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Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal

mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Una outsider allo Strega

IL CASO CESARINA VIGHY di Pier Mario Fasanotti erpeggiano delle voci. E queste stanno a poco a poco creando ciò che più na trapiantata da molti anni a Roma, ex bibliotecaria, donna di straordinaria funziona nella nostra editoria, affaticata, imprevedibile e soffocata cultura che a settant’anni ha rotto gli ormeggi dell’esitazione e si è messa Ricorda dal marketing: «il caso». Nessuna recriminazione stavolta, peral computer decisa a portare a termine il suo progetto narrativo. Ci si la prosa ché il libro è di alta qualità letteraria. E quindi spero che chiede: perché non ha scritto libri, prima? La risposta è a pagina «il caso», per ora «in nuce», esploda e si trasformi in un ef143: «Sono un’intellettuale che rimpiange quello che non ha di Natalia Ginzburg ficace passaparola. Mi riferisco a un romanzo che pofatto quando c’era il tempo». Ne è uscito comunque un “L’ultima estate”, romanzo d’esordio trebbe (o dovrebbe?) vincere il Premio Strega, o libro originale, elegante, arguto, drammatico e indi qualità di un’autrice settantenne. comunque piazzarsi almeno secondo cedendo sieme spiritoso. La dolenza, mischiata a un’iil passo, forse, alle concessioni che tutte le tenronia a volte urticante - pallottole rivolte a se L’editore Fazi lo candiderà al sempre discusso zoni letterarie fanno ai giganti dell’editoria italiana. stessa, per gli altri c’è un sorriso, e mica sempre di premio letterario romano, non senza quelli buoni - è dovuta al fatto che la Vighy soffre di quelI quali stanno già oliando le loro «macchine da guerra». aver lanciato qualche la malattia terribile, progressiva (lei dice: «È come la vecOppure potrebbe non vincere, visto che Elido Fazi, l’editore di chiaia, che è male cronico») che si chiama Sla. questo romanzo singolarissimo, ha sollevato un polverone con diprovocazione... chiarazioni che certo non hanno avuto il prudente passo vescovile. Parcontinua a pagina 2 lo di L’ultima estate di Cesarina Vighy (190 pagine, 18,00 euro), una venezia-

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Potere di Sergio Belardinelli Pet Shop Boys, un futuro da Abba di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Le narrazioni di Piero Bigongiari di Francesco Napoli

Il ritorno di Bruno Leoni di Carlo Lottieri Hollywood, un inferno travestito da paradiso di Anselma Dell’Olio

La quadreria di Casa Savoia di Marco Vallora


il caso Cesarina

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vighy

segue dalla prima L’editore non vuole assolutamente usare questa sua condizione come perno e motore di marketing. Sarebbe indecente, lo pensa anche il suo staff. Fatto sta che il romanzo affronta di petto, senza toni lacrimevoli o autocompassionevoli (di questi, poi, non c’è ombra: anzi) il più evitato degli argomenti, come dice Marino Sinibaldi nel risvolto di copertina. Il quale indica «una lingua nitida, a tratti feroce, mai retorica, attraversata di sarcasmo che non concede nulla alla pietas». Non mi trovo d’accordo sull’accenno alla mancata pietas: questa esiste, è sotterraneamente pervasiva anche se non ingombrante o assimilabile al volgare e scontato «vogliamoci bene». La pietas, proprio in senso latino, è cosa ben diversa: basta ricordare le pagine di Seneca, di Marco Aurelio e dell’imperatore Adriano ritratto da Marguerite Yourcenar. La pietas non è genuflessione se non dinanzi a chi sta per terra e fatica ad alzarsi. La prosa della Vighy richiama il clima letterario del Lessico familiare di Natalia Ginzburg. Parla molto della famiglia. A cominciare da una madre egocentrica e castrante, responsabile di una «catena infinita di risentimenti», maniaca della pulizia a tal punto da trasmettere a Cesarina l’idea che «il mondo sia fatto di merda» molto prima che la bimba lo percepisca da sola. E sempre a proposito della madre (a un certo punto, dice, «si diventa guardiani dei genitori»), laVighy descrive senza omissioni l’ultimo spezzone di vita una a fianco dell’altra. C’è l’amore-fastidio, c’è la spietata ma così vera considerazione secondo cui «nelle famiglie si diventa prigionieri uno dell’altro, legati in una robustissima rete che non sai se fatta più d’amore o di odio». C’è padre adorato: «Era pedagogico senza annoiare… mi ha regalato l’unica ricchezza godibile persino oggi: la curiosità, l’amore per i poeti, i narratori, la bellezza». C’è il marito, più giovane di lei, figura teneramente marginale. C’è la figlia, e con essa un rapporto affettivo in lento recupero. Poi ci sono i gatti e la felicità derivante dal fatto che la malattia non l’ha privata del tatto, così spesso esercitato sul pelo felino.

L’autrice sa bene che i malati fanno pietà, ma anche paura.Vengono trattati come bambini avvizziti, li si osserva con sospetto e dispetto, con loro non si sa mai come agire. Cesarina non parla più perché non riesce, ma assicura: «Con loro posso ancora comunicare». Goffi anche i medici, a volte bizzarri a volte ottusissimi. Proprio loro che dovrebbero conoscere il grafico emotivo del dolore. Lei è a letto e l’universo conosciuto si è ridotto a una porzione modesta: «Guardo attraverso la finestra il pezzetto di

Premio Strega ieri e oggi: in alto, Margaret Mazzantini, 2002; sotto, Paolo Volponi, 1991 e Cesare Pavese, 1950. A destra, dall’alto: una cartolina pubblicitaria del Premio, il Ninfeo di Valle Giulia, dove abitualmente si svolge la cerimonia di premiazione e Melania Mazzucco, vincitrice nel 2003 mondo che mi spetta e, nonostante tutto, lo trovo bello». Si prende in giro descrivendo le maniacalità degli anziani. Che «guardano attentamente la televisione e, oltre a svagarsi, ci trovano sempre qualcosa di utile», comprese le lezioni di meteorologia dei colonnelli. Che gareggiano con i familiari per occupare quello spazio di libertà che è il gabinetto. Che imparano che «il corpo non invecchia tutto assieme perché è fatto a pezzi e ogni tanto ce ne giochiamo uno». Cesarina controlla la tenuta dei suoi sensi e annota con piacere che quello più utile è rimasto vivissimo: quello dell’umorismo. E l’olfatto? Sorprendentemente avverte: «So più di donna». E ricorda Baudelaire che «annusava sensualmente la capigliatura della sua amante meticcia che gli faceva sognare viaggi in paesi esotici su navi cariche di spezie». No, il suo non è il diario intimistico at-

La ricetta di Elido Fazi

Segnalare un buon libro senza fare pressioni tanno arrivando buoni libri italiani», mi dice Elido Fazi, che oggi è diventato il sesto editore italiano. Nelle scorse settimane ha rilasciato interviste non proprio quiete e conformistiche sui premi letterari e sulle possenti mani delle grandi case editrici, con il rischio del monopolismo. Gli chiedo come sia stata scoperta Cesarina Vighy. «Ci è arrivato il primo capitolo, ho notato che era scritto superbamente. Gliene abbiamo chiesti altri, e così il libro è andato in stampa. Lei non sa parlare, ma sa scrivere, ec-

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MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

come se sa scrivere. La sua è una testimonianza importantissima». E Fazi, che di solito pubblica prevalentemente gli stranieri, è alla ricerca di bravi italiani, sicuro che ce ne siano, anche alla prima prova. «Comunque noi non discriminiamo in base all’età, come forse altri fanno: giovani o anziani non fa differenza». Dottor Fazi, veniamo alla decadente giostra dei premi letterari. «È indubbio che i premi fanno vendere copie. Ma tutto il meccanismo che sta dietro mi sembra complicato. Io dico semplicemente questo: invece di fare

le solite pressioni, singole o collettive, si indichi un buon libro e lo si inviti a leggerlo. Non si chiedano favori, si facciano segnalazioni. E questo l’ho detto chiaramente a De Mauro, presidente dello Strega. Il quale si è detto d’accordo sulle giurie intese come circoli di lettura e valutazione.Vero che sono per natura un ottimista, in ogni caso credo che il cambiamento avvenga, la situazione è diversa dal passato». E il tanto decantato passaparola? «Vale molto - dice Fazi - ma bisogna pur farlo partire. I giurati dovrebbero avere questo compito, se si sottraessero alla logica della rassegnazione totale. Ma che vuole, in Italia tutti siamo complici di un sistema. Eviterei una semplicistica scala di colpe e omissioni. È solo ora di cambiare. E si può fare». (p.m.f.)

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

torno a un crollo fisico. È anche, o soprattutto, la rassegna ragionatissima dei decenni italiani a cominciare da quelli del dopoguerra. Ricorda «gli irriducibili veneziani sempre con la testa volta al passato». Anche in momenti cruciali come il 25 aprile del ’45. La radio gracchiava del «Nord insorto». Ma via! «Qua non si insorge mai, non è da aristocratici decaduti quali siamo».

L’età scombussolata dell’adolescenza, quando la stima di sé ondeggia pericolosamente. Annotazione: «Pare che Virginia Woolf fosse in grande imbarazzo quando doveva rivolgersi a una commessa per comprare la cipria». Gli intellettuali di sinistra sbucano da ogni dove: «Aria di sufficienza, occhi socchiusi, occhiali tolti e rimessi con disinvolta frequenza, testa chinata leggermente ma costantemente da una parte, una spalla abbassata come a sostenere il peso di un grosso volume immaginario sostituito nella realtà soltanto dal giornale che tiene sotto il braccio. Particolare importante: il vestito marrone». Frase da imparare a memoria. I primi amori, con una madre inflessibile, «la mia tigre». Gli anni Cinquanta: sì, altro che Happy Days! La crescente consapevolezza del mondo e l’aderenza con quanto diceva Chaplin: «La vita vista in primo piano è una tragedia, in campo lungo una commedia». Poi Roma, la città che spaventava Leopardi «perché non finisce mai». Ma per fortuna c’è il borgo antico dentro le mura aureliane, con l’odore di pane e di supplì, le stufe «de coccio» in casa. La scoperta della psicoanalisi, con i suoi piccoli e miserevoli automatismi, in ogni caso levatrice di sogni. E qui torna la madre «in guepière nera voluttuosa… la vera femminilità negatami». Infine il ’68, la conquista di un’appartenenza e poi il brusco freno davanti al malinteso conformismo del gregge: «Perché poi dovevo rinunciare alla mia identità? Per piacere a quelle scemette che sentivo meno autentiche di me?». Il matrimonio, il ruolo di «moglie mediocre, di carne fredda e soprattutto di madre manchevole». Cesarina ha sotto il cuscino una sorta di testamento biologico, al quale però - lei tenacemente laica preferisce la vita intesa come costante curiosità, «la porta aperta alla vita». Annota: «Ho scoperto che siamo infinitamente adattabili, che cambiamo idee e ideali seguendo i peggioramenti, che le nostre richieste diventano minime: ci basta respirare, trascinarci, tirare avanti».

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MobyDICK

parola chiave

alle società arcaiche fino alla nascita del cosiddetto Stato moderno c’è una sorta di sacralità che avvolge il potere e la decisione politica; una sacralità che sembra come voler proteggere o nascondere qualcosa che, se squadernato in tutta la sua evidenza, potrebbe risultare inquietante e distruttivo per l’ordine politico stesso. Dalla modernità in poi quest’aura sacrale si va poco a poco attenuando. E sebbene le rivoluzioni moderne e soprattutto la tragedia dei totalitarismi ci abbiano fatto vedere, come forse mai si era visto prima, il lato demoniaco del potere, è fuor di dubbio che, nelle odierne liberaldemocrazie, il potere ha assunto un carattere sempre più «razionale», «procedurale», diciamo pure, «laico». La nostra società trasparente, a differenza di quanto sembra abbia dovuto fare spesso Thomas Hobbes, ammette che solo per un attimo si aprano le finestre sulla politica, e che subito le si richiuda per paura della tempesta. La nudità del Leviatano e il suo immenso potere non ci spaventano più. Siamo lucidi e disincantati quanto basta, così almeno si crede, per guardare il fondo dell’abisso, da cui la «bestia» proviene. In democrazia insomma non dovrebbe esserci più posto per gli arcana imperii. Tutto ciò può avere ovviamente una funzione consolatoria, ma forse non corrisponde in tutto alla realtà. La politica e il potere, anche quelli liberali e democratici, presuppongono inevitabilmente la lotta, quindi l’uso della violenza nonché il rischio che se ne abusi. Di conseguenza nemmeno nelle cosiddette «società libere» possiamo dire che tutto avvenga alla luce del sole e all’insegna della libertà. Ce ne rendiamo conto in certi momenti cruciali, come quando ad esempio ci si trova in guerra - è il caso dei nostri giorni - e un’aura tutt’altro che trasparente prende ad avvolgere le vicende politiche, determinando per giunta un brodo di coltura particolarmente adatto ai fanatici, ai cinici e ai moralisti.

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Questa persistenza degli arcana imperii nulla toglie tuttavia al fatto che il pluralismo delle idee, delle istituzioni, dei poteri e degli stili di vita, che si è andato affermando a partire dall’epoca moderna, abbia trasformato profondamente i connotati del potere e dell’ordine politico. Per certi versi si potrebbe dire che siamo passati da una concezione, tale per cui l’ordine costituiva una sorta di a priori, di presupposto, capace di predeterminare le decisioni politiche in vista del suo mantenimento, a una concezione accidentale dell’ordine, quasi che questo scaturisca casualmente dai conflitti e dalle «decisioni» che vengono volta a volta prese per dirimerli. Dall’ordine politico metafisicamente inteso, siamo passati insomma a un ordine politico secolarizzato, continuamente alle prese con conflitti d’ogni tipo, i quali, se da un lato possono anche far pensare con nostalgia all’antico ordine, dall’altro aprono la strada a una maggiore li-

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POTERE Neanche nelle società libere tutto avviene alla luce del sole. L’ordine politico ha perso la sua aura metafisica ma quello di oggi, meramente “sistemico”, rischia di non avere più a che fare con la verità, con la libertà, con qualsiasi idea di bene comune…

L’antica tentazione di Sergio Belardinelli

L’arcano ritorna in tutta la sua inquietante realtà, coi suoi tentativi di far passare l’attuale potere sempre più autoreferenziale come “buono”. Un antidoto a questa tendenza si trova nelle parole di Gesù: «... il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve» bertà, diciamo pure all’affermarsi di un ordine che, con le parole di von Hayek, appare sempre più come «spontaneo» e sempre meno come la risultante di un qualsiasi «disegno umano». Quanto al potere politico in senso stretto, ciò che soprattutto diventa importante sono i suoi limiti. Non ci si può rinunciare, certo, ma si può fare in modo che non invada più di tanto lo spazio delle libertà individuali. In genere sono i nemici della libertà che tendono a pensare la società come un tutto ordinato ideologicamente, in virtù del potere. Mi sembra tuttavia che, oggi, dietro questa preminenza del conflitto rispetto all’ordine si nascondano anche for-

me e interpretazioni politiche in aperto contrasto con la cultura e le istituzioni di una liberaldemocrazia. Quando Luhmann, ad esempio, dice che ciò che caratterizza principalmente il diritto odierno è «la piena discrezionalità delle sue trasformazioni», ci offre in proposito un segnale emblematico e allarmante insieme. «Oggetto di decisione (giuridica) non sono più questioni relative a una preminenza di principio, ma ormai solo questioni relative a priorità di natura temporanea e legate a situazioni specifiche». In sostanza non si tratta più di giustizia, libertà o cose simili, ma soltanto di rispondere a esigenze di stabilizzazione del sistema

politico. Se per von Hayek, tanto per fare un esempio, l’ordine sociale è da intendersi come «spontaneo» perché è un effetto della pluralità e della libertà degli individui, non dei loro «disegni», per Luhmann ciò che chiamiamo ordine sociale è soltanto l’esito contingente di un gioco puramente «sistemico», indifferente sia alla libertà sia al genere di conflitti che volta a volta si creano e da cui l’ordine stesso scaturisce. «Sovrano è colui che decide sul caso d’eccezione», diceva Carl Schmitt. Ebbene credo che su questo punto nessuno come Luhmann lo prenda in parola con altrettanta radicalità. Al limite, ogni decisione è legittima, visto che l’ordine vive solo dell’eccezione, la quale continuamente lo insidia e continuamente lo sollecita a imporsi di nuovo, in un quadro teorico ormai incapace di delimitarne i contorni.

Tramontata la prospettiva teologica, non resta che l’autorità tutta storica di colui che istituisce la norma: il sovrano, appunto. Il quale, in quanto soggetto meramente storico, a differenza del Dio trascendente, emerge sempre su uno stato d’eccezione, cercando di governarlo con le sue decisioni «definitive», ma contingenti, libere da vincoli normativi. Auctoritas non veritas facit legem, diceva Hobbes. Tale affermazione anticipava invero anche qualcosa che sarebbe diventato scontato in una società pluralista e liberal-democratica, e cioè che, in mancanza di fondamenti teologico-metafisici riconosciuti, a fondare la legittimità di una norma e del potere che l’istituisce possono essere ormai soltanto le procedure in virtù delle quali il potere si afferma come legittimo e le norme diventano vincolanti per tutti (leggi: l’autorità dei governanti legittimamente eletti e il principio di maggioranza). Non è consentito a nessuno di governare in nome della verità magari contro la volontà della maggioranza dei cittadini. Solo che dietro questa affermazione oggi non si percepisce più la sua declinazione, diciamo così, liberale, bensì soltanto l’affermazione di un potere meramente «sistemico» che, in quanto tale, non solo non ha più nulla a che fare con la verità, ma nemmeno con la libertà e, meno che mai, con una qualsiasi idea di «bene comune», bensì soltanto con la gratuità e l’indifferenza delle decisioni che volta a volta vengono prese. Così l’arcano ritorna in tutta la sua inquietante realtà, reso più inquietante ancora dai persistenti tentativi di far passare anche questo potere sempre più autoreferenziale, privo di fondamenti normativi, come «buono». Si tratta invero di una tentazione antica e ricorrente, alla quale però, oggi come ieri, possiamo pur sempre contrapporre l’amara ironia delle parole di Gesù: «I re delle nazioni le governano e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così, ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve». Il solo modo per dissolvere davvero l’arcano che avvolge la politica e il suo potere.


musica Pet Shop Boys MobyDICK

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cd

un futuro da Abba di Stefano Bianchi ogliamo scommettere che faranno la fine (gloriosa) degli Abba? Se gli svedesi sono stati mitizzati dal musical Mamma mia!, il canzoniere degli inglesi Neil Tennant e Chris Lowe potrebbe prima o poi trasformarsi in un Domino Dancing - The Show, citando uno dei loro più famosi successi. I Pet Shop Boys, come gli Abba, sanno fare pop. Sembra facile, ma quelli che riescono a inventarsi canzoni popular memorizzabili e fischiettabili, si contano sulle dita d’una mano. Tennant & Lowe (vocalist il primo, tastierista il secondo) lo fanno dal 1984. E da allora, sfruttando al meglio il suono elettronico del synthpop, hanno venduto più di 50 milioni di dischi in tutto il mondo. Pensi a questi ragazzi del negozio di animali domestici (pet shop) che adesso hanno 54 e 49 anni, e ti sorprendi a canticchiare West End Girls, Suburbia, It’s A Sin, Being Boring… Pezzi di quell’edonismo tipicamente Eighties. Pop-dance da sfilate di moda. Capolavori dell’usa-e-getta. Intellettuali (nei testi) e geniali (nella musica: ballerina o melodica, a seconda delle occasioni), Neil & Chris hanno combinato abili giochi di prestigio. Due esempi, di metà anni Ottanta: Paninaro, canzone che fece conoscere dappertutto la gioventù milanese «monclerizzata» e «najolearizzata»; What Have I Done To Deserve This?, miracolo di pezzo intonato con Dusty Springfield (la londinese di The Look Of Love, firmata Burt Bacharach). E ancora, la sapiente «poppizzazione» di Always On My

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in libreria

Mind di Elvis Presley; la fusione elettronica di Where The Streets Have No Name (U2) e Can’t Take My Eyes Off You (The Four Seasons); la riscoperta dei Village People ragionando sulla loro Go West. Oggi, i Pet Shop Boys non cambiano d’una virgola. E va bene così: belli nostalgici. Dopo Please, Actually, Introspective, Behavior, Very, Bilingual, Nightlife, Release, Fundamental e Concrete, anche il nuovo disco si concentra su una parola: Yes. Mettendo non solo affermativamente in gioco l’ennesimo ritornello vincente (Love Etc.), ma tutto un campionario pop che non fa una grinza. Chi, se non l’ineffabile duo, sarebbe riuscito a frullare per bene la dance con Lo schiaccianoci di Tchaikovsky? Succede in All Over The World. E succede, pure, che la chitarra elettrica di Johnny Marr (ex Smiths) si metta amabilmente a dialogare con gli archi (Beautiful People) e che King Of Rome somigli come una goccia d’acqua a certe ballate lounge di Bacharach. E siccome il pop ha mille anime, ecco Vulnerable: spettacolare come il momento clou di un musical. E The Way It Used To Be: disarmante, con le sue stratificazioni vocali e quel geniale non-ritornello. Vecchie volpi, i Pet Shop Boys. Partono con la discomusic e finiscono col funky (More Than A Dream). Strizzano l’occhio a Giorgio Moroder (Pandemonium) e giocano a fare gli eterni adolescenti (Did You See Me Coming?). Fischiettate, gente, fischiettate. Pet Shop Boys, Yes, Emi, 18,90 euro

mondo

riviste

IL DIARIO MUSICALE DI ZERO ASSOLUTO

A KRISTIANSAND UNA BAND D’ECCEZIONE

ECCO A VOI I GALA DROP

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crivere di un disco quando sta finendo, è come parlare di una storia d’amore che sta per esplodere in tutto il suo meglio. C’è speranza, voglia di scoperta, voglia di perdersi e la speranza che duri il più possibile». Matteo Maffucci e Thomas De Gasperi, meglio conosciuti come il gruppo che ha portato una ventata di freschezza nella musica italiana sotto il nome di Zero Assoluto, presentano co-

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opo lo stop della scorsa edizione, e la solita scia di polemiche e fattacci piazzati ad arte nelle scorse edizioni, il festival norvegese di Quart torna in grande stile. Annunciato per la serata inaugurale del prossimo 30 giugno un quartetto d’eccezione: Ozzy Osbourne, Slash, Ron Wood e Jason Bonham saranno insieme sul palco con una band, gli Slash & Friends, composta in onore della

mmaginate una fusione a freddo di dub giamaicano, tribalismo bucolico alla Animal Collective ultima maniera, minimalismo percussivo alla Urban Sax, suggestioni esotiche Soul Jazz Records (Konk, Rekid, Grupo Oba Ilu) e kosmische musik alla Cluster, il tutto immerso nelle bolge sintetiche degli Heldon». Antonio Ciarletta presenta così su onda-

“Sotto una pioggia di parole”, gli ispirati appunti per un disco di Maffucci e De Gasperi

Con Ozzy Osbourne, Slash, Ron Wood e Bonham torna in grande stile il festival norvegese di Quart

Originalità e uso creativo del suono sintetico: è la cifra del trio portoghese presentato su “ondarock.it”

sì il loro Sotto una pioggia di parole. Appunti disordinati di un disco (Mondadori, 263 pagine, 12, 80 euro). Attenzione però a quanti pensano che si tratti della solita furbata commerciale per ammannire un album con belle parole. Le pagine scritte dal duo raccontano anche e soprattutto luoghi, persone e abitudini che da Parigi a Barcellona, dal Sud Italia a Berlino hanno accompagnato i due artisti in un viaggio denso di emozioni. Scritto con classe, senza strilli da fanzine o melassa un tanto al peso, il diario di Maffucci e De Gasperi si segnala per equilibrio e capacità di fissare i ricordi in una leggiadria mai banale. Che scrivessero bene, lo si era capito già dai tempi di Semplicemente.

serata. «È un incontro leggendario di quelli mai visti», commentano gli organizzatori di quella che è la maggior kermesse musicale scandinava. A Kristiansand, località della Norvegia meridionale che la ospita, non sarà solo il momento delle guest star. Sono compresi nel succulento cartellone anche Marilyn Manson, Korn, Placebo, Chris Cornell e Black Eyed Peas. L’idea è quella di inseguire il grande successo di pubblico del 2001, quando suonarono tra i fiordi Manic Street Preachers, Deftones, Daft Punk, Beck, Alanis Morissette, PJ Harvey,The Dandy Warhols, Coldplay e Wyclef Jean.

rock.it i Gala Drop, trio portoghese che ha dato vita a un album omonimo. Provenienti dall’underground lisbonese, Nelson Gomes, Afonso Simões e Tiago Miranda mescolano la suburbia musicale europea con il più vivido tribal africano, contaminando percussioni trascinanti con mood jazzistici e refrain rimanipolati attraverso un missaggio mirabolante. Sette tracce che brillano per originalità ricombinatoria, uso creativo del suono sintetico e frenesia ritmica. A tratti debordante come un shaker impazzito, il sound dei Gala Drop non può non contagiare. Spruzzi di fantasia che si spargono dappertutto nella mente.

a cura di Francesco Lo Dico

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zapping

Esercizi di critica SU PAOLO CONTE di Bruno Giurato l libro qui presente è un libro serio, ed è anche un punto di svolta rispetto ai soliti volumi sulla musica pop. Si intitola Paolo Conte, Prima la musica (Il Saggiatore, 234 pagine, 29,00 euro) ed è stato scritto da Manuela Furnari. Un libro serio, dicevamo, perché per la prima volta o quasi si parla di un cantautore non a partire dai lustrini della giacca e da tutto il meraviglioso circo di panna montata che fa sostanza dell’apparenza pop. Il libro della Furnari, racconta Paolo Conte a partire dalla musica, con pagine e pagine di analisi sulle canzoni. Il risultato, grazie a Dio, non è un samizdat per filologi delle dodici note, ma un racconto analitico e romanzesco sulle mille forme usate da un autore. Il libro della Furnari mostra che non solo la musica colta, ma anche la musica cosiddetta popolare può essere vista attraverso il medium dello spartito senza perdite di significato. Peccato che nell’introduzione al libro il musicologo Franco Fabbri (che ricordavamo studioso lucido) tiri fuori una strana teoria: siccome non esistono musiche dal valore estetico universale, non è il valore estetico che legittima lo studio di una musica. Secondo Fabbri la qualità di una musica non è mai sicura, quindi in fondo non vale nemmeno la pena di parlarne o di usarla come riferimento. Ragionamento un tantinello squadrato con l’accetta, che tra l’altro fa intravedere un mondo culturale in cui Dante sta al pari di Moccia e Chopin insieme a Kalkbrenner. Via, caro Fabbri, mica c’è bisogno di credere agli universalia per riconoscere dei classici e una scala di qualità. Basta sapere laicamente che ci sono degli oggetti culturali più ampi, ricchi e durevoli di altri. Ma se vuole possiamo fare uno scambio: lei mi regala la discografia di Ornette Coleman, in cambio le faccio avere quella di Sandy Marton.

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classica

Sweeney, la vendetta in forma di musical di Jacopo Pellegrini roprio una bell’alzata d’ingegno quella avuta da Rosetta Cucchi, direttrice artistica del Lugo opera festival (cosa induca questi bravi romagnoli a credere che un’altisonante dicitura pseudostraniera abbia più efficacia - ed eleganza - di una italiana resta un mistero). Al suo spirito d’iniziativa si deve infatti la prima rappresentazione in Italia di Sweeney Todd. Il diabolico barbiere di via Fleet, pluripremiato «musical thriller» del 1979, libretto di Hugh Wheeler, musica e versi delle canzoni (tale il significato di lyrics, che tutti, chissà perché, traducono con un maccheronico «liriche») di Stephen Sondheim. Condannato ingiustamente alla deportazione da un giudice disposto a qualsiasi nefandezza pur di sollazzarsi colla di lui avvenente consorte, il barbiere Benjamin Barker, alias Sweeney Todd, torna a Londra dopo quindici anni di assenza e da un’ostessa vicina di casa, Mrs. Lovett, viene informato che la moglie si è tolta la vita e che la figlia Johanna è cresciuta in casa del magistrato, ormai deciso a impalmarla. Disperato, l’uomo decide di vendicarsi tagliando la gola a tutti gli uomini che gli passino a portata di rasoio, ivi inclusi il turpe Turpin (il giudice) e il suo degno ufficiale di polizia, ma anche a qualche femminuccia: la sposa (solo impazzita e ridotta al mendicio) e l’amante, ch’è la Lovett, sua complice nel riciclare i cadaveri in saporosi pasticci di carne, ma rea di avergli tenuto nascosta la vera sorte della coniuge. Anche Todd finisce morto ammazzato di rasoio per mano del fanciullo Tobias Ragg, tirapiedi della Lovett, mentre Johanna fugge con Anthony, un giovane marinaio che in precedenza aveva raccolto il barbiere in mare aperto. Un musical dunque, di specie particolare: tragico negli esiti (al modo del teatro giacobita inglese: efferatezze sanguinolente interrotte, di quando in quando, da intermezzi comici), sinfonico, per così dire, nel trattamento delle voci (umane e strumentali: l’orchestrazione originale si deve a Jonathan Tunick), spesso riunite in una fitta trama contrappuntistica e sorrette da un’armonia angolosa, apertamente dissonante. L’edizione del Teatro Rossini, arrivando quasi a sopprimere i dialoghi parlati (non però le sezioni in forma di melologo: recitazione accompagnata dall’orchestra), tende a fare di Sweeney un’opera vera e propria, in ciò confortata dalle rappresentazioni al Lyric Opera di Chicago (2002) e al

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Covent Garden di Londra (2003-4). Sondheim ha definito la propria «fatica» una black operetta incentrata sull’ossessione della vendetta; Harold Prince, il regista del primo allestimento, vi ha letto una metafora della lotta di classe… Qualunque sia il motore dell’intreccio, la musica traccia un autonomo percorso drammaturgico volto a esaltare il valore allegorico della vicenda (secondo un cliché attivo in tutto il teatro americano - di parola e in musica - del secolo XX): La ballata di Sweeney Todd apre, riappare, per intero o in parte, e chiude il lungo spartito a ricordarci che odio e dolore si danno sempre la mano. Una narrazione organizzata secondo un ampio reticolo di motivi conduttori, con parentesi leggere ben distribuite e intermezzi sentimentali modellati sui song di Bernstein; ovunque, alta professionalità. Manca solo il col-

po d’ala, il tune che si porta a casa. Spettacolo godibilissimo, sorretto da un coro impeccabile, da un’orchestra efficace, da alcuni solisti eccellenti (la Parks, Panuccio, Ferrante, Abrahams, Ascari e la piccola, irresistibile Asia D’Arcangelo) e da una regia, della stessa Cucchi, sorprendente per inventiva e abilità nell’organizzare i diversi piani narrativi (un po’ di studio, ed ecco una regista di prim’ordine!): anche chi canta meno bene, sta sulla scena con perfetto aplomb. Un po’meno rilevata e policroma di quanto fosse lecito attendersi la concertazione del pur sicuro Christopher Franklin.

jazz

Michel & Niels, 108 minuti d’intesa perfetta di Adriano Mazzoletti o incontrato Michel Petrucciani innumerevoli volte nel corso della sua breve vita e in tre occasioni ho avuto anche l’immenso piacere di lavorare con lui. La prima quando lo invitati al Festival del Jazz di Pompei che si svolgeva in quel magico anfiteatro che è il Teatro Grande agli Scavi, la seconda a Monteroduni durante il festival dedicato a Eddie Lang e infine al Lagomaggiore Jazz Festival, tre rassegne da me ideate e di cui per anni ho curato la direzione artistica. A Pompei, Petrucciani giunse come componente del quartetto del sassofonista Charles Lloyd dove aveva rilevato Keith Jarrett. A Monteroduni suonò in trio e al Lagomaggiore con il suo quintetto con, fra gli altri, Flavio Boltro e Stefano Di Battista. I tre concerti vennero registrati, ma non risulta siano stati pubblicati. E lo meriterebbero sicuramente. È apparsa invece recente-

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mente su doppio cd un’altra esibizione, quella che lo vide la notte del 18 aprile 1994 alla Jazzhouse di Copengahen in compagnia del grande contrabbassista danese Niels-Henning Orsted Pedersen. Cento e otto minuti di musica, senza mai un momento Un ritratto di Michel Petrucciani. A destra, Niels-Henning Orsted Pedersen esitazione, di incertezze, né da parte sua né tanto meno da parte del suo illustre ac- Basie e nel trio di Oscar Peterson gli hancompagnatore il cui stile, sonorità, tecni- no conferito un posto di grande rispettaca strumentale lo fecero contrabbassista bilità e importanza. I quindici brani che unico nel mondo del jazz europeo. Il toc- Michel e Niels eseguirono la sera del 18 co delicato e sottile di Petrucciani , l’attac- aprile 1994 a Copenhagen rinascono nei co potente che conferisce al pianoforte due cd della Dreyfus Jazz. L’alternanza un suono metallico e incisivo si fonde fra molti standard (All the Things You’re, magnificamente con il tono soffice ma al I Can’t Get Started, These Foolish contempo ricco di swing di Orsted Peder- Things, Stella by Starlight), con alcuni sen i cui trascorsi nell’orchestra di Count classici del jazz (Oleo e St. Thomas di

Sonny Rollins, All Blues di Miles Davis, Blues in the Closet di Oscar Pettiford, Billie’s Bounce di Charlie Parker, Round About Midnight di Thelonious Monk) e un «original» dello stesso Pedersen, rendono questo cofanetto assolutamente indispensabile per chiunque voglia approfondire lo studio dei due grandi musicisti europei. Michel e Niels non sono più fra noi, il primo scomparve a NewYork nel 1999 a trentasette anni, il secondo a Copenhagen nel 2005 quando stava per compierne cinquantanove. La musica che si ascolta in queste registrazioni rimane a testimonianza delle loro immense capacità.

Michel Petrucciani-Niels-Henning Orsted Pedersen, 2 cd, Dreyfus Jazz Distribuzione Egea


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narrativa

o spagnolo senza sforzo è il primo libro di narrativa che pubblica Gabriele Pedullà, giovane studioso di letteratura italiana, critico militante e saggista. Per i giusti conti di ragioneria è un libro che raccoglie cinque racconti brevi che giocano su elementi di similitudine tessendo uno stretto e vincolante dialogo tra loro. In questo passaggio potrebbe rintracciarsi il primo elemento di forza della scrittura di Pedullà, se non fosse che la lettura imprime altre considerazioni, a partire dallo stile serrato, vigile e attento, forse unico vero richiamo alla scrittura del critico. Nel dialogo interno tra questi cinque organismi la più patente e visibile eco è la minuzia con cui lo scrittore si avvicina alla materia scelta: si tratta, sia chiaro, di materia semplice e quotidiana, di routine e normalità di vita, ma osservata al microscopio e trattata con le pinze. Lavoro di laboratorio ma materia vivente. In questa palpitante vivisezione emerge il carattere scientifico e non ludico né dissacrante, un’osservazione muta degli eventi che, scantonando il giudizio, arriva alla vita, ai suoi minimi gesti quotidiani, alle sue impercettibili incongruenze, ai passi falsi, ai luoghi comuni. Tra i luoghi comuni c’è l’idea che il linguaggio abbia valore universale, che imparare una lingua (con o senza sforzo) possa aprirci le porte di culture e usanze straniere, mentre i tre racconti, che poggiano sul tema del linguaggio, liquidano la cosa come un pregiudizio osceno, grottesco o addirittura dannoso. Nel caso del primo racconto, Miranda, le protagoniste sono due giovani donne, colleghe di studi universitari. Miranda è

libri

Il linguaggio e la normalità visti al microscopio

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di Maria Pia Ammirati

cieca dalla nascita, Stefi una ragazza generosa e dalla vita normale. Benché molte diverse tra loro iniziano un’amicizia intrecciata da curiosità e altruismo, il loro è una sorta di confronto tra opposti che si attrag-

gono. Ma il confronto riguarda soprattutto il modo di comunicare delle due ragazze, il linguaggio dei segni, quello del corpo, la parola, l’invenzione del braille. L’approdo dell’incipiente amicizia è l’impossibilità

di capirsi, la paura di Stefi dell’invadenza del corpo sulla parola. Il rifiuto della diversità, che è sostanzialmente timore dell’altra lingua, si traduce in rottura violenta. Il secondo racconto descrive un diverso con-

fronto tra lingue straniere con un risvolto grottesco. Lele incontra in vacanza alle Eolie una ragazza tedesca Ulla. I due vivono un amore estivo anche se non parlano che poche e storpiate parole. Lele per indolenza le insegna, cambiandone il significato, uno strano italiano fatto di parole oscene. Lei ripete con compita accondiscendenza. Finché un giorno Lele scopre che Ulla conosce e parla perfettamente l’italiano. La bella tedesca rossa di capelli è una bugiarda, probabilmente si diverte alle spalle di un infantile spaccone che usa la parola cacone a posto di crema solare. Oppure, più semplicemente, «l’assenza di idioma comune li avvicinava piuttosto che allontanarli». Il terzo racconto, che dà il titolo alla raccolta, porta a compimento un percorso che dal confronto passa attraverso lo scontro, per arrivare a un vero e proprio affondo della lingua. In questo breve e concitato racconto la microbiografia di Mario si infrange contro la durezza delle parole. Le parole degli altri, lo spagnolo che si impara senza sforzo, una lingua all’apparenza dolce e musicale che nell’ultima notte di Mario si trasforma in un requiem. Gabriele Pedullà, Lo spagnolo senza sforzo, Einaudi, 181 pagine, 14,00 euro

riletture

Quel libro di Mosse che piaceva a De Felice di Giancristiano Desiderio o storico George L. Mosse morì esattamente dieci anni: 1999. Tra i suoi libri si ricordano, giustamente, Intervista sul nazismo, Le guerre mondiali, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste e anche l’autobiografia postuma Di fronte alla storia (questi testi sono stati tradotti in Italia da Laterza). Ma il libro per il quale si ricorderà, e si studierà, anche in futuro Mosse è senza dubbio La nazionalizzazione delle masse: un lavoro storiografico importante che non solo è decisivo per la storia e la genealogia di un incontro fatale, quello tra masse e potere, ma che è anche utilissimo per comprendere larga parte degli stessi fenomeni democratici dell’Ottocento e del Novecento. L’oc-

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casione per riprendere tra le mani e rileggere questo libro è data dalla casa editrice Il Mulino che lo ha ripubblicato nella collana «Storia paperbacks» (dunque un prezzo anche giusto che non alleggerisce troppo le tasche). L’edizione italiana della Nazionalizzazione delle masse è presentata con un’introduzione di Renzo De Felice. Conviene rileggere subito qui l’attacco del grande storico italiano: «Pochi libri - forse nessuno tra quelli pubblicati in questi ultimi anni - hanno tanta potenza suggestiva e sono così ricchi di vera cultura e di stimoli intellettuali e di suggerimenti metodologici e tematici come questo di Gorge L. Mosse. Fare in questo campo riferimenti, confronti, è sempre difficile. Eppure, se un riferimento, un confronto è possibile, i nomi, i titoli che ven-

gono in mente sono due: quello di Johan Huizinga con il suo Autunno del Medioevo e quello di Marc Bloch con il suo I re taumaturghi». Dunque, un libro illuminante. In cosa consiste l’illuminazione? Su cosa lo storico porta nuova luce? Leggendolo cosa si sa che prima già non si sapesse? Mosse indaga le radici remote dei moderni totalitarismi di destra e il peso che le origini lontane hanno avuto sulla politica e l’organizzazione di massa dei regimi «fascisti». È importante notare cosa che fece anche Renzo De Felice - che indagando le origini del totalitarismo di destra Mosse giunge a individuare una radice storica e ideologica che Jacob L. Talmon pose come fondamento del totalitarismo di sinistra nel suo studio Le origini della democrazia totalitaria: ossia la comune radice rousseauiana che

con la sua «volontà generale» è alla base della moralità laica che rimpiazza la tradizione etica religiosa. Come a dire che, ancora una volta, i totalitarismi del XX secolo confermano di essere gemelli appartenenti alla stessa famiglia, anche se poi hanno seguito sviluppi diversi. Il libro di Mosse ha comunque un suo campo di indagine «ristretto»: la Germania che viene studiata e analizzata nel suo simbolismo politico e nei suoi movimenti di massa dal 1815 al 1933, quindi dall’inizio dell’età della Restaurazione fino alla «democratica» presa del potere da parte di Hitler. Un lungo periodo di incubazione che, forse, dobbiamo ancora imparare a conoscere dal momento che rappresenta una storia politica e di concetti e simboli con i quali continuiamo a convivere.


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storia

Tutti i caduti della Dc negli anni di piombo di Franco Insardà

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uando si parla di vittime delle Br, il pensiero corre immediatamente ad Aldo Moro e subito dopo a Vittorio Bachelet e a Roberto Ruffilli. Ma la scia di sangue che le Brigate Rosse hanno causato è molto più lunga soprattutto in quella che loro consideravano «il cardine imperialista delle multinazionali»: la Democrazia cristiana. Il volume curato per conto dell’Istituto Luigi Sturzo, da Vittorio V. Alberti La Dc e il terrorismo nell’Italia degli anni di piombo. In memoria di Pino Amato è uno spaccato del nostro Paese arricchito da ricerche storiografiche,

saggi

testimonianze, interviste e documenti. Su tutto emerge lo spessore umano e politico della figura di Pino Amato, al quale è dedicato il volume, grazie ai contributi appassionati degli amici che hanno avuto modo di apprezzarlo sia come politico che come dirigente del Formez. Pino Amato, assessore regionale al Bilancio, fu ucciso dalle Brigate Rosse il 19 maggio 1980 a Napoli. Suo figlio Arnaldo, nella postfazione, si interroga sui motivi dell’uccisione del padre, ma delineandone il profilo politico dà chiaramente la risposta: «Europeista convinto, riformista rigoroso e tenace, il suo atteggiamento e la sua visione della cosa pubblica hanno probabil-

mente anticipato i tempi». Proprio i portatori di queste idee erano i bersagli delle Brigate Rosse che hanno colpito duramente la Democrazia cristiana, che come scrive Enzo Scotti nell’introduzione, «è stato l’obiettivo della lotta armata». Undici morti e trentotto feriti sono il triste bilancio delle vittime democristiane degli agguati terroristici di quegli anni terribili. Emerge una ricostruzione cronologica di militanti, dirigenti noti e meno noti, che per difendere i valori della Dc sono stati bersagli dell’odio terroristico e in molti casi sono stati sottratti all’affetto delle loro famiglie. Il lavoro curato da Vittorio V. Alberti, arricchito dai saggi di

Agostino Giovagnoli, Corrado Belci, Guido Bodrato, e dalle interviste a Ettore Bernabei e a monsignor Franco Gualdrini, è un contributo importante e validamente documentato che ci restituisce con il distacco della storia un quadro dell’Italia e una ricostruzione, meno faziosa, dei fatti drammatici degli anni di piombo. L’appendice documentaria, poi, permette al lettore di analizzare, in modo distaccato, il rapporto tra terrorismo, società e impegno politico.

La Dc e il terrorismo nell’Italia degli anni di piombo, a cura di Vittorio V. Alberti, Rubbettino, 417 pagine, 30,00 euro

“La pelle” di Malaparte secondo Kundera di Angelo Crespi on è di certo il miglior Kundera, quello dei primi saggi o dei grandi romanzi, eppure alcuni illuminanti passaggi valgono la lettura del volume in cui sono antologizzati una serie di scritti d’occasioni, di recensioni, di piccole divagazioni. Prendiamo per esempio una succinta riflessione in cui Kundera partendo dalla letteratura parla della vita e lo fa con la solita maestria: Céline nel romanzo Da un castello all’altro a un certo punto raccontando la morte della propria cagna dice che «ho visto molte agonie… qui… là… dappertutto… ma mai così belle, discrete… fedeli… quel che nuoce nell’agonia degli uomini è l’esibizione… l’uomo è sempre

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narrativa/2

nonostante tutto in scena… il più semplice…». Cosa se ne trae, si domanda lo scrittore ceco, da queste righe? Non appunto la banale e comune deduzione che la vanità sia un vizio portato all’estremo fino alla morte, semmai il contrario che la «vanità è una qualità che, consustanziale all’uomo, non lo abbandona mai, neppure nel momento dell’agonia» e proprio questo inestirpabile vizio ci permette di sublimare, a contrario, la morte discreta di un animale. La parte più interessante, almeno per il lettore italiano, è però quella dedicata a Curzio Malaparte. Kundera qui si dilunga nella disanima di come e perché Malaparte pur essendo stato in anticipo sui tempi, rispetto a Sartre, uno «scrittore impegnato», Milan Kundera sia anche un grande ro-

manziere, qualità che invece sembra preclusa al maestro francese dell’impegno. Nonostante la vocazione di arcitaliano e i vezzi di tardo dannunziano, Malaparte riesce meglio dove il suo impegno diminuisce. E cioè in un romanzo non romanzo eccezionale come La pelle, in cui Malaparte ha perso le proprie certezze e la «sua ignoranza», chiosa Kundera, «si trasforma in saggezza», e da scrittore impegnato torna a essere semplicemente poeta. Ma c’è un altro punto di forza in questo romanzo amato in Francia e snobbato in Italia, e cioè la forma inedita, una forma che da principio fa pensare non a un romanzo. Ma «un grande romanzo non è forse grande proprio perché non ripete ciò che già esisteva?». Appunto, Malaparte - secondo Kundera che non a caso è l’inventore di una nuova forma di romanzo sul finire del Novecento sarebbe grande perché ha ante visto la nuova estetica romanzesca che si sarebbe imposta nel dopoguerra. Milan Kundera, Un incontro, Adelphi, 186 pagine, 17,00 euro

Pieno di enigmi il nuovo “bonsai“ di Amélie di Mario Donati romanzi di Amélie Nothomb non sono romanzi. Sono racconti lunghi. Che si potrebbero chiamare anche bonsai. Questo per due ragioni. La prima: l’autrice è nata (nel 1967) a Kobe, Giappone, e in Asia ha trascorso alcuni anni dell’infanzia e adolescenza. La seconda: il termine bonsai indica una pianta rimpicciolita che in tutto assomiglia a quella originale. Sedici libri ha scritto finora la Nothomb, figlia di un diplomatico, che ora vive stabilmente tra Francia e Belgio. Raffinata, inventiva, ma anche elusiva, preferisce la dimensione minore attraverso la quale guardare al

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tutto. E del tutto, ossia del più grande albero delle vicende umane, offre abili cenni. Il suo ultimo «romanzo» ha una trama avvincente. Il quasi quarantenne Baptiste Bordave conversa con un amico, il quale gli spiega che la cosa più pericolosa è trovarsi in casa una persona che muore. Accade che poco dopo un uomo entri in casa sua chiedendo di poter usare il telefono dopo un guasto all’auto. Si chiama Olaf Sildur, svedese abitante a Versailles, e cade senza vita dopo aver fatto una misteriosa telefonata. Bordave, impaurito da quell’avvertimento, fugge impadronendosi dell’identità del morto, al quale somiglia fisicamente. Scopre dove abita, entra

nella sua villa e viene accolto da un’affascinante donna, enigmatica moglie del defunto. Lei lo accoglie e lo vizia con ozio e champagne. Fino a quando due individui danno l’impressione di spiarli da oltre la vetrata. È una minaccia. Ma chi era veramente Sildur? Forse un agente segreto. I due riusciranno a fuggire con molti soldi in tasca e raggiungeranno la Svezia. Amélie Nothomb, con prosa essenziale e mai sciatta, descrive la nebbia delle identità. A volte concedendosi riflessioni suggestive ma anche veritiere. Per esempio: «C’è un istante, tra il quindicesimo e il sedicesimo sorso di champagne, in cui ogni uomo è un aristocratico. Questo momento sfugge al genere

umano per un motivo banale: gli uomini sono così impazienti di raggiungere il culmine dell’ebbrezza che soffocano quel fragile stadio in cui gli è concesso di meritare la nobiltà». Frase che è diventata cavallo di battaglia pubblicitario di questo agile romanzo breve. L’autrice gioca tutto sull’euforia di una vita nuova, sull’equivoco identitario. Il punto di partenza è il Fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello. È ben risaputo che coloro che sono imbevuti di cultura orientale paiono inclini a iniziare il cammino, anche letterario, da un gesto imitativo. Amélie Nothomb, Causa di forza maggiore, Voland, 114 pagine, 14,00 euro

altre letture Cosa sono e cosa contengono i Vangeli apocrifi? Come e perché sono stati esclusi dal canone della Bibbia cristiana? Nei primi secoli del cristianesimo circolavano diverse raccolte delle parole di Gesù, ma solo alcune, sopravvissute a un lungo processo di selezione e valutazione, si sono affermate, non senza contrasti, come espressione del suo autentico messaggio. I Vangeli apocrifi. Un’altra immagine di Gesù di Claudio Giannotto (Il Mulino, 129 pagine, 8,80 euro) che presenta e discute i più importanti vangeli apocrifi, ricostruisce gli ambienti di origine della tradizione di Gesù e fa luce sul difficile rapporto di collaborazione della memoria di ciò che Gesù aveva detto e fatto. Ropraz, 1903, Svizzera francese. In un Paese opaco e austero, dove regnano la solitudine, la superstizione, la violenza, muore una fanciulla. Qualche giorno dopo la sua tomba viene ritrovata aperta e il corpo esposto, profanato. Come un morbo nel paese e nell’intero cantone, si diffonde il terrore del mostro, del vampiro. Quando ad altri due cadaveri di giovani donne viene riservata la stessa sorte, la paura collettiva raggiunge l’apice: diventa più che mai necessario scovare un colpevole, un capro espiatorio su cui scaricare il furore popolare. Il vampiro di Ropraz (Fazi editore, 90 pagine, 14,00 euro) di Jacques Chessex restituisce la cronaca degli orrori commessi in questa terra di lupi e abbandoni, attanagliata da ossessioni antiche e disertata da ogni pietà. Sarkozy in Francia, Cameron in Gran Bretagna, Reinfeldt in Svezia, Fini in Italia. Da qualche anno una destra nuova s’aggira per l’Europa, ci dicono Alessandro Campi e Angelo Mellone nell’introduzione a La destra nuova (Marsilio, 205 pagine, 15,00 euro), un volume che raccoglie i saggi di studiosi e ricercatori sui leader e le politiche di destra in Francia, Gran Bretagna e Svezia. Una neo-destra quella europea né statalista né libertisa, né conservatrice né populista, ma pragmatica, postideologica e modernizzatrice, rispettosa delle proprie radici culturali ma aperta alle sfide del futuro, interessata a conciliare l’autorità dello Stato con la responsabilità individuale. Una prospettiva nuova. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

BRUNO LEONI DIMENTICATO PER PIÙ DI UN QUARTO DI SECOLO, OGGI È AL CENTRO DI UN COSTANTE LAVORO DI RISCOPERTA, RECENTEMENTE CONCRETIZZATOSI IN NUOVE PUBBLICAZIONI AL DI QUA E AL DI LÀ DELL’ATLANTICO. PERCHÉ LA SUA RIFLESSIONE, IL CUI TEMA CENTRALE È CHE LA MIGLIORE GARANZIA PER AVERE UNA SOCIETÀ LIBERA È EVITARE CHE LO STATO INVADA OGNI SPAZIO E ASSORBA OGNI POTERE, OFFRE ALTRE POSSIBILI LETTURE DELLA CRISI ECONOMICA CHE STIAMO VIVENDO…

L’Hayek italiano di Carlo Lottieri stato dimenticato per più un quarto di secolo (dalla morte, avvenuta nel 1967, fino alla traduzione in italiano di Freedom and the Law, nel 1994, che fu realizzata su iniziativa di Raimondo Cubeddu e del proprietario e animatore della casa editrice Liberilibri, Aldo Canovari), soprattutto a causa delle sue idee liberali, troppo lontane dal quel mix di marxismo e statalismo cattolico che per decenni ha dominato il dibattito culturale in Italia. Ma ormai da tempo Bruno Leoni è al centro di un costante lavoro di riscoperta, il quale sta concretizzandosi pure in meritorie operazioni editoriali. Nelle ultime settimane, in particolare, sono da segnalare tre pubblicazioni. In primo luogo, l’editore americano Transaction ha pubblicato un’antologia (Law, Liberty and the Competitive Market) in cui sono messi a disposizione dei lettori di lingua inglese alcuni tra i migliori scritti leoniani in materia giuridica ed economica. Con una prefazione di uno studioso di prestigio come Richard A. Epstein e introdotto da chi scrive, il volume obbliga a prendere atto che Leoni non è stato l’autore di un solo libro, poiché il capolavoro del 1961, La libertà e la legge, è anzi il frutto di una riflessione che ha abbracciato differenti discipline di studio. In particolare, il lettore anglosassone sarà certamente colpito dal rigore delle tesi di Leoni in tema di concorrenza o diritto del lavoro, ma egualmente dalla finezza delle sue riflessioni sul rapporto tra diritto e politica.

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Gli altri due testi di Leoni usciti di recente sono Il pensiero politico moderno e contemporaneo (Liberilibri, 440 pagine, 22,00 euro) e gli Scritti di scienza politica e di teoria del diritto (Rubbettino e Leonardo Facco, 396 pagine, 18,00 euro). E si tratta di opere che confermano una volta di più come il «ritorno a Leoni» sia fruttuoso, offrendo spunti di interesse a chi opera in un frangente tanto difficile quanto è quello che stiamo vivendo. Il volume della Liberilibri inaugura una nuova collana intitolata «Hic sunt leones» - realizzata in collaborazione con l’IBL, il think tank italiano che ha adottato Leoni come proprio riferimento intellettuale - e in esso sono raccolti gli scritti che lo studioso torinese ha dedicato alla storia del pensiero politico. Curata da Antonio Masala e introdotta da Luigi Marco Bassani, l’antologia evidenzia come il liberalismo «a vocazione libertaria» di Leoni fosse

espressione della consapevolezza che l’età moderna è stata segnata dal conflitto tra un principio dominante (tendenzialmente collettivista e autoritario) e un principio a esso contrapposto, che invece valorizza la libertà individuale e la natura sociale degli uomini. Se a prevalere durante l’Ottocento e ancor più durante il Novecento sono state le varianti di un organicismo variamente comunitarista, socialista, nazionalista o conservatore, la filosofia politica che più ha resistito contro tutto ciò è l’individualismo liberale, inteso essenzialmente come teoria schierata a difesa dei diritti dei singoli, della proprietà privata, del mercato. Contro ogni forma di statalismo e totalitarismo, è allora proprio agli autori prediletti da Leoni (da Constant a Tocqueville, da Bastiat a Spencer) che oggi bisogna tornare a guardare. Le tesi sostenute da Leoni permangono radicali e quindi minoritarie nel nostro tempo, ma molto di più dovettero apparirlo quando

rente, sposando tesi che ormai quasi più nessuno era pronto a difendere. E così si proclama fautore di un liberalismo «mercatista» e indisposto a concedere spazio a nazionalizzazioni e programmazioni, nella convinzione che la difesa della civiltà sia tutt’uno con la protezione della libertà individuale e, quindi, del libero mercato. Mentre il mondo glorifica le logiche dell’intervento pubblico e de-

Scelse di andare controcorrente, sposando tesi che più nessuno era pronto a difendere, nella convinzione che la difesa della civiltà fosse tutt’uno con la protezione della libertà individuale e, quindi, del libero mercato furono formulate, se si considera come negli anni Cinquanta e Sessanta il liberalismo europeo stesse subendo un processo di erosione delle proprie fondamenta: una crisi profonda che lo portava ad accogliere esigenze variamente redistributive ed egualitarie. Nel timore di passare per partigiani degli «interessi borghesi» e per evitare di essere considerati gli attardati difensori di una dottrina ormai superata, quanti si dicevano liberali stavano disinvoltamente ammodernando il loro vocabolario e, di conseguenza, finivano per consegnarsi mani e piedi al loro nemico storico. E questo avveniva tanto tra gli studiosi di formazione crociana come per quelli che, invece, si rifacevano alla lezione di John Stuart Mill. Leoni aveva sufficienti solidità intellettuale e coraggio personale per reagire contro questo. Lui che intorno ai vent’anni era stato marxista e che da tempo non subiva più alcuna attrazione per il pensiero socialista, sceglie insomma di andare controcor-

monizza la pretesa anarchia dei mercati autoregolati, egli esalta la superiore razionalità e legittimità degli ordini che emergono dal basso, spontaneamente, senza che un dittatore o un ministro impongano la loro volontà.

Lo sfondo più teorico della riflessione leoniana risalta soprattutto nel volume che include gli scritti di filosofia del diritto e scienza della politica. Si tratta dell’antologia già apparsa nel 1980 presso Giuffrè con una bella introduzione di Mario Stoppino (che era stato suo allievo a Pavia e ne svilupperà le ricerche in campo politologico), qui riprodotta insieme a una nuova prefazione scritta appositamente da Giorgio Rebuffa. Il libro include testi molto diversi, che spaziano da Leibniz a Bernoulli, da Croce a Kelsen, dal rapporto tra fede cristiana e diritto a questioni riguardanti la rappresentanza democratica. Dietro a ognuno dei testi antologizzati è però sempre


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agevole riconoscere uno studioso che coniugò come pochi altri il rigore della riflessione filosofica e una militanza civile orientata al dissenso, che allora gli causò tanti nemici, ma ora ne fa il riferimento privilegiato di quanti (nell’Italia del terzo millennio) fanno tutto il possibile per resistere dinanzi alle tentazioni variamente autoritarie che pervadono la classe politica. Si farebbe infatti un grave errore se si pensasse che la pubblicazione di queste opere - al di qua e al di là dell’Atlantico (ma nei mesi scorsi si è avuta pure la pubblicazione della versione in russo di Freedom and the Law, a dimostrazione di una riscoperta di Leoni che ormai coinvolge il mondo intero) - rappresenti soltanto il doveroso omaggio a una grande figura della cultura italiana del Novecento. Questo profluvio di edizioni non è in primo luogo il frutto di una doverosa devozione nei riguardi del più liberale degli studiosi italiani del Novecento. Ben oltre questo, vi è soprattutto la convinzione che il suo pensiero sia oggi più vitale che mai e che abbia ancora moltissimo da insegnare. D’altra parte, come rileva Bassani nell’introdurre gli scritti di storia del pensiero politico, anche quando riflette sui regimi socialisti ciò che a Leoni «sta veramente a cuore è il nostro mondo occidentale: una terra di confine, né del tutto assoggettata, né pienamente libera». È il nostro statalismo democratico che è sempre al centro delle preoccupazioni dello studioso.

E a ben guardare il disfacimento attuale dell’economia è proprio figlio di quel dirigismo che è fu la bête noire della riflessione leoniana. Dalla politica monetaria espansiva al sostegno di aziende government sponsored (Freddie Mac e Fannie Mae, all’origine dei titoli «tossici»), dalla regolamentazione urbanistica a quella in ambito finanziario, tutto quanto ha condotto all’esplosione della bolla immobiliare e quindi alla crisi del 2008 va ricondotto a politiche governative. È insomma l’aver sottratto alcune aree cruciali della vita economica al libero commercio che ha finito per causare il disastro che ora sta sconquassando il mondo. Pubblicare Leoni adesso significa allora essere consapevoli che è di uomini come lui che oggi il dibattito pubblico ha urgente bisogno: di intellettuali che non temano l’impopolarità; di commentatori che comprendano quante conseguenze nefaste discendono da quelle opzioni che uniscono demagogia e

ria del «diritto come pretesa», che vede nelle norme il riflesso di singole volontà individuali, punta a sottolineare un dato di realtà, perché non è diritto un diritto che sia inefficace. Ma al tempo stesso essa prospetta l’esigenza di un ordine culturale che sia in grado di favorire l’evoluzione del sistema normativo, adeguandosi a tempi in costante evoluzione ma che in fondo chiedono soprattutto la protezione di antichi e ancora validi principi. Nel nostro agire quotidiano, tutti noi avanziamo pretese nei riguardi degli altri, perché - ad esempio - non vogliamo essere aggrediti o derubati, e le regole che in vario modo si affermano sono davvero solide ed efficaci se rispondono a questa diffusa domanda sociale.

Questo è però possibile solo se lo Stato non s’intromette di continuo nella vita sociale e non intralcia i piani imprenditoriali dei singoli. Come sottolinea Rebuffa nella prefazione agli Scritti di scienza politica e teoria del diritto, per Leoni «è l’esistenza del mercato che rende pensabile il soggetto unico di diritto; è il mercato, la condizione non soltanto della libertà, ma anche dell’eguaglianza.Tutto questo si può, però, mantenere soltanto con il riconoscimento di posizioni giuridiche individuali; posizioni che vanno considerate precedenti l’organizzazione politica, “pre-politiche”. I diritti non sono la creazione dello Stato, come pensava, ad esempio la cultura giuridica tedesca di fine Ottocento, così influente in Italia; i diritti individuali vengono prima dello Stato e servono, forse soprattutto,“contro”lo Stato». Alla luce di tutto ciò, per contrastare l’interventismo forsennato di questi mesi - caratterizzati da entrambi i lati dell’Atlantico dal successo di una sorta di fascismo economico del tutto compatibile con le logiche democratiche, esattamente come lo era lo statalismo di Roosevelt è necessario avere ben chiara la lezione di Leoni sull’esigenza di ripensare il diritto ripartendo dai singoli e dalla loro vocazione imprenditoriale. Sempre molto attento alla lezione degli studiosi austriaci (e Friedrich von Hayek fu anche uno dei suoi migliori amici), Leoni avvertì con lucidità come ogni forma di manipolazione politica del mercato e dello stesso diritto - così come emerge dalle pratiche sociali - tenda a causare una cascata di conseguenze irrazionali. Ma ancor più egli aveva chiaro che quella che è in gioco è la libertà individuale, che è incom-

Stampare le sue opere significa essere consapevoli che il dibattito pubblico ha oggi urgente bisogno di intellettuali come lui. Capaci di comprendere le conseguenze nefaste che discendono dall’unione di demagogia e tecnocrazia tecnocrazia, e quindi dai vari piani Paulson o Geithner; di professori che ricordino ai loro allievi che ogni passo in direzione del dispotismo non aiuta la società a vincere la miseria né riduce l’ingiustizia. In fondo, il grande tema alla base della riflessione leoniana è che la migliore garanzia per avere una società libera consiste nell’evitare che lo Stato invada ogni spazio e assorba in sé ogni potere. La teoria giuridica di Leoni sottolinea il primato del diritto giudiziale e giurisprudenziale esattamente perché tale diritto evolutivo - quale emerge grazie al lavoro di giudici e giuristi - permette alla iurisdictio di non essere assorbita dal gubernaculum (per rifarsi alla distinzione medievale), e quindi riesce a limitare la politica grazie al diritto. L’ordine giuridico conserva la sua autonomia di fronte al potere, che quindi deve rispondere alle leggi e non può modellare un sistema di regole a proprio uso e consumo. La stessa teo-

patibile con governi che non riconoscono i loro limiti. Nell’era di Barack Obama, Nicolas Sarkozy, Silvio Berlusconi e Gordon Brown sembra proprio che la leadership politica abbia smarrito la consapevolezza di riconoscere un argine di fronte alla propria azione. E quindi non dobbiamo stupirci se un disastro finanziario globale causato dallo statalismo trova ora medici che sanno suggerire soltanto altre e più massicce dosi di tassazione e regolamentazione. Leggere Leoni e le sue analisi teoriche - non tralasciando neppure i corsivi che egli scrisse per il Sole e ora ripubblicati in Collettivismo e libertà economica. Editoriali “militanti”, 1949-1967 (Leonardo Facco - Rubbettino, 314 pagine, 15,00 euro) - significa confrontarsi con uno dei più originali pensatori sociali dell’ultimo secolo. Un autore che ogni giorno che passa si rivela sempre più fondamentale per la comprensioni dei problemi che abbiamo di fronte.


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tv

video

di Pier Mario Fasanotti

Barnaby il fascino del crimine made in England

web

ll’inizio uno crede che la presentazione della nuova serie tv contenga un vistoso errore di pronuncia. Dato che il prodotto è francese viene da pensare che Spiral (pronunciata con la «ai») sia un inciampo e la versione corretta sia «Spirale», correttamente gallica. Invece è proprio l’anglosassone Spiral, una netta concessione a quell’idioma che è il marchio delle detective-story. Le aspettative sono state tante però si resta delusi. Il serial prodotto da Son et Lumiere non fa il verso agli americani, ma nemmeno raggruma il carattere francese e quando lo fa scivola nello strapaesano da città. C’è come protagonista il sostituto procuratore Pierre Clement che secondo copione dovrebbe essere tremendamente bello e affascinante. È invece un uomo vestito di blu ma con l’abito mentale assolutamente grigio. E inespressivo. Dalle prime occhiate si capisce subito che a invaghirsene è il capitano della polizia, madame Bertot. La quale sa comandare con durezza i suoi sottoposti maschi, ma il suo volto dolcemente si ravviva ogni qualvolta si trova - lei piccola e minuta - davanti al magistrato aitante e, secondo un’intenzione tradita, sciupafemmine. No, Pierre, fresco di incarico, sembra un fotomodello che non ha fatto carriera cinematografica, serio come un contabile, pronto a esprimere sempre i canoni della sua correttezza, ammettere i suoi sbagli comportamentali, è da fotoromanzo. A parte lui, la squadra investigativa è credibile perché fatta di facce che s’incontrano per strada e non sul set cinematografico. E allora, sempre sul versante Crime i telespettatori non perdono l’affezione verso L’ispettore Barnaby, le cui gesta sono giunte all’undicesima serie.Tutt’altro scenario. Campagna inglese, splendida, altro che Brianza. Che ricorda non tanto la scontata Agatha Christie ma anche quella grande giallista che è Ruth

A

games

Rendel, soprattutto per l’intreccio mai freddamente enigmistico. Della tradizione criminale britannica son ben visibili parecchi elementi. Casette di mattoni con finestre bianche, alberi e prati, cura dei fiori, pantaloni maschili sovente troppo corti, poliziotte con cappellini che paiono pezzi di carnevale, larghi e con gli irrinunciabili fregi a quadretti bianconeri, pinte di birra nei pub, gruppi di intriganti con un mistero doloroso maturato nell’infanzia o adolescenza e da conservare con l’accanimento di una congrega semi-occulta, l’accenno ai fantasmi, l’obbedienza al formalismo delle feste e ai suoi ingessati rituali, l’esistenza di un’anziana donna sensitiva e impegnata nell’ecologia, sprazzi di chiaro di luna che sono l’anticamera di situazioni quasi paranormali e invece sono accorgimenti che dovrebbe aumentare la tensione e il voltaggio «de paura». L’ispettore Barnaby non cambia quasi mai l’espressione (in questo senso è molto british), ha emozioni sempre trattenute, lui è il codice penale vestito di blu. Simpatico proprio non è, distante mille miglia dai grandi investigatori che fecero la loro fortuna con una faccia, una faccia ben precisa e memorabile. Lui, con la pelle rosata e gli occhi cerulei, trasmette il senso dell’ordine, questo sì, ma non la passione - fredda o calda che sia - di chi scava nelle anime, ciascuna delle quali ha ferite purulente, segreti imbarazzanti, aspetti patologicamente visionari. Barnaby è più un vigile urbano che non uno Sherlock Holmes. Ragiona molto, è vero, ma la stessa attività in Poirot aveva un suono. Detto tutto questo, l’intreccio delle vicende però tiene. E per fortuna si snoda non più tra i grattacieli e le hyghways.Variante apprezzabile, una gradita pausa, una presa di distanza dagli asettici e onnipotenti laboratori del crimine dell’America che risolve tutto (in tv).

dvd

ALLA RICERCA DELL’ALBERGO PERFETTO

IL PADRINO PARTE SECONDA

LE VIE DELL’ARGENTO

A

vvalendosi di numerosi parametri di selezione, hotelcalculator.com consente di trovare l’albergo ideale per le nostre esigenze e le nostre tasche. Basta compilare un form in homepage, indicare la città desiderata, la data, il numero di giorni e di persone, e una schermata ricca di informazioni e valutazioni ci consentirà di scegliere tra tutte le opzioni disponibili nel ricco da-

D

ivertente ma non entusiasmante, il secondo capitolo del Padrino targato EA, offre circa dodici ore di gioco in simbiosi con personaggi e snodi narrativi del fortunato romanzo di Mario Puzo. Nei panni del rampante Dominique, sgherro della famiglia Corleone, il giocatore si trova a dovere curare gli interessi della mala fra New York, Miami e L’Avana. Le manovre e le trame

irca ottomila bambini ogni giorno vengono sfruttati nelle miniere d’argento compromettendo la loro salute e lavorando in condizioni disumane con incidenti mortali quasi quotidiani. Potrebbe diventare un ottimo strumento educativo anche per le scuole superiori». Così Massimo Belluzzo presenta il suo Le vie dell’argento, tra paradiso e inferno, documentario di

“Hotelcalculator.com” consente di trovare l’alloggio ideale usando le principali piattaforme del settore

La solita sequela di pallottole nel nuovo capitolo tratto dal romanzo di Puzo e dal film di Coppola

Il documentario di denuncia di Belluzzo sullo sfruttamento dei minori nelle miniere in Bolivia

tabase di ricerca. Non mancano costi, prezzi nelle maggiori valute internazionali, dettagli sui servizi offerti e ulteriori criteri di ricerca che permettono all’utente di affinare la prenotazione secondo la tipologia di alloggio prescelta. Corredato da mappe che facilitano l’individuazione della struttura alberghiera nel contesto delle città che li ospitano, Hotel Calculator si muove sulle principali piattaforme di settore: da ActiveHotels e Octopus Travel passando per Booking e SuperBreak. Facile da usare, e concepito secondo i criteri di partecipazione attiva tipici del web 2.o, la caccia all’albergo diventa semplice e intuitiva, ma di una esattezza disarmante.

per controllare il business del racket, la decimazione delle famiglie rivali, Michael Corleone e Frank Pentangeli. Gli ingredienti che mescolano suspence a eccitazione cinefila sembrano garantire intrattenimento ad alto tasso qualitativo. E invece la strategia di conquista rimane confinata alla solita sequela di pallottole, calci e bastonate che appiattiscono l’ascesa criminale a un picchia duro senza troppa originalità. Esattezza grafica nella raffigurazione dei personaggi, a discapito però di città non troppo curate. Ottimo doppiaggio in italiano e colonna sonora.

denuncia realizzato in Bolivia da un’azienda di Treviso. Finalista al Film Festival di Trento, il film indaga le piaghe del lavoro minorile in un viaggio a cavallo tra le Ande, la Bolivia, il Cile e l’Argentina. Lungo le strade dei contrabbandieri che per tre secoli, dal 1500 al 1700, dalle miniere del sud della Bolivia raggiungevano Buenos Aires per piazzare l’argento che partiva dal porto della capitale argentina, il regista e il fotografo Luciano Covolo aprono uno squarcio sulla condizione minorile al di là dell’Oceano, dove persiste ancora l’infamia di una ricchezza di pochi, sgherri e affaristi senza scrupoli, ai danni di innocenti maltrattati. Da vedere e diffondere.

a cura di Francesco Lo Dico

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cinema Hollywood MobyDICK

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un inferno travestito da paradiso di Anselma Dell’Olio o sceneggiatore scrive il testo, il regista gira le scene, il musicista scrive la colonna sonora, e lo studio finanzia il tutto, ma il produttore che cosa fa esattamente? Disastro a Hollywood, tratto dall’autobiografia romanzata del produttore Art Linson, è la risposta a questa domanda cattivella che amano fare le api operose del cinema con un compito chiaro. Il produttore è in cima alla scala di potere «sopra la linea» del budget. («Sotto la linea» ci sono i tecnici della troupe.) Poi ci sono gli attori, i Mr. Dieci per cento (agenti e manager), i registi e al top i produttori. (I dirigenti degli studios sono dei fuoriclasse finché hanno il potere di «dare la luce verde» ai film.) Disastro a Hollywood inizia e termina con una sessione fotografica per l’annuale Power Issue di Vanity Fair americano, il numero che classifica secondo il rango attuale i potenti di Hollywood.

L

Ben (Robert De Niro) è un produttore in carriera, reduce da una disastrosa proiezione del suo film Fiercely per Lou (Catherine Keener), dirigente dello studio che ha finanziato il film. A Lou non piace il finale violento e anticommerciale e insiste perché sia cambiato prima che vada al Festival di Cannes. (Il titolo originale di Disastro a Hollywood è Cos’è appena successo?, ma nella peggiore tradizione nazionale, il titolo italiano rivela senso e finale del film, rendendo vano lo scrupolo del critico di non rovinare la sorpresa. Grrr.) Il film racconta le molte disavventure in cui può incappare uno che si sforza di realizzare film nella capitale del cinema, senza finire nell’esercito dei hasbeen: quelli che una volta avevano successo, fama e denaro, e poi finiscono i loro giorni (se sono fortunati) gestendo una palazzina di appartamenti in periferia, e sognando il grande ritorno. (N.B. Nella Los Angeles balneare dal clima dolce, è un errore abbronzarsi; significa che sei disoccupato - unico vero peccato mortale del luogo - con tutto il tempo di stare in panciolle sulla spiaggia o in piscina). Ben

deve convincere il nevrastenico, instabile regista inglese Jeremy a cambiare il suo terrificante finale con qualcosa di più potabile per il grande pubblico, cioè per ragioni economiche. Non si fa il tifo per i registi integri: il film non a caso si chiama Fiercely (Ferocemente), si sa che gli avverbi vanno sempre evitati per una questione di stile. Perciò Jeremy (Michael Wincott) sin da subito è definito un impostore, un esaltato pieno di sé e, a giudicare dagli spezzoni del film nel film, un pessimo regista. La star di Fiercely è Sean Penn, che come Bruce Willis interpreta se stesso nel film. Willis fa una star capricciosa e volitiva ingaggiato per il prossimo film di Ben; rischia di farlo saltare perché è improsciuttito e si è fatto crescere un barbone alla Carlo Marx. Considera l’ultimatum dello studio di rimettersi in forma e rasarsi un assalto alla sua «integrità artistica». Tocca a Ben fargli cambiare idea evitando un capriccio irreversibile. Poi c’è la sua incasinata vita privata, tipica anche quella. Kelly (Robin Wright Penn) è la più recente ex moglie di Ben, forse da lui ancora amata. Insieme frequentano un separation therapist, una

esce con un film diventa un flake, letteralmente briciola o scaglia: un millantatore perditempo. Art Linson ha prodotto film come Fight club, Gli intoccabili, Melvin e Howard, Black Dahlia; tra i film diretti da Barry Levinson ci sono Rain Man, Diner, Good Morning Vietnam, e come produttore ha fatto La tempesta perfetta, Un boss sotto stress, Sesso e potere e tanti altri. Autore e regista sono ancora in piena attività a L.A. Sono fini conoscitori del sistema, ma forse perché lavorano ancora nella pancia della bestia, non usano gli artigli e alla fine la satira non graffia. Eroi non ci sono, e in un film bisogna avere qualcuno per cui tifare (è stata la critica dei distributori americani a Gomorra). Disastro a Hollywood va apprezzato non per la satira equidistante, ma per il ritratto piuttosto realistico e calzante di come vanno le cose laggiù. Ecco un piccolo campionario: vali quanto il tuo ultimo film, ai funerali si fanno affari e si traffica con Blackberry e cellulare, amici e conoscenti attraversano la strada per non salutarti se le tue quotazioni sono in picchiata; persino i pargoli, come i loro

Non graffia abbastanza la satira in cui De Niro è un produttore e Sean Penn e Bruce Willis interpretano se stessi. Niente a che vedere con “The Player” o “Viale del tramonto”. “La vita segreta delle api”, prodotto da Will Smith e signora, è un film da non snobbare delle scene più riuscite e divertenti del film. Poi c’è Scott (Stanley Tucci), lo sceneggiatore amico in trattativa di lavoro con Ben, che sospetta di essere l’amante di Kelly. Zoe, la figlia adolescente di primo letto sembra essere cresciuta troppo in fretta, cosa più inquietante a Hollywood che altrove. La vita di Ben è sul precipizio: se sbaglia un passo si troverà negli abissi di turnaround hell, quell’inferno dantesco in cui i tuoi progetti sbalzano di studio in studio, senza soluzione di continuità. Se un produttore non ne

genitori, prima di accettare chiedono all’ospite «Chi ci sarà alla festa?» per sapere se gli invitati sono del giusto livello. Guai a farsi beccare a feste di serie B se sei un A: uno che si declassa da solo è ipso facto un cretino. In tutto questo non vi è alcun malanimo personale, ma soltanto uno spiccato senso di autoconservazione, di sopravvivenza. Nella definizione di un’indigena espatriata, Los Angeles, con le sue palme reali, brezze marine, prati verdissimi e giardini fioriti tutto l’anno, è un inferno travestito da

paradiso. Per un’autentica, micidiale satira su Hollywood, è ottimo The Player di Robert Altman ma Viale del tramonto di Billy Wilder è imbattibile.

È molto facile snobbare La vita segreta delle api, il film onirico tratto dall’amato best seller di Sue Monk Kidd, una favola ambientata nel meridione d’America nel 1964. Lily Owen è una quattordicenne che ha perso la mamma in maniera orribile undici anni prima. T. Ray, il padre scorbutico e sgarbato, sopporta a malapena l’adolescente, e solo per l’aiuto che dà nel pescheto che coltiva. T. Ray (Paul Bettany) rifiuta di rispondere alle domande di Lily sulla madre, la cui morte è avvolta in un mistero che la coinvolge. Lily ha solo un vecchio barattolo con alcuni cimeli sepolto nel giardino per ricordarla. La giovane tata nera Rosaleen (Jenifer Hudson) è l’adorata madre surrogata anche se poco più grande di lei, e sopportaT. Ray per non lasciarla sola con lui. Il tentativo di Rosaleen di iscriversi per votare scatena la furia di un gruppo di razzisti, che la picchiano e la fanno arrestare. Lily riesce a farla fuggire dall’ospedale penitenziario e le due amiche si dirigono verso il paesino di Tiburon, scelto perché il nome è scritto dietro l’immagine di una Madonna nera, trovata tra le poche cose conservate della mamma. Scoprono che si tratta dell’etichetta di una marca di miele prodotto dalle sorelle Boatwright, apicoltrici che vivono in una casa accogliente e incantata. La capofamiglia è Miss August, la magica, infinitamente guardabile Queen Latifah, che accoglie le due estranee come parenti perdute attese da sempre. Le altre sorelle sono l’algida June (Alicia Keys), violoncellista e attivista per i diritti civili, e la sempliciotta June (Sophie Okonedo). June non approva l’accoglienza data a una sconosciuta minorenne bianca in casa, ma Miss August insiste e lei ha l’ultima parola: Rosaleen darà una mano in cucina e Lily imparerà i segreti delle api. Forse il film insiste troppo nell’esaltazione delle donne nere, e la regista Gina Prince-Blythewood non sempre riesce a tenere a bada il sentimentalismo. Ma la forza del film sono i suoi interpreti, e sono messi in condizione di trascinarci in avventure avvincenti che sarebbe criminale rivelare qui. Sia sufficiente sapere che ci sono verità sconvolgenti che solo i toni della favola possono rendere in tutta la loro pienezza storica ed emotiva. Il film è prodotto da Jada Pinkett Smith con il marito Will Smith, non proprio gli ultimi arrivati nel costruire film graditi al pubblico.


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poesia

Le narrazioni di Piero Bigongiari di Francesco Napoli iero Bigongiari è stato grande e generoso, fisicamente e intellettualmente. Ricordo due occasioni nelle quali, ancor giovane critico, ho avuto modo di incontrarlo. Una prima volta a Milano, dove era venuto per curare il servizio stampa di una preziosa antologia in uscita con Jaca Book nella collana diretta da Roberto Mussapi. Dovevo intervistarlo e, invece, fu quasi lui a intervistare me. Sapeva dei miei studi ancora acerbi su Gatto e mi volle parlare a lungo del poeta salernitano, suo amico prematuramente scomparso, e lo fece con tratti di munifica confidenza. Mi ha raccontato degli splendidi anni Trenta fiorentini dove si andava componendo la grammatica dell’ermetismo e la poesia italiana viveva forse una delle stagioni più fervide e di grande dibattito teorico e di scrittura. Erano gli anni nei quali Bigongiari, appena specializzatosi con Attilio Momigliano su Leopardi, entrava nel giro delle riviste, nella fronda della terza pagina del Bargello, ma poi firmava su Letteratura di Bonsanti e Frontespizio fino al Campo di Marte diretto proprio da Gatto e Pratolini. Mostrava nei confronti del poeta salernitano una riverita ammirazione, lui colto e raffinato conoscitore della letteratura italiana e di quella francese, Gatto istintivo fautore e prim’attore dell’ermetismo. Mi confidò dell’umoralità dell’uomo e della grande capacità di fascinazione del poeta nel quale intravedeva se non un maestro quantomeno un saldo punto di riferimento. Qualche anno dopo a Firenze l’ho rivisto: s’inaugurava una mostra di Teresa Sorace Maresca e lui, da sempre attento alle arti figurative, in particolare quelle a lui coeve, era lì. Mi apparve un po’ meno «big», come Mussapi affettuosamente lo chiamava, ma sempre quel Bigongiari prodigo che a cena m’illustrava le tante specialità della cucina toscana e, in particolare, mi descrisse in versi lì per lì improvvisati la pappa al pomodoro, una sorta di canto librato tra un chianti e una cucchiaiata di quella pietanza davvero unica.

P

Piero Bigongiari (a destra) con Giuseppe Ungaretti

ASSENZA Non ha il cielo un segreto che ti culmini, le tua risa s’iridano al vetro della sera dolcissima di fulmini. Al cielo sale nel tuo gesto effimero la riga d’un diamante, lo smeriglio ricalcola all’assenza una giunchiglia morta nel sonno e al tenero fermaglio del tuo dolore che non si può chiudere geleranno dagli astri luci blu, luci sorte alla piega delle labbra che rimormorano arse cielo al cielo. Dove un rapido greto si distrugge, dove odorano (al tuo braccio?) gaggie, segreto faccio mia la tua pena che non ti raggiunge.

Piero Bigongiari da La figlia di Babilonia

La sua figura, poi, è stata per i poeti emersi negli anni Settanta un punto di riferimento quasi paterno, per quanti avevano ripudiato i cronologicamente più prossimi neoavanguardisti e invece andavano incontro con più sintonia a Bigongiari o Luzi, Bertolucci o Caproni. E ricordo che Milo De Angelis durante un’intervista riconobbe Bigongiari quale «padre» buono e sempre pronto ad accogliere le prove sue e dei suoi giovani coetanei rintracciandovi sempre un che di positivo, distinguendolo invece da Franco Fortini, severo ed esigente controllore del loro fare. Così, riavvicinandomi ancora a Bigongiari a distanza di anni mi andai a leggere quello che proprio De Angelis aveva scritto sul poeta toscano quando, a ragione, si soffermò su due versi, «la morte è questa/ occhiata fissa ai tuoi cortili», con quell’enjambement secco che isola icasticamente la prima

affermazione stemperandola poi in un verso di accentuato contenuto vitalista. Nato nel 1914, come Luzi e Parronchi e quindi in piena temperie da «terza generazione», Piero Bigongiari ha percorso un lungo cammino nella nostra poesia italiana, scomparendo a Firenze nel 1997. Gli autori della sua formazione possono essere Baudelaire e Leopardi, certo, ma Rimbaud e Campana, e poi, i due ancor giovani maestri della nostra poesia anni Trenta, Montale e Ungaretti. Nella Firenze di quegli anni, dal confronto molto ravvicinato costruito su un fitto commercio letterario con i coetanei, prende corpo la sua prima raccolta, quel La figlia di Babilonia che raccoglie i versi 1934-42. La sua poesia si compone in una sorta di narrazione in prima persona, secondo figure e termini di riferimento che se non appartengono tutti, in senso stretto, all’autobiografia del poeta, non mancano di testimoniare un’origine e una tensione di precisa natura esistenziale. Quello che resta sulla pagina è, come ha scritto lo stesso Bigongiari, non tanto un «canzoniere», per alcuni sin troppo abbondante, quanto un «romanzo»: un’opera cioè non dei sentimenti ma piuttosto dei loro effetti e della loro struttura in una sorta di surrealtà lirica che li circonfonde. Con l’esordio, Bigongiari si mostra subito figlio del suo tempo, dispiegando la sua poesia sull’asse concettuale tematico assenza-attesa-memoria, un asse sul quale si muoverà compattamente l’intero ermetismo più ortodosso.

Si sa come di fatto il pur coeso movimento non diede mai un manifesto di sé e allora su quest’asse battuto e ribattuto dai poeti di scuola, nel lessico come sul piano tematico, è possibile intravedervi quell’unitarietà quasi da manifesto. L’assenza, la poesia è un saggio di Carlo Bo del 1940, tanto per restare alle suggestioni di un titolo; nella stessa Figlia di Babilonia, oltre l’esemplare riprodotto, ricordo, almeno a livello di titolo, Assente dal passato, dove però spicca «un cielo di memoria» oltre a un «ricordo che non viene»; Un’attesa poi è la raccolta di Alessandro Parronchi con poesie 1943-45 o ancora Bo con Dell’attesa come voce inattiva, testo critico del 1939; fino al terzo corno di questo sistema, con Memoria del primo Bigongiari da raffrontare a specchio con Oblio di Gatto nella sezione La memoria felice delle Poesie. Ma questo asse portante lascerà ben presto Bigongiari, sin dal secondo volume, Rogo (1952), dove la sicurezza nell’assoluto della parola cede il posto al «disprezzo/ della battuta piena». Anche il verso perde la compattezza formale delle prime prove abbandonandosi a una versificazione decisamente più irregolare e preferibilmente portata su un verso lungo. Resta però intatta una convinta adesione alla forza del linguaggio lirico, per Bigongiari la parola permane sempre e ancora «tutta intorno a sé».


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il club di calliope

UN POPOLO DI POETI

J’ACCUSE

Sei qui fra noi e sotto il sole estivo che dardeggia raggi di fuoco, ombra vagante, ti aggiri sulle spiagge roventi, indiano emigrante. Occhi socchiusi, che celano l’immagine di terre lontane e dell’oceano profondità arcane, scarpe consunte che hanno percorso tanti liti estranei, vestito docile ai venti mediterranei, somigli a un falco pellegrino vagante, che solo la libertà cerca come un disperato amante. Come un falco pellegrino Aura Piccioni

Ascolta ciò che, incredulo, ho letto sul giornale: c'è una donna che ha avuto per destino, come Maria, di stare in una grotta in questa gelida notte di Natale. Ma non c'è il fiato del bue, non c'è il fiato dell'asino per il suo bimbo che trema. (Fredde le gambe, fredde le braccine e non bastano i baci a riscaldarle). La madre allora accende una candela nella sua disperata speranza. d'inventare il calore e subito diventa fuoco la sterpaglia, fuoco che dà la morte. Nessuno sente i gridi, i lamenti nella città lontana nei bagordi della festa pagana, fra vetrine ammiccanti, nella città cristiana che non sa più la pietà e l'amore. E ho letto nel giornale che c'è una donna che spende ogni notte sette migliaia d'euro per dormire. E allora, ribellandomi, (con l'anima che sanguina): se l'Angelo che sta al suo fianco vigile non grida per destare il suo egoismo vorrei io stesso - dico - vergognandomi per quella madre - strapparla da quel suo letto d'oro, trascinarla in fondo a quella grotta dove prende alla gola l'acre odore della carne bruciata, (impedirle di piangere se il pianto può consolarla!) e dirle - vorrei - per salvarla: scendi, accostati, penetra, diventa, almeno per un'ora, lei.

È… l’amore è na gran cosa prima esplode e poi riposa tu l’appoggi infonno ar core aspettanno che se move lui sussulta, poi vie’ a galla certo nun te bussa su na spalla ma lo senti venì su e poi ritonnatte giù, ogni vorta che lo senti grideresti ai quattro venti cara Terry, caro Mimì non potete sta a soffrì ve dovete rilassà e sposetti ritornà come 25 anni fa. È… l’amore è na gran cosa prima esplode e poi riposa certo nun ve sto a insegnà quello che dovete fa e perciò Terry e Mimì quest’amore fatelo uscì e gridate a tutti quanti «siamo sempre stati amanti».

L’amore Sergio Sardi

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma

Luciano Luisi

IL DANTE “ROMANTICO” DI ALBERTO MARTINI in libreria

a Divina Commedia annovera grandi illustratori, da Botticelli a Zuccari, da William Blake a Gustavo Dorè, da John Flaxman a Chini e Spadini. Alberto Martini s’impegnò nell’opera d’interpretare e commentare per immagini il capolavoro di Dante per oltre quarant’anni. Il suo lavoro complessivo ci viene proposto da Mondadori Arte in una splendida edizione, preceduta da un’acuta presentazione di Vittorio Sgarbi e con un esauriente saggio di Paola Bonifacio, storica dell’arte, conservatore incaricato della Pinacoteca Alberto Martini di Oderzo e curatrice scientifica del volume. Nato a Oderzo (Treviso) nel 1876, illustratore anche del Morgante maggiore del Pulci, della Secchia rapita del Tassoni, dei racconti di Poe, dell’Amleto di Shakespeare, di poesie di Verlaine, di Les Orientales di Victor Hugo, di Una stagione all’inferno di Rimbaud, dei Poèms di Mallarmé e di Pinocchio, per citare i più significativi, Martini si spense a Milano nel novembre 1954. Fu nel maggio del 1900 che Vittorio Alinari bandì il concorso per una

L

di Giovanni Piccioni

versione della Divina Commedia illustrata da artisti italiani. Come abbiamo accennato il corpus di 297 opere, dai primi disegni agli ultimi lavori di soggetto dantesco abbraccia oltre quarant’anni. L’interpretazione martiniana di Dante è di stampo romantico: l’artista vede nel poeta l’esule che rifiuta ogni forma di compromesso. Come si ricava dal saggio

indirizza nella dimensione del sonno e del sogno. («Dante fu certamente il maggior poeta del sogno della vita, del sonno e della morte».). La seconda edizione di Alinari è del 1922. La terza venne proposta a Arnoldo Mondadori negli anni 1940-1941. Dopo il diniego di quest’ultimo («per ragioni contingenti»), l’editore milanese Sadel mise in commercio alcu-

Ripubblicata la Divina Commedia illustrata dall’artista veneto in oltre quarant’anni. Un’interpretazione in cui si esalta l’esule che rifiuta ogni forma di compromesso di Paola Bonifacio, il pittore scrisse nella sua autobiografia: «L’esempio di Dante mi spinge talvolta all’invettiva… ma non chiedo indulgenza per il mio lavoro che considero una nuova strada che altri certamente seguirà. La furbesca modestia e la viscida ipocrisia sono mostri che so allegramente dispregiare». La prima edizione Alinari risale al 1902: la rilettura dell’opera dantesca è di tipo esoterico, si

ne copie di tiratura mai autorizzata dall’autore e priva della sua firma. Le opere erano state realizzate da Martini tra il 1936 e il 1944. Di ogni canto si possono individuare tavole molte delle quali consistono in primi piani dei protagonisti su uno sfondo nero ad acquarello. Risulta chiaro un influsso medievale, che esprime una scelta atemporale, volta all’astrazione. Per ogni canto Martini ha la-

sciato dalle due alle cinque tavole (disegni, prove, lavori finiti). Un certo numero di tavole a colori è d’impianto realistico. Sgarbi, dopo aver definito Alberto Martini «l’unico vero, grande surrealista italiano», fa riferimento alla difficoltà del suo rapporto con Dante e a un’«importanza psicologica e intellettuale prima che estetica di Dante per il pittore». Certo è che l’indagine psicologica assume un rilievo di rara intensità e di estremo approfondimento nel realismo con cui la penna dell’autore porta a compimento espressivo il volto di Forese nell’incisione omonima datata 1922. In essa vengono in piena luce la «calligrafica meticolosità» (Bonifacio) e la sapienza tecnica di Martini. Si ripensa così ai versi del canto ventitreesimo del Purgatorio, allorché Dante, nel sesto girone, dove si puniscono la colpa e il vizio della gola, così immagina l’aspetto delle anime che gli si fanno incontro: «Ne li occhi era ciascuna oscura e cava,/ palida ne la faccia, e tanto scema/ che da l’ossa la pelle s’informava… Parean l’occhiaie anella senza gemme».


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mostre

avvero, che spettacolo la corte dei Savoia, che si trasferisce in pompa magna, in un’altra corte fiamminga, cara ai vecchi reali, come Bruxelles e che approfittando della chiusura momentanea della torinese Galleria Sabauda, in via di trasferimento (lì non sono tutte rose e fiori, ma si vedrà) grazie anche a studi, restauri e un’allestimento consono all’importanza dell’occasione, dà del nostro piccolo staterello e della nostra monarchia da tempo umiliata da troppe storiacce ben poco eleganti, un’immagine di tutto rispetto e potremmo dire quasi di sorpresa, se non di scoperta. Non che le vecchie, nobili sale, un po’ polverose, ma dignitose della tormentata sede torinese, sopra il Museo Egizio (prima Palazzo Madama, poi Palazzo Carignano, poi l’ipotesi di via Roma) non potessero permettere d’apprezzare tutti questi capolavori, anche vistosi. Ma talvolta una spolverata radicale, pure di controllati e debiti restauri, e un provvidenziale decentramento-choc, sotto forma di mostra studiata e ragionata, a cura di Carla Enrica Spantigati, con la collaborazione di Paola Astrua, Anna Maria Bava e Sonia Damiano (vedi anche l’utile catalogo Allemandi, con molti preziosi saggi, sul gusto collezionistico di Casa Savoia e la storia complessa di questa collezione, che a un certo punto della storia, sotto la vigile attenzione dei due Venturi si sposa con la sceltissima raccolta delle opere di Gualino), può rinnovare l’attenzione su un giacimento straordinario d’opere talvolta troppo trascurato. E che opere e che livello di qualità e quali artisti ne sono coinvolti, non soltanto quelli evocati dal titolo suggestivo della mostra (basterebbe quel magnifico e minerale Bellotto, che racconta così bene il gusto murato e militare dell’atmosfera torinese e della città barocca che lentamente sale, o quella nobile figura di cavaliere grimpante, d’un ispirato Van Dyck, insieme così genovese e veneto e spagnolo, che rampa sulla spumosa effervescenza nevrile di un bianco cavallo, che diresti dipinto da El Greco), ma anche Guido Reni, Guercino, un miracolato Gentileschi, il Crespi-Cerano, Cairo, Rubens, e Lorrain, Dughet, Mola, per ri-

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Da Van Dick a Bellotto la quadreria di

Casa Savoia di Marco Vallora

arti

manere soltanto ai paesaggi. Per non dire poi dei pittori di corte, minori forse di fama ma non meno ragguardevoli, che passano per Torino, si fermano e fan davvero grande la quadreria di casa, come Giacomo Vichi, detto l’Argenta, Charles Dauphine, un’interessante donna pittrice come la Clementina, il Mayerle o Daniel Seiert, che a Torino, da Vienna, viene a morire. Ma non si può trascurare un capitolo importante come quello del precoce collezionismo fiammingo, con opere e nature morte prestigiosissime, che fanno dei Savoia degli autorevoli concorrenti di altri collenizionisti più omaggiati, come i Medici o il Cardinal Borromeo. Ed è curioso che questa sontuosa mostra si possa ammirare in contemporanea con quella che si è aperta a Torino, proprio a Palazzo Madama, pensata al tempo dei fasti olimpici, e soltanto adesso portata a felice esito, in tempo di crisi, grazie alla cura di Clelia Arnaldi di Balme e Franca Varallo, sotto la vigile attenzione di una decana degli studi teatrali sabaudi, come Mercedes Viale Ferrero. Feste barocche, al tempo delle due Madame Reali, nel passaggio da Carlo Emanuele I a Vittorio Amedeo II, tra Cinque e Seicento. Come si legge nel catalogo Silvana: «La corte sabauda visse tra il XVI e il XVIII secolo un periodo di grande splendore. Se Carlo Emanuele I, principe guerriero, fece del torneo la forma di spettacolo funzionale al suo pensiero, Cristina cercò nel balletto l’espressione idonea alla sua indole e Giovanna Battista colse nelle sue opere in musica la possibilità di sperimentare nuove soluzioni». Non è facile «rappresentare» questo mondo effimero e scomparso, ma la mostra, attraverso spartiti, strumenti musicali, stampe, ritratti e monete, e grazie soprattutto agli splendidi codici di Giovanni Tommaso Borgonio, riesce a farlo in maniera insieme profonda e scenografica. Come sono lontani i tempi dalle esecuzioni sabaude con Milly Carlucci...

Da Van Dick a Bellotto, splendori della corte dei Savoia, Bruxelles, Palazzo delle Belle Arti del Bozar, fino al 24 maggio; Feste barocche, Torino, Palazzo Madama, fino al 5 luglio

autostorie

La Studebaker in panne che ispirò Dürrenmatt di Paolo Malagodi ra il finire dell’Ottocento e i primi del Novecento, la relativa diffusione dell’automobile in un paese dotato, come la Francia, sin dall’epoca napoleonica di una buona rete di strade nazionali, influì non poco sul lessico del nuovo mezzo di locomozione. Con la presenza, nella terminologia dell’automobile, di moltissimi francesismi quali, ad esempio: chassis, garage, chauffeur, camme, cloche, limousine. A lungo adottati e in parte tuttora usati, come la parola panne, a indicare una vettura impossibilitata a muoversi; per derivazione da quanto si verifica con l’immobilità di un natante dovuta a un’errata manovra, per cui parte delle vele è orientata in modo da prendere vento sulla faccia prodiera e le rimanenti

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su quella poppiera. Così, già nel 1898, l’Annuario del Touring osservava come «i francesi, che senza dubbio sono stati i nostri maestri in fatto di automobilismo, hanno designato gli inconvenienti che possono avvenire viaggiando, con una parola rubata al gergo marino: la panne. E difatti una vettura immobilizzata nel bel mezzo di uno stradone, fa pensare al veliero fermo in alto mare. Data dunque la grande analogia, chiameremo panne tutti i guasti e gli inconvenienti che possono capitare all’automobile». Esattamente come capiterà in un incidente di lieve entità, una panne anche qui, a un rappresentante di articoli tessili mentre «viaggiava con la sua Studebaker su una delle maggiori strade e già pensava di raggiungere entro un’ora la propria residenza, una città di media grandezza, quand’ecco

che la macchina si rifiutò di funzionare. Non c’era niente da fare: non andava più avanti. Se ne stava lì, come abbandonata, con la sua bella carrozzeria rosso vivo, ai piedi di una collinetta. E il garagista che alla fine rimorchiò la Studebaker dichiarò che non poteva riparare il guasto, un difetto al condotto della benzina, prima del giorno dopo. Non c’era modo di sapere se fosse veramente così, né era prudente tentare di scoprirlo: noi siamo alla mercé dei meccanici come i nostri antenati erano alla mercé dei predoni». Con queste parole, di sfiducia verso gli autoriparatori, si pronuncia Friedrich Dürrenmatt (1921-1990), che ambienta nella natia Svizzera una grottesca vicenda (La panne, una storia ancora possibile, Einaudi, 68 pagine, 8,50 euro) innescata dal banale inconveniente.

Uno spunto, quello dell’automobile, che il drammaturgo e narratore elvetico utilizzerà ampiamente nella sua ultima fatica letteraria (Il pensionato, Casagrande editore, 112 pagine, 10,33 euro), uscita postuma e dal finale incompiuto. Imperniata sulla figura di un commissario della polizia cantonale di Berna che, alla vigilia del pensionamento, utilizza gli ultimi due giorni di servizio non presentandosi in ufficio ma guidando, alla ricerca di crimini rimasti impuniti, la propria Chevrolet su strade che si tingono di bianco. Inizia così la lunga descrizione che Dürrenmatt fa di un’auto che continua a slittare e sbandare, il cui conducente procede sotto il nevischio sempre più fitto anche per il piacere di viaggiare, «senza sapere ancora perché mai fosse partito e per andare, dove. Guidare, guidare e nient’altro».


MobyDICK

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teatro

Tosca (e Butterfly) in formato tascabile di Enrica Rosso

edicato a tutti coloro che si fanno intimidire dall’opera e pensano che sia roba per addetti ai lavori, pensato per i melomani che vanno di fretta e non possono concedersi un’opera in edizione integrale, ma che con rammarico rinunciano al brivido dell’esecuzione dal vivo, o semplicemente per i turisti che transitano nella capitale e desiderano trascorrere una serata particolare, il Piccolo Lirico Teatro Flaiano propone qualcosa di molto speciale. In occasione del centenario della morte di Giacomo Puccini offre la possibilità, fino alla fine di maggio, di assistere in serate alternate all’esecuzione di Tosca o di Madama Butterfly in formato teatro musicale da camera. La singolarità dell’operazione consiste nell’aver dato vita a un ibrido che pur mantenendo inalterate le caratteristiche tradizionali dell’opera, grazie ad alcune felici intuizioni, ne rende possibile una più agile fruizione. Nel caso di Tosca, in primis l’adattamento-ridu-

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zione di Gianna Volpi che senza impoverirla, sintetizza l’opera nel tempo di una partita di pallone. Il trucco consiste nel condensare la trama senza però rinunciare alle arie più amate; un po’ quello che è già stato sperimentato con successo a Londra con gli «Shakespeare tascabili». Sempre Gianna Volpi firma le immagini proiettate che in-

archeologia

vestono uno spazio scenico esiguo (rispetto alla consuetudine operistica) e ne eludono i limiti visivi diventando di volta in volta i luoghi dell’azione, ma anche suggerendo dettagli suggestivi della città. Ecco quindi Palazzo Farnese schiudere i battenti per mostrare i suoi splendidi saloni affrescati e un attimo dopo sfilare, in rapida successione, le statue del ponte di Castel Sant’Angelo, nella soggettiva di Tosca che si appresta a raggiungere il suo Mario dopo aver pugnalato Scarpia; ecco il dettaglio dei sanpietrini che cedono il passo alle ruote di una carrozza annunciata da un nitrito… allo stesso tempo i cantanti con i loro ricchi costumi (Carla Fonzi Cruciani e Valentina Albanesi), sono quasi a portata di mano e si ha la sensazione di poterli toccare. Insomma un curioso effetto dovuto forse alla potenza delle voci che ci raggiungono senza filtri e che enfatizzano la

vicinanza. Le luci risultano soffrire un po’ del poco spazio e per non «sporcare» le proiezioni ininterrotte si limitano a essere quasi «di servizio». Il progetto, l’allestimento e la regia sono voluti e ideati da Rossana Siclari, mentre il golfo mistico accoglie il direttore musicale (Elisabetta Del Buono) che interagisce con dei sistemi midi da lei stessa programmati e affidati a cinque musicisti. Cinque le compagnie di canto che si alternano sul palcoscenico nella rappresentazione della sola Tosca. Quella in scena la serata del 9 aprile vedeva l’appassionata Olga Perrier nel ruolo del titolo, il tenore Alberto Profeta in quello del pittore Mario Cavaradossi, mentre il baritono Jo Sanghyun vestiva i panni del terribile Scarpia. A completare il cast Mimmo Venturini, Stefano Viti e Roberto Antonelli. Nell’insieme una compagnia giovane e di ottimo livello. A questo punto i puristi arricceranno il naso, ma questo tipo di operazione può essere vantaggiosa per una veicolazione meno elittaria di un patrimonio musicale altrimenti imprigionato in gabbie produttive da molti zeri. Il tutto si svolge in un teatro di 150 posti, nel cuore di Roma.

Tosca, Roma, Piccolo Lirico Teatro Flaiano, fino alla fine di maggio. Info: 06-6796496 - www.piccolalirica.com

Trovati nuovi frammenti del Papiro dei re egizi di Rossella Fabiani ra due lastre di vetro, nel seminterrato del museo egizio di Torino, sono stati trovati alcuni frammenti di papiro che appartengono al Canone Reale. Risalente al lungo e importante regno di Ramses II (1290-1224 a.C.), questo papiro ieratico, noto come il Papiro dei Re, contiene, in frammenti, la lista dei re egizi come si sono succeduti nel tempo. Alcuni ricercatori del British Museum sono venuti a conoscenza dell’esistenza di altri frammenti del documento dopo avere ripreso uno studio del 1959 fatto dall’archeologo inglese Alan Gardiner, autore della famosa grammatica egiziana su cui si sono formati gli egittologi di tutto il mondo. Il professor Gardiner nel suo rapporto di studio parlava di frammenti non inclusi nella ricostruzione finale del papiro in mostra al museo di Torino. Oggi i ricercatori hanno trovato questi frammenti. La scoperta potrebbe aiutare a ricostruire un pezzo di storia dell’antico Egitto tra la I e la XVII dinastia, come riferisce Federico Bottigliengo, egittologo del Museo di Torino. «A differenza di altre liste di re, questa riporta tutti i sovrani, inclusi quelli minori e quelli considerati usurpatori. Inoltre dà notizia della lunghezza dei regni in anni e in alcuni casi anche in mesi e in giorni». Scritto in ieratico, il papiro è stato acquistato a Tebe, in Alto Egitto, dal diplomatico

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italiano Bernardino Drovetti nel 1822. Durante il viaggio in Italia il documentò subì dei danni, frantumandosi. Quasi 48 pezzi vennero in un primo momento rimessi insieme dall’egittologo francese J.F. Champollion (17901832), lo studioso che per primo decifrò i geroglifici leggendo la stele di Rosetta oggi conservata al British. In seguito altri frammenti vennero messi insieme dall’archeologo tedesco-americano Gustavus Seyffarth (17961885). Il restauro più importante venne però svolto soltanto nel 1938 dall’egittologo Giulio Farina, all’epoca direttore del Museo torinese. Attualmente il Canone è composto da 160 frammenti ed è mutilo di due parti importanti: l’introduzione della lista e la fine. «La nostra speranza - aggiunge Bottigliengo - è che i frammenti scoperti ci aiutino a ricostruire alcune delle parti mancanti». Oltre al Canone di Torino, le fonti storiche delle dinastie egizie sono: la Tavola di Abido, il più importante elenco di re inciso sulle pareti del tempio. La scena rappresenta il re Sethi I accompagnato dal figlio maggiore Ramses in atto di fare offerte a 76 antenati rappresentati dai cartigli; la Tavola di Saqqara, scoperta nel 1861 in una tomba di Menfi, conservava i cartigli di 57 sovrani omaggiati da Ramses II, ma danni alla parete ne hanno ridotti il numero a una 50; la Tavola di Karnak, incisa nel grande tempio a Luxor, risale al regno di

Tuthmosi III e conteneva 61 nomi di cui 48 ancora leggibili per intero o in parte all’epoca del suo rinvenimento, nel 1825; la Pietra di Palermo, un importantissimo documento diviso in più frammenti. Il frammento principale è chiamato pietra di Palermo dalla città dove è conservato, si tratta di un pezzo di diorite di piccole dimensioni. Altri frammenti si trovano al museo del Cairo. Il te-

sto, inciso sia sul fronte che sul retro del documento, consiste in un lungo elenco di re, dei nomi delle loro madri, e di anno in anno il livello raggiunto dalla piena del Nilo. Infine, Manetone, un sacerdote egizio contemporaneo dei primi due Tolomei. Della sua cronaca dei re egizi, tranne alcuni passi molto rimaneggiati e conservati dallo storico ebreo Giuseppe Flavio (70 d.C.), rimane soltanto un riassunto nelle opere dei cronografi cristiani Sesto Giulio Africano (inizio del III secolo d.C.) ed Eusebio (inizio del IV secolo d.C.). Nell’opera di Manetone, dopo il regno attribuito a dei e semidei, tutta la storia egizia era stata suddivisa in trentuno dinastie, che iniziano con Menes e finiscono con la conquista di Alessandro Magno nel 332 a.C.


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i misteri dell’universo

numeri sono di vari tipi, quelli naturali (1,2,3…), quelli interi, comprendenti lo zero - importato dall’India quelli negativi, quelli complessi, quelli razionali (Pitagora credeva che tutto potesse esprimersi con tali numeri e fece strangolare un allievo che dimostrò che la cosa non era vera), quelli irrazionali e così via. Grande sforzo si è speso nello studiare l’infinito come numero, merito in particolare del grande Cantor, le cui idee ferocemente osteggiate da matematici tradizionalisti ma potenti, come Dedekind, lo portarono al ricovero in un ospedale psichiatrico dove terminò i suoi giorni. A lui risale il cosiddetto fondamentale concetto di cardinalità dell’infinito, una misura del grado di intensità, diciamo così, in cui caratterizzare un insieme infinito. Ad esempio l’insieme dei punti di una retta (insieme del continuo) ha una cardinalità superiore a quella dell’insieme dei punti della stessa a coordinate intere o razionali. L’insieme dei sottoinsiemi di un insieme infinito ha una cardinalità superiore.

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MobyDICK

ai confini della realtà

Congetture sui

numeri di Emilio Spedicato

scienza che trascende le mie capacità di comprensione. Altri numeri possono essere originati, anche se ormai una chiara memoria è perduta, da grandi eventi del passato, specie di origine astronomica con effetti catastrofici sulla terra. Sto lavorando a un Dizionario dei numeri, che avrà una parte da me curata sui numeri di interesse strettamente scientifico o originati da eventi catastrofici o fondamentali nella storia umana, un’altra sulla Cabala numerica e una di miscellanee curate dagli studiosi Antonio Agriesti e Michele Francipane. Ecco in anteprima alcune voci che vi appariranno.

attribuibili a eventi catastrofici conseguenti all’eruzione del centinaio di vulcani nella Dancalia e a episodi di disintegrazione dell’oggetto chiamato nella Bibbia «Angelo di Dio», dai greci Fetonte, è possibile che questa giornata fosse ricordata in modo negativo, indipendentemente da quanto avvenne agli ebrei. Ma il 13 è anche un numero sacro molto speciale per gli Aztechi, di cui appare ora probabile una origine dall’Asia centrale via India… e allora può avere una interpretazione nel contesto della mitologia della creazione sumero-accadica e di altri popoli.

Uno dei problemi della matematica, definito la congettura del continuo, che è stato una sfida per circa un secolo ed era uno dei 23 problemi di Hilbert, era l’esistenza o meno di un insieme di cardinalità compresa fra quella degli interi e del continuo. La drammatica risposta è che si può dire senza contraddizioni sia che c’è sia che non c’è, esempio della incompletezza della matematica… Da poco l’infinito, prima considerato come il limite di un processo divergente, è stato trattato come infinito attuale dal russo Sergeyev, uno dei pochi stranieri professori in Italia, che ha inoltre sviluppato una aritmetica dell’infinito per computer. Dal suo approccio segue la risoluzione di decine di paradossi che avevano punteggiato la storia della filosofia. I numeri oltre che ad affascinare i matematici entrano nella vita comune e in vari rituali. Questo fatto da alcuni è attribuito a esoteriche virtù dei numeri stessi, oggetto di studio della Cabala,

Perché il 13 porta fortuna e sfortuna e perché il 17 è invece sempre malconsiderato. Naturali, interi, complessi, razionali, infiniti, oltre ad affascinare i matematici entrano nella vita comune e in vari rituali. Da Fetonte al Diluvio universale, dagli Aztechi agli antenati celesti - Tredici: questo numero è per la maggioranza associato alla sfortuna, per alcuni invece alla fortuna, ad esempio Caruso in America chiedeva sempre una stanza di albergo al tredicesimo piano.Tale caratterizzazione, come osservò Velikovsky, può risalire alla morte dei primogeniti, o scelti… che come decima piaga convinse il faraone a lasciare partire gli ebrei; questo evento ebbe luogo un giorno tredici, e quindi apparve positivo per gli ebrei e negativo per gli egizi, che hanno poi influenzato altri popoli. Essendo le piaghe

- Diciassette: questo numero appare sempre considerato negativamente, fatto che può associarsi alla data, un 17, in cui arrivò il diluvio biblico: evento che stando sia al Genesi che alla descrizione che Utnapishtim ne fa a Gilgamesh, avvenne improvvisamente (anche se strani fenomeni avevano allertato alcuni saggi da vari anni, stando ad altri antichi testi, spingendoli a costruire vari battelli di salvataggio). Fra gli altri numeri che possono riferirsi a eventi di natura astronomica o della storia umana il 3, 7, 12, 18, 19,

20, 30, 54, 108… fino al numero, 1.792.470, che appare nel libro nazionale giapponese Nihongi e che è sempre stato considerato puramente favoloso, ma che può essere decrittato. La chiave per decrittare tale numero, che dagli anni passati dall’arrivo degli antenati celesti a oggi, dove «oggi» appare riferirsi alla data di composizione di quest’opera, o di quella da cui è parzialmente derivata, il Kokiji, è stimabile fra il 500 e il 700 dopo Cristo. Ebbene il grande numero appare derivato con riferimento fasullo al grande anno di 3.600 anni ben noto agli antichi, associabile al misterioso pianeta Nibiru dei sumeri, mentre l’unità reale dovrebbe essere quella di 20 anni, associata a due congiunzioni successive di Giove e Saturno, e forse anche al saros lunare. Il rapporto fra le due unità, usate nella misura di eventi di grande scala, è 180, e tale numero appare curiosamente inframmezzato agli eventi che sono associati all’imperatore giapponese nelle pagine prima e poi quella del grande numero.

Dividendo tale grande numero per 180 si ottiene 9.958, da cui, togliendo un numero fra 500 e 700, si arriverebbe per l’arrivo degli antenati celesti a un’epoca compresa fra il 9.258 e il 9.458 a.C., periodo associabile alla data platonica per la fine di Atlantide e a quella della fine dell’ultima glaciazione. Date per le quali un’incertezza di almeno un secolo è comunque inevitabile. In modo simile si può trattare la durata dei dieci re antidiluviani dei documenti sumero-accadici, di circa 400 mila anni, e ricavare con differenza di soli due anni la durata dei dieci patriarchi biblici (distinti dai re sumerici) data da Africano, con riferimento alla Settanta, in 2.240 anni. E similmente si interpretano ancora numeri provenienti dall’India, come quello sull’origine della civiltà in Nepal e i 4 yugas, che diventano portatori della più antica cronologia di eventi a memoria di uomo. Quindi numeri favolosi sono riportati a numeri credibili, ed è evidente che crittare le informazioni non è segreto di oggi.


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