini Cesare è un simbolo della cultura italica. E soprattutto un modello fonologico. E non è che chi scrive sia diventato pazzo, spieghiamo: Cremonini quando canta pronuncia la ti in modo che sembri una ci. E poi la a quasi come una e, la e come una a, la u come iu, la o come ou, e tende alla erre moscia. Per esempio, due strofe di una sua canzone sulla pagina scritta risultano così: «Cos’è successo la tua luce/ la tua luce si è oscurata». Mentre interpretate da Cremonini suonano così: «Cos’à siucciassou la ciua liuce/ la ciua luice si à osciuvacia». Tutte queste bislacche varianti fonetiche non le ha inventate Cremonini, sono nel dna del pop italiano. E non perché tutti cerchino di imitare il vecchio Rocky Roberts che cantava «staseva mi bucciou/ e facciou di ciucciou/ perv stave con tei», ma perché tutti, consapevolmente o meno, cercano di imitare l’accento americano. E ogni volta che si sente un nuovo gruppo, un nuovo cantante italiano, a fare attenzione c’è sempre una traccia di quel modo di portare la pronuncia che in Cremonini è così eclatante. Questo fatto dell’accento yankee è come un marchio di fabbrica sul pop italiano dagli urlatori in poi. Lo si sente in modo caricaturale in quasi tutti i cantanti da pianobar. Fa venire voglia di risalire direttamente agli originali inglesi e americani, o a dedicarsi anima e core a Modugno e agli stornellatori dell’Umbria. Cremonini è bravo, ma in fondo meglio paesani con gli stecchini tra i denti che provinciali dalla lingua arrotata.

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classica

Al Maggio un Crepuscolo senza brividi di Jacopo Pellegrini repuscolo del Maggio: il giochino di parole, scontato com’è (il festival fiorentino s’è aperto col Crepuscolo degli dei, ultima giornata del wagneriano Anello del Nibelungo), s’affaccia facile alla penna, e se la mano lo ricaccia indietro, la mente ci si sofferma un po’ su. I tagli in corso d’opera alle sovvenzioni governative, siamo tutti d’accordo, non aiutano; ma il caso del Comunale che, archiviato non da molto un commissariamento ministeriale all’insegna di «lacrime e sangue» (per far fronte ai debiti accumulati, la soluzione scelta è stata quella di alienare parte del patrimonio immobiliare), si trova di nuovo gravato da un cospicuo deficit, pone interrogativi cogenti sulle regole gestionali delle nostre fondazioni liriche. Interrogativi che esigono risposte rapide e risolutive da parte del legislatore, e che non possono essere elusi ricorrendo allo spauracchio d’una chiusura generalizzata per i teatri: tipico rimedio all’italiana, di chi (ministri, parlamentari, direttori generali et similia), pur dovendo, non vuole o non sa assumersi la responsabilità di far funziona-

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Zubin Mehta

re le cose. Quando nacque, nel 1933, il Maggio spiccava nel panorama nazionale per la sua unicità ed eccezionalità artistica. Oggi che, al contrario, siamo sommersi da festival d’ogni tipo, che i (rari) divi dell’ugola e della bacchetta si esibiscono ovunque trovino convenienza - più che prestigio - ad andare, e che altrettanto fanno i registi, la rassegna toscana ha perduto ogni funzione esemplare e alternativa. Da essa ci aspetteremmo, questo sì, spettacoli all’altezza della sua fama. Purtroppo però, da parecchi anni il Comunale è anche afflitto da una grave crisi produttiva: nei suoi cartelloni figurano poche opere, troppo poche (in rapporto, si capisce, al bilancio). Questo 72° Maggio, auspice la potatura del FUS, ne conta appena due: accanto alla citata Götterdämmerung, c’è solo Patto di sangue (unica replica, domani alle 20,30,Teatro Goldoni), nuova commissione per Matteo D’Amico, musicista rispettabilissimo benché ancora non annoverabile tra i maestri riconosciuti della scena compositiva internazionale. Resta da capire se almeno il Crepuscolo, inteso come «dramma musicale» di Wagner, attinga quel grado d’eccellenza che è lecito attendersi dalla manifestazione fiorentina. Sala stracolma e lieto incontro per la tappa finale della Tetralogia coprodotta con Valencia. Sul podio Zubin Mehta, direttore principale al Maggio da quasi un quarto di secolo, allestimento firmato dal collettivo teatrale catalano La Fura dels Baus, per la regia d’uno dei suoi fondatori, Carlus Padrissa. Mehta dipana, colora ed entro certi limiti svolge da par suo un racconto basato, com’è noto, sulla successione e l’intreccio di motivi conduttori legati a personaggi, oggetti, fatti, sentimenti; non copre le voci, ottiene un suono caldo e vellutato in orchestra, dà il meglio di sé nei momenti di confessione intima, quando può chiedere alla Wilson (Brunilde), alla Wyn-Rogers (Waltraute) e a Ryan (Sigfrido in effetti più lirico che eroico) un canto legato e sommesso. Mai però un soprassalto, un brivido, una svolta narrativa rilevata; la componente notturna, infera, tragica della partitura passa quasi inavvertita. Anche l’apparato scenico, pareti scomponibili e semoventi di schermi verticali e orizzontali, sui quali scorrono proiezioni spesso molto suggestive (sebbene alle volte prevaricanti), sembra per l’appunto scorrere in superficie rispetto alla stratificazione di segni e significati concepita da Wagner. Così, Padrissa, pago forse degli esiti sensazionali sul piano tecnologico, si accontenta di spargere qua e là allusioni ecologiste (riprese dalla messinscena di Harry Kupfer), umanitarie o francamente comiche (Sigfrido rozzo e maleodorante tra i Gibicunghi, snob arricchiti); ma i mezzi intellettuali per offrire del Ring un’immagine complessiva, restano fuori dalla sua portata.

jazz

Con Kubik alle origini del Blues di Adriano Mazzoletti erhard Kubik, autore di L’Africa e il Blues recentemente pubblicato in Italia, è professore di etnomusicologia all’Università di Vienna e di etnopsicologia a quella di Klagenfurt, con una profonda conoscenza del blues e del jazz nordamericano. Con rigore scientifico propone, in questo suo ultimo lavoro, una teoria assolutamente nuova sull’origine del blues. Nelle numerose storie del jazz, largo spazio è sempre stato dato all’origine afro-americana del jazz strumentale. Oggi sappiamo come l’influenza della musica europea popolare sia stata determinante nella formazione di quel nuovo linguaggio musicale in seguito definito jazz, un vocabolo ancor oggi di incerta etimologia. La musica africana invece ha avuto un’influenza decisiva sul blues vocale, sviluppatosi, in periodi precedenti la nascita del jazz, in alcune aree rurali del Sud degli Stati Uniti. Kubik nel

G

suo lavoro abbraccia diverse aree di indagini. Lo studio dei fattori musicali, letterari e sociali che hanno concorso allo sviluppo di canto solistico accompagnato, successivamente denominato blues; e lo studio sulla storia remota delle caratteristiche musicali e letterarie di questo genere in riferimento alla loro origine nella cultura africana sono gli aspetti mai prima esplorati, che rendono il volume di Kubik un’opera di straordinaria importanza. Le ricerche effettuate in diverse regioni africane (Gambia, Senegal, Guinea) e nell’area geografica degli Stati Uniti (Maryland,Virginia, Nord e Sud Carolina, Georgia) dove maggiormente era concentrata la popolazione nera proveniente dall’Africa occidentale, ha portato a scoperte di enorme interesse. Il ritrovamento di più strumenti africani, ma soprattutto l’identità fra musiche africane e blues nordamericano. Il volume di Kubik è infatti corredato da numerose trascrizioni su pentagramma di modelli africani da cui si

evince come questi fossero all’origine della struttura melodico-armonica del blues. Sono però le registrazioni effettuate sul campo dallo stesso Kubik, e riportate in un cd allegato al volume, a sorprendere lo studioso. In una traccia si ascolta un commerciante hausa che suona il suo liuto a pizzico a due corde nei pressi del villaggio di Disol nella Nigeria nord orientale. Questa esecuzione si basa su un pattern, simile a un riff che è possibile ritrovare in molti blues basati su brevi forme cicliche. Un’altra registrazione effettuata nel villaggio di Namila con una cetra a tavola bangwe a sette corde ricorda in modo sconvolgente See That My Grave in Kept Clean che il bluesinger Blind Lemon Jefferson incise nel febbraio del 1928. Se la musica è a volte simile, sono le caratteristiche letterarie che colpiscono per la loro somiglianza.In una registrazione si ascolta una donna tikar che intona un lamento sulle difficili condizioni della propria vita. Il primo verso «Ho avuto un problema a

causa degli uomini» viene ripetuto due volte, come avviene nel blues nord-americano e come nei blues i versi singoli sono di lunghezza quasi identica. Un volume di enorme importanza per i cultori della musica afro-nord-americana, ma anche per coloro che desiderano conoscere in modo più approfondito una forma all’origine di gran parte della musica di oggi, basata su quella scala pentatonica portata nel Nuovo Mondo dagli schiavi africani. Gerhard Kubik, L’Africa e il Blues, Fogli Volanti Edizioni, 288 pagine, 36,00 euro


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narrativa

libri

Da Rignano Flaminio

alla fine del mondo di Maria Pia Ammirati

in dal titolo quest’ultimo libro di Antonio Scurati è esplicito sulla sua natura, che è la natura anche dell’io-narrante sdoppiato nella veste di bambino e di uomo. Si cita il sogno e il diritto a ospitarvi anche il più cupo catastrofismo come un diritto possibile dell’infanzia. Ma il sogno della fine del mondo è la traduzione di una realtà che irrompe con violenza nella vita normale e depreda le menti, se ne appropria. La realtà, così come decide di narrarla Scurati, è una forma di contagio, o come la definisce lo scrittore, un’epidemia. L’epidemia, che nei prologhi dei romanzi classici avrebbe annunciato la peste, la lebbra o altra malattia decimatoria, oggi è una malattia contagiosa d’altro tipo, è la rappresentazione di una moderna violenza umana che si caratterizza per la capacità e la velocità di trasmettere le notizie, e in questo caso, di trasmettere paura e orrore. Il bambino che sognava la fine del mondo è una storia che si dipana nell’arco di un anno, dal 25 giugno del 2007 al 13 giugno del 2008, con epicentro geografico nel bergamasco, narrato in prima persona da un giornalista e scrittore, alterna flashback del bambino che sognava la fine del mondo, un bambino di 7 anni che ha terribili incubi notturni a cui la famiglia, e in particolare la madre, non sa mettere argine. L’epidemia di cui si narra trova origine in un noto fatto di cronaca avvenuto negli anni scorsi nella periferia romana. Una piccola comunità di genitori accusa alcune maestre di aver abusato dei propri bambini durante le

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ore di scuola. Il fatto, come molti altri disseminati in un testo fitto di rimandi alla realtà contemporanea, viene estrapolato e ripiantato nel ricco Nord e lì, seguitane l’incubazione, si prosegue la storia alternandola al resoconto cronachistico. La cronaca è altro tema del libro come la pervasività e drammaticità dei media: «I media non facevamo che peggiorare la situazione… si cibavano della sciagura». Nella ricca Bergamo, teatro degli abusi e di altri abbietti casi di cronaca, assieme ai media che amplificano senza tregua il caso, soffiano sul fuoco della paura, del timore dello straniero, anche le forze politiche che fanno perno proprio sulla territorialità intesa come un patrimonio. Il Nord diventa il luogo più concreto per guardare in faccia una realtà debordante che deturpa ogni cosa, persino la bellezza e la supposta innocenza dei bambi-

ni. In un mondo di contagiosa paura dove sono rotti gli argini di difesa personale, tutti possono cadere nella trappola del contagio ed essere contagiati. Il romanzo procede stretto nella morsa di una prosa ricca e spregiudicata, nello stile che contraddistingue uno dei più maturi scrittori di nuova generazione, controllo della lingua, commistione e superfetazione dei fatti, ironia e stridente drammaticità. Quando tutto sembra perduto, e persino il protagonista viene ingoiato dalla cronaca perché raggiunto da un avviso di garanzia, ecco il colpo di teatro che avviene nella scenografia moderna di un programma televisivo, Matrix di Enrico Mentana. La principale accusatrice rivela alle telecamere (l’occhio neutro della telecamera) di essersi inventata tutto. Non lontani dal credere che questa sia la posizione dell’autore anche sui fatti reali di Rignano Flaminio, il romanzo vola verso una conclusione liberatoria e aperta alla vita, non senza passare da una breve citazione, che è la tesi di impianto civile che corre sotterranea nell’intero testo: «Vorrei un paese… in cui i vecchi non debbano trascorrere gli ultimi giorni in compagnia di donne premurose dalla vita straniera, in cui ai bambini non si riservi lo stesso spazio riservato ai cani, in cui ai morti non si menta con l’alibi della pietà consolatrice». Antonio Scurati, Il bambino che sognava la fine del mondo, Bompiani, 295 pagine, 18,00 euro

riletture

Tra le carte vecchie e nuove: il “testamento” di Dante Isella di Angelo Crespi insigne italianista Dante Isella pubblicò Le carte mescolate nel 1987, raccogliendo quattro suoi fondamentali studi di filogia e di metodo più un quinto in appendice. Maestro nell’esporre e nel ricomporre le poetiche dell’Alighieri, del Tasso, del Parini, del Manzoni, del Porta e del Dossi, senza scordare pure, fra altri, un Michelangelo madrigalista e un Bramante sonettista, nel 2007 Isella pensò di fare tesoro anche degli ulteriori scritti che era venuto pubblicando nel corso del ventennio successivo alla pubblicazione di quel testo. Ne ideò dunque una riedizione ampliata, Le carte rimescalte nuove, che andassero ad arricchire e a irrobustire le «vecchie». Ma l’angelo della morte se l’è portato via

L’

anzitempo, il 3 dicembre 2007, all’età di 85 anni (era nato a Varese, dove pure morì, il l’11 novembre 1922). Quel suo antico, importante progetto critico, quasi dei piccoli ma sontuosi monumenta rerum litterarium italicarum, vede dunque finalmente la luce oggi, postumo, con il titolo, tutto fedelmente iselliano, Le carte mescolate vecchie e nuove (460 pagine, 28,00 euro). Lo pubblica Einaudi per la cura di Silvia Isella Brusamolino, la figlia, fedele custode di un’opera su cui l’autore ha lavorato e rilavorato sino all’ultimo, forse nemmeno lui stesso ancora pago del risultato fin lì ottenuto. E così questa nuova edizione ampliata trasforma un’opera forse a suo tempo uscita un po’ sottotono in un’impresa di valore profondo e di guida sicura per l’intero comparto della critica letteraria italiana futura. L’e-

dizione originale, infatti, quella del 1987, venne pubblicata da un piccolo editore padovano, Liviana, che nel frattempo ha chiuso i battenti rendendo irreperibile il testo. Lo stesso Isella (ripreso dalla curatrice della nuova edizione) definisce Le carte mescolate solo un «libretto»: un understatement di mestiere e di maniera, certo, ma sicuramente solo oggi, con la riedizione ampliata e critica einaudiana, l’opera siede al posto che le spetta. Miglior testamento di sé e del proprio acribico e importante sforzo critico Isella non poteva del resto consegnare ai posteri. Rigoroso nella fedeltà testuale (condicio sine qua non di qualsiasi operazione di ulteriore contestualizzazione di uno scritto letterario), Isella s’impone come fulgido esempio di specialista capace di coniugare la scientificità

più oggettiva alla simpateticità più calda nei confronti degli uomini-autori che studia, incarnando alla perfezione il senso autentico di quell’espressione latina che classicamente connota l’intelletto d’amore e l’intelligenza d’intenti del vir bonus dicendi peritus nei confronti della propria materia, la quale egli plasma come argilla in mani di artista: cum studio et amore, infatti, Isella ha saputo essere tanto enciclopedico quanto affettuoso verso i «suoi autori», i quali dalle sue pagine riescono a stringere familiarità sempre crescente con i lettori. Una grande opera insomma, la sua, opportunamente oggi salvata dal dimenticatoio in cui tristemente rischiano di finire quei testi magari di non facile fruizione per tutti, epperò pure imprescindibili per chi abbia a cuore il senso vero delle cose che contano.


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scenari

Il fondamentalismo indù spiegato dalla Nussbaum di Vincenzo Faccioli Pintozzi o scontro dentro le civiltà è un saggio interessante, che parte dalla famosa affermazione di Samuel Huntington secondo cui è prossimo uno scontro di civiltà fra Occidente e mondo islamico. L’autrice, che insegna Law & Etichs all’Università di Chicago, prende invece spunto dalla politica dell’India - la più popolosa democrazia del mondo - per spiegare il fenomeno dell’ultrafondamentalismo indù e le minacce insite nella sua versione politica, il Partito Bharatya Janata. Nonostante il recentissimo schiaffo elettorale assestato dal laico Congress al Bjp, la lettura è estremamente interessante. Aver

L

dizionari

perso il governo dell’Unione indiana, infatti, non preclude ai promotori della purezza hindi il governo di alcuni Stati singoli, fra cui il Gujarat di Narendra Modi. Con i toni a volte del romanzo, a volte del saggio accademico, Martha Nussbaum si divincola nelle spire della realtà indiana con una grazia che denuncia la sua profonda conoscenza del paese, e quando spiega la genesi del fondamentalismo con le parole dei testi sacri indù si capisce quanto l’abbia colpita il fenomeno che, denuncia con coraggio, «non è del tutto estraneo anche alle società occidentali». Il pensiero corre ai gruppuscoli neonazisti che agitano con più o meno verve i paesi del settentrione

europeo o alla Putin-jügend, quel corpo di volontari che - per affinità elettiva con i giovani (all’epoca) ammiratori del Führer fanno il bello e il cattivo tempo per le strade russe. La differenza sostanziale, sostiene l’autrice, è che in India questi corpi di volontari fondamentalisti sono organizzati, inquadrati in un’ottica sociale e politica che li rende di fatto parte attiva della società. Tanto che alcune fra le più scure pagine della cronaca del sub-continente (come il massacro del Gujarat e il pogrom anti-cristiano della scorsa estate) si rivelano all’atto pratico senza colpevoli. Perché forze dell’ordine e magistratura, coinvolte nella mentalità di ritorno all’indui-

smo, coprono le tracce più evidenti. Ma così facendo, sottolinea ancora la Nussbaum, creano una spaccatura interna che è molto più pericolosa delle minacce esterne. Il tutto correlato da testimonianze e racconti in prima persona. Ma è nella conclusione, quando parla dello scontro interno a ciascuno di noi, che l’autrice denota uno spessore anche psicologico interessante. L’avvertimento è antico quanto profondamente attuale: cerchiamo il nemico nel nostro lato oscuro, non sempre fuori dalle mura di casa. Martha C. Nussbaum, Lo scontro dentro le civiltà, Il Mulino, 455 pagine, 32,00 euro

di Giancristiano Desiderio egisti, attori, sceneggiatori, scenografi, costumisti, compositori, generi, correnti, critici, storici, produttori, festival, scuole, riviste, periodici. Ancora: effetti speciali, censura, doppiaggio, oscar, premi. È la Garzantina Cinema, di tutto, di più a cura di Gianni Canova. Oltre 1500 pagine per sapere tutto del cinema o per avere l’illusione di sapere tutto. Esempio. Aprite a caso a pagina 142 e c’è la voce Bogart Humphrey: il duro dall’animo sensibile. Il mito dei miti. Dice la garzantina: «Icona maschile del cinema classico hollywoodiano, sicuramente il più citato nella storia del cinema». Chi non conosce Humphrey Bogart. Ma chi è Anton Giulio Bragaglia? Regista italiano. Fratello del più noto e «commerciale» Carlo Lu-

narrativa/2

dovico (subito dopo nel dizionario), regista di non pochi film di Totò: Totò le Mokò; 47 morto che parla. Prima di Bragaglia ecco Braga Sonia: attrice brasiliana, bellezza calda e sensuale, arriva alla celebrità tra gli anni Settanta e Ottanta come interprete di telenovela e del film Donna Flor e i suoi due mariti tratto dall’omonimo romanzo di Jorge Amado. Ho aperto la Garzantina Cinema così, a caso e ho letto e trascritto le prime cose che mi sono capitate sotto tiro. Ma si potrebbe continuare all’infinito facendosi guidare dal caso e dalla curiosità pagina dopo pagina, voce dopo voce. Dire che il dizionario è una miniera inesauribile di notizie e fatti e idee e curiosità e aneddoti e rimandi è dire una cosa anche banale, ma è la semplice verità. La prima edizione di questo dizionario del cinema uscì nel 2002, poi ci fu una seconda edizione tre anni dopo, nel 2005, e

ora arriva in libreria la terza edizione aggiornata e ampliata. Tuttavia, per quanto sia una miniera di cose, fatti e personaggi, la Garzantina Cinema «ha per oggetto il cinema, non i film». È un’enciclopedia che alla sua base ha una sua idea di cinema, la più ampia e plurale possibile per dare spazio un po’ a tutto e non tralasciare niente o quasi, ma comunque un’idea di cinema che parte dalla considerazione che l’industria cinematografica è parte orami secolare della nostra storia. La cosa più curiosa - che poi è il suo vero valore - di questa enciclopedia del cinema è che esce nell’era di Internet. Tutto è a portata di clic, anche i film che sono «scaricabili» dal web, eppure l’enciclopedia conserva la sua funzione proprio perché, a differenza del mondo così «liquido» della navigazione di Internet, ha una sua solidità di fondo e raccoglie in volume l’idea di fondo del lavoro cinematografico: il racconto attraverso le immagini.

Garzantina Cinema, a cura di Gianni Canova, 1547 pagine, 39,00 euro

Quel lupo candidato allo Strega

di Pier Mario Fasanotti a vita di strada è un modo di esistere e si annida nel «sottosuolo» di una metropoli: che è Roma, anche se l’autore, Massimo Lugli, non la cita mai. Accanto al senso euforico della libertà c’è la ferocia quotidiana del sopravvivere, tra barboni maleodoranti, reduci di un passato insolito e inimmaginabile, emarginati, tossici, prostitute, gruppi che nella notte si appropriano di spazi e di persone, accanitamente. Il liceale Lapo incontra Tamoa, cinquantenne che gli insegna la lotta, l’uso del coltello e tanti modi di confrontarsi con se stesso e gli altri. Si instaura a poco a poco un rapporto padre-figlio, facilitato dal

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Non esiste un Islam

moderato, esistono semmai musulmani moderati. Magdi Cristiano Allam per queste affermazioni, reiterate e dimostrate prima con l’attività giornalistica e ora con l’attività politica è costretto da tempo a vivere sotto scorta, essendo ormai il principale bersaglio italiano dei terroristi islamici. Europa cristiana e libera oltre a essere l’ultimo libro di Allam (Mondadori, 173 pagine, 18,00 euro) è una chiamata a raccolta di tutti gli uomini di buona volontà per difendere i principi non negoziabili che sostanziano la nostra civiltà.

Con Angeli e demoni

Tutto il cinema in millecinquecento pagine

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altre letture

fatto che «il signorino» prende le distanze dalla sua famiglia ricca, slabbrata, avvinghiata alle «cose che ci rubano l’anima» preferendo la non-dimora: «nessun impegno, nessun appuntamento, nessun senso di colpa». È un percorso iniziatico per Lapo, che diventa Lupo anche per il suo istinto animalesco. Un girovagare continuo, con cani al seguito, che farà incontrare al ragazzo dell’alta borghesia i codici comportamentali degli zingari, dei clandestini russi che si nascondono in pineta, degli sfruttatori di donne, dei singoli perdenti che annaspano tra mille pericoli e tra tante pause etiliche. Lupo conoscerà il modo di vendicarsi dei soprusi patiti da anni a scuola, e anche la spietata dolcezza del cor-

po femminile. Tamoa, lontano da smancerie ma protettivo, insegna a Lupo l’uso del coltello, essenziale nella giungla che sta sotto o accanto la parvenza perbenistica della grande città: «Dare una coltellata a qualcuno non ha nulla di poetico. Si fa quasi sempre alle spalle o alla traditora...». Una fila di personaggi che paiono essere sbucati fuori dall’opacità della normalità quotidiana. C’è l’uomo che traina, in motorino, il suo gabbiano, quello che danza in una piazza del centro, ci sono giovani che di notte si radunano e compiono i riti della goliardia, con ridicolo frasario latino. C’è lo spazio occupato dai drogati e da coloro che amministrano le dosi della morte. Sullo sfondo degli

anni Settanta, con la retorica delle assemblee, con la voglia di cambiare tutto e con gli scontri violenti tra il settarismo rosso e quello nero. Ma la politica sfiora soltanto Lupo e Tamoa. Anche quando il ragazzo conoscerà il drammatico passato del «maestro» e dovrà decidere tra l’onore (che è anche amore filiale) e i consigli di pacatezza trovati sottoterra, al posto di una pistola rubata. Un racconto, candidato al premio Strega, che prende alla gola, con una prosa affilata. E dotata della ferocia che la ferocia di quella vita pretende, riga dopo riga. Massimo Lugli, L’istinto del lupo, Newton Compton, 334 pagine, 9,90 euro

Dan Brown ha replicato il successo planetario del Codice da Vinci, iniziando milioni di lettori a un universo di cui nulla sapevano o sospettavano. Per molti autorevoli critici un universo di mistificazioni e falsità in salsa commerciale e new age. Ma non è questo il punto. Il punto è che adesso che il film tratto dal libro di Dan Brown arriva nelle sale cinematografiche le edizioni Età dell’acquario mandano in libreria I segreti di “Angeli e demoni” di Simon Cox, (159 pagine, 10,00 euro), una guida non autorizzata a fatti personaggi e misteri del thriller di Dan Brown. Comunque la si pensi sull’opera e l’autore un vademecum intrigante.

Nel corso del Ventesimo secolo la socialdemocrazia, secondo i suoi sostenitori, ha incarnato il grande progetto di correggere ed equilibrare l’evoluzione capitalistica mediante una forte spinta all’eguaglianza sociale. Con il Welfare State e l’economia mista ha impresso il suo marchio su una lunga e positiva stagione di democrazia egualitaria nella politica europea. Nell’Europa di fine Novecento però i partiti che compongono l’universo socialdemocratico hanno smarrito l’istanza di equità che li aveva caratterizzati. È parso alle socialdemocrazie che non vi fosse altra prospettiva che amministrare il capitalismo assecondandone l’evoluzione. Giuseppe Berta, nel suo Eclisse della socialdemocrazia (Il Mulino, 134 pagine, 10,00 euro) rende conto del disorientamento e dell’incertezza che pregiudicano la politica della sinistra europea d’oggi. a cura di Riccardo Paradisi


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storia

LA VULGATA È CHE I PROCESSI INTENTATI ALLO SCIENZIATO PISANO FOSSERO ESPRESSIONE DI UNA CHIESA RETROGRADA, REPRESSIVA E OSCURANTISTA. MA LE COSE STANNO ALTRIMENTI. SE LA CONTRORIFORMA CATTOLICA NON AVESSE SEGUITO LE TESI ARISTOTELICHE DEI PROFESSORI PROTESTANTI TEDESCHI MA AVESSE DATO ASCOLTO ALLE POSIZIONI INNOVATRICI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ LA STORIA SAREBBE STATA DIVERSA…

La verità su Galileo di Franco Cardini l processo a Galileo è un tema talmente noto che ci si meraviglia sempre quando ci si ferma un istante a riflettere quanto poco ne sappiamo e quanto poche e per giunta confuse siano le nostre «certezze» al riguardo. La «vulgata», cioè la versione semplicistica e rassicurante che viene ripetuta ancora - ohimè - in molte scuole, è che si sia trattato di un processo intentato da una Chiesa retrograda, repressiva e oscurantista contro uno studioso araldo dei nuovi tempi. Le cose stanno altrimenti. Per comprenderle, ricomiciamo brevemente dal principio: la Riforma protestante, il concilio di Trento, il Sant’Uffizio. La Chiesa cattolica rispose alla sfida iniziale della Riforma convocando un concilio voluto da papa Paolo III (1534-1549). Esso si articolò in tre sessioni: dal 1545 al 1547, dal 1551 al 1552 e dal 1562 al 1563. Si fronteggiavano due tendenze: quella che intendeva rispondere alla Riforma rendendo più rigorosi i costumi della Chiesa cattolica e al tempo stesso dando alle Chiese riformate segni di apertura; e quella che proponeva invece un rafforzamento della disciplina ecclesiastica e un rilancio della predicazione popolare al fine di contrastare l’apostolato protestante. Si potrebbe definire la prima una tendenza «cattolico-riformista», la seconda «controriformistica».

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Generalmente, si identificano i vertici delle due fazioni rispettivamente nelle figure dei cardinali Giovanni Morone vescovo di Modena (che rappresentava non tanto se stesso quanto un influente gruppo di prelati, guidato dai cardinali Reginald Pole e Gasparo Contarini) e Gian Pietro Carafa. Si è andata consolidando a partire dagli studi di Luigi Firpo l’opinione che l’istituzione dell’inquisizione del Santo Uffizio fu in primo luogo l’arma utilizzata dal Carafa per trionfare in questa lotta a scapito dei suoi avversari «moderati». Ma inizialmente le posizioni non era-

dere al carattere dei doveri dei tribunali inquisitoriali, sia per indicare l’istituzione inquisitoriale nel suo complesso. Essa acquistò tuttavia significato più preciso, e notorietà più ampia, allorché con la bolla Licet ab initio del 21 luglio 1542 papa Paolo III istituì - alla vigilia del Concilio di Trento - la Congregazione della Romana e Universale Inquisizione, detta comunque da allora «del Sant’Uffizio», appunto con il fine specifico di combattere il protestantesimo e, soprattutto, le prospettive di un suo affermarsi in quei paesi che, dopo la Riforma, erano rimasti fedeli alla Chiesa romana. Tuttavia gli stessi pontefici prestarono sempre attenzione affinché la congregazione non concentrasse troppo potere nelle proprie mani a scapito della Santa Sede. Inizialmente, il neonato tribunale sembrò rivolgere la propria attenzione non tanto verso il mondo laico, ma piuttosto su quello dei molti religiosi che avevano accolto con interesse le posizioni teologiche luterane. Si trattava in generale di una fascia di predicatori colti, ai quali si dovette presumibilmente la prima diffusione della Riforma in Italia. I poteri e le competenze dell’Inquisizione Romana furono ampliati a partire dal 1555 dallo stesso Carafa, salito al soglio con il nome di Paolo IV, e dal successore Pio V, che aveva già coperto la funzione di «cardinale inquisitore»; infine Sisto V le conferì nel 1588 la forma che a lungo restò definitiva elevandola al rango di prima fra le congregazioni pontificie; l’affiancava, in modo formalmente autonomo ma in realtà strettamente raccordato con essa, quella dell’Indice dei Libri Proibiti, istituita nel 1571 per esaminare, controllare e censurare la stampa, con ampio riguardo per i volgarizzamenti della Bibbia. La Congregazione, non diversamente dall’Inquisizione spagnola ch’era nata nel 1492, dipendeva dai Re Cattolici ed era indipendente dal pontefice, dette importanza solo

Il nodo della questione sta tutto in Nicolò Copernico, fondatore della teoria eliocentrica. Le sue tesi, condannate da Lutero e Calvino, furono messe all’Indice dall’Inquisizione solo nel 1616, in seguito alle polemiche con Galilei no sembrate così definite. Nel dibattito sviluppatosi in seno alla Chiesa di Roma sembrò per alcuni decenni esserci davvero spazio per una mediazione. Il risultato fu una convergenza delle tendenze cattolico-riformate e di quelle controriformistiche. Fu comunque definitivamente sconfitta la teoria conciliaristica sul governo della Chiesa cattolica: esso fu da allora in poi tenuto saldamente dal papa e dalla Curia romana. Però il clero fu soggetto ad attente verifiche morali e culturali: e nacquero, per prepararlo, i seminari. La liturgia postconciliaristica fu incentrata sull’esaltazione della presenza reale del corpo e del sangue del Cristo nell’Eucarestia, sulla devozione per Maria Vergine e per i santi, per il riconoscimento del magistero della Chiesa. Il controllo sui fedeli fu rafforzato con la predicazione, la confessione, la catechesi, ma anche con gli strumenti inquisitoriali e in particolare con l’istituzione del Sant’Uffizio. L’espressione Sanctum Officium era stata usata fin dai primi tempi dell’Inquisizione sia per allu-

relativa alle questioni di stregoneria: esercitò invece forte e rigoroso controllo sulle manifestazioni ereticali, specie su quelle intellettuali. I noti processi a Tommaso Campanella (1594-96), a Giordano Bruno (1600), a Galileo (163233), ne furono gli episodi più salienti e discussi. I temi oggetto dell’esame inquisitoriale della Congregazione furono anzitutto quelli connessi più strettamente alle posizioni luterane e calviniste: la predestinazione, la salvezza solo per fede (e senza quindi l’ausilio delle opere), la negazione del libero arbitrio, la contestazione della validità dei sacramenti, il rifiuto del primato pontificio, il sacerdozio universale. Rientravano nel novero dell’eresia anche comportamenti giudicati eterodossi, quali la bestemmia o la poligamia. Anche se allo stato attuale degli studi non è possibile calcolare la percentuale di sentenze capitali emesse sul numero totale dei processi celebrati, proiezioni mostrano che non fu alta. Solo verso la fine del Cinquecento, quando la pressione

Cinque giorni di convegno a Firenze l progetto ha ottenuto il consenso e la partecipazione di ben diciotto autorevoli Istituzioni, rappresentative di importanti settori della vita culturale e scientifica. Così, l’Accademia dei Lincei, il Cnr, la Pontificia Accademia delle Scienze e il Pontificio Consiglio della cultura, la Fondazione Niels Stensen, la Normale di Pisa, l’università di Firenze e Padova, per citarne solo alcune, hanno contribuito, in questo Anno internazionale dell’Astronomia, che coincide con i 400 anni dall’utilizzazione astronomica da parte di Galileo Galilei del cannocchiale, alla rilettura storica, filosofica e teologica del “caso Galileo”. Analisi che si svilupperà in un convegno di cinque giorni a Firenze, dal 26 al 30 maggio, organizzato dalla Fondazione Stensen. Moltissimi gli interventi che seguiranno le inaugurali Lectiones magistrales di Paolo Rossi e Nicola Cabibbo, martedì 26 maggio, tardo pomeriggio, nella Basilica di Santa Croce. Questi gli argomenti affrontati nelle diverse giornate di lavori a Palazzo dei Congressi: mercoledì 27 mattina, «Cosmologia e teologia: la condanna del 1616»; pomeriggio, «I due processi: premesse e contesti». Giovedì 28 mattina, «La genesi del“caso Galileo”», tema a cui saranno dedicati anche gli interventi del pomeriggio. Venerdì 29 mattina, «Il “ caso Galileo”: l’Ottocento»; pomeriggio, «Il “caso Galileo”: Il Novecento». La conclusione del convegno, sabato 30, si svolgerà a Villa “il Gioiello”, casa di Galileo, ad Arcetri: il tema è «Galileo oggi». (Info: www.stensen.it; tel. (39) 055 576551, fax (39) 055 582029).

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della propaganda protestante andò diminuendo e i paesi europei, riformati e no, si stabilizzarono sulle posizioni garantite dai governi laici sulla base del principio cuius regio, eius religio, la Congregazione passò ad accordare maggior attenzione anche ai fenomeni magico-stregonici - che in un paese cattolico che aveva debellato anche sanguinosamente i suoi riformati, la Francia, erano duramente perseguitati dai tribunali regi - a loro volta molto ridimensionati nel secolo successivo. Lo Stato assolutistico moderno, d’altronde, non poteva lasciare spazio all’Inquisizione romana, sempre più considerata una sorta d’intollerabile «Stato nello Stato». In teoria la bolla istitutiva Licet abi initio disponeva l’universalità dell’azione della congregazione del Sant’Uffizio, con la sola eccezione della Spagna. Nella realtà, le cose andavano in modo molto diverso. Se i re di Spagna e la repubblica di Venezia avevano istituzioni inquisitoriali proprie (sia pur molto diverse fra loro) e in differente modo indipendenti dalla Santa Sede, gli altri paesi cattolici a partire dalla Francia stavano in vario modo elaborando a loro volta strumenti di controllo e di repressione - o di moderata tolleranza - dei gruppi cristiani riformati, con ciò vanificando il lavoro del Sant’Uffizio.

La documentazione sull’attività del Sant’Uffizio nelle regioni d’Italia che, al contrario di Venezia e delle aree (come la Sicilia) in cui era in vigore l’Inquisizione spagnola, rientravano nella sua sfera di competenza, è discontinua. Gli studi più recenti hanno comunque messo in evidenza alcune linee di tendenza che si possono considerare generali: nel corso del Cinquecento l’attenzione

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degli inquisitori si rivolge soprattutto alla persecuzione dell’eresia, e in modo particolare al contenimento della diffusione della Riforma. Solo più tardi si ebbero indagini e processi per accuse di magia e stregoneria (come il famoso caso di Triora, nel territorio della repubblica di Genova, dove nel 1587 ebbe inizio un episodio di vera e propria «caccia alle streghe»; o quello per «possessione» nel 1636 a Carpi a proposito di un episodio molto simile a quello celeberrimo di Loudun del 1632, studiato da Aldous Huxley). L’Inquisizione romana prendeva in considerazione come appartenenti all’ambito dell’eresia comportamenti genericamente eterodossi, che spesso vedevano intrecciarsi residui ereticali, pratiche antireligiose o blasfeme, costumi sessuali, bassa magia. Difficilmente questi processi venivano conclusi da condanne gravi: ma era necessario che l’imputato facesse ammenda e riconoscesse i propri errori. Quanto ai tre grandi processati dall’Inquisizione, sappiamo che la vita di Tommaso Campanella fu una lunga teoria di accuse, d’interrogatori e d’incarcerazioni iniziata nel 1592 quand’egli aveva appena ventiquattr’anni e che lo avrebbe accompagnato fino alla morte in esilio, a Parigi, settantunenne nel 1639. Quanto al Bruno, è noto ch’egli chiuse tragicamente la sua esistenza salendo sul rogo a Roma, in Campo dei Fiori, il 17 febbraio del 1600. I processi contro Galileo Galilei ebbero conseguenze meno drammatiche per l’imputato rispetto ai due precedenti; ma rappresentarono indubbiamente un’occasione perduta per la Santa Sede di segnare un punto a proprio favore rispetto al mondo protestante e in generale nel progresso delle scienze e della percezione del rapporto fra scienza e fede negli ambienti intellettuali.Vediamo in che senso. Il nodo della questione sta tutto in Nicolò Copernico (1473-1543), l’astronomo polacco fondatore della teoria eliocentrica e concordemente ammirato da Bruno, da Campanella e da Galileo. Le sue teorie antiaristoteliche erano state avversate principalmente dai protestanti: viceversa, avevano suscitato molto interesse negli ambienti gesuiti. Se la Controriforma cattolica non avesse pedissequamente seguito le tesi rigidamente aristoteliche dei professori delle università tedesche protestanti, se fosse stata più ardita e avesse dato ascolto alle coraggiose posizioni innovatrici della Compagnia di Gesù, la storia avrebbe potuto essere diversa. Nato a Pisa nel 1564 da un famiglia di buona condizione - sebbene il padre, musicista, fosse stato costretto a intraprendere un’attività commerciale per le difficoltà economiche -, Galileo si trasferì con la famiglia a Firenze all’età di dieci anni. Cominciò nel 1581 gli studi di medicina a Pisa, ma la materia non lo interessava; si diede allora per suo conto e con l’aiuto di alcuni maestri privati agli studi di matematica e alle osservazioni fisiche. Nel 1589 il granduca di Toscana Ferdinando I gli concesse un insegnamento di matematica all’Università di Pisa; nel 1592 si trasferì a all’Università di Padova, dove rimase per diciotto anni. E in questi anni Galileo cominciò a ideare il celebre cannocchiale e a elaborare le sue teorie: pur insegnando la fisica dell’universo secondo il sistema tolemaico, infatti,

lità di conciliarla con il dettato dell’Antico Testamento, alla luce del quale la teologia «ufficiale» sosteneva invece le tesi tolemaiche, Galileo entrò quindi nel dibattito in corso in quegli anni fra «progressisti» e «tradizionalisti». Nel 1616 la denuncia di due domenicani contro i «galileisti» precipitò la situazione: il Sant’Uffizio condannò la tesi propugnata da Galileo e dai suoi seguaci secondo la quale Dio ha parlato agli uomini con il linguaggio comprensibile delle Sacre Scritture, che tuttavia è cosa diversa da quello adoperato per scrivere il libro della natura; non si trattava di una doppia verità, cosa che avrebbe condotto all’accusa di averroismo, ma di un’unica verità espressa attraverso linguaggi diversi. La condanna tuttavia si limitò a proibire le enunciazioni, ma non toccò la persona di Galileo in quanto questi l’aveva espressa solo privatamente.

Lontano dall’accettare la momentanea sconfitta, nel 1623, quando il cardinale Maffeo Barberini, noto per la sua apertura alle arti e alla scienza, salì al soglio pontificio col nome di Urbano VIII (lo stesso che aveva preso a benvolere il Campanella), Galileo pensò fosse giunto il momento di riproporre le sue teorie. Nello stesso anno pubblicò il Saggiatore, dedicato al nuovo papa, che a quanto pare gradì molto il contenuto dell’opera. Reso meno prudente dal successo ottenuto, Galileo, decise di esporsi in prima persona attraverso la pubblicazione, nel 1632, del Dialogo sopra i massimi sistemi, in cui prendeva apertamente posizione a favore della nuova scienza empirica. Inizialmente l’opera ricevette l’Imprimatur e venne accolta con grandi entusiasmi, soprattutto in ambito gesuitico. Ma nel giro di pochi mesi l’Inquisizione ritornò sui propri passi, proibendone la vendita e convocando l’autore dinanzi al tribunale di Roma; i Medici, suoi protettori, poco poterono per aiutarlo. Comparso dinanzi al Sant’Uffizio nel 1633, in un processo le cui fasi non sono del tutto chiare, Galileo fu costretto all’abiura e condannato alla prigione a vita, subito commutata in arresti domiciliari: ormai settantenne, Galileo trascorse i suoi ultimi anni (morì nel 1642) prima ospite dell’arcivescovo Piccolomini di Siena, suo amico, e infine nella sua villa di Arcetri. È evidente che, come spesso capitava, anche nella vicenda di Galileo il Sant’Uffizio non intendeva colpire la persona, ma costringerla all’obbedienza e metterne al bando le teorie. Eppure, mentre le vicende di Campanella e di Bruno presentavano aspetti che in alcun modo, dato lo spirito e le leggi del tempo, sarebbe stato possibile per la Chiesa far passare sotto silenzio, il caso di Galileo, del tutto privo di componenti magico-ereticali o di volontà ribellistiche, lascia l’impressione che una minore fretta del Sant’Uffizio nel procedere alla condanna, una maggiore apertura a considerare le implicazioni di quei tentativi di conciliare le Sacre Scritture e le scienze empiriche, avrebbe segnato un punto a favore del cattolicesimo sul cristianesimo riformato - che si era invece affannato a condannarle con largo anticipo - e far intraprendere con secoli d’anticipo un dialogo fra scienza e fede.

La posizione assunta nei confronti dell’autore del “Dialogo sopra i massimi sistemi” rappresentò per la Santa Sede un’occasione perduta di segnare un punto a proprio favore sul mondo protestante e nel rapporto tra scienza e fede nelle corrispondenze private egli si diceva convinto delle teorie di Copernico; che, contrastate da Lutero e Calvino e ufficialmente condannate da Melantone già nel 1549, sarebbero state messe all’Indice dall’Inquisizione solo nel 1616 e proprio in seguito alle polemiche con Galileo. Nel 1610, la pubblicazione del Sidereus nuncius, sia pure accompagnata da polemiche, gli valse fama internazionale. Nello stesso anno tornò a Firenze, dedicandosi ormai solo alla ricerca. Ma contemporaneamente cominciavano i problemi con il Sant’Uffizio. Convinto della veridicità della nuova scienza e della possibi-

Sulla condanna di Galileo pesarono forse sulle prime almeno il suo iniziale atteggiamento superbo e il sospetto ch’egli, al di là delle tesi copernicane, aderisse a posizioni filosofiche di tipo atomistico, sospette in quanto tali di eresia. La sua condanna fu salutata con grande soddisfazione dai professori luterani e aristotelici di Tubinga. Ma la Chiesa cattolica si è fino a oggi assunta per intero e in modo esclusivo, inspiegabilmente, il ruolo della potenza oscurantista. Che ciò dipenda almeno in parte dal fatto che i cattolici conoscono la storia peggio dei laicisti?

PER SAPERNE DI PIÙ: L. Geymonat, Galileo Galilei, Torino 1965. S. M. Pagano, I documenti del processo di Galileo Galilei, Città del Vaticano 1984. The Galileo affair: A documentary history, a cura di M. Finocchiaro, Berkeley 1989. L. Firpo, Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinale Giovanni Morone e il suo processo d’eresia, Bologna 1992. M. Segre, Nel segno di Galileo, Bologna1993. F. Minazzi, Galileo “filosofo geometra”, Milano 1994. Prosperi, Tribunali della coscienza: inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996. J. Tedeschi, Il giudice e l’eretico. Studi sull’inquisizione romana, n.ed., Milano 1997.


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tv

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di Pier Mario Fasanotti

Barbara regina dei fenomeni (da baraccone?)

web

iene sempre il momento in cui uno si chiede: sarò forse troppo severo, o all’antica, o bacchettone o addirittura complessato? È una domanda che si pongono milioni di italiani davanti alla tv. Seconda domanda: come mai i nostri connazionali teleutenti sono così affascinati dall’esibizione di scollature, cosce e sederi? Alt. Occorre correggere questo secondo quesito: la vera calamita oggi è lo strabiliante che poi significa, tradotto in immagini e show, la ricerca dello strano, dell’imprevisto, dell’anormale (secondo i criteri, certo un po’ grigi, delle famiglie in formato Istat). A patto, ovviamente, di scatenare i temporali testosteronici, meglio se di mezz’autunno: lo «strano ma vero» deve riguardare le parti intime. Che sono il vero investimento di tutti i produttori di cinema e tv, almeno di quelli che vogliono fare soldi a palate. Lasciamo stare per un momento una polverosa parola come la morale. Sorpassatissima. Afferriamone un’altra: buon gusto. E da qui partiamo riformulando i due quesiti. Certe volte accorre in nostro aiuto uno che se ne intende, il regista Francis Ford Coppola. Il quale ha detto: «Sapete perché vedo sempre la tv italiana, almeno quando posso? Perché è la più stupida». Di uguale, anzi di più esagerato, pensiero i giovani che giorni fa hanno protestato a Torino contro la sguaiata esibizione dei figuri del Grande Fratello. Migliaia di persone inneggianti si sono radunate per vedere da vicino «la sesta misura» di tale Laura. Inevitabile il raffronto con certi «rodei» di tette e culi che si fanno in America e che poi finiscono su YouTube o su qualche canale notturno di Sky. Birra, pop-corn, rutti, grida e quelle cinguettanti signorine che si sentono realiz-

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games

zate - almeno per un quarto d’ora, direbbe Andy Wharol - nel mostrare il possesso di quelle porzioni di carne che da milioni di anni risvegliano l’attenzione dell’uomo medio. Torniamo in casa nostra. E qui si deve constatare la felicità di una cinquantaduenne napoletana che all’anagrafe fu registrata come Maria Carmela. Nome d’arte, sicuramente più chic, Barbara. Cognome: d’Urso. Il suo programma Pomeriggio Cinque (su Canale 5, ovviamente) ha battuto il rivale Lamberto Sposini (in La vita in diretta: troppo signorile e ironico, anche se ce la mette tutta ad adeguarsi alla sciatta casalinghitudine post-prandiale). Un giorno, essendo lei ben dotata di petto, si è esibita in un allegro salterellare per dimostrare che il suo seno «non è statico, ma sta su in modo naturale». Ha dovuto farlo, i suoi fans erano troppo curiosi. Molto carnale lo è sempre stata, fin da quando apparve nuda in un servizio fotografico su Playboy. Rapito da tanta esuberanza, un giornalista spiritoso e coltissimo è andato nel suo camerino e l’ha intervistata. Alla domanda se la curvilinea Barbara non esagerasse nel prendersi confidenza con gli ospiti, lei ha risposto: «Io sono la prima a prendermi per il culo». Gossip dietro l’angolo: e il flirt (presunto) con il fotografo Corona? Risata della conduttrice: «Non vorrei che i miei figli, prendendolo sul serio, mi facessero un culo così». Il giornalista, signorilmente, prende atto del suo essere «molto croccante», come cinquantenne. Commento della verace mattatrice: «È vero, ho un gran culo». Inteso come fortuna. La parola più volte citata deve piacerle molto, evidentemente. Come le piace il rodeo delle stranezze: dall’invitare la donna (con vecchie ambizioni di attrice porno) con il seno ultrastraripante all’organizzare gare di rutti. È l’ormai famoso «Show dei Record»: casi umani che dovrebbero ammazzarci dalle risate. Che vita è se non «lo famo strano»? Barbara è convinta che la gente si diverta dinanzi al foenomenum. Per esempio tifando per chi indossa il maggior numero di mutante. Si cade sempre lì. In basso. Anche quando la d’Urso confessa che Piersilivio (Berlusconi) «è un gran gnocco». Fedeltà aziendale?

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LE FERIE CON UN CLIC

CHITARRISTA CERCASI

TRE POVERI A ZONZO

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omplice la calura e la voglia di dimenticare la crisi per qualche giorno di vacanza,riscuote grande successo il portale Viaggiscoop.it, vero e proprio arsenale del turista agguerrito, voglioso di informazioni precise e di piani quanto più possibile azzeccati. Nato nel 2004, il sito trabocca di contenuti utili: mappe dettagliate, itinerari consigliati, dritte di ogni genere e reportage fo-

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he White Stripes, Kings of Leon, The Rolling Stones, Santana e Johnny Cash: il cast del prossimo Guitar Hero, in arrivo in autunno, si preannuncia stellare. Il celebre game capace di coniugare i piaceri della console a quelli della musica live, presenta in questo quinto capitolo gustose novità. Innanzitutto, la possibilità di personalizzare la propria band, di decidere numero di

più di 50 anni da quella Storia di Caterina che ne fece da allora uno dei più rigorosi interpreti del realismo zavattiniano, Citto Maselli torna ad affondare lo sguardo sugli invisibili. I dimenticati di oggi sono i senzatetto del suo Civico 0, tre storie raccolte tra le migliaia passate sotto lo sguardo del regista nel corso di un paziente lavoro di documentazione. Interpretate

”Viaggiscoop.it” offre informazioni e appunti di viaggio rilasciati direttamente dagli utenti

Il quinto capitolo di ”Guitar Hero”, previsto per l’autunno, ospita Bob Dylan e Johnny Cash

Nina, Stella e Giuliano: nel suo ”Civico 0” Citto Maselli racconta le storie vere di tre clochard

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da Massimo Ranieri, Ornella Muti e Letizia Sedrick, e commentate da chi le ha vissute in prima persona, scorrono nel lavoro di Maselli le vicende di tre homeless. Stella, giovane etiope che ha attraversato a piedi il deserto per giungere in Italia Nina, ragazza rumena costretta a un esilio perenne e Giuliano, fruttivendolo italiano che si ritrova vagabondo, sono nella pellicola di Maselli i simboli di una società che a dispetto dei sempre più alti gonfaloni democratici, lascia indietro i più deboli. Non si nasce clochard, spiega il regista, che individua le storture di un sistema sempre più indifferente alla dignità umana, tutelata ormai dalla generosità di poche associazioni.

a cura di Francesco Lo Dico

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cinema

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Ovvie e faziose le star

no degli eventi speciali più interessanti al Festival di Tribeca appena trascorso era il film PoliWood di Barry Levinson, seguito da panel discussion (meno temibile del nostro «segue dibattito»). Il regista di Wag the Dog (Sesso e potere), Rain Man, Good Morning Vietnam, ha iniziato il suo documentario «sull’insana alleanza» tra media, politica e divi impegnati, su richiesta della Creative Coalition, un’associazione bipartisan (ma al 98% progressista) che promuove il finanziamento pubblico per l’insegnamento delle arti. Con un budget minimo, uno dei più accorti uomini di spettacolo ha seguito i rappresentanti del gruppo alle convention presidenziali dell’estate scorsa. Strada facendo il documentario si è trasformato (per fortuna) da un’agiografia della sinistra hollywoodiana impegnata in una causa politicamente irreprensibile (Zzzzzz) in un «saggio filmato di Barry Levinson». Nella migliore tradizione levinsoniana, le intenzioni originali di PoliWood vengono capovolte in corso d’opera, finendo per colpire la parte opposta, come in Sesso e potere. Quel film, del 1997, parlava di un presidente a rischio di non essere rieletto per via di uno scandalo sessuale. Il suo spin doctor (Robert De Niro) con l’aiuto di un produttore di cinema (Dustin Hoffman) inventa una guerra falsa con l’Albania per distrarre l’opinione pubblica. L’intenzione era di colpire la presidenza di Bush senior e la Guerra del Golfo ma grazie al Sexgate, successo in contemporanea con l’uscita, il film ha la fama d’aver «previsto» lo scandalo Lewinsky e le marachelle sporcaccione del progressista Bill Clinton. Allo stesso modo il nuovo documentario, anziché incensare le star attiviste, finisce per essere un outing di celebrità consumate da protagonismo mediatico e dalla proterva presunzione di possedere la Verità. Tra gli attori visti nel film e anche in sala c’erano Matthew Modine, Anne Hathaway, Ellen Burstyn, Josh Lucas e Tim Daly, co-presidente della Creative Coalition. Due i momenti più pungenti. Il primo è quello in cui una sostenitrice di McCain denuncia in maniera calzante attori (come Susan Sarandon e Tim Robbins) di trattare i conservatori da ritardati mentali, stupidi e/o Jesus Freaks deficienti e fanatici. Il secondo coinvolge la presenza di Frank Luntz, un conservatore consulente che insegna ai politici come far arrivare il loro messaggio senza alienare una parte dell’e-

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Con queste parole, entriamo nel vivo del documentario sulle presunte torture della Cia, che ha vinto l’Oscar per il miglior documentario, Taxi to the Dark Side. Il film è un vero e proprio processo all’amministrazione Bush-Cheney, partendo dalla morte di Dilawar, un tassista afghano. Dopo un attacco di razzi alla base americana Salerno, una milizia locale lo arresta insieme con due passeggeri che accompagnava col tassì. Li consegna alla base americana vicina a Bagram, dichiarando che sono gli assassini dei soldati Usa morti nell’attacco. Il capo d’accusa principale contro Dilawar è la presenza di un gruppo elettrogeno nel portabagagli. Dopo cinque giorni d’interrogatorio «intensificato», Dilawar muore. In seguito il poliziotto che lo ha accusato è lui stesso arrestato e trovato colpevole dell’attacco con i razzi; aveva fermato i primi disgraziati che gli erano capitati per deviare i sospetti. Il povero tassista si era trovato «al posto sbagliato nel momento sbagliato».

politically correct di Anselma Dell’Olio

“PoliWood”di Barry Levinson, da agiografia della sinistra hollywoodiana impegnata in una causa, si è trasformato in una denuncia contro il protagonismo mediatico presuntuoso. Mentre “Taxi to the Dark Side” dice cose che sappiamo già. Ma non le dice tutte… lettorato. Levinson lo convoca alla convention democratica per un seminario con gli attori attivisti, per aiutarli a cambiare la retorica faziosa in un linguaggio ecumenico, poiché il finanziamento pubblico per le arti ha bisogno di un largo consenso trasversale. Appena Luntz apre bocca, gli attori Josh Lucas e Gloria Reuben gli saltano addosso perché «calpesta il nostro diritto di esprimerci secondo il primo emendamento della Costituzione» (?) e altre amenità inconsapevoli. Dopo il film, Luntz ha ricordato che l’assalto era ancora più feroce di quanto non si veda («Mi hanno aggredito in quindici»). Solo Ellen Burstyn sembra capire che è più importante raggiungere gli obiettivi che «far esplodere la propria emotività».

Ma l’impressione che si ricava dal film e dalla seguente conversazione è che c’è poca speranza che le celebrità rinuncino

al fervore fazioso. Levinson, però, è di un’altra pasta. Fa parlare nel film attori della minoranza conservatrice, come Stephen Baldwin (fratello di Alec), un credente militante che si dedica alle «iniziative basate sulla fede», Robert Davi, supporter di John McCain, e Ron Silver, da poco deceduto, che ha avuto l’applauso della sala (a maggioranza progressista) nonostante lamenti «la sorda intolleranza della sinistra». Sono di puro godimento gli interventi di due laconici giornalisti di The Nation, settimanale di sinistra al cubo. Consigliano agli artisti fulgidamente retorici e ignoranti di «scegliersi una causa e poi approfondirla, perché sappiano di cosa parlano», invece di blaterare a vanvera. Meglio ancora se dopo aver aderito, non proferissero più parola, poiché così fanno meno danni… A proposito del nuovo putiferio sui metodi d’interrogatorio americani dei presunti terroristi, Levinson risponde da uomo di sinistra che non ha mandato il cervello all’ammasso. Accoglie il sospetto che il rilascio dei cosiddetti torture memos fosse un modo per distrarre il pubblico americano da altre cose, per esempio dall’immensa regalia di soldi dei contribuenti alle banche o dagli zelanti raid del governo Obama contro gli immigrati clandestini. «Prima di tutto cosa c’è di nuovo e scioccante in quelle note che non conoscessimo già?», si chiede retoricamente il regista. «La realtà è che la tortura fatta a dovere resta coperta: più è fatta bene, meno se ne sa. E invece noi siamo qui a fare dibattiti pubblici sulla tortura! È troppo folle la discussione. In primo luogo, i comportamenti deviati istituzionali hanno bisogno della segretezza. Non è da escludere che proprio ora siamo affossati in un pantano del genere. Ci distrae dalle cose davvero essenziali».

Il documentario è abilmente costruito per sollecitare la nostra indignazione; ma le foto, i metodi d’interrogatorio definiti come torture (il waterboarding, le posizioni di stress, i cani, i cappucci, per esempio) e le accuse a W, Dick Cheney, Donald Rumsfeld e alti burocrati del governo al potere durante gli attacchi dell’11 settembre 2001, non sono certo nuove. Come ha detto Levinson, «sappiamo già tutto». È di questi giorni, trascurato dai giornali italiani salvo uno (Christian Rocca su Il foglio quotidiano), il dietrofront sulla questione di alcune onorate firme della sinistra doc. Il contrattacco di Cheney (definito da Joe Klein di Time «uno straordinario stronzo») all’amministrazione Obama sta facendo riflettere opinionisti come Richard Cohen del Washington Post e Thomas Friedman del New York Times. Cohen è uno che paragona Bush e Cheney ai nazisti, ma scrive che i terroristi se ne fregano del nostro «esame di coscienza». «La svolta di Obama sulla tortura li renderà solo più spavaldi e l’America meno sicura. Se catturati, sanno di non avere nulla da temere». È buffa l’accusa di torva segretezza, quando Cheney, come si vede nel film, ha annunciato in tv all’indomani del 11 settembre che «dovremo lavorare anche dal lato oscuro, in un certo senso… È una faccenda brutta, cattiva, sporca e pericolosa quella in cui ci troviamo coinvolti: ecco l’arena in cui ci tocca operare». Oggi l’ex-vicepresidente degli Stati Uniti difende le politiche anti-terrorismo del governo Bush a viso aperto, chiedendo che vengano resi noti documenti riservati che dimostrano l’utilità delle tecniche «intensificate» d’interrogatorio per impedire nuovi attacchi agli Usa. Richiesta che Obama ha negato, mentre ripristina i tribunali speciali a Guantanamo. Così si lascia in mano ai petulanti, rancorosi odiatori di Bush and company (utili per rimuovere la paura intollerabile del terrorismo senza faccia?) la clava dei «crimini nascosti» a tempo indeterminato. Da tenere presente durante la visione del film.


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poesia

Izet Sarajlic, il cantore di Sarajevo di Francesco Napoli tenerezza umana,/ dove sei?/ Forse solo/ nei libri». Sono i quattro versi di una poesia del 1992 di Sarajlic, asciutta ma che nella doppia interrogativa cela smarrimento e angoscia. E sono i versi che Margaret Mazzantini ha sapientemente voluto in esergo al suo ultimo romanzo, Venuto al mondo, che elegge Sarajevo, immersa in un atroce conflitto, luogo di un amore ancora possibile. Izet «Kiko» Sarajlic è il grande cantore di Sarajevo, la città dove ha avuto inizio e fine il XX secolo, circoscritto dall’attentato all’Arciduca e futuro Imperatore d’Austria e quell’assedio durato troppo a lungo (aprile 1992-febbraio 1996) e intinto nel cuore dell’Occidente europeo. Poteva andar via e non l’ha voluto fare, è rimasto a simbolo della resistenza culturale alle barbarie. Nato nel 1930, maturato poi nella Jugoslavia titina, ha iniziato a scrivere poesie nel dopoguerra e a partecipare attivamente alle avanguardie culturali del suo paese. Anima la sua Sarajevo con le «Giornate poetiche» fino al 1972, allacciando rapporti con i grandi di ogni luogo (da Brodskij a Evtuschenko, da Enzensberger a Simic), legandosi con particolare affetto ad alcuni autori italiani tradotti dalla sorella in bosniaco come Rodari, Morandini, Gatto e Morante.

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Il novantaquattro, 8 marzo. La Sarajevo degli amanti non si arrende. Sul tavolo l’invito per il matinè di danza allo Sloga. Naturalmente ci andiamo! I miei pantaloni sono un po’ logori, e la tua gonna non è proprio da Via Veneto. Ma noi non siamo a Roma, noi siamo in guerra. Arriva anche Jovan Divjak. Dagli stivali si vede che viene direttamente dalla prima linea. Quando ti chiede un ballo sembri un po’ confusa. Per la prima volta ballerai con un generale. Il generale non immagina l’onore che ti ha fatto, ma, a dire il vero, anche tu al generale. Ha ballato con la donna più celebrata di Sarajevo. Ma questo tango – questo è solo nostro! Per la stanchezza ci gira un po’ la testa. Mia cara, è passata anche la nostra magnifica vita. Piangi, piangi pure, non siamo in Via Veneto, e forse questo è il nostro ultimo ballo. Izet Sarajlic da Ultimo tango a Sarajevo (Traduzione di Raffaella Marzano e Sinan Gudzevic)

La sua opera è riconosciuta in tutta Europa, apprezzata per quella sua vena lirico-elegiaca corroborata, secondo un umore tipicamente slavo, di ironia tanto sottile quanto feroce («fai la coda per comprare il pane/ e ti ritrovi al Servizio di traumatologia/ con una gamba amputata./ E dopo asserisci/ d’aver avuto anche fortuna», La fortuna alla maniera di Sarajevo) e un piacere naturale per la narrazione modulata per lo più su enumerazioni accumulative. Durante i lunghi anni dell’assedio conserva per quanto possibile queste relazioni, lo fanno sentir vivo, e conosce Erri De Luca che apre con uno scritto commosso l’antologia di Sarajlic Qualcuno ha suonato, curata per Multimedia Edizioni da Raffaella Marzano e Sinan Gudzevic e arricchita da un cd con la voce recitante del poeta. Ricorda come Sarajlic al pari della Achmatova sia in grado di descrivere con la sola penna e la poesia guerre e lutti, per poi confessare che da lui ha imparato «di nuovo a dire: amo» e che «a cinquant’anni bisogna pronunciarlo spesso, in quante più lingue possibile, lavandosi i denti al mattino, sciacquandoli bene e poi asciugandoli con l’aria di quel verbo all’indicativo presente». Tenerezza umana, questo il titolo della poesia ricordata all’inizio di questo intervento, sembra fare il paio con il componimento che segue nell’esaustiva antologia citata, versi dove Sarajlic rammenta le guerre della vita: dalle cinque che «Marko Basic ha sulle spalle» alle due «per me e la mia generazione» fino a quella di Vladimir che «con i suoi diciotto mesi,/ in questo

momento si potrebbe dire/ che addirittura la metà della sua vita/ è trascorsa in guerra». La biografia indubbiamente alimenta la sua poesia, ancor più quella triste del conflitto ultimo come in Ultimo tango a Sarajevo dove ancora amore e morte vanno a braccetto, dove la speranza è riposta in quel voler andare contro le logiche aberranti dell’assedio e ritrovare la vita nel «matinè di danza allo Sloga». Importa poco se pantaloni e abiti son logori, l’importante è che non lo sia l’animo. Apprendiamo dai suoi versi i gusti letterari per gli amati grandi dell’Ottocento russo ma anche per Dante e Balzac, Mann e Hemingway, la sua ineluttabile attrazione per la poesia e la difficoltà di scrivere in prosa, lui fumatore accanito che se avesse dovuto comporre Guerra e pace sarebbe «morto per avvelenamento da nicotina molto prima della battaglia di Borodina».

Nel gruppetto delle composizioni di guerra riconosciamo la lunga catena degli addii cui è stato costretto: innanzitutto la moglie, e poi le sorelle Raza e Nina e gli amici con l’insistente dubbio se questi siano ancora tali quando le armi urlano in guerra (Agli amici dell’ex Jugoslavia). Ma la forza straordinaria di Sarajlic è nel saper andare oltre lo strazio del dolore, il carico oneroso dei lutti personali, dal fratello Eso fucilato dai fascisti durante il secondo conflitto mondiale agli affetti famigliari più intimi, riempiendo la sua poesia d’amore. Anzi, incita più volte anche i giovani a fare come lui, a vestire i propri versi di questo sentimento («Avendo paura/ di essere definiti fuori moda/ i giovani non scrivono più/ poesie d’amore./ Noi vecchi/ dovremo/ scriverle/ per loro», La crisi della poesia d’amore). Singolare poi come dia alla poesia sembianze e sentimenti umani («a questa mia poesia/ si rizzano i capelli», «le mie poesie resteranno a vagabondare in questa città») fino a esser certo che «anche i versi sono contenti/ Quando la gente si incontra». A quest’ultimo richiamo da anni ormai si ispirano gli «Incontri internazionali di poesia di Sarajevo». Per dar seguito a questa sua volontà di ridare centralità culturale alla sua città la Casa della Poesia di Baronissi animata da Sergio Iagulli e Raffaella Marzano li organizza con dedizione assoluta (quest’anno dal 25 al 27 settembre). Lì a Sarajevo è possibile incontrare ancora la grandezza di questo poeta: in quella sua abitazione vissuta dalla figlia Tamara, con i segni del suo resistere al conflitto e dei bombardamenti, o in quel cimitero dove riposa accanto alla moglie e dove un’intera generazione è sepolta bruciata dalla barbarie degli odi etnico-religiosi. Per porre rimedio a questo Sarajlic allora ha pensato bene di reclamare a sé «una strada per il mio nome» dove «la cosa più importante è/ che nella strada con il mio nome/ a nessuno capiti mai una disgrazia».


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il club di calliope ROSSO MAGENTA

dal codice delle esplosioni fiamminghe dalle vertigini dei tuoni alti sui fieni arsi in fondo più che magenta sangue d’aria quel rossore in fondo è un esodo euforico di lampi senza nome senza desideri volano i funamboli

Daniele Benvenuto da I chiari

LA MISURA DI GIAMPIERO NERI in libreria

di Loretto Rafanelli ono le vicende comuni di tutti i giorni, quelle che attirano l’attenzione di Giampiero Neri. Le vicende che hanno attraversato il suo occhio di poeta (nato nel ‘27) e che egli rende in versi nitidi, incisivi, perfetti, in Paesaggi inospiti (Mondadori, 76 pagine,12,00 euro). E chi ricorda Teatro naturale, e giustamente ne rimase ammirato, avrà da essere felice di questo suo nuovo libro, che è da col-

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con la sua epoca breve»; «Si radunavano i ragazzi nel cortile/ e le suore con grandi cappelli/ bianchi inamidati/ attraversavano le file/ con un leggero fruscio»), perduto, ma che pur tuttavia concorre a formare una identità, la nostra, che la penna attenta del poeta delinea. Ed è come guardare un album fotografico (la sua poesia è una sequenza fotografica), dove cogliamo i volti, i luoghi, gli animali (dalla poiana al ghi-

Intensità evocativa, essenzialità, costruzione esemplare: nella nuova raccolta “Paesaggi inospiti” la cifra di un autore che i giovani poeti dovrebbero emulare locare in quel solco, per la riuscita e l’intensità evocativa. La scrittura del poeta è di una essenzialità disarmante, non si coglie alcuna enfasi, e la costruzione è esemplare, egli infatti rifugge dalla facile musicalità, dal dire roboante, dalle strutture artefatte, ma pure vi sono frequenti «scatti» espressivi che giungono come in una calma sospesa e quasi sorprendono il lettore. Nella poesia di Neri c’è scavato lo scorrere del tempo, che è poi buona parte del Novecento, ed è volutamente uno spazio storico minimo («Era da poco cominciata la guerra/ la Scuola onorava il primo caduto…»; «Di quella fontana stile novecento/ che doveva durare/ oltre le nostre vite/ si è persa la traccia/ morta

ro), i cambiamenti, le trasformazioni, di un paesaggio, di una intera comunità. Uno scenario lontano, sfuggito via, come gli anni trascorsi, ma doverosamente da salvaguardare. Eppure nonostante queste foto ingiallite, la poesia di Neri è di una singolare leggerezza, non c’è la gravità del pianto, non c’è eccesso sentimentale, solo uno sguardo delicato e un po’ malinconico, che, tuttavia, non incombe pesantemente nel verso, in un tumulto di disperazioni interiori, come spesso capita di leggere. Si dovrebbe indicare Giampiero Neri ai giovani poeti, per far capire quanto debba essere attenta e misurata la scrittura poetica, quale controllo stilistico e tematico deve avere lo scrittore.

UN POPOLO DI POETI Il tempo è finito, ogni brivido lungo la spina che pure continua a mantenerci eretti, ci scuote come bambole che hanno scordato le percosse. Nuove moli di immagini vomita il mare: aspettiamo, sulla riva, di morire ad occhi aperti. Eppure il tempo ritorna, come anche l'onda avesse postura, come la cura di quest'immediato esserci, fosse nel tempo che serve per morire. L’onda e la spina Tommaso Meozzi

Più antica di Dio è la mano del turco capitano del barcone mercantile al largo delle rocce dei crociati Malta e di Lampedusa dove flauti e liuto erano assemblati e alla spiaggia ti attirava il suono povera sirena ora quella mano tratto in salvo ha il tuo cadavere Lighea non sapevo fossi incinta non sapevo fossi d’Africa e che avessi 17 anni non sapevo il tuo marcire dentro un sacco già da 5 giorni certo il turco non aveva un orcio d’olifa tra il suo carico da usare sul tuo volto che peccato in alta processione il tuo sembiante tra le opere e i giorni avremmo posto e intorno al volto le parole scritte antiche nel mare salato lasciano che i resti belle e giusti degli uomini dei pesci siano affare coi gabbiani in vecchia contesa. La Madonna del mare Federico Rossignoli

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

ella scomposta e scompensata storia nostrana dell’arte contemporanea, ci sono talvolta degli allineamenti planetari, tanto casuali e imprevisti, quanto significativi ed esplicativi, che aiutano però a capire appunto scompensi e divari ingiusti e ingiustificati dell’operato critico patrio. Doverosamente giunge, curata da Giovanna Barbero significativamente in un luogo neutro e nutrito di cultura, come la Biblioteca Nazionale Universitaria di Piazza Carlo Alberto a Torino, che pure funziona a puntino ma dice quanto le istituzioni museali torinesi siano state colpevolmente distratte su questo maestro riservato e schivo, una vivace retrospettiva: non tanto di quadri, ma di documenti e di mozioni di affetti, di testimonianze e di fotografie, sopra il troppo trascurato Giacomo Soffiantino, ottant’anni giovanissimi di entusiasmo e dedizione alla pittura («Dipingo per esistere, non esisto per dipingere», distinzione apparentemente cavillosa ma profondamente vera) che pure ha qui la rara occasione di esporre le sue ultime, vitalissime opere 2003-2008, che - nulla di nuovo - sono di grande forza espressiva e di potente intelligenza pittorica. Ma sono accompagnate, anche, da questo ricco corredo, assai personale e caldo di affezioni domestiche, di immagini d’amicizia e scambi epistolari e testimonianze autentiche di stima, come se conteporaneamente al riserbo programmatico del fare artistico di Soffiantino, si aprisse pure il rubinetto sentimentale del suo cuore, ferito da troppa indifferenza. A vedere anche i bigliettini d’amicizia ch’egli ha trattenuto nel cassetto della memoria e che qui mostra (toccante quello di Albino Galvano) le ditate della frequentazione nostalgica di inviti e cataloghi, un tempo poveri ma puntuali, vecchi telegrammi di stima per le poche occasioni felici e il circolo un po’ stringente e ricorrente di amici-critici sempre gli stessi, da Carluccio, a Rosci, da Dragone a De Bartolemis, e pochi altri, con l’unicum di Testori, e i loro originali dattiloscritti gelosamente conservati in tempo di non-mails, si riflette a tutto quello che ingiustamente egli non ha ricevuto, da critici vantoni d’un finto internazionalismo di parata, che ha prodotto più disastri che studio e intelligenza (anch’io, nel mio piccolo manco dal novero, e questo mio discorso valga come un mea culpa). Ma ben altri sono i nomi responsabili di questa distrazione nazionale, su una genera-

N

L’antologia

visiva

di Giacomo Soffiantino di Marco Vallora

arti

zione infelice, stretta tra le glorie di Casorati e massime Spazzapan e le spire poi vincenti e imperialiste dell’Arte Povera. Soffiantino ha una pittura minerale, sotterranea, raggomitolata e pensosa, dove le cose hanno vinto, con il loro potere fossile e mai riconciliato («vi è una malinconia degli oggetti che solo un pittore sa spiegare e restituire» scriveva il narratore Arpino, «Soffiantino ci dice che anche gli oggetti si ammalano. A poco a poco, tacendo, scuotandosi, mutando posizione per una caduta, uno spostamento provocato da mano umana», qui ormai scomparsa, inscheletrita). E fossile significa appunto qualcosa di mortalmente vivo, d’intaccabile dal tempo, osso di seppia strutturalmente definitivo e consumato, come un enunciato di teorema sentimentale, che racconti il suo eterno crollare immobile (significativo anche il titolo e la struttura di un’opera del 2008, Tsunami, che giustifica questo progressivo appiattimento prospettico, questa tabula rasa dello spazio ridotto in superficie, in cui galleggiano verticalmente - ma una verticalità che è orizzonte del quadro resti d’un mondo d’affezione e di quotidianità in libera caduta). Come ha scitto Paolo Fossati: «… quel lento e preciso scoprire l’area della propria coscienza, con i mezzi della fantasia, senza sovrapporre oggetti e immaginazione, ma come spogliando gli uni nell’altra al lume di una luce cui è da badare in modo particolare».Tutti hanno «badato» e scritto della sua luce, io leggermente dissentirei, ma proprio perché di fronte a una pittura così chiusa ed enigmatica è difficile far correre le parole, vane e presuntuose. Preferisco citarlo: «Lavoro per una verità che non si traduce in parole. Una verità alla quale posso dare vita solo mediante il colore, la linea, la struttura e la forma, anche se la pittura è la logica di ciò che è illogico. (Mentre) l’arte contemporanea ha lavorato solo per la negazione della pittura: la pittura è morta. Questa affermazione mi fa pensare a una natura che ha perso i colori. Dov’è andato il colore del mare? IL nero del profondo? La luce e l’ombra? Senza colore vuol dire che tutto ciò che ci circonda diventa una scultura». Affermazione quanto mai intelligente.

Giacomo Soffiantino. Antologia visiva, Torino, Biblioteca Nazionale, fino al 30 maggio

diario culinario

Frutti di mare crudi per veri «machi»

di Francesco Capozza Torre a Mare, undici chilometri da Bari, nell’unica aiuola di Piazzetta Mar de la Plata (ho chiesto a cosa sia dovuto, lì, un nome così esotico: ma non hanno saputo spiegarmelo), da qualche anno svetta la statua di un pescatore nudo, dal fisico tornito, ai cui piedi giace un grande polpo di scoglio (riconoscibile per la doppia fila di ventose, laddove i polpi di paranza ne hanno una sola). La gente del luogo sostiene che l’artista cui è stata commissionata, colto da un attacco di irrefrenabile gratitudine, abbia dato al pescatore «la capa mozzata» del sindaco. Cioè gli abbia appioppato le medesime sembianze del primo cittadino. La piazzetta sfuma in un grande parcheggio sterrato, sotto al quale c’è lo specchio d’acqua del porticciolo, zeppo

A

di barche di pescatori. Qui si trova Nicola, ristorante molto noto tra i baresi amanti dei frutti di mare crudi, e frequentato soprattutto da uomini, manager e politici. La mangiata di pesce crudo - mi spiegano - è tradizionalmente l’occasione per chiacchierare di affari, per suggellare patti commerciali e alleanze politiche. Inoltre, nella mentalità tradizionale, la donna che mangia frutti di mare crudi dà uno spettacolo sconveniente. Divorare cozze nere (dal sapore dolce e metallico), cozze pelose (un gusto più amaro), noci (i tartufi di mare) e taratufi (spugne di mare) è «un gesto machista»: l’uomo lo fa ostentatamente, per dare un segno di vitalità, sfidando il tifo, il colera e l’epatite, malattie che da sempre in Puglia sono ritenute più endemiche che epidemiche. Prima di sedersi bisogna scendere al casotto esterno, quasi a pelo dell’acqua, per

commentare e scegliere il pesce. Vecchietti grinzosi in giacca a vento, berretto e grembiule, aprono e sgusciano frutti di mare e scampi, puliscono seppioline (da mangiarsi crude), illustrano i pesci esposti. Una volta fatta la scelta, si torna nel ristorante passando davanti alla grande cucina a vista, dove gli addetti friggono senza sosta sotto l’occhio esperto della madre del gestore.Va detto che la cucina barese è all’insegna degli antipasti: se una persona di appetito robusto assaggia tutto quello che viene portato in tavola, è difficile che arrivi a ordinare il primo. Olive verdi nella calce, grasse e delicate (secondo me le migliori), melanzane fritte in pastella di formaggio pecorino, sgombro freddo con sedano e aceto, cozze fritte, polpo alla brace (squisito e croccante), tagliatelle fritte (cioè seppie a tagliatella), seppioline e frutti di mare crudi, e infine provolone (da accompagnarsi alle cozze

crude). Ho assaggiato anche una pietanza tipica pugliese, gli spaghetti spezzati e cotti nel brodo del pesce ordinato come secondo; in questo caso una pescatrice al forno con patate, di cottura perfetta: giusto il tempo di rilasciare un po’di brodo e dorarsi in superficie, rimanendo morbida ed elastica all’interno. Si termina con un gran piatto di frutta già sbucciata: ananas, fichi d’India, meloni, uva e clementini. Il tutto pasteggiando con un più che dignitoso bianco del Salento. Con un conto sui 35,00 euro a testa, si esce più che soddisfatti, ma senza dimenticare gli scongiuri contro una possibile epatite! (Come si sa, le cozze, che filtrano acqua trattenendo virus e batteri, benché depurate sono pericolosissime da crude. Eppure...).

Ristorante Nicola, Viale Principi di Piemonte 3, Torre a Mare (Bari) - tel. 080 5430043


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moda

Cinque pezzi facili (e cinque idee) per l’estate della crisi di Roselina Salemi ubino nero o frange? Sandali o stivali? Ogni stagione della moda prevede due tipi di tendenze: possibili e impossibili o quanto meno, azzardate. Di solito, vengono meglio le fotografie delle tendenze impossibili, con la loro marziana distanza. E mai una via di mezzo. Ma la Prima Estate della Cri-

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si ha un po’cambiato gioco e le donne si distingueranno tra quelle che scelgono la moda più leggera (hanno altro da pensare) e quelle che si lanciano sulle idee difficili (meglio un giorno da leonessa). Cinque pezzi facili: 1)Total Jeans. Funziona sempre, anche se quest’anno i pantaloni sono skinny, cioè tormentosamente stretti come una seconda pelle. L’importante è abbinarli a una camicia in denim. 2) Pigiama party. Completi molto spiritosi da Dolce & Gabbana, Marni, Etro: pallini e righe assortite. Ci vuole un po’di coraggio, ma sono comodissimi. Cintura a nastro, giacche sciolte. Le meno coraggiose li porteranno spezzati. 3) Rouches e volant. Che cosa ci vuole per essere un tantino femminili? Senza le esagerazioni da red carpet viste a Cannes (ma che Eugenia Silva “frusciante” e Giorgia in tubino nero

architettura

sogno i vestiti romantici e svolazzanti, da principessa), basta una camicia per dare smalto a un noioso tailleur. Gucci, Armani e Versace suggeriscono un po’ di frivolezza, Prada l’idea del tessuto stropicciato, da mettere in valigia senza timore di sgualcirlo. 4) Il tubino. Ci vuole, inutile. Sempre nero, ma con un tocco di bianco che spezza, molto mademoiselle Chanel o con l’arroganza di una spalla nuda. Ce ne sono anche morbidi, lunghi sotto il ginocchio, arricchiti da una collana, assolutamente non preziosa, con pietre, lacci di raso e paillettes. Mai lasciarsi ingannare dai materiali, quelle di Lanvin costano quanto gli abiti. 5) Caftano. La variante 2009 è fluida, morbida, per niente etnica, senza grandi problemi di taglia. Colori: bluette, rosa elettrico, verde acqua. Cinque idee da usare con parsimonia: 1) Stivali estivi. Ogni tanto ritornano. Era già successo a metà degli anni Ottanta: ragazze con gli stivali da buttero a Ferragosto. Ora tocca alle loro figlie. Morbidi, arricciati, con lacci e frange, da portare senza calze sono un autentico ossimoro, ma li hanno mandati in passerella firme come Hermès, Kenzo, e Givenchy. Se ne vedono già tanti. Brutti, mediamente. 2) Stile étoile. Gonnellina gonfia con molto tulle, romantica,

colorata, svolazzante. Vietata dopo i diciotto anni. 3) Macrofantasie. Disegni astratti, pennellate, macchie, abbozzi, fiori, linee: l’ispirazione viene dall’arte, ma fuori dalle sfilate è una scommessa. Ci vuole un fisico bestiale, bisogna essere alte, sottili e molto sicure di sé. 4) Frange. Sembra facile: un orlo, una borsa, uno scialle e sei subito in tendenza. Mini o maxi, cucite su lunghi abiti e persino sulle scarpe, oscillano, sottolineando ogni passo. Presuntuose. Attenzione, l’effetto Pocahontas, e l’effetto tenda sono in agguato 5) Tute. Erano la passione dei futuristi, l’esempio dell’uguaglianza sociale, la fine della vanità. E invece sono un altro reperto degli anni Ottanta. In versione sexy sono senza maniche o senza spalline. Con i tacchi alti fanno serata in discoteca. Con quelli bassi, rimpiccioliscono la figura. Sicure di non poterne fare a meno?

Da Moretti, a Libera e Ridolfi: tutto sulla casa del balilla di Marzia Marandola tudi approfonditi permettono ormai di valutare, con il dovuto distacco critico, gli anni del fascismo in Italia e il ruolo propagandistico che l’architettura ha svolto nel regime. Nel ventennio il valore politico del costruire ha portato alla messa in cantiere di un numero straordinario di opere edilizie esemplari. Indagare i progetti e la costruzione delle Case del Balilla significa quindi ripercorrere un ampio panorama di architetture, che portano le firme dei più promettenti progettisti del Novecento. L’Opera Nazionale Balilla (Onb) è istituita nel 1926 per educare i ragazzi italiani allo stile di vita fascista, concentrando in particolare l’attenzione sull’educazione fisica, come strumento di «bonifica e miglioramento della razza». Nel 1928 è Renato Ricci, presidente dell’Onb a proporre al duce di dotare ogni capoluogo di provincia d’Italia di una «casa» con palestre e attrezzature ginniche, che funzioni, oltre che per gli uffici di partito, come centro di formazione fisica e professionale. Il programma prevede la partecipazione volontaria alle iniziative della casa per i giovani di età compresa tra i 6 e i 18 anni, ma diviene presto in realtà un monopolio dell’educazione giovanile, essendo vietata ogni altra forma associativa. Contestualmente l’Opera avvia la scuola di formazione degli

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insegnanti: l’Accademia fascista di educazione fisica (1927-32) di Roma, il cui progetto è affidato a Enrico Del Debbio. Questi, originario di Carrara come Ricci, assistente alla romana scuola di Architettura, viene nominato consulente tecnico dell’Opera per la quale redige una guida alla progettazione degli edifici. Pubblicata nel 1928, rappresenterà per diversi anni il manuale di riferimento per i progettisti incaricati di mettere a punto per l’Opera un tipo edilizio assolutamente inedito. Lo schema di casa suggerito prevede un impianto simmetrico che, ordinato intorno a una palestra, si arricchisce di biblioteca, sala per spettacoli, aule e uffici. È lo stesso Ricci, che revisiona personalmente i progetti, a selezionare i progettisti tra i migliori neolaureati in Architettura di Roma, incaricati sia

per le contenute richieste economiche che per la maggiore propensione ad assecondare i suoi suggerimenti. Il ventiseienne Luigi Moretti, di cui Ricci intuisce immediatamente lo straordinario talento tanto da sostituirlo a Del Debbio, costruisce la prima sede Onb romana a Trastevere (1933-36). Un’architettura sorprendente e complessa, dove volumi stereometrici, distinti per funzioni, sono fluidamente integrati nella composizione spaziale da scale e gallerie. Un capolavoro folgorante che stravolgendo la prevedibilità compositiva dei modelli manualistici, inaugura una straordinaria stagione progettuale, che vedrà protagonisti architetti del calibro di Libera, Ridolfi e Minnucci. Il programma di Ricci dissemina capillarmente in tutto il territorio architetture moderne e ideologicamente parlanti, che narrano una storia rimasta finora ignorata o misconosciuta, che finalmente lo studio pluriennale di Capomolla, Mulazzani e Vittorini illustra fino ai dettagli delle tecniche edilizie, dei materiali costruttive, degli scarti distributivi. L’affascinante complessità del racconto storico è integrata da uno strepitoso atlante critico e fotografico.

Case del Balilla. Architettura e fascismo, a cura di Rinaldo Capomolla, Marco Mulazzani e Rosalia Vittorini, Electa, 264 pagine, 90,00 euro


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fantascienza

ai confini della realtà A spasso con Ballard MobyDICK

sulla crosta del vulcano

a narrativa di immaginazione scientifica, la letteratura speculativa, se non vogliamo proprio usare il termine popolare di fantascienza, ha perso nel giro di pochi mesi due dei suoi nomi più prestigiosi, coraggiosi e originali, dopo la morte, il 18 marzo 2008, del suo decano, il novantenne Arthur C. Clarke: Michael Crichton, morto a Los Angeles il 5 novembre 2008 ad appena 66 anni; e John Graham Ballard, morto a Londra il 19 aprile 2009 a 78 anni. La «malattia del secolo», quello che sembra ancora un «male incurabile», se li è portati via, mentre avrebbero potuto dire ancora molto, criticando da par loro gli orrori del mondo moderno descrivendo eventi catastrofici e futuri negativi. Soprattutto Ballard si era per così dire specializzato in questo sin dai suoi esordi scrivendo la «tetralogia degli elementi», vale a dire il mondo e l’umanità distrutti dall’aria vorticosa che aumenta sempre più in velocità, potenza e distruttività (Il vento dal nulla, 1961); dall’acqua delle calotte polari che si sciolgono e man mano sommergono la civiltà senza potervisi opporre (Il mondo sommerso, 1962); dal fuoco, con l’aumento dell’attività solare che riscalda sempre più l’atmosfera terrestre (Terra bruciata, 1964); e dalla terrà, cioè una specie di morbo mineralizzante che pietrifica, anzi cristallizza persone e cose (Foresta di cristallo, 1966). A questi farà sebuito un libro sui generis, che nessuno ha ricordato ma che è tipico dello stile e delle suggestioni dell’autore inglese: I segreti di Vermilion Sands (1971), raffinato gioco intellettuale ed estetico, che ricorda il decadentismo estenuato di Huysmans proiettato nella psiche e nel mondo degli artisti di un prossimo futuro.

L

Quelli di J.G. Ballard, però, non erano semplici romanzi «catastrofici» come tantissimi altri della fantascienza, ma opere dalla scrittura straordinaria, dalle descrizioni affascinanti e da uno scavo nella psiche dei protagonisti di assoluta eccellenza. Infatti, il 1962 fu anche l’anno in cui Ballard scrisse per il mensile di science fiction inglese New Worlds un editoriale intitolato Dov’è lo spazio interno? in cui teorizzò come dopo l’outer space, lo spazio esterno, la fantascienza dovesse esplorare l’inner space, lo spazio interno o interiore. E che più che di astronavi e pianeti si dovesse parlare degli sconvolgimenti che nella psiche dell’uomo avrebbe provocato il nuovo mondo artificioso e mediatico, la «società dello spettacolo», verso cui ci si stava avviando. Più che combattere gli alieni si doveva combattere contro i nostri Io deformati e pervertiti. Scriveva fra l’altro: «Vorrei che la fantascienza diventasse astratta e fredda, vorrei vedere più idee psico-letterarie, più sistemi temporali personali, più psicologie e spaziotempi sintetici». Il primo eclatante esempio di ciò, a mio parere impoverito da un eccessivo sperimentalismo formale non

di Gianfranco de Turris sempre comprensibile, furono i racconti di La mostra delle atrocità (1969), cui seguì il provocatorio e dissacratorio Crash! (1973), dove al di là del sesso e del sangue, veniva denunciata la simbiosi moderna fra uomo e automobile, fra erotismo e macchina, tra feticismo e sadismo (non per nulla solo il regista Cronenberg riuscì a trarne un film). Crash! si può considerare il primo di una trilogia dedicata alle apocalissi contemporanee, direi metropolitane, dove il realismo si mescola a un’immaginazione negativa per dar vita a vere e proprie antiutopie, o distopie, di denuncia della solitudine e della violen-

universo claustrofobico conchiuso in sé. Dalla catastrofe prodotta da agenti esterni, dunque, alla catastrove che nasce all’interno, dalle perversioni individuali e collettive. Come aveva detto nel 2005 al quotidiano tedesco Die Zeit: «Tutti i miei libri affrontano lo stesso problema: la civiltà umana è come la crosta di lava di un vulcano. Sembra solida, ma se la calpesti trovi il fuoco».

La vera svolta della sua carriera fu il romanzo autobiografico L’Impero del Sole (1984), da cui Spielberg trasse il film omonimo, in cui, col suo stile impareg-

L’umanità, diceva lo scrittore inglese, sembra lava indurita, ma se la calpesti sotto c’è il fuoco. Per questo si dedicò all’esplorazione di varie atrocità prodotte dalla società dello spettacolo nella psiche dell’uomo. Nella convinzione che fosse lo spazio interno il migliore scenario per la “science fiction” za contemporanee: L’isola di cemento (1974), un piccolo capolavoro angosciante su un uomo che, per un incidente stradale, si trova prigioniero e isolato, all’interno di una vasta area spartitraffico da cui non riesce a uscire più; e il terribile Condominio (1975), ampliamento di un famoso racconto, in cui si descrive la sindrome di assedio e lo scatenarsi della violenza fra gli abitanti di un grattacielo,

giabile e immaginifico, descrisse la propria infanzia a Shangai (dove era nato nel 1930) e la vita nel campo di concentramento giappponese. Ne ricavò una fama che travalicava il ristretto ambito «fantascientifico», tanto è vero che egli stesso diceva che ormai di «fantascienza» non ne scriveva più: in realtà scrisse romanzi che superficialmente si potrebbero definire di «denuncia sociale», ma

sempre spostati di là nel tempo, anche se decrivevano in fondo i mali che vedeva intorno a lui, come ad esempio Un gioco da bambni (1988) dove il massacro dei propri genitori e delle proprie famiglie da parte di un gruppo di ragazzi si svela agli investigatori attraverso vari filmati. E questo vale anche per tutti gli altri romanzi che seguirono dove viene sempre più estremizzata la «società dello spettacolo», il mondo falso delle illusioni massmediatiche. Sino all’esplorazione finale e definitiva, quella del proprio inner space con l’autobiografia I miracoli della vita (2004), portata a termine per le insistenze e sollecitazioni del suo medico personale, Jonathan Waxman, dopo che allo scrittore era stato diagnosticato un tumore alla prostata incurabile. Jim Ballard era l’esatto opposto di quello che descriveva. Come ha notato Martin Amis, figlio dell’amico Kingsley, egli era «un convinto sostenitore dell’etica flaubertiana, e cioè che gli scrittori devono imporre ordine e regolarità alla propria vita, per poter essere scatenati e sinistri nella loro opera». Una vita tranquilla, insomma, dedita ai figli piccoli, dopo la morte della moglie quando lui aveva 34 anni, una casa nei sobborghi di Londra, lo scrivere ancora a penna e il rifiuto di Internet. Solo un autore così poteva avere la lucidità necessaria per dedicare praticamente tutta la sua opera narrativa alla descrizione della nostra infinita atrocity exibition.


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