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Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal

mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Gli scrittori civili del XXI secolo

VOCI DAL DESERTO di Filippo Maria Battaglia n tempo, erano gli scrittori italiani che denunciavano intrighi e no, il focus letterario pare infatti essersi spostato oltreconfine, ambientrame nere, almanaccando soluzioni ai principali affaire tandosi su latitudini assai differenti rispetto a quelle del Belpaese. Raccontano del dopoguerra. Avevano nomi ingombranti, scrivevaNe è una conferma la fioritura (peraltro seguita da ottime venno sui principali quotidiani e periodici a diffusiodite) dei romanzi che hanno a che fare col tema del genodi genocidi, ne nazionale, e non si peritavano di ostentare una cidio, della persecuzione, della discriminazione etnipersecuzioni, discriminazione certa iattanza, spesso dal sapore moralistico. ca, culturale e religiosa. Non è solo il caso della etnica e religiosa. Dall’Anatolia Erano, insomma, i figli del primo boom ediShoah e dello sterminio degli ebrei (su cui toriale nostrano, quello che sdoganò il tra l’altro è da poco uscito un bel romano dal Kurdistan, dal Libano o dalla Siria, romanzo facendolo diventare un genere, zo a firma di Maria Àngels Anglada Il viodal Marocco o dall’Arabia, una fioritura se non popolare, quantomeno piuttosto diffulino di Auschwitz, trad. M. D’Amico, Rizzoli, so. Scrittori che, grazie a quel successo, acquisiva147 pagine, 15,00 euro). È un intero universo fradi romanzi e di autori con no una posta ambita e inaspettata, e cioè la possibilità stagliato, dinamico, ovviamente tragico e fino a ieri deun’altissima concezione cisamente di diventare il grillo parlante della società, per la prima volmisconosciuto al lettore italiano. della libertà ta legittimata da vendite considerevoli. Nell’ultimo decennio, il continua a pagina 2 panorama è però piuttosto mutato. A parte la vistosa eccezione Savia-

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Salute di Sergio Belardinelli La felicità elettrica di Sam Paglia di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Ritorno a Cattafi di Francesco Napoli

Un filo di fumo per Simon Gray di Nicola Fano Fausta e le perle della resurrezione di Anselma Dell’Olio

De Chirico a Parigi grandezza e miseria di Marco Vallora


voci dal

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Dove l’erotismo diventa emancipazione a bambina mordevo tutti. Mia sorella Nayla porta ancora sul corpo i segni dei miei denti. Odiavo vestirmi da femmina. Mi tagliava cortissimi i capelli neri. Avevo una faccia da teppistello. Al villaggio mi chiamavano “il piccolo Hassan”. Credevano che fossi maschio. Odiavo lavarmi, tanto faceva freddo. Ero sporca a furia di andare a caccia di cavallette che mettevo in una scatola da fiammiferi dopo aver spezzato loro le zampette». Darina non è esattamente una bambina aggraziata e femminile. Eppure, ha una fortissima concezione della propria libertà. Una lezione, questa, che riceve dal padre Assim, intellettuale laico amante del cibo, dell’alcol e della letteratura. Amare tutto questo a Beirut significa rischiare parecchio. Se poi la bambina ribelle negli anni diventa un’affascinante femme fatale significa rischiare il doppio, fino a pagare le conseguenze drammatiche di quella condotta. Quando Nina Simone ha smesso di cantare di Darina AlJoundi e Mohamed Kacimi (traduzione di M. Botto, Einaudi, 139 pagine, 14,50 euro) è solo l’ultima testimonianza di un’emancipazione sessuale che stenta a radicarsi a certe latitudi-

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segue dalla prima A cominciare dal successo della Masserie delle allodole di Antonia Arslan che, se non ha di certo inaugurato un genere, lo ha decisamente rispolverato, attribuendogli una popolarità finora quasi del tutto ignota. Ambientato in Anatolia nell’imminenza della prima guerra mondiale, ha al centro la storia di una famiglia patriarcale armena che - complice anche il film omonimo diretto dai fratelli Taviani - è diventato un piccolo caso editoriale. Arslan è da poco ritornata in libreria con La strada di Smirne (Rizzoli, 286 pagine, 18,50 euro), un romanzo che con la tragica storia della precedente opera ha molto a che spartire: «Questo libro non esisterebbe se prima non ci fosse stata la Masseria delle allodole, se nell’estate dorata del 2002 non mi avessero parlato Sempad e Shushanig, Ismene Isacco e Nazim, il nonno Yerwant dal pizzetto arrogante, Zareh e la cuoca normanna, Teresa vestita di viola e la fida Dolores, zia Hanriette, la bambina che non crebbe - e tanti altri insieme a loro, voci dal deserto siriano e dalla campagna veneta, flauti di ossa, memorie perdute».

Un romanzo, dunque, nato anche in questo caso da un’esperienza biografica filtrata da testimonianze raccolte in prima persona, che per la Arslan si intrecciano anche con il vissuto di un intero popolo: «Credo che questo - ha detto qualche tempo fa la scrittrice - sia sempre più chiaro agli Armeni: un popolo orientale che ha sempre guardato a Occidente, non tanto per imitare le mode occidentali ma per impadronirsi della cultura europea. I ragazzi armeni venivano mandati a studiare in Europa o emigravano negli Stati Uniti. C’era molta emigrazione ma an-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

ni. Così può capitare ancora oggi che la letteratura libertina possa assumere un ruolo in Occidente per lo più relegato alla prosa di cattivo genere. Nel 2006 arrivò La Mandorla (Einaudi, 178 pagine, 14,00 euro) di un’autrice marocchina che scelse lo pseudonimo di Nedjma per raccontare la vita e le esperienze sentimentali di una giovane ragazza catapultata dall’ancestrale cultura del proprio villaggio, alla fuga, relativa e illusoria, della libertà sessuale di una grande città, con tanto di amante colto (e relativamente) occidentalizzato. Poi, è stata la volta delle Ragazze di Rjad di Rajaa Al-Sanea, pubblicato da Mondadori (331 pagine, 18,00 euro), una sorta di sex and the city più castigato che si traduce in un’educazione sentimentale con mille pregiudizi e restrizioni. Sempre ambientato in Arabia, Gli altri di Siba Al-Harez (Neri Pozza, 312 pagine, 16,00 euro), il racconto assai più crudo di una storia saffica, anche questo vissuto con pregiudizi claustrofobici dagli esiti drammatici. Verrebbe da dire che la narrativa erotica possa diventare il traino ideale dell’emancipazione femminile. Se non fosse che proprio quei libri, nei Paesi in cui dovrebbero arrivare, circolano pochissimo. Diventando invece preda golosa di chi, come noi, a quelle libertà si è ormai abituato. (f.m.b.)

che molta volontà di studio. Nel Veneto è universalmente noto che nel 1717 la Repubblica di Venezia ha donato all’abate Mechitar l’isola di San Lazzaro perché lui ci fondasse il suo cenobio e un centro di studi, e poi la casa editrice armena. Però anche il rinnovamento della cultura armena. Ora, Mechitar non lo ha fatto a Costantinopoli, pur capitale dell’Impero. Non è neppure rimasto in Grecia, a Methoni, dove pure aveva portato il suo piccolo ordine appena fondato, per qualche anno. Si stabilisce proprio a Venezia, perché aveva già intuito - da quell’uomo geniale che era - che la salvezza della cultura armena passava proprio per la mescolanza tra Oriente e Occidente». Ed è stato probabilmente il carattere fortemente identitario e al tempo stesso cosmopolita e trasfrontaliero a condannare quella cultura a una delle più odiose e ingiustificate tragedie del secolo scorso. Il fenomeno è però troppo radicato per essere circoscritto al solo caso della Arslan. Sempre la Rizzoli, da qualche giorno ha mandato in libreria L’età degli orfani di Laleh Khadivi (traduzione di I. Vay, 308 pagine, 18,50 euro). A essere raccontata, anche qui in un romanzo, è l’epopea del popolo curdo, che nel Kurdistan della fine degli anni Venti sarà massacrato dall’esercito del nuovo Shah, Reza Khan. L’ottica, stavolta, è quella traumatica e straniante di un bambino di sette anni, «solo un bambino, saldato al suolo dalla forza di gravità e dai suoi piedi nudi, per camminare nella polvere e sulla pietra, per invecchiare e poi morire, e diventare, come tutti i bambini prima di lui, nient’altro che polvere e pietra. È un semplice figlio di una progenie di semplici figli, nato da una maman che canta solo canzoni tristi e da un baba dal viso duro e fiero che gli ricorda, con una rude tirata d’orecchi, che è un

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

deserto

bambino fortunato a essere legato alla terra da quello stretto nodo di zie, zii, cugini che lo proteggeranno dall’eterno dardeggiare del sole, dalle cortine di monti frastagliati e dai deserti tutto attorno».

Toni lirici, quelli della Khadivi, che non diminuiranno con le vicissitudini del giovane protagonista: la morte del padre in uno spaventoso massacro che comporterà anche la segregazione in stato di schiavitù del piccolo. Con un nuovo nome, il nostro sarà educato nella fedeltà assoluta dello Shah e sembrerà integrarsi nella società persiane e nei suoi dettami, fino a scalarne gradi e posizioni. Pronto a uccidere, violentare e reprimere senza pietà il popolo che ha rinnegato. Come ha spiegato l’autrice, «L’età degli orfani segue la vita di un uomo la cui anima si divide gradualmente in due: una metà appartiene alla sua famiglia, alla sua nazione, l’Iran, e allo Shah; l’altra subisce il costante richiamo della terra in cui è nato, le montagne e le pietre e i cieli che pulsano instancabilmente nel suo sangue curdo». Una storia che non sarebbe mai stata scritta «senza i generosi racconti, i ricordi e il tempo che mi hanno dedicato le zie, lo zio e mio padre: Kambiz, Kamran, Gashi, Minu, Mandana e Fariba. I personaggi e gli eventi di questo romanzo sono di fantasia, tuttavia il testo deve molto del suo sapore ai pomeriggi e alle sere trascorsi ad ascoltare le loro storie passate». Tradizione orale, memoria storica: in questa direzione va ricerca la fortissima carica identitaria che innerva le storie della Arslan come quella della Khadivi. «Libri scritti» dunque, ma soprattutto «libri raccontati». L’oralità della scrittura pare essere davvero il vettore migliore per consacrare l’universalità di certi temi e di certi valori.

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parola chiave

ra i tanti effetti della moderna differenziazione e secolarizzazione potremmo annoverare senz’altro la progressiva ascesa della salute tra i valori più alti. Ci siamo convinti che senza la salute la nostra vita non avrebbe senso, impossibilitati come saremmo a goderne a pieno le innumerevoli opportunità. Una volta perduta la salute, non c’è più alcuna speranza; si è perduto tutto. Pertanto tutti gli sforzi possibili, dell’individuo come dello Stato, debbono essere indirizzati al conseguimento dell’obbiettivo principale che è quello, come dichiara l’Organizzazione mondiale della sanità, di «permettere alla popolazione di godere del suo diritto innato alla salute e alla longevità». Di passaggio, faccio notare che questa definizione non mi piace affatto; mi sembra addirittura che nasconda una dose insopportabile di cinismo. Esiste un diritto a essere curati in caso di malattia, ma non un diritto alla salute. Che impressione potrebbe fare a un giovane malato terminale di cancro il sentirsi dire che avrebbe addirittura un diritto alla salute e alla longevità? Lasciamo la risposta all’Organizzazone mondiale della sanità e riprendiamo il nostro discorso. Il desiderio individuale, per sé comprensibilissimo, di vivere in buona salute e più a lungo possibile finisce per legittimare qualsiasi intervento della sanità pubblica sulla nostra vita. Guai a essere troppo grassi, guai a fumare, guai a condurre stili di vita «a rischio», guai a mettere al mondo figli non perfettamente sani, guai a trascinarsi in una vita «indegna di essere vissuta». Per ora la sanzione è prevista soltanto per alcuni di questi comportamenti, ma nessuno può escludere che prima o poi lo sia per tutti. Ben vengano invece gli embrioni umani da usare come «farmaci», le tecniche più spericolate di procreazione assistita, microchip cerebrali per farci stare più allegri, protesi di vario tipo, da quelle tradizionali a quelle nanotecnologiche, per essere fisicamente più forti e più veloci; ben venga anche l’aborto, se tutto ciò serve a migliorare la salute fisica e psichica dei cittadini. È questa la nuova medicina, la medicina dell’enhancement, del miglioramento delle prestazioni umane. Già. Ma in questa prospettiva che cosa diventa la salute?

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Nel momento in cui la medicina interviene sulle «condizioni migliorabili», sia la medicina che la salute diventano concetti indefiniti, che non hanno più nulla a che vedere con la medicina e la salute come le abbiamo intese fino a oggi. La salute aveva a che fare con una sorta di «normalità naturale», di equilibrio, il quale si cercava di ristabilire (ecco il compito della medicina) ogni volta che, per qualsiasi ragione, si fosse rotto. La medicina odierna si è invece tecnoscientificizzata; è diventata sempre più dipendente da sofisticate apparecchiature diagnostiche e dal denaro per procurarsele, ma soprattutto, come dicevo, sempre più orientata, non tanto alla cura e al ripristino di qualsiasi «normalità», quanto al miglioramento e quindi allo spostamento in avanti dei limiti umani. È diventata, in altre parole, una sorta di

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SALUTE È uno dei valori più alti e in nome di esso si finisce col legittimare qualsiasi intervento della sanità pubblica sulla nostra vita. Ormai si punta a produrre una sorta di uomo nuovo e per migliorare sempre più le sue prestazioni si è disposti a oltrepassare l’umano

Il viagra universale di Sergio Belardinelli

La medicina odierna si è tecnoscientificizzata, è diventata sempre più dipendente da sofisticate apparecchiature diagnostiche e dal denaro per procurarsele. Non più orientata alla cura e al ripristino di qualsiasi «normalità», è una sorta di tecnologia per ottimizzare le nostre esistenze tecnologia di potenziamento o di ottimizzazione della nostra vita. Siamo dunque ben oltre la «medicina scientifica» che preoccupava Karl Jaspers, negli anni Cinquanta del secolo appena trascorso. Non è più soltanto questione di medici ridotti sempre di più a semplici «funzioni» (medico generico, medico specialista, medico ospedaliero, tecnico specializzato, medico di laboratorio, radiologo) e di pazienti ridotti a semplici «clienti» di una «azienda», che li cura in modo sempre più impersonale, secondo procedure standardizzate (i famosi protocolli), applicate meccanicamente sulla malattia, anziché sulla persona ammalata. Ormai si punta piuttosto a produrre una sorta di

uomo nuovo. Biotecnologie, nanotecnologie, neuroscienze, protesi fisiche e neuronali sempre più sofisticate stanno lavorando per questo. Ma il guadagno che otteniamo in termini di conoscenza e di efficienza rischia di essere pagato appunto in termini di «umanità». Un’epoca come la nostra, sempre più tecnicizzata e funzionalizzata, toglie con una mano ciò che riesce a dare con l’altra; offre certamente grandi opportunità per fronteggiare e guarire malattie che fino a ieri uccidevano senza essere nemmeno conosciute, ma al tempo stesso fa crescere in maniera esponenziale le nostre esigenze, le nostre aspettative di salute, fino a trasformare la malattia e la sofferenza

in una sorta di scandalo insopportabile. In questa prospettiva, la salute non è più un dono, il dono più prezioso che Dio, la natura o la sorte possono fare agli uomini, ma diventa un «diritto» da rivendicare a ogni costo. Se si è ammalati, bisogna guarire per forza. Se non si guarisce la colpa è dei medici.

A furia di «artifici», «artefatti», «astuzie», ci siamo come convinti che tutto dipenda da noi. E invece le cose che contano per davvero - la nascita, la morte, la salute, la malattia, solo per citarne alcune - si sottraggono a questo nostro potere. Come ha mostrato Hans-Georg Gadamer, la salute non è un «prodotto» del medico, ma «quanto è naturale in sé»; tanto naturale, che ci accorgiamo di averla quando essa va in crisi, quando la nostra «normalità» viene turbata dall’irruzione di qualcosa di «eccezionale», la malattia, che ci costringe ad andare dal medico, per ripristinare appunto il «naturale equilibrio». Ma è proprio questo equilibrio che viene reso impensabile dalla logica dell’enhancement, dalla pretesa cioè di migliorare la natura umana; una pretesa che induce tutti, sani e malati, a rivolgersi al medico per andare semplicemente «oltre»: oltre la malattia, così come oltre la salute. Il trionfo di una sorta di viagra universale, che volendo oltrepassare ogni umana «normalità», quindi ogni limite (la malattia e la morte), finisce per oltrepassare l’«umano» in quanto tale, le sue modalità di espressione privilegiate. Per farla breve, è proprio di fronte a un essere umano che soffre o che è sul punto di morire che vediamo irrompere con maggiore prepotenza il senso della nostra «umanità». Sono queste vite immerse nel dolore e nella sofferenza che chiedono disperatamente di essere accettate e, addirittura, di essere amate nella loro debolezza e nella loro alterità di esseri umani. È in queste vite che forse meglio si rispecchiano la luce e l’ombra del nostro comune destino. Essere felici, vivere bene, nonostante la sofferenza e la morte: ecco il realismo vero, e per certi versi anche drammatico, che continua a stare dietro la grande tradizione greca e giudaico-cristiana dell’Occidente. È questa la salus di cui forse abbiamo oggi massimamente bisogno, che dobbiamo curare e coltivare almeno tanto quanto la salute del corpo, nella convinzione che, al bisogno, potrebbe rappresentare, anche per la salute del corpo, la risorsa più preziosa. Chiunque abbia assistito almeno una volta un ammalato sa bene quanto uno spirito «sano» possa dare serenità, forza, coraggio nell’affrontare la malattia e quanto tutto ciò abbia ripercussioni benefiche, reali, anche a livello fisico. Una forma di «prevenzione», dunque. In questo senso davvero possiamo dire con Gadamer che «tutti noi dobbiamo curare noi stessi», imparare cioè ad «auscultare» con più attenzione noi stessi e il mondo che ci circonda, la nostra salute e il suo vero significato, ossia l’equilibrio, «la giusta misura, ciò che è adeguato a me e a ogni singolo individuo». Esattamente quanto la medicina dell’enhancement vorrebbe rimuovere dal nostro orizzonte.


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cd

musica

Sam Paglia elettricità fuori dagli schemi di Stefano Bianchi riccicore. È la parola giusta per descrivere quel che provo quando ascolto lounge music, o easy listening che dir si voglia. Sensazione che si fa più godereccia se m’imbatto in un «crooner elettrificato» (gli piace definirsi così) come Sam Paglia. Romagnolo, 37 anni, nome e cognome che mi fanno venire in mente certi vocalist italoamericani da nightclub anni Cinquanta, Sam è compositore, scrittore, illustratore, cantante, ma soprattutto virtuoso dell’organo

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Hammond, fonte del suono citazionista: sia «facile ascolto», sia soul-jazz. Non è un novellino, l’istrionico Paglia, che quando si esibisce dal vivo trasmette vibrazioni positive coinvolgendo la platea in un vortice danzereccio. Debuttante nel 1998 con B-movie Heroes, album di temi polizieschi e bossanove assortite, ha proseguito in vintage style inanellando Nightclubtropez (2000), Killer ChaChaCha (2003) e The Rare Sam Paglia (2005). Ogni titolo, promessa di magie mantenute, sottintendeva i suoi

amori musicali, «cinematici» e non: da Lalo Schifrin (quello delle colonna sonora di Bullitt con Steve McQueen e Dirty Harry con Clint Eastwood), al Quincy Jones d’epoca Big Band Bossa Nova; dagli aurei Piero Piccioni, Gianni Ferrio, Nino Rota e Piero Umiliani, agli inarrivabili Steely Dan. Fino alla grande scuola black di Curtis Mayfield, Stevie Wonder, Isaac Hayes, Billy Preston. Parterre de roi che riaffiora, ispirativamente parlando, nei mille rivoli stilistici di Electric Happiness, svelando un

artista libero da schemi e gioiosamente impegnato a far genere a sé. Accompagnato da Simo Paglia (batteria), Bob Dusi (chitarra) e da altri strumentisti cool, questo disco «dedicato ai domatori di elettricità» va aggiunto a quei pochi prodotti «senza tempo» capaci di nobilitare la musica che ci gira intorno. E allora vai col ritmo, dettando la tune chitarristica di Vespa Soul (dedicata alla sua 125 Primavera) e lanciando a briglie sciolte il boogaloo di Unka Munka Walk. Salta di palo in frasca, Sam Paglia: distilla saudade da Bobsamnova e snocciola cabaret cantautorale (Una donna scimmia: tra Paolo Conte e Fred Buscaglione); indirizza il Moog nel funk (Electric Happiness) e tratteggia suoni da spy movie (Hotel Ukraina); shakera atmosfere poliziottesche (Greasy) e coglie il frutto del jazz (Wandrè) ispirandosi al pianista Duke Pearson e alle orchestre d’Etiopia di Mulatu Astakte. E non riesco a stopparlo, quel benedetto friccicore, ogni volta che ascolto il martellante beat psichedelico di Uncle David e il farsesco tormentone «Non posso mangiare i gamberi» che avvita Sammy’s Dream su se stesso; quell’ombra di Astor Piazzolla (col paradosso di una batteria elettronica) che incornicia La nebbia gratis, ma soprattutto Mundial ’70: elisir di ricordi in bianco e nero, di quando il calcio era una cosa seria e pure divertente. Per dirla con Sam Paglia: nostalgia di un mondo normale, in chiave samba. Sam Paglia, Electric Happiness, Dejavu Records/Kizmaiaz, 14,40 euro

in libreria

mondo

DA SIDNEY CON FRAGORE

riviste

TIMOTHY SUONA DA SOLO

BENTORNATO MR. WARD

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on ci siamo mai considerati un gruppo heavy metal ma un gruppo rock. Ci siamo sempre sentiti vicini al rock, e abbiamo sempre cercato di comporre canzoni, non riff o suoni più pesanti possibile. Però ogni tanto ci escono potenti come un martello pneumatico». Nelle parole di AngusYoung, storico chitarrista di una band entrata nel mito, c’è tutto lo spirito di un’avventura mu-

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nnunciati in Italia il prossimo 13 giugno con un concerto al Mediolanumforum di Assago, gli Eagles continuano a brillare sulle scene internazionali dopo il rilancio coinciso con l’inizio del nuovo millennio. Ma, in parallelo, bassista e voce del gruppo dal 1978, Timothy B.Schmit prepara il secondo album da solista dopo Feed the fire (2001). Arrivato ai ritocchi finali, il disco si intito-

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Susan Masino racconta la storia ad alto voltaggio degli Ac/Dc in ”Let there be rock”

Bassista e voce degli Eagles dal 1978, B. Schmit prepara ”Expando”, secondo album da solista

Le 14 tracce di ”Hold time” sono l’apice di un rocker in bilico fra tradizione e innovazione

sicale straordinaria e coerente. La stessa che Susan Masino racconta in Let there be rock. La storia degli Ac/Dc (Tsunami, 288 pagine, 20,00 euro). Da quell’ High Voltage del debutto fino a Black Ice, il gruppo australiano ha inanellato una serie di classici che sono ormai entrati a pieno titolo nella storia della musica. Una storia lunga trent’anni, costellata di trionfi ma anche di gravi perdite come quella del cantante Bon Scott. Nato da anni di vicinanza alla band, e di approfondito scavo nelle vicende musicali e private, il biopic della Masino illustra la parabola del gruppo sotto una luce nitida. Un racconto che dice quanta storia contemporanea sia passata dalle parti del rock.

lerà Expando e sarà in vendita in autunno. «Ho scritto tutto io, l’ho fatto nello studio di casa mia e vi suono sopra il più possibile. È veramente ciò che rappresento», ha commentato Schmit. Si tratterà di una tracklist di brani originali eseguiti in compagnia di guest star come Garth Hudson, Graham Nash, Kid Rock, Dwight Yoakam e Blind Boys Of Alabama. Rispetto all’album precedente, nessuna collaborazione di membri delle Aquile. «Non che ci siano problemi tra noi. Ma questo disco non sono gli Eagles», precisa il bassista. Stavolta l’aquila vola solitaria.

litaria e canta la nostalgia per il passato, la ricerca di un’estetica emotiva perduta e lo fa con la sua chitarra». Elisa Bellintani presenta così su newusic.it il nuovo album di un artista eclettico e ricco di inventiva. Le quattordici tracce di Hold time sono la degna celebrazione di un rocker che da più di dieci anni innova generi e misure iscritte nel solco della tradizione statunitense, e probabilmente rappresentano la vetta della sua produzione artistica. Da Jailbird a Hold Time, passando per i duetti con la Dechanel (Never Had Nobody Like You) e Lucinda Williams (Hold Time), il disco di Ward è una gemma di passione e bravura tecnica.

a cura di Francesco Lo Dico

embrerebbe impossibile arrivare a sfiorare la perfezione ripercorrendo quel solco tracciato tanto magistralmente da Johnny Cash accompagnandosi con surf rock, honky tonk, folk, country, rock, insomma compendiando tutta la musica americana dell’ultimo secolo. Eppure. Matt Ward, riposta la scappatella artistica con Zooey Deschanel per She&Him, torna in so-


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zapping

Addio sensi di colpa: ABBASSO L’IPOD! di Bruno Giurato iamo tutti quanti utenti, chi più chi meno appassionato, e dunque abbiamo tutti quanti un senso di colpa. La voglia di catarsi spinge a dire una buona volta la verità. L’iPod è anche un po’ una cretinata pazzesca. L’oggettino di dimensioni sempre più ridotte e anonime, le cuffiette che sembrano un aggeggio da otorinolaringoiatra, sono anche un po’ il vettore di una perversione. C’entra il fatto della solitudine, anche. Perché la musica una volta ingabbiava i nostri istinti in un rito: riunirsi per sentire un disco, la puntina da appoggiare sul microsolco con la leggerezza dovuta. Certi, i più raffinati, alzavano il volume tacca a tacca all’inizio della canzone e poi «sfumavano» alla fine. Adesso, mentre andiamo in metropolitana cablati, al massimo siamo preda della sindrome ossessiva dello skip: saltare da brano 13 al 14 al 15 mentre si salta verso il vuoto nel buio della metro tra Lepanto e Ottaviano a Roma. Ma c’è anche il problema della qualità. Gli iPod e similari suonano troppo bassi di volume (le case produttrici temono cause per danni all’udito), e di conseguenza chi registra la musica la spinge a volume troppo alto. Un violino finisce per suonare forte come una batteria. E per ultimo il formato mp3. Dicono certi esperti che non danneggia il suono, ma allora perché nella mia Nona di Beethoven i timpani sembrano padelle da caldarroste? Andrà bene così. Una musica che perde di presenza tanto che una canzone sembra la fotocopia della canzone che si conosceva. Basta saperlo. E basta sapere che se la vita vira sullo sciapo non è tutta colpa della vecchiaia nemica. Basta tornare a casa, dare una schicchera al tasto bass boost dell’impianto. E darne una ai sensi di colpa.

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personaggi

jazz

Quell’insopprimibile nostalgia per Soho di Adriano Mazzoletti li appassionati di jazz non più giovanissimi ricorderanno Wild Flowers che Maurizio Giammarco e la danzatrice e coreografa Roberta Escamilla Garrison realizzarono a Roma e proposta al pubblico nel luglio 1979 nell’ambito della 1ª Rassegna internazionale «La musica è una donna meravigliosa» ideata da Picchi Pignatelli. Sono passati trent’anni e domenica scorsa alla Sala Petrassi dell’Auditorium di Roma, gremita in ogni ordine di posti, Maurizio Giammarco e Roberta Garrison hanno presentato una nuova opera, Soho Moods, uno sguardo alla Loft Scene newyorkese degli anni Settanta. «L’idea di realizzare un nuovo spettacolo di jazz e danza con Roberta Garrison - ha dichiarato il sassofonista e direttore della PMJ Orchestra - non poteva che riportarmi agli anni Settanta, decennio alla fine del quale si colloca l’inizio della nostra reciproca conoscenza, della nostra prima collaborazione, e di alcuni, per me, assai importanti trascorsi newyorkesi. Soho Moods nasce dunque come un mix di varie ispirazioni e intenzioni parallele. Il desiderio di rievocare, molto idealmente, i suoni e le atmosfere di una stagione irripetibile, densa di furori utopici e avanguardistici. La celebrazione ideale di un luogo, Soho, nei cui loft di derivazione industriale avevano trovato rifugio e si esprimevano, in quel periodo, artisti di ogni tipo votati alla ricerca e alla sperimentazione multimediale. I ricordi autobiografici di un periodo fondamentale in quanto pervaso da infinite sollecitazioni, provenienti dalle direzioni più disparate». La colonna musicale di Soho Moods è stata elaborata da Giammarco in forma di Suite. I temi di Don Cherry, Stevie Wonder, Herbie Hancock, Joe Zawinul e altri, compo-

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sti dallo stesso leader, che si rivela, ma non è certo una sorpresa, eccellente arrangiatore oltre che sassofonista di altissimo livello - lo si è ascoltato al saxalto oltre che al tenore - sono stati utilizzati da Roberta Garrison per le sue coreografie. Fusione perfetta fra un’orchestra, con sezione trombe e tromboni fra le migliori del jazz europeo e le quattro danzatrici, su cui è emersa una straordinaria Djassi Da Costa Johnson. Un concerto-spettacolo di musica e danza nato dalla collaborazione fra Giammarco e la Garrison la cui vita nel mondo del jazz ha origini antiche. Figlia di Bob Escamilla, contrabbassista, negli anni

Maurizio Giammarco e la sua Pmj orchestra

Venti, dell’Orchestra di Ted Lewis quando ne facevano parte George Brunies e Muggsy Spanier e moglie di Jimmy Garrison contrabbassista, alla fine degli anni Cinquanta con Ornette Coleman e nel decennio successivo con John Coltrane. Di questa produzione non è prevista, al momento, alcuna replica. Ce ne dispiace. Meriterebbe di essere programmata anche in altri teatri, italiani ed esteri. La Suite di Giammarco, infine, dovrebbe essere giudiziosamente registrata in studio e pubblicata su disco.

Le avventure di Spadò, danzatore barbaro

di Diana Del Monte ra il 1978, e da uno scatolone casualmente rinvenuto in una soffitta di Fermo riemergono le tracce di una vita straordinaria, quella di Alberto Spadolini. Emigrato alla fine degli anni Venti in Francia a causa di un’istintiva avversione per i regimi totalitari, Spadolini collezionò da quel momento una serie di esperienze incredibili. Artista poliedrico, fu danzatore, coreografo, pittore, attore, cantante e molto altro. A fare la scoperta è stato suo nipote, Marco Travaglini, che, rinvenuti in soffitta foto, manifesti, articoli, depliant di spettacoli e mostre, inizia a indagare sulla vita di questo suo originale zio, scrivendo su di lui alcuni articoli di costume.Travaglini pensava ormai di sapere tutto su Spadolini, quando, nel 2004, in seguito a una visita alla tomba dello zio, si rende conto di conoscere solo la punta dell’iceberg. «Novello Indiana Jones», come lui stesso si definisce, il nipote si mette così a caccia di nuove informazioni, segreti, rivelazioni, scoprendo la trama di una vita che farebbe impallidire qualunque roman-

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ziere.Travaglini decide Alberto allora di raccontare Spadolini tutto in un libro, Bolein una foto del 1937 Alberto ro-Spadò: di Dora Maar Spadolini, una vita di tutti i colori, edito nel 2007 con il patrocinio del Ministero dei Beni Culturali. Dopo la pubblicazione del libro, Travaglini continua a indagare sulla vita di questo suo eclettico parente, mettendo in luce la sua collaborazione con i Ballets Russes de Monte Carlo. Il frutto di questo lavoro esce in questi giorni, con i complimenti della Première Dame Carla Bruni Sarkozy e del Sindaco di Parigi Bertrand Delanoé, Bolero-Spadò: Alberto Spadolini nella storia dei Balletti Russi edito dal Centro Internazionale Studi e Ricerche «Alberto Spadolini» (www.albertospadolini.it). Dal libro scopriamo che, ancora in Italia, Spadolini aveva iniziato a frequentare il Teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia, di-

ventando aiuto-scenografo, ma soprattutto leggiamo dell’episodio che trasforma questo giovane scenografo in un danzatore di fama, affettuosamente ribattezzato dai francesi Spadò. Come in una favola d’altri tempi, Spadolini viene scoperto mentre lavora come decoratore in una sala da ballo francese. Durante una pausa, Spadò inizia a improvvisare per gli amici sulla Rapsodia di Liszt e, notato da un impresario, viene scritturato come fenomeno artistico. Il debutto avviene il 9 marzo del 1932 all’Eldorado di Nizza. Le foto trovate dal nipote ce lo mostrano, in seguito, mentre danza a Les Folies Bergere, al Casinò de Paris, al Metropolitan e allo Ziegfield’s Follies a New York. Insieme a Josephine Baker, con cui ebbe una tempestosa relazione sentimentale, e nel servizio fotografico a opera di Dora Maar e che tan-

to fece infuriare Picasso. Bragaglia lo definiva «un danzatore barbaro», d’istinto, pieno di «un lirismo coreico sgorgante primitivo e potente». Dal libro si apprende anche che nel ‘33 Spadolini entra a far parte del Ballet de l’Opéra de Monte Carlo, una delle compagnie nate dalle ceneri dei Ballets Russes di Diaghilev, che confluisce poi nei Ballets Russes de Monte Carlo di Balanchine e Massine. Nel dopoguerra, poi, viene scelto dalla Metro-Goldwin-Mayer per interpretare Nijinsky, dopo che erano stati scartati per il ruolo Massine e Lifar perché poco cinegenici. Nel frattempo Spadò aveva ripreso a dipingere, diventando il pittore della danza grazie ai ritratti delle baby ballerinas e della stessa Pavlova. Ricordato soprattutto nel ruolo che rivestì nel Bolero da lui coreografato e che, neanche a dirlo, venne accolto entusiaticamente dallo stesso Ravel, Spadò non ha dunque ancora smesso di stupire. Sembra, infatti, che la sua vita avventurosa non sia destinata a finire con la morte, avvenuta a Parigi nel ‘72, ma prosegua, con continui colpi di scena, attraverso il lavoro di suo nipote, Marco Travaglini.


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narrativa

libri

Identità sospese messe a nudo dalla musica di Maria Pia Ammirati l nuovo romanzo di Paola Capriolo, Il pianista muto, ritorna con Bompiani all’editore dei libri più famosi della scrittrice milanese. Un fatto di cronaca non è argomento usuale per una narratrice considerata, sin dai primi libri, una pensatrice che scava alla ricerca del mistero piuttosto che costruire trame fitte e misteriose, e anche in questo nuovo libro il fatto risulta essere più intruso che sostanza o tema di sviluppo. La cronaca riguarda il caso di un giovane pianista senza memoria ritrovato su di una spiaggia, la notizia fece il giro del mondo per la sua curiosità ed ebbe esiti inaspettati. Derive ininfluenti sul libro della Capriolo che porta all’interno del romanzo, con il pianista muto, alcune delle sue più importanti riflessioni sul linguaggio. Il pianista che non parla ma che decide di comunicare con la musica non fa altro che tornare sui grandi temi della narrativa della Capriolo: dalla perdita della memoria come svuotamento di identità del Doppio regno, al tempo musicale che unisce passato e presente del Gigante. Il pianista muto è un romanzo che tenta le strade della polifonia attraverso una fitta rete di voci che ruotano attorno alla storia principale, che andiamo a ricostruire. L’infermiera di colore, Nadine, trova sulla spiaggia vicino all’ospedale psichiatrico in cui lavora, un giovane uomo malandato. Con l’aiuto dei medici lo porta in ospedale, e dopo giorni di mutismo il giovane disegna su un foglio un pianoforte. L’infermiera ripulisce un vecchio pianoforte e dopo un iniziale diniego il pianista comincia a suonare attraendo, con il suo virtuosismo, l’intero ospedale. Il rapporto tra Nadine e il giovane è un rapporto bilanciato tra due solitudini, tra due persone ai margini

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immersi nel luogo dove essere ai margini è la regola. Su questa dorsale, narrata in terza persona, s’innestano le altre voci, le lettere dello psichiatra direttore della clinica, le confessioni di una madre che ha ucciso il proprio figlio, le memorie di un sopravvissuto ai lager nazisti, le chiacchiere di una logorroica aristocratica. Ognuna di queste presenze si palesa, appare e si rivela quando viene in contatto con la musica, la straordinaria fluidità di una lingua universale che sembra pacificare gli animi, ma sotterraneamente li agita, li mette in movimento, li mette a nudo. La musica come ponte tra due mondi quello dei normali e quello dei malati, come sottolinea il direttore del sanatorio: «La musica che ho imparato a conoscere… sotto la sapiente guida del nostro pianista, anziché lenire le ferite dei malati sembra alludere a un’inquietante commistione tra il loro mondo e il nostro».

Un mondo destinato a non ricomporsi ma anzi a rendere più evidente la separazione, come avviene in conclusione della storia quando Nadine viene licenziata e il pianista si allontana luogo la spiaggia scomparendo per sempre. Benché la costruzione del romanzo ambisca a un’architettura potente e articolata, lo sforzo polifonico è debole, le varie voci sono troppo autonome e incorporee, esclusa la storia di Rosenthal, l’unico sopravvissuto della famiglia deportata nei lager nazisti, che offre un evidente scenario tragico. Così anche il riconoscibile timbro stilistico della scrittrice, l’esattezza e la compostezza, non cedono mai il passo a sporcature che arricchirebbero in alcuni casi tanto il linguaggio che la storia. Paola Capriolo, Il pianista muto, Bompiani, 222 pagine, 17,00 euro

riletture

Bertrando Spaventa e la scuola libera ma non troppo di Giancristiano Desiderio on è che uno abitualmente legga Bertrando Spaventa. Al massimo si avrà qualche vaga reminiscenza liceale: «Spaventa, Spaventa… mi pare che sia un filosofo o un letterato dell’Ottocento». E, come risposta, tutto sommato potrebbe anche bastare. In fondo, anche all’università, chi studia il pensiero di Spaventa? Non si studia Giovanni Gentile, che pure negli ultimi anni è stato rivalutato ed è stato innalzato a «filosofo europeo», figurarsi se si può studiare un hegeliano del secolo XIX. Eppure, nella bella collana della Bompiani dedicata ai classici del pensiero occidentale, è stata ripubblicata l’opera di Bertrando, fratello maggiore di Silvio Spaventa: il primo filosofo, il secondo

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politico, entrambi hegeliani: Bertrando Spaventa, Opere. Ah, quanta parte del nostro Risorgimento è legata all’opera del filosofo tedesco. È questo un motivo sufficiente per raccomandare la lettura o, meglio, la consultazione di questo nuovo tomo della Bompiani. Ci si renderà conto, se si ha una certa confidenza con la storia della filosofia e con le cose intelligenti in genere, di quanta ricchezza spirituale ci sia negli scritti di Bertrando che passò per essere uno stretto osservatore del pensiero di Hegel, ma che fu soprattutto un profondo conoscitore di quella potente filosofia e ne seppe maneggiare la materia esplosiva con maestria e genio. Tuttavia, c’è un altro motivo per dedicare il nostro consueto spazio della «rilettura» a Bertrando Spaventa. E si tratta proprio di

una vera rilettura. Nel tomo sono raccolti anche gli scritti che su La libertà d’insegnamento. La posizione assunta da Spaventa riguardo alla libertà della scuola e dell’università - quindi, istruzione, formazione, educazione, scienza, sapere, progresso - è chiara: l’insegnamento è libero perché non può non essere libero, ma nel periodo storico che stiamo vivendo - metà Ottocento e inizio della storia dell’Italia Unita - dobbiamo saper distinguere tra libertà assoluta e libertà relativa e sapere che l’Italia oggi si deve adattare alla libertà relativa, quindi scuola di Stato, monopolio della pubblica istruzione, controllo delle scuole della Chiesa. Eccolo qui il pericolo pubblico numero 1 durante l’epoca Risorgimentale e dopo la realizzazione cavouriana, mazziniana e gari-

baldina dell’Unità d’Italia: la Chiesa con i suoi infiniti seminari. Bertrando è chiarissimo, che più chiaro non si può: la Chiesa reclama la libertà d’insegnamento per negare la libertà, la libertà come mezzo è utilizzata per neutralizzare la libertà come fine. Il filosofo hegeliano, così abituato alle contraddizioni e ai contrasti della Storia, si dibatte in questa contraddizione che appartiene alla nostra epoca risorgimentale: la conquista della libertà e la negazione della libertà d’insegnamento per affermare la libertà dell’insegnamento. Rileggendo gli scritti di Bertrando Spaventa si capisce meglio la nostra storia nazionale e la necessità di superare oggi il monopolio statale dell’istruzione. Perché centocinquanta anni di unità d’Italia non sono mica passati invano. O no?


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narrativa/2

Mission impossible per il killer dei cretini di Pier Mario Fasanotti urreale ed esilarante questo romanzo che in Francia è salito subito in vetta alle classifiche dei più venduti. Scritto in prima persona da un uomo senza lavoro che riflette continuamente, e con straordinaria arguzia, sulla più grande sciagura dell’umanità: gli imbecilli. La vicenda inizia una sera d’estate quando guarda distrattamente la televisione assieme alla moglie. Rimasto solo, s’infastidisce quando il gatto Zarathustra, della vicina di casa, s’infila nell’appartamento. Per il caldo e per un’esasperazione esistenziale, getta dalla finestra il gatto. Si stupisce ma avverte un senso di liberazione. Grazie a quell’avvenimento scatta

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cinema

la solidarietà condominiale: tutti si parlano, finalmente. Ma è anche l’inizio della strage di tanti piccoli e petulanti animali. Ci saranno altre vittime, esseri umani però, a cominciare dalla portiera con la vocazione della ficcanaso. La polizia comincia a osservarlo soltanto dopo la misteriosa scomparsa della moglie. In effetti, pensa lui, è stato un errore: mai ammazzare parenti, c’è il rischio di risalire immediatamente al colpevole. Ma l’uomo, poco alla volta, instaura un rapporto di amicizia con il commissario. Il protagonista, abile a scrivere, si trova poi coinvolto nella lavorazione di film pornografici. Scrive un copione e decide di unire sesso e cultura. È il successo, la pellicola diventa un cult-movie. Le finezze

intellettuali e i sofismi greci scombussolano la mente di chi si scalmana tra divani e materassi. Durante le riprese il macchinista e gli attori s’interessano al libro dal quale è stato tratto il soggetto, ossia il Convivio di Platone. Nasce un frenetico e appassionato dibattito in un ambiente abituato a ospitare carnalità e non pensieri. Il protagonista procede intanto nella sua missione teoricamente impossibile, ma criminalmente praticabile. Una donna gli fa domande sulla sua occupazione preferita e lui spiega che studia l’imbecillità umana. La donna è entusiasta: «È un nichilismo radicale con un tocco di sarcasmo canzonatorio. È Celine! È puro genio!». Poi aggiunge, come suggerimento, che l’unico vaccino contro i cretini

è l’immoralità. E lui, freddamente: «Anche un colpo di rivoltella». Sì, perché gli imbecilli sono quelli che rovinano la nostra vita. E ce ne sono tantissimi. Messo alle corde dalla polizia, il killer dei cretini decide di mandare un dossier a un giornale. Confessa di «avere in attivo 140 assassinii» e allega un manifesto assai utile per chi non vuole diventare vittima della scemenza dilagante. E così conclude: «Signor capo-redattore, non si faccia illusioni. Per quanto informata e in allerta, la polizia non potrà mai proteggere tutti gli imbecilli di Francia». Ovviamente prima di spedire la lettera parte. E sfida tutti a rintracciarlo. Carl Aderhold, La strage degli imbecilli, Fazi, 321 pagine, 18,50 euro

La carica dei 1001 da non perdere

di Pietro Salvatori n originale suona più romanticamente come I 1001 film che devi vedere prima di morire. Ma siccome nominare la morte, anche con un’accezione scherzosa, nel vecchio continente è cosa comunemente ritenuta sgradevole, il volume curato da Steven Jay Schneider, ricercatore e docente di cinema a Harvard, è arrivato nel belpaese sotto il titolo di 1001 film da non perdere - I capolavori del cinema mondiale. È la bolognese Atlante, la stessa che ha editato anche i volumi simili sulle 501 Star e sui 501 registi, che lo cura, in una stampa confezionata con attenzione e maestria in occasione della quinta edizione, lanciata mesi fa come strenna natalizia. Un testo controverso e, forse proprio per questo, godibilissimo. Controverso per la relativa esiguità dei film presenti, «solo» 1001, poco più dei titoli visionati da un

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qualsiasi critico cinematografico nel corso di un paio d’anni. Le critiche alla lista si sono così sprecate, innescando alcune polemiche abbastanza gustose e divertenti tra addetti ai lavori sui criteri di selezione. Ma anche godibilissimo, spaziando dall’ormai lontano 1902 del Viaggio nella luna di Georges Melies, al recente Espiazione con Keira Knightlet, con schede allo stesso tempo complete e sinteti-

scenari

che, corredate da una notevole selezione fotografica, ma soprattutto dalle brevi e ficcanti recensioni dei tanti esperti del settore che hanno collaborato al progetto. 1001 film diventa così un divertito e allo stesso tempo impegnato viaggio nel mondo del cinema di tutti i tempi, attraverso un’impaginazione che non si prefissa di stilare ulteriori classifiche, ma che ripercorre cronologicamente la selezione elaborata da Schneider. Uno strumento che servirà agli appassionati come pretesto di discussione su quali siano i migliori film di sempre, ma anche ai profani, coloro che a mala pena pensano di arrivare a 1001 film nel corso di una vita, grazie a una sintesi informativa e a una completezza critica invidiabili.

1001 film da non perdere - I capolavori del cinema mondiale, a cura di Steven Jay Schneider, Atlante, 960 pagine, 35,00 euro

Reportage dall’impero del compagno Putin di Enrico Singer mitri Medvedev partecipa al G20 di Londra, incontra Barack Obama ed è corteggiato dalla nuova amministrazione americana che cerca l’aiuto di Mosca per la sua nuova politica di dialogo con l’Iran.Vladimir Putin che, dietro il paravento del suo temporaneo ruolo di primo ministro, resta il vero padrone del Cremlino, è l’interlocutore numero uno di Nicolas Sarkozy, Angela Merkel e di Silvio Berlusconi nella speranza di mettere al sicuro i rifornimenti di gas. E se tutto questo significa rinunciare, da parte della Casa Bianca, al progetto dello scudo antimissile voluto da

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George Bush o vuol dire, da parte europea, abbandonare al loro destino Ucraina e Georgia sbarrando la strada di Kiev e Tbilisi verso la Nato, poco importa. A guardarla dall’esterno, da come la considerano le cancellerie occidentali, la Russia sembrerebbe già un protagonista a tempo pieno di quel «governo mondiale» che le potenze democratiche inseguono per risolvere le crisi con gli strumenti della politica e non della guerra. Tutto bene, allora, oppure in questo clima di buonismo generale c’è qualche cosa che non funziona? La domanda se la pone Emanuele Novazio, giornalista di grande esperienza internazionale della Stampa, in un libro appena uscito che, già nel

titolo, propone una risposta: Back in Urss, reportage dal nuovo impero russo. Come dire che - con buona pace delle diplomatiche analisi dei nostri governanti - quello che Putin e il suo clone Medvedev stanno facendo ha un solo, preciso, ambizioso obiettivo: restituire alla Russia il potere che fu dell’Unione Sovietica. Con tutti i suoi corollari: dalla riaffermazione delle sfere d’influenza, alla ricostruzione di un equilibrio sostenuto dalla minaccia nucleare. Il libro di Novazio, che nel titolo richiama una delle canzoni dei Beatles, comincia con una notazione sfuggita a molti: la guerra-lampo in Georgia della scorsa estate è scattata esattamente nel quarantesimo

anniversario dell’invasione della Cecoslovacchia riproponendo, non a caso, la dottrina della «sovranità limitata». Da questo punto di partenza, il sistema di potere di Putin è analizzato in tutti i suoi aspetti: l’energia, le forze armate, la lotta agli oligarchi per il controllo dell’economia, il maglio sulla stampa, l’ideologia granderussa che ha sostituito il marxismo-leninismo dei tempi sovietici, il ruolo della Chiesa ortodossa. Un libro che aiuta a capire la Russia di oggi. E forse quella di domani. Emanuele Novazio, Back in Urss, reportage dal nuovo impero russo, Guerini editore, 167 pagine, 19,50 euro

altre letture Il dibattito su Chiesa e laicità dello Stato assume oggi toni sempre più accesi. Ma come si è sviluppata in Occidente la riflessione su cosa sia di pertinenza della Chiesa e cosa dello Stato? A partire dalla famosa frase di Gesù nel Vangelo di Matteo «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio», le pagine del saggio Cesare e Dio di Marco Rizzi (Il Mulino, 672 pagine, 18,00 euro) tracciano il percorso difficile e tortuoso della relazione tra potere secolare e potere temporale mostrando come, nelle varie epoche e alla luce degli eventi storici, quella affermazione sia stata diversamente interpretata. Dalle origini del cristianesimo fino all’emergere degli Stati moderni, l’autore fornisce un quadro in cui si ritrovano le radici di una relazione complessa. Ogni vita merita un romanzo. Il purtroppo delle cose (Fazi editore, 219 pagine, 16,50 euro) di Dimitri Verhulst, è la dimostrazione che anche una vita segnata da emarginazione e povertà può essere la base da cui scrivere un grande romanzo. Verhulst in questo romanzo torna a fare i conti con la sua infanzia difficile costruendovi una tragicommedia, che è diventata la cifra del suo stile. E così attraverso una serrata, esilarante sequenza di aneddoti prende corpo la bizzarra quotidianità di un nucleo famigliare che consuma i propri giorni tra risse nei caffè, grandi mangiate e sconclusionati abbordaggi. «È importante

rendersi conto che, proprio come il fisico, anche la mente ha bisogno di esercizi e stimoli quotidiani per non invecchiare. È questo il segreto per rimanere mentalmente giovani. Perciò se ci tenete a mantenervi in forma e con una mente fresca, concedetevi qualche minuto al giorno per il vostro brain training». La raccomandazione è del neuroscienziato giapponese Ryuta Kawashima della Tohoku University che in Brain Training (Mondadori, 194 pagine, 13,00 euro) fornisce centinaia di esercizi che costituirebbero il metodo rivoluzionario per sviluppare la creatività, potenziare la memoria, migliorare le capacità espressive, rallentare gli effetti dell’invecchiamento cerebrale. a cura di Riccardo Paradisi


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anticipazioni

ESCE “SENZA FILTRI”, DIARIO TEATRALE DELL’AUTORE INGLESE SCOMPARSO L’ESTATE SCORSA, AMICO E SODALE DI HAROLD PINTER. UN ESEMPIO DI ARTE MEMORIALISTICA FATTA DI INCONTRI, RACCONTI DI QUOTIDIANITÀ SCENICA, SUGGESTIONI DI CRONACA, RIFLESSIONI

Un filo di fumo per Simon Gray di Nicola Fano imon Gray aveva una concezione estetica del fumo. Nel senso che, più della dipendenza, in lui pesava il piacere e - voi capite - di fronte a un piacere è difficile che ci si tiri indietro. Eppure a un certo punto della sua vita aveva smesso di bere (e anche bere è un piacere), sicché fumava anche tre pacchetti di sigarette al giorno con una certa soddisfazione e con molta tenacia. In teatro è vietato fumare da molti più anni di quanto non lo sia - in genere - negli altri locali pubblici tipo bar o ristoranti. È vietato fumare, nei teatri, per la ragione semplice e comprensibile che con tutti quei velluti e quel legno, provocare un incendio è di una semplicità preoccupante. È vietato, ma questo non

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glierete il senso della differenza fra il teatro italiano e quello inglese. La praticità creativa da una parte (sto parlando dei casi migliori, in Italia, naturalmente, non della media) e il rigore formale, bello finanche a vedersi senza ascoltare, al limite senza pensare, dall’altra. Io credo che dipenda dagli attori, dal loro modo di essere bravi, in Inghilterra: è il frutto di una scuola antica e sapiente che non spaccia il realismo per vecchiume e non accredita l’approssimazione come avanguardia. Potenza degli inglesi e della loro capacità di sorridere soprattutto di se stessi! E Simon Gray, fra gli autori inglesi, era sicuramente il più inglese. Come capirete fin dalle prime pagine del libro che avete per le mani.

Nato nel 1936 nello Hampshire, Londra era diventata la sua patria. Lì ha sempre vissuto, scrivendo, bevendo per un po’ e fumando fino alla fine. Aveva un faccione tondo e sfoggiava una capigliatura stravagante, ma con moderazione vuol dire che non si fumi, a teatro: altrimenti come avrebbe vissuto molte delle sue giornate Simon Gray, chiuso nei teatri di mezzo mondo a seguire le prove e poi gli allestimenti dei suoi spettacoli? La soluzione è un secchio di plastica pieno d’acqua (di quelli che una volta si usavano per sciacquare lo straccio per lavare in terra) che in genere il regista-fumatore o l’autore-fumatore si tiene da canto, per buttare la cenere o le cicche accese. Questo in Italia. In Gran Bretagna è diverso. In Gran Bretagna il secchio di plastica è di ferro, più grande dei nostri ed è pieno di sabbia. Ecco: provate a mettere a confronto il secchio di plastica, sporco e zeppo di sigarette smozzicate che galleggiano nell’acqua, e quello di ferro, sobrio, con una sua eleganza evidente dovuta all’ordine delle sigarette spente a testa in giù, e co-

Simon Gray, il suo studio, Nathan Lane e Pamela Gray sulla scena in “Butley”, Barbara Jefford e Peter Bowles in “The Old Masters”, Harold Pinter. Al centro un disegno di Michelangelo Pace

Simon Gray non è conosciuto in Italia perché era un uomo di teatro. E basta. Ma nel suo paese era molto popolare: aveva firmato commedie, ma anche racconti, romanzi, sceneggiati televisivi e film teatrali, nonché libri di memorie impertinenti, di cui questo Senza filtri è l’ultimo: Gray è morto nell’agosto dello scorso 2008 a poco più di settantun anni, poiché era nato nel 1936 nel cuore dell’antica Inghilterra, nello Hampshire. Dopo l’infanzia, Londra era diventata la sua patria e lì sempre ha vissuto: scrivendo, bevendo (per un po’) e fumando (fino alla fine). Aveva un faccione tondo che lasciava percepire dolcezza e poco rispetto per la propria salute. E soprattutto portava cappelli strani come li portano spesso gli artisti inglesi (stravaganti ma sempre con moderazione). Al punto che non si sa se quel vezzo sia stato introdotto


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da lui o dal suo amico di sempre Harold Pinter, il quale a propria volta in materia di copricapo non scherzava davvero. Di fatto, Gray e Pinter facevano coppia fissa, nel senso che erano amici antichi. Le pagine iniziali di questo libro, in proposito, nascondono una gemma che vorrei aiutarvi a cogliere. Quando Gray racconta di aver appreso la malattia dell’amico scrive: «È sempre stata una delle condizioni, una condizione assoluta del mio rapporto con lui, per come l’ho intesa io, che lui sarà ancora al mondo quando io l’avrò lasciato, proprio come lui c’era già prima che io arrivassi». Leggendo queste parole, mi ha colpito pensare che così è stato, perché Pinter è morto quattro mesi dopo Gray: sono sicuro che Gray, morendo, almeno di ciò sarà stato contento. Insomma, di Gray qui da noi per lo più si sanno solo due cose: che è l’autore del quale Pinter è stato spesso regista e che è l’intellettuale che pochi giorni prima di morire criticò il limite britannico di essere troppo accondiscendente nei confronti delle minoranze islamiche. Un vezzo e un’eresia: due termini molto adatti a capire la peculiarità del suo teatro. Che è fatto di verosimiglianza ma anche di ricami verbali: qualcosa che da noi non ha casa. Siamo abituati a non considerare il teatro come un luogo dove si va per pensare, semmai un luogo dove si va a farsi stupire da qualche aspirante esteta (in genere ricco solo di eccessi di denaro pubblico e di scarso gusto) o dove si va ad ammirare la filiazione dei nostri attori del Duemila al teatro all’antica italiana che era un genere anzianotto già un secolo fa, tondo tondo. Gli inglesi hanno un’altra idea della vita e del teatro. Che non è quella che con il teatro si possa fare la rivoluzione (mai fatte rivoluzioni cruente, gli inglesi, ci sarà pure una ragione!), ma che sia uno strumento di comunicazione al servizio dell’arte dell’attore. Perché, come ho già detto, gli attori inglesi da secoli sono i più bravi del mondo, ma hanno la convinzione di dover andare in scena con qualcosa di sensato da dire. Ed ecco che si rivolgono agli autori-intellettuali, affidandosi loro sia per la costruzione drammaturgica sia per peculiarità dialogica. In altre parole: gli attori inglesi sanno di essere uno strumento nelle mani del teatro e sanno che il teatro - per essere - ha

ce in genere, si è dedicato, rimanendovi sempre fedele con grande soddisfazione. Ecco perché a Londra abbiamo avuto un Tom Stoppard che ha provato anche un po’ di fastidio quando gli hanno chiesto insistentemente di portare al cinema il suo Rosencrantz e Guildenstern sono morti. Ecco perché a Londra abbiamo avuto un Harold Pinter che con le sue parole da teatro - e solo con quelle - è arrivato fino al Nobel. Diciamo che in Gran Bretagna il teatro basta a se stesso, mentre altrove (in Italia, ma non solo) si usa il teatro come mezzo per raggiungere altri fini. È un confronto impietoso, lo so, ma non possiamo sottrarci dall’obbligo di farlo; se non altro per capire noi stessi.

Resta da dire qualcosa di Gray, dei suoi personaggi buffi e falliti, dal debutto nel 1967 con Wise Child (in scena c’era Alec Giunness, a proposito di attori grandi) al grande successo raccolto con Butley nel 1971 (con Alan Bates, diventato poi suo interprete prediletto), da Quatermaine’s Terms del 1982 a The Holy Terror del 1992. Ma bisogna ripetere fino alla noia che Gray in teatro ha fatto davvero di tutto: dal vaudeville classico agli adattamenti (restano mitici un suo Idiota dostoevskiano e una riscrittura in chiave novecentesca di Tartufo di Molière). Ed è un’altra cultura quella che si respira nelle sue pagine, per il semplice fatto che lì a Londra la parola è un’industria, la memoria è un valore e la cultura ha una sua dignità riconosciuta. Non ci si improvvisa come qui da noi e soprattutto la politica partitica (in Gran Bretagna) non ha mai messo le mani sulla cultura (teatro compreso). Malgrado la signora Thatcher. È per questo, per esempio, che un uomo di sinistra come Simon Gray negli ultimi giorni della sua vita ha potuto attaccare il direttore del National Theatre Nicholas Hytler dicendolo più accondiscendente nei confronti delle presunte suscettibilità islamiche che nei confronti di quelle cristiane… Perché quando sentono parlare gli intellettuali, gli inglesi non «mettono mano alla pistola» come invece, per esempio, qui da noi in Italia hanno ripetuto tra il serio e il faceto tre «statisti» del livello di Benito Mussolini, Bettino Craxi e Silvio Berlusconi. Il teatro in Gran Bretagna ha

Di lui qui da noi si sanno due cose: che è l’intellettuale che poco prima di morire criticò la tendenza britannica di essere troppo accondiscendente con le minoranze islamiche e che il Nobel Pinter è stato spesso il regista delle sue commedie bisogno di molti strumenti. Autori compresi. Vedete: in Gran Bretagna i cosiddetti tabloid, cioè i giornali popolari, volgari, zeppi di gossip, vendono quotidianamente milioni di copie; addirittura si può dire che il gossip peggiore sia stato inventato lì. Eppure nella stessa Gran Bretagna un documentario di cultura in prima serata televisiva è capace di essere il programma tv più seguito del giorno. La cultura (parola molto generica, me ne rendo conto, ma qui è utile a intendere il tutto) non fa paura e né, come invece avviene da noi, è vissuta come un orpello inutile. Insomma: fare l’autore teatrale è un mestiere, in Gran Bretagna; un mestiere anche abbastanza remunerativo. Ed ecco perché a Londra abbiamo avuto un Simon Gray che per l’intera vita proprio al teatro di dialogo, di riflessione, insomma «di parola», come si di-

Un libro, molte sorprese È tutto merito della Faber and Faber, una delle più importanti case editrici di cultura inglese, e oggi dell’editore Gaffi, se arriva nelle nostre librerie Senza filtri, ultima opera in forma di diario di Simon Gray. Sì, perché fu appunto la prestigiosa casa editrice della «perfida Albione» a incaricare negli anni Ottanta l’autore di teatro, amico di Harold Pinter, regista abituale delle sue commedie, a tenere un diario pubblico, un manuale della vita teatrale. Un esempio di arte memorialistica fatta di incontri, racconti di quotidianità scenica, suggestioni e riflessioni da cui abbiamo tratto l’introduzione di Nicola Fano qui pubblicata. Un libro (in questi giorni in libreria, 359 pagine, 14,00 euro) che oltre a svelarci la personalità di un autore da noi poco conosciuto (è scomparso lo scorso agosto, poco più che settantunenne) può riservare, come racconta Fano, inattesi risvolti…

casa, funzione e rispetto. E mercato. Di questo mercato Gray è stato uno dei protagonisti più smaliziati. Al punto che negli anni Ottanta Faber and Faber (una delle maggiori case editrici di cultura, da quelle parti) gli ha chiesto di tenere un diario pubblico, un manuale di vita teatrale, o di vita intellettuale, a seconda dei casi. Incontri, racconti di quotidianità scenica, suggestioni di cronaca, riflessioni alte e basse. Ne sono nati libri di forte spasso (e spessore) ma anche di buon successo. Di cui questo Senza filtri è l’ultimo, come detto. L’ultimo diario, consumato in una sigaretta accesa appoggiata sul portacenere e nel cui filo di fumo si disegna il faccione di Simon Gray. Una precisazione d’obbligo, di cui presto capirete meglio il senso. Finito di leggere questo libro, ho smesso di fumare.Vedi, alle volte, la forza suggestiva del teatro…


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tv

di Pier Mario Fasanotti

Damages A la fiera delle vanità nella Grande Mela

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Prato stanno girando una fiction sulla fiction che si chiama La suite. Mai satolli di reality, fanno una sorta di metaromanzo televisivo, imperniato sulle ambizioni di alcune fanciulle, col corpo generosamente esibito, di partecipare a programmi in grado di lanciarle nel mezzo cielo della notorietà. Il cardine su cui ruota tutto è una scollatura, è un tatuaggio che dal polpaccio sale maliziosamente, fin dove non si sa, così assicurano. È la televisione che si guarda allo specchio e si racconta. Orgogliosamente aggrappato ai miei pregiudizi - che riguardano la qualità e non le cosce delle giovani signore, s’intende - prevedo che il prodottino sia una boiata pazzesca per dirla con Fantozzi. Nulla c’è di peggio del casereccio pretenzioso. E mi viene nostalgia di Dallas, la prima grande fiction a puntate che tradusse sul piccolo schermo il meccanismo del fotoromanzo. Ma oggi una nuova Dallas però esiste, ed è in onda sull’aggressivo canale Axn di Sky. Si chiama Damages, ogni venerdì alle 21. Intere pagine di giornali hanno annunciato l’evento (seconda serie: la prima me la son persa) che punta su due volti notissimi: Glenn Close e William Hurt. Ottimi attori, e questa è già una garanzia. Serie da accostare immediatamente a Dallas per queste ragioni: la vicenda si svolge in un ambiente di ultraricchi, la trama si snoda tra ambizioni, tradimenti, agguati sentimentali e professionali, gara a chi è più furbo e squalo nella New York dei galà della falsa beneficenza e degli intrighi finanziari, quelli insomma che fanno ribrezzo al presidente

Barak Obama e a tutta l’America dal cuore sano. Glenn Close fa la parte dell’avvocato perfido e affamato di soldi e di fama. Le riesce bene, anche perché lei, come donna, proviene dall’ambiente aristocratico (classe 1947, figlia di un famoso chirurgo). Un cenno, una mezza parola, uno sguardo obliquo sono credibilissimi nel suo viso. E ce la fanno ricordare nella cattivissima parte dell’amante (primo caso di stalking violento descritto dal cinema) che ebbe in Attrazione fatale (’87), in Le relazioni pericolose (’88) e anche nel disneyano La carica dei 101 dove indossava la maschera maligna di Crudelia De Mon. C’è un oscuro omicidio da chiarire. Al contempo un brutale suicidio, compiuto dinanzi a due persone, entra nei sogni e nelle veglie dell’avvocato Patty Hewes (la Close). Alla spietata iena forense si affianca la bella e giovane Hellen Parson (Rose Byrne). A quest’ultima il copione affida l’incarico di assumere due volti: quello della brava e candida neo-laureata, assistente invidiabile da qualsiasi legale, e quello della vendicatrice (ha trovato in un lago di sangue il cadavere del fidanzato) che si barcamena tra pulsioni di morte e traballante vocazione al perdono. Il tutto sullo sfondo di una psicoterapia di gruppo che ricorda molto le sedute degli alcolisti anonimi. Lo svolgimento dell’azione comprende numerosi flash back, tutti infilati nel frullatore della suspence di un legal thriller che è anche specchio veritiero dell’upper class della Grande Mela. In questo ambiente, dove i soldi non mancano mai e se mancano è solo una pausa breve, i protagonisti pensano solo al lavoro e - è il caso di dirlo - fanno una vita schifosa. Non è per moralismo che lo dico: basta guardare che tipo di giornate hanno quei tipi, senza il calore di un affetto sincero. Burattini ben vestiti in una ininterrotta fiera delle vanità, spazio dove si agitano corruzioni, imbrogli, crimini. Il marchio tradizionalmente americano vuole che ci sia lo zampino (assai arguto) dell’Fbi, intenzionato a scoprire la verità e a distruggere quel castello di carta odiosa e sanguinante che sorge all’interno di una città fissata nella telecamera con il colore del ghiaccio sporco, assolutamente non da cartolina ed efficacissimo. È proprio l’abilità dei registi americani che ci rende sospettosissimi davanti alle cosce tatuate della fiction girata a Prato.

games

CHIEDILO A WOLFRAN

video

dvd

UNA FINE A TUTTO GAS

LA MINACCIA DI HUGO

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isponibile entro la fine di maggio, il nuovo concorrente di Google si chiama Wolfram Alpha. Presentato a Harvard nei giorni scorsi, il nuovo motore di ricerca ha tutte le intenzioni di rivoluzionare le abitudini dei navigatori grazie a un sistema di indagine intelligente. Avvalendosi di un algoritmo particolarmente complesso, Wolfram sarà in grado di indicizzare i risultati di que-

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l surriscaldamento globale è nel mondo dei videogiochi solo uno splendido spunto per mettere alla prova le capacità di mimesi dei guidatori più incalliti. Con la pioggia o il temporale, in uno scenario apocalittico in cui il meteo si tramuta in una variante della roulette russa, i bolidi di Fuel, ancora in versione beta, hanno a disposizione 14 mila chilometri di tracciati in una

uando finirà il petrolio di tutto il mondo, al Venezuela ne resterà ancora molto. Per questo dobbiamo difenderci». Hugo Chavez apre così La minaccia, documentario di Silvia Luzi e Luca Bellino, che segue il presidente sudamericano fino alle falde del fiume Orinoco, dove sorge la più grande riserva mondiale di oro nero. Un viaggio che attraversa le contraddizioni del regime ve-

Presentato ad Harvard, il nuovo motore di ricerca replica le istanze del linguaggio umano

Creato dalla Codemaster, ”Fuel” ambienta le gare su pista nell’era del global warning

Silvia Luzi e Luca Bellino seguono Chavez in un viaggio nelle contraddizioni del Venezuela

ring in base alle istanze degli utenti e di replicare le dinamiche di domanda e risposta proprio come avviene nel linguaggio umano. Il richiedente potrà cioè appellarsi direttamente alla rete con richieste del tutto simili a quelle che presiedono al campo verbale. Sarà possibile inoltre incrociare dati di diversa natura e commisurare in base a valori statistici eventi e curiosità di ogni genere, come ad esempio quante auto possono coesistere in un dato ponte, senza alterarne i livelli di sicurezza. Wolfram Alpha si propone insomma come step evolutivo del motore di ricerca, che abbandona la brevità matematica a favore di canoni sempre più vicini alla semantica verbale.

terra spopolata e ridotta ormai a pochi insediamenti sopravvisuti al disastro. L’ultima creatura di Codemaster, fa delle gare off-road il suo punto di forza. Disponibili circa 70 eventi carriera principali, col solito annesso e connesso di raid, caccia al checkpoint, curve pericolose e competizioni in pista, il global warning aggiunge all’offerta di Fuel un’eccitante dose di incertezza. Una specie di cabala atmosferica, che come in Formula uno, rende decisivo il fattore pioggia e l’abilità del pilota di fronte alle avversità di un futuro che vedrà la Natura sempre più matrigna.

nezuelano a nove anni dalla rivoluzione bolivariana. Lavoro cooperativo, sogno di democrazia socialista, sanità pubblica. Ma anche sessanta morti violente a settimana, ospedali disastrati, blacklist di dissidenti e limitazione della libertà di stampa a favore della propaganda massiva. Da La minaccia emerge il ritratto di un Venezuela sospeso tra la speranza di un nuovo modello di società e il terrore di una deriva totalitaria che attribuisce a titolo e messa in scena una duplice valenza. Sulla scia del Comandante di Stone, l’opera si segnala per la virtù di testimoniare la realtà sul campo. Immediata, senza filtri, è stata acquistata (e mai mandata in onda) dalla Rai.

a cura di Francesco Lo Dico

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cinema Fausta e le perle della resurrezione MobyDICK

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di Anselma Dell’Olio

l cuore di Il canto di Paloma, la sua ragione d’essere, ci sono crimini spaventosi, di quelli che persino il più scaltro film dell’orrore esiterebbe a mettere in scena. Per fortuna il senso del film non è solo nella paura paralizzante che la protagonista ha ereditato per via materna, ma nel viaggio intrapreso verso la sua esorcizzazione. Il film peruviano, il cui titolo originale, La teta asustada si traduce come Il latte del dolore, è il secondo lungometraggio della regista trentaduenne Claudia Llosa, e vincitore dell’Orso d’oro al Festival di Berlino 2009. Racconta la storia di Fausta (Magaly Solier, un viso indelebile), una ventenne marchiata in profondità dallo spavento esistenziale contratto nel grembo della madre.

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Il film apre con Perpétua sul letto di morte, la mamma cantastorie che ricorda sempre la sua tragedia alla figlia perché la memoria della sua disgrazia non muoia: lo stupro subito durante la gravidanza, nel ventennio di terrorismo scoppiato a causa della guerra ingaggiata con lo Stato da due raggruppamenti rivoluzionari di sinistra. Si trattava dei maoisti di Sendero Luminoso e del Movimiento Revolucionario Tùpac Amaru; la Commissione diVerità e Riconciliazione, creata in Perù nel 2000 per determinare gli effetti della guerra, calcola che nella violenza durata dal 1980 al 2000, sono morti settantamila cittadini peruviani, la maggior parte di questi nelle aree andine di lingua quechua, come la famiglia di Fausta. Non è dato sapere se i colpevoli dei mostruosi atti raccontati dal film erano guerriglieri di Tùpac Amaru, di Sendero Luminoso o soldati dell’esercito, ma è chiaro che chiunque fossero, per loro il padre di Fausta stava dalla parte sbagliata. Per questo l’uomo era stato ucciso, mutilato e Perpétua, la moglie incinta (Bàrbara Lazon) violentata; rappresaglia ritenuta insufficiente, perché la brutalizzata vedova è anche costretta a mangiarsi (sic) il pene del consorte. Secondo il folklore della cultura indigena, questa sofferenza cosmica è

gioco forza trasmessa a Fausta direttamente dal latte materno, con conseguenze feroci sulla psiche della ragazza che vive nel terrore non metaforico di subire la stessa sorte. A tal punto che la tremebonda giovane ha inserito nella vagina una patata come scudo a difesa della propria castità. Poco dopo l’inizio della storia la madre muore, e Fausta è consumata dal desiderio di darle, a parziale risarcimento, funerali degni al loro villaggio d’origine, lontano dalla periferia di Lima dove si sono trasferiti anni prima in casa dello zio Lucido (Marino Ballòn). Il racconto si snoda tra i preparativi per il matrimonio in pompa di Maxima, figlia di Lucido e cugina di Fausta, il lavoro in un’elegante villa che le trova la zia perché la giovane possa pagare le spese delle esequie desiderate per Perpétua, e dagli svenimenti causati alla protagonista dal germogliare della patata in un «terreno» tanto anomalo. Ogni dettaglio del film compone un mosaico che rac-

gazzo padre, è in carcere per un reato che la madre nemmeno conosce. La donna, però, dice a Fausta: «Lui lo nega, ma indubbiamente qualcosa avrà fatto di male, se no non l’avrebbero messo in galera». Mostra alla ragazza la sua camera e le raccomanda di farsi la doccia e usare gli articoli da toilette preparati per lei sul letto prima di mettere la divisa: shampoo, spazzola, sapone, forbicine (anche una sola unghia troppo lunga può portare al licenziamento in tronco). L’uniforme consiste in una sobria gonna a pieghe con cardigan intonato.

La ragazza all’inizio è perplessa, perché non va mai a gambe scoperte, per non sentirsi ulteriormente vulnerabile alle aggressioni maschili. Ma la timorosa india è anche caparbia: deve seppellire la madre, lo zio vuole il cadavere fuori di casa prima del matrimonio di Màxima, e dunque non può permettersi di perdere il posto appena trovato. Perciò infila golfi-

Racconta delle violenze in Perù a seguito della guerra tra Sendero Luminoso, i Tùpac Amaru e l’esercito governativo “Il canto di Paloma” di Claudia Llosa. Violenze perpetrate specialmente nelle aree andine di lingua quechua, quelle dove nasce la protagonista del film conta un pezzo della realtà peruviana. La baraccopoli dove vive la protagonista con la famiglia dello zio è sommersa in un paesaggio di polvere, di terra arsa e disseminata di arnesi e altri oggetti scartati in decomposizione e di abitazioni raffazzonate. Il contrasto con la spaziosa villa immersa nel verde della pianista concertista Aida (Susi Sanchez), con la saracinesca che separa la proprietà dal mercato della brulicante e pericolosa periferia che lo circonda, è eloquente e senza bisogno di altro commento demagogico. Fausta è stata assunta per dormire nella villa ed essere a disposizione della padrona, che è sola. La titolare, una comare della zia, da poco è costretta a occuparsi di notte dei nipotini. Il figlio della governante, ra-

no e gonna sopra i pantaloni d’ordinanza. Magaly Solier, che interpreta Fausta, è attrice feticcio della Llosa. Era anche la protagonista del primo lungometraggio della regista, Madeinusa (gioco di parole su un vero nome di battesimo femminile e la denominazione d’origine manifatturiera) ed è lei che rende credibile e tollerabile una trama che sembra uscita dalla fantasia malata di un pervertito, mentre appartiene alla recente storia peruviana. Solier ha lunghi capelli neri setosi, con una frangia che le copre le sopraciglia, mettendo in risalto il suo sguardo intelligente e guardingo. Per quasi tutto il film, i molti primi piani della ragazza mantengono il nostro interesse, per la vasta gamma di tonalità che l’attrice riesce a dare alle paure e alle evoluzioni in-

teriori della protagonista. Anche Fausta canta, ma diversamente da Perpétua, inventa metafore per esprimere la sua dolorosa eredità, come quella di una colomba ferita o di una sirena triste. La pianista Aida è incantata dalle canzoni della sua nuova cameriera, particolarmente da quella sulla sirena. Quando, però, chiede alla ragazza di cantargliela ancora, lei risponde che le canzoni le inventa spontaneamente, e non sa rievocarle a comando. Allora Aida le canta un brano della melodia, e Fausta riesce ad accontentarla. Il rapporto con la pianista, che appartiene alla classe dirigente di discendenza spagnola, è importante nell’evoluzione della giovane, da uno stato di chiusura e timor panico, a un atteggiamento più aperto e fiducioso verso la vita e gli uomini. Sarebbe riduttivo e fuorviante interpretare le due donne come «nemiche di classe». È a servizio da Aida che conosce Noé, il giardiniere che si offre di accompagnarla a casa (Fausta non va mai da nessuna parte da sola) portando a braccio la sua bicicletta su per una scenografica scala attraverso le dune, quando un parente non può venire a prenderla. È Aida che durante il suo concerto, alla presenza di «tutta la Lima che conta», suona una composizione di Fausta come bis. È sempre Aida che, mentre tornano di notte in macchina dopo il concerto, obbliga la ragazza a tornare a casa da sola a piedi, rifiutando di fare il medico pietoso che rende ancora più purulente le sue paure. È anche all’origine di una metafora rappresentata da una bellissima collana di perle, che si rompe, spargendo per ogni dove le singole palline. «La signora» promette che se Fausta ritroverà tutte le perle, farà infilare la collana di nuovo e gliela regalerà. In moltissime tradizioni popolari, mai menzionate nel film, le perle rappresentano lacrime. Alla fine Fausta le ritrova tutte e le tiene strette in mano persino sotto anestesia. Alla fine si capisce che le sue lacrime resteranno racchiuse in un bellissimo filo di perle, che darà luce al suo viso, sostituendo per sempre il cappio buio del passato.


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poesia

Ritorno a Cattafi di Francesco Napoli on mi sembra che abbia molto giovato a Bartolo Cattafi (19221979) il trentennale della sua scomparsa, anzi, pare che la sua scomparsa dall’interesse critico se possibile si sia perfino accentuata. In fondo, così come è stato nei suoi lunghi anni trascorsi a Milano, anche lui poeta con la valigia pronto a giungere nel capoluogo lombardo dall’estremo opposto della Sicilia, Cattafi ha patito una colpevole distrazione. Non che gli siano mancati recensori ed estimatori, su tutti Giovanni Raboni tenace amico e diffusore dell’importanza del suo lavoro poetico, ma è sempre venuto meno il giusto riconoscimento del suo valore. A mio avviso non gli avrà giovato un’iniziale collocazione nell’area della cosiddetta «linea lombarda» dalla quale, in realtà, distava un bel po’. Poi anche quel suo lungo silenzio tra le raccolte L’osso, l’anima (1964) e il risveglio portentoso di L’aria secca del fuoco (1972) deve in qualche misura aver contribuito all’inopinato allontanamento dal pensiero critico coevo. «Cominciai a scrivere versi in preda non so a quale ebbrezza, stordito da sensazioni troppo acute, dolci. Come in una seconda infanzia cominciai a enumerare le cose amate, a compitare in versi un ingenuo inventario del mondo... Tutt’intorno lo schianto delle bombe e le raffiche degli Hurricane, degli Spitfire... Me ne andavo nella colorita campagna nutrendomi di sapori, aromi, immagini. La morte non era un elemento innaturale in quel quadro: era come un pesco fiorito, un falco sulla gallina, una lucertola che guizza attraverso la viottola» dichiarò Bartolo Cattafi sulla primigenia nascita dei suoi versi.Visse tra Milano e la sua Sicilia, sempre frequentata con la costanza di un emigrante assiduo e assetato di riandare alle fonti della propria esistenza. E proprio i viaggi compiuti anche in Europa e in Africa divennero i motivi ispiratori di alcune sue raccolte come Partenza da Greenwich (1955 e poi inserito tre anni dopo in Le mosche nel meriggio).

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PARTENZA DA GREENWICH Si parte sempre da Greenwich dallo zero segnato in ogni carta e in questo grigio sereno colore d’Inghilterra. Armi e bagagli, belle speranze a prua, sprezzando le tavole dei numeri i calcoli scattano scorrevoli come toppe addolcite da un olio armonioso, in un’esatta prigione. Troppe prede s’aggirano tra i fuochi delle Isole, e navi al largo, piene, panciute, buone per essere abbordate dalla ciurma sciamata ai Tropici votata alla cattura di sogni difficili, feroci. Ed alghe, spume, il fondo azzurro in cui pesca il gabbiano del ricordo posati accanto al grigio disteso colore degli occhi, del cuore, della mente, guano australe ai semi superstiti del mondo. Bartolo Cattafi in Le mosche del meriggio

«Si parte sempre da Greenwich/ dallo zero segnato in ogni carta e in questo/ grigio sereno colore d’Inghilterra» attacca l’eponimo componimento e l’allusione simbolica alla partenza è nel meridiano primo, quello di Greenwich per l’appunto, luogo topico dal quale si misura il tempo e la direzione del tempo stesso. Una sorta di annullamento del reale e della storia, il punto zero dal quale per Cattafi si può puntare verso «il fondo azzurro» del mondo e il viaggio verso «Isole» e «Tropici» altro non è che una sorta di rivendicazione di un destino fatto certamente di «sogni difficili, feroci» ma tinti della possibilità della speranza e del desiderio di sopravvivere al mondo. La poesia di Cattafi è una poesia dai toni prevalentemente epigrammatici con un ricorso insistito alla metafora del vuoto e della solitudine, ma non in chiave ermetizzante, debito che Cat-

tafi paga ampiamente nell’esordio datato 1951 con Nel centro della mano, ma giocata più in chiave allegorica, quasi a delineare un bilancio amaro e confuso per la sua generazione, quella nata e cresciuta all’ombra del Ventennio fascista e che ha dovuto fare i conti con gli orrori della seconda guerra mondiale.

L’occasione trentennale poteva dunque essere quella buona per ritornare alla sua poesia e rileggerla in maniera meno occasionale di quanto si sia fatto finora. Cattafi ha avuto qualche entusiasmo iniziale, poche occasioni critiche dopo e un lungo silenzio attorno a lui e alla sua poesia, dovuto forse alla sua repentina scomparsa e, per lo più, a un disinteresse degli storici della poesia italiana del Novecento. Mengaldo nella sua pregevole testimonianza antologica di Poeti italiani del Novecento non l’ha inserito; hanno riparato poi Cucchi e Giovanardi nei loro Poeti italiani del secondo Novecento dove il secondo, nell’introdurlo, finalmente sottolinea con giustezza come rispetto alla linea lombarda «l’abbondante produzione poetica del siciliano d’origine Bartolo Cattafi rivela abbastanza apertamente una diversa provenienza e un diverso percorso». Un’affermazione che contribuisce, con l’intenso lavoro postumo curato da Giovanni Raboni e Vincenzo Leotta confluito in un introvabile ma prezioso Specchio mondadoriano di Poesie 1943-1979, a ridare adeguate coordinate per il poeta siciliano, superando ogni superficiale lettura della sua opera. Un’opera che negli anni Novanta attrae, e non poco, la generazione che allora si affacciava alla creazione poetica con un vivo segno d’interesse, e penso almeno ad Andrea Inglese, da rileggere nel VI Quaderno italiano di poesia contemporanea curato da Franco Buffoni, e a Maurizio Marotta, a sua volta nel primo di quei felici e importanti documenti sulla poesia in fieri anni Novanta. Saranno stati i suoi incipit così apodittici («Tutto si è già formato», «C’è un mondo nero qui sotto») o le secchezza delle sue chiuse («coda di lucertola/ vita tagliata fuori dalla vita») o, ancor più, quel suo procedere per allegorie, prossimo all’altrettanto amato unicum del Novecento Giorgio Caproni, come anche la tendenza a frantumare la frase con enjambement spinti o con l’isolamento di costituenti atomici, fatto sta che proprio a Cattafi alcuni giovani poeti guardano con risvegliata passione. C’è nel poeta siciliano quella desiderata vitalità e asciuttezza della lingua poetica adottata e l’irrisione per ogni pretesa eroica che «l’intellettuale, l’artista o il poeta potrebbero essere ancora tentati di incarnare» (Inglese) che tanto piace a quei verdi virgulti poetici italiani inizi Novanta, come Cattafi così «noncuranti», per dirla alla Majorino, delle preoccupazioni del letterato medio italiano sempre teso a costruirsi un’immagine e una posizione predominante nel suo ambiente culturale.


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il club di calliope

UN POPOLO DI POETI

NOTTE PRIVATA

Ma che idea è quella del bagno di notte? Non c'è limite alla follia degli innamorati! Anche la luna si fa prendere e si tuffa là dove la notte incontra il giorno, il cielo ritrova il mare nel momento in cui sfuggono le stagioni e le età. Le stelle divengono tanti lampioni, le acque impazziscono e imboccano la via lattea. Questa distesa d'acqua diviene la nostra piscina, a bracciate raggiungiamo tutti le nostre speranze. Tu divieni l'unica donna del mondo, ci cerchiamo e ritrovo nei tuoi occhi, l'espressione che hai quando torno da un lungo viaggio. Ci ritroviamo in un turbinio di onde e stelle, il dolce dei tuoi baci si fonde col salato del nostro idromassaggio. Dolcemente mi conduci verso la spiaggia ove le onde, sempre più curve, divengono più deboli e muoiono. Una corsa verso il falò e solo ora ci accorgiamo che, quando si è innamorati, la coscienza degli adulti confina con l'innocenza dei bambini. Siamo senza asciugamani... ma avvolti nell'amore!

A volte, dal buio acceso indifferente improvviso a te nel suo saettare, conduce l’etere ripetutamente la visione roca che più fa disperare di creature uccise, con l’ultimo giornale; e in quel durare irreale che riunisce ogni lontano al suo duro reale, più nessuna stella può luccicare nello sguardo spento che s’offerse tutto il cielo del nostro ignorare, se ogni inferno terreno al lampo che l’aperse sul teleschermo del vero raro ricompare…

Gianni D’Elia da Notte privata

I confini dell’amore

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata Stefano Lombardi ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma

SERGIO ZAVOLI AL CUORE DELLA POESIA in libreria

eggendo le poesie di Sergio Zavoli (La parte in ombra, Mondadori, 125 pagine, 14,00 euro) si ha come la sensazione di farsi ondeggiare dal mare, da quel mare che è parte fondamentale del suo occhio curioso e indagatore; di sentirsi raccontare una stupefacente storia. Poesie meditate e profonde, dove si intravede la capacità di guardare alla vita e ai suoi accadimenti col candore dell’uomo d’età matura e con la verità del bambino, col rigore del saggio e con la necessaria severità dell’innamorato della propria patria («Patria, non hai più chi ti nomini,/ il tuo nome è perduto»). E anche quando è di fronte il senso della fine, non c’è scoramento («Eppure mi sta intorno qualcosa/ di gentile, forse discende dal sentire/ che il tempo per natura si assottiglia,/ e la luce, diradandosi appena,/ colora in altro modo l’aria, il vento»), ma il passo certo dello stupore, della curiosità per le cose del mondo e l’inalterato amore per le persone vicine, per l’umanità.

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di Loretto Rafanelli È la sua una gioia vigile e serena, la consapevolezza di avere espresso una vita «civile», di avere custodito i sogni giusti, di avere vissuto gli affetti sicuri. Una grazia accompagna questi versi, che percorrono una lunga ricca vita. Struggenti e felici appaiono i ricordi familiari di bimbo, la casa a Ravenna, dove si atten-

affetti. E gli amici persi nel tempo, da Luzi a Bo. E la politica con le sue illusioni, quell’essere di sinistra, dove l’odore però può più del frutto. Quindi il richiamo alla necessità di avere un comportamento civile. Che tanto manca nel nostro paese, dove conta solo l’io ma che poi questo io viene meno

Nella nuova raccolta “La parte in ombra” la cifra personale dell’autore: passione per la verità, armonia della parola, precisione del linguaggio, impegno morale deva quel padre vigoroso e dolce, rassicurante e di una «fierezza mite» e la madre che «la sera la mano…/ mi addormentava passando con un dito/ dalla fronte alle spalle, e al così sia/ mai udito del tutto». Oppure le emozioni di oggi, l’adorata figlia e quel nipotino, Andrea, così amato (la dedica iniziale dice: «A Valentina,/ che ci ha dato Andrea»), che ha arricchito ulteriormente una storia piena di fatti e di

quando c’è da assumersi qualche responsabilità. Parlando di Zavoli, con la sua straordinaria esperienza di giornalista, scrittore e politico, viene in mente il termine usato da Andrea Zanzotto in un saggio su Davide Maria Turoldo: «multiversa», per dire di una persona che sa esprimersi in diversi ambiti, con una molteplice e ricca dote culturale, con capacità, umanità e conoscen-

ze professionali adeguate. Ma non si creda che questa pluralità di esperienze e di interessi abbia una matrice incerta: il cuore del discorso è sempre la poesia, quella passione a ricercare la verità, squarciare il senso di un divenire. Il centro dell’operare, sia che l’autore faccia l’una o l’altra cosa, è la squisita armonia della parola, la precisione, rivelatrice, del linguaggio, lo svelamento di una luce, l’impegno morale. Appunto la poesia. E ricordare Zavoli fin dal tempo delle sue «narrazioni» ciclistiche, che qualche filmato ci rammenta, non può che farci calare in questa dimensione creativa ed etica. Una vocazione, direi interiore, che si evince anche dalla struttura della sua poesia: misurata, controllata, strutturata in modo quasi classico («… non c’è più il vento/ sotto il braccio del porto/ dove i gabbiani ungevano le piume/ nei rotoli di sartie inacidite dall’inverno»). Il dettato di una versificazione alta e importante nell’ambito dello scenario poetico nazionale.


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mostre

De Chirico a Parigi, grandezza e miseria di Marco Vallora ella mostra di De Chirico, a Parigi, conservo ancora nelle tasche il bel biglietto d’invito, con riproduzione dell’Enigme d’un jour, del 1914, sufficientemente grandicello e doppio, per prendervi degli appunti, vista la villania dell’ufficio stampa, che non solo non distribuisce il catalogo alla vernice, come suole, ma lo fa anche in modo maldestro e irritante. In mancanza di meglio e, per smemoratezza, di un taccuino: l’invito. La grafia affrettata, non permette però di decifrare alcuni geroglifici illeggibili: bisogna fidare nelle sorti, visto che il catalogo, poi acquistato, non è così documentato, a quanto pare. Se c’è illecito filologico, sia venia pubblica (la scrittura affrettata è causa anche dell’emozione, iniziale, di veder insieme tante rapinose forti opere convocate, alcune anche rare: poi il solito calo impressionante d’intensità). Recupero, tra appunti confusi, alcuni lampi d’una geniale poesia di Apollinaire, non rileggo la data, non ricordo se sia già dedicata a De Chirico, ma che certo spiega non soltanto l’affinità d’un rapporto che data dal 1912, ma anche le innegabili influenze cui il pittore può avervi attinto. Copiata da un numero di rivista di Soirée de Paris, la rivista su cui il poeta di origini italiane ha dedicato altri testi critici a De Chirico, riferiti in un pallido saggio in catalogo (lettura non completa, ma molti sono davvero modesti e poco profondi) che trascura questo palinsesto illuminante del poemetto. Possibile la poesia si chiami Oceano di terra? spiega comunque assai bene questo scambio incestuoso tra elementi (il mare in una stanza, con barchetta) che caratterizza il pittore nautico di Volos. «Ho costruito una casa nel pieno dell’Oceano» e, se leggo bene gli appunti: «le sue fessure sono gli affreschi che crollano nei miei occhi/ mentre galline piluccano ovunque ove cedono le mura./ Sentite battere il triplice cuore/ e il loro becco che urta contro i vetri di casa umida/ di casa ardente?/ Attenti dove state gettando l’ancora/ attenti all’inchiostro che gettate» (gio-

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arti

cando sull’assonanza ancre/encre) «e poi noi siano tanti e tanti/ ad essere i nostri stessi sotterratori./ Attorno alla casa non c’è che questo oceano/ che tu ben conosci/ e sai che non riposa mai». De Chirico sotterratore di se stesso? Il leitmotiv è più che antico… Questa nuova retrospettiva, fortemente concordata con la Fondazione De Chirico di Roma, largheggia notevolmente e pesantemente con un second’atto, farsa o tragedia che sia, che ribalta, a detta ancor oggi di molti, troppi esegeti, la prima sensazionale e straordinaria sezione. Giusto mostrarla, per carità, questa lunga parte di vita e di pittura, a contrasto col mondo e soprattutto con l’universo basito delle avanguardie, che lo avevan esaltato e defenestrato. Sinché non arriva la salvezza apparente del credo post-modern, che lo rivaluta in toto, come padre putativo ed eroico, di quel movimento rétro e a-gerarchico, e con l’assoluzione infine di Warhol, che lo emula a tutto spiano e scopre nell’auto-copiatore di sé un modello di furbizia industriale: «Ho capito che bisogna fare come lui». Quello che il grande Soby aveva giudicato «un esaurimento autodistruttivo e suicida della pittura» diventa così quasi un punto d’onore: «una meta-metafisica», come conclude un po’ semplicisticamente la Wetterwald, in un testo dal titolo «E se the late fosse too early?», tanto promettente quando deludente, nella sostanza. Forse ancora una volta aveva ragione Apollinaire, che parlava d’un artista «inabile ma molto dotato». Qui rappresentato al suo meglio, agli inizi, ma con strane lacune, per esempio nel periodo americano, o in quello delle ville romane, che avrebbe potuto esser meglio documentato (curioso, per esempio, che manchi tutto il riferimento al suo universo teatrale: discontinuo ma interessante). Così quel suo lungo, troppo lungo periodo intermedio (anche se, polemizzando con i suoi detrattori, la Wetterwald a ogni data-critica sospira: «possibile abbia vissuto e dipinto tutti questi anni invano?») assume nella mostra un rilievo esagerato, e non basta l’ormai spuntata visione postmodernista, in anticipo, ad assolverlo: soprattutto quand’egli pare «rimontare» al computer della sua stanchezza gli stereotipi d’un pittura «fu-geniale». Come disse Max Ernst, imbattendosi in un suo tardo autoritratto «travestito»: «Il suo corpo? La rovina di colui che fu un genio. Un corpo floscio, asessuato, con le guance così cascanti da parer già morto». Giusto mostrarlo nella sua integrità: ma davvero produttivo per lui? Giorgio De Chirico, La fabbrica dei sogni, Parigi, Museo di Arte Moderna, fino al 24 maggio

diario culinario

Tajarin al burro d’alpeggio tra cimeli d’antan di Francesco Capozza Torino, a maggio, c’è la Fiera del libro, e plotoni di intellettuali invadono la città. Impegnati a guadagnar poco, gli addetti ai lavori del mondo dei libri non sono animali da ristorante chic, e nelle lunghe serate dei giorni della Fiera li trovi sparpagliati nelle trattorie cittadine, intenti a tessere le proprie strategie letterarioeditoriali o semplicemente a commentare con più o meno gioia successi e insuccessi altrui. «A Torino si è sempre mangiato male».Vincendo il fastidio che m’ispirava il nome, ho scelto di prenotare un tavolo al Vintage 1997. Quando il gestore decise - suppongo nel ’97, l’anno della pecora Dolly - di dare questo nome al ristorante, la parola vintage non era stata ancora usurata dall’attuale cancan modaiolo ed evocava la vendemmia o

A

qualcosa che fosse d’epoca, e non - come adesso - vacue ossessioni da fashion victim incallite. L’interno del ristorante richiama atmosfere un po’ polverose da inizio Novecento: due grandi sale con pochi tavoli, la tappezzeria di broccato rosso, i tendaggi abbondantissimi, le stampe di cavalli da corsa, la nicchia col vasone para-Ming. Quest’atmosfera volutamente demodée è molto gradevole, perché non allineata agli stili usati degli arredatori dei ristoranti di tono. A Milano, o a Roma, per esempio, di locali simili non se ne trovano: dovunque negli ultimi dieci anni ci sia stato l’intervento di un architetto d’interni, i cliché adottati sono di tutt’altro genere. Al Vintage, del resto, anche i clienti hanno una curiosa aria da passato recente: alcuni tavoli sono occupati da signori che sembrano strappati alla celebre Marcia dei Quarantamila, mentre i gruppi famigliari

hanno l’aria benestante della borghesia anni Settanta, e dopo mangiato, quando esci, ti aspetteresti di veder parcheggiata nella piazza una manciata di Giulie Super e Fiat 130. Il menu, invece, è dei nostri tempi: i piatti appartengono perlopiù alla tradizione piemontese, ma sono descritti con attuale e rigorosa pignoleria nel precisare con quali materie prime sono preparati. È un menu generoso, di carne e di pesce, che dà soddisfazione già solo alla lettura; una di quelle carte che ti costringono a scelte dilanianti e tormentose. Decidendo di saltare il secondo sono riuscito ad assaggiare cinque antipasti sui venti offerti. Il vitello tonnato, finalmente preparato comme il faut, cioè con carne arrostita e salsa senza maionese; la squisita insalata di «gallina bionda di Villanova» su un letto di spinacini, con melograno e robiola di Murazzano; la sublime battuta di carne

di Fassone (il manzo di razza piemontese, dalla carne magrissima) con ovetto di quaglia crudo: tre piatti squisiti e anche leggeri. Meno leggeri, ma altrettanto irrinunciabili, i cardi tardivi gratinati con fonduta di toma dell’Elva. Mi hanno convinto un po’meno le acciughe al verde su patate d’Entracque, per l’eccessiva predominanza del sapore di prezzemolo. Dei due primi che ho assaggiato, uno è indimenticabile: i tajarin all’uovo con burro d’alpeggio e «parmigiano delle vacche rosse», saporiti ma delicati, in pratica non un semplice piatto ma un vero e proprio ossimoro gastronomico. I quadrotti di gallina bionda nel sugo d’arrosto mi sono parsi meno equilibrati, un po’troppo sapidi. Si spende sui 40,00 euro.

Vintage 1997, Piazza Solferino 16 H, Torino, tel. 011 535948


MobyDICK

9 maggio 2009 • pagina 15

architettura

Renzo Piano, la Cas e il costruire sostenibile di Marzia Marandola a California Academy of Sciences (Cas), fondata a San Francisco nel 1853, è un istituto di ricerca e un museo di storia naturale che riunisce tre differenti nuclei funzionali: espositivo, conservativo-museale e scientifico. L’antica sede, organizzata in diversi padiglioni, è stata danneggiata da un terremoto nel 1989: della progettazione del nuovo edificio, è stato incaricato Renzo Piano che, pur riunendo il tutto in un blocco unitario, ha conservato, oltre all’originaria localizzazione, anche l’orientamento, l’altezza, la distribuzione degli ambienti intorno a una piazza e alcuni inserti materiali degli edifici precedenti.Tra le porzioni conservate, spiccano nel nuovo progetto le pareti in pietra dell’African Hall, visibili sul fronte sinistro dell’ingresso, e il candido colon-

L

nato dell’antico acquario, ricostruito all’interno come indicatore del nuovo acquario sotterraneo. Inaugurato il 27 settembre 2008 nel Golden Gate Park di San Francisco, in vicinanza al De Young Museum di Herzog e de Meuron, il nuovo edificio, costato 488 milioni di dollari, si pone come esempio dimostrativo delle grandi potenzialità del costruire sostenibile: in questo senso il manto arboreo che, tessuto da specie autoctone, copre il tetto per una superficie di 102,4 per 177 metri, assume il significato di una sezione museale en plein air e di simbolo propagandistico della missione ecologica dell’Academy of Sciences. Alla semplice geometria scatolare dell’esterno corrispondono visioni spettacolari in spazi interni che, vertiginosi e variegati, simulano artificialmente paesaggi natu-

rali, mutuati dalle terre più remote del pianeta: dalle paludi abitate dagli alligatori, alle barriere coralline dei pesci pagliaccio; dalle lussureggianti foreste pluviali, ai meandri sotterranei che attraversano le vasche opalescenti dell’acquario, alimentato direttamente dal vicino Oceano. Al di sopra il tetto giardino, come gonfiato dai venti oceanici, si plasma a formare sette protuberanze bulbiformi, tre grandi e quattro piccole, che alludono ai sette colli su cui sorge San Francisco. Due rigonfiamenti maggiori sono traforati da oblò trasparenti, che

L’esterno e un particolare del’interno della California Academy of Sciences di Piano

design

regolano luce e ventilazione in due grandi sfere che si affiancano all’atrio: l’una, ermetica e opaca, ospita il Morrison Planetarium; l’altra, luminosa e trasparente, protegge una foresta pluviale popolata dalla fauna tropicale. Un’intercapedine stacca le superfici sferiche dalla tessitura metallica che sostiene il giardino pensile e funziona come canale per i flussi di ventilazione naturale che climatizzano l’interno dell’edificio. Analoga funzione svolge la rilucente struttura reticolare che, simile a una ragnatela, ridisegna il grande vacuo rettangolare sopra la piazza-corte centrale: opportunamente regolata, essa scherma l’insolazione e il flusso dei venti che climatizzano naturalmente l’atrio. Il bordo esterno della copertura disegna una sorta di frangia definita da un’esilissima pensilina metallica, che sorregge un fine ordito di cellule fotovoltaiche, capaci di produrre una quantità di energia oscillante tra il 5 e il 10% del fabbisogno dell’edificio. Infine anche le pareti esterne collaborano attivamente al risparmio energetico, grazie ai brise-soleil, che schermano dall’irradiazione e ad appositi pannelli regolabili che guidano i flussi di ventilazione naturale.

Da Bernini a Sottsass, “classici” a confronto di Marina Pinzuti Ansolini l ventisette aprile si è chiuso, a Milano, il quarantottesimo Salone Internazionale del Mobile. La potente e abusata parolina, «crisi», striscia sulle moquette in fibra naturale, attraversa gli intrecci di fili elettrici di plastica, prezioso materiale di recupero, rimbalza sui cuscini di pelliccia sintetica, si riflette sui pannelli solari e, dotata di nuova energia alternativa, illumina e scalda i «Saloni» 2009. Nel futuro della casa s’intravede una maggior concretezza dove l’essere minimal è più esigenza che tendenza. Il mobile riduce le sue dimensioni, vagando utilmente da un ambiente all’altro, anche dall’interno all’esterno e viceversa. La natura, proposta in mille interpretazioni, è il tema dominante nelle forme, nei materiali e nei colori; riscoperta la maglia, l’uncinetto e il patchwork come «nuovi» materiali di rivestimento. Sempre a Milano, mentre nel Salone si apriva il dibattito sul «dove va» il design, a Palazzo Reale s’inaugurava un’eccellente mostra sul «da dove viene»: Magnificenza e progetto. Cinquecento anni di grandi mobili italiani. Mobili classici di straordinaria fattura, realizzati dalla metà del Cinquecento agli ini-

I

zi dell’Ottocento, sono disposti a confronto in modo diretto e spietato, senza mediazioni né passaggi graduali di tempo, con i grandi del design italiano della seconda metà del Novecento. Nelle dieci sale, la preziosità dei classici sfavilla contro quinte di acciaio nero, mentre i moderni sono raccolti all’interno di una sorta di placente/filtro di tulle bianco. Il percorso è ricco di suggestioni: nella sala del Cinquecento, oltre a uno straordinario stipo damaschinato in oro e argento, ornato da statuette in bronzo dorato, opera di Giovanni Garabaglia, armaiolo milanese, è in mostra il mobile bar Giamaica del 1966, probabilmente una citazione dell’omonimo ritrovo degli artisti di Brera, in compensato curvato nero, rotelle e cerniere cromate. Nella sala dedicata al barocco, un designer d’eccezione, Gianlorenzo Bernini autore di una stupefacente console, datata 1663, in legno intagliato e dorato, proveniente dalla villa Chigi di Ariccia. Il tripudio di elementi naturalistici, foglie, frutti e rami di quercia, si contrappone all’assoluta linearità della console Incas, di Angelo Mangiarotti, del 1978, in pietra serena sabbiata. Ancora echi del Bernini in una virtuosa credenza siciliana, dei primi anni del Settecento, proveniente dalla chiesa di San Nicolò a Catania. Nel groviglio dorato delle foglie d’acanto, spiccano quattro aquile e un volto femminile coronato di piume. Nel 1985, il mobile da parete, per Ettore Sottsass, diventa Tartar, assemblaggio di volumi geometrici ricoperti di laminato plastico. Nel 1680, Pier Tommaso Campani e Francesco Trevisani, orologiai del papa Alessandro

Chigi, realizzano un orologio notturno, vero e proprio gioiello dalle sembianze architettoniche in ebano, bronzo e marmi policromi. Nel 1956, per Angelo Mangiarotti, l’orologio è un pezzo unico di forma tondeggiante, in resina stampata bianca. Accanto ai meravigliosi tavoli seicenteschi, eseguiti dai maestri dell’intarsio per le dimore dei principi, sono in pedana quelli progettati, per le case di tutti, dai maestri del Novecento: Franco Albini, Alberto Meda, Andrea Branzi, Ico Parisi. Il dibattito aperto prosegue tra i capricci deliziosi del rococò, l’eleganza cosmopolita degli arredi neoclassici, l’equilibrio dello stile impero italiano, e la fantasia ragionata delle icone moderne: il cassettone in noce e formica di Giò Ponti e quello litografato di Fornasetti, la poltrona Giro di Achille Castiglioni e il Bruco, divano modulare di Marco Zanuso. La messa in scena visionaria della mostra è di Mario Bellini, il curatore Enrico Colle, il catalogo edito da Skirà.

Magnificenza e progetto. Cinquecento anni di grandi mobili italiani, Milano, Palazzo Reale, fino al 21 giugno


pagina 16 • 9 maggio 2009

essere& tempo

a prima volta che ingerii 0,05 g di cocaïnum muriaticum… fu in occasione di una lieve sensazione di stanchezza… Dopo pochi minuti dall’ingestione della sostanza si prova una improvvisa sensazione esilarante accompagnata da una impressione di leggerezza». A scrivere della sua esperienza con la cocaina è Sigmund Freud, uno dei quattro autori (gli altri sono tutti scrittori, Honoré de Balzac, Charles Baudelaire e Lev Tolstoj) che parlano dell’uso di alcune droghe nel libro Stupefatti! (Piano B edizioni, 155 pagine, 13,00 euro). Mancando un’introduzione (così come il nome del curatore), non si conosce la finalità della raccolta, ma si suppone un intento critico verso l’uso di sostanze attualmente lecite (alcol, tabacco) o illecite (oppio, hashish, cocaina). Nel Trattato degli eccitanti moderni (1839), Balzac fra le sostanze che hanno assunto «sviluppi tanto smodati che le società moderne possono trovarsene modificate in maniera imprevedibile», annovera anche il tè, il caffè e lo zucchero, oltre ad alcol e tabacco. Anche il cioccolato potrebbe essere pericoloso tanto che il suo abuso avrebbe favorito l’avvilimento della Spagna, altrimenti «sul punto di far rinascere l’impero romano».

«L

Tutte sostanze che faciliterebbero un precoce consumo dell’uomo. Quant’è vero sentir dire che si assumono stimolanti perché la pace è uno stato «funesto», che siamo alla ricerca di stimoli per funzionare meglio anche sapendo che possono portare alla morte! La conclusione di Balzac è che l’assunzione di sostanze stimola un organo ma ne indebolisce altri, tanto da ricordare l’assioma che «quando la Francia manda i suoi cinqucentomila uomini sui Pirenei, non li ha sul Reno. Lo stesso vale per l’uomo». Anche vero per l’autore, morto cinquantenne dopo anni di smodato consumo di caffè che gli consentiva di rimanere in piedi tutta la notte a scrivere. Baudelaire nel suo Il poema dell’hashish (1860) descrive l’evoluzione storica e transculturale del suo uso e tutti i danni che ne possono derivare. Le pagine più belle sono quelle del racconto della sua esperienza personale. L’uomo sarebbe alla ricerca di un «ideale artificiale» che cercherebbe di ottenere con i liquori che però portano alla furia materiale e con i profumi che rendono «più sottile

MobyDICK

ai confini della realtà

I quattro cavalieri della

stupefazione di Leonardo Tondo

Gli esperimenti di Freud con la cocaina, il caffè trangugiato da Balzac per restare sveglio, l’hashish aspirato da Baudelaire per rendere sottile l’immaginazione, la critica del “pentito” Tolstoj di alcol e tabacco. Raccolte in un libro le loro testimonianze che insinuano sospetti sul rapporto tra droga e genialità l’immaginazione», ma esauriscono le forze fisiche. Invece, le due sostanze più «energiche», secondo lui, sarebbero l’hashish e l’oppio, più nel senso di favorire percezioni alterate ed esaltate, allucinazioni, sogni, che

di aumentare le energie (il nostro attuale significato di psicostimolanti). Il problema semmai è che la loro sospensione provoca un tale stato di malessere da dover riprenderle subito. E ci possiamo fidare del parere

di Baudelaire, forte e ostinato consumatore di oppio e hashish, in parte responsabili della sua precoce morte per ictus a quarantasei anni. Nel suo saggio Sulla coca (1884), Freud riporta da studioso caratteristiche chimiche e studi a sostegno dell’uso della cocaina come stimolante. Un uso medico, s’intende. Racconta anche che era pratica abituale la somministrazione di coca ai soldati bavaresi per farli partecipare a marce e manovre (gli americani in Vietnam non hanno inventato nulla), ma allo stesso tempo non capisce perché la sostanza non si sia affermata in Europa, nonostante le sue proprietà benefiche, ma suppone che la sua diffusione sia stata limitata dal costo elevato. Freud suppone anche un uso psichiatrico suffragato da studi e testimonianze che evidenziano l’effetto benefico su varie psicopatologie come isteria, ipocondria, depressione, tossicomania (da morfina nel caso dello stesso autore), giustamente osservando che esiste un vasto arsenale di sostanze che riducono l’eccitazione del sistema nervoso, ma nemmeno una per aumentare il suo funzionamento. Infatti, gli antidepressivi arrivarono sulla scena psichiatrica circa settant’anni dopo.

L’ultimo autore scelto è Lev Tolstoj con il suo scritto Perché la gente si droga (1890). Un’altra testimonianza di chi ha lasciato alcol e tabacco (nonché il gioco d’azzardo) e naturalmente sostiene che le droghe facciano più vittime di tutte quante le guerre e le infezioni, un’esagerazione tipica di un pentito. La critica di fondo di Tolstoj sta nell’abolizione della coscienza (si intende più razionalità) dovuta alle droghe che avvelenano il cervello. E anche lo scrittore parla dei soldati fatti ubriacare per mandarli a uccidere vecchi indifesi durante la guerra di Crimea. Se la prende molto contro il fumo praticato da chi non conduce una vita morale (giocatori, prostitute e pazzi). In una nota, si dice anche che Kant non avrebbe scritto in modo «tanto strano e scadente» se non avesse fumato. E nella sua crociata contro il fumo parla di quello passivo e dei pericoli per i bambini prevedendo campagne di prevenzione che si affermarono un secolo più tardi. La morale della raccolta è che i grandi possono avere una visione distaccata delle droghe lasciando il sospetto che queste abbiano un ruolo non secondario nella loro genialità.


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