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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

“Duplicity” di Tony Gilroy

JULIA & CLIVE POLVERE DI STELLE di Anselma Dell’Olio e l’alta finanza e le sue corporation non fossero crollate sui propri basso in un angolo dello schermo ci sono le destinazioni canoniche e inerrori, quasi come l’Unione Sovietica vent’anni fa, si potrebtercambiali, Dubai, Langley, Virginia (quartier generale della Cia) e È una be sospettare che gli assassini siano Tony Gilroy e gli alpoi tutte le capitali che compaiono sotto le insegne delle multicommedia tri sceneggiatori di thriller hollywoodiani. Finita la nazionali dello shopping di lusso: Parigi, Madrid, Hong ferrea dittatura sovietica come ricca riserva di pesca Kong, eccetera. In Duplicity si spazia tra Londra e romantica travestita per cattivi, il capitalismo selvaggio, avido e spreMiami, Zurigo e le Bahamas, Manhattan, Roma da thriller il nuovo film del regista giudicato fa tanto comodo a scrittori in cere… Cleveland, Ohio. Venticinquesima città per grandezza degli Stati Uniti, Cleveca di antagonisti assoluti e precotti; spedi “Michael Clayton”. Un copione senz’anima land oggi è la sede di base per molte tencie ora che il mercato libero ha sostituito che divide la critica. Ma i due protagonisti, tacolari aziende importanti, grazie alla sua George W. Bush come capro espiatorio delle considerati gli eredi di Katherine centralità geografica. Ma sempre provincia rimane, nostre più intollerabili angosce, ieri per il terrorie torna utile per esigenze di copione in questo film jetsmo, oggi per il portafoglio. Gilroy è lo sceneggiatore dei Hepburn a Cary Grant, set, come si vedrà più avanti. tre film corri-correndo dedicati alla spia della Cia deviata, il non deludono braccato e amnesico Jason Bourne, che hanno fatto di noi dei gicontinua a pagina 2 ramondo in poltrona quando guardiamo i thriller internazionali. In

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Pasqua di Rino Fisichella Il pathos pulp di Neko Case di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Alida Airaghi e il suo diario intimo di Filippo La Porta

Quelle sette parole di Gesù sulla croce di Sergio Valzania La conversione di Ungaretti di Leone Piccioni

Il restauro di Formigine di Claudia Conforti


Julia & Clive, polvere di

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segue dalla prima

a un party animal qualunque e senza la minima circospezione (a Dubai!). Dopo l’amplesso lei lo droga, lo imbraga, rovista nelle sue valigie e gli ruba dei codici segreti prima di sparire. (Ma se lui è dei servizi inglesi e lei spia per gli americani, non dovrebbero essere alleati?). Quando finalmente la ritrova, e a ogni incontro successivo, lei finge di non riconoscerlo, lui se ne ha a male, e volano battute scintillanti, sempre le stesse, che alla fine conosciamo a memoria. Ma il rapporto tra i due, che consiste in ripetuti duelli verbali di due spie con la coazione alla diffidenza, non va mai oltre un gioco geometrico che sembra servire unicamente da sosta riposante nella trama sempre più avvitata su se stessa… e invece sarebbe il contrario, con un intero plot utilizzato come specchietto per le allodole.

Gilroy è alla seconda regia dopo Michael Clayton, l’eccessivamente dettagliato, manicheo e lodato thriller con George Clooney su una potente azienda chimica avvelenatrice, e lo studio legale disposto all’assassinio pur di coprirne le obbrobriose malefatte. In Duplicity i soliti sospetti sono due multinazionali rivali che producono prodotti per l’igiene, la Equikrom e la Burkett & Randall. E proprio qui è il caso di avvisare i polli (inclusa la sottoscritta) che vanno a vedere il film pensando di godersi un raffinato thriller con due star del calibro di Julia Roberts e Clive Owens, eredi di Katherine Hepburn e Cary Grant. L’ignaro che cade in questa trappola resterà deluso e con il senso di essere stato truffato, ma non per colpa dei divi. Lo script mena il can per aia fino alla fine, con una serie inesauribile di complicatissimi sviluppi che si fatica a star dietro, nell’errata convinzione che servano a qualcosa. Esausti per lo sforzo e il ritmo ansiogeno, si scopre al ribaltone finale che il furbissimo elefante partorisce, anziché un maestoso barrito, un flebile e insignificante ruttino. Ci sono vincitori e vinti, ma non ha alcuna importanza perché è solo un escamotage per chiudere il film.

Duplicity divide la critica: da una parte gli scocciati e i delusi; dall’altra, gli ammiratori adoranti convinti che Gilroy sia la reincarnazione di Ernst Lubitsch e Billy Wilder. (Nemmeno per sogno, ma ha un gran mestiere come costruttore di trame arzigogolate e di ping pong verbali). I due geni mitteleuropei di elegantissime, immortali commedie romantiche sorprendevano e deliziavano senza bisogno di trappole e inganni, creando personaggi originali e sfaccettati e non equazioni geometriche ben vestite. Ma chi poteva immaginare che l’autore degli intensi drammi del filone Bourne, Michael Clayton e Dolores Claiborne rifilasse un’intera trama involutissima di spionaggio industriale come pretesto per una contraffatta, unidimensionale, riflessione sulla sfiducia amorosa? Siamo costretti a seguire una storia che ci gratifica sopratutto per la bravura e la polvere di stelle che regalano Roberts e Owens, che hanno sullo schermo una chimica assente dal gelido, cinico e superiore Closer. Una commedia romantica sotto mentite spoglie poteva andare benissimo, ma l’elemento rom-com si esaurisce con il primo incontro dei due (la cronologia è frazionata per confondere la snervante pochezza della trama). I celebri dialoghi «sofisticati» di Gilroy ci sono, ma le battute più divertenti sono riciclate a ogni nuovo incontro tra i due spioni, come sono sempre rinnovate le accuse reciproche di tradimento. Perché Claire Stenwick (Roberts) e Ray Koval (Owen) sono due spie navigate, lei funzionaria della Cia, lui spia per M16, che s’incontrano a un garden party di un’ambasciata americana in Medioriente. Nonostante la mal fidanza congenita che gli è attribuita, Ray (in uno dei tanti flashback) seduce Claire come fosse

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

stelle

Tanta complessità a fin di niente genera curiosità (per un po’) ma non coinvolgimento. Una volta che Claire e Ray decidono di mettersi insieme (l’innamoramento è evidentemente scattato solo grazie all’attrazione fisica, perché altri indizi non sono inclusi nel copione) lasciano i servizi segreti e si mettono a busta paga di due aziende private, Claire a Manhattan, Ray a Cleveland, poverino. La metropoli provinciale, attraversata dal Cuyahoga, fece notizia negli anni Sessanta perché il fiume era talmente inquinato che scoppiò in fiamme spontaneamente. Ci furono due risultati positivi: il fatto diede la sveglia ai movimenti ambientalisti, e lo spiritoso cantautore Randy Newman trovò ispirazione per una canzone dedicata al fiume: «Il Signore può farti fluttuare, il Signore può farti curvare, il Signore può farti esondare, ma il Signore non può farti bruciare…». Claire ci mette poco a convincere il moroso a farsi assumere da un’azienda concorrente a Manhattan. C’è in ballo una segretissima formula che cura la calvizie, dunque di vasto valore, che l’Equikrom vuol soffiare alla Burkett & Randall. Il piano della coppia è di fare il triplo gioco e vivere felici e miliardari in pensione anticipata ed eterna. Paul Giamatti e Tom Wilkinson sono i capi delle corporation rivali che si odiano a morte. Il primo gigioneggia come Stranamore (e se ne vanta pure nel pressbook), il secondo è sprecato, essenzialmente in un’unica sequenza all’altezza del suo talento, in cui discetta dell’importanza capitale per un business di dominare il mercato con prodotti ambiti e assolutamente esclusivi. Gli altri attori sono dignitosi in parti generiche; quando le star sono assenti, se ne sente la mancanza. Solo Carrie Preston ha una breve parte degna di nota. È l’addetta all’ufficio viaggi della Burke & Randall, costretta a confessare (alla seccatissima e segreta fidanzata Claire) di essere caduta nella trappola di miele dell’irresistibile Ray… e ancora in delirio ormonale, non se ne pente. Tirando le somme, ci si va per il piacere di godersi due star nel loro massimo fulgore fisico e artistico, che danno lustro e glamour a un copione saccente e senz’anima.

DUPLICITY GENERE THRILLER NAZIONALITÀ USA 2009 PRODUZIONE LAURA BICKFORD PRODUCTIONS, UNIVERSAL PICTURES DISTRIBUZIONE UNIVERSAL PICTURES REGIA TONY GILROY INTERPRETI CLIVE OWEN, JULIA ROBERTS, PAUL GIAMATTI, CARRIE PRESTON

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via di Santa Cornelia, 9 • 00060 Formello (Roma) Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938

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parola chiave

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PASQUA asqua: un nome antico e sempre nuovo. Antico per la sua origine; nuovo perché porta con sé la speranza racchiusa nel cuore di ogni uomo. L’antico popolo di Israele la celebrava come ricordo della liberazione dalla schiavitù, un nuovo popolo, quello dei cristiani, fa memoria del mistero di amore di Gesù di Nazareth. Questo termine è carico di significato e condensa in sé una storia che ha segnato intere generazioni, portando a pieno sviluppo una promessa che era stata annunciata come sorgente di genuina liberazione. Perché, in effetti, se ognuno riflette sulla propria esistenza giunge a comprendere che ha bisogno di fare esperienza di libertà come di una liberazione. Il popolo di Israele viveva l’esperienza della schiavitù in Egitto. Non fu l’unica, ma quella era paradigmatica per la sua storia. Con «forti grida» aveva fatto sentire la sua voce a Dio perché lo liberasse. E Dio ascoltò la sua voce. Non gli uomini avrebbero liberato dalla schiavitù egiziana, ma solo Dio. Passò l’angelo sterminatore - come racconta il libro dell’Esodo - per convincere il faraone a lasciare partire il suo popolo; venne immolato ogni primogenito d’Egitto, ma neppure un figlio di Israele perì. L’angelo aveva «colpito» l’Egitto, ma aveva «saltato» le case degli israeliti. Questa esperienza fu chiamata pasqua; pashâ nella lingua aramaica per indicare il passaggio di Dio che libera e che salva. Da quel giorno, la notte di luna piena dell’equinozio di primavera, si celebra la liberazione con l’offerta di un agnello o capretto maschio, senza difetto, a cui non si deve spezzare alcun osso, mangiato in fretta con erbe amare e pane azzimo. Il rito ha sempre bisogno di segni per indicare una realtà più profonda che da questi viene evocata.

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La stessa cena pasquale venne celebrata da Gesù con i suoi discepoli. In quella notte si compì la promessa antica di una nuova liberazione: dalla schiavitù della morte. Gesù chiedeva ai suoi apostoli di ricordare i segni che compiva: spezzava il pane perché lo mangiassero e distribuiva la coppa di vino perché lo bevessero. Le parole che pronunciava in quel cenacolo rimarranno per sempre come testamento del suo amore fino alla fine dei tempi. «Questo è il mio corpo offerto», «questo è il mio sangue versato», parole che i discepoli non riuscivano immediatamente a capire; il loro significato sarebbe diventato chiaro tre giorni più tardi. Nel cenacolo Gesù diventava il vero agnello che si doveva immolare, l’unico che Dio avrebbe accettato per restituire la vita a ogni persona che avrebbe creduto nel suo Figlio. Nel mistero dell’eucaristia si celebra la pasqua dei cristiani. Storicamente, il giovedì santo diventa l’inizio del passaggio che dovrà attestare per Gesù l’accoglienza della volontà del Padre fino al dono completo di sé. La sera, nel giardino degli ulivi il Figlio si mette davanti al Padre chieden-

La notte di luna piena dell’equinozio di primavera Israele celebra la “pashâ”, il passaggio di Dio che salva, liberando il popolo dalla schiavitù in Egitto. Con il sacrificio di Gesù sulla croce si compie per i cristiani il passaggio dalla schiavitù della morte alla vita nuova

Il 14 del mese di Nisan... di Rino Fisichella

Nel cenacolo Cristo diventa il vero agnello che si deve immolare per redimere l’umanità dalla disobbedienza del primo uomo. Quell’agnello innocente, a cui non viene spezzato nessun osso come all’agnello antico, è l’unico che Dio avrebbe accettato per restituire la vita a ogni persona che avrebbe creduto nel suo Figlio

dogli di liberarlo dalla morte; accetta però la sua volontà e si offre agli uomini per essere condotto sul Golgota. Il venerdì santo l’amore che Gesù aveva annunciato diventa visibile nella sua crocifissione; l’innocente innalzato sulla croce diventa vera icona di come ama Dio: dando tutto ciò che ha. Qui comincia la storia di un amore che inonderà il mondo fino ai nostri giorni e non lo abbandonerà più. L’agnello innocente, a cui non viene spezzato nessun osso, alla stessa stregua dell’agnello antico, viene immolato per redimere l’umanità dalla disobbedienza del primo uomo. Il sacrificio diventa un dare tutto se stesso senza nulla chiedere in cambio. Gesù si dona al Padre che lo «abbandona» nell’atto estremo di rendere evidente il suo amore: dare tutto, senza trattenere nulla per sé. Solo Dio poteva offrire un segno d’amore come questo; ecco perché il mondo lo ha compreso subito come il punto oltre il quale non si può andare. Amare significa darsi, compiere il passaggio da sé alla persona amata, accoglierla in sé completamente perché ci si è svuotati totalmente. Tutto questo avveniva il 14 del mese di Nisan, la notte di luna piena dell’equinozio di primavera.

Il vero nome di pasqua, tuttavia, lo si coglie la domenica, di mattina presto, quando le donne vanno al sepolcro scavato nella roccia dove Gesù era stato frettolosamente sepolto, e lo trovano vuoto. Anche in questo caso, un angelo è presente per dare l’annuncio: «Non è qui.Voi cercate tra i morti colui che è vivo». Povere quelle donne! Dice l’evangelista che «fuggirono atterrite», non potevano neppure dire che era «risorto»; il verbo non esisteva, nessuno sapeva di cosa si trattava… la prima reazione fu quella di pensare che avessero rubato il cadavere. Pietro e Giovanni corsero per verificare di persona, ma la tomba era davvero vuota. In quel luogo si era compiuta la pasqua, il passaggio dalla morte alla vita. Mai come in quel caso pasqua raccoglieva in sé tutto il suo valore e il suo significato: Dio era davvero passato di persona e aveva risuscitato suo Figlio dal sonno della morte. Il verbo greco dice: egheghertai, cioè ha ripreso la posizione del vivo e gli effetti di questo risveglio sono verificabili fino ai nostri giorni. È pasqua ciò che noi attendiamo e celebriamo; ciò significa credere che Dio è fedele e non ci abbandona nella morte. Oggi ci viene data la certezza che come per Cristo così anche per ciascuno di noi che crediamo in lui ci sarà il risveglio per la vita nuova. Non potremmo vivere senza pasqua, per questo la celebriamo ogni domenica, per dire a noi stessi che il mistero di cui viviamo è vero e reale. Questa speranza è diventata annuncio, testimonianza, letteratura, arte, musica… viene espressa in tutto ciò che la mente riesce a comporre per dire a tutti che se si ama la morte è vinta e dinanzi a noi c’è solo e per sempre la vita.


musica Il pathos pulp di Neko Case MobyDICK

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cd

di Stefano Bianchi tavolta, curiosissimo, sono partito dal fondo. Cioè dai 31 minuti e 39 secondi (!) che chiudono Middle Cyclone, sesto album di Neko Case. Il pezzo, poeticamente intitolato Marais La Nuit, è tutto un gracidar di rane e un cinguettar di pettirossi. Non male, vi assicuro, se lo mettete in sottofondo mentre sbrigate le faccende di casa. Un colpo a effetto, non c’è che dire. Ma se anche il resto del cd è così pazzariello, mi sono chiesto, ne vale la pena recensirlo? C’è bisogno di orecchiabilità, perbacco. E infatti, quel bizzarro e intermi-

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nabile chill out non è che l’ideale happy end di un disco eclettico e orecchiabile come pochi altri. Neko Case, trentottenne cantautrice della Virginia, ha proprio fatto bingo. Sbarazzandosi, anzitutto, dell’etichetta alt.country (country alternativo) che i critici in sollucchero continuavano ad appiccicarle addosso. In scaletta, al posto del country, c’è un andirivieni di musiche sfuggenti, coinvolgenti e umorali che rispecchiano la guerriera ritratta in copertina: accovacciata sul cofano di una Mercury Cougar, Neko Case bran-

disce la spada come un’eroina «pulp» griffata Quentin Tarantino. E comanda a bacchetta gli straordinari musicisti che hanno risposto in men che non si dica alla sua chiamata: Joey Burns e John Convertino dei Calexico, Steve Berlin (Los Lobos), Garth Hudson (The Band), Howe Gelb (Giant Sand), i New Pornographers… Rinvigorito da una voce che ricorda Carole King e Patsy Cline, Middle Cyclone è imprevedibilità allo stato puro. Che senso avrebbero, sennò, i ritmi aggraziati di This Tornado Loves You e People Got A Lotta Nerve, che ricor-

dano gli Smiths e il Britpop anziché l’America delle praterie? Questo è un disco da ascoltare più e più volte, per cogliere nuovi equilibri, smussature, lune storte, colpi di genio. Si galoppa dal minimalismo alla Suzanne Vega di The Next Time You Say Forever, all’habanera di Polar Nettles; dagli arpeggi folk di Vengeance Is Sleeping, al purpureo easy listening di Magpie To The Morning. Ti aspetti un po’ di disciplina, e invece Neko ti schiaffeggia con gli arrangiamenti sgangherati (stile Tom Waits) di Fever. Le elemosini una botta di vita, e lei ti sorprende col tremolo della chitarra e l’atmosfera da spy story di Prison Girls.Vuoi un po’di rock, e te lo ipotizza con Red Tide dopo aver chiosato la sanguigna melodia di The Pharaohs con un organetto da sagra paesana. È un disco volutamente «perturbato», Middle Cyclone. Ma che pathos. Che fascino. E poi, non è da tutti individuare Don’t Forget Me di Harry Nilsson (quello di Everybody’s Talkin, dalla colonna sonora di Un uomo da marciapiede) e trasformarla in un’irresistibile ballata con sette pianoforti. O scegliere Never Turn Your Back On Mother Earth dei decadenti Sparks e farne un’amabile sinfonia pop con tanto di violoncelli. Neko Case è fatta così, prendere o lasciare. Io prendo, e mi diverto un sacco. Rane e pettirossi inclusi. Neko Case, Middle Cyclone, Anti/SpinGo!, 18,90 euro

in libreria

mondo

riviste

CODICE MERCURY

I METALLICA ALLA HALL

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e non mi fossi aggrappato ai testi di Freddie Mercury quando ero un bambino, non sarei dove sono ora. Mi ha insegnato tutte le forme di musica. Mi ha aperto la mente. Non ho mai avuto un insegnante così grande nella mia vita». Così Axl Rose, leader dei Gun’s Roses, sintetizza l’importanza del frontman dei Queen. Cantante di successo, campione di audience e collezionista

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ccanto agli AC/DC e i Led Zeppelin, i Beatles ed Elvis Presley, ci saranno anche loro. La Rock And Roll Hall Of Fame accoglie nella sua leggendaria famiglia anche i Metallica, secondo gruppo metal della storia a ricevere l’ambito riconoscimento dopo i Black Sabbath. «Questa è la prova vivente che un sogno può diventare realtà», ha commentato un commosso James

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Peter Freestone racconta senza filtri epici dodici anni al servizio del cantante dei Queen

La band di Hetfield celebra con una session l’accoglienza nella galleria dei miti del rock

La Bandabardò ritorna con un dramma musicale che si segnala per sound e inventiva

di trionfi, ma anche uomo controverso, pieno di umanità e debolezze. Peter Freestone ne racconta la maschera nuda in Freddie Mercury (Arcana, 304 pagine, 18,50 euro), storia di un maestro della voce narrata da un uomo che gli è vissuto accanto per dodici anni come maggiordomo e assistente. Emerge il doppio ritratto di un Freddie entusiasta, sempre indomito e fibrillante nei tempi d’oro, e di un Freddie via via più inquieto e smanioso, colmo di rimpianti e frustrazioni, man mano che la terribile malattia che se lo portò via prese piede. Commosso ritratto di un uomo cui sono state dedicate più di cento statue nel mondo, e decine di agiografie. Intimo e sommesso.

Hetfield, che ha invitato ad aprire le porte della Hall anche a Deep Purple, Iron Maiden, Rush e Kiss. Reduci da un grande ritorno al passato con l’album Death Magnetic, dopo i non del tutto convincenti Load, Reload e St Anger, i Metallica hanno celebrato l’iscrizione alll’anagrafe della mitologia rock con il ritorno di Jason Newsted sul palco, bassista che lasciò il gruppo nel 2001. Eseguite dal vivo Master Of Puppets, Enter Sandman e Train Kept A Rollin’, Hetfield e soci hanno dato vita a una performance che a detta di molti resterà negli annali della musica. Hall o non Hall.

lutiva è alla costante ricerca dell’amore che lo renda felice». Francesco Di Bruno presenta così il nuovo lavoro della Bandabardò su lisolachenoncera.it. Ricco di ospiti come Tonino Carotone e Stefano Bollani, Ottavio nasce come un concept album, una sorta di dramma in musica a episodi che si segnala per inventiva, senso del racconto e aderenza della orchestrazione agli stati d’animo del protagonista. Tra omaggi alla commedia dell’arte, sonorità popolari e sberleffi teatrali che trovano negli stessi musicisti dei godibilissimi interpreti, Ottavio segna una svolta per la band toscana, che ormai giunta a maturità, rinuncia a divertire in nome della sperimentazione.

a cura di Francesco Lo Dico

LA BANDA DI OTTAVIO on aspettatevi di trovare brani come Se mi rilasso collasso, Vento in faccia o Mojito Football Club in Ottavio. Questo è un altro progetto, in cui non mancano i pezzi ballabili e orecchiabili, ma che si pone come primo obiettivo quello di raccontare una storia, spaziando anche tra i generi. La musica segue gli stati d’animo di un uomo, Ottavio, che nella sua parabola evo-


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zapping

Se i bambini fanno Om COI SOLDI DEI BEATLES di Bruno Giurato bambini fanno «Om». Non so a voi, ma a chi scrive la pedagogia corollario delle battaglie culturali mette un certo qual brividino. Al risuonare della famigerata frase «bisognerebbe farlo leggere a scuola» viene subito in mente l’effetto Promessi sposi, odiati alle superiori quanto in genere amati dopo. E anche l’audience travolgente dei programmi del dipartimento scuola educazione sulla Raitre dei primi anni Ottanta. E infine la parodia longanesiana sul comunismo da far studiare a scuola per allevare una generazione di anticomunisti. E qui, buoni ultimi sulla via della pedagogia (che da sempre è la faccia tirata dell’ideologia) abbiamo i Beatles, o meglio quel che ne resta. Le mummie di Paul e Ringo hanno cantato assieme a New York. E non per i soldi, come ogni sana, avida, rockstar che si rispetti. L’hanno fatto per raccogliere fondi allo scopo di portare la meditazione trascendentale nelle scuole di tutto il mondo. I bambini fanno «Om». Anche se dal nostro osservatorio italiano l’idea dell’ora di meditazione trascendentale pone qualche problema. Innanzitutto si dovrebbe conciliare con l’ora di religione, cosa di per sé abbastanza impegnativa. Poi l’iniziativa ricorda certe pratiche entusiasmanti delle elementari a tempo pieno di qualche decennio fa, quando la maestra faceva il gioco del silenzio, o nientedimeno «facciamo a chi dorme prima». E tutto ciò è molto poco rock, e dopotutto anche poco Beatles. Anche se resta sempre la speranza che un qualche ragazzino/a si stufi dell’ora di meditazione trascendentale, smetta di fare «Om», faccia fuga da scuola e si metta a suonare la chitarra con qualche amico/a. Potrebbero venirne fuori i nuovi Beatles.

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jazz

Il ritorno a Bach di Jacques Loussier di Adriano Mazzoletti

Q

uasi cinquant’anni fa, nel 1960, la casa discografica Decca pubblicò un disco che fece sensazione. Il titolo Play Bach non chiariva se si trattava di composizioni di Johann Sebastian Bach oppure semplicemente di un errore di stampa dove la h era stata stampata al posto della k. Dei tre nomi che apparivano sulla copertina di quel longplaying due erano di celebri musicisti francesi di jazz, il contrabbassista Pierre Michelot e il batterista Christian Garros, mentre il terzo era quello di uno sconosciuto pianista, il cui nome era Jacques Loussier. Era dunque un disco di jazz, ma la sorpresa consisteva nel fatto che gli otto brani non erano gli abituali standard americani che all’epoca i musicisti europei erano soliti eseguire, bensì quattro Preludi (il numero 1,2, 5 e 8) due Fughe (la numero 1, 2 e 5) e una Toccata del grande compositore tedesco. Per la prima volta musicisti di jazz eseguivano opere immortali con un idioma jazzistico rimanendo però fedeli alla partitura originale. Il successo di quel primo disco, dovuto all’intuizione di un produttore inglese, fu eccezionale. Vennero vedute oltre sei milioni di copie e il trio Loussier, Michelot, Garros partecipò, nel decennio successivo, a quasi duecento concerti all’anno in ogni parte del mondo. Dopo il primo disco ne seguirono altri, tutti coronati dallo stesso favore, da parte del pubblico degli appassionati di jazz e del-

la musica classica. volta Glenn Una Gould disse: «Play Bach è un buon modo di suonare Bach». Il successo però finì con lo stancare Loussier che nel 1978 sciolse il trio, si ritirò nel suo castello in Provenza, dedicandosi alla composizione. Una delle sue opere Pulsions sous la mer per piano, sintetizzatore, percussioni e contrabbasso, pubblicata da Decca nel 1979, venne registrata nel suo studio, frequentato da musicisti di jazz, ma anche di rock, come i Pink Floyd che proprio in quella sala realizzarono il loro celebre The Wall. Nel 1985, per il trecentenario della nascita di Bach, Loussier fu persuaso a riformare il Play Bach Trio. Con i suoi nuovi partner, il contrabbassista Vincent Charbonnier e il batterista André Arpino, registrò altre composizioni di Bach pubblicate in un doppio cd dal titolo The Best of Play Bach. A quel doppio disco ne seguirono altri, dedicati però a Mozart, Chopin, Beethoven, Debussy, Handel, Ravel, Satie, Vivaldi. Solo recentemente è tornato al primo amore. Il nuovo disco, pubblicato per il 50° anniversario della sua prima incisione, comprende la Partita in Mi maggiore, Vivace dal concerto in Do minore, Minuetto in Sol maggiore e altre otto composizioni tutte dovute all’estro di Bach, sta ottenendo un successo simile ai suoi primi album. Ma non solo. Il settantacinquenne pianista ha ripreso con rinnovata fortuna l’attività concertistica come ben sa il pubblico fiorentino che il 3 aprile scorso alla Chiesa di Santo Stefano al Ponte lo ha applaudito con grande entusiasmo. Jacques Loussier, Plays Bach. The 50th Anniversary Recording, Distribuzione Egea

danza

Turkish Bazaar o il sultanato delle donne

di Diana Del Monte n incontro tra l’esotismo dell’immaginario e le suggestioni del mondo turco, tra immagine pubblica e immagine privata, tra ufficialità e intimità. Questo è Turkish Bazaar, l’ultima coreografia creata da Monica Casadei per la compagnia Artemis Danza, che per l’occasione si presenta in una versione tutta al femminile. Sei danzatrici, sei corpi, sei femminilità completamente diverse per mostrare la faccia nascosta della luna. Il bazaar turco diventa, così, un pretesto per giocare con quell’identità femminile che nelle nostre fantasie si identifica con il mondo mediorientale, ma in realtà è la riscoperta della femminilità e della sua intimità in senso più ampio. La Casadei lo afferma chiaramente in vari momenti dello spettacolo attraverso i costumi, i suoni, la musica e, naturalmente, la coreografia che profumano di Turchia, ma

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che, in realtà, hanno un sapore tutto occidentale. Lo spettacolo, che ha debuttato in marzo al Teatro Comunale di Modena «Luciano Pavarotti», è l’ultimo lavoro nato sotto la stella Artemis incontra culture altre, un progetto, ideato dalla coreografa, nonché direttrice artistica della compagnia, e sostenuto dalla Regione Emilia-Romagna. Il progetto prevede ogni anno una residenza artistica all’estero, in un paese diverso ogni anno, per far conoscere, fuori dai nostri confini, la danza contemporanea italiana e per sperimentare i colori, i suoni, i sapori e gli odori dei paesi ospitanti. Com’era già stato per le esperienze precedenti in Sud America, Messico, India e Cuba, la Turchia ha ispirato alla Casadei il primo nucleo creativo di questo suo nuovo spettacolo, che è stato, poi, rielaborato e sviluppato insieme alla compagnia al rientro in Italia. Nasce così l’ultimo capitolo di una saga che ha riscosso sempre maggiore successo e che vedrà la com-

pagnia impegnata in una nuova residenza in Giappone il prossimo autunno, invitata dal locale Istituto Italiano di Cultura. Ma torniamo allo spettacolo, Turkish Bazaar, che entrerà in repertorio a giugno: è costruito attraverso una gran-

de varietà di tableau vivant arricchiti da un’altrettanto vario e ricco panorama di costumi. Lo spettacolo accumula energia su energia sostenuto, in chiusura, da una musica hard rock. Siamo alla fine: tutte le danzatrici sono in scena, la musica incalza, il ritmo aumenta, l’hard rock diventa heavy metal e, colpo di scena, il fondo nero cade svelando una band che suona dal vivo. Il teatro diventa, così, luogo per un concerto di massa in cui è difficile trattenersi dal saltare in piedi e urlare. Poi tutto si ferma e l’impalpabile tulle nero, che ci aveva sempre separato dalle danzatrici ma di cui ci si rendiamo conto solo ora, cade. Solo ora capiamo: cade il velo, cadono le distanze, il mistero è svelato.


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narrativa

Con Athénäis alla corte del Re Sole di Pier Mario Fasanotti

gelosia più feroce e autodistruttiva. Rivuole indietro la moglie, aggiunge le corna al proprio stemma nobiliare, vaga dentro una carrozza nera («la carrozza cornuta», la chiameranno a Parigi), tenta una serie di vendette, salvo poi essere prima blandito dal re Sole, che lo farebbe anche duca se solo rinunciasse ad Athénais, poi perseguitato con tutti i mezzi. Conoscerà la galera, l’esilio, le congiure giudiziarie, si ritroverà solo e delirante nel suo cadente castello vicino ai Pirenei. Il narratore pone in risalto, con passi letterariamente affilati e divertenti, il peso dell’unica legge in vigore a quei tempi: nient’altro che «il piacere dei potenti». Compare anche Molière, che fa la parte dell’intellettuale cortigiano e mette in scena la caricatura di un amore coniugale disgraziato e fuori-moda, in netta contraddizione rispetto ai costumi secondo cui l’essere marito e moglie non può mai significare amore, a rischio di essere ridicoli come i personaggi di una favola. E FrançoiseAthénäis partorisce uno dopo l’altro «i bastardi» di Versailles, offre la sua innata voluttà al sovrano prima generoso ma alla fine stizzito per i costi enormi che deve sostenere per i capricci della favorita. Un re piccolo di statura, vanitoso e maniacale. Il quale - è inevitabile - si stancherà di «Madame Quatorze» e sceglierà un’altra donna come «favorita». Il marchese de Montespan invecchia nello straziante mondo di amore-gelosia, rischia addirittura di mettere in crisi i rapporti tra Parigi e ilVaticano denunciando l’immoralità di Versailles. E alla fine, pur senza astio profondo, non vorrà vedere la sua perduta moglie, rinchiusasi in un convento con il corpo umiliato dai cilici del pentimento. La morte di Françoise contiene qualcosa di terribile e rimanda a certe zone buie (e magiche) della famiglia d’origine. Jean Teulé descrive un uomo, una donna, ma soprattutto un mondo. Come ha già fatto, con uguale brillantezza, in O Verlaine (Nutrimenti editore, 2008), storia dell’autunno del grande poeta, perseguitato dal proprio alcolismo ma anche da accademici e opportunisti d’ogni genere.

nche la più sprovveduta guida turistica vi av- Questa era la monarchia assoluta, ridicola e indecente, vertirà che i corridoi e le sale del palazzo di questo era il mondo squilibrato e marcio che ci induce Versailles, oggi lindi, un tempo erano sporchi e a meravigliarci su quanto (troppo) tempo sia durato puzzolenti. I nobili con i tacchi rossi - segno di- prima che la lama della ghigliottina cambiasse la Franstintivo di spudorati privilegi - davano mostra di sé cia e il mondo. Françoise vuole tutto per sé, pretende di ignorando abluzioni, educazione e pudore. Luigi XIV, vivere al di sopra dei mezzi e così spinge il povero il re Sole, era circondato da un popolo di parrucche, di Louis-Henri a inventarsi un’improbabile quanto sforlacchè, di ossequianti, di questuanti. Sarà tra questi che tunata carriera militare. I creditori sono costantemenla marchesa Françoise de Montespan si muoverà con te alla porta. Poi un giorno il re sparge la voce, e la sua la brillantezza del suo carattere e la tenacia di chi vuo- voce è un ordine perentorio: vorrei a corte quella bionle essere la seconda dopo il sovrano, la bruttina moglie da con quelll’originalissima acconciatura e quei seni e di Luigi relegata a comparsa grottesca. La Montespan fianchi da scultura greca. Lei diverte tutto il seguito fu, a metà del 1600, la «favorita». Jean Teulé ricostrui- reale con battute argute, salaci e a volte irriverenti. sce, in questo brillantissimo romanzo che pare quasi Mentre il marito passa dal torpore dell’ingenuità alla confezionato per il cinema, le fasi dell’ascesa e della caduta di una donna condannata dalla propria sensualità e da una bellezza tale da indurla a cambiare il proprio nome in Athénäis. Louis-Henri de Montespan era il marito.Ventenne e innamorato pazzo, fedelissimo, pieno di debiti ma costantemente pervaso dall’allegria fisica e spirituale derivante dallo stare accanto a una bionda il cui corpo statuario «oscurava le stelle». Un uomo sfortunato e maldestro, alla ricerca di una collocazione sociale. Consapevole che in quel tipo di società se una persona veniva ignorata dal sovrano più potente d’Europa praticamente non esisteva. Erano tempi in cui l’identità del singolo era la conseguenLuigi XIV e la marchesa Françoise de Montespan, sua favorita za dell’approvazione del re.

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libri

Jean Teulé, Il marchese di Montespan, Neri Pozza, 252 pagine, 16,50 euro

riletture

Subiaco, la Pietà, il Barocco: la conversione di Ungaretti di Leone Piccioni ono un uomo ferito./ E me ne vorrei andare/ e finalmente giungere,/ pietà, dove si ascolta/ l’uomo che è solo con sé./ Non ho che superbia e bontà/ e mi sento esiliato in mezzo agli uomimi./ Ma per essi sto in pena./ Non sarei degno di tornare in me?». Sono i primi versi di La Pietà del 1928. Ungaretti si reca a Subiaco nella Settimana Santa del ’28 e lì, nel Sacro Speco, seguendo i riti di Pasqua, si compie la sua conversione religiosa. Si reca a Subiaco con l’amico Vignanelli (fratello del famoso organista) anche lui incredulo, poi convertitosi e fattosi frate benedettino. (Siamo andati una volta a trovarlo con Ungaretti al Santuario di Montevergine, e che delicatezza, che candore armato c’era in lui!). Ungaretti era già stato a Subiaco al Sacro Speco con la moglie Jeanne, a piedi, prima del ’25. Ci torna nel ’28 e partecipa agli esercizi spirituali: «D’im-

«S

provviso seppi che la parola dell’anno liturgico mi si era fatta vicina nell’animo». La Pietà appare prima che su ogni altro giornale italiano sulla Nouvelle revue française in un testo direttamente scritto in francese dallo stesso Ungaretti. «Suscitò - scrive il poeta - dato il momento storico, diffuso turbamento, non come la cosa più importante ma come la manifestazione più drammatica di quel periodo pieno di timori. Poi quei timori sono andati crescendo, e poi c’è stata la guerra e poi ci sono stati gli orrori che tutti sanno». Je suis un homme blessè… Alla conversione Ungaretti arriva molto gradatamente. Ha scoperto Pascal e nel ’24 scrive la prefazione a un volumetto che raccoglieva la prosa di Pascal Preghiera per chiedere a Dio il buon uso delle malattie: «Dovrebbe toccare il cuore della gente di questo secolo - scriveva il poeta - nel quale non c’è casa che non sia stata visitata dal dolore di questi nostri tempi, nei quali in mezzo alla cupidigia si son fatti lar-

go l’egoismo e la rassegnazione di questi anni nei quali son così visibili la fralezza e la maestà dell’uomo… La mia poesia stava per non accorgersi più di paesaggi, di accorgersi invece con estrema inquietudine, perplessità, angoscia, spavento, della sorte dell’uomo». «Dio, coloro che t’implorano/ non ti conoscono più che di nome? M’hai discacciato dalla vita./ Mi discaccerai dalla morte?/ Forse l’uomo è anche indegno di sperare./ Anche la fonte del rimorso è secca?/ Il peccato che importa,/ se alla purezza non conduce più». Ungaretti è a Roma dal ’19: i suoi temi sono Roma, Michelangelo, Barocco, sentimento dell’assenza, paura del vuoto. Ungaretti approfondisce la contemplazione del Barocco che porta poco a poco la sua poesia a porsi il problema religioso. Il titolo La Pietà, non è un caso, si riferisce alle sculture di Michelangelo come, ad esempio, la Pietà Rondanini. «Roma diventa, nella mia poesia - scrive il poeta - quella città dove la mia espe-

rienza religiosa si ritrova con un carattere inatteso di iniziazione… La mia poesia è poesia di fondo religioso. Avevo sempre meditato sui problemi dell’uomo e del suo rapporto con l’Eterno. Ci sono tornato in seguito alla crisi nella quale ci dibattiamo, tornato a meditare con maggiore profondità sugli stessi problemi. Sarà ancora il Barocco - conclude - a porgermi aiuto». La conversione gli dà forza e lo porta direttamente alla preghiera più corale, a un inno di carattere liturgico. Bisognerà aspettare nel Dolore, nel ’43, la poesia Folli i miei passi che così si conclude: «Cristo, pensoso palpito, astro incarnato nell’umane tenebre,/ fratello che t’immoli/ perennemente per riedificare/ umanamente l’uomo,/ Santo, Santo che soffri,/ Maestro e Fratello e Dio che ci sai deboli,/ Santo, Santo che soffri/ per liberare dalla morte i morti/ e sorreggere noi infelici vivi,/ d’un pianto solo mio non piango più,/ ecco,Ti chiamo, Santo,/ Santo, Santo che soffri».


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società

La top ten delle messe in Italia

di Angelo Crespi he le chiese moderne fossero brutte è un fatto che non sfugge a nessuno. Gelidi igloo di cemento armato, spesso col linoleum, sembrano sale di aspetto di ospedali o commissariati. Difficile dentro edifici simili misurarsi col sacro e la trascendenza. Anche le messe capita che lascino indifferenti. Da quando l’antica liturgia in latino è stata soppiantata, tutti capiscono cosa dice l’officiante e non sempre è un bene. Lontani i tempi dei paramenti sontuosi e dei chiaroscuri che fecero convertire un pur miscredente come Des Esseintes, il macabro protagonista del mitico romanzo A ritroso capolavoro

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storia

di Huysmans e più in generale del decadentismo. Non credo dispiaccia a Camillo Langone, giornalista di vaglia e cattolico fervente, l’accostamento con Des Esseintes specie per quanto riguarda lo sguardo da esteta con cui ha intrapreso un viaggio dentro la religione contemporanea. Ne è uscito un divertente vademecum alle messe e alle prediche che più latamente compone un quadro sociologico di come sta il cattolicesimo italiano. Quasi fosse una guida per ristoranti, e Langone in effetti è anche riconosciuto critico gastronomico del Foglio, il messale snocciola da Varese a Sassari il bene e il male che accoglie il fedele una volta varcato l’ingresso di una chiesa,

ricapitolando con i simbolini il giudizio (ovviamente non forchette e coltelli, bensì candele per gli arredamenti e messali per la predica). A partire dall’arredamento fino alla bolsa retorica di molti parroci durante la predica, Langone ritrae i vizi e i vezzi della Santa Madre Chiesa: le candele elettriche al posto delle più evocanti candele di cera, i video al plasma che hanno preso il posto delle sacre icone, i jingle anni Settanta invece dei gregoriani, la voglia di essere al passo coi tempi. Ma anche il ritorno all’antico, la messa in latino, i fedeli inginocchiati e oranti, le donne a capo coperto, la potenza di alcuni residuali predicatori. Perché Dio è uno, ma infiniti sono i modi per

celebrarlo, dice Langone e dobbiamo credergli, dopo aver visitato oltre 200 chiese e assistito ad altrettante messe. Tra le top ten: l’eremo di Monteripido a Perugia con 4 candele e 4 messali a pari merito con la Madonna di Bismantova in provincia di Reggio Emilia, a seguire il duomo di Padova, 3 candele e 4 messali, il duomo di Sant’Andrea a Portogruaro idem, la cappella di San Giuseppe Moscati ad Aversa. Tra le peggiori, la chiesa di Santa Maria Immacolata e San Torpete a Genova che si guadagna appena una candela e un messale. Camillo Langone, Guida alle messe, Mondadori, 314 pagine, 15,00 euro

Ecco chi erano gli ebrei di Elefantina di Rossella Fabiani gni sei mesi la rivista Ricerche storico bibliche, pubblicata dalle Edizioni Dehoniane di Bologna, presenta la raccolta completa degli Atti dei convegni di studio sull’Antico e sul NuovoTestamento, organizzati a cura dell’Associazione Biblica Italiana (Abi) con la partecipazione dei migliori docenti delle università ecclesiastiche e statali. L’ultimo dato alle stampe riunisce gli interventi del XV convegno di studi veterotestamentari tenutosi a Fara Sabina. «Religione biblica e religione storica dell’antico Israele: le aporie della ricerca e la metodologia del confronto», è l’argomento affrontato da Gian Luigi Prato, curatore anche di questo numero della rivista. Francesco Cocco e Ida Oggiano indagano le istituzioni religiose e cultuali e l’organizzazione dello spazio sacro mediante l’ar-

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filosofia

chitettura religiosa, che è il primo ambito che si è scelto di esplorare. Un secondo elemento che il volume analizza concerne il fenomeno del profetismo, nelle sue manifestazioni nelle varie aree del Vicino Oriente antico, con la relazione di Paolo Merlo, e nella sua riformulazione biblica di chiara impronta jahwista con la relazione di Marco Nobile. Un aspetto singolare su cui insiste la versione religiosa biblica è l’aniconismo, almeno presunto, ma è opportuno chiedersi, come fa Maria Giovanna Biga, sino a che punto questa forma di culto o di assenza di rappresentazione visiva del divino sia un atteggiamento originale e distintivo o non piuttosto l’adozione particolare, divenuta teoricamente normativa, di un fenomeno più diffuso. A garanzia

che il proprio sistema religioso sia autentico e avallato dalla divinità ci si appella a una legge che come tale rappresenta la volontà divina e regola le istituzoni religiose, secondo la tesi di Jean Louis Ska. E, infine, quasi come conseguenza, questa religione biblica giunge a definire una identità etnica su cui ancorarsi, formulando un rapporto con il divino in termini chiaramente esclusivisti: un dio sceglie un popolo perché in effetti è il popolo che gli attribuisce questo compito come dimostra Flavio Dalla Vecchia. In ultimo «Gli ebrei di Elefantina: un esempio emblematico di religione non biblica», di Riccardo Contini, descrive questa antica comunità ebraica che viveva in Egitto come prova concreta dell’esistenza di una versione non biblica dello stesso mondo storico e religioso da cui è derivata la religione biblica.

Religione biblica e religione storica dell’antico Israele: un monopolio interpretativo nella continuità culturale, Ricerche Storico Bibliche, Edizioni Dehoniane Bologna, Anno XXI, N.1, Gennaio-Giugno 2009, 238 pagine, 32,30 euro

11 luglio 1939, a Torino, Giorgio Colli discuteva con Gioele Solari la sua tesi di laurea che aveva come argomento i Presocratici e Platone. Il lavoro del traduttore e interprete di Nietzsche (insieme con Mazzino Montinari) si divideva in tre parti: la seconda è stata pubblicata lo scorso anno da Adelphi con il titolo Platone politico, la terza riguarda il problema della cronologia platonica, mentre la prima che ora sempre Adelphi manda in libreria s’intitolava Filosofi sovrumani. La particolarità di questo lavoro di filologia e filosofia è che si tratta di un’opera gio-

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Fuggendo da guerre, persecuzioni e miseria per andare incontro a difficili integrazioni, quando non a sfruttamento e xenofobia, i migranti si caratterizzano per essere fra i membri più dinamici e intraprendenti delle società occidentali. Ai primi posti nell’agenda politica di molti paesi, le migrazioni internazionali sono uno scottante argomento di interesse pubblico, a cui i mezzi di comunicazione dedicano uno spazio sempre più rilevante. I concetti tuttavia, rimangono poco chiari, e termini o espressioni come «rifugiato», «immigrato clandestino», «irregolare» sono spesso usati in modo indistinto. Le migrazioni internazionali di Khalid Koser (Il Mulino, 148 pagine, 11,00 euro) è un saggio che spiega e analizza i dati necessari per comprendere le questioni sollevate dalle migrazioni contemporanee. Ultimi anni dell’VII secolo, in Val di Susa, nel Piemonte occidentale. Rachi, il padre di Matolda, si mette in marcia verso Taurino per avvisare re Desiderio che il figlio Adelchi è stato tradito da uno dei suoi duchi. Ma è troppo tardi. Rachi viene ucciso, mentre l’esercito di Carlo Magno sorprende alle spalle le truppe longobarde e le spazza via. In mezzo al caos e alla violenza della guerra, Matolda diventa in fretta adulta e inizia una nuova vita. Costretta alla fuga, scopre però di non essere sola: un giovane soldato franco sta percorrendo i suoi stessi sentieri, lontano dalla violenza degli uomini. Ambientato in questo drammatico scorcio di alto Medioevo, Matolda di Barbara Debernardi (Lindau, 242 pagine, 16,50 euro) è un romanzo storico che ricostruisce un segmento tra i più sconosciuti di storia italiana, quando sulla nostra terra franchi e longobardi si disputavano il potere. L’educazione

Giorgio Colli alle origini del miracolo greco di Giancristiano Desiderio

altre letture

vanile che contiene tutti i tratti e i caratteri del pensiero maturo di Giorgio Colli. Fin dal titolo l’influenza di Nietzsche - di Apollo e di Dioniso - è ben visibile, ma non si può escludere che il riferimento dell’aggettivo - sovrumani - si riferisca a un passo della Metafisica di Aristotele in cui si dice che il possesso della scienza dei principi o sapienza è detto sovrumano. Secondo il giovane Colli l’akmé del pensiero greco va retrodatato all’età dei Presocratici e tra i pensatori che vennero prima di Socrate è inserito lo stesso Platone, almeno quello esoterico. La tesi principale della Tesi è che nel VI secolo interviene un “fattore nuovo”a trasforma-

re la vita spirituale della Grecia: il fenomeno dionisiaco. La particolarità della lettura di Colli consiste nell’indagare il fenomeno dionisiaco nella sua relazione con l’intera evoluzione della vita spirituale greca e non solo, dunque, nel campo religioso e artistico. È la filosofia che sta a cuore a Colli. Il dionisiaco portato nel campo del pensiero genera il misticismo che Colli non considera una parola «malfamata» e così rivaluta: il dionisiaco sposta il pensiero verso l’interiorità umana che così in sé ritrova il mondo e la divinità. «Vediamo così coesistere nel VI secolo in Grecia due visioni antitetiche, una politica e una mistica», scrive l’allievo di Gioele Solari,

«dall’urto di queste forze nasce il miracolo della filosofia greca. Nel nostro studio seguiremo costantemente questa distinzione fondamentale, sviluppandola e giustificandola nei testi dei Presocratici e di Platone». Chi scrive queste cose - ripetiamo - è un giovane laureando, ma scrive con grande semplicità e sicurezza, anticipando problemi e prospettive dei suoi lavori maggiori. Questi scritti erano finora inediti e leggendoli appare più piena di senso la comprensione per quanto ciò sia effettivamente comprensibile - dell’origine della filosofia greca. Giorgio Colli, Filosofi sovrumani, Adelphi, 172 pagine, 13,00 euro

civica andrebbe insegnata seriamente a scuola, si dice sempre. In attesa che questo avvenga un magistrato, Gherardo Colombo, e un’insegnante, Anna Sarfatti, firmano insieme un testo per giovani lettori che nasce sul campo, dai loro incontri con i ragazzi. In Sei stato tu? La Costituzione attraverso le domande dei bambini (Salani editore, 177 pagine, 12,00 euro) ogni tema è al centro di un capitolo e ogni capitolo è diviso in domande come queste: ma noi bambini siamo cittadini? E i bambini nella pancia della mamma? Che cosa può fare un bambino se lo trattano male in famiglia? Un libro semplice, dai tratti un po’ paternalistici e pedagogizzanti, ma efficace come testo di educazione civica. a cura di Riccardo Paradisi


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religione

LE ULTIME FRASI PRONUNCIATE DA CRISTO NEL MOMENTO SACRIFICALE DELLA SUA ESISTENZA SONO STATE ANALIZZATE FIN DAI TEMPI DEI PADRI DELLA CHIESA. RIUNITE IN UN PERCORSO DI RIFLESSIONE SPIRITUALE, RAPPRESENTANO UNA SINTESI DEL MESSAGGIO D’AMORE CRISTIANO E OFFRONO ELEMENTI IMPORTANTI ALLA MEDITAZIONE CHE PRECEDE LA PASQUA

Le sette parole di Gesù sulla croce di Sergio Valzania cristiani riconoscono l’ispirazione divina di quattro versioni della vita di Gesù. I racconti dei quattro evangelisti sono simili, soprattutto quelli dei tre chiamati sinottici, ossia affiancabili, per alcuni passi dei quali gli studiosi hanno addirittura ipotizzato l’esistenza di fonti comuni; da esse proverrebbero alcuni passi riportati in forme quasi identiche. Il quarto Vangelo, quello di Giovanni, presenta invece una notevole differenza di approccio narrativo, dovuta soprattutto al fatto che la sua stesura è successiva a quella degli altri autori. Il suo testo si rivolge a una Chiesa più matura, all’interno della quale si immaginano già conosciute e diffuse le versioni precedenti della vita pubblica di Gesù. Un panorama redazionale così articolato ha consentito, potremmo dire stimolato, un continuo lavoro di confronto, integrazione e arricchimento della lettura e della riflessione basata sui testi sacri. Ciascuno degli autori si rivolge infatti a comunità ecclesiali diverse, con culture e convinzioni pregresse anche lontane. Mentre Matteo è attento a sottolineare l’aderenza dell’esperienza umana di Ge-

I

condizionato da essa. A conferma dell’attenzione dedicata dalla Chiesa a questo tema va ricordato che traendo ispirazione da questa meditazione Haydn ha scritto una composizione piuttosto nota per quartetto d’archi che si intitola proprio Le Sette Parole di Nostro Signore Gesù Cristo sulla Croce. La prima Parola è in Luca e viene esplicitamente collocata dall’evangelista al momento iniziale del supplizio: si tratta di un messaggio di perdono divenuto giustamente celebre. Il Cristo si rivolge a Dio e intercede davanti a lui in favore dei propri carnefici: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,24). La morte del Cristo, sacrificio e sigillo di salvezza per tutta l’umanità non deve costituire per nessuno occasione di perdizione. Neppure per gli esecutori materiali della condanna. L’annuncio del perdono, la continuità della mediazione salvifica, cancellano le parole gridate dal popolo al momento della richiesta a Pilato della condanna a morte di Gesù e riferite da Matteo: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli». Il Dio dei cristiani non è in nessun modo e sotto nessun riguardo un dio di vendetta, la sua offer-

Distribuite soprattutto nei testi di Luca e Giovanni, sono state organizzate in una sequenza interevangelica, che fissa un ordine cronologico all’interno del quale anche la successione assume un’importanza di rilievo per l’interpretazione sù alle profezie presenti nella tradizione ebraica, in particolare in Isaia, Luca si preoccupa piuttosto di mettere in evidenza la valenza ecumenica del messaggio contenuto nel Vangelo, rivolto ai gentili come agli ebrei. Con riferimento particolare alla passione del Cristo, fin dai tempi dei padri della Chiesa si sono analizzate le ultime parole pronunciate da Gesù dall’alto della croce, la cui importanza non poteva sfuggire trattandosi del momento decisivo, sacrificale della sua esistenza. I diversi Vangeli contengono una varietà di memorie in merito, che raccolte insieme compongono un quadro ricchissimo di valori teologici e pastorali. La comparazione fra i Vangeli individua sette occasioni, distribuite soprattutto nei testi di Luca e Giovanni, nelle quali il Cristo parla durante il supplizio, rivolgendosi a vari soggetti. Le frasi pronunciate sono state riunite dalla tradizione in un percorso di riflessione spirituale che va sotto il nome di Le Sette Parole di Gesù in Croce, esso rappresenta un momento importante delle meditazioni che la cristianità sviluppa nel periodo precedente la Pasqua. Le Sette Parole sono state organizzate dalla tradizione in una sequenza interevangelica, che fissa per loro un ordine cronologico all’interno del quale anche la successione assume un’importanza di rilievo nell’interpretazione. Si potrebbe dire meglio che interpretazione e individuazione della successione temporale vivano una relazione di condizionamento reciproco. La posizione nella sequenza dipende dal significato, che a sua volta risulta

ta di amore è assoluta e non esclude nessuno fra quanti sono disponibili, in qualunque momento, ad accettarla.Timothy Redcliffe scrive in una riflessione dedicata alla prima delle Sette Parole che «prima ancora che pecchiamo siamo già perdonati. Non dobbiamo guadagnarci il perdono. Esso è là che ci attende».

Anche la seconda Parola è in Luca. Si tratta della conclusione del breve ma intensissimo episodio del buon ladrone, che si converte in punto di morte e chiede: «Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno». La risposta del Cristo è immediata, diretta e assoluta: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso». Un ladrone diviene in questo modo il primo santo riconosciuto dalla Chiesa e anche l’unico uomo la cui salvezza sia stata annunciata da Gesù in maniera esplicita e diretta. Dopo il perdono per i carnefici arriva la grazia per il compagno di sventura. Nello stesso tempo manca ogni accenno di condanna per l’altro ladrone, quello che secondo l’evangelista aveva insultato e deriso Gesù. Bisogna notare che anche nelle sue parole c’è una richiesta di salvezza: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi». Il suo errore sta nel chiedere una salvezza terrena, limitata, come l’acqua che la samaritana tira su dal pozzo, capace di togliere la sete, ma non di non farla ritornare. Gesù è venuto a portare l’acqua della vita, che disseta per sempre, e quindi la salvezza definitiva, nella quale l’uomo raggiunge la propria

maturazione completa. Neppure il ladrone cattivo viene condannato, Gesù ha appena chiesto il perdono per i suoi carnefici!, anzi, possiamo immaginare che la prossimità fisica all’evento centrale della salvezza gli sia misteriosamente valso qualcosa. Il suo dolore e la sua paura della morte non possono essergli stati imputati. La terza Parola di Cristo sulla croce è in Giovanni (19,2627) e si riferisce a un gesto di affidamento. Anche sulla croce Gesù non dimentica i suoi affetti umani più cari, in punto di morte come uomo si preoccupa del destino terreno di Maria e di Giovanni e li incarica di occuparsi l’uno dell’altro. «Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”». La tradizione riconosce in queste parole il modello dell’affidamento della Chiesa a Gesù, ma non può sfuggire la vastità del messaggio, che si rivolge a ogni uomo e a ogni donna, chiamandoli a un rapporto di amore intenso quanto possibile. Il Cristo non lascia gli uomini e le donne soli nel mondo, in un contesto di abbandono e di solitudine, al contrario, dona loro la pienezza del suo messaggio di amore, la cui realizzazione inizia qui sulla terra, e ne garantisce il completamento attraverso il proprio sacrificio. La quarta Parola è l’unica a essere presente in due Vangeli, quello di Matteo (27,46) e quello di Marco (15,34), nei quali è la sola a venire ricordata. Si tratta di uno dei


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Due “Ecce Homo” e la “Crocifissione” di Antonello da Messina di preghiera, il cui significato è l’opposto di quello apparente. Nel Salmo 22 infatti a un inizio pieno di sconforto e di senso di abbandono fa seguito uno sviluppo luminoso, fino alla conclusione del tutto positiva. In essa l’orante proclama che da quel momento in poi vivrà per il Signore e che tutte le generazioni successive annunceranno la Sua giustizia proclamando «Ecco l’opera del Signore!».Va aggiunto che i Vangeli sottolineano in diverse occasioni il carattere profetico del Salmo 22, nel quale leggiamo «sono slogate tutte le mie ossa» (22,15), «hanno scavato le mie mani e i miei piedi» (22,17) e «si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte» (22,19). È Giovanni a riferire la quinta Parola di Gesù sulla croce, avvertendo i lettori che Egli la pronuncia «perché si compia la scrittura». Il Cristo dice «Ho sete» (Gv 19,28). Il riferimento vetero testamentario è ancora ai Salmi, il prezioso strumento di preghiera della tradizione ebraica. In 69,22 è scritto: «Quando avevo sete mi hanno dato aceto» e ancora in 22,16: «È arido come un coccio il mio palato, la mia lingua si è incollata alla gola». Gli esegeti leggono in questa richiesta il segno evidente dell’umanità concreta e sofferente del Cristo, che fino alla fine condivide con gli uomini il bisogno primario di bere. Insieme viene evidenziato il senso profondo di continuità con la tradizione biblica ebraica presente nella comunità di riferimento dell’evangelista. Non manca un’interpretazione simbolica, secondo la quale la sete di Gesù

nalzato al cielo. Gesù lo aveva detto a Nicodemo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo» (Gv 3,14). È la via che riporta il Cristo presso il Padre dopo l’adempimento della sua missione salvifica. «È compiuto» significa quindi «È reso perfetto». Nel momento decisivo, centrale della storia, il sacrificio di Gesù rende completa l’opera della creazione e nello stesso tempo la riconcilia in modo perfetto e definitivo con il suo creatore. Attraverso lo strumento principe dell’amore viene rimarginata la lacerazione del distacco avvenuto prima dei tempi. La morte è collegata in forma strettissima con la resurrezione, di cui non è la negazione, quanto la premessa necessaria. È la «sorella morte corporale» che verrà cantata da San Francesco, l’atto d’amore di Dio nei confronti dell’uomo, attraverso il quale si compie la sua salvezza, il suo accoglimento presso il Padre nella dimensione parentale, filiale, e non più di creatura sottomessa. Nella versione di Luca, l’autore di quello che è stato definito il Vangelo della tenerezza, le ultime parole pronunciate dal Cristo mantengono un significato analogo a quelle riferite da Giovanni, ma sottolineano il rapporto stretto, intimo di Gesù con il Padre, evidenziando di conseguenza l’avvenuta creazione di un analogo rapporto con Dio da parte di tutti gli uomini, come effetto ultimo e perfetto del sacrificio. Le ultime parole di Gesù sono quindi: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc

In esse troviamo il perdono per i peccatori, il rifiuto della vendetta divina, la spinta a un’amorevole comunità paritaria tra uomini e donne, un nuovo slancio nella preghiera, la fine dell’esperienza terrena e il ricongiungimento con il Padre passi più controversi del Nuovo Testamento, quello nel quale sembra affacciarsi la disperazione di Cristo, che grida «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Ci si è interrogati in ogni modo sul significato che si deve attribuire a questa frase così esplicita, almeno in apparenza, che sembra rendere manifesta una rottura fra Padre e Figlio, quasi il segno della sconfitta del Cristo, che prima di morire perde la consapevolezza della propria missione. Un’interpretazione diffusa suggerisce che il momento di sconforto di Gesù, il suo sentimento di desolazione e di abbandono costituiscano un elemento necessario alla compiutezza del sacrificio. Il Cristo diviene in questo modo completamente uomo condividendo con l’umanità la mancanza di una sicurezza assoluta per il proprio destino e sottolinea così la sua accettazione piena di un destino per affrontare il quale egli si spoglia dei suoi attributi divini. Si potrebbe arrivare a dire che nel momento dell’abbandono accettato Gesù viva il completamento del mistero dell’incarnazione, dell’umanizzazione di Dio. La collocazione del passo in Matteo, oltreché in Marco, spinge però anche verso considerazioni diverse, basate sul fatto che le parole pronunciate dal Cristo e riferite dall’evangelista più attento a evidenziare la continuità fra ebraismo e cristianesimo sono in realtà il primo versetto del Salmo 22, che deve essere quindi considerato nella sua interezza. Quelle che pronuncia il Cristo sulla croce non sono quindi parole di sconforto, ma

è rivolta a tutta l’umanità e rappresenta il bisogno di Dio di incontrare le sue creature, la violenza e l’intensità del suo amore nei nostri confronti. La sesta e la settima Parola hanno una cronologia relativa incompatibile.Tutte e due sono presentate, da Giovanni e da Luca, come le ultime frasi pronunciate da Gesù, subito prima di morire. Del resto anche il «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato» di Matteo e Marco viene presentato in questo modo. La tradizione ha stabilito di organizzare la successione anteponendo Matteo e Marco a Giovanni e a Luca, una scelta che si deve riconoscere come arbitraria, fondata su motivi che si potrebbero definire di estetica teologica.

Secondo il quarto evangelista, subito dopo aver bevuto l’aceto che gli era stato porto, «Gesù disse: “È compiuto”. E, chinato il capo, rese lo spirito». (Gv 19,30). Nella visione giovannea la passione appare in termini luminosi. È Matteo che racconta in maniera cruda la sua sofferenza. In Giovanni la crocifissione è già anticipazione della resurrezione e viene rappresentata come realizzazione di un progetto dominato sempre e in modo assoluto dal Cristo, che in ogni momento tiene gli eventi sotto il proprio fermo controllo. La passione appare quindi l’esito trionfale di un cammino percorso fino alla fine; la croce, oltre che strumento di supplizio, è il mezzo attraverso il quale il Cristo, anche in modo fisicamente simbolico, viene in-

23,46). Si tratta di un sigillo di riconciliazione. Le Sette Parole di Gesù in Croce appaiono quindi, nel loro insieme, come un compendio della sua predicazione e una sintesi del suo messaggio d’amore. In esse troviamo il perdono disinteressato e salvifico per i peccatori, il rifiuto di ogni forma di vendetta divina, la spinta affinché si crei anche fra gli uomini e le donne una comunità di amore paritaria, sul modello di quella familiare, la preghiera radicata nella tradizione vetero testamentaria e rivivificata da un nuovo slancio e infine la conclusione dell’esperienza terrena del Cristo nella forma del sacrificio e nello stesso tempo del ricongiungimento con il Padre. La meditazione sui Vangeli e sui confronti che si possono fare fra le quattro versioni trova un momento particolarmente alto nella ricostruzione di un percorso unitario attraverso le Sette Parole di Gesù. Esse arrivano a noi lungo strade diverse e vengono riunite attraverso un gesto spirituale da un doppio fascino. La sua provenienza antica ne fa un oggetto di per sé prezioso, in quanto lascito di una tradizione lontana, unificante per la Chiesa di tutti i tempi in quanto spazio di riflessione praticato da cristiani di generazioni anche lontanissime. La sua aderenza al testo evangelico, al quale non viene aggiunto niente, accompagnata dalla totale umanità creativa della sua costruzione, lo segnalano come esempio molto qualificante delle possibilità di approfondimenti di preghiera offerte dai testi sacri del cristianesimo.


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libri

A proposito del saggio di Paolo Favilli

Il riformismo e la sinistra: una storia alla rovescia di Gabriella Mecucci idea è davvero buona: e cioè costruire una storia del socialismo italiano, della sua cultura politica, strettamente legata all’evoluzione europea. I risultati invece sono molto discutibili. Si tratta del libro di Paolo Favilli, Il riformismo e il suo rovescio (Franco Angeli, 195 pagine, 20,00 euro). La tesi dell’autore è molto semplice: il riformismo di oggi non ha nulla a che vedere con il riformismo socialista di ieri. È il frutto di una deflagrazione che non ha lasciato niente al suo posto. E sin qui c’è indubitabilmente del vero: come non fare i conti col fatto che è imploso il comunismo sovietico e che già da tempo - a partire dalla Spd - le socialdmocrazie si erano laicizzate? Non mettevano cioè più al centro delle loro dottrine il marxismo. Ma quello che Favilli in realtà vuol dire è molto di più: il neoriformismo non ha nulla a che vedere con il socialismo anche il più moderato, ma ha imboccato la strada del liberalismo. Ma andiamo con ordine. E cominciamo con il contestare all’autore «buchi», sottovalutazioni, insattezze. Innanzitutto nel parlare di riformismo, Favilli non si concentra come dovrebbe sulla storia del Partito socalista italiano con una particolare attenzione alla fase in cui quel partito produsse un dibattito originale e approfondito. La discussione che avviene negli anni Settanta su Mondoperaio, quella cioè che vede scendere in campo politici e intellettuali quali Claudio Martelli, Norberto Bobbio, Antonio Giolitti, Lucio Colletti, Massimo Salvadori, Federico Coen, Gennaro Acquaviva, Luciano Cagagna, Carlo Ripa di Meana, Ernesto Galli dell Loggia, Giovanni Sabbatucci, Luciano Pellicani, Francesco Forte, Paolo Flores D’Arcais e sono solo alcuni dei nomi più importanti, viene quasi completamente trascurata. Quelle che vennero poi definite «Le cassandre di Mondoperaio» valgono meno di niente.

L’

molto clamore, ma non fu certo la riflessione riformista più approfondita, mentre si richiama ampliamente la produzione di Gaetano Arfè, intellettuale rispettabilissmo ma non certo all’avanguardia nell’elaborazione riformista. Insomma, i socialisti degli anni Settanta, coloro che produssero il dibattito più innovativo, sono pressoché dimenticati.

Come campione assoluto del socialismo riformista si prende invece la discussione voluta da Gerardo Chiaramonte, dirigente nel Pci, che - con un ceto ritardo rispetto a Craxi e Martelli - presentò un documento

L’idea è buona, costruire una storia del socialismo italiano e della sua cultura politica, legata all’evoluzione europea. Ma è piena di buchi e inesattezze. Come la discussione accesa dalle “cassandre di Mondoperaio” quasi del tutto trascurata Eppure furono loro che prima «sotterrarono» il marxismo-leninismo e poi, negli anni Ottanta - con alcuni protagonisti mutati - realizzarono una serrata critica al marxismo stesso. Di tutto ciò - di questa serissima riflessione che pose in dfficoltà un Pci «paralizzato» per quanto riguarda il dibattito teorico, il libro tace. Si fa cenno solo al saggio di Craxi su Proudhon, che fece

dal titolo Materiali e proposte per un programma di politica economico-sociale e di governo dell’economia, aperto al contributo della cultura progressista. I comunisti infatti, incalzati dai socialisti e messi all’angolo - come alcuni fra loro hanno da tempo riconosciuto - cercarono così di rispondere all’offensiva craxiana. Alla discussione presero parte da Salvati a Savo-

na, da Sylos Labini a Tarantelli. Un maestro come Federico Caffè rimproverava addirittura al testo di Chiaromonte un’eccessiva apertura alle logiche del mercato. Tarantelli, al contrario, sottolineava con soddisfazione come nel documento Chiaromonte non si intravedesse alcuna terza via - i comunisti però continuavano a teorizzarla non volendosi ancora definire socialdemocratci - ma una cultura affine a quella del socialismo svedese. Secondo Tarantelli nel nostro paese «un New Deal non c’è mai stato; ma c’è anche un partito comunista che, per la sua forza, la sua storia e la sua grande tradizione po-

In alto, la Biennale del Dissenso, promossa tra mille polemiche dal Psi nel 1977. Sotto, Bettino Craxi e Carlo Ripa di Meana a Venezia; Luciano Lama in un comizio; due opere esposte alla Biennale del Dissenso polare, può farsi portatore non solo in Italia, del cemento di un’ideologia politica della terza fase che rischia, invece, in Germania come in altri paesi europei l’eutanasia». In realtà il Pci - nonostante al suo interno ci fossero personalità come Chiaromonte, Lama, Napoleone Colajanni - non fece mai la scelta del riformismo. Continuò a tenere una posizione ambigua e

condannò i cosiddetti miglioristi alla minorità politica. Questo piccolo particolare non viene però messo in evidenza dal libro di Favilli.

E siamo arrivati ormai a quello che il nostro autore chiama il cambio di paradigma. Anche per definire questo non viene minimamente preso in considerazione il dibattito in casa Psi (dal lib-lab alla scelta liberaldemocratica di stampo martelliano), ma si privilegia solo la discussione che si sviluppa nel Pci assai in ritardo rispetto a quella già partita fra i cugini socialisti. Secondo il libro in questione, infatti, il cambio di paradigma fu fatto da Giuseppe Vacca nel 1994 quando usò l’espressione «nuovo riformismo» che consiste nel «superamento dell’economia mista» e del «vecchio modello socialdemocratico». E ancora: «Occorre impostare la riforma del capitalismo italiano come rivoluzione liberale». E qui inizia la colata di giudizi pesantemente negativi espressa contro Achille Occhetto e la sua svolta, la cui operazione secondo Alberto Asor Rosa - «è passata sugli intellettuali come un ciclone». Il celebre discorso della Bolognina, che ebbe il merito di aprire uno spazio politico a quel che restava del comunismo e di dargli un futuro, viene fatto a pezzi da Favilli a suon di citazioni dei veri riformisti, primo fra tutti il rivoluzionar-operaista Asor Rosa. Mentre Vacca costruisce il rovescio del riformismo socialista appellandosi a teorici stranieri quali l’onnipresnte Antony Giddens. E mentre Salvati e Schiavone diventano - sempre secondo Favilli - i distruttori di una grande tradizione, «Marx scrive - non è più un gigante sulle cui spalle sedere per vedere, e dunque andare, anche molto oltre di lui. Marx è l’origine diretta del grande male, il suo pensiero si colloca come il punto di partenza che tramite ferrea logica non può che portare al Gulag». Che altro aggiungere su questa storia «alla rovescia»? Semplicemente che si sente un gran bisogno di un libro su che cosa è stato il riformismo italiano: quello del Psi, quello del Pci (c’era anche lì) e quello senza partito o che viveva in piccoli raggruppamenti. Speriamo che qualcuno ci racconti questa interessante vicenda colpevolmente sottovalutata anche da coloro che daranno vita al Pds, ai Ds e infine al Pd. Un atteggiamento superficiale e autosufficiente pagato a carissimo prezzo.


video Una famiglia C in Galilea… MobyDICK

tv

(ma manca il contraddittorio)

Il Gesù del “Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini (di spalle nella foto)

web

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di Pier Mario Fasanotti

on i documentari realizzati dalla britannica Bbc, è il canale History di Sky ad alimentare il fascino che esercita la storia. Una boccata d’ossigeno per tutti coloro che sono saturi di spettacoli, molti dei quali da quattro soldi. Uno degli argomenti più trattati, oltre all’ascesa e caduta di Roma e al clan Hitler, è senza dubbio la vita del Cristo. Col titolo Gesù, il mistero oltre la fede, il servizio della Bbc ha dato la parola a uno dei più autorevoli genealogisti americani, Tony Borroughs, che ha visitato numerose regioni alla ricerca di testimonianze antiche attorno al nucleo familiare del Salvatore. Il peccato d’origine di questo documentario è l’assenza di un contradditorio, che sarebbe potuto provenire da studiosi del Vaticano. Il racconto è comunque affascinante, anche se la linea di demarcazione tra il vero e il verosimile è molto labile, sia pure tra avvertenze oneste, tra vari distinguo e l’uso frequente dei «forse». Si parte da un passo del Vangelo di Marco, laddove si menzionano «sorelle e fratelli» di Gesù. Abituati come siamo a considerare la sua famiglia composta solo da tre persone, facciamo un po’ fatica a immaginare il bambino Gesù giocare, ridere e litigare nel cortile di famiglia, assieme a fratelli, fratellastri, zii, cugini. La sua non sarebbe stata quindi un’infanzia solitaria e appartata, ma quella di qualsiasi ragazzino della Galilea del primo secolo. Cominciamo da Maria. Era tradizione giudaica che una sposa potesse avere anche un’età adolescenziale, dai 13 ai 16 anni. Ipotesi: Giuseppe l’avrebbe sposata in seconde nozze dopo essere rimasto vedovo, padre forse di una Salomè e di un Giacomo. E l’evangelista Marco parla chiaramente di fratelli. Questi potrebbero avere avuto nomi come Giacomo, Giosia, Giuda e Simone. Nel 1902 alcuni archeologi scoprirono in Egitto il cosiddetto protovangelo, ossia i racconti di Giacomo. Un testo in cui si descrive la nascita di Gesù, alla quale assistette non solo Giuseppe ma una ragazzina. Forse Salomè, figlia del precedente matrimonio di Giuseppe. Una fonte del IV secolo, ta-

games

le Epifanio, accenna anche a due sorelle chiamate Miriam e Maria. E qui sorge un problema: la legge giudaica proibiva ai coniugi di chiamare il figlio con lo stesso nome di parenti in vita. Quindi Maria era solo sorellastra di Gesù. Un’esperta in storia biblica, l’inglese Nicki Philips ritiene «plausibile», in base a fonti del secondo secolo, che Giuseppe si fosse sposato vedovo e con figli. E ancora: la tradizione ebraica consentiva a un uomo di ripudiare una moglie se questa fosse rimasta sterile per dieci anni. Vuol dire che Maria ebbe altri figli? La Chiesa però parla di Maria «sempre vergine». La Bibbia rivela pure che era la madre a scegliere i nomi dei figli, in rispetto alla tradizione e soprattutto alle ambizioni che riponeva su ciascuno di essi. Gesù proviene da Giosuè, uno dei condottieri che si opposero all’invasione romana. Un nazionalismo militante quindi? Verosimile, suggestivo, ma tutto da dimostrare. Quello che fa un po’ sorridere è la parola data a uno psicologo che spiega come poteva esserci rivalità tra Giacomo e Gesù, fratellastri ed entrambi primogeniti sia pure di madri diverse. È così ovvio, direi banale, e non prova nulla. Nel Vangelo di Luca viene menzionata Elisabetta come cugina di Maria. Le due donne rimasero incinte a sei mesi di distanza. Il figlio di Elisabetta sarebbe stato Giovanni Battista. Cugino di Gesù, quindi? Va detto, a onor del vero, che molti storici confondevano il legame spirituale con quello di sangue.Tuttavia Luca, che scrisse il suo Vangelo mentre erano ancora in vita i parenti di Gesù, parla di parentela. Indubbiamente è affascinante vedere antichi recipienti in pietra custoditi vicino Tel Aviv. Ossari. Con scritte in aramaico, lingua che si legge da destra a sinistra. Dall’esame scientifico dei teschi vengono fuori le probabili fattezze di una famiglia del primo secolo in Galilea. Tratti semitici, ben lontani dall’iconografia dei secoli successivi. Un Cristo che somiglia a quello messo in scena da Pasolini: bruno e con richiami alla Palestina di oggi.

dvd

MILLE DI QUESTI LIBRI

UN MANAGER IN CUCINA

M

ille e-book entro il 2009. È questo l’obiettivo inseguito da francoangeli.it, il catalogo di libri elettronici più nutrito d’Italia nell’ambito dell’editoria universitaria e professionale. Sulla scia del crescente successo registrato dai libri elettronici negli ultimi due anni, la biblioteca incrementa di mese in mese il numero di saggi e ricerche rivolte al mondo della scuola e dell’uni-

I

l sequel di Pc Restaurant Empire era molto atteso. E anche il secondo capitolo della avventura grafica targata Microids coniuga intrattenimento, voglia d’impresa e cultura gastronomica, ingredienti vincenti del primo episodio, con alcune frizzanti novità. Tra tutte il motore grafico, che ridefinito e potenziato dopo alcuni limiti denunciati nell’episodio precedente, conferisce alle

«M

Sulla scia del successo degli e-book ”francoangeli.it” propone un ricco catalogo

Il secondo capitolo di ”Pc Restaurant Empire” potenzia la grafica e accende il realismo

Feudataria, papalina, rocciosa. La duchessa di Canossa rivive nel film di Emanuela Rizzotto

versità, e l’offerta di manuali che forniscono informazioni e aggiornamenti su svariati settori quali management, economia, didattica e servizi sociali, che richiedono una formazione permanente. Disponibili nella maggior parte dei casi anche in versione cartacea, non mancano testi a vocazione elettronica e altri, classici, che possono vivere una seconda giovinezza sul web senza troppi e spesso ineludibili dispendi legati alle ristampe. Esiste inoltre la possibilità di consultare in modo gratuito le prime venti pagine di ciascun libro, e di acquistarlo con grande rapidità grazie a una chiave d’accesso. Un nuovo modo di leggere, per una nuova didattica al passo con i tempi.

attività culinarie un convincente realismo e cura dei particolari. Aggiunte alle opzioni manageriali anche coffee shop e dessert house, il proprio locale può essere decorato e gestito a piacimento grazie a uno stock di oggetti che sfiora i 1400 pezzi. Possibile inoltre ravvivare l’atmosfera della sala con performance live capaci di attirare la clientela, e imbandire manicaretti sempre più prelibati attraverso lo studio di ricette e tradizioni antiche. Gestionale, capace di riflettere problemi contabili e rischi d’impresa tipici delle attività reali, non è però un gioco per soli manager.

una naturale predisposizione al comando. Amata dai sudditi che nel 1076 la acclamarono signora di un vasto territorio che andava dalla Lombardia all’Appennino reggiano, Emanuela Rizzotto ne ripercorre gesta e biografia nel suo Matilde di Canossa. Il matrimonio con Guelfo V finito a ceffoni (di lei a lui) dopo due giorni, la battaglia vincente contro l’imperatore Enrico IV, il titolo di Regina d’Italia e Vicaria papale, i rapporti da pari a pari con gli uomini più temibili d’Europa. Le vicende di Matilde vengono messe in luce con tratti essenziali e spiccato ritmo narrativo. Merito di una vita, ricca di fermenti moderni, mai raccontata con l’ampiezza che merita.

a cura di Francesco Lo Dico

NELLE TERRE DI MATILDE atilde, splendente fiaccola che arde in cuore pio. Aumentò in numero armi, volontà e vassalli, profuse il proprio principesco tesoro, causò e condusse battaglie». Così, il monaco benedettino Donizone, scriveva a proposito della Grancontessa di Canossa. Feudataria, papalina, donna di tempra straordinaria, seppe districarsi tra battaglie e intrighi, manifestando


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poesia

Il diario intimo di Alida Airaghi di Filippo La Porta

È ancora buio quando mi alzo e spalanco le imposte sul sagrato, butto ai gatti del cibo, poi scalzo mi inginocchio a pregare, grato, «mio Signore e mio Dio», come Tommaso per un giorno da inventare tutto mio

Alida Airaghi

Svegliarsi a fine marzo, a inizio aprile: svegliarsi con il verde e un sole appena caldo, l'aria sottile intorno. Il sonno è stato greve, l'inverno freddo; la neve una sorpresa di mattina. Bianco nei campi, gelo di brina. Dormire è un po' morire, e non accorgersi del tempo, di cose che continuano anche senza di noi. Ma alzarsi, essere vivi, sapere che c'è un poi: festa del risorgere nel giorno, pasqua sospesa tra rose e ulivi.

Alida Airaghi

el 1996 Alida Airaghi (Verona, 1953), una delle voci poetiche più rilevanti dell’attuale panorama italiano, mette in coppie di endecasillabi il diario di un curato di paese (Litania periferica, poi nell’omonima raccolta del 2000). Abitudini e rituali quotidiani, la preghiera, gli incontri con i paesani, la televisione, gli incontri con gli adolescenti per la comunione, e infine nella solitudine estrema l’«ansia» di farsi «testimone di Cristo» («per essere quello che voglio, che vuole/ non più quello che fingo. Sono, esisto»). Si tratta di centotrentaquattro versi, in cui viene tratteggiata con precisione la figura del sacerdote - quasi uscita da Bernanos - e poi il colorito microambiente sociale della provincia. Un romanzo in versi iperconcentrato, che potrebbe richiamare esperienze analoghe di poesia narrativa (Ludovica Ripa di Meana, o, più lontanamente, lo sperimentalismo realistico di un Pagliarani). In questi versi la lingua poetica ha il coraggio di confrontarsi sia con la tremante ricerca di Dio, con una inquietudine di tipo religioso, e sia con una materia così irrimediabilmente impoetica come il Tg della sera («Mi addormento sul popolo curdo,/ sullo Zaire e le intercettazioni»).

N

La sezione più ispirata del libro resta per me quella del Lago (1995): «Non sono onde. Ne avrebbero forse/ l’intenzione; increspature leggere,/ rughe dell’acqua, e basta./ Non sarà mai tempesta,/ questo lago, scarso coraggio/ di farsi mare: se accoglie un fiume,/ lo placa, lo annulla in una quiete/ casta (…)». Il lago (ed è il Lago di Garda, dove la Airaghi abita), diventa qui cifra dell’essere (o almeno di una modalità dell’essere), fonte inesauribile di ispirazione metafisica, allegoria dell’universo: «forte e tranquillo/ nei suoi limiti di roccia», sempre uguale a se stesso, azzurro o di colore dell’oro, confuso con il cielo, eterno e sicuro («non potrà mai franare»), malefico, oscuramente minaccioso come chiunque non sappia osare, imperturbabile e inviolabile (il «graffio» della vela che lo solca subito sparisce), serio e riservato (appena offeso dagli inquinanti motoscafi). La sua pace nebbiosa ha qualcosa di primordiale e di luttuoso. Con la seconda raccolta di versi di Alida Airaghi (2003) si ha l’impressione che solo attraverso il linguaggio poetico, attraverso le sue «buone parole» (ma «senza volerle possedere per sempre», ci ammonisce una di queste poesie, dedicata a Elizabeth Bishop) si riesca oggi a nominare umori, emozioni, sentimenti altrimenti inesprimibili. Ed è perciò ancora più singolare che a proposito della Airaghi la critica, salvo qualche eccezione (Alfonso Berardinelli, Bianca Maria Frabotta, Antonella Anedda…), ha scritto pochissimo e in modo occasionale: certamente si tratta di un’autrice appartata, antimondana, non riconducibile a poetiche o gruppi di avanguardia (di sé ha scritto «Io amo i margini mi piace/ stare scomoda», in L’appartamento). I versi della Airaghi sembrano nascere tutti da un lutto e trauma immedicabile. Non c’è più - infatti - una persona a lei cara, continuamente evocata, ricordata alle figlie: «Vedi, dal tuo non

esserci,/ come vivono di te le tue figlie./ Ti cercano nei libri, nelle foto, per portarti poi in giro/(...)». La metrica di questo libro è varia: si passa da una poesia di otto quartine di versi senari (cari all’autrice) e dall’andamento lieve, cantabile come Eco («Perché non mi guardi?/ Non mi dai speranza?/ Perché non mi parli? Non sono abbastanza?») a poesie brevissime composte da versi irregolari. Qui potrebbe schiudersi quella che è forse l’unica vera ascendenza rintracciabile in una autrice così gelosa della propria individualità poetica, e cioè Giorgio Caproni. Mi riferisco in particolare all’ultimo Caproni, dei componimenti epigrammatici, che si interrogano in modo giocoso e insieme drammatico sulle questioni ultime della condizione umana.

Nell’ultima raccolta di versi di Alida Airaghi - Frontiere del tempo - la tastiera emotiva e concettuale dell’autrice si amplia a riguardare gli innumerevoli aspetti dell’esperienza. Può essere la malinconica riflessione sul disfarsi dell’esistenza: «Tutti i miei giorni sono degli addii:/ al maglione logoro sui gomiti,/ alle scarpe consumate,/ all’estate che è finita,/ al libro terminato e messo via./ E al pensiero inservibile,/ all’amore inguaribile,/ all’amico che mi ha detto una bugia» o la filastrocca lieve e giocosa sul dolce inganno del futuro («Aspettando il passato/ aspettando Godot,/ aspettando il mercato/ aspettando il metrò,/ aspettando il futuro/ aspettando Gesù/ aspettando lo scuro/ aspettando il menù/ aspettando l’amore/ aspettando l’aurora/ aspettando un favore/ illudendosi ancora»; o anche la meditazione metafisica: «Tempo prima del tempo,/ essere che non c’eri,/ vuoto dell’esistenza/ ieri prima di ieri»; o anche la saggezza ironica in forma di prescrizione: «Non tutto/ non subito./ Saper aspettare/ limitarsi/ rimandare/(…)». Infine questi versi che evocano certe atmosfere e pronunce tipiche di Patrizia Cavalli, quel puntiglio testardamente interrogante e un po’ adolescenziale, disarmato, benché spavaldo: «Dovessi scrivere/ la storia della giornata di ieri,/ ecco che non saprei cosa scrivere,/ se non che ho avuto pensieri/ uguali a quelli di sempre./ E che ho avuto gesti normali,/ ho bevuto mangiato dormito./ Ho letto i giornali./ Dovessi dire perché ieri e non oggi,/ perché ieri è finito,/ se vorrei che tornasse:/ non saprei cosa dire,/ se non che ho avuto pensieri». La poesia sulla «giornata di ieri» è un diario intimo, una meditazione musicale sull’esistenza che si avvicina «naturalmente» alla prosa. Nasce da un semplice interrogativo, elementare o perfino un po’ ozioso («perché ieri è finito»). Ancora una volta il linguaggio della poesia, per quanto socialmente marginale, si scopre come l’unico spazio rimasto per dire senza reticenza e in modo sintetico delle verità apparentemente banali, per farle risuonare dentro di noi fino al punto in cui ci rivelano una dimensione altrimenti inesplorata dell’essere. Infine, vorrei rimandare ai versi qui accanto riprodotti (nell’incorniciato in basso, ndr ) che qualche giorno fa mi ha inviato l’autrice, ispirati alla Pasqua, e tuttora inediti.


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il club di calliope Allora, noi andammo di là. Tra gli uccelli appesi per i lungoviali a mare. C’erano vaste zone di vento, poi niente; poi altro vento e poi ancora niente: noi di là, in fila, coi nostri abiti di sempre ci chiedevamo e non ricordavamo niente, se non il sorbo se non il rovo se non la bacca della canina nella neve che si forma sulle città di porto da vasi infranti a seimila metri di quota.

UN POPOLO DI POETI Tu appartieni al mare Ed io conosco la tua regina Tu hai due occhi dolci e languidi Troppo facili da interpretare Tu sei una piccola sirena Dolcemente addormentata sulla riva

Valentina

Alessandro Ceni da Mattoni per l’altare del fuoco (Jakabook)

LA RESURREZIONE IN PRESA DIRETTA in libreria

di Loretto Rafanelli l luminoso evento della Resurrezione di Cristo, fonte di eterna speranza, viatico per una possibile redenzione, Roberto Mussapi dedica il suo ultimo lavoro teatrale (Resurrexi, Jaca Book, 74 pagine,12,00 euro). Il poeta si esprime in «presa diretta» nelle vesti del Risorto, cioè come dire: «io risorsi» e non «è risorto», come giustamente nota Monsignor Bruno Forte, nella preziosa, profonda, introduzione. È questa forse la via più rischiosa ma certamente la più affascinante e intensa, vivendo egli la tragedia senza mediazioni, come spetta peraltro alla più alta poesia, riuscendo a darci uno squarcio non comune della sofferenza e della gioia di Cristo. Come quando il Figlio si rivolge al Padre, che affine al-

A

che indica le aperture del volto, cioè: Cristo, il Figlio il Padre e lo Spirito Santo, l’uomo redento, la fede, il volto della Chiesa, la speranza, Maria. La parte dedicata a Maria, la «donna icona del mistero», è una storia raccontata, ed emerge in tutta la sua bellezza: «La roccia è vuota, Maria, come i tuoi occhi:/ quel fiume di lacrime che ha prosciugato le orbite/ della madre di Cristo ha anche svuotato/ l’urna in cui fu deposto il suo corpo./ Ma niente è perso di te, né del tuo pianto: rugiada, ora, Maria, quelle che furono lacrime,/ e perle rinascenti in fondo al mare». Resurrexi è anche un grande scritto sulla speranza, perché è Rivelazione che trasforma l’esistenza dell’uomo, e il poeta affida, emblematicamente, proprio alle parole della Maddalena, la figura più

L’opera di Roberto Mussapi messa in scena alla presenza di Benedetto XVI: un grande scritto sulla speranza, dove la parola poetica in forma di teatro raggiunge vertici intensi la tradizione dantesca non parla ma è un fascio di luce, qui Mussapi ci dà versi di sublime amore e di attenzione a quel senso tutto divino di partecipazione alla debolezza umana («Ho avuto paura di perderti/…/ fu quando vidi mia madre piangere/…/ Ho visto lo strazio dei poveri e la vergogna/ …/ tu li facevi degni»). Il poeta non solo fa entrare il lettore nello spazio speciale della creazione artistica, ma pure in quel dono della luce suprema che tutto trasforma e consegna alla grazia, alla salvezza. Ma nel momento in cui Cristo risorge, si comprende pure quello che innanzitutto ha rappresentato il suo sacrificio: nella semplice e grandiosa umiltà, in quella croce, Dio diviene morte umana e sofferenza nel grande dolore. Mussapi narra attraverso varie fasi, in quell’epica delle sette luci che, come suggerisce Monsignor Forte, rammenta la menorah, il candelabro che arde nel Santuario di Dio, e

controversa, il senso profondo di questo slancio: «Io la sento, mi suona chiara e distinta:/ asciugherà ogni lacrima dai nostri occhi,/ sono passate le cose di prima,/ finito il tempo del lutto e del cordoglio/ la morte non avrà dominio, questo dice,/ dice che abbiamo smesso di piangere». Con Resurrexi, un’opera messa in scena alla presenza del Pontefice Benedetto XVI, Roberto Mussapi, sulla scia di Luzi (che ebbe l’onore di vedere rappresentata l’opera Passione, per laVia Crucis del 1999, davanti a Papa Wojty\u0142a), si conferma il più autorevole esponente di quello che viene definito il teatro di poesia, e ci permette di capire quanto la parola poetica, nella sua pur perfetta scansione, necessiti, a volte, un andamento più prosastico e meno concentrato, divenendo così scrittura che, quando riesce, come in questo caso, raggiunge intensi vertici artistici, al pari della più alta poesia.

Alberto La Femina

Resisteranno gli occhi nel baratro dei giorni di fango maculati e vivo pane sparso la più profonda voce dimenticata o muta, resisteranno gli occhi finché l’estrema luce polverizzato il tempo tutto inondi.

Piero Buscioni

Non il più delizioso mirto, vorrebbero bere le mie labbra da questa coppa esposta, oltre la gabbia di un cortile grigio. Una linea sottile la cinge, fatta di rame e di silicio. Non posso toccarla, non ha odore. Mi guarda, con il suo geroglifico muto.

La linea Tommaso Meozzi

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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restauri

a pianura padana è terra di rocche e di castelli: monumenti poco noti al turismo e ignorati dalla storia dell’architettura, che privilegia le espressioni artistiche riconducibili al Rinascimento toscano e romano. Geometrie nitide e torri merlate, coronate da slanciati beccatelli, triangolano la pianura e le balze collinari, raccontando storie di lotte feudali, di controllo delle acque, di pedaggi di passo, di schiatte potenti e neglette, di rivalità sanguinose. Realtà storica e fiaba si intrecciano da Piacenza a Ferrara, da Mantova a Brisighella, in manieri turriti, non raramente affrontati a capannoni industriali: come a Fontanellato, dove alle torri del castello Sanvitale fa da contraltare la mole dello zuccherificio dismesso; a Sassuolo, dove il castello, trasformato nel Seicento in magnifica villa dei duchi di Modena, si misura con i capannoni delle ceramiche. Non raramente questi castelli, di origine altomedievale e rifondati tra Quattro e Cinquecento, sorgono al centro di città, come a Mantova o a Ferrara, delle quali sono il nucleo fondativo. Come accade anche a Formigine: la cittadina che, a valle dell’Appennino modenese, si dispiega davanti al castello, voluto intorno al 1200 da Modena a guardia del valico montano e a difesa dei confini verso Reggio Emilia. Il castello si innesta su un borgo altomedievale aggregato intorno alla chiesa di San Bartolomeo e al suo cimitero. Il borgo, difeso dalle mura, nel 1395 entrò nei feudi del marchese Marco Pio, dei signori di Carpi, che intraprese una radicale trasformazione. L’interno delle mura fu destinato alla residenza dei Pio; le antiche case, la chiesa e il cimitero furono rasi al suolo. Rinforzato il recinto da torri angolari, sul lato orientale sorse il palazzo marchionale: un corpo allungato, su due livelli. Al lato si attestò, intorno a una corticella, il nucleo fortificato con torri detto la «rocchetta». Furono scavati fossati esterni e interni, scavalcati da ponti levatoi controllati da rivellini. L’abitato, espulso dalla ristrutturazione, si riversò fuori dalle mura, che da allora delimitarono il giardino del palazzo. La rocchet-

L

arti

che non risparmiò l’antica residenza, nei cui sotterranei era ricavato un rifugio antiaereo: tra i morti, la famiglia Calcagnini, di cui si salvò miracolosamente solo una bimba di pochi mesi, protetta dall’abbraccio materno. La ricostruzione del castello, divenuto sede del municipio, compiuta tra restrizioni economiche e nella fretta del dopoguerra, fu all’origine di un rapido degrado architettonico e strutturale, che nel 1998 convinse l’amministrazione a un esemplare restauro appena concluso. Affidato alla perizia e all’entusiasmo degli architetti Vincenzo Vandelli e Domenico Biondi, il restauro promuove un straordinario percorso di conoscenza, a cui partecipa tutta la comunità. Condotto attraverso scavi, saggi stratigrafici e indagini archivistiche; sorretto dal formidabile apparato multidisciplinare fornito dalle soprintendenze e dalle università di Bologna e di Venezia, il restauro ha rivelato l’estensione e la ricchezza della storia del castello e del sito, che qui abbiamo appena abbozzato. È un patrimonio ideale imponente che suggerisce agli architetti un tocco lieve, affabile e rispettoso. I pochi inserti si limitano ai collegamenti verticali e orizzontali: scale e passaggi di sofisticata essenzialità: in ferro e pietra all’esterno, ferro e legno all’interno. Mentre il recupero dei fossati conquista i vani seminterrati a una rinnovata pienezza funzionale, gli scavi archeologici lasciati a vista fanno del giardino un suggestivo museo all’aperto. In definitiva il restauro consiste nel mettere in scena l’edificio come palinsesto fisico e spaziale, corrispettivo materico e tangibile dei fantastici ambienti virtuali allestiti nella rocchetta dallo Studio Azzurro, che restituisce in immagini magiche, in lampi di luce, la vita del castello e dei suoi antichi abitanti. Imprimendo senso architettonico alle stratificazioni murarie, ai frammenti di antichi intonaci, ai lacerti pittorici e lapidei, gli architetti ritessono un racconto millenario, che culmina nelle gioiose pareti dipinte nelle sale seminterrate da David Tremblett, maestro dello specific site, l’arte che interpreta in forme e colori un luogo specifico e la sua storia.

Formigine un racconto millenario di Claudia Conforti ta, cardine tra borgo e castello, ospitava funzioni civiche: la prigione, l’abitazione dei «birri» e del capitano delle guardie, mentre il consiglio della comunità si riuniva in una sala del palazzo, sotto una venerata immagine mariana. A metà del Seicento il feudo passò ai Calcagnini, fidati cortigiani degli Este, che tennero il castello fino al Novecento allorché la progressiva acquisizione pubblica del giardino e di parte dell’edificato coincise con interventi che, volti al presunto ripristino dell’assetto originario, in nome del laterizio a vista, sacrificarono gli antichi intonaci colorati e dipinti che, dentro e fuori, caratterizzarono per secoli l’edificio. Nell’aprile 1945 Formigine fu colpita da un bombardamento

diario culinario

Osteria nel nome, ristorante nel piatto

di Francesco Capozza quilla il telefono e una voce amica dall’altra parte fa: «Ci sarebbe un posto molto carino dove si mangia bene e si spende relativamente poco, son sicuro che ti piacerebbe». Un attimo di respiro e penso alle analoghe proposte che mi sono state fatte nel corso degli anni (e le frequenti fregature prese, a discapito del mio povero fegato) e dico: «Di che si tratta? Non sarà il solito posto pseudo-fusion di cui non ne posso veramente più?». «No, questo ristorante ti stupirà».Va bene, accetto la sfida e vediamo un po’ di che si tratta, dico tra me e me. La zona, specialmente per chi di Roma non è, non rimane facilmente impressa nella memoria, tanto meno culinaria. L’osteria “Fernanda”, infatti, è in via Ettore Rolli, un vialone che congiunge Piazza-

S

le Della Radio con Viale Trastevere: pochi negozi e due cantieri, uno per un parcheggio in divenire (?) e l’altro per i soliti scavi per una futura fermata della Metropolitana come quelli che da anni disseminano la capitale. Una volta entrati l’atmosfera è realmente quella di un’osteria, più curata forse, ma sempre osteria. Niente tovaglie di fiandra, ma pratiche e minimali tovagliette di carta a proteggere i pochi (e forse un po’ piccoli) tavolini di legno chiaro. Posateria semplice e bicchieri da vino adatti alla degustazione completano l’apparecchiatura minimal di questo grazioso locale. Appena seduti, nonostante l’ambiente si riempia ben presto (e molti sfortunati avventori rimangano fuori ad attendere che un tavolo si liberi), i due giovani proprietari non vi faranno mai mancare la loro attenzione. Ecco allora arrivare su-

bito acqua e menù, oltre a un sacchetto di carta pieno di ottimi pani fatti in casa: a lievitazione naturale, al sesamo, al latte e integrali, accompagnati da fragranti grissini anch’essi provenienti dal forno casalingo. Ma ecco la vera sorpresa: il menù. Piatti accantivanti, sfiziosi, di quelli che ti fanno pensare a due ipotesi. La prima è che sì, questo è un altro di quei locali con ambizioni fighettine e modaiole, la seconda è che in cucina deve esserci qualcuno che ha fatto dell’esperienza, perché i nomi di quei piatti non stanno lì a caso, tanto per. Per realizzare anche solo discretamente certe pietanze ci vuole ricerca, esperienza, tentativi sugli abbinamenti. Fortunatamente per voi (e anche per il fegato del sottoscritto), qui siamo nella seconda delle ipotesi. Ecco allora arrivare un eccellente (e morbidissimo) polpo rosticciato con quenelle di

melanzane e chips di papate (12,00 euro), dei gustosi pici al vino rosso con polpettine d’agnello, verza e pecorino di fossa (13,00 euro) e, a seguire, un gustosissimo trancio di salmone con riso nero croccante, mango e salsa di fagiolini (15,00 euro). Tra le carni, da non perdere l’agnello arrosto con passata di cicoria e crocchetta al primo sale, che è anche il piatto più «costoso» in carta, a 17,00 euro. Capitolo dolci da attentato alla dieta: ottimo, per esempio, il gelato alle prugne con crumble di arachidi e salsa all’arancia. Un’osteria nell’insegna e nei prezzi (35,00-40,00 euro per un pasto completo), ma un vero e proprio ristorante per gourmet nel piatto. Sfida vinta e «prova amico» ampiamente superata.

Osteria Fernanda, Roma, via Ettore Rolli 1, tel. 06 5894333


MobyDICK

11 aprile 2009 • pagina 15

architettura

A Bisceglie, il moderno nella tradizione dei borghi di Marzia Marandola entre le periferie delle grandi città sono dominate da un’edilizia residenziale sempre meno attenta alla qualità del progetto architettonico, i piccoli centri divengono luoghi privilegiati di sperimentazione, dove affiora un maggiore impegno a garantire la bellezza architettonica e la correttezza costruttiva. È quanto accade a Bisceglie, in provincia di Bari, dove la locale impresa di costruzione - Primo Piano Maison - ha commissionato il progetto di un edificio per residenze a due giovani e promettenti architetti: Francesco Del Conte e Raffaella Maddaluno. L’edificio, realizzato nel 2007, sorge in un’area di nuova edificazione del centro di Bisceglie, esso è posto in prossimità di altre nuove palazzine in un paesaggio dominato da grandi appezzamenti agricoli coltivati a uliveti. La palazzina, che occupa un piccolo lotto, è organizzata su una pianta rettangolare stretta e allungata, di grande semplicità; in alzato l’inserimento di mirati scarti volumetrici, l’alternanza di balconi con aggetti diversamente prominenti, uniti a nette contrapposizioni cromatiche dei volumi, raggiungono un’armo-

M

nia sorprendente e rigorosa. Il volume parallelepipedo si articola in un blocco centrale quadrangolare più emergente, che contiene l’ingresso, le scale e il blocco ascensori, affiancato dai blocchi contenenti gli appartamenti più ampi: da questi ultimi, sul fronte principale a sud, aggettano di circa 2,5 metri, come «vassoi» aperti sul panorama, gli arditi balconi. Sul fronte posteriore, a nord, dal corpo centrale aggetta una coppia di balconi, mentre un blocco a pianta rettangolare, che spor-

ge oltre il volume principale, alloga gli appartamenti di minor dimensione, organizzati intorno a una loggia anch’essa rettangolare. Al piano terra l’edificio è definito da un podio di colore scuro sul quale poggiano quattro piani, con tre appartamenti di diversa metratura a piano: il più piccolo è formato da una camera, soggiorno, cucina e servizi e gli altri due di media dimensione, formati da soggiorno, due camere, cucina e un bagno. Una rigorosa logica è rintraccia-

moda

bile anche all’esterno dell’edificio, dove le differenziazioni cromatiche dei diversi blocchi evidenziano: i due appartamenti maggiori, che prospettano sul fronte sud con un niveo intonaco mentre una forte vivacità cromatica di rosso caratterizza il prospetto nord, così come è rossa anche la fascia di prospetto che segna il passaggio dal blocco con gli appartamenti grandi ai monolocali. Un bianco intonaco riveste il piccolo blocco a nord, che sporgente intacca la rossa parete del blocco principale. In copertura ampi spazi con terrazze e stenditoi permettono una visuale aperta sul paesaggio di ulivi, uno spazio comune da dove godere il panorama e le soleggiate giornate estive. L’immagine complessiva dell’edificio è caratterizzata dagli ampi aggetti dei balconi, che si aprono verso il paesaggio e dalla grande varietà e brillantezza cromatica del bianco, del grigio e del rosso. Una curata sistemazione dello spazio del giardino a piano terra, con panche e spazi di sosta per l’incontro, rende accogliente e conviviale l’arrivo alla casa, riprendendo una tradizione sociale del vivere comunitario dei borghi pugliesi.

Sua maestà la borsa, arma di seduzione di massa di Roselina Salemi essuna via di mezzo. Le borse, ormai, possono essere soltanto molto grandi o molto piccole, con una sorta di bipolarismo modaiolo. Per nulla imbarazzante, perché è consentito, anzi auspicato, passare da uno schieramento all’altro, o iscriversi contemporaneamente ai due partiti. La Borsa (non in senso finanziario) è rimasta, insieme con i jeans, l’ultimo baluardo, la diga che ancora non cede ai colpi della crisi e impegna i migliori cervelli della moda. Così, il mercato è invaso da plotoni di bag (anche da uomo, molto in tendenza la «postina») che arrivano ovunque, come guerrieri ben addestrati, equipaggiati con armi non convenzionali, armi di seduzione di massa: strass, fiocchi, frange, ciondoli, fibbie. E colori arditi: turchesi (Jessica Simpson), verdi, (Paris Hilton), gialli (Carla Bruni), enfatizzati dal luccichio della vernice, effetto caramella. La primavera è una borsa appena sbocciata, l’ottimismo è un lilla, un rosa, un arancio, che guardati l’anno prossimo, faranno inorridire.

N

Nel dubbio, vista la ricchezza dell’offerta, fioriscono le limited edition. Nel dubbio, è meglio spendere per qualcosa di speciale. È già limited di per sé la JL Cooper Bag in coccodrillo di Ralph Lauren (19 mila euro) che, dato l’investimento, non è offerta in tinte tipo glicine e zafferano. È limited concettualmente la Chanel Essential bianca o nera inventata da Karl Lagerfeld, riproduzione fedele, ma in pelle, della shopping bag di carta della storica boutique al 31 di rue de Cambon a Parigi, adottata dalla star indiana Freida Pinto, quella del film The Millionaire. Poi c’è la PBag (soltanto duecento pezzi) di Pizero, bicolore, in pelle, suède e vernice, Utopia con frange e borchie, firmata da Roberto Cavalli (notata sulla spalla di Asia Argento). Perché non c’è limited di successo senza la sua brava testimonial. E senza un evento. Molto invidiata l’astuzia di Gucci. Per celebrare la riapertura del negozio di Sloane Street, il direttore creativo Frida Giannini ha disegnato una collezione in edizione limitata,

la Sloaney Bag. Dopo la Gucci \u2665 NY, sfoggiata da Bridget Moynahan e 1950s Postcard (a spasso con Laura Chiatti, una delle nostre giovani attrici più fashioniste), create per le aperture di New York e Roma, ora tocca alla Sloaney che celebra la Union Jack, colorata, sfacciata, patriottica, al braccio di Kate Moss. Così, in questo gioco dell’essere e dell’apparire, conta più il processo di identificazione con la trendsetter di turno che la borsa. E se, un tempo, le icone erano pochissime, giusto Grace, Audrey e Jackie, oggi qualunque celebrity può lanciare una it-bag. Tanto vale allora, ispirarsi a Mischa Barton, ex protagonista della serie cult The O.C., considerata, con un brutto neologismo, stilosa. La sua Freddy (niente affatto limited edition, e in più costa soltanto 49,90 euro) è una sacca da palestra argentata e con le borchie, portabile anche la sera, se ci si iscrive al partito delle borse grandi. E se il conto in banca non prevede investimenti, né in Borsa, né in borsette.

Bridget Moynahan con una “Gucci Love Ny”. A sinistra, Laura Chiatti con una “1950s Postcard” (courtesy of Gucci)


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fantascienza

na delle caratteristiche degli appassionati di un particolare settore della cultura popolare (fumetti, giochi di ruolo, fantascienza, gialli e così via) è quella di tenere riunioni periodiche in genere abbastanza folkloristiche. Sono le convention: ovviamente non «convenzioni» come qualche scioccone ancora traduce (in italiano il termine ha, come si dovrebbe ben sapere, significati completamente diversi), ma appunto riunioni, convegni, congressi. Per quanto riguarda la fantascienza, l’Italia ne ha ormai una lunga tradizione che risale ufficialmente al 1975. Ufficialmente nel senso che anche in precedenza i fans si riunivano, ma non in maniera propriamente organizzata: erano iniziative del tutto private, di piccoli gruppi di amici, riuniti magari intorno a riviste amatoriali, le fanzines, che negli anni Settanta pullulavano e che ora non esistono più a stampa, sostituite totalmente da quelle in formato elettronico su Internet (spesso comunque scaricabili su carta). Solo però con il cosiddetto Sfir di Ferrara l’iniziativa assunse una parvenza di serietà d’intenti e di volontà di farne un appuntamente fisso periodico che prese il nome di ItalCon (Italian Convention) con relative premiazioni, man mano ampliate, alla migliore produzione professionale e amatoriale. Sicché, tra giovedì 26 e domenica 29 marzo si è svolta a Fiuggi la decima DeepCon (l’incontro annuale degli appassionati italiani di Star Trek), che ha abbinato la ItalCon giunta alla 35ma edizione e la EuroCon 2009, vale a dire la riunione degli appassionati italiani ed europei di fantascienza con relative presenze di personaggi e personalità di vario genere. Ecco quindi come ospiti la soggettista e sceneggiatrice della serie Next Generation Lolita Fatjo; l’attore Max Grodenchik che interpreta il personaggio di Rom nella serie Deep Space Nine; Janet Nemecek, coordinatrice dei soggetti per la serie Voyager; il di lei marito Larry Nemecek, curatore della rivista ufficiale dei fan di Star Trek; Anthony Simcoe, attore interprete del personaggio di Ka D’Argo in Fanscape; Marina Sirtis, interpretate dell’aliena Troi negli episodi di Next Generation.

MobyDICK

ai confini della realtà

U

Ovviamente erano presenti diversi scrittori di livello internazionale ed europeo: infatti l’EuroCon è l’occasione per riunire di volta in volta in uno Stato diverso autori e lettori di fantascienza del Vecchio Continente, e non solo. Ecco quindi Geoffrey Landis, scrittore ma anche scienziato presso l’Ohio Aerospace Institute; Bruce Sterling, il creatore della corrente letteraria del cyberpunk insieme a William Gibson, ed esperto informatico del governo statunitense; la saggista e narratrice inglese Mary Turzillo; Ian Watson, altro importante scrittore e sceneggiatire di fantascienza inglese; il russo Sergey Lukyanenko, autore della serie fantasy/horror dei Guardiani ambientata nel suo Paese e tradotta in italia da Mondadori; e infine l’ospite d’onore, Giuseppe Lippi, da molti decenni curatore della più longeva collana italiana di fantascienza, Urania, nata nel 1952. Il folklore di queste convention è costituito soprattutto dal contorno alle conferenze, ai dibattiti, alle interviste e alla presentazioni di libri che si susseguono nelle varie sale degli alberghi sequestrati per l’occasione. Sono gli appassionati, maschi e femmine, che dila-

Trekkisti a congresso di Gianfranco de Turris vecchie fanzines a introvabili figurine. La parte finale, di ogni ItalCon è dedicata alla premiazione dei migliori romanzi, racconti, articoli, fumetti e così via apparsi nell’anno precedente. Le votazioni, ormai da parecchio tempo, si effettuano con schede via internet. Citiamo almeno i principali vincitori nel 2009: per il romanzo italiano due opere ex-aequo, una di fantascienza, Vladimir Mei di Donato Altomare, e una fantastica, Passi nel tempo di Enrico Di Stefano, entrambi pubblicati dalle Edizioni della Vigna; per il romanzo straniero, L’utopia di Walden di Patrik Kelly (Delos Books).

Notizie dal DeepCon, l’incontro annuale dei fan italiani di “Star Trek” che si è appena svolto in abbinamento all’ItalCon e all’EuroCon 2009, riunioni degli appassionati di fantascienza. Eventi non privi di folklore, dove si incontrano autori, si danno premi e si fanno progetti editoriali gano per parlare con gli scrittori preferiti, che si scambiano notizie, che propongono e acquistano pezzi da collezione, che spesso - è qui il caso di «trekkisti», come in altri dei fan di Guerre stellari o del Signore degli Anelli - si vestono e travestono come i personaggi preferiti, mentre corridoi e saloni sono addobbati di manifesti di film, ricostruzioni in scala, modellini, manichini abbigliati secon-

do la moda fantascientifica. Non mancano le sfilate in costume, in genere dopo il gran pranzo conclusivo. E non mancano, anzi se mancassero sarebbe un guaio, i banchetti di supercollezionisti-venditori che offrono (non di rado a peso d’oro) testi antichi, riviste d’antan, anche ristampe anastatiche in poche copie: è un mercato sotterraneo ma fiorentissimo, dai libri agli albi a fumetti, dalle

Viste inizialmente come qualcosa d’infantile e più che altro come curiosità, con la considerazione e l’apprezzamento che questi generi letterari e non hanno man mano acquisito, anche le convention hanno assunto una loro autorità, ancorché praticamente sempre ristrette ai soli appassionati: oltre all’aspetto amicale e conviviale, servono in genere a fare il punto della situazione, a valutare gli alti e bassi del mercato editoriale, il livello delle opere straniere tradotte e di quelle italiane, valutare gli argomenti di moda e i flussi d’interesse. Non di rado si prendono accordi per futuri programmi editoriali e altrettanto non di rado si rompono amicizie o si riallacciano rapporti interrotti da tempo. Sì, perché come in ogni ambiente ristretto e specialistico le polemiche, anche su questioni banali e/o personali non mancano mai. La fantascienza si occuperà certamente di altri mondi, altri spazi, altri tempi, ma da questo punto di vista è terra-terra, assolutamente calata nella realtà quotidiana!


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