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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

“I love you, man” di John Hamburg

IL DECALOGO DI PETER & SIDNEY di Anselma Dell’Olio eter Klaven (Paul Rudd, divino) è un giovane immobiliarista che si sta prepara snack alle amiche riunite per il grande annuncio. Peter non ha amici facendo strada. Da otto mesi esce con Zooey (Rashida Jones, attrimaschi degni di questo nome, ma solo conoscenze, perché si è sempre È un ce spiritosa e originale) e le chiede di sposarlo nel modo traconcentrato sulle sue fidanzate, alla donna della sua vita, dedicandodizionale-kitsch che segretamente ogni donna desidera: si anima e corpo al suo rapporto con lei: e questo è un pessimo “bromance”, mettendosi in ginocchio davanti a lei e facendo scattare nel segno, secondo le vigili erinni. Un uomo senza amici cari termine con cui si definisce palmo della mano una scatolina con l’anello di fidanpotrebbe diventare appiccicoso, troppo presente e riuna storia basata su un’amicizia virile zamento. Zooey è felicissima di raccontare il rochiedere molta, troppa attenzione continua, come mantico episodio al suo cerchio di amiche il marito di una certa amica. E poi ci vorrà un eterosessuale. Un genere in ascesa che del cuore, che quasi svengono dall’invidia. Antestimone di nozze, un compare d’anello, o no? rispecchia una nuova sensibilità per una che perché l’anatomia femminile non ha segreti per Di damigelle d’onore ce ne sono tante; senza la circostanza poco indagata: la Peter e si dedica con entusiasmo al piacere sessuale delclassica schiera di compagnoni dello sposo per farle un la sua ragazza. «Metti un lucchetto a quella lingua!», le consipo’ di corte o almeno da cavalieri, sarà squilibrata la cerimoconquista di un amico glia il gruppo in coro, mentre si confidano le cose più intime, alla nia e molto meno divertente. maschio maniera delle amiche di Carrie in Sex and The City. C’è un unico neo in continua a pagina 2 questo scenario ideale, che il fidanzato apprende per caso mentre in cucina

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Scientismo di Sergio Valzania Suoni dall’universo prêt-à-porter di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Leopardi: quella debolezza signora della forza di Filippo La Porta

Franco Gentilini, le parole della pittura di Angelo Capasso con un intervento di Leone Piccioni

Il talento di Perihan che piace a Pamuk di Pier Mario Fasanotti

Dalla bizzarria al canone di Marco Vallora


Il decalogo di Peter &

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segue dalla prima

che si incontrano in queste occasioni. Molto scafato e sicuro di sé, Sydney illumina Peter sulla tipologia degli ipotetici compratori presenti, individuando subito il ganzo con fuori serie al primo date con uno schianto di donna. «Non ha alcuna intenzione di comprare, vuole solo farle credere che potrebbe permettersi una casa simile, sperando che così lei gliela darà senza farsi pregare, capisci?». Resta da vedere se il pubblico italiano apprezzerà un film tutto imperniato sugli incidenti di percorso tra maschi eterosessuali. (I film di Judd Apatow trattano temi simili e sbancano il botteghino in patria, ma all’estero non incontrano lo stesso favore.) E senza aver visto la versione doppiata, non è possibile dare garanzie sulla resa dei dialoghi spesso molto divertenti. Il regista Hamburg (sceneggiatore di Ti presento i miei e Mi presenti i tuoi? con Robert De Niro e Ben Stiller) racconta che quando chiede a due amici stretti maschi come si sono incontrati, la risposta è sovente: «Ci siamo conosciuti in prima media e non ci siamo più lasciati». Esistono biblioteche intere sul corteggiamento corretto, su cosa è appropriato e cosa bisogna evitare, ma per l’avvicinamento tra uomini allo scopo di gettare le basi per un’amicizia intima, parametri non ci sono.

Peter decide all’impronta che bisogna passare all’azione e trovare degli amici maschi prima del matrimonio, ormai prossimo. La scena è preparata per un genere cinematografico denominato bromance, neologismo composto da Bro (diminutivo di brother, fratello, nomignolo cool e viriloide, usato tra maschi etero) e da romance, storia d’amore. Insomma una rom-com in cui i due protagonisti che secondo copione devono incontrarsi, volersi bene, litigare e poi ritrovarsi prima della parola «Fine» sono due maschi eterosessuali. Il tema dell’amicizia virile in vena comica è stato esplorato da Judd Apatow (Molto incinta, 40 anni vergine, con Paul Rudd in ruoli di contorno) e da altri, e rispecchia una nuova sensibilità e presa di coscienza su questi rapporti. Secondo il regista John Hamburger, non ci sono regole in questo campo. «Esistono decaloghi per il corteggiamento etero e omosessuale, ma per il desiderio di approfondire un’amicizia con un altro uomo, è tabula rasa». E così Peter comincia a prepararsi per un man date. Per gli americani, l’appuntamento a scopo di corteggiamento si chiama date, e comincia già dalle medie. Esiste come sostantivo, come verbo transitivo to date, uscite seriali di un single in cerca dell’anima gemelle, e come gerundio sostantivato dating. Un man date non ha nulla a che vedere con il rimorchio gay. Peter si consiglia con il fratello omosessuale che fa l’allenatore in una palestra; Robbie gli insegna le regole basi del man date platonico: si va alla partita, si passa una serata stravaccati davanti alla televisione, si prende uno snack al bancone di un fast food o in un pub, ma mai, per nessuna ragione, si esce «a cena». «Manda il segnale sbagliato», dice Robbie (l’adorabile e sexy autore e attore comico Andy Samberg, di Saturday Night Live).

Ma Peter prende sotto gamba la raccomandazione, e al primo giro con Doug (Thomas Lennon, ottimo), un tipo appena arrivato a Los Angeles, non esita a suggerire una cena in un buon ristorante. Morale, la buona notte e l’arrivederci dopo cena sono suggellati con una slinguazzata di Doug in bocca allo stravolto Peter, troppo sorpreso ed educato per chiarire l’equivoco. Seguono altri tentativi: con i maschi che si allenano con lui a scherma, con un collega di Robbie, il primo sabotato dall’imbarazzo dell’approccio, e il secondo da tic insopportabili del tizio. A quel punto Peter getta la spugna e si dedica seriamente alla vendita della costosa villa di Lou Ferrigno (l’attore che fa L’incredibile Hulk della serie tv, nel ruolo di se stesso), il suo primo affare importante in proprio, che comprede una lauta commissione, utile per i suoi progetti immobiliari futuri. Durante un open house, giornata in cui compratori interessati possono visitare liberamente e senza appuntamento la spaziosa proprietà, si presenta Sydney Fife (Jason Segel, autore e protagonista di Forgetting Sarah Marshall). Scanzonato e privo di complessi, Fife confessa che frequenta gli open house di case di lusso a) per godersi il buffet gratis e sempre di qualità, b) per incontrare i grappoli di neo divorziate

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

sidney

I LOVE YOU, MAN GENERE COMMEDIA PRODUZIONE USA 2009 DISTRIBUZIONE UNIVERSAL PICTURES REGIA JOHN HAMBURG INTERPRETI PAUL RUDD, JASON SEGEL, JON FAVREAU, JAIME PRESSLY, ANDY SAMBERG

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

Dall’alto due scene del film e tre immagini del set con i due attori protagonisti e il regista (qui sopra)

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via di Santa Cornelia, 9 • 00060 Formello (Roma) Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938

Paul Rudd è un attore comico già molto apprezzato per i tempi comici, per le infinite, angosciate sfumature che sa dare a momenti goffi, alle gaffe, e in questo caso anche alle sue inadeguatezze come compagnone da pacca sulle spalle. È esilarante il suo stupefatto imbarazzo quando i suoi tentativi di scambiare frizzi e lazzi testosteronici falliscono miseramente, come quello di scambiarsi soprannomi affettuosi, storpiando quelli veri. Qui finalmente nella parte del protagonista assoluto, spiega le ali del suo talento e, doppiaggio permettendo, conquisterà quella parte di pubblico che ancora non è caduta sotto il suo incantesimo dolce, leggiadro, sexy e spassosissimo. Anche Jason Segel qui trova il modo di farsi apprezzare appieno, creando un personaggio bizzarro e verosimile: un maschio-maschio innamorato della sua tana da giochi, farcito di diverse tv a schermo piatto, strumenti musicali per jam session improvvisate, videogiochi e un «angolo autoerotico». Fino all’ultimo non si capisce se questo dinoccolato Peter Pan sia un sòla oppure no. I Love You, Man è ricco di caratteristi fantastici, da J. K. Simmons (il papà stravagante di Juno) nel ruolo del padre di Peter, che annuncia con orgoglio che il suo miglior amico è il figlio gay, a Jamie Pressley e Jon Favreau come la coppia sposata litigiosa, usi a far pace con rumorosissimi sessioni di make-up sex, amplessi riparatori. È un film imperfetto e molto godibile, con le dita incrociate per la versione italiana. P. S. Annotazioni biografiche gustose: Paul Rudd è stato fidanzato a lungo con Jennifer Aniston, e sono ancora in ottimi rapporti d’amicizia. Rashida Jones, della lodata serie tv The Office, è figlia del compositore Quincey Jones, 7 nomination all’Oscar per la colonna sonora, e dell’attrice Peggy Lipton, pluripremiata per The Mod Squad, serie tv cult anni Sessanta, e per Twin Peaks: Fire Walk With Me di David Lynch.

Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 - 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: redazione@liberal.it Web: www.liberal.it Anno II - n° 19


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parola chiave

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SCIENTISMO lla fine del Settecento gli Illuministi si erano convinti della possibilità degli uomini di raggiungere una piena conoscenza del mondo nel quale vivono, di svelarne le leggi naturali, di comprenderne il funzionamento come se si trattasse di quello di una macchina. Nell’Ottocento i Positivisti si illusero di essere riusciti a portare quasi a compimento questo programma e di essere padroni di un metodo in grado di risolvere in breve tempo qualsiasi problema di natura fisica. Il XIX secolo fu l’età della scienza, furono fatte scoperte di grande portata in moltissimi campi. Le spedizioni geografiche raggiunsero i più reconditi angoli del mondo, la medicina realizzò acquisizioni sbalorditive, la nascita dell’industrializzazione dimostrava il livello dei risultati delle tecnologie legate alla chimica, la rappresentazione dell’universo sembrava avere solo piccole imperfezioni, anche ambiti come la storia e il diritto si piegavano all’utilizzo di metodologie mutuate da quelle delle scienze esatte. Allora fisica, chimica, biologia e astronomia immaginarono di essere in vista dei confini del sapere, delle spiegazioni ultime per comprendere un cosmo regolato da leggi semplici, basate su progressioni se non elementari almeno di una coerenza evidente. In questo contesto si sviluppò e si diffuse lo scientismo, ossia la convinzione che la scienza sia in grado di offrire risposte soddisfacenti a tutte le domande dell’uomo e che, pericoloso e insidioso corollario, non esistano domande ragionevoli alle quali la scienza non sia in grado di fornire, o almeno di promettere una risposta. Con un sottile paradosso si affermava che ogni questione relativa al senso del mondo, ossia alle ragioni e ai modi dell’etica e dell’estetica, è in realtà priva di senso, in quanto non è possibile trovare una risposta fondata sulle nostre conoscenze scientifiche che la possa soddisfare.Tutto questo è ormai un retaggio del passato, anche se qualche conservatore vi si aggrappa per non essere costretto ad affrontare la modernità in tutta la sua complessa organizzazione di sapere e di pensiero. Il contesto culturale nel quale lo scientismo era nato e si era affermato si è infatti dissolto agli inizi del Novecento, quando la scienza stessa ha aperto nuovi e immensi orizzonti alla ricerca, scoprendo una complessità del reale prima neppure immaginata. Prima la teoria della relatività, subito seguita da quella dei quanti in fisica e qualche decennio dopo la scoperta del Dna e del codice genetico in biologia hanno imposto una riconsiderazione complessiva di un sistema di conoscenze immaginato in modo troppo semplice e meccanico. L’ultragrande e l’ultrapiccolo si scoprivano ambiti per conoscere

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È la convinzione che la scienza sia in grado di offrire risposte soddisfacenti a tutte le domande dell’uomo. Un retaggio del passato, messo in crisi dalla complessa organizzazione di sapere e di pensiero propri della modernità…

I confini del sapere di Sergio Valzania

Nei gulag e nei lager, a Hiroshima e a Dresda, a Iwo Jima e nelle foreste del Vietnam si è compreso con evidenza che il mondo sensibile non esaurisce la misura del reale. C’è dell’altro, anche se non riusciamo a vederlo o a misurarlo e siamo in grado di avvicinarlo solo con la meditazione, lo studio e la preghiera i quali erano necessarie logiche nuove, spesso probabilistiche. La linearità darwiniana dell’evoluzione richiedeva approfondimenti, distinguo ed elaborazioni complesse.

Anche le grandi tragedie dei totalitarismi, della Shoa e delle guerre mondiali hanno rappresentato una critica severa per l’ottimismo scientista, troppo sbrigativo nel liquidare la riflessione etica e valoriale, e di conseguenza capace di concepire come necessari sanguinosi tentativi di imboccare le scorciatoie della storia, i cui bordi sono segnati dai cadaveri di milioni di vittime. Nei gulag e nei lager, nei campi di sterminio, a Hiroshima e a Dresda, a Iwo Jima e nelle foreste del Vietnam si è compreso con evidenza che il mondo sensibile, che conosciamo attraverso i sensi o per mezzo di sofisticate attrez-

zature scientifiche, non esaurisce la misura del reale. C’è dell’altro, anche se non riusciamo a vederlo o misurarlo e siamo in grado di avvicinarlo solo con la meditazione, lo studio e la preghiera. Non per questo lo percepiamo meno decisivo per la nostra esistenza di quanto non lo siano un oggetto che tocchiamo con mano o il calore del sole che ci riscalda il viso. La separatezza assoluta dei due mondi, quello della scienza, al quale viene affidato il primato, e quello dell’etica e dell’estetica, considerati ambiti ancillari, resi obsoleti dall’avvento della modernità e in attesa di essere illuminati da una comprensione superiore, basata sulla logica e le scoperte della scienza stessa, è crollata in modo definitivo. Allo stesso tempo la concezione per la quale la creazione è figlia del caso e non di una volontà non rappresenta

più un postulato di partenza, ma costituisce solamente una corretta ipotesi di lavoro, sempre suscettibile di verifica o di negazione. Ma in realtà l’intera questione del rapporto fra scienza e fede va ormai considerata superata. La teologia contemporanea si rifiuta di ricercare nelle Scritture le leggi della natura, ma ribadisce la concezione, riaffermata da tutti i Concili, secondo la quale Dio si è rivelato secondo due modalità, la Bibbia e la natura e, come sosteneva Galileo Galilei, non può esserci contrasto fra le diverse manifestazioni della stesso Ente Supremo.

Il Salmo 104 è uno dei testi delle Scritture che presenta in modo poetico e stringato la visione del mondo di chi crede nell’esistenza di un dio personale. L’orante recita «Tu distendi i cieli come una tenda», «hai dato un fondamento alla terra», «dalle tue dimore irrighi le montagne/ sazi la terra con il frutto del tuo agire», «hai fatto la luna per segnare le date/ e il sole che conosce il suo tramonto», «nel mare gioca il Leviatan da te plasmato», per concludere «anima mia, benedici il Signore». Se interpretate in senso letterale queste frasi contraddicono in modo diretto e assoluto molte delle nostre concezioni scientifiche, il processo di formazione della terra e lo sviluppo della vita sul nostro pianeta hanno conosciuto dinamiche della durata di centinaia di migliaia, di milioni di anni, che la scienza sta faticosamente ricostruendo. Ma pochi credenti attribuiscono al Salmo un significato del genere. Mentre pregano queste parole essi utilizzano una tradizione millenaria di dialogo con Dio, alla quale si associano rispettando il mistero dell’ispirazione biblica. Le Scritture sono opera di uomini, che le hanno scritte, raccolte e tramandate, i credenti riconoscono in esse la traccia di una contiguità divina. In chiusura può essere opportuno ricordate le parole del Qoelet, di poco successive alla celebre pagina sul fatto che ogni occasione deve essere compiuta nel tempo opportuno: «Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha messo la nozione di eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine». Una magnifica meditazione inconsapevole e insieme puntuale sul mistero dell’Incarnazione, al termine della quale scopriamo che i credenti, o almeno quanti appartengono alla tradizione biblica, non hanno nessuna pretesa di conoscere i modi, le ragioni e le finalità dell’agire divino. Semmai partecipano a una grande ricerca, nella quale anche la fede in Dio è insieme un dono e il prodotto faticoso di un lavoro quotidiano, la preghiera.


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cd

musica

Suoni dall’universo

prêt-à-porter di Stefano Bianchi l nome che inneggia al prêt-à-porter, citando una rivista francese di moda. Qualche turbolenza, assolutamente nella norma: Vince Clarke che dopo il primo disco saluta e se ne va per dar vita agli Yazoo e poi agli Erasure. Alan Wilder che lascia un po’ più in là, anteponendo sogni di relax allo stress da palcoscenico. Dave Gahan, il cantante, che dopo aver sfiorato la morte per overdose si fa un bell’esame di coscienza e torna in pista bello ripulito. Detto così, sembra il curriculum di una band con poco sale in zucca, di quelle alle prime armi. Invece, sono le tappe salienti di un fenomeno technopop che nel 2010 festeggerà trent’anni d’attività. I britannici Depeche Mode, con gli inossidabili Martin Gore, Dave Gahan e Andy Fletcher, sono ancora oggi il simbolo dell’elettronica noninvasiva. Pensi a un sintetizzatore o a una drum machine? Ti vengono in mente loro, i capiscuola che hanno cavalcato gli anni Ottanta snobbando le chitarre punkettare e scannerizzato i Novanta raccogliendo la sfida del trip-hop. Senza dimenticare la loro invenzione più audace: l’epico cyberblues di Personal Jesus. Il bello dei Depeche Mode? Essersi ispirati al David Bowie berlinese (quello di Heroes) e ai teutonici Kraftwerk di Trans Europe Express, averli frullati e ritrovarsi fra le mani (e in cima alle classifiche, con puntualità svizzera) un’elettronica non glaciale ma crepuscolare. Danzereccia, perfino. Dalla loro corposa discografia, si possono

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in libreria

tranquillamente estrarre gemme che non temono l’usura del tempo: Speak And Spell (’81), Some Great Reward (’84), Violator (’90), Ultra (’97), Exciter (2001)… Ma adesso? Che peso specifico può avere Sounds Of The Universe? Il rischio, a quattro anni dall’onesto Playing The Angel, era di rigirare la frittata in odor di déjà vu. Un classico, per chi calca le scene da una vita. Il cyber-trio, però, riverniciando la proverbiale alchimìa sonora con la furbata di qualche tastiera vintage e l’uso urticante della chitarra elettrica, ha confezionato a Santa Barbara e a New York il disco più coraggioso e solleticante di sempre. Sorvolando sulla «modestia» del titolo, questi «suoni dell’universo» sprigionano interferenze con un pizzico di funk (In Chains), ritmi electro/tribali e rock «mainstream» (Hole To Feed), melodie siderali (Little Soul, Perfect) e introspezioni dark (Come Back e lo strumentale Spacewalker, memore dei Goldfrapp). Sono impagabili, i Depeche Mode, quando riescono a infilare cromatismi blues dentro Miles Away/The Truth Is e recitano la parte dei Roxy Music (con Dave Gahan travestito da Bryan Ferry) nell’estetismo un po’ fané di Jezebel. E perdoniamoli, se in Fragile Tension, Peace e In Sympathy cedono alla nostalgia un po’ plasticosa degli anni Ottanta sforzandosi di replicare gli inimitabili ritornelli di Just Can’t Get Enough, Everything Counts e Master And Servant. It’s only «prêt-à-porter», but I like it. Depeche Mode, Sounds Of The Universe, Mute/Emi, 18,90 euro

mondo

riviste

LE PAROLE DI FABRIZIO

UN TOUR LOW COST

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atto creativo è un momento di grande emozione, secondo me. Infatti ti coinvolge anche fisicamente. Mi è successo, con un po’ di vergogna, di arrivare addirittura alla lacrima quando mi accorgevo di aver fatto qualcosa di convincente, di riuscito, attraverso un’intuizione, a scoprire magari una piccolissima verità. Esistono artisti maggiori e artisti minori, non ar-

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all Street ha avuto la sua operazione di salvataggio. È ora che ce l’abbiano anche i fan del rock». Aaron Lewis, frontman degli Staind, spiega così la simpatica idea dello Stimulate This tour, che farà tappa anche in Italia all’Alcatraz di Milano il prossimo 15 giugno. Complice il sostegno della loro casa discografica, l’Atlantic Records, la band di Springfield proporrà agevola-

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In ristampa il prezioso libro-intervista che Doriano Fasoli dedicò al grande De Andrè

In accordo con Atlantic Records, gli Staind propongono date a prezzi popolari contro la crisi

Da Liszt al jazz, i grandi virtuosi che riscrivono la musica in un acuto mini-saggio di Postorino

ti maggiori o minori. Altrimenti ci stiamo a paragonare all’ultimo imbrattamuri che ha scelto la pittura considerata arte maggiore; oppure a Bob Dylan che ha scelto un’arte minore». Le parole di un cantautore ineguagliabile, suonano tese come una lama, ma di straordinaria dolcezza, nel libro, finalmente in ristampa, che Doriano Fasoli gli ha dedicato. Fabrizio De Andrè. Passaggi di tempo. Da Carlo Martello a Princesa (Coniglio editore, 192 pagine, 14,50 euro). Lunga intervista al cantautore, intervallata dai commenti di Fernanda Pivano e Paolo Villaggio, Francesco De Gregori e Beppe Grillo, Teresa De Sio e Dori Ghezzi, il volume è un classico da riscoprire.

zioni e sconti sui prodotti acquistati in loco, nei punti vendita o sui siti internet, per contrastare la recessione in cui si dibatte anche il mondo musicale. Nelle 40 date previste, concerti che spaziano dal Civic Center di Peoria al Festival Pier di Penn’s Landing, a Filadelfia, i biglietti saranno tenuti sotto i quaranta dollari, mentre ne basteranno dieci per avere accesso al prato. Molti inoltre i ticket gratuiti, messi in palio da appositi concorsi, e i premi fedeltà, che consentiranno ad alcuni fortunati di assistere alle jam session, e ove fosse il caso, persino di suonare col gruppo.

un saltimbanco, non avendo altro da mostrare che la propria stupefacente abilità nel trarre dallo strumento suoni inusitati, così da costituirsi lui stesso come termine trascendente di adorazione». Antonino Postorino argomenta così, su musicalwords.it una valente riflessione sul ruolo dell’interprete musicale. Da Listz a Paganini, sino a giungere al virtuosista contemporaneo, l’esecuzione oscilla sospesa fra imperativi filologici e rivendicazioni liriche capaci di riscrivere lo spartito sino a trasformare il riferimento in metatesto. Potenza e atto, sfrenatezza dionisiaca e rigore apollineo, sconfinano sempre in un territorio comune: l’intraducibile lingua della musica.

a cura di Francesco Lo Dico

IL ROCK DI PAGANINI e muoviamo da una concezione soggettiva della produzione estetica, allora in effetti non c’è differenza fra la vis espressiva dell’artista e la produzione dell’universo della bellezza. Quindi non solo fa bene oggi la rockstar a dare fondo alla sua verve debordante, ma avrebbe fatto bene anche il virtuoso a immedesimarsi con la propria prestazione esattamente come un funambolo o


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classica

zapping

UN CIUCCIOTTO per Eminem di Bruno Giurato è un’arietta familiare che gira nel rap, anche quello più tosto e massiccio. Dietro a ogni rapper c’è una nostalgia di famiglia, anzi proprio di mammà. Eminem, infatti, ha dedicato un’altra canzone alla mammà sua, dopo la famosa Ceaning out my closet. Il bianco rapper dalla tecnica e dalla musicalità iperboliche la mamma sua la tratta male. In My mom, dal suo ultimo disco Relapse, Eminem canta così: «Mia madre amava il Valium e molte altre pasticche ed ecco perché io sono così, è per mia madre». Secondo lui, sua madre gli spruzzava il Valium sulle bistecche e gli faceva provare altre pasticche prima ancora che lui cominciasse ad andare a scuola. Facciamo comunque la tara a tutta la mitologia del maledetto: la cosa che fa sensazione è il cuore tenerello di un uomo di trentasette anni che ancora trova la forza di prendersela con mammà se fino all’anno scorso si strinava il cervello di pillole. «Mamma mi trattava male da piccolo» è un leitmotiv che, finita la sbronza psicanalitica di ere culturali passate, non si usa più nemmeno per giustificare i serial killer. Ma i rapper a quanto pare sì. E poi vengono in mente le battles cioè le sfide improvvisate tra rapper, che di solito finiscono a insulti alle rispettive genitrici. Memorabile la battaglia tra gli italiani Fabri Fibra e Kiffa, il file audio si può trovare su internet con il titolo Tua madre. Gli insulti offendono proprio perché sono diretti all’oggetto più caro, e allora torniamo al discorso del rapper cuore di mammà. E come dimenticare Mondomarcio, quello che qualche anno fa sbucava da qualsiasi altoparlante con il refrain «Erounbambiiino»? Il sociologo che è in noi parlerebbe di contenuti ove la famiglia si rivela luogo di tensione e covo di malesseri della società contemporanea. Anche se a noialtri verrebbe voglia di ammutare il sociologo e il rapper con lo stesso rimedio. Un ciucciotto.

C’

Le rivoluzioni di Mercadante di Jacopo Pellegrini

ggi è di scena Saverio Mercadante (1796-1870). L’occasione per riportare alla mente un nome pressoché scomparso dai cartelloni, nonostante che tra gli anni Venti e i Cinquanta dell’Ottocento, almeno in Italia, fosse annoverato tra i compositori «di cartello» (quelli incaricati di fornire novità operistiche alle piazze più importanti), subito dietro i «fuoriserie» Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi giovane (cogli ultimi due anzi, giocandosela talora da pari a pari), l’occasione, dicevo, ci viene offerta da due libri a lui dedicati. Due libri diversissimi tra loro per forma, taglio, contenuto: Saverio Mercadante. La vita, le opere, il gioco del Cigno di Altamura, a cura di Michele Saponaro e Vito Ventricelli, prefazione e note introduttive di Dinko Fabris (Gelsorosso, Bari, 158 pagine, 35,00 euro) ed Ernesto Pulignano, Il giuramento di Rossi e Mercadante (De Sono-EDT, Torino, 106 pagine, 18,00 euro). Il primo tomo, grande e austero, impreziosito con molte immagini, sovente a colori, certune davvero significative, punta tutto sul gioco dell’oca allegato al volume: le schede sulle Opere (29 su un totale di 57, più una incompiuta), quelle su Artisti e teatri e quelle sui Memorabilia (cosa non è l’urna con le reliquie dei musicisti operanti a Napoli tra Sette e Ottocento!) svolgono soprattutto una funzione propedeutica alla sfida ludica. Sarebbe pertanto ingiusto rivedere le bucce ad autori che, quantunque mossi da insana passione per il «cigno» pugliese, non sono addetti ai lavori. In appendice, figurano una bibliografia, non completissima ma abbondante, e una discografia, compilata in modo arruffato ma aggiornata; manca, e sarebbe stato utilissimo, un catalogo dell’abbondantissima produzione mercadantiana: musica strumentale con o senza orchestra (ove schemi e stili propri dell’opera sono trasposti di ambito, lo strumento solista assumendo su di sé le funzioni del cantante), musica vocale e sacra, infine i melodrammi, ordinabili lungo tre assi. Agli inizi, un deciso penchant per argomenti classici (su versi, addirittura, di Zeno e Metastasio), adesione ai soggetti medioevali e alla coppia romantica amore-morte nella fase centrale (dalla fine degli anni Venti e per tutti i Trenta), un ritorno all’antico negli ultimi decenni, a partire dalla nomina a direttore del Conservatorio di Napoli (1840), massimo riconoscimento toccato alla sua carriera, ma anche inizio di un arroccamento campanilistico che seppe molto di isolamento. Pur conservando il taglio amatoriale, e senza troppa fatica aggiuntiva (magari appoggiandosi di più a un musicologo autorevole qual è Fabris), le informazioni sulle sin-

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gole opere fornite da Saponaro e Ventricelli avrebbero potuto facilmente essere più dettagliate e omogenee. Nulla da recriminare invece, sul testo di Pulignano, sintetico quanto solido e argomentato, rielaborazione di una tesi discussa sotto la guida di Lorenzo Bianconi, insigne studioso di opera italiana. Presentato tra «gridi di viva il maestro» alla Scala di Milano nel marzo ’37, Il giuramento è un melodramma in tre atti di Gaetano Rossi (già librettista di Rossini e Meyerbeer, giunto quasi al termine

d’una lunga carriera), ricavato piuttosto alla lontana da un dramma di Hugo, quell’Angelo, tiranno di Padova (’35) di cui anche Boito si avvalse per la Gioconda di Ponchielli (’76). Mercadante, per mezzo d’una personale, e limitata, «rivoluzione» (parola sua) delle macro e microstrutture musicali (forma dei pezzi e delle melodie, che Pulignano descrive con strumenti analitici aggiornatissimi), conseguì nel Giuramento una continuità drammatica mai raggiunta, né prima né dopo. Merito del libretto, che sarà pure confuso (così da sempre, la critica), ma è anche ricco di «belle situazioni» teatrali ed espressive; massime, nell’ammirevole atto III, del quale persino Verdi si ricorderà nell’ultimo quadro del Trovatore.

jazz

Scott Joplin e la prova del “tempo stracciato” di Adriano Mazzoletti oncerto di grande interesse quello che Enrico Pieranunzi, suo fratello Gabriele e Alessandro Carbonare hanno tenuto domenica scorsa alla Sala Maestra di Palazzo Chigi ad Ariccia nell’ambito della stagione primaverile dei Concerti dell’Accademia degli Sfaccendati che quest’anno festeggia il proprio decennale. Concerto importante perché per la prima volta uno dei migliori esponenti della scena jazzistica internazionale, Enrico Pieranunzi e due valenti interpreti di musica classica, il violinista Gabriele Pieranunzi e il clarinettista Alessandro Carbonare, primo clarinetto dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, hanno interpretato alcune pagine di importanti musicisti di jazz e di due grandi compositori europei del Novecento, dove si evince l’influenza che su di loro ebbe la nascente musica americana. Da-

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rius Milhaud con la Suite op.157b (Ouverture-Divertissement-Jeu) e Igor Stravinskij con L’histoire du soldat (TangoValse-Ragtime-La danse du diable) nell’arrangiamento originale per clarinetto, violino e pianoforte. Il programma della serata comprendeva, inoltre, composizioni dello stesso Pieranunzi e riduzioni di alcune opere di Scott Joplin, Dave Brubeck e George Gershwin. Milhaud e Stravinskij fanno parte di quell’importante gruppo di compositori che nel primo decennio del secolo scorso vennero influenzati soprattutto dal ragtime e dalle prime danze nero-americane giunte in Europa già intorno al 1910, mentre Joplin, uno dei padri del ragtime, Brubeck allievo di Milhaud e Gerswhin, forse il più autorevole compositore bianco americano, hanno rappresentato nel concerto di domenica scorsa, «l’altra faccia della medaglia» (così li ha voluti definire Enrico Pieranunzi). Il programma scelto dallo stesso Pieranunzi su

un’idea di Marie Paule Starquit, raramente lo si trova inserito nei cartelloni delle maggiori istituzioni concertistiche italiane, ma neppure in quelli dei festival e dei numerosi concerti jazz che ogni anno vengono realizzati nel nostro paese, spesso erroneamente presentati come eventi di grande interesse culturale. Avvincente la trascrizione dall’originale per due pianoforti di Point of Jazz in quattro movimenti, Prelude, Scherzo, Blues e Rag - anche se quest’ultimo è piuttosto un charleston che un ragtime che Brubeck compose negli anni Sessanta e che non risulta abbia mai inciso, contrariamente ad altre opere come Dialogues for jazz combo and orchestra che rappresentano, nel jazz moderno, uno dei primi tentativi di fusione fra jazz e musica classica, in cui è evidente l’influenza che Milhaud esercitò, fin dagli anni Quaranta, sul giovane pianista e compositore californiano. Altrettanto interessanti le composizioni di Pieranunzi

Elisions du jour, per clarinetto e pianoforte, Duke’s Dream, composta dal pianista italiano nel 2004 in occasione del trentesimo anniversario della scomparsa di Duke Ellington e infine Variazioni su un tema di George Gerswhin per violino, clarinetto e pianoforte composto su commissione della stessa Accademia degli Sfaccendati per il concerto della scorsa domenica. Il tema Blue in \u00BE è una composizione poco nota del compositore americano, su cui Pieranunzi ha scritto una serie di variazioni di grande pregio. Deludente invece la riproposta per piano, violino e clarinetto (nella trascrizione di Itzhak Perlman) dei tre ragtime di Scott Joplin, The strenuous life, Bethena e il celeberrimo The entertainer. I tre rag hanno messo a dura prova i due concertisti Gabriele Pieranunzi e Alessandro Carbonare che non sono riusciti a riproporre l’intensità ritmica del «tempo stracciato» del grande pianista e compositore nero-americano.


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narrativa

a ragione Salman Rushdie quando afferma:\u2028\u2028 «In un’epoca in cui gli scrittori vengono spesso maldestramente raggruppati per origine etnica, o lingua, o rinchiusi nei ghetti dell’ideologia e del genere, è facile dimenticare la natura transnazionale, translinguistica e transessuale della grande letteratura. Quando penso ad Anita Desai, ne vedo distintamente la figura che si staglia, alla pari, accanto a Jane Austin». La casa editrice Einaudi ha appena pubblicato la raccolta completa dei racconti di questa scrittrice nata in India nel 1937 da madre tedesca e da padre bengalese, nota in tutto il mondo, anche per la sua profonda cultura e per la sua straordinaria mitezza (cose che dovrebbero andare sempre appaiate).Ventuno finestre sulla vita, partendo dai particolari della vita quotidiana. Una vivisezione pietosa e mai sbeffeggiante o ispirata a un’onniscienza di superbia. Anita Desai s’infila nell’esistenza della gente, ne coglie i passi più delicati e determinanti. Una scrittura che focalizza il dettaglio, per volare sopra l’umanità intera, il più delle volte dolente, alla ricerca del senso della vita, stordita da se stessa e dal mondo circostante. «La scrittura - svela la Desai - è per me un atto assolutamente privato, un gesto segreto». E con delicatezza s’accosta, nel racconto Alba sul tetto, agli affanni psicosomatici del signor Basu, sessant’anni soltanto ma gravato da acciacchi tutti legati all’idea di declino, di nostalgia, di malinconia familiare. La moglie, dalla pelle liscia e dal corpo rotondo, gli legge il giornale. Il mondo scritto sul foglio macchiato di frittura di pesce non lo interessa granché. Quel che lo attira e lo turba è la notizia dello stacco notturno dell’elettricità e quindi del mancato funzionamento del ventilatore. Prevede un panico fisico e umorale. Decide di dormire sul terrazzo, e lì, in posizione scomoda, ricorda lo stupore del nipotino dinanzi ai piccioni e alla vista sulla città. A poco a poco fa tutt’uno col bambino, agevolato dalla brezza delle prime ore del mattino. La volta del cielo e la brillantezza della luce lo riconciliano con l’universo misterioso, che sta ben sopra le beghe quotidiane e i bisticci coi vicini di casa. Spesso, nei

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libri Il rumore dei pensieri MobyDICK

nei racconti di Anita Desai di Pier Mario Fasanotti racconti della scrittrice indiana, sono più forti e assordanti i pensieri delle azioni. Non contano tanto i gesti, quanto quel che ci sta dietro, i movimenti o sommovimenti dell’anima. Come in L’uomo che si vide annegare, dove l’autrice racconta di un uomo che in un albergo riflette sulla banale ripetitività degli incontri di lavoro, sulla loro pochezza. Passeggia di sera, «calmo e sereno» e fischiettando, e arriva al porto. S’accosta a un gruppetto di persone che osserva un morto annegato. Gli si raggela il sangue: quel cadavere è lui, proprio lui. Poco prima aveva desiderato salire su una barca e affidarsi al capriccio delle correnti, attratto da un indefinito «lontano». Prende atto di essere morto a tutti gli effetti (pratici), della definitiva scomparsa, a cremazione avvenuta e con il lutto dei familiari, della propria identità. Fugge dall’albergo, ormai diventato un’ombra assurda: «Per qualche ragione, in quell’istante trovai tutto ciò ridicolo, grottesco e ridicolo. Credo di essermi messo a ridere, udii un suono gracchiante uscirmi dalla gola, una risata, credo». Che deve fare un uomo che ha smesso ufficialmente di vivere? Un’altra esistenza, pur ipotesi affascinante per tutti, è ritenuta impossibile. Vagherà fino a raggiungere un ruscello dall’acqua torbida. Riflette sulla scomparsa del suo «misterioso doppio», avverte la frantumazione dell’io. Non riesce, pur vivo, a riprendersi la vita. Sarà la morte, assurdamente ripetuta, a ricomporre il suo destino. Un bambino lo troverà con la faccia nel fango, «mentre i corvi appollaiati sulla sabbia si alzarono in volo con un grande batter d’ali». Anita Desai, Tutti i racconti, Einaudi, 370 pagine, 15,50 euro

riletture

Ricordo di Franco Volpi,“globetrotter” della filosofia di Gianfranco de Turris un mese di distanza dalla morte di FrancoVolpi, travolto da un’auto mentre il giorno di Pasquetta andava in bici lungo i colli Berici intorno a Vicenza, la sua città, tutta un’altra serie di notizie, importanti ed effimere, ha sommerso quel lutto. Certo il lutto non si può portare in eterno, così l’unico modo per non dimenticare una persona d’immenso valore culturale e umano come è stato Franco Volpi è quello di ricordare la sua opera di agitatore culturale, di curatore, di traduttore, di massimo esperto di Heidegger in Italia, di divulgatore della filosofia di vita di Schopenhauer, cercando di perpetuare la sua eredità intellettuale e di coraggio. Sì, perché Franco Volpi, storico della filosofia all’Università di Padova, fu un coraggioso in un mondo che si culla sulle certezze acquisite e sui luoghi comuni come è quello filosofico

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italiano. Fu uno spirito antiaccademico, non solo dal punto di vista dell’insofferenza per la burocrazie e dell’estraneità alle lotte di potere fra baroni universitari, ma per le vie che percorse all’interno della sua specializzazione, spesso uscendo fuori dei solchi tracciati dagli altri alla ricerca di personalità un po’«maledette» e viste con cautela dai suoi colleghi: Nietzsche, Heidegger, Evola, ad esempio, di cui si occupò con assiduità in articoli, saggi, convegni, cercando di farli uscire dal cono d’ombra e di sospetto (ideologico-politico ovviamente) in cui li avevavo confinati non tanto certi suoi colleghi, quanto un giornalismo «culturale» approssimativo, e le polemicuzze d’occasione di cui sono pieni un giorno sì e l’altro pure certi nostri quotidiani e settimanali. Per questo, come del resto parecchi altri filosofi accademici suoi colleghi, era un collaboratore di giornali e riviste, con una differenza fondamentale: il suo stile schietto, lineare, in-

cisivo, tale da far comprendere a tutti i concetti più difficili. Una sua essenzialità tutt’altro che oscura grazie alla quale, nelle diverse interviste che gli feci per il Giornale Radio Rai, riusciva a spiegare il senso filosofico dei libri da lui scritti o curati in un solo minuto! Ci riuscireste voi a illustrare il significato profondo di Essere e tempo di Heidegger, la cui antica traduzione di Chiodi aveva rimesso su, integrata e aggiornata per Adelphi, in appena sessanta secondi? O l’essenza del nichilismo in pari tempo quando lo sentii per la nuova edizione del suo fondamentale saggio omonimo apparso per Laterza? Volpi non si curava di quello che potremmo definire il «filosoficamente corretto», e per questo si interressò parecchio a Julius Evola, il «filosofo proibito» come è stato definito, che considerava tra i massimi del Novecento insieme a Croce e Gentile: inserì due suoi testi nel Dizionario delle opere filosofiche prima in tedesco

(1999) e poi in italiano (Bruno Mondadori, 2000); partecipò alla trasmissione che Giano Accame, scomparso tre giorni dopo di lui, dedicò a Evola nella serie degli «Intellettuali scomodi del Novecento» per Rai Educational; scrisse il saggio introduttivo per i Saggi sull’Idealismo magico che Evola pubblicò nel 1926 e che sono stati ristampati in edizione critica dalle Mediterranne ottant’anni dopo, nel 2006. Il fatto che, negli articoli usciti in suo ricordo nessuno abbia notato questo suo anticonformismo, la dice lunga, al contrario, sul conformismo di tanti suoi pur autorevoli e apprezzabili colleghi e amici. Franco Volpi, attivissimo, curiosissimo, dinamico, antiaccademico, vero globetrotter della filosofia sempre in viaggio per il mondo, è stato fermato dalle Parche mentre andava in bicicletta pensando, forse, ai suoi filosofi più amati, tutti antimoderni, il 13 aprile 2009, a un incrocio, da una Toyota Corolla, puro simbolo della modernità.


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letteratura

Cechov e quel cielo gremito di stelle

di Mario Donati i legge nell’Amleto di Shakespeare: «Potrei ora svelarti una vicenda». Inizia così il meccanismo della narrazione. Possiamo smontarlo e rimontarlo per cercare regole generali, ma il nucleo di mistero rimane tale. In un appassionante librettino, Eudora Welty, scrittrice americana e tra le più importanti voci del Sud assieme a Flannery O’ Connor e William Faulkner, afferma una cosa onesta: tutta la critica attorno a un’opera non è altro che «la traduzione della narrativa in un’altra lingua». Siccome le pagine dei grandi scrittori sono soprattutto forma, lingua, si arriva alla conclusione che quel libro

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personaggi

piuttosto che l’altro non potrebbero essere scritti con «altre» parole. È perentoria la Welty a questo proposito: «Quel che sappiamo di come si scrive un romanzo è il romanzo». Lo dice da autrice di racconti e da studiosa. Il viaggio di chi inventa una trama, esprime emozioni e fa ballare i suoi personaggi in un luogo determinato è un percorso «ben strano, mai lineare, e tutto personale». La fonte, per chi scrive, è interiore, e solitamente lirica. Come se ammettesse: «Questa storia mi promette gioia e paura, dunque la scrivo». Qui l’inizio. Come avverte Amleto. Insistere, per capire meglio, sui luoghi scelti dallo scrittore rischia di allontanarci dalla sua idea morale, quella «plasmante».

Circa poi la conoscenza della materia attorno alla quale si sviluppa un romanzo o un racconto, è pur vero che la sicurezza è nemica dell’uomo (come recitava Macbeth), ma è anche vero che occorre stare in bilico: «Come fai a esporti, se non sai dov’è la finestra? Non si produce arte se non si rischia l’osso del collo». Prendiamo per esempio Cechov quando scrive che il mondo era così illuminato da stelle «così gremite che non ci sarebbe stato posto da ficcarci un dito». Il grande russo ci regala più che la notte, ci regala «quella» notte. Come annotò E.M.Forster (in Aspetti del romanzo) già l’uomo di Neanderthal ascoltava racconti. La sera quei primitivi erano tenuti svegli solo dalla su-

spence e dalla domanda «ma che cosa accade ora?». La trama, dice la Welty, «è il viaggio alla ricerca di qualcosa». Va da sé che le trame siano identificate non dagli scheletri ma dai corpi incarnati. E quei corpi sono la scintilla che fa scoprire, a noi lettori, il significato della vita. Basta uno svelamento parziale, il resto s’intuisce. Basta uno svelamento parziale, il resto s’intuisce. Ciò accade anche nei racconti di Hemingway, i cui famosi e scarni dialoghi oscurano e rivelano al tempo stesso. Un meccanismo, questo, che solo i grandi talenti riescono ad azionare. Eudora Welty, Una cosa piena di mistero (Saggi sulla scrittura), Minimum fax, 150 pagine, 9,00 euro

Memorie italiane di un grande “vecchio” di Angelo Crespi er noi giornalisti ancora abbastanza giovani, Mario Cervi è sempre stato vecchio. E usiamo il termine «vecchio» nel senso più nobile del termine. Cervi è un grande (vecchio) del giornalismo italiano benché sia rimasto sempre in seconda fila, per ritrosia crediamo, perché i numeri non sono mai mancati a questo cronista, classe 1921, nato a Crema ma da sempre milanese. Diciamo che è stato una perfetta spalla. Soprattutto di Indro Montanelli con cui ha condiviso lavoro e vita. Ma come nelle coppie comiche più celebri, pensiamo a Totò e Peppino, è difficile dire cosa sarebbe

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società

stato l’uno senza l’altro. Perfino a La Voce, che naufragò nel giro di un anno, Cervi seguì «per affetto» l’amico e rimase con lui quasi fino alla fine, pur non credendo a un quotidiano liberale però fortemente improntato all’antiberlusconismo. Cervi infatti è stato da sempre un campione del mondo liberale fin dal suo ingresso al Corriere della Sera dove ha lavorato per trent’anni e che poi lasciò nel 1974 per dare il proprio contributo alla sfida che Montanelli con il Giornale aveva lanciato contro il mainstream della cultura italiana tutta schierata irrimediabilmente a sinistra. Il volume di memorie, scritto in collaborazione con Luigi Mascheroni, secco e senza fronzoli, non è

però solo una nostalgica rievocazione biografica, né tanto meno un manualetto di giornalismo di chi, vecchio, non potendo più dare cattivo esempio dà buoni consigli. Al contrario è un denso racconto ricco di episodi che narrando la storia professionale di un giornalista-inviato-editorialista-direttore narra in realtà la storia di un paese. E poi non mancano i ritratti dei colleghi, dei più famosi giornalista del trascorso cinquantennio, Oriana Fallaci, Orio Vergani, Dino Buzzati, Giovanni Spadolini, Piero Ottone. O le rievocazioni dei fatti di cronaca (dal caso Mattei ai delitti efferati degli anni Cinquanta) che Cervi ha seguito con l’impareggiabile umiltà di chi sa che l’obbiettività non esiste, semmai a un buon giornalista si deve chiedere onestà e passione. Mario Cervi, Luigi Mascheroni, Gli anni del piombo. L’Italia fra cronache e storia, Mursia, 238 pagine, 17,00 euro

Mario Cervi

La scuola italiana secondo Giulio Ferroni di Giuseppe Lisciani n un breve e denso volume sulla scuola, Giulio Ferroni, professore di letteratura italiana all’Università La Sapienza di Roma, si propone, tra l’altro, di rispondere al quesito: la scuola ha il compito di istruire o quello di educare? Egli mette in campo l’idea di una «forza vitale dei dati razionali», garanzia di libertà e «illuminazione» della mente, da cui consegue che «l’istruzione in quanto tale», con annesso apprendimento secondo ragione, «favorirebbe il libero sviluppo della cittadinanza». Quindi, «la scelta per eccellenza liberaldemocratica è quella integralmente laica, che affida allo Stato

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il compito dell’istruzione pubblica». A questo modello «aperto» di istruzione - dice ancora Ferroni si contrappone un modello che «sposta l’accento sull’educazione», fino al punto di aspettarsi dalla scuola la formazione di «fedeli adepti a religioni, ideologie, gruppi politici, ecc.» (p. 28). Ferroni si accorge, però, che la carta della dialettica tra i due termini non funziona e quindi rimescola: «il rapporto tra istruzione ed educazione resta sfumato e contraddittorio, comporta molte interferenze e sovrapposizioni» (p. 29). Egli cerca di affogare nel capace grembo di Gramsci la delusione del suo ottimismo illuminista: «una vera istruzione, come sottolineò Gramsci in polemica con la

pedagogia idealistica, è anche educazione, e il nesso istruzioneeducazione si dà concretamente nel “lavoro vivente del maestro”». L’argomentazione si va avviluppando in qualche pasticcio (ad esempio, l’espressione gramsciana «lavoro vivente del maestro» non è contro, è anzi largamente compatibile con la filosofia idealista). Giulio Ferroni, comunque, intende venirne fuori: per creare le condizioni di una istruzione democratica, c’è bisogno «di un’educazione almeno parzialmente più vincolante, di una trasmissione di modelli “forti” che chiamino in causa l’intera personalità degli individui da formare» (p. 30). A questo punto, è chiaro che la scelta «per eccellenza liberaldemocrati-

ca» e «integralmente laica» di affidare allo Stato il compito dell’istruzione pubblica, insinuata all’inizio del suo ragionamento da Ferroni, non è né liberale, né democratica, né laica: è puro statalismo camuffato. Il ragionamento di Giulio Ferroni è inoltre viziato dall’assenza preconcetta di qualsiasi considerazione sulla capacità di democrazia da parte della libera impresa. Sarebbe da chiedersi: e se il destino di una scuola libera e democratica fosse proprio lì, in attesa di venire alla luce, sulle ginocchia del coraggio e della competenza degli imprenditori? Giulio Ferroni, La scuola sospesa, Einaudi, 176 pagine, 9,30 euro

altre letture Reinhart Koselleck è uno dei grandi protagonisti della storiografia contemporanea. Dobbiamo a lui l’elaborazione di un influente modello di storia concettuale fondato sulla convinzione che la dissoluzione del mondo antico e la nascita del mondo moderno abbiano lasciato tracce vistose nella storia dei termini e dei concetti politico-sociali. «Storia», «progresso», «sviluppo», «emancipazione», «crisi», «utopia» sono tutti termini da cui è possibile dedurre le complesse dinamiche che hanno caratterizzato il passaggio alla modernità. Termini ora raccolti e spiegati nel Vocabolario della modernità (Il Mulino, 159 pagine, 15,00 euro), un’opera utilissima per capire il senso delle parole che strutturano la nostra lingua politica. Tesi forti e discutibili quelle sostenute da Vandana Shiva, fisica indiana e premio Nobel alternativo per la pace, nel suo Ritorno alla terra. La fine dell’ecoimperialismo (Fazi editore, 246 pagine, 18,50 euro). Saggio agile, introdotto da Carlo Petrini, su un altro mondo possibile in cui gli esseri umani contano di più del profitto. Orizzonte auspicabile per tutti se non fosse che le vie indicate per arrivarci appaiono troppo spesso utopistiche. Come quella appunto additata da Vandana Shiva per la quale salverebbe il mondo una radicale ripresa dei principi contadini, la produzione di nicchia e la biodiversità. Interessante però la parte riservata alla critica agli Ogm e alla scomparsa dell’agricoltura tradizionale. Ancora oggi la vulgata storiografica insiste nel qualificare il delitto dei fratelli Rosselli come un crimine politico di matrice italiana: una sorta di prosecuzione all’estero, della strategia dell’assassinio mirata contro gli oppositori irriducibili. In realtà, secondo lo storico Roberto Festorazzi, non è mai stata dimostrata la responsabilità di Mussolini quale mandante dell’omicidio Matteotti. Per capire storia e contesto di quel delitto è utilissimo comunque il saggio di Roberto Festorazzi sulla vita di Giacomo Antonini, l’uomo che spiò Carlo Rosselli in Francia: Il segreto del Conformista (Rubbettino, 251 pagine, 15,00 euro). a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

FRANCO GENTILINI A CENT’ANNI DALLA NASCITA DUE MOSTRE CELEBRANO L’ARTISTA DELLA “JOIE DE VIVRE”. IL SUO LINGUAGGIO È FATTO DI ELEMENTI DELLA TRADIZIONE TRAVASATI IN RICERCHE SOLITARIE. E IL SUO IMMAGINARIO, POPOLATO DI CATTEDRALI, BATTISTERI, GIOCOLIERI, SIGNORINE CON STIVALETTI, BICICLETTE IN CORSA, MONDI FIABESCHI, FA VENIRE IN MENTE LA LETTERATURA FANTASTICA DI ITALO CALVINO…

Le parole della pittura di Angelo Capasso l 1909, visto a cento anni di distanza, è idealmente un anno con una doppia corsa. Se da un lato, è l’anno che dà l’avvio alla macchina futurista attraverso il Manifesto di Filippo Tommaso Marinetti, da una prospettiva diversa è anche l’anno di nascita di Franco Gentilini (Faenza, 4 agosto), quindi di una vocazione diversa, forse alternativa, per l’arte e i suoi destini. L’opera di Gentilini si forma nel contesto della cultura italiana tra la seconda guerra mondiale e il dopoguerra, quindi a debita distanza sia dal Futurismo, che dall’utopia del ritorno all’ordine lanciata dagli artisti dei «Valori Plastici». Il pittore faentino costruisce un suo linguaggio personale, bricolage, fatto di molti elementi della tradizione ma anche di curiosità che spingono l’arte oltre l’ansia dell’avanguardismo plurale, quello dei gruppi e dei manifesti, per sbocciare invece nelle ricerche solitarie condotte da personalità eccellenti, così come capita ancor oggi. La pittu-

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su cui costruire il lavoro di pittore. Quelle figure somigliano ai personaggi dei racconti del maestro della letteratura fantastica italiana, Italo Calvino. E di molti scrittori francesi a lui contemporanei, quali Georges Perec, François Le Lionnais, Jacques Roubaud, Paul Fournel, Raymond Quenau. Il mondo magico di Gentilini sembra esemplificare visivamente quanto Calvino ha messo prima in pratica nei racconti e ha poi sintetizzato nei suoi notissimi appunti dal titolo Six memos for the next millennium: le lezioni americane che avrebbe dovuto tenere a Harvard, ma rimasero purtroppo un fatto letterario per la prematura scomparsa dello scrittore. Nelle Six memos Calvino individua le sei qualità della letteratura che permarranno anche dopo il 2000, anno che fatidicamente avrebbe portato a una rivoluzione sostanziale nello scrivere, nel dipingere e anche nel modo di pensare per l’incalzare della

Legato a un mondo antico fatto di piccole cose, nasce a Faenza e inizia come ebanista intagliatore. Nel 1928 il primo viaggio a Parigi e nel 1932 il trasferimento a Roma dove, al Caffè Aragno, conosce e frequenta artisti e letterati ra di Gentilini si aggancia a un mondo antico fatto di piccole cose, alla tradizione popolare e alle sue raffigurazioni bidimensionali riabilitando l’aspetto grafico della pittura, con alcune eco dall’immaginario metafisico che gli hanno maturato una associazione indiretta al mondo dechirichiano, certamente per una lettura inesatta della sua opera. Gli elementi architettonici, le piazze, gli spazi vuoti, sono elementi tracciati da una mano delicata e da un pensiero leggero scevro dalle filosofie negative che la Metafisica aveva inscritte nel Dna. Gentilini è l’artista della joie de vivre, anche se quella gioia è malata dalla perdita di un mondo frantumato dalla guerra e dalla premonizione della nascente società di massa.

Gentilini ha un background molto personale. Ha inizio come ebanista intagliatore, prosegue poi tra il 1921 e il 1925 con i corsi serali della Scuola Comunale Tommaso Minardi di Disegno Industriale e Plastica. Nel 1928 fa il primo viaggio a Parigi. Nel 1930 la giuria della XVII Biennale di Venezia include un suo dipinto nella mostra internazionale più ambita. Nel 1932 si trasferisce definitivamente a Roma ed entra nell’ambiente letterario del Caffè Aragno, dove conosce e frequenta artisti e letterati. Qui l’immaginario gentiliniano diviene sornione, ironico, e si compone di siparietti e scenette che ricordano un mondo fiabesco, sognante e ispirato, fatto di cattedrali (a partire da quella siciliana di Monreale), battisteri, mura delle città, giocolieri, suonatori di strada, biciclette in corsa, carretti e animali, e soprattutto le sue signorine dagli stivaletti coi tacchi a rocchetto. Un mondo di «piccole cose di pessimo gusto», come direbbe Gozzano, che la fantasia celebra come un piccolo pantheon personale

cultura del digitale. Le sei qualità sono: Leggerezza, Rapidità, Esattezza,Visibilità, Molteplicità (della sesta lezione, dedicata alla Consistenza, sono rimasti solo alcuni appunti, ndr). La prima lezione, quella sulla Leggerezza, sembra ricalcare perfettamente le fondamenta dell’immaginario gentiliniano: considerata «l’insostenibile pesantezza dell’essere», dice Calvino, il racconto, grazie alla vivacità e alla mobilità dell’intelligenza, può riuscire a sfuggire a quella condanna costruendo un altro universo diverso da quello del vivere. Calvino indica ad esempio il De rerum natura di Lucrezio, la prima opera in cui la conoscenza del mondo diviene dissoluzione della sua compattezza, percezione di ciò che è infinitamente minuto, mobile e leggero. Così, nel mondo moderno, il primo scrittore a seguire questi dettami per Calvino è Cyrano de Bergerac, il quale cerca di sottrarsi alla forza di gravità e di inventare sistemi per salire sulla luna; fino a giungere alla leggerezza inseguita da Leopardi che, quando parla dell’insostenibile peso del vivere, «dà alla felicità irraggiungibile immagini di leggerezza», togliendo al linguaggio ogni peso «fino a farlo somigliare alla luce lunare». La letteratura, per Calvino, nel nuovo millennio deve continuare a esercitare questo suo dispositivo antropologico di ricerca della leggerezza come reazione al peso del vivere. Gentilini ha dimostrato la propria leggerezza operando su immagini d’affezione, trasparenti e leggere, bidimensionali che si staccano dalla superficie da cui sembrano assurgere per l’abilità del gesto grafico di incidere un solco di confine tra l’essere della figura e il non essere dello sfondo. La matita affilata, il segno grafico, le cromie a intarsio hanno generato un mondo

cristallino e trasparente che si libera come in una danza incantata e gioca con la possibilità di poter essere un mondo reale. Come per le favole.

I dipinti di Gentilini sono figli dell’istantaneità del pensiero che si forma sulla tela rubando il tempo al tempo, incarnando l’attimo, raggelando l’istante, sono immagini che si incidono secondo il principio motore della Rapidità, anch’essa una delle categorie segnalate da Calvino nelle sue lezioni. Calvino spiega come il racconto sia sempre un’operazione sulla durata, un incantesimo che agisce sul tempo, contraendolo o dilatandolo. In particolare i folktales, i fairytales, a cui egli si è dedicato assiduamente nella sua vita, lo hanno sempre colpito per la battaglia che intraprendono contro il tempo, e per la presa che, attraverso il ritmo, riescono a esercitare sull’ascoltatore, tenendo vivo in lui il desiderio di ascoltare il

Le mostre lcune importanti mostre in corso o in preparazione celebrano il centenario della nascita di Franco Gentilini (Faenza, 4 agosto 1909). Al Museo Fazzini di Assisi, fino al 29 maggio, la mostra curata da Giuseppe Appella che accoglie 50 opere (dipinti, disegni, opere grafiche) che ripercorrono, dal 1944 al 1980, la formazione di un linguaggio personalissimo, attento alle avanguardie europee che da Ensor-Van Gogh pervengono a PicassoGris, senza mai perdere l’originale ritmo italiano della fantasia. La mostra, corredata da un ricco apparato di immagini e documenti (catalogo De Luca Editori d’Arte di Roma) si trasferirà dal 6 giugno al 30 agosto al Castello Malatestiano di Longiano (FC). Da novembre a gennaio 2010 è invece prevista una grande antologica dell’opera di Gentilini al Palazzo della Permanente di Milano.

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Con la sabbia negli occhi di Leone Piccioni o conosciuto Gentilini molto da vicino, ho molto amato e continuo ad amare le sue opere, le cattedrali, i ritratti, tutta la sua produzione. Credo di conoscere abbastanza bene il suo curriculum di artista ma, per scrupolo, prima di buttar giù queste poche righe, ho voluto fare un controllo sull’enciclopedia dell’Arte delle «garzantine»: a Gentilini sono ingiustamente dedicate soltanto nove righe, malgrado la sua continua presenza sulla scena artistica italiana e internazionale, le sue innumerevoli mostre, anche di grandi dimensioni, sia in Italia che all’estero. Un anno dopo la morte di Gentilini, nell’82, riuscii a metter su, con l’aiuto della moglie Luciana, che ha dedicato tutto il suo tempo e tutte le sue forze alla valorizzazione dell’opera del marito, una mostra a Pienza di sue pitture. Sono molto legato a Pienza, ho lì una piccola casa (parva sed apta mihi) e di questa città sono cittadino onorario. Malgrado fosse passato così poco tempo dalla morte di Franco, respirammo un’aria di gioia e di festa rallegrata dalla presenza e dalle parole dell’inimitabile Piero Chiara che per i suoi libri sceglieva sempre come copertina pitture di Gentilini. Atmosfera gaia, ho detto, soprattutto ricordando il carattere, il fascino, la simpatia che ispirava Gentilini, romagnolo doc, caro agli amici e lui stesso agli amici fedele, con tanta bonomia, con tanta acutezza di spirito. Faenza, dove Gentilini è nato, è celebre per la diffusione e la bellezza dell’arte delle ceramiche, e Gentilini ben la conosceva; trasferitosi a Roma, amico di Scipio-

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Alcune opere di Franco Gentilini (foto grande a sinistra): dall’alto, in senso orario, “Autoritratto” (1925); “La Salute” (1962); “San Paolo fugge da Damasco” (1977); “Susanna dopo il bagno” (1929); a destra, “Autoritratto con i Tarocchi” (1968)

Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità. Queste qualità letterarie, indicate dall’autore del “Barone rampante”, come quelle destinate a rimanere nel Terzo millennio, si ritrovano tutte nelle opere del pittore faentino seguito. Di fronte ai nuovi, velocissimi media che si affacciano prepotentemente nel nuovo millennio, Calvino desidera si affermi «la funzione della letteratura come comunicazione tra ciò che è diverso in quanto diverso», che si serve di una velocità mentale che ha la caratteristica di non poter essere misurata, e di valere per il piacere che provoca in sé, non per l’utilità pratica propria invece dei calcolatori.

La rapidità per Calvino però non è fine a se stessa. È un atto che si confronta continuamente con il suo opposto, la lentezza. Se la rapidità appartiene all’esecuzione, la lentezza appartiene alla meditazione. Secondo Calvino lo scrittore deve tener conto di tempi diversi e riuscire a produrre «un messaggio d’immediatezza ottenuto a forza d’aggiustamenti pazienti, un’intuizione istantanea che appena formulata assume definitività di ciò che non poteva essere altrimenti». Ed ecco che in Gentilini, l’atto della scrittura non è distratto, ma figlio di una sedimentazione del pensiero. L’artista «rende visibile», come diceva Paul Klee, un pensiero complesso che prende forma dilatando il tempo e si incide nell’istante. È sull’istante che si fonda la terza terza lezione di Calvino, dove l’arte sembra farla da protagonista. La Visibilità, dice Calvino, è un medium inevitabile per il pensiero umano: ne rappresenta l’incarnazione stessa. Nell’istante in cui l’immagine diviene visibile si fondono mondi diversi, antico e moderno. Nella sua esperienza di scrittore Calvino ha più volte sottolineato come all’origine di ogni suo racconto c’è sempre un’immagine visuale; come, per esempio, l’immagine del ragazzo che si arrampica sull’albero per il Barone rampante. Il discorso per immagi-

ni, tipico del mito, può nascere, sostiene Calvino, da ogni terreno, anche dal linguaggio più lontano da ogni immagine visuale come quello della scienza oggi: ciò egli ha cercato di dimostrare nelle Cosmicomiche. Di converso, è inevitabile pensare che le immagini di Gentilini reclamino un’origine letteraria, nascano dal racconto personale, dall’aneddoto, dal dialogo anche se tra sé e sé. Il mondo privato di Gentilini diviene pubblico attraverso questa forma di dialogo che l’artista pone in atto tra i propri ricordi personali e la tradizione, un dialogo che supera la storia personale e giunge nella storia del genere umano e nella sua naturale compulsione a produrre icone.

Nella moderna civiltà delle immagini però, spiega Calvino, dobbiamo fare attenzione a non perdere la nostra facoltà di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi. Le opzioni che si presenteranno a chi vorrà tentare di fare letteratura fantastica, nel nuovo millennio, nella crescente inflazione delle immagini prefabbricate, sono di due tipi: riciclare immagini usate in un nuovo contesto che ne cambi il significato, oppure fare il vuoto per ripartire da zero. L’importante è non dimenticare che lo scrittore compie operazioni che coinvolgono l’infinito della sua immaginazione con l’infinito delle possibilità linguistiche della scrittura: «tutte le realtà e fantasie possono prendere forma solo attraverso la scrittura, in cui il mondo e l’io, l’esperienza e la fantasia appaiono composte della stessa materia verbale». Su questo affermazione di Calvino, Gentilini pittore sarebbe certamente poco d’accordo. Per lui la pittura è prima della parola, o forse è la parola stessa.

ne e di Mafai, si affermò subito nei movimenti pittorici di quegli anni, distaccandosi poi dagli altri per emergere con la sua prepotente personalità. Voglio ricordare anche la sua umiltà: quando una rivista letteraria radiofonica e televisiva della quale mi occupavo, L’Approdo, diventò anche pubblicazione stampata, chiedevo a Gentilini qualche piccolo disegno, qualche - come si diceva «finalino» per illustrare le pagine della rivista. Mi concedeva tutto questo con molta generosità e con molto impegno, come quando lavorava a opere tanto più importanti. E non posso dimenticare le cene con lui, con Luciana, con Guia e Carlo Guarienti che diventavano occa-

sioni di grande letizia e di molta allegria. Né posso dimenticare le partite a carte, con gli amici giocando a poker a casa sua dopo cena. Torno ogni tanto all’Abbazia di Pomposa verso le foci del Po e ammiro i frammenti di pittura e gli affreschi trecenteschi di quella stupenda chiesa degli anni mille. In quelle figure, in quegli scorci, torno sempre con il pensiero alla pittura di Gentilini che certo a quelle opere si era ispirato proponendoci poi una pittura attuale e insieme antica, anche con le sue paricolari tecniche che prevedevano talvolta l’uso della sabbia innestata sul colore, con un effetto di spugna che ti toccava e che restava negli occhi e nella mente.


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libri

Il nuovo romanzo della scrittrice-rivelazione ospite alla Fiera di Torino

Il talento di Perihan di Pier Mario Fasanotti iera del Libro diTorino. Ieri, alle 18, è andata in scena la nuova stella della narrativa turca, anche se quella connotazione nazionale suona ormai riduttivo. Anche perché i suoi libri sono stati tradotti in otto lingue, con enorme successo in Germania (la cosa è spiegabile visto che il paese ospita la più grande comunità turca in Europa). Si chiama Perihan Magden, è nata a Istanbul nel 1960. È anche giornalista e poetessa. Il pubblico italiano ha avuto occasione di conoscere la sua conturbante scrittura con Due ragazze, uscito in Italia nel 2005 (Edizioni Lain, che fa capo all’editore Fazi).

F

Purtroppo i lettori nostrani si sono dimostrati distratti, così come i critici e i divulgatori culturali. Peccato, perché il libro è diventato subito un caso, inTurchia. E ha conquistato le vette delle classifiche dei titoli più venduti.Magden ha scelto un tema in linea con gli studi in psicologia che ha compiuto. Scava con sapienza e cognizione profonda nei legami familiari e amicali. È la vicenda di due adolescenti che si uniscono in affetto stretto, entrambe figlie di madri verso le quali hanno un rapporto di odio-amore, morboso e ambiguo. L’intimità esagerata e contorta tra due persone è uno dei tempi

preferiti della scrittrice, tanto lodata dal premio Nobel Pamuk del quale è buona amica. Nel 2006 è stata processata, ma poi assolta, per un articolo sul diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, obbligatorio in Turchia. Come columnist è assai battagliera e incarna l’anima del suo paese natale, in bilico tra due visioni del mondo: quella rivolta verso il passato e quella che vorrebbe avvicinarsi sempre di più all’Occidente. In uscita in questi giorni il suo ultimo e straordinario romanzo, In fuga (Elliot, 237 pagine, 16,00 euro). Scrittura chiara,lancinante,tagliente.Un ritmo serrato che ha dietro di sé un congegno di trama e di analisi emotiva che mai inciampa nel banale o nell’approssimativo. A parlare è una adolescente, bellissima («Dio l’ha creata con tanta precisione» dirà un testimone), costretta dalla madre a spostarsi da un albergo all’altro, da un

intimamente legate alla famiglia (ricchissima) della donna, alla morte di sua madre per la quale qualcuno sa bene chi indicare come colpevole, a episodi che si camuffano in sogni, il più frequente dei quali è un cane bianco sgozzato e la predilezione per i corvi.

Madre e figlia conducono vita appartata. Sempre negli alberghi, e non solo in Turchia. Noi siamo noi, una sola persona, we are the Moon Unity, questo ripete la donna alla ragazzina, con cadenza maniacale. Il loro libro preferito è Bambi, e precisamente la scena in cui la madrecerbiatto viene colpita da un proiettile e il cucciolo obbedisce all’ordine materno «scappa, scappa, salvati». Il libro diviene un libro di preghiera, e sta proprio lì l’evoluzione della vicenda, che è un thriller psicologico. Una matta, dicono di lei ne-

Poetessa e columnist battagliera, elogiata dal Nobel Pamuk, incarna l’anima del suo paese natale, la Turchia, e il tipo di donna indipendente che Ataturk immaginava nel futuro della nazione. “In fuga” racconta con ritmo serrato, un legame inquietante tra madre e figlia paese all’altro, con pochissimi indumenti infilati in zainetti, e con un’attenzione apprensiva verso la gente, sempre derisa, accusata di malvagità e ritenuta capace di nefandezze. Sono «le anime false» che inseguono la strana coppia. Questa è la tesi della madre, donna turca che mischia la lingua materna con l’inglese, che odia i connazionali della high society, li ritiene «schifosi». «Da chi scappiamo, mammina?»: questa è la domanda più volte ripetuta dalla ragazzina, vestita con colori pastello, in modo infantile, alla Disney. «Da quelli»: ecco la risposta angosciosamente generica che la fuggiasca riesce a dare. A poco a poco, nel vissuto simbiotico delle due che ricorda il plagio, il rapimento e la prigionia psichica, escono barlumi di verità. Sono ombre nere

gli alberghi. Un’arrogante, un’esaltata. Silenziosa, sempre dolorante nell’intimo, ha in tasca un taglierino. Con quello in mano minaccia di cavarsi un occhio per convincere la bambina -quando era più piccola - a obbedire senza riserve, ad abbandonare senza lacrime vestiti e giocattoli. E poi scatti d’ira spaventosi, come quando con un’ascia distrugge una brutta statua all’ingresso di un albergo. Appunto perché la giudica brutta. Islamica? No, a giudicare dal crocefisso che ha al collo e dagli accenni che fa al buon Gesù. Ma l’autrice non vuole delineare con nitore i contorni della vicenda e nemmeno il passato della «strana donna». A lei interessa l’evoluzione emotiva di un rapporto filiale: il resto è una serie di flash-back tutti sfumati, quasi insinuazioni che si conficcano nell’impianto narrativo il cui centro rimane caparbiamente fisso: madre e figlia in fuga, la ricerca di un riparo, l’odio per gli altri, quelli che interferiscono nell’esclusivissimo, e quindi patologico, dialogo continuo tra madre e figlia. Dalla voce dei testimoni il lettore viene a sapere che la donna di Istanbul lascia una orrenda scia di sangue. Addirittura c’è il coinvolgimento brutale della ragazza in un episodio di

inusitata ferocia. Un enorme peso grava sulla mente di questa donna che a volte pare bella e a volte è trasandata e sporca. Dice di conoscere il proprio destino e spiega: «La mia punizione è il non dimenticare». Perihan Magden fa dire al suo personaggio più giovane: «Ogni famiglia è una scatola chiusa». *** «Perihan Magden è una delle più creative e schiette scrittrici del nostro tempo. La maniera in cui torce e plasma il linguaggio turco, la gioia che lei ricava dalla cultura popolare e le sue brillanti incursioni negli argomenti che la gente pensa ma non è in grado di mettere in parole, le ha fatto ottenere l’amore dei suoi lettori e il rispetto dei colleghi scrittori. Il suo intuito acuto e la formale eleganza delle sue seguitissime e spesso controverse note giornalistiche sono evidenti anche nei suoi romanzi. Per me e per tanti altri lettori che desiderano iniziare la giornata con angoscia, gioia e qualcuno anche con parole intelligenti, la sua rubrica è una vera e propria dipendenza». Questo ha scritto Orhan Pamuk, premio Nobel a proposito della sua amica e collega. L’analisi-elogio è stata pubblicata dal Guardian e da El Pais. Pamuk vede in lei il futuro, faticoso a costruirsi questo è ben certo, del paese che ha dato i natali a entrambi: «La sua fiera passione, la sua indipendenza combattiva, la sua coscienza d’acciaio fa di lei proprio il tipo di donna indipendente che Ataturk immaginò nel futuro della Turchia quando fondò la Repubblica. Le riforme occidentalizzanti che stanno alla base, al cuore della repubblica turca tendevano a portare le donne fuori dal controllo totale degli uomini dando loro una maggior indipendenza e riducendo il ruolo della religione nella vita pubblica. Ma per un bizzarro scherzo del destino le forze armate turche a cui piace vedersi come “difensori della rivoluzione di Ataturk”stanno ora mettendo in discussione questa libertà. Gli scritti di Magden le hanno fatto guadagnare guai pubblici e privati. Molti dei politici che ha criticato hanno aperto delle cause contro di lei costringendola a passare un sacco di tempo in tribunali e uffici degli avvocati. Lei ha ricordato ai lettori turchi che le Nazioni Unite hanno riconosciuto l’obiezione di coscienza come un diritto umano dagli anni Settanta così come i firmatari del Consiglio europeo, e che soltanto l’Azerbadjan e la Turchia non hanno riconosciuto questo diritto».


video Current

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tv

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a buona televisione sostituisce ormai i settimanali, tutti in crisi. Ma a questo punto spunta una domanda: che fine ha fatto Gianni Minoli della Rai? Era il giornalista che, con Mixer, scavava nell’attualità, raccoglieva testimonianze, stimolava il dibattito. E lo faceva con temperamento ed equidistanza. A lui sono succeduti i domatori di circo come Santoro, orgogliosi di frequenti faziosità. Oppure i meno tribunizi gestori di dibattiti, che però fanno brillare le bombe del verbalismo sfrenato, tipo «adesso fai parlare me che la so più lunga». Ancora una volta - bisogna ammetterlo - è Sky a mandare in onda una sorta di Mixer. È Current, il canale (numero 130) che, quando fa giornalismo serio frantuma l’ingessatura documentaristica della Bbc in onda su History Channel, specializzato in storia antica, in nazismofascismo (che sovrabbondanza!) e, ultimamente, in temi tecnici e architettonici. Non tutto il palinsesto di Current (termine inglese che significa attuale, odierno) è impostato sui nuovi «mixer». C’è spesso l’occhiolino ai temi piccanti, sesso in primis. Ah, i vecchi reportage, ormai chi li fa più?: questa la domanda che molti lettori di carta stampata avanzano. C’è domanda di informazione. La tv dà colpi mortali settimanali, ai cosiddetti newsmagazine, avvinghiati alla ciambella di salvataggio del gadget filmistico. Uno dei programmi più avvincenti andati in onda su Current è stato Dentro Guantanamo, la prigione dura messa in piedi dagli americani, in una parte del territorio cubano (in affitto all’America che nel 1898 aiutò i cubani nella rivolta contro gli spagnoli), per detenere, interrogare spesso con la tortura i terroristi legati ad Al Qaeda. Scopo: ottenere informazioni utili alla sicurezza mondiale. La vicenda dell’11 settembre ha spinto l’America a ostentare al mondo la sua muscolatura. Alcuni giornalisti hanno ottenuto il permesso dalla Marina Usa di visitare il carcere che oggi è il più famoso del pianeta, là dove ci sono i prigionieri in tuta arancione con le caviglie legate alla schiena o esposti (fino al 2005) in gabbie metalliche simili a quelle per i polli (secondo

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la buona informazione dentro Guantamano

web

quanto ha raccontato un reporter italiano e un ex prigioniero, musulmano inglese). Ogni giornalista è soggetto a censura: non tutto può riprendere con la telecamera, rigido (ma condivisibile) è il divieto di mostrare il volto dei terroristi. Guardie e ufficiali americani hanno il buon gusto di non descrivere un paradiso, ma un luogo dignitoso sì, a seconda che i detenuti collaborino o no. Sono gli irriducibili a indossare la tuta arancione. Dicono che questi non obbediscono, scalciano, insultano e aggrediscono i guardiani con il lancio delle feci. Scena breve dell’interrogatorio del pakistano Omar Khadr, figlio di un finanziatore di Al Qaeda. Fa impressione la sua frase in una pausa tra un interrogatorio e l’altro: «Uccidetemi, uccidetemi!». La pressione psicologica è pesante, cè lo sfinimento, la tentazione di dire delle cose anche non vere pur di essere lasciato in pace. Altri sono vestiti di bianco o di marrone, godono di quattro ore di tempo libero, usano attrezzature ginniche, leggono due quotidiani (Usa Today e Al Ahram), però vecchi di almeno 15 giorni, per evitare contaminazioni informative, e depurati delle notizie sulla guerra. Ci sono anche tappeti per pregare Allah, rosari, fumetti nella loro lingua. «Siamo nel giusto, malgrado le falsità che sono state dette», dichiara un comandante americano. Peccato che non abbia fatto cenno a quanto è emerso da indagini legali e parlamentari: nel carcere inaugurato da Bush nel 2001, sono state elencate queste torture: waterboarding (acqua in bocca coperta da stracci, tecnica usata dall’Inquisizione spagnola: dà il senso di annegamento), sfruttamento delle fobie personali, denudamento, catene, gabbie, isolamento prolungato, esposizione a musica ad altissimo volume. Nel 2005 il senatore repubblicano John McCain ha fatto approvare una legge che proibisce tecniche coercitive. Il presidente Obama vorrebbe chiudere Guantanamo. Oggi ha circa 250 prigionieri, tra cui 17 musulmani cinesi. Nessuno sa bene dove si trovino altre prigioni della Cia. (p.m.f.)

games

dvd

RAGGI X AL COMPUTER

L’EVOLUZIONE DI PES

SIMONE L’ICONOCLASTA

R

adiografie ed esami biomedici sono documenti preziosi sullo stato della nostra salute, ma spesso ci si trova nella difficoltà di non poterne disporre o di non potere sottoporli a consulti medici a causa di distanze o impegni inderogabili. Un programma per pc, Medical Image Viewer, consente di visualizzare direttamente sul computer i referti diagnostici opportuna-

P

untuali come ogni anno, mentre volge il desio sul campionato, si infiammano le indiscrezioni sulla nuova edizione del gioco di calcio più famoso del mondo. Pes 2010, ennesimo capitolo della giapponese Konami, avrà come protagonista il calciatore argentino, novello Diego Maradona, Lionel Messi del Barcellona. I primi screen shot rilasciati dalla casa giapponese, mostrano

el suo aspetto fisico ricorderò la somiglianza del viso con quello di Voltaire, la fronte alta, gli occhi nobili, il naso sottile e la scarsa statura. L’aspetto severo, grave, spesso addirittura ieratico veniva poi tradito da un carattere temperato, mite, sempre incline al compromesso e al motto di spirito». Così Jean Paul Sartre rievoca Simone Lecca, regista sardo che per qualche

”Medical Image Viewer” consente di vedere direttamente sul pc gli esami diagnostici

Lionel Messi sarà il testimonial dell’ultimo capitolo Konami, arricchito da minuzioso realismo

Il film di Piero Tomaselli racconta la parabola di Lecca, ex enfant prodige del cinema italiano

mente convertiti al formato standard Icom. Un’ottima opportunità anche per chi, a causa di patologie specifiche o anzianità, non riesce ad avere completa autosufficienza. Del tutto gratuito, e di precisissima nitidezza grafica, il software consente un’analisi approfondita degli esami diagnostici, coniugando le risorse tradizionali del 2D a quelle di lettura tridimensionale. Dotato di un interfaccia semplice e intuitivo, il programma consente la visualizzazione a schermo intero e l’archiviazione e la stampa di tutte le informazioni contenute nelle lastre digitali. Un piccolo passo per il mondo del software, un grande balzo in avanti per la sanità.

un livello di emulazione grafica che ormai rasenta la perfezione. Parte della nuova avventura di quello che fu alle origini Winning Eleven,nuovi effetti di luce dinamica e ombreggiature che esaltano la lucida fotografia di una realtà in movimento. Ulteriori atout, anche lo studio espressivo delle smorfie dei player più noti del mondo e un lavoro certosino sulle loro maglie traspiranti. Data di consegna alle console ancora incerta, ma di sicuro entro il termine dell’autunno del 2009. Il rivale di sempre, quel Fifa 2010 che uscirà come al solito in contemporanea, è avvisato.

tempo fu l’ enfant prodige del cinema italiano, e poi finì nell’oblio. A sette anni dalla morte, Piero Tomaselli ne ripercorre le orme in Simone Lecca e il Cinema (dell’) In-Visibile. Iconoclasta, sperimentatore inesausto, filosofo e artista figurativo, Lecca fu una delle figure più eclettiche e bizzarre del secolo scorso. In compagnia di Justine Bonnefoy e Enrico Ghezzi, Carlo Lizzani e Moni Ovadia, l’opera di Tomaselli sonda il senso di una carriera artistica controversa, segnata dall’impegno sociale e dall’umorismo caustico, da ombre e cambi di rotta. Work in progress iniziato nel 2003 dopo la morte di Lecca, il lavoro di Tomaselli ne restituisce di certo la graffiante ironia.

a cura di Francesco Lo Dico

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poesia

Quella debolezza signora della forza di Filippo La Porta

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CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni calli? Ancora non prendi a schivo, ancor sei vaga di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita la vita del pastore. Sorge in sul primo albore, move la greggia oltre pel campo, e vede greggi, fontane ed erbe; poi stanco si riposa in su la sera: altro mai non ispera. Dimmi o luna: a che vale al pastor la sua vita, la vostra vita a voi? dimmi: ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale? (…) Forse s’avess’io l’ale da volar su le nubi, e noverar le stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo, più felice sarei, dolce mia greggia, più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, mirando all’altrui sorte, il mio pensiero: forse in qual forma, in quella stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale”. Giacomo Leopardi

uando studiavo Leopardi per l’esame di maturità ero assai poco appassionato alla questione del passaggio dal pessimismo storico al pessimismo cosmico… Ancora una volta la scuola ce la metteva tutta per burocratizzare e dunque disinnescare un «classico» dal nucleo così tragico-eversivo. La lettura di Leopardi, al di fuori di obblighi scolastici, è un’avventura intellettuale e conoscitiva dagli esiti imprevedibili. All’inizio ignoriamo se ci deprimerà o ci consolerà, se ci ammalierà con il respiro musicale dei suoi versi o se indurrà a un desolato esame di coscienza con le pagine dello Zibaldone. Ricordo che il Canto notturno..., che appartiene ai cosiddetti «grandi idilli» (e metricamente rielabora la canzone petrarchesca, con endecasillabi e settenari in ordine sparso), poesia insieme iper-riflessiva e di melodiosa cantabilità, mi diede una emozione straordinaria, connessa con la scoperta di una dimensione vertiginosa di libertà. Quella relazione intima, nuda, indissolubile tra il pastore errante e la luna apriva per me uno spazio solitario in cui non entravano la Storia, l’Ideologia, la Politica, l’Attualità e neanche la Psicologia. Si trattava di uno spazio impalpabile, incantato, gelosamente appartato, fatto di parole e di silenzi, e a tutti - almeno potenzialmente - accessibile, sul quale niente ha presa.

In quell’anno incandescente 196970, di movimenti collettivi e rivolte sociali, mi ricordava che ogni individuo contiene dentro di sé - quasi fosse il suo nucleo più inviolabile - questa possibilità di dialogo diretto con la natura, con l’universo, indipendentemente dal ceto sociale o dal livello di istruzione. La solida formazione illuministica, sensistica, di Leopardi era spinta oltre se stessa dalla sua poesia: l’acerbo vero (o arido vero) non si fa illusioni sulla natura umana, sul destino di morte e disfacimento di ogni vivente (per qualcuno anticipa il novecentesco essere per la morte di Heidegger, che mai riconobbe il debito verso il poeta italiano!), però non ci impedisce di immaginare - e di cantare - una verità più misteriosa, più spiazzante, che sempre un po’ all’acerbo vero sfugge. Qualche anno fa discutevo con un intellettuale «critico», libertario e purissimamente laico, il quale mi spiegava che ai fini della nostra emancipazione bisogna pensarsi «cittadini» e non «consumatori». Alla mia domanda se oltre a queste due connotazioni identitarie restasse qualcos’altro di noi, mi rispose perentorio: «Ma cosa vuoi che resti? Non c’è altro…». Ecco, il «laicismo» di un filosofo atipico, saggista e moralista, come Leopardi ha, tra gli altri meriti, quello di testimoniare questo qualcos’altro, senza però doversi affidare a una fede confessionale, senza ipotizzare trascendenze divine o configurare fumose New Age. Nel Pastore errante… ad esempio quell’immagine

visionario-fiabesca di volare sopra le nuvole contando le stelle a una a una già riempie tutta la scena e alla fine della poesia prevale su quella «chiusa» così brusca e sentenziosa («è funesto a chi nasce il dì natale»). Il materialismo di Leopardi non si può edulcorare né minimizzare ma costituisce soltanto uno degli elementi in gioco. La sua idea della natura oscilla da sempre tra i due opposti: benigna perché vuole ovunque conservare la specie e maligna perché è incurante verso gli individui. Ma questa stessa visione razionale non è l’ultima parola. Franco Fortini volle sottolineare giustamente all’interno di un’opera così disperatamente pessimistica il «passaggio della gioia», la gioia cioè dell’esperienza formale. Però si avvita poi in uno dei suoi discorsi «dialettici» un po’ contorti: la pienezza vitale della poesia sarebbe al tempo stesso adempimento reale e anticipazione falsa, mistificata (perché avviene soltanto nella «forma») di una utopia dei rapporti umani, dato che l’unica emancipazione reale avviene nella Storia. Ma per Leopardi, che pure auspicò una confederazione tra tutti gli uomini, la salvezza resta individuale: consiste nell’approfondimento della coscienza di esistere e nella celebrazione della vitalità. Si pensi al tema delle «illusioni», pericolose e insieme inevitabili. Credere in una illusione, sapendola tale, non è atto di malafede ma espressione di uno stato vitale. Dal linguaggio lirico-evocativo dei Canti e ironico-fantastico delle Operette morali si esprime - quasi indipendentemente dalla volontà del poeta - la vita stessa, che nessuna filosofia riuscirà a comprimere e disciplinare in un sistema.

Rileggiamo il meraviglioso canto terminale, cosmico-epico, dedicato alla Ginestra (personalmente - e mi scuso per l’inopportuno sciovinismo culturale - credo che Baudelaire non raggiunse mai un tale vertice): qui l’affermazione della dignità umana nell’accettare il limite, senza chinare il capo e senza velleità titaniche, ha un timbro stoico. Leopardi è perlopiù refrattario a eroismi romantici e toni enfatico-virili alla Foscolo. In un passo dello Zibaldone scrive a proposito della compassione: «Vedi come la debolezza sia cosa amabilissima a questo mondo. Se tu vedi un fanciullo che ti viene incontro con un passo traballante… ti senti intenerire da questa vista… se ti abbatti ad esser testimonio a qualche sforzo inutile di qualunque donna, per la debolezza fisica del suo sesso, ti sentirai commuovere, e sarai capace di prostrarti innanzi a quella debolezza e riconoscerla per signora di te e della tua forza». Riconoscere la debolezza signora della forza? Che la natura matrigna possa produrre, anche in un solo cuore umano, un sentimento del genere, è un piccolo miracolo su cui il pastore nomade e la candida luna dovranno interrogarsi in eterno.


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il club di calliope

UN POPOLO DI POETI Ho delle carezze sul cuore saliva che scende da me un velo di pacata serenità. Tanta ispirazione da tanta ragione di te mi piace. UNA SCOSSA che non sentirai MAI quella nell’aria quella che mi sfiora nello scrutare(senza guardare) nell’averti senza cambiarti.

Che ti renderò sempre felice che non ti accorgerai sempre di tutto che le finestre le terrò aperte che non ci mancherà mai il necessario che i cani avranno il loro giardino che i fiori saranno sempre sciolti, ma come un mazzo che sa tacere.

Spira Yula Reginato

Nel fondo del mare Ruotano gli abissi dell’insolenza, La perizia dei potenti, Il massacro delle carni contaminate d’ira e di freddure. Al molo Approdano indizi di fiacchezza corallina, Di cristalli corrosi dalla vergogna e dall’opulenza. Alla luce del faro Affiorano gli scandali ancestrali della ragione, L’essere mostruoso dell’io E l’arbitrio coraggioso della demenza. Quale cura riserveremo ai nostri discendenti? Quale conserva di mistificazioni e abbagli? Scende il poeta immergendosi nelle voragini del sapere, nell’immaginario del sentire a tirar fuori versi immediati, versi armonici di dure lotte alla realtà immonda e fiammeggiante, calore ardente di verità e di amarezza. Presenza David Tagliaferro

Pier Damiano Ori

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma

HÖLDERLIN: VITA, POESIA E FOLLIA DI UN BIPOLARE in libreria

delphi propone per la prima volta in edizione italiana sulla base del testo critico tedesco Friedrich Hölderlin. Vita, poesia, follia di Wilhelm Waiblinger, a cura di Luigi Reitani, traduzione di Elena Polledri. Waiblinger, giovane scrittore nato nel 1804 e morto a soli venticinque anni di stenti e di alcool a Roma, provava nei confronti del grande poeta svevo vittima della follia un sentimento misto di profonda devozione e di identificazione. Insicuro e angosciato, egli vede nell’Hölderlin malato il suo doppio, capace di inseguire una realizzazione personale senza limiti, ma anche di sprofondare in un’inguaribile disperazione. Siamo di fronte alla «tragica ambiguità della soggettività moderna» (Reitani). Il breve scritto venne composto in Italia nell’inverno 1827-1828 e pubblicato postumo nel 1831. Si tratta del primo tentativo di ricostruzione biografica e psicologica della vita del poeta, che all’epoca aveva sessantun anni. Hölderlin era stato ricoverato in una nuova clinica sperimentale a Tubinga

A

di Giovanni Piccioni nel 1806. Diagnosticato inguaribile e con pochissimi anni da vivere, venne successivamente alloggiato dal maggio 1807 presso la famiglia del mastro Friedrich Zimmer, nella famosa «Torre». Morirà nel 1843, a settantatre anni. Il lavoro di Waiblinger stabilisce la stretta contiguità dell’opera di Hölderlin con la leggenda biografica e

ri che fanno seguito al ritratto - nel quale vengono delineati i momenti fondamentali della vita del poeta, dagli studi all’amore per Susette Gontard, la sua Diotima, - è datato 3 luglio 1822: in «una piccola stanza imbiancata, a forma di anfiteatro, priva di qualsiasi ornamento… si trovava un uomo con le mani infilate nei pan-

Pubblicato il testo di Wilhelm Waiblinger, nato dalle frequentazioni con il poeta svevo, che tenta di ricostruirne il profilo biografico e psicologico contiene un’insostituibile testimonianza diretta sulla sua esistenza. Lo rappresenta come un essere escluso dalla vita e dal linguaggio degli uomini, che allontana da sé ogni interlocutore, le cui giornate sono quasi del tutto prive di luce. Waiblinger inizia a frequentarlo intorno al 1822, quando è recluso nella «Torre» da oltre vent’anni. Il primo incontro, registrato negli inediti Dia-

taloni abbassati sui fianchi e che non smetteva di salutarci cerimoniosamente…Quella figura terribile mi turbò… Hölderlin appoggiò la mano destra su un mobile accanto alla porta, tenne la sinistra nella tasca dei pantaloni, una camicia impregnata di sudore gli cascava sul corpo, e i suoi occhi arguti mi fissavano, incutevano una pietà e una pena tale da raggelarmi il sangue e le midolla… Rimasi

lì come un condannato, con la lingua paralizzata e lo sguardo opaco, un sentimento terribile mi percosse l’animo…». Per quanto riguarda la patologia da cui Hölderlin era afflitto, nel saggio «L’anima in bilico: che cos’è il disturbo bipolare» - postfazione a Lunatica di Alessandra Arachi - il neuropsichiatria Athanasios Koukopoulos lo include fra i bipolari e afferma che non è un caso che tanti grandi artisti siano stati maniaco depressivi. Per la creatività artistica di alto livello infatti, sembrano «indispensabili l’energia, la fantasia, le emozioni di un temperamento bipolare». Nei frammenti dei «canti della notte» Hölderlin considera e profetizza la propria condizione. «Ahi me, dove/ quando verrà l’inverno/ coglierò i miei fiori,/ dove luce di sole/ e ombre della terra?/ Muraglie stanno/ fredde e mute, stridono/ i segnavento». (A metà del vivere). Eppure non l’abbandona la consapevolezza del senso del proprio canto, come testimonia l’epigrafica chiusa di Ricordo: «Ma il poeta fonda ciò che resta».


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mostre

alvolta è sufficiente una parola-incantesimo, salvifica, come «quadreria», a sottrarre ogni timore d’accolita confusa e stipata di prodotti, da mercante in fiera, che genera spesso solo nausea e insofferenza. No, al contrario, qui grazie alla passione vera di Carlo Virgilio e al contributo d’un vivaio di giovani studiosi, spesso venuti su alla rimpianta scuola di Stefano Susinno, s’è formato come un intrico avvincentissimo di fatti d’arte e d’incroci silenti ma solidi del gusto neo-antico, che ancora una volta dimostrano quanto una sapiente scelta antiquariale possa offrire alla sempre golosa ma inesausta ricerca della storia dell’arte. Qui, grazie anche allo studio attento di giovani ricercatori, sotto la guida di Giovanna Capitelli, nomi già affidabili d’una nuova generazione avvertita di studiosi, che vanno da Stefano Grandesso a Matteo Lafranconi, da Anna Villari a Alessandra Imbelloni a Francesco Leone, un collezionista facoltoso e attento potrebbe portarsi via una porzione importante di Storia, giocoforza con maiuscola. O un museo quasi tascabile su quel fortunato periodo che, grosso modo, transita napoleonescamente dal Neoclassicismo albeggiante sino alle pendici dell’italico, pudibondo Romanticismo, dal purismo toscano e scultoreo, alle soglie del simbolismo sartoriano. Un’antologia sceltissima, che parte da quel misterioso e fumigante anonimo vaso manieristeggiante, isolato e solista, sullo sfondo capriccioso d’un palazzo romano, che pare il Campidoglio e che bramisce il suo grido isolato dalla bocca contratta della Gorgone che diresti di diaspro, e da quel sinistro ricordo arcimboldesco, ma in pieno Settecento rabisch e un poco goyesco, dell’Erode smangiato di rabbia, che ha il corpo gremito di piccoli innocenti scuoiati e crollanti; sino a tele molto più firmate e di nomi imprescindibili del nostro Ottocento maggiore, da Pietro Benevuti (mostra a Pitti, Firenze) con la sua furente Medea cherubiniana, allo scaligero Alessandro Sanquirico, e il vertigionoso capriccio scenografico di Vestale spontiniana,un tempo attribuito all’allievo paesaggista Migliara, al tempo in cui Beethoven forniva le musiche per i corodrammi di Viganò. Dal Coghetti battaglista e alessandrino, ai Martiri accasciati di Morelli, controllati dalla vigile consulenza del canoviano Cicognara e impregnati di revival cattolico, alla Chateaubriand. Da Felice Giani, progetto per un affresco ahimé bombardato a Palazzo Milzetti, a Camuccini, espressivissimo studio di testa per la sua ambiziosa e neo-caravaggesca Conversione di San Paolo, in salsa già quasi Delacroix, e godibilissimo Convegno degli Dei per le nozze di Amore e Psiche, in

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Dalla bizzarria al canone, i sipari animati della

Storia di Marco Vallora

arti

panni rigorosamente winckelmanniani e neoclassici. Perché è bello seguire qui come talvolta la Storia scenda come un sipario animato, in un gioco continuo e spesso carsico d’influenze e di rimandi, tra stili e maestri: le fantasie architettoniche di Dell’Era, una sorta di Sant’Elia d’epoca post-piranesiana, scomparso anche lui troppo giovane. La Pastorella del parmigiano d’adozione Giacoboni (in anni Maria Luigia, sotto il vigile stimolo del ministro Du Tillot) che, giustamente ricorda la Capitelli, pare un brano di Berchem o d’altro fiammingo italianisant, però travestito in panni Guido Reni. Il lupo aggressivo e aggettante di Baldrighi (altro pupillo di Di Tillot) che pare un ricordo animalista del «versaillese» Oudry, che rifà però il fiammingo Snyders: non cigni lupi ringhinati, quasi a mordere la tela. La Francia come riferimento, David e Ingres in primis. Julien de Parme, altro nume parmigiano-napoleonico, non sfonda a Parigi, e usa il rotolo filologico dell’Iliade, come clava per combattere l’ignoranza francese, «indossato» elegantemente sotto braccio da un Alcibiade che si vorrebbe Ercole ed è solo un ganimede un po’ grassoccio e burroso. Il russo Ivanov, invece, che sfonderà con la sua Apparizione del Messia, è presente qui con uno studio di ritratto molto ispirato e già dostoievskiano. Se si leggono con attenzione i ritratti di De Boni e Patania (col bimbo nudo che piange la mamma lontana stringedosi al suo busto scolpito da Bartolini) ma soprattutto le scene di «fole mitologiche» risolte con quello stile compendiario e abbreviato (e molto «sugo di colore») dai casalinghi accademici di casa Giani, magari per le ville Torlonia, il ricco parvenue che Stendhal assicura garantire le feste più chic d’Europa, ci si rende conto che è cambiato il modo di concepire la mitologia antica. È una cosa di casa, di tinello napoleonico: basta guardare le Parche di Giani, tre pettegole signore che ricamano le loro chiacchere pomeridiane, di fronte a un tè che proviene dalla perfida Albione. La Storia gira, come il cerchio placcato e sospeso del ragazzino di Sablet: che forse non è nemmeno così malvagietto, come avanza la curatrice: è un rampollo precocemente imbolsito dell’aristocrazia, che decanta alle sue spalle le lodi d’un paesaggio foscoliano.Vorrebbe fuggire, uscire dal cerchio soffocante della Storia, con quel simbolo di natura nervosa del cagnino che gli indica la via di fuga della tela. Ma forse non ne avrà la forza.

Quadreria 2009. Dalla bizzarria al canone, Roma, Galleria Carlo Virgilio & C., sino al 12 giugno

diario culinario

Un tuffo nel passato con “i piatti della miseria” di Francesco Capozza iete mai stati in una casa di tolleranza? Io no, anche perché all’epoca della legge Merlin non solo non ero neanche nato, ma non ero neppure nei pensieri dei miei genitori. Succede che a Modena, nella periferia tangenzializia più tremenda che si possa immaginare, tra snodi, capannoni, il casello dell’autostrada e la Fiera, ci si trova prodigiosamente a contatto con due perfetti residui del passato: un’osteria dove si mangia con rigore filologico nella tradizione della cucina povera della regione, e un bordello, accanto all’osteria, rimesso a posto dopo vent’anni di «restauri conservativi» dal nipote della maîtresse che lo gestiva. Chiuso dal 1948 per via della suddetta legge, quello di Madame Regina era uno dei

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dodici casini italiani «di prim’ordine» (su un totale di quasi mille). Perciò niente superfici di piastrelle bianche facilmente lavabili, come nei casini più corrivi, ma uno stile liberty-gotico che alludeva a lussi e lascività dannunziane. Le stanze, una dozzina, sono ora affittabili come normali camere d’albergo. Certo, ci vuole un bel po’di stomaco - o di senso dell’umorismo - per dormire con una pesante specchiera che incombe a mo’ di tetto sul baldacchino, tra quadretti con le tariffe (semplice Lire 300, doppia Lire 600, quarto d’ora Lire 1000), stampe licenziose francesi e fotografie erotiche d’inizio Novecento, rime che istigano al buon senso («L’evasione sia un battito di ciglia/ ma tieni gli occhi/ aperti alla famiglia»), cimeli del Duce (magari un suo testone bronzeo che ti guarda accigliato), e pubblicità della suc-

cursale dell’Asmara («L’arabo nel deserto stà contento, per lui è il più bel posto che ci sia. Ma l’italiano trae giovamento da un po’ di tempo in buona compagnia»). Anche senza fermarsi a dormire, la casa di tolleranza merita una visita. Anche perché accanto c’è l’osteria, una costruzione in stile Far West, evidentemente frequentata da celebrità (alle pareti decine di fotografie di volti noti), dove si possono assaggiare piatti altrimenti scomparsi, cucinati senza grassi e perciò definiti «piatti della miseria». Oggi i grassi sono la cosa meno costosa che ci sia, mentre una volta ci si ingegnava a escogitare pietanze saporite pur se cucinate senza strutto né burro né olio. La gustosa zuppa vedova (vedova di grassi) è fatta con pane e fagioli; i tortelli dei cameranti, ripieni di pane, latte e parte verde dei cipollotti, erano il piatto dei

braccianti più poveri, che venivano pagati con l’ospitalità anziché con un salario. E poi pasta con le ortiche, polpette con puré e traculo (la noce della coscia del maiale, la stessa con cui si fa il culatello) al vino bianco. Per terminare, la torta di frumentone (di farina gialla giacché ai contadini non si concedeva la bianca) e il caffè d’erbe (vedovo di caffè), che veniva servito agli ubriachi per rimetterli in sesto. Se si sceglie il menu completo, accompagnato dal lambruscone (vino da osteria prediletto dai carrettieri), si spendono circa 28,00 euro. Un’esperienza divertente e singolare che ho inserito più che volentieri in questo nostro Diario culinario.

Villino della Flanella e Osteria La Piola, Strada Cave di Ramo 248 (casello Modena nord), Modena, tel. 059 848052


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16 maggio 2009 • pagina 15

architettura

L’estro di Mansart al servizio del Re Sole di Claudia Conforti

o splendore della corte di Luigi XIV, assimilato a quello del più luminoso degli astri, continua a brillare negli edifici promossi dal volitivo campione dell’assolutismo politico europeo: la Galleria degli Specchi e la cappella di Versailles; la cupola dorata della chiesa des Invali-

L

des; la solennità di piazza Vendôme, attestano ancora oggi il valore politico e propagandistico svolto dall’architettura nel regno del Re Sole. Questi edifici, splendidi e magniloquenti, hanno il comune ideatore in Jules Hardouin Mansart, architetto e influente cortigiano, la cui azione artistica è controversa, sia a causa della sua dimensione torrenziale, sia per la determinante impronta cortigiana, che sembra avere lasciato poco spazio

rassegne

ad attitudini espressive più problematiche e personali. Quale fu il formativo percorso dell’artista? E come si è configurata la sua fortuna sociale? Le ri-

sposte a questi interrogativi, insieme all’analisi sulle principali opere dell’architetto del re, sono oggetto di una godibilissima mostra, al Museo Carnavalet di Parigi, a cura di Alexandre Gady, specialista dell’architettura francese del Grand Siècle. Ma chi è J.H.Mansart? Nato a Parigi nel 1646, Jules Hardouin cresce in un ambiente di artisti, dove si forma dapprima come pittore e poi come architetto, in omaggio alla tradizione famigliare. Se infatti il padre Raphaël è un pittore di modesta levatura, lo zio François Mansart (1598-1666) fu un architetto di straordinario successo, a capo di un grande atelier, alla cui guida, dopo la morte, subentrerà proprio il ventenne Jules Hardouin. Nel Seicento e nel Settecento i Mansart sono una dinastia di costruttori e decoratori, la cui impronta contrassegna gli edifici di committenza reale. La loro presenza è inscritta nel vocabolario dell’edilizia francese con la parola mansarde, che indica il tipico tetto a spioventi ripidi dell’architettura civile parigina, la cui valenza spaziale è stata esplorata soprattutto da François Mansart. L’incontro destinato a innalzare Jules Hardouin ai vertici della corte, con la nomina a conte di Sagonne e a Soprintendente delle

Regie Fabbriche nel 1699, si deve al progetto per la basilica reale des Invalides, fortemente voluto dal re per una destinazione ancora oggi enigmatica. Forse Luigi XIV ipotizzò di farne un sacrario reale, da sostituire a quello di Saint Denis? Sta di fatto che nel 1676 il giovane Mansart presenta un progetto che, derivato da un disegno dello zio per il mausoleo di Saint Denis, a sua volta debitore al San Pietro di Bramante, ottiene il consenso del re. L’abile declinazione degli ordini classici e lo scintillio dorato dei costoloni dell’altissima cupola a sesto acuto, trasformano il tempio in un ineludibile segnale territoriale, che celebra la devozione di Luigi a quel Dio da cui fa direttamente derivare il suo potere e la sua gloria. A quest’opera che accompagnerà tutta l’esistenza dell’architetto: si conclude infatti nel 1706, due anni prima della morte di Mansart, si affiancano ben presto la residenza reale di Le Val e quella di Clagny, che vicinissima a Versailles, è destinata alla Montespan, la favorita del re. A esse seguiranno gli stupefacenti padiglioni di Marly e il Gran Trianon, le cui splendenti policromie di pietra gareggiano con i fiori del giardino.

Bâtir pour le Roi. Jules HardouinMansart (1646-1708), Parigi, Musée Carnavalet fino al 28 giugno

Festa del teatro a Roma. Parola d’ordine: libertà creativa di Enrica Rosso na grande festa del teatro è in atto a Roma. Da ieri hanno preso il via due importanti appuntamenti che vedono protagoniste le nuove generazioni in una stimolante sfida creativa. Un teatro vivo, sorprendente, imprevedibile, non necessariamente compiuto, che non stigmatizza i luoghi, ma frequenta gli spazi aperti e volentieri li sconvolge per poi restituirli alla loro routine: è il Festival dei Teatri di Vetro. Arrivato alla sua terza edizione è rivolto tanto al pubblico quanto agli addetti ai lavori e si pone l’obbiettivo di mettere in luce quelle realtà artistiche che altrimenti avrebbero difficoltà a raggiungere una visibilità che permetta loro il dialogo produttivo con l’ufficialità. Curato da Triangolo Scaleno Teatro con la complicità fattiva della Provincia di Roma, della Fondazione Romaeuropa, della Regione e del XI Municipio, regala una nuova identità a tutto il quartiere della Garbatella che fino al 24 maggio si trasforma in una fucina artistica a cielo aperto. Gli interventi-eventi hanno carattere vario e avverranno in orari che privilegiano la fascia preserale e quella notturna. Una quarantina di esibizioni di varia natura che si confronteranno attraverso l’uso di differenti linguaggi poetici. Un’imperdibile occasione per fare un pieno di libertà creativa e rimettersi al passo con le molteplici realtà del teatro italiano e non. Un teatro che è già cambiato e che fa i conti con un’epoca ricca di contraddizioni e nuove prospettive,

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sempre in bilico tra spiritualità e sete di potere. La rassegna Teatri del tempo presente si protrae invece fino al 30 maggio e illustra, come da sottotitolo, dieci progetti per la nuova creatività. Nata sotto l’egida dell’Ente Teatrale Italiano, questa proposta apre un dialogo tra le istituzioni e i giovani talenti già provenienti da residenze artistiche e non solo, e anela a tracciare una cartografia del potenziale nostrano. Partiti da un bando, esclusivamente rivolto agli under 35, che ha coinvolto tutto il territorio nazionale, si è arrivati alla scelta finale di dieci progetti che hanno dato luogo a 25 creazioni (una delle quali è

realizzata per un solo spettatore alla volta). La rassegna si svilupperà oltre che al Teatro Valle, nella Sala Capranica e nei prestigiosi locali di Palazzo Altemps. Per permetterne a tutti un’ampia fruizione è stata studiata la possibilità di un abbonamento per l’intero periodo alla cifra simbolica di 25 euro. Gli orari variano con alcune proposte nel pomeriggio e massima concentrazione in serata, fatta eccezione per le installazioni che sono visibili durante tutto l’arco della giornata. Un’indicazione a parte va data per la giornata di lunedì 18 in cui sarà possibile prendere parte all’incontro fra artisti e operatori in occasione della presentazione del libro Teatri del tempo presente curato da Andrea Nanni (Teatro Valle dalle ore 11.00 alle ore18.00). Entrambe le iniziative offrono importanti occasioni di teatro di cui appositamente non facciamo segnalazioni poiché ogni singolo appuntamento è un microcosmo che merita attenzione e ascolto ed è portatore di un percorso originale. Dal momento che il gioco del teatro è lo specchio in cui si riflette l’essere umano, a voi saper riconoscere il vostro. Buon divertimento.

Festival dei Teatri di Vetro, Teatro Palladium e Garbatella, Roma, fino al 24 maggio in orari vari, info: 06/45553050 www.teatridivetro.it; Teatri del Tempo Presente, Teatro Valle-Palazzo Altemps, Roma, fino al 30 maggio, info: numero verde 800011616


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i misteri dell’universo

a matematica è considerata la più sicura fra le scienze, quella le cui affermazioni sono le più accurate e ritenute indiscutibili. Fiducia non corretta, perché anche le dimostrazioni di teoremi di illustri matematici possono contenere errori o incompletezze sfuggite agli autori, ai revisori e ai lettori, finché, a volte dopo anni, qualcuno le scopre. Così è avvenuto con il grande Gauss, principe dei matematici, il cui teorema sull’esistenza di n radici per l’equazione polinomiale di grado n conteneva una affermazione non dimostrata; fatto scoperto dopo vari anni e passò circa un secolo perché una dimostrazione completa venisse da Ostrowsky. E così anche per il matematico considerato il numero uno all’inizio del Novecento, ovvero David Hilbert, nei cui lavori furono trovati molti errori quando sempre Ostrowsky ne curò l’edizione completa. Ma accanto a questi piccoli problemi (e ricordiamo che una missione spaziale fallì perché gli ingegneri credevano che pi greco valesse solo 3,14…) resta un drammatico problema, ignorato dalla maggioranza dei docenti di matematica. Questo problema nasce dalla straordinaria scoperta di Goedel (e in parte di Von Neumann) che la matematica è non solo incompleta (ovvero contiene proposizioni che sono certamente vere o false ma non si può dimostrare questo fatto) ma è tale che non se ne può provare la consistenza, ovvero, in parole povere, non si può dimostrare che diverse strade verso un teorema portino allo stesso risultato. Ma è certo che tutti i matematici, e gli altri scienziati la cui disciplina dipende dalla matematica, credono che consistente lo sia, anche se non lo si può dimostrare. E qui pensiamo all’analogia con le verità rivelate nelle religioni, non dimostrabili ma non per questo da ritenersi non vere. Quanto sopra vale per la matematica teorica. Ma la matematica è anche estremamente importante per le applicazioni nell’analisi del reale che ci circonda, quando sia possibile modellizzarlo o mediante leggi esplicite o una approssimazione dei fatti osservati. Qui la matematica diventa lo strumento principe del fisico, dell’astronomo, del chimico, dell’ingegnere, i quali dispongono di leggi

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ai confini della realtà

Previsioni del tempo col beneficio del dubbio di Emilio Spedicato abbastanza precise dei fenomeni da loro studiati, e, in misura sempre crescente, anche di studiosi di altre discipline, quali la biologia, la medicina, l’economia, la finanza, le scienze sociali, la demografia etc. Per queste discipline i fenomeni considerati sono più complessi e generalmente non descrivibili da leggi deterministiche; molto importante è qui la raccolta di dati e la loro analisi statistica, che a sua volta è una tecnica matematica basata su inevitabili ipotesi.

Lasciando a un futuro articolo la considerazione della modellistica matematica per le scienze della seconda classe sopra elencate, vediamo alcune applicazioni della matematica ai modelli delle scienze fisiche e ingegneristiche. La situazione qui presenta una vasta casistica. Ci sono applicazioni in elettronica,

di matematici e ingegneri in tutto il mondo (vedasi le tecniche della Fast Fourier Transform, delle wavelets, etc). In questo caso i risultati sono precisi, anche se dipendono da parametri che possono deformare i dati iniziali; il numero di calcoli da fare è notevole ma non eccessivo. Problemi di modellistica che sono invece complessi e la cui soluzione non è ora ottenibile e forse nemmeno in futuro lo sarà con la precisione e per l’arco temporale di interesse, sono certi problemi di dinamica, in cui partendo da uno stato iniziale si vuole vedere il sistema dopo un tempo arbitrario, oppure a un certo tempo precedente. Fra questi problemi sta quello dell’evoluzione di un sistema di pianeti attorno a una stella, ad esempio l’evoluzione del nostro sistema solare. Nota la posizione dei pianeti og-

Meteorologia, sismologia, evoluzione del sistema solare, riscaldamento globale... Molti problemi di dinamica, in cui partendo da uno stato iniziale si tenta di osservare un sistema dopo un tempo arbitrario, o in un tempo precedente, si basano su modelli matematici non sempre precisi. Ecco perché... pensiamo ai sistemi satellitari che controllano telefonini e navigatori per auto, aerei e navi, che sono di estrema perfezione, frutto della capacità di rilevare segnali di piccolissima potenza ed elaborarli con grande precisione; qui il numero dei calcoli è abbastanza limitato. Rientrano ancora in questo caso le tecniche per ripulire suoni e immagini da distorsioni varie, basate su calcoli più complessi e algoritmi sviluppati negli ultimi decenni con l’impegno di centinaia

gi (e ci serve anche la velocità, data in prima approssimazione dalla terza legge di Keplero) vogliamo calcolarne la posizione dopo diciamo 1000 o un milione di anni, o similmente nel passato. Per questo scopo si usa la legge di Newton (forza eguale massa per accelerazione), considerando l’interazione fra tutti in pianeti. Questa legge definisce delle equazioni differenziali ordinarie, la cui soluzione si può ottenere con vari metodi (il più accurato, ma ignorato dagli

astronomi, pare sia un metodo dei matematici italiani Brugnano e Trigiante). Ebbene un recente confronto del comportamento del sistema solare 2000 anni da oggi in futuro e 2000 nel passato, fatto con una dozzina di formulazioni delle equazioni e degli algoritmi risolutivi, ha dato diversi risultati a 2000 anni! Questo significa che il problema ha una nonlinearità tale da richiedere una precisione sia nelle condizioni iniziali che nel calcolo della sua evoluzione al di là di quanto gli algoritmi attuali permettano. E si tratta di un problema forse non risolubile, perché di natura intrinsecamente caotica…

Simile e per certi aspetti più complessa è la previsione del tempo (vento, temperatura, copertura nuvolosa) alla distanza di giorni, settimane, mesi. E ancora di più, lo studio del fenomeno del riscaldamento globale, se veramente esistente. Qui le equazioni sono più complesse, alle derivate parziali, e richiedono condizioni iniziali su tutto il globo, nonché informazioni che ignoriamo sul vento solare, che dipende dalle macchie solari e che influisce sulle nuvole più alte. Le condizioni iniziali sono assegnabili parzialmente, sia per problemi di raccolta che di memorizzazione nei computer. Quindi le soluzioni calcolate al di là di due-tre giorni diventano affette da sostanziali errori. Conoscere lo stato meteorologico nei prossimi due giorni è comunque un risultato importante, specie per la navigazione aerea. Qualcosa si migliorerà, ma non c’è molto da attendersi. E lo stesso è vero per altri fenomeni, come la previsione dei terremoti o l’evoluzione del nostro sistema cardiocircolatorio, o più in generale del nostro sistema biologico.


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