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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

La narrativa di Andrea Vitali

QUEL RAMO DEL LAGO DI COMO di Pier Mario Fasanotti el vocabolario, alla voce «smargiasso»: «Borioso millantatore delvente (c’è ancora chi lo sbandiera). Vitali, quando non cura i suoi pazienti le proprie presunte capacità». Non a caso ho scelto un termidi Bellano, lago di Como, scrive romanzi. Uno dietro l’altro: e questo Quando ne di chiara origine lombarda per parlare di Andrea Vitain Italia è un peccato grosso. Se l’essere prolifico è concesso a un non cura i suoi li, scrittore di punta della Garzanti. Lui è l’opposto Dumas, la critica con il sopracciglio ostinatamente alzato pazienti, scrive romanzi. dello smargiasso. Non fa comparsate in tv accanto alla considera il figliare italico un’abitudine da osteria, un’indecente incontinenza. Ha venduto finora alvelina di turno. Si tiene lontano dai pigolanti salotE soprattutto li vende, essendo l’incirca un milione e mezzo di copie. E questo ti letterari, anche perché di professione fa il un autore da più di un milione di copie. a molti proprio non va giù. John Grisham medico. Ha contro di sé quei professorini o Dan Brown lo possono fare, chi è nato nelfurbacchiotti che per un faticoso (a manteIl che in Italia non si perdona tanto facilmente. l’antico stivale no. Vitali passerà certamente la nerlo) giro di amicizie scrivono, anzi rimproveraForse per questo sarà sempre vita a scontare una pena, ossia quella d’essere semno con tanto di votazione, su giornali nazionali: gli considerato soprattutto pre accostato, come erede, a Piero Chiara, lombardo e fustessi che magari scrivono libri intenzionalmente ambiziocinatore di storie lacustri anch’egli. si, noiosi e di bassa tiratura (l’invidia è una dermatite intelletl’erede di Piero tuale: a volte non passa mai). Non si paragona mai a Manzoni, a Chiara... continua a pagina 2 Borges o a Balzac. Non dice mai di essere il miglior scrittore italiano vi-

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Sapienza di Sergio Valzania Il talento di George Merk non solo figlio d’arte di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Carrieri, il canzoniere di un uomo in pena di Francesco Napoli

Quel Manoscritto è di Bacone di Mario Bernardi Guardi Louise-Michel Vive la (non) différence di Anselma Dell’Olio

Giorgio Soavi collezionista di Marco Vallora


quel ramo del lago di

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como

Il biliardo, una certezza che profuma di pianura na volta se si diceva «lago» si diceva Alessandro Manzoni o Antonio Fogazzaro. Oggi si dice Piero Chiara, il narratore che ha come felice erede Andrea Vitali. Anche se le acque sono diverse, pur collocate nella stessa regione, quella più morbida, quella che conserva ancora la memoria, diversa dalla Milano stuprata da un sogno volgarotto, divenuta garage di lusso pacchiano e di miserevoli mode. Una parte di regione che è diversa dalla gretta Brianza per la quale Carlo Emilio Gadda spese parole spietate e illuminanti. La Luino di Chiara, posta sulla «riva magra» del lago Maggiore, è la piccola provincia che fa da serbatoio di ricordi e invenzioni: fonte esemplare della nostra narrativa. Grazie all’editore Aragno, conosciamo pagine inedite di Chiara (Quaderno di un tempo felice, 18,00 euro) che rimembra l’infanzia, la sua

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(nativa) via dei Mercanti, «tortuosa e in salita, selciata a pietre tonde», i bar, l’imbarcadero dove molti sognavano di partire e poi restavano inchiodati a quella sponda, i negozi, il «si dice» d’una persona che già nasce come racconto o spunto di romanzo. C’è il fornaio Bram, felice con la sua polvere bianca addosso, un po’ meno su una terrazza assolata, con gilet e giacca, affettuosamente dolorante sul letto di morte con gli «occhi di topo», gli stessi che Chiara vide quand’egli rimase travolto da un sacco di farina. C’è il giovanissimo Piero che maldestramente va a bottega di fotografo, e combina un grosso guaio distraendosi nel guardare piedi e sandali e le ondulazioni malandrine dell’abito di una donna sdraiata, in posa, su un canapè. Un affollamento di figure mediocri, se non meschine, ma osservate e descritte con compassione perché portano con loro «tutto il sapore di quei giorni lontani». C’è anche un racconto firmato con pseudonimo. Quasi sicuramente è suo, dicono gli studiosi. C’è un passo bellissimo che riguarda un oggetto ricorrente nei romanzi di Chiara: il biliardo. «Dove l’avrei trovato per mare un biliardo? Neppure nei transatlantici ci può essere un biliardo, che ha bisogno di assoluta immobilità… direi che neppure in montagna non ce lo vedo un biliardo, ma solo in pianura perché il biliardo è la sublimazione della pianura, è il piano geometrico ideale». Mai, o quasi mai, allontanarsi dalle sponde. La terraferma è collaudata garanzia. (p.m.f.)

segue dalla prima Due laghi, stesso odore di provincia, stessa passione per il pettegolezzo e il mistero, stesso interesse per la doppiezza di certe esistenze, stessa conturbante propensione a insistere sui sospiri, di piacere e di malinconia, delle donne. Due laghi, il Maggiore e quello di Como, ma uguale catino di quel tratto italico che va scomparendo o è ormai del tutto svanito: la vita di provincia.Vitali non è però il clone di Chiara. Il dipanarsi delle rispettive storie è diverso. Il comasco è più corale, semmai simile al Chiara del Piatto piange, ma non alle sue successive storie. Se si dice provincia, si dice anche la verghiana «roba», cui il ceto piccolo è avvinghiato, la frenesia ormonale, la libido mal trattenuta o mal celata (nei piccoli paesi è difficile fare gli affari propri), la rispettabilità come garofano all’occhiello nei giorni di festa. C’è anche l’amore, come no. A volte lungo e travolgente, foriero di disgrazie e patimenti. A volte passeggero, come un colpo di vento.

Provincia è anche il soprannome che, come insegnano i romagnoli, è la sintesi di un carattere, il cartello della strada umorale d’una persona o di un’intera famiglia. E c’è anche l’equivalente di un titolo accademico: nel romanzo La modista, la donna che dà titolo alla vicenda è in realtà una merciaia, golosa di uomini e decisa a scegliere quello definitivo, il meglio. A proposito della Modista, uno dei più fortunati romanzi di Vitali, viene in mente il gusto a volte amaro a volte cattivello dell’autore di scegliere i cognomi dei protagonisti. Un reporter del quotidiano comasco, modesto scribacchino di cronache ma uomo ricco, si chiama Eugenio Pochezza. E qui i giochi di parole sono molti, a scelta del lettore. Provincia è anche arte del pettegolezzo, che poi è la prima forma del romanzo popolare, a ben pensarci.Assodata storicamente è l’abitudine dei provinciali a mettere al centro del gossip da bar la donna. Basta che una sia tutta «curve e dossi» e viva sola, ecco che scatta la diceria che sia divora-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

trice di uomini, nella penombra di due stanzette, con comò pretenzioso, specchi e persiane malandrine. Ma la donna, nella prosa di Vitali, è sempre protagonista, anche quando a fare i fanfaroni, al lavoro o all’osteria, sono gli uomini. Nell’ultimo romanzo, uscito da pochi giorni e intitolato Almeno il cappello, tale Evelindo Nasazzi vuole rimpiazzare la moglie appena morta e pensa che una donna valga l’altra, basta che siano diligenti a letto e bravine in cucina. La scelta sarà fatta per criteri anagrafici, ragionieristicamente. Lui, ultraquarantenne, sceglie una trentenne se non altro perché «prometteva di durare di più». Ecco il misero ragionar maschile, che andrà a sbattere contro la natura femminile, più complessa, più imprevedibile, più affascinante. Il povero Nasazzi che al giorno di paga pensava di fare i suoi porci comodi se la vedrà con una donna robusta nel fisico e nel carattere. Risultato: un gran ceffone, di quelli che ti segnano per la restante vita, una linea di demarcazione tra un prima e un dopo. Seguono l’umiliazione e il riflettere su se stessi. Segue anche il mutare della vicenda collettiva. Quello di Como, per la sua conformazione geologica, è un lago chiuso. Tutto pare concentrarsi sui singoli paesi senza alcuna possibile via di fuga. I battelli scorrono e sono chiassosi nei giorni di festa, ma scorazzano sempre nella stessa acqua, prima in avanti e poi all’indietro (la distanza tra le due sponde lariane è poca cosa rispetto al lago Maggiore, che adirittura appartiene a due Regioni), un pendolo ossessionante se osservato da chi vuole sottrarsi alle tantaliche pene della cadenza. E questa ganascia geografica fa sì che certi destini siano esasperati, che certe esistenze siano inviperite dalle imposizioni di

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

un preciso luogo. Torna alla memoria, a questo punto, quel che Cesare Pavese diceva dei piccoli paesi: «Bisognerebbe inventarli, se non altro per il piacere di tornarvici». Fatto sempre salvo, è ovvio, un clima di spensierata goliardia, amplificata da modi di dire dialettali. Ma per certi «professorini» il successo di Vitali è inspiegabile, e se c’è, comunque è di dozzinale caratura.Taluni nutrono sospetti, e non si sa bene perché, perché Vitali ambienta le sue storie negli anni tra i Trenta e i Cinquanta, quando è palese a tutti che quel periodo fu l’apoteosi della provincia, della piccola borghesia assurta a emblema dell’umanità denudata quindi intimamente autentica. Gli intrecci e la prosa del comasco s’inseriscono senza alcun timore di inferiorità nel generoso filone della commedia all’italiana e in quello filmistico, che ha come portabandiera il Signori e signore di Pietro Germi. La Treviso descritta dal regista è gran parte dell’Italia, così come lo è la Torino di Arpino, la Lucchesia di Tobino, la Venezia di Ongaro, il Veneto di Parise, la Catania di Brancati, la Sicilia di Sciascia e di Camilleri. L’Italia come luogo letterario non può mai essere un’astrazione. Ha bisogno di una terra su cui conficcare le sue storie.

Non manca mai l’uomo di lettere, quello che giudica i romanzi degli altri condizionato dalla frustrazione per lo scarsissimo insuccesso dei propri, che insiste a dire che Vitali «non sa costruire un romanzo vero». L’accusa è quella del «taglia e incolla» con capitoli brevissimi.Vitali non sarà Manzoni, questo è ovvio, ma è ridicolmente riduttivo il giudizio: e se usasse lo stesso metro critico per esaminare l’Ulisse di Joyce? Che si direbbe contro l’intoccabile di Dublino? Ma per fortuna il vento cambia: solo fino a dieci anni fa Piero Chiara veniva snobbato dalla critica paludata, giudicato narratore leggero, cantore di corna, adulteri, intrighi, sconfinate mediocrità. Poi la rivalutazione. L’accademia ha sempre il passo lento. E colpevolmente rigido.

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parola chiave

a sapienza è una qualità difficile da definire. Anche per questo non ha trovato posto né tra le virtù cardinali, fortezza, temperanza, prudenza e giustizia, né tra quelle teologali, fede, speranza e carità. La sua natura è in qualche modo intermedia alle due categorie. Il suo carattere non è del tutto laico, è più prossimo a quello religioso di quanto non lo siano il coraggio, la fortezza, o la stessa giustizia, i cui pregi appartengono alla natura terrena, civica dell’uomo. Allo stesso modo la sapienza, intesa come comprensione profonda del mondo, quasi una complicità con Chi lo ha creato, non raggiunge la leggerezza, l’incorporeità e l’abbandono della fede o della speranza, per non dire della carità, l’amore, virtù propria di Dio stesso, sua essenza dichiarata. La sapienza non si ottiene attraverso lo studio, né con l’esperienza. Piuttosto con la preghiera. Si trova infatti un gradino al di sopra della saggezza e molto più in alto dell’erudizione. Nella Bibbia un intero libro è dedicato a lei, ma la sua natura rimane sfuggente; se ne descrivono gli effetti più che gli elementi costitutivi. Impressionante l’elenco dei suoi caratteri: «In lei c’è uno spirito intelligente, acuto, unico, molteplice, sottile, agile, penetrante, senza macchia, schietto, inoffensivo, amante del bene, pronto, libero, benefico, amico dell’uomo, stabile, sicuro, tranquillo, che può tutto e tutto controlla, che penetra attraverso tutti gli spiriti intelligenti, puri, anche i più sottili. La sapienza è più veloce di qualsiasi movimento, per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa». Ancora più stringenti sono le parole che seguono, con le quali il testo si sforza di individuarne la sostanza: «È effluvio della potenza di Dio, emanazione genuina della gloria dell’Onnipotente; per questo nulla di contaminato penetra in essa. È riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell’attività di Dio e immagine della sua bontà».

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La scrittura propone la sapienza come una modalità di conoscenza fondata su di una comprensione allargata della realtà.Torna in mene a proposito l’accusa di nozionismo che nel ’68 veniva rivolta alla scuola italiana e alla forma di sapere che essa trasmetteva. Non è la quantità dei dati immagazzinati a individuare la qualità di una sapere, di una sapienza, si diceva, quanto la loro organizzazione. Ben prima che venissero inventati i personal computer e il contatto quotidiano con memorie sterminate divenisse una prassi condivisa, il semplice accumulo di dati veniva riconosciuto come di per sé non costitutivo di un sapere. La cultura contemporanea percepisce con dolore crescente questa contraddizione fra nozioni di base e sguardo d’insieme, in un contesto nel quale la massa di informazioni disponibili in relazione a fenomeni di piena dignità artistica, letteraria, sto-

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SAPIENZA Non si concede all’uomo razionale che si pretende autosufficiente, né a chi ritiene di disporre già dei mezzi intellettuali che gli servono per dominare quanto lo circonda. Essa si farà trovare da chi accetta la misteriosa presenza di Dio nel mondo...

Un atto di umiltà di Sergio Valzania

Si trova un gradino al di sopra della saggezza e molto più in alto dell’erudizione. Non si ottiene attraverso lo studio, né con l’esperienza. Piuttosto con la preghiera, ma la sua natura rimane sfuggente. Secondo la Bibbia “è più veloce di qualsiasi movimento, per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa” rica o scientifica si è ampliata in maniera esponenziale. Ormai ogni ramo della conoscenza è divenuto specialistico e i vari settori dello scibile diventano sconosciuti l’uno dall’altro. Tutto ciò non riduce il bisogno di sapienza, al contrario lo enfatizza, dato che l’illusione di un sapere scientifico, razionale, pienamente informato, che sia in grado di fornire risposte adeguate dopo aver analizzato tutti i dati necessari per un tempo congruo si allontana sempre di più. La società contemporanea, stretta nella rete della immediatezza delle comunicazioni alla quale i media elettronici la condannano, richiede decisioni immediate. Manca il

tempo per la raccolta delle informazioni e per la loro analisi. Il più delle volte si rivela più efficace una risposta decisa e immediata, anche se non del tutto centrata, rispetto a una reazione ben ponderata e basata su di una accurata analisi dei dati, ma tardiva. Il mondo corre e le decisioni lo inseguono, molto spesso senza riuscire a raggiungerlo. Il tempo concesso ai potenti per esercitare il loro potere si accorcia, le occasioni per intervenire in modo decisivo sul corso degli eventi sono rare. La crisi economica che stiamo attraversando deriva anche dalla mancanza di tempo decisionale da parte degli organismi politici, stretti

dall’urgenza dei problemi e dall’apparente assenza di alternative rispetto alle soluzioni che essi stessi si sanno dare. Fino a quando è il sistema finanziario stesso a dichiarare i limiti della propria capacità di auto organizzarsi. Così il sapere analitico, fondato sulla razionalità e non sull’intuizione, elaborato sullo studio senza il contributo della preghiera, riferito a istanze numeriche e non qualitative, si vede sfuggire la realtà tra le dita, come acqua di fonte che si deve bere subito, se non si vuole rimanere assetati e a mani vuote. Conoscere i fatti e le circostanze non è comunque condizione sufficiente per elaborare risposte adeguate, a volte troppe informazioni si ammassano a formare un labirinto dal quale è molto difficile uscire; il compito decisionale richiede piuttosto comprensione dei fenomeni, capacità di individuare le linee di sviluppo dei processi, sguardo attento nel coglierne le prospettive di evoluzione.

Una parte consistente del Libro della Sapienza è formata da un discorso attribuito a Salomone, il re sapiente per eccellenza. Egli ne esalta la natura di dono concesso da Dio ai suoi eletti, ma senza negare per questo la generosità di Dio, dato che la sapienza non si ritrae di fronte a nessuno di quelli che ne vanno in cerca. Anzi «facilmente si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano». Alla base dell’incontro sta una concezione del mondo che la comprenda e la apprezzi. La sapienza non si concede all’uomo razionale che si pretende autosufficiente, a chi ritiene di disporre già dei mezzi intellettuali e dei saperi che gli servono per conoscere e dominare quanto lo circonda. Non si concede loro perché essi non la vogliono, la considerano inutile se non dannosa. Al contrario la sapienza è ricercata da quelli che riconoscono, confessano, la piccolezza dell’uomo di fronte al creato e al Creatore, che sono capaci di vedere l’immensa complessità di ciò che hanno di fronte e di abbandonarsi con fede e speranza al viaggio della vita. Il sapere perde allora il carattere di strumento proprietario, finalizzato alla soluzione dei problemi della quotidianità per trasformarsi in un ambito di dialogo spirituale: la sapienza. Alla sua radice si trova un atto di umiltà: l’accettazione della presenza misteriosa di Dio nel mondo e della insondabilità assoluta delle ragioni e dei modi nei quali questa presenza si realizza. Da ciò deriva la possibilità di sfuggire alla ybris di uno scientismo che passa con velocità dall’ammirazione per il creato alla pretesa di una conoscenza, e quindi di un dominio, sulla natura assoluti. La sapienza è nello stesso tempo dono di Dio e accettazione consapevole di quel dono, perciò essa è disponibile per tutti purché ne sentano la necessità, come si legge nella scrittura: «Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta».


musica Il talento di George Merk MobyDICK

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cd

non solo figlio d’arte di Stefano Bianchi uai a farsi abbindolare dal solito pregiudizio del figlio d’arte. Che se proprio non dovesse scattare la raccomandazione automatica, un aiutino non glielo toglie nessuno. George Merk, oltretutto, è nato (a Lugano, nel ’74) con la doppia camicia del doppio figlio d’arte. Sai le risate. E le ironie. Suo padre, il triestino Teddy Reno, è stato il più grande crooner italiano. Sua madre, la torinese Rita Pavone, la reginetta del beat e dello yé-yé. Mi sarei aspettato, dal figliol prodigo, un poppettino a presa rapida e qualche lentaccio da mattonella in attesa dello sdoganamento al Festival di Sanremo, da raccomandato (guarda caso) fra le nuove proposte. Dopodiché, rotto il ghiaccio, fra un bel e ritornello un’amorosa

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strofa ecco il buon George che vive di rendita all’ombra dei mitici genitori, pronti a dispensar consigli sull’intonazione giusta e l’eventuale scalata all’hit parade. E invece no. George Merk è spudo-

ratamente/spontaneamente rock, canta in inglese e se ha ereditato qualcosa da Teddy & Rita sono gli ellepì che passavano sull’impianto stereo di casa: Beatles, Rolling Stones, Led Zeppelin, Kinks, Bobby Darin, Jethro Tull. Hai detto niente. Il rampollo li ha mandati giù a memoria, a quindici anni ha imbracciato la chitarra e a venti s’è messo di buona lena a comporre canzoni. Il risultato è X. Titolo lampo. Sillogisticamente parlando, tutt’altro che un’incognita. Al contrario, il succoso frutto d’una gavetta senza aiutini: concerti con svariate piccole band, nel 2002 il batte-

simo del quartetto chiamato George, un paio d’anni trascorsi a Londra e le sincere congratulazioni di Chris Moyles della Bbc, icona della radiofonia britannica, dopo l’ascolto dei primi singoli Winter e A Lazy One. È una bella sorpresa,

in libreria

mondo

X: voce coi controfiocchi, chitarra (sia elettrica, sia acustica) che sa quel che suona, basso e batteria nelle mani di Maurizio Corriga e Mauro Gambardella. Il pezzo d’apertura, programmaticamente intitolato Welcome To The Show, mette in vetrina un rockblues alla Dr. Feelgood, sprazzi di heavy metal e un imprevedibile contorno d’archi da camera. Il ragazzo sa il fatto suo, non c’è dubbio. E lo ribadisce col rock & funk (stile INXS) di Mask On, il semi punk di Ants & Spiders, il memorizzabile rock & roll che circoscrive Only When I’m Down ma soprattutto con Don’t Deserve To Be Like You, spettacolare viaggio negli anni Settanta all’orgogliosa ricerca di gruppi come Free e Ten Years After. Sin qui, i cortocircuiti elettrici. Poi, a farsi largo, è l’anima più cantautorale di Merk, fra echi di Simon & Garfunkel e Creedence Clearwater Revival (Long Long Day, Best Is Yet To Come), lo sdrucciolevole country & western di Stomp, il valzer pianistico di My Love e la fascinosa ballata One More Day che chiude in crescendo, e più che degnamente, il disco. Bravo George. E se per caso qualcuno si ostinasse a darti del raccomandato: non ti curar di loro, ma guarda e passa. George Merk, X , Tube Jam Records/I.R.D., 16,00 euro

riviste

GLI ACUTI DI SCHÖNBERG

VENT’ANNI DI REZNOR

IL POP PRIMA DEL POP

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chönberg è stato uno dei più grandi maestri di tutti i tempi, uno di quelli che non si possono superare perché in loro si incarnano insieme il sapere e la sensibilità musicali di un’epoca». Il famoso giudizio di Alan Berg sul padre della musica dodecafonica, autore di quel Pierrot Lunaire che nel 1912 scompaginò gli spartiti di mezzo mondo con il vento atonale, rende omaggio a un maestro

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artirà l’8 maggio da West Palm Beach, in Florida, e terminerà il 12 giugno a Charlotte, nel North Carolina. Il nuovo tour americano dei Nine Inch Nails, band leader dell’industrial metal, è circondata dalla solita grande attesa per le irresistibili performance dal vivo, e per l’annunciata partecipazione di Jane’s Addiction e Sweet Sweeper. Trent Reznor e intercambiabili soci (al-

a divisione commerciale tra hillbilly e race records fu una manna dal cielo per tutti, in particolar modo per le comunità nere. Perché fece la fortuna di moltissimi diseredati senza arte né parte, fu la formula magica che permise la creazione di un radicato e sempre più florido mercato afroamericano altrimenti ben difficile anche da ipotizzare. Il ghetto, in tal senso, pagò (e paga an-

“Stile e pensiero”, una raccolta di scritti lucidi e arguti del padre della musica dodecafonica

Al via l’8 maggio il tour della band leader dell’industrial metal. A Milano la data italiana

La musica americana fino al 1940, salvacondotto per artisti di estrazione diversa

capace di orientare una nuova fruizione del suono e tratteggiare la società con scritti arguti. Stile e pensiero (Il Saggiatore, 704 pagine, 35,00 euro) raccoglie le riflessioni del compositore sulla percezione del suono e sul pensiero che ne ispira la rivoluzione espressionistica da lui avviata. Testi lucidi e arguti, in cui Schönberg si confronta con altri musicisti del passato e del suo tempo, ma anche con la stringente attualità dei suoi anni che culminò nella seconda guerra mondiale e nell’ascesa del nazismo. Non solo un grande facitore di nuovi tessuti musicali, dunque, ma un acuto testimone capace di coniugare una logica serrata a bagliori di ironia e leggerezza.

meno nei live) riproporranno la scalmanata e dotta miscela di new-wave, metal ed elettronica che ne ha contraddistinto l’attività, in perenne oscillazione fra Depeche Mode, Ministry e Skinny Puppy, anche in Italia. Data unica, il 26 giugno all’Idroscalo di Milano, fitta di mistero. Già annunciati di spalla i Korn e i The Mars Volta, resta il busillis legato alle due special guest . Altra buona ragione per seguire un evento, dedicato ai vent’anni di Pretty Hate Machine, che segnerà l’uscita di scena dei Nin per un lungo periodo. Parola di Reznor.

cora) benissimo». Così Stefano Bianchi racconta la storia della popular music americana in un estratto del suo Prewar folk.The old, weird America 1900-1940 (Tuttle, 205 pagine, 14,00 euro) pubblicato su blowupmagazine.com. Poco indagati ma decisivi per le sorti delle sonorità contemporanee, i primi quarant’anni della musica furono negli Usa un salvacondotto per migliaia di artisti di estrazione e attitudini diverse. Bianchi o neri, anime blues e istrioni di piazza, liberarono con la propria espressione, la propria condizione. Musica libera tutti, che nonostante gli orrori del secolo breve, è la lunghissima onda da cui vengono i mille rivoli del sound contemporaneo.

a cura di Francesco Lo Dico

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zapping

IL PAUSINI PENSIERO trattato come un Classico di Bruno Giurato on basta il divertimento, signori. Alla faccia di quelli che dicono che Paolo Mieli abbia messo il Corriere in minigonna abbiamo la prova che non è così, che tutto falso è, che invece Mieli ha mielizzato bene. La formula alto/basso, argomenti curiali vs guizzi nello spirito oggettivo, per chi non lo sapesse non l’ha inventata lui ma Shakespeare. Anzi il bravo Platone. E Mieli (ri)lascia il Corriere a De Bortoli, sì, ma non manca di lanciare nel contempo un’operazione degna dell’alto più che del basso. Non un’operazione di marketing, ma un’operazione di cultura. Non basta il divertimento, signori. E quindi anche noi ci accodiamo diligenti e ci apprestiamo a far da cassa di risonanza all’evento. Da subito il Corriere manda in edicola non uno, non due, non quattro, ma niente di meno che otto cd più un dvd di Laura Pausini. Di opera omnia si tratta. E mentre aspettiamo che Bompiani faccia una bella edizione dei Classici con tutti i testi della Pausini commentati da Mario Luzzatto Fegiz inganniamo l’attesa con l’intervista di Mario a Laura uscita sul Corriere. Ivi apprendiamo che Laura odia «le cose del mondo che non vanno». Mario ci fa sapere che «anche solo guardando le copertine è evidente che esistono varie Pausini», e puntualizza che «per Laura Pausini l’esperienza più inebriante resta il palco». Laura aggiunge: «Faccio l’amore con la mia musica e fare l’amore è una gran bella cosa». Anche il lettore più igrugnato e malmostoso ammetterà sono frasi che hanno il respiro del classico. Ma il concetto più classico di tutti viene fuori ora: «Cosa significa essere innamorata per Laura Pausini?». «Fregarmene di tutte le regole: quelle che ci fanno ragionare troppo». Insomma, va bene gli otto cd più dvd, ma qui si aspetta l’edizione dei Classici.

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jazz

Una lezione d’amore sul mal di vivere di Enrica Rosso un distillato potente, una lama che penetra nella carne viva lo spettacolo che Danio Manfredini mette in scena con la sua compagnia. Il sacro segno dei mostri è il titolo che fa volare fuori dalla finestra il comune senso del pudore e per ottanta minuti ci trasporta dentro l’anima dei reietti, i disperati del mondo, i rifiuti di Dio, i fuori di testa. Così fuori che bisogna circoscrivere lo spazio, creare una gabbia immaginaria di pregiudizi, ma anche di solidi muri in cui almeno i corpi vengano contenuti e possano sì sbattere, sì correre, ma non alla luce del sole, non sotto lo sguardo allibito dei normali. Negare è la parola chiave. Chiudere, occultare, isolare e soprattutto dimenticare. Lo sa bene Manfredini, che di case di cura ne ha fatta esperienza diretta, quotidiana, quando era operatore in un centro di igiene mentale a Milano. Che per anni ha percorso strade al limite del sopportabile per mettere a punto la sua personale educazione sentimentale di uomo e di artista, per offrirci un giorno la memoria di quegli incontri, di quelle vite spezzate. Ora ci invita a entrare in contatto con il disagio psichico. Alza il sipario sul mal di vivere che abita dentro la testa, che tenacemente implode per poi improvvisamente esplodere, che fa tana nel cervello e non se ne va. Lo fa con delicatezza, con rispetto assoluto, con l’amore dovuto ai meno fortunati, conducendoci come il pifferaio delle favole a esplorarne le ore, infinite, di agghiacciante solitudine, vissute a volte con la consapevolezza che nulla cambierà. È duro il suo progetto, oneroso per chi sta in scena come per chi è in platea. Mai un secondo di luce, mai un respiro disteso, solo anime compromesse, obbligate in corpi storpiati. «Oggi sto bene, è da quattordici anni che non mi sentivo così, sarà un falso allarme», dichiara un giovane uomo. Impossibile non fare i conti con tanto dolore: e questa è proprio la ricchezza dello spettacolo in scena al Teatro India. Non dimenticheremo più, mai più, l’anziana in sedia a rotelle senza una gamba, piena di acciacchi, che canta sulle note della radio per farsi compagnia; per evadere e scendere dalla giostra di una vita senza amore, lei che l’amore se lo inventa dialogando con la voce del dj. Non dimenticheremo quello splendore di ragazza,

È

morbida come una rosa, la pelle bianca come il latte; i suoi lunghi riccioli rossi scomposti che danzano una danza disperata flagellando inutilmente l’aria prima di essere sopraffatta dalla stretta della polizia di Stato. E poi le corse intorno a cerchi magici, le corse a più non posso. Per togliersi il respiro, per partire per sempre, desiderando di essere ingoiati, per legge fisica, da imbuti di speranza che trasportino altrove. Si scatenano voglie opposte in chi guarda: repulsione, schifo per le bave e contemporaneamente, impellente necessità di salire sul palco per abbracciare quei poveri corpi sgangherati, per proteggerli almeno dalla durezza dell’aria. Tutto l’impianto scenico è al servizio dei sette straordinari interpreti (Simona Colombo, Cristian Conti, Patrizia Aroldi, Vincenzo Del Pre-

te, Giuseppe Semeraro, Carolina Talon Sampieri) che deambulano, con l’ausilio di scheletriche sedioline su rotelle, imprigionati dai loro binari interiori in percorsi immaginari che tracciano l’assurdo nello spazio. È una lezione d’amore questa di Manfredini: donata con compostezza regale e una grande, illuminata apertura di cuore.

Il sacro segno dei mostri, Roma, Teatro India, fino al 5 aprile

L’arte di Tiberi al servizio della Pmjo

di Adriano Mazzoletti opo il sassofonista californiano Bill Holman e il compositore, arrangiatore, trombonista e pianista dello Zimbabwe Mike Gibbs ecco Frank Tiberi, ex sassofonista della big band di Woody Herman. Sono questi alcuni dei musicisti che Maurizio Giammarco ha invitato come ospiti d’onore dell’orchestra stabile del Parco della Musica. Grandi del jazz che non vengono mai invitati ai vari festival e rassegne del jazz «dove partecipano sempre gli stessi nomi» ha dichiarato giustamente Maurizio Giammarco durante la presentazione del concerto. Frank Tiberi nato nel 1928 a Camden, cittadina del New Jersey dove erano situati gli studi di registrazione della Rca Victor, è un italo americano di prima generazione. I genitori, padre pugliese, madre abruzzese emigrarono negli Stati Uniti all’inizio degli anni Venti e come

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teatro

molti figli di emiFrank Tiberi grati italiani del Sud, anche il giovane Frank si dedicò alla musica marciando per le vie di Camden con una «marchin’ band», suonando il clarinetto, suo primo strumento. Dalle fanfare alle orchestre dei piccoli night-club il passo fu breve.Venne notato da Bob Chester, sassofonista e leader di un’orchestra che lo assunse immediatamente. Fu poi nel Quintetto di Benny Goodman dove suonava il sassofono tenore e nel 1969 entrò a far parte dell’orchestra di Woody Herman, come leader della sezione sassofoni che guidò per molti anni con

maestria e abilità. Ma non solo. Tiberi divenne con Sal Nistico uno dei solisti più importanti di quell’orchestra oggi quasi dimenticata al punto che la biografia di Tiberi non è neppure riportata nel Dizionario del Jazz pubblicato recentemente da Mondadori. Quando Maurizio Giammarco, la scorsa domenica ha invitato sul palcoscenico della Sala Sinopoli l’ottantenne Frank Tiberi, al pubblico è apparso un musicista con la vitalità e l’energia di un ventenne. Dopo Blue Flame nell’arrangiamento di Joe Bishop, la celebre sigla dell’orchestra di Woody Herman, il pri-

mo brano in programma It Don’t Mean a Things if Ain’t Gotta Swing composto da Ellington nel 1932, ha creato qualche problema alla PMJO a causa dell’emozione e del tempo veloce. Dopo un riuscito Body and Soul con Tiberi dallo stile e dalla sonorità personali, l’orchestra superata l’emozione con il celebre Four Brothers aveva riacquistato le qualità che ne fanno una delle migliori grandi orchestre oggi in attività. I successivi settanta minuti sono stati dedicati agli arrangiamenti originali che Herman suonò e incise nel corso della sua lunga carriera. Caravan la celebre composizione di Juan Tizol, Naima di John Coltrane nell’arrangiamento scritto da Tony Klatka per Herman, fino a At the Woodchopper’s Ball che il solista di flugelhorn Joe Bishop aveva arrangiato nel 1939 e che divenne il primo grande successo di quella orchestra la cui musica è stata ricreata con abilità e con l’aiuto di Frank Tiberi, dai solisti della PMJO.


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narrativa

di Maria Pia Ammirati aniele Del Giudice con Orizzonte mobile, ripropone un percorso narrativo (e di riflessione) lucido e coerente con l’esordio, Lo stadio di Wimbledon, il romanzo che Italo Calvino salutò come una rinascita per la narrativa italiana. Calvino si poneva a proposito due domande: è nato un nuovo modo di raccontare il reale, è ripartito il romanzo di iniziazione di un giovane scrittore? Coerenti con questo ultimo testo, i presupposti nati già in quei primi anni Ottanta: un raffreddamento della materia narrativa da praticare nel solco del pensiero sul perché scrivere, e una rappresentazione del reale sfrondato da retorica, abbellimenti e nucleo del tragico. In termini poi di tecniche e strumenti Del Giudice completa un processo narrativo che è fatto soprattutto di viaggi, spostamenti fisici, geografie percorse con molti mezzi, ma primo fra tutti l’aereo. Orizzonte mobile è un testo complesso perché composto di più parti dove sia l’orizzonte della scrittura, che l’orizzonte fisico, hanno natura mobile, in parte dovuta alla mutabilità degli eventi, in parte dovuta ai diversi punti di vista. È un libro di esplorazione in Antartide, il «gelido Meridione», che lo scrittore affronta in date diverse nel 1990 e nel 2007. A questi due resoconti Del Giudice alterna i diari di altre spedizioni avvenute alla fine dell’Ottocento, sempre negli stessi luoghi, e per questo decide di definire questa ricostruzione una «iperspedizione». Una spedizione cioè che è fatta su più piani temporali da persone diverse e lontane fra loro. Tutte queste voci narrano di un confronto con la natura che mette al centro la forza dell’uomo prima nelle spedizioni dei pionieri, poi nelle ipertecnologie odierne, che sono base delle ricerche, non ultime quelle sui cambiamenti cli-

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La scrittura e l’Antartide gli orizzonti mobili di Daniele Del Giudice

matici. Eppure questo è un libro che non rivendica nulla in fatto di ambientalismo, anche quando lo scrittore si imbatte, fra i ghiacci antartici, in un cingolato tedesco. È sicuramente un testo dove c’è lo stupore del paesaggio, le capacità

di adattamento dell’uomo come realizzazione di un sogno, il senso più proprio dell’esplorare: scoperta e stupore. Le parti del viaggio moderno fatto dallo scrittore sortiscono l’effetto di trascinamento dentro i colori, le luci, persino le

libri

assenze di paesaggi poco noti, dove l’uomo è raro e la solitudine una virtù che può spingere fino alla follia. Come accade nel viaggio del 2007 quando una notte «in pieno buio polare, andammo in cinque sei a vedere la cova delle uova dei pinguini Imperator». Jeremy, il responsabile della spedizione, scopre che un pinguino sta covando un perfetto uovo di ghiaccio, probabilmente ha perso quello vero e ne ha costruito un altro «per vergogna». Jeremy con l’uovo di ghiaccio fra le mani si strappa il giubbotto termico e si spoglia. I compagni lo salvano riportandolo alla realtà. Il secondo viaggio (ma in ordine di tempo il primo) del 1990 parte dal Cile, e la narrazione comincia dalle strade cilene percorse in macchina lungo la Carretera Austral per atterrare, quando il tempo lo permette, su una delle basi antartiche prima dell’arrivo dell’inverno australe. Le basi composte da fisici, meteorologi, geografi e biologi sono strani agglomerati di persone. A volte lo stare in Antartide sembra persino punitivo, ma il rapporto tra uomo e natura è lì che si fa più pregnante: «Da quando ho cominciato questo viaggio mi interrogo sul rapporto tra la natura e le storie (...) nonostante la grande violenza la natura qui non è ostile o tanto meno amica è solo indifferente alla presenza umana che è un fatto accidentale». Nella prosa lucida, mai troppo densa, limpida come la luce di quel freddo Sud del mondo, riconoscibile per il gusto dell’esattezza ma anche per uno stile letterario alto mai troppo mimetico con la realtà. Anzi la lingua e lo stile tengono a bada la realtà, forse se la vanno a cercare quella realtà, nel luogo dove è più pura e lontana da compromessi. Daniele Del Giudice, Orizzonte mobile, Einaudi, 140 pagine, 16,50 euro

riletture

Brandi, i trulli e la dolcissima riscoperta dell’infanzia di Leone Piccioni randi mostre d’arte in tutto il Paese: a Roma, ad esempio, Giotto attualmente e prima, con altre importanti esposizioni, Antonello e Giovanni Bellini. Ho letto su Giovanni Bellini una lezione del 1921, quanto mai profetica e rivelatrice, di Roberto Longhi (1890-1970): Longhi grande e precoce critico d’arte che scriveva con un linguaggio elegante e originale stilisticamente. Gianfranco Contini lo considerava uno dei maggiori scrittori del Novecento, indipendentemente dal suo valore nello studio della storia dell’arte. E ci torna in mente un altro grande critico e squisito scrittore che fu Cesare Brandi (1906-1988), caro e indimenticabile amico. Ho ripreso in questi giorni la lettura di alcuni suoi libri di viaggio, sette o otto, se la memoria non mi

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inganna. Diciamo subito che Brandi non trascura il giusto e asciutto e incantato scrivere nei suoi libri e nei suoi dialoghi di critico e di storico dell’arte o nelle sue opere di teoria dell’arte ma certo più ampiamente disteso lo si ritrova nella scrittura durante i suoi viaggi motivati sempre anche dall’attenzione primaria all’architettura, soprattutto, alla pittura e alla scultura, non dimenticando mai di essere, appunto, uno storico dell’arte. Nei libri di viaggio ci sono nelle pagine di Brandi gli interessi per la natura e per il paesaggio, specialmente quando un monumento si alzi in una certa zona della terra e con quella si metta in armonica o discorde partecipazione: ed ecco alberi, fiori, fiumi, montagne, giardini, il deserto, pietre che diventano il centro della sua scrittura. Fino all’apparizione - sorpresa tra le maggiori - di un Brandi che non teme

sulla pagina, ora, di fare certi suoi bilanci interiori che ci danno conto delle sue ansie e malinconie che, a conoscerlo superficialmente, non potevamo certo capire. Eccolo, ad esempio, nel deserto, se pure non alla prima esperienza di quel contatto vitale, dire: «Non ero derelitto tuttavia e, se non provavo gioia, per la prima volta in fondo a me non covava l’angoscia come il sotterraneo, sempre aperto, la voragine in atto». Ricordiamo, tra gli altri, i viaggi in Persia, in Cina, in Grecia, in Puglia, per citarne soltanto alcuni. Non sarà certo un caso se il suo primo libro di viaggi (quello sulla Grecia del ’54) sia dedicato a Emilio Cecchi, non solo come l’autore di Et in Arcadia ego ma perché Cecchi può essere considerato il prototipo del viaggiatore-scrittore che apre la porta a un genere nuovo, sospeso tra incanto e giudizio esperto in valutazioni e relazioni umane. Anco-

ra una breve citazione dal suo viaggio in Puglia. Davanti ad Alberobello scrive: «A voltarsi si diventa di sale: lo insegna la Bibbia. A voltarsi si risospinge Euridice agli Inferi: lo insegna la Grecia. Ci si fa sbranare dalle Baccanti, lo insegna ancora la Grecia. Tornare nel trullo, nell’oscuro immemore utero materno. Puglia, dolcissima retrocessione all’infanzia. Fermati, fermati, Alberobello!». Non tutto in Brandi e nelle sue pagine è incanto, morbidezza, pacifici ritratti, ma ritorna spesso la sua rabbia, il suo furore, la sua perentoria polemica. In Pellegrino di Puglia, visitando la Basilica di San Michele Arcangelo sul Gargano, se ne preoccupa e scrive: «Ed io ti prego, Arcangelo meraviglioso, simbolo della luce, simbolo dell’amore, della fedeltà, della giustizia, che tu non ritorca mai su di me le frecce che la mia cattiveria scaglia sulla cattiveria degli uomini».


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gialli

Tre ragazzi e un complotto: tutto in una notte di Pier Mario Fasanotti arratore francese di chiara origine italiana, Serge Quadruppani scrive anche gialli per ragazzi. L’editore Salani ne ha pubblicato uno. Speriamo di vederne altri. Il motivo è semplice: Quadruppani non scivola nell’errore che spesso accompagna chi si rivolge al «piccolo pubblico», ossia non tratta i ragazzi come lettori minori o minus habens o tutti protesi ai vezzeggiativi di maniera. Il giallo è il giallo, senza alcuna concessione all’immaginazione di un destinatario completamente diverso, cui offrire moine, caramelle di persuasione, ridicoli ammiccamenti. L’agile romanzo è ambientato nel-

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miti

la provincia francese, in una grande casa abitata da una madre - che al momento dei fatti non c’è - e da tre bambini, il più grande dei quali ha dodici anni. L’uomo di casa, il padre, è morto nel ghiacciato Mare del Nord dove faceva esplorazioni petrolifere. La vicenda inizia con la piccola e risoluta Cécile che manifesta la sua paura per aver sentito un rumore strano. I suoi fratelli si mobilitano, all’inizio affettuosamente tolleranti, e divertiti, dinanzi a uno dei tanti incubi acustici di lei. Però l’accontentano e ispezionano la casa. La suspence cresce pagina dopo pagina. La tecnica è quella del giallo collaudato destinato agli adulti. A un certo punto compare un omone, ferito a una mano, che in-

dossa uno strano pigiama. Si verrà a sapere che è scappato da un ospedale psichiatrico. Ecco perché ha una tuta che potrebbe essere scambiata per quella di un detenuto. È intontito per le iniezioni subite, affamato di zuccheri per troppe dosi di insulina. Fa il racconto della sua vita. Si presenta come vittima di un complotto, giura di non essere pazzo e di non aver (ma siamo proprio sicuri?) ucciso un uomo in un ristorante. A credergli subito è Cécile, istintiva com’è. Fanno poi irruzione i suoi inseguitori (o persecutori?). E a questo punto, tra minacce e blandimenti, il dodicenne escogiterà un piano per chiamare soccorsi. Riga dopo riga mai nulla è dato per scontato. Anzi, anche il lettore

adulto nutre molti dubbi, addirittura teme un finale davvero poco lieto e non quello dell’«arrivano i nostri». È un continuo scambio di verità, possibili verità e menzogne. Il cattivo di turno è crudele e maldestro, ha un passato ambiguo. Il suo volto ondeggia tra la colpa e l’onestà. E ovviamente ha i suoi «sgherri» che, come tali, finiranno nell’inciampare nel loro modesto destino di figure di seconda fila. Tutto in una notte. La madre rientrerà dal lavoro e leggerà il resoconto del figlio, scritto sul computer, scambiandolo per un prodotto di fantasia. Anche noi? Serge Quadruppani, C’è qualcuno in casa, Salani, 85 pagine, 11,00 euro

Dai Giganti al Diluvio, l’immaginario si fa storia di Alfonso Piscitelli appassionato di mitologia che studia la Bibbia oscilla tra un sentimento di stupore per i contenuti così radicalmente diversi da quelli consueti nelle altre mitologie e un sentimento più sottile di «familiarità». Il testo sacro ebraico con la sua forte tendenza alla storicizzazione, con l’espressione di una orgogliosa alterità rispetto alle altre culture rappresenta un momento di rottura. Da questo punto di vista è difficile confondere i temi biblici con i temi della cultura egizia o babilonese. Tuttavia si sbaglierebbe a considerare il popolo ebraico come qualcosa di «alieno» rispetto agli altri popoli del Mediterraneo e delVicino Oriente. Spesso le ideologie antisemite hanno insistito su questa supposta estraneità dell’«ebreo» rispetto al resto del mondo.

L’

società

Robert Graves, dopo aver fornito una approfondita rappresentazione dei miti greci, si volse proprio allo studio dei miti ebraici cogliendo i fili sottili che legano l’immaginario ebraico al più ampio contesto culturale mediterraneo. Fili sottili e persistenti, che neppure la lama del monoteismo era riuscita a recidere del tutto. Soprattutto nella Genesi emergono ricordi narrativi che sembrano risalire a un tempo in cui le popolazioni ebraiche non avevano ancora maturato la loro specifica vocazione culturale. Il tema dell’Eden echeggia la nostalgia dell’Età dell’Oro, l’Albero della Vita e quello della Conoscenza porgono all’uomo gli stessi frutti che Eracle conquista nel giardino delle Esperidi. Il tema della mescolanza tra «figli di Dio» e «figlie degli uomini» mostra una somiglianza notevole con il tema della mescolanza tra diverse ge-

rarchie di esseri. Una mescolanza che Platone riferiva alla storia di Atlantide. E ancora, nella Genesi troviamo i Giganti, uomini gloriosi e ostinati così simili ai Giganti dell’Età del Bronzo cantata da Esiodo. E ritroviamo la narrazione del diluvio: uno degli argomenti in assoluto più ricorrenti nelle mitologie. Sarebbe lungo riferire l’elenco dei temi biblici che si prestano a un accostamento ai mitologhemi di altre aree culturali. La tendenza a trasformare il mito in storia è tipica del discorso biblico; d’altra parte gli Ebrei non furono i soli a calare il loro immaginario sacro in un contesto cronologico e storico. Anche la civiltà romana compì un’operazione del genere: trasformando figure tipiche del mito indoeuropeo in personaggi storico-leggendari. Questa comune tendenza alla storicizzazione può forse contribuire a spiegare il motivo per cui l’impero romano finì con l’accogliere - attraverso il cristianesimo - i temi dominanti della mitologia biblica. Robert Graves-Raphael Patai, I miti ebraici, Longanesi, 391 pagine, 20,00 euro

L’Italia, il Paese della finta libertà

di Giancristiano Desiderio oleva scrivere un saggio sul liberalismo - e in parte lo ha scritto - e ha finito per buttare giù un ottimo libro sull’Italia, la sua cultura e il suo declino. Chi? Piero Ostellino. Il quadro che si disegna in Lo Stato canaglia (sottotitolo esplicativo: come la cattiva politica continua a soffocare l’Italia) è desolante, tuttavia realistico. Chi conosce l’Italia, sia perché la vive, sia perché la intende, condivide l’implacabile analisi fatta dall’ex direttore del Corriere della Sera. L’Italia è un paese libero che non ama molto la libertà anche se parla molto di libertà e, ora, ha anche

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un partito politico che alla libertà è intitolato in modo altisonante: il Popolo della libertà. Poi, però, la regola aurea di una cultura della libertà è capovolta: tutto è vietato tranne ciò che è esplicitamente consentito, mentre dovrebbe essere l’inverso ossia tutto dovrebbe essere consentito tranne ciò che è vietato. Così ci troviamo ad avere a che fare con uno Stato potentissimo che ci tiene in ostaggio con regolamenti, decreti, imposte, tasse e balzelli, ma allo stesso tempo è uno Stato molto debole che lascia prosperare in metà del suo territorio un anti-Stato, quello della criminalità organizzata, che della libertà si fa beffe con la sua naturale e storica antagonista:

Sua Signora La Paura. L’analisi di Piero Ostellino è al contempo generale e particolare e mostra come la nostra esistenza, al di là delle nostre singole volontà, sia governata da uno Stato burocratico la cui legittimità si perde nelle nebbie dell’arbitrio. Eppure, la latitante cultura della libertà che c’è nel nostro Paese rimonta a quella che Ostellino chiama «la cultura del suddito»: «Sul nostro mercato politico, la domanda di libertà è debole e male articolata, mentre quelle di sicurezza e protezione sono forti e bene organizzate». Da noi, si può dire con una battuta, vince più Hobbes - lo «scrittore maledetto» secondo la definizione di Norberto Bobbio - piuttosto che

Locke, uno dei padri storici del liberalismo e del governo limitato. Gli italiani preferiscono sentirsi più sicuri che liberi. Nella loro cultura e nella loro vita prevale da sempre il principio di autorità piuttosto che quello di critica. Poco importa se poi nell’autorità non credono, perché al mondo ci sono le maschere e si può sempre far finta di credere. L’importante è che ci sia un’autorità, o anche un partito, o una chiesa, o una corporazione che assicuri tranquillità e permetta di navigare nel burrascoso mare dell’esistenza con un relativo agio anarchico. Piero Ostellino, Lo Stato canaglia, Rizzoli, 248 pagine, 19,00 euro

altre letture Uccidi gli italiani era la parola d’ordine dei paracadutisti britannici durante l’operazione Husky che diede inizio, nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943, all’assalto alla Fortezza Europa. Nel dopoguerra fu accreditata l’immagine di un’occupazione quasi pacifica della Sicilia, una marcia trionfale dei liberatori acclamati dalla popolazione. Le cose andarono invece molto diversamente - come scrive Andrea Augello in Uccidi gli italiani. Gela 1943, la battaglia dimenticata (Mursia, 192 pagine, 15,00 euro) - ci fu infatti un’accanita e determinata resistenza dei reparti italiani impegnati contro le forze da sbarco statunitensi, ci furono incertezze ed errori da parte dei tedeschi, ci fu la violenza, spesso cieca e brutale, delle truppe del generale Patton. Si parla sempre molto di massoneria, spesso a sproposito, per sentito dire, confondendola con le parodie attuali di istituzioni ridotte ad associazioni di mutuo soccorso borghese. In realtà la massoneria, tecnicamente, è i suoi riti. Il rito scozzese Antico e accettato, è uno dei suoi principali di cui ora, per la prima volta, viene pubblicata la versione manoscritta. L’origine dei gradi simbolici del rito scozzese antico e accettato (Età dell’Acquario, 276 pagine, 24,00 euro) di Giuseppe Vatri ricostruisce la storia e la filosofia del rito scozzese nato in Francia a partire dal 1804. Violenze in famiglia e sul lavoro, regolamenti di conti tra bande, aggressioni a sfondo xenofobo e uccisioni di massa: gli episodi riconducibili all’odio sono moltissimi e riguardano sia i rapporti interpersonali sia i rapporti tra gruppi sociali. Che cosa caratterizza questa complessa esperienza psicologica? Odiare di Marcella Ravenna (Il Mulino, 135 pagine, 8,80 euro) ci descrive i processi che generano e alimentano l’odio e che cosa ha in comune con amore, rabbia, paura. Un fenomeno generato soprattutto da aspettative frustrate e sentimenti di minaccia che però può essere gestito. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

WILFRED VOYNICH EX MILITANTE SOVVERSIVO POI LIBRARIO ANTIQUARIO, FU LUI A SCOPRIRE NEL 1912 IL LIBRO PIÙ MISTERIOSO MAI ESISTITO, OGGI CONSERVATO ALL’UNIVERSITÀ DI YALE. NESSUNO È MAI RIUSCITO A DECIFRARLO. CONSIDERATO PER MOLTI SECOLI COME UN MANUALE DI MEDICINA O UN ERBARIO MEDIOEVALE, SEMBRA ESSERE UN TESTO SAPIENZIALE OCCULTATO, IL CUI AUTORE POTREBBE ADDIRITTURA ESSERE IL FILOSOFO INGLESE. UN SAGGIO NE RIPERCORRE GLI ENIGMI…

Quel Manoscritto è di Bacone di Mario Bernardi Guardi lla festa dell’Impossibile, il Manoscritto di Voynich fa la sua bella, paradossale figura. Perché «impossibile» non è, anzi è terribilmente concreto, trattandosi di un piccolo volume in quarto - numero di catalogo Ms 408 - ben custodito nei locali della Biblioteca Beinecke dell’Università di Yale, nel Connecticut, accanto ad altri libri di preziosa rarità, tra cui un esemplare della prima edizione della Bibbia di Gutenberg. Insomma, il Manoscritto non è un libro immaginario partorito dalla fantasia turbinosa di un Lovecraft o dai raffinatissimi giochi intellettuali di un Borges: c’è, visibile e tangibile. Ma anche incomprensibile. Nel senso più scontato del termine: nessuno è mai riuscito a decifrarlo. Considerato per molti secoli come un manuale di medicina, un libro esoterico o un erbario medievale, sulla base delle numerosissime illustrazioni che riempiono quasi per intero le sue pagine, il Manoscritto è da sempre un codice non decodificabile.

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Un rompicapo ben più vorticoso dei geroglifici egizi, della scrittura cuneiforme e perfino della lineare B minoica, visto che il suo mistero resta impenetrabile, che la sua chiave non è stata scoperta neanche dai crittografi militari che si cimentarono con i codici tedeschi e giapponesi durante la seconda guerra mondiale, che nessuno dei procedimenti scientifici impiegati con successo per svelare i segreti di altre lingue e sistemi di scrittura è stato uti-

Santos (L’enigma del Manoscritto di Voynich. Il più grande mistero di tutti i tempi, introduzione di Gianfranco de Turris, 181 pagine, 70 illustrazioni, 36 foto a colori, Edizioni Mediterranee, 14,50 euro) «raccoglie» tutti questi interrogativi. Li risolve? Beh, non chiedetecelo, perché nostro compito è solo quello di introdurvi nel fitto della boscaglia e di lasciarvi sulla soglia della casina illuminata dove forse (chissà…) scoprirete l’arcano. O quanto meno vi troverete di fronte a un ventaglio di ipotesi tutte ugualmente suggestive, con con-

Scritto a penna su pergamena di vitellino in un arco di tempo collocabile tra il XV e il XVI secolo, il libricino conteneva una lettera datata 1666 in cui il Rettore dell’Università di Praga rivelava che era appartenuto a Rodolfo II d’Asburgo le per strapparlo dal suo conturbante silenzio plurisecolare. Che cosa c’è scritto nel Manoscritto di Voynich? A garanzia della sua incomunicabilità non ci sarà, per caso, una lingua «aliena»? O magari resa alienante e disorientante da un abilissimo e coltissimo manipolatore di idiomi conosciuti, che si è divertito a inventare un libro inaccessibile? E a illustrarlo con immagini di piante ignorate da Madre Natura, sequenze di donnine ignude e di stelline, draghetti, serpentelli, uccellini, simboli astrologici, astronomici, farmaceutici e altre mirabili stravaganze atte a depistare il curioso esploratore, «comunicando», solo e unicamente, con gli adepti di qualche congrega iniziatica? Siamo di fronte a una dissertazione scientifica crittografata, a un testo sapienziale debitamente occultato, a un intricatissimo garbuglio alchemico o a un «maledetto imbroglio» confezionato da un geniaccio stravagante a uso e (non) consumo di generazioni e generazioni di appassionati del Mistero? Il saggio di Marcelo Dos

nesso imbarazzo della scelta. Comunque, è bene, come si suol dire, partire dal principio. E cioè, per l’appunto, da quel Wilfred Voynich che, nel 1912, nel collegio gesuita di Villa Mondragone, a Frascati, scopre un piccolo libro, scritto a penna su pergamena di vitellino in un arco temporale presumibilmente collocabile tra il XV e il XVI secolo. Un libricino davvero molto curioso. Perché, minuziosamente esaminato e riesaminato, «rivela» che caratteri e idioma non appartengono ad alcun sistema alfabetico/linguistico riconosciuto.

Una faccenda indubbiamente «intrigante anche per un tipo come Voynich, sin troppo abituato agli intrichi/ intrighi di una vita spericolata».Visto che, di ascendenze polacche e nobiliari (il vero nome era Wilfrid Michal Habdkank-Wojnicz, poi anglicizzato in Wilfred Voynich), ma sin dalla più tenera età vocato a cause rivoluzionarie anarco-comunisteggianti, il nostro ne aveva viste e fatte di

A sinistra, dall’alto: Wilfred Voynich da giovane, la statua di Ruggero Bacone, un ritratto di Rodolfo II d’Asburgo. Alcune illustrazioni tratte dal Manoscritto Voynich cotte e di crude tra compagnie di giro di cospiratori, terroristi, doppiogiochisti, spie, mogli «pasionarie», «calienti» e inclini al «libero scambio» (di coppia), e intellettuali di chiara fama (ad esempio, G. Bernard Shaw, H.G. Welles e Bertrand Russell, assidui frequentatori di utopie e ideologie estremiste). Anni ruggenti, dunque, seguiti da un deciso cambiamento di pelle: la trasformazione del militante sovversivo Wojnicz nel librario antiquario Voynich, con negozio ubicato al numero 1 della pittoresca Soho Square. Da dove il nostro fiammeggiante ex, ora bibliofilo, partiva per l’Europa alla ricerca di appetitose (e costose) rarità. E indubbiamente quel manoscritto, con la sua patina plurisecolare e la sua enigmatica aureola, rientrava nella categoria. Sin troppo, a dire il vero: conquistava gli occhi, ma la mente ci si perdeva dentro, alla ricerca di una introvabile «chiave». Che cosa fa allora Voynich che intanto, cornuto e malcontento, ha trasferito, il suo negozio a New York, troncando con la fedifraga consorte, la «radical super-chic» Lily Boole? Deluso dall’impossibilità di decifrare il suo cartaceo tesoretto, nel 1915 decide di proporlo agli esperti, insieme ad altri volumi della sua collezione. L’Istituto d’Arte di Chicago così lo presenta al pubblico: «Un manoscritto di Ruggero Bacone mai pubblicato, scritto in un codice cifrato che non è stato possibile risolvere, risalente al XIII secolo. Le molteplici illustrazioni che presenta offrono indizi sufficienti per stabilire l’importanza del contenuto cifrato». Un momento. XIII secolo? Rugge-


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ro Bacone? C’entra davvero qualcosa col Manoscritto di Voynich il francescano inglese, doctor mirabilis di illuminata sapienza, filosofo pieno di curiosità magico-astrologiche, alfiere di una Chiesa rinnovata nella christiana veritas ma aperta alla tradizione degli antichi e all’aristotelismo arabo, sostenitore di una scientia sperimentalis capace di scavare nella natura e nei suoi misteri? Insomma, come, quando e perché «salta fuori» Bacone?

Ebbene, il percorso è complesso, e possiamo solo accennarvi. Bisogna ritornare a Villa Mondragone. Dove Voynich, tra i fogli del Manoscritto, trova una lettera datata 1666 (una serie di cifre, va detto, saporose di zolfo), firmata Johannes Marcus Marci, all’epoca Rettore dell’Università di Praga, e indirizzata ad Athanasius Kircher, gesuita tedesco di straordinaria erudizione visto che era conosciuto come scienziato, matematico, inventore, astronomo, geografo, biologo, sismologo, vulcanologo. Ma anche studioso e decifratore di lingue. E cultore di dottrine sapienziali come l’alchimia. Nella lettera, che gli esperti hanno giudicato rigorosamente autentica, dopo averla messa a confronto con altre tre missive repertate, Marci scrive: «Reverendo e distinto Maestro, Padre in Cristo, questo libro che ereditai da un amico intimo, è destinato a te fin da quando è arrivato nelle mie mani, perché sono convinto che nessuno all’infuori di te sarà capace di leggerlo». Marci si considera dunque proprietario del Manoscritto. Ma chi era il precedente possessore? Leggiamo: «L’insegnante di lingua boema di Ferdinando III, il signore Dottor Rafael, mi ha informato che il sopraddetto libro appartenne all’imperatore Rodolfo, che pagò per il libro al suo precedente possessore la somma di 600 ducati. Egli credeva che l’autore fosse l’inglese Ruggero Bacone». Di nuovo: che ci fa «qui» Ruggero Bacone? Guardiamo. Il quadro storico-culturale che si delinea va dal tardo Rinascimento al Barocco, ed è irto e complesso. Lo segnano, infatti, eventi come le guerre tra cattolici e protestanti, la crisi della monarchia inglese, la decadenza dell’impero spagnolo e la Guerra dei Trent’anni, ovvero «la prima sanguinosa guerra mondiale dei tempi moderni»; nonché personaggi

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dal profilo più o meno «eterodosso», intellettuali a vario titolo «militanti», spiriti tutti genio, sregolatezza e «scandalo» come Leonardo da Vinci e Giordano Bruno, Galileo e Cartesio, Newton e Spinoza. Vale a dire la «nuova scienza»: ma è una scienza per molti versi «stravagante», visto che azzarda cammini impervi, non disdegnando (anzi!) peripli esoterici e ricognizioni alchemiche. E costantemente chiedendo per l’intelligenza spazi liberi, con conseguenti sfide a tutte le autorità costituite. Le quali, paradossalmente, offrono talora ben più che una protezione: è il caso di Rodolfo d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, uomo pieno di interessi

la loro cifra vertiginosa: ma qui il probabile e l’improbabile si danno la mano e alla fine ti vien quasi da pensare che, comunque tu «scelga», il tuo è un «atto di fede». A ogni modo, noi sulle più recenti metodologie di indagine «voynichiana» e sugli ultimi sviluppi di ricerca (che potrebbero approdare anche a risultati clamorosi o alla clamorosa conclusione che non sempre la scienza «ce la fa»), ci siamo imposti l’obbligo del silenzio. Ma qualcosa sull’«ipotesi Bacone» ve la diciamo. Ebbene, pare che il poliedrico francescano non fosse particolarmente favorevole a una «democratica» divulgazione scientifica. Certe conoscenze, sosteneva, «non erano e non dovevano essere mai de-

Dal tardo Rinascimento al Barocco, da John Dee a Edward Kelley, fino al collegio gesuita di Villa Mondragone, Marcelo Do Santos, interrogandosi sul “Manoscritto Voynich” intreccia destini, raccoglie aneddoti, insinua dubbi scientifici e generoso mecenate (accolse nel suo castello l’astronomo danese Tycho Brahe e sovvenzionò le più svariate ricerche). Ma il coltissimo e bruttissimo Rodolfo (lui se ne faceva una malattia…) aveva anche una personalità contraddittoria, con sanguinarie impennate di furore cui facevano seguito repentine cadute nel fondo più profondo della depressione. Cosa «cercava» l’illustre principe? Forse quintessenze. Forse il segreto della vita e della morte, dell’eternità e del nulla. Forse la «pietra filosofale», l’«aurum potabile». Se davvero ebbe nelle mani il fatale Manoscritto, fu in esso che sperò di trovare le «risposte»?

Girovagando da Rodolfo II a John Dee, uomo di scienza, esoterista e occultista, a Edward Kelley, avventuriero, alchimista, falsario, imbroglione e ad altri personaggi più o meno inquietanti che (forse) possedettero il Manoscritto Voynich, Marcelo Dos Santos intreccia destini, raccoglie aneddoti, formula interrogativi. Ben consapevole del-

stinate né messe a disposizione del pubblico in generale, ma dovevano rimanere sempre nel potere di una limitata élite di uomini illustri». Questa aristocrazia culturale doveva proteggere i propri segreti e affidarsi al latino non bastava. Meglio ricorrere ai codici cifrati. E a quelle criptiche stravaganze alfabetiche in cui, due secoli dopo, Leonardo da Vinci sarà maestro. Dunque, il Manoscritto potrebbe essere una suprema e superba crittografia. E del resto la «scienza» che contiene fa riferimento a discipline botaniche, erboristiche, astronomiche, biologiche e farmaceutiche sicuramente coltivate da Bacone. Sì, ma quelle illustrazioni mostrano cose che nessuno ha mai visto né tanto meno fatto oggetto di analisi: allora è scienza o fantascienza? E come si spiega il salto spazio-temporale dall’Inghilterra del XIII secolo alla Boemia cinquecentesca e seicentesca? Un momento: ma davvero c’è qualcosa da spiegare? O il Manoscritto è uno «scherzo», un gioco sottile e sublime, oltre i confini della realtà?


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tv

Finestre sulla realtà o chiacchiere da bar?

parte i reality, che sono da sottoporre a psicoanalisti e sociologi per avere una spiegazione sull’orrendo che piace, la televisione è fatta di finestre sulla realtà. La prima finestra è quella dell’inchiesta sul campo. Per esempio Terra! di Tony Capuozzo (Canale 5), bravo a piazzare telecamere là dove si deve annusare la realtà per capirla. Una delle sue ultime puntate è stata una zoomata sui giovani che si divertono di notte, nei week end. Una cosa è intuirli leggendo i giornali, ben diverso è vederli in faccia,

A

web

sentirli parlare (quando riescono a oltrepassare il grugnito o l’urletto infantile). Palermo by night, tra ventenni che già mercoledì cominciano a pensare al sabato sera: e vai con le depilazioni, la scelta della felpa «giusta» (per maschi) o del tacco da puttana elegante (per donne) o spensierata commessa che con l’aperitivo si «disinibisce». Dice uno coi capelli lucidi: «L’importante è essere fighi». Il cronista incalza: che vuol dire? Spiegazione: «Essere a metà tra fine e non fine». C’è lei che filosofeggia sul rimorchio: «Ah, qui di fighi ce ne sono pochi… a meno che tu abbia un colpo di culo, così, al volo». Si cambia quartiere. Sono in sette i volontari dell’associazione Biagio Conte: niente discoteca, si va a portare coperte, tazze di latte caldo e chiacchierate ai «fratelli ultimi», quelli che a Milano, secondo il lessico social-leghista, sono chiamati barboni. Altra città: Roma. Un giovane a Campo dei Fiori: «Qui comandano i bicchieri. Mi ubriaco? Sì, a volte schiatto per terra». Una lei: «Prima di uscire mi cambio anche venti volte». E poi birre a non finire, extasy, coca. È di moda il sushi, prima di addentare, alle luci dell’alba, un cornetto a Porta Pia, dal napoletano Antonio che fa affaroni fino alle otto del mattino. Scusate, chiede un reporter a due ragazze, ma voi non avete paura a notte fonda? E loro: «Per fortuna ci sono i poliziotti, però non dappertutto, quindi… sì, siamo a rischio con quel che succede». Giorni fa è stato accoltellato un giovanotto americano, in un vicolo di Trastevere. Incontrata al Testaccio, l’attrice Claudia Gerini fa la snob che ha viaggiato molto: «Io mi sciolgo ballando. Eh be’, Roma non è Amsterdam o Londra, però ci si diverte

games

video pure qui». Com’è tollerante, madame, col provincialismo «de noantri». Poi c’è la televisione delle interviste. Daria Bignardi, che ormai non s’offende più (siamo sicuri?) a leggere sui giornali del suo «birignao», dalla sempre più magra La 7 è passata a Rai 2. Prima erano Le invasioni barbariche, oggi è L’era glaciale. È una cinefila. La scenografia è brutta, pensata confusamente e realizzata peggio. Al centro dello studio, che pare un salone da parrucchiera iper-tec, c’è un lungo e curvo tronco di legno. Quelle interviste vengono dosate tra il serio e il faceto. L’attrice Stefania Rocca, in gran forma fisica, racconta della sua esperienza nel serial Tutti pazzi per amore. La Bignardi è curiosa di sapere se si baciano davvero oppure… Oppure che? Stefania finalmente ci toglie dall’ignoranza: «Non con la lingua». E qui la conduttrice scivola in una gaffe. Ricorda che la Rocca ha interpretato scene d’amore con Christopher Lambert e Jude Law e aggiunge che, trovandosi sul set con Emilio Solfrizzi, ha l’eros in picchiata. Non basta: «Se procedi così alla fine ti trovi Lino Banfi». Ma che garbo squisito! Stefania in qualche modo rimedia, mentre l’altra ridacchia. Compiaciuta come sempre delle sue battute, quelle che rendono dinoccolate le sue interviste. Quattro amici al bar, insomma. I ritagli piccanti di giornali fornitile dalla redazione sono l’irrinunciabile spunto per chiedere come abbia fatto ad aspettare i fatidici 40 giorni dopo il parto prima di far di nuovo l’amore. Stefania se la cava benissimo. Con la sincerità sorridente: «Io sono molto fisica». Ah, quanto s’impara davanti a quel tronco di legno che non si (p.m.f.) sa bene che significhi.

dvd

A LEZIONE SU YOUTUBE

NOME IN CODICE: MANGA

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aggiunto da tempo il ruolo di leader nella condivisione video, e di parola internettiana più fitta di polemiche, YouTube si sdoppia in un canale educativo chiamato YouTubeEdu, contenitore che aggregherà le reti delle principali università statunitensi come Yale, Harvard e Stanford. L’obiettivo è consentire agli utenti di seguire gratuitamente migliaia di filmati educa-

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ero e proprio manga giocabile ma confezionato in un cel shading che lascia a bocca aperta. Afro Samurai, ultimo arrivato in casa Namco Bandai ha una confezione eccellente, ma una giocabilità non del tutto all’altezza. Colori, pattern e atmosfere mandano in visibilio, ma prevale nell’action vera e propria la sensazione di partecipare a una brillante coreografia di figu-

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Le maggiori università americane danno vita a un canale video ricco di contributi didattici

”Afro Samurai”, ultimo titolo della Namco, brilla a livello visivo ma manca di azione pura

Da ”Amarcord” a ”Nuovo Cinema Paradiso”: 40 anni di cinema di un grande produttore

tivi pubblicati dai college. Di argomenti svariati, e alta professionalità didattica, il progetto condensa la febbrile attività degli atenei americani impegnati a pubblicare sino a oggi sugli aggregatori specifici, in modo disorganico, contributi filmati. Una directory interna a YouTubeEdu facilita la ricerca, disponendo i nomi delle università interessate in ordine alfabetico, secondo le linee guida di un concept simile a quello dell’affine (e molto seguito) Academic Earth.org. Fatta salva la lingua originale, l’inglese, nulla vieta la prevedibile diffusione di sottotitoli. E, per l’elearning, troppo spesso sbandierata o blandita, il tempo della concretezza.

rine. Colonna sonora di rilievo, con la presenza speciale di Samuel Jackson, il titolo non oltrepassa la sufficienza quanto a percorso avventuroso e regole di genere. I colpi a effetto non mancano di certo nella gamma bellicosa del samurai, ma l’impressione è qua e là, quella di una certa ripetitività. Della serie animata di Takeshi Okazaki, fonte ispiratrice del gameplay, resta una elevata rappresentazione grafica, che avrebbe meritato migliori sviluppi sul fronte della lotta dura e pura. Gli amanti del genere, e i fan della graphic novel apprezzeranno comunque.

co Cristaldi e il suo Cinema Paradiso. Grazie al contributo di sceneggiatori, registi e autori come Suso Cecchi D’Amico, Rosi,Tornatore, Bellocchio, Monicelli, Nichetti, Pontecorvo e Morricone, che scrissero insieme a lui pagine indimenticabili dell’immaginario nostrano, emerge anche e soprattutto un’idea di cinema per cui, come amava ripetere Cristaldi, «ogni film deve essere un prototipo». Metteur en scène capace di dare sostanza ai sogni dei registi che lavorarono con lui, Cristaldi sperimentò registri diversificati, scegliendo storie oscillanti tra i generi e ricche di continui slittamenti semantici. Nonostante il successo e la facile coazione a ripetersi che esso comporta.

a cura di Francesco Lo Dico

NEL REAME DI CRISTALDI a I soliti ignoti ad Amarcord, passando per Divorzio all’italiana e Salvatore Giuliano, ma anche Kapò e Nuovo Cinema Paradiso. Tra gli anni Cinquanta e i primi anni Novanta ha realizzato più di cento film, di cui molti entrati nella storia del cinema. Massimo Spano ripercorre la carriera di un produttore dotato di fiuto e sensibilità fuori dal comune nei cento intensi minuti di Fran-


cinema Louise-Michel MobyDICK

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Vive la (non) différence di Anselma Dell’Olio ai avremmo pensato d’innamorarci di un film sulla lotta di classe. Louise-Michel è il terzo film di Benoit Delépine e Gustave Kervern, duo registico francobelga che sta ai fratelli Coen come i fratelli Marx stanno ai fratelli Taviani. Se il paragone è irreverente e perfino scandaloso, è in sintonia con lo spirito anarcoide, anticonformista, demenziale e iperbolico dei due autori situazionisti. Louise-Michel inizia con una scenapreambolo che stabilisce il tono delle mirabolanti avventure a seguire. Un gruppo di persone attende, seduto, la cremazione di una bara. Il direttore delle pompe funebri armeggia con l’accensione del forno nel silenzio dei convenuti. Arriva persino ad arrampicarsi dentro il forno per avviarlo. Restiamo col fiato sospeso temendo che il fuoco divampi all’improvviso, consumando tra le fiamme anche l’inetto direttore. Invece dopo inutili tentativi, l’uomo si volta verso il pubblico e chiede «Qualcuno può prestarmi un accendino?», mentre echeggiano parole e note di un coro che canta l’Internazionale. Cambio scena. Louise (la fantastica attrice/regista Yolande Moreau) è un’operaia rude e incolta in una piccola fabbrica di giocattoli in Piccardia, regione al confine tra Francia e Belgio. Le dipendenti sono allarmate per una progressiva riduzione del personale. Chiuderà l’azienda? Esporteranno il lavoro in paesi del Terzo Mondo con manodopera a prezzi stracciati? Resteranno disoccupate, con prospettive di un nuovo posto vicino a zero in tempi di grave crisi economica? Per rassicurarle, il capo regala a ogni dipendente un camice da lavoro con il proprio nome ricamato sul petto. Sollevate per il pericolo scampato, le donne (tutte operaie vere) vanno fuori a festeggiare. Chiedono alla sgraziata, asociale Louise di accompagnarle, ma lei borbotta che non ne ha voglia e poi non beve alcool. In seguito scopriremo perché.

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A casa Louise toglie un piccione decapitato dalla trappola per topi messa ad hoc sul davanzale, ma mentre si accinge a preparare l’orrida cena, piomba da lei il capo del personale, che le chiede la tangente sullo stipendio. Durante la sua breve visita, si apprendono tante cose. (Il film ha vinto il Premio per la migliore sceneggiatura al Festival di San Sebastian, e quello per «L’originalità» a Sundance). Louise è cupa perché non ha ricevuto un camice; il signor Risorse Umane ne tira fuori uno tutto per lei, ma sopra c’è il suo nome vero: Jean Pierre, con irritazione dell’interessato che preferisce «Louise». È dunque un travestito analfabeta (perciò non sa leggere l’avviso di sgombero attaccato alle pareti del suo palazzo) e un ex galeotto, ecco perché la persona che lo ha assunto, detentore dei suoi segreti, lo taglieggia. Il tipo la rabbonisce chiedendole almeno di provare la misura del camice,

Gustosa la maionese impazzita del duo registico franco-belga Delépine e Kervern. Vincitore di premi al Festival di San Sebastian e a Sundance, il film vale più di un’intera biblioteca di “gender studies”. E da “Io e Marley” si esce commossi e rigenerati… che lui avrà cura di cambiare con uno che porti il nome che preferisce. Il giorno dopo quando le operaie si presentano in fabbrica, scoprono di essere state gabbate: sono spariti macchinari e attrezzature insieme con il capo, l’azienda è chiusa e ognuna avrà appena duemila euro di liquidazione, anche quelle con vent’anni di servizio. Sono così pochi i soldi che decidono di investirli tutti in un progetto comune. Le proposte per creare un’azienda in proprio non entusiasmano; Louise propone di usare la discreta sommetta per assoldare un sicario che faccia fuori quel mascalzone del capo. Le altre accettano soddisfatte, contente quando la strana collega si offre di trovare il killer. Dopo che un ex compagno di cella le manda a dire che ha cambiato vita, Louise incontra per caso Michel (Bouli Lanners, attore/regista del divertente Eldorado Road) sedicente «esperto della sicurezza», con un arsenale di armi classiche «rifatte» e un vantato curriculum da hitman, mentre non riesce a seccare nemmeno un cane molesto. È un travestito anche lui, nome d’origine «Cathy». Chiede un aiutino alla cugina Jennifer (Miss Ming, grande attrice non professionista, poeta nella vita, che ha accettato di rasarsi la testa per il ruolo), malata terminale di cancro: tanto, le dice candida l’ex Cathy, creperà di lì a poco e avrà fatto una buona azione. Diventa sempre più gustosa questa maionese impazzita che mescola Don Quixote e Sancho Panza, La strana coppia, Tootsie (film in cui Dustin Hoffman, attore disoccupato, si tra-

veste da donna per lavorare), l’umorismo deadpan dei film di Aki Kaurismaki, la commedia romantica e il noir, Billy Wilder e Guy Debord. Sono irresistibili le indescrivibili canzoni indierock della ben calibrata colonna sonora, ma è d’obbligo avvisare che nessuna descrizione rende giustizia all’opera di due autori sanamente lunatici, che con l’usurata carta del conformismo e del buon gusto borghese, al massimo farebbero gli aeroplanini. È imperdibile il siparietto con l’artificiere dietrologo, con l’ossessione di riprodurre in miniatura l’esplosione delle Due Torri, per dimostrarne le arcane origini, riuscito sfottò dei teorici del complotto. Non è da meno la parodia dei coltivatori biologicamente corretti, con moglie denutrita e narcolettica. E questo è solo un assaggio: c’è molto, molto di più. Il film, che vale più di un’intera biblioteca di gender studies, è dedicato a Louise Michel, anarchica femminista dell’Ottocento, paladina della parità d’istruzione e di salari tra maschi e femmine. Incarcerata più volte, all’occorrenza sapeva anche sparare. Vive la (non) différence.

Io e Marley è la riduzione cinematografica del best seller planetario di John Grogan, sui tredici anni di convivenza della sua famiglia con un Golden Labrador. L’amabile coccolone Marley è divoratore e/o distruttore di tutto quello che gli capita a tiro: pareti di cartongesso, divani di pelle, pattumiere, collane e persino un intero tacchino ripieno, cucinato per il pranzo di Thank-

sgiving. Il film, con Jennifer Aniston e Owen Wilson come John e Jennifer Grogan, ha debuttato negli Stati Uniti il giorno di Natale, uscita privilegiata quant’altre mai, e non ha deluso le attese. Il film inizia con Grogan e la moglie, giovani giornalisti appena sposati che decidono di trasferirsi dai rigidi inverni del Michigan al clima dolce della Florida. Poco dopo comprano un delizioso cucciolo dorato, a prezzi stracciati. Solo dopo scopriranno perché. La vita con Marley, che scoprono esasperante, refrattario a ogni addestramento e impossibile da abbandonare, si trasforma in carne da giornalismo quando Grogan è promosso rubrichista del suo quotidiano. Le avventure del cane con la crescente famiglia Grogan foraggiano la column quotidiana e sono popolarissime; forniscono quella dose di human interest stories che i lettori divorano volentieri come antidoto alla solita dose di catastrofi e disastri. Le rubriche diventano un libro, anzi tre (uno per adulti, uno per bambini che imparano a leggere e una versione natalizia.) Ce n’è abbastanza da odiare libro e film, che invece sono godibilissimi: il libro persino nella mediocre traduzione italiana. John fa carriera, Jennifer fa bambini, la famigliola si trasferisce al Nord, vivono in paesaggi da cartolina, e non invecchiano mai (sullo schermo). Eppure il film funziona, nonostante mugugni e sbuffi di critici poco animalisti, con un fiero cinismo antisentimentale da difendere. Il regista David Frankel (Il diavolo veste Prada) sa come costruire un film commerciale dignitoso, per esempio non mettendo Marley al centro della storia, ma come parte della vita di un gruppo famigliare, come sono nella vita i cani. Aniston è una moglie e madre di famiglia credibile, non civetta con la macchina da presa, sa essere spigolosa come capita a tutte le mogli, e ha straordinari occhi che sembrano bottoni di opale azzurrino, da extraterrestre. La scena in cui il marito ha la reazione sbagliata quando lei gli annuncia la prima gravidanza, è da antologia.Wilson è un attore di grande finezza e ritegno, anche nella scena in cui dice addio all’ormai vecchio e malato Marley. Si piangono lacrime copiose, e si esce commossi e rigenerati.


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poesia

Il canzoniere di un uomo in pena di Francesco Napoli ovello Arthur Rimbaud, Raffaele Carrieri, classe 1905 da Taranto, mostra subito un’inquietudine problematica: «Ero disprezzato ma temuto. Parlavo poco ed ero di mano lesta» ricorda lui stesso. Nei giorni di D’Annunzio e dell’esperienza fiumana, appena quattordicenne non ci pensa più di tanto: scappa di casa e, giunto in Albania, a piedi attraversa la penisola balcanica per raggiungere il Vate. Più che una scelta politica un innato senso dell’avventura che però lo porta al grave ferimento di una mano con il conseguente ritorno forzato a Taranto. Ma gli stava stretta quella realtà, il cuore della città vecchia, tra via Cava e Piazza Fontana, era un orizzonte fin troppo angusto, tanto che dopo pochi mesi s’imbarcò di nuovo e girovagò per il Mediterraneo toccando diversi porti e le coste dell’Africa del Nord. Tornato in Italia agli inizi degli anni Venti, per un paio d’anni esercitò a Palermo il mestiere del gabelliere. Comprese allora che la poesia poteva essere un efficace sfogo alla smania del suo personalissimo mito della viandanza e cominciò a scrivere i versi che daranno forma alla prima raccolta, Il lamento del gabelliere, pubblicata poi nel 1945. Ma il profondo Sud d’Italia non era in grado di trattenerlo e nel 1923 si mise ancora una volta in viaggio. Sfruttando la pensione di invalidità per la menomazione subita a Fiume si mosse alla volta di Parigi per un soggiorno che gli consentì di entrare in contatto con la vivacità della grande capitale culturale dell’Europa di allora e di stringere relazioni e amicizie con i maggiori artisti, pittori in particolare, del tempo. Scelse poi ancora l’Italia agli inizi degli anni Trenta e arriva a Milano dedicandosi con particolare vigore alla critica d’arte e alla poesia.

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AMICI NOSTRI Estinti non sono i poeti Amici nostri: Alfonso Il salernitano, Libero del paesino di Fondi E Leonardo lucano Circolano in altri mondi. Quasimodo e Cattafi Siciliani del retroterra Hanno riacceso la lanterna Per pescare la sirena Sono vivi i dimenticati I solitari, gli onorati. Nel cantare, nel volare Sulle ombre nostre Hanno mutate carte E pure inchiostri. Raffaele Carrieri da Amore e non amore

La città meneghina era l’ideale prosecuzione del suo itinerario di apprendimento. «Fino a vent’anni non avevo fatto che cambiar mestieri: alcuni pesanti, altri ridicoli improvvisati, alla giornata. Un anno è pieno di giornate, senza contare le notti. La maggior parte dei miei erano notturni», aveva scritto, e a Milano trova l’ambiente nel quale soddisfare la sua frenesia culturale, collaborando con diverdall’Ambrosiano se testate, all’Illustrazione italiana, fino al Corriere della Sera e a Epoca. «Estinti non sono i poeti/ Amici nostri» ricorderà Carrieri quasi con tenerezza quegli anni milanesi e gli affetti lì vissuti nella lirica Amici nostri: da Gatto («Alfonso il salernitano») a De Libero («del paesino di Fondi»); da Sinisgalli

(«Leonardo lucano») ai «siciliani del retroterra» Quasimodo e Cattafi. Di questo singolare poeta molto è stato detto e scritto negli anni della piena attività, mentre oggi è messo in disparte. Superficialmente si potrebbe leggere la sua poesia come l’espressione di una raffinata ricerca stilistica, prosodica, musicale; e dal punto di vista dei contenuti, come una specie di canzoniere di un’anima chiusa al mondo con un esasperato parlare di sé che non è però il narcisismo dannunziano o l’intimismo dei crepuscolari, pure coevi alla sua formazione. È una tentazione ingenua quella di attribuire alla sua visione del mondo uno sguardo sereno e positivo e tantomeno è scanzonato, sempre azzurro, quasi fanciullesco. In realtà dietro questa facciata si cela un uomo profondamente inquieto e, allo stesso tempo, disincantato.

«La poesia di Carrieri è in certo senso completa ab ovo; voglio dire che non si rifinisce o arricchisce nel tempo ma rinnova in maniera stupefacente la propria biologia senza modificare le linee fissate fin dall’inizio», ha giustamente sintetizzato Giuliano Gramigna, e tutto ciò a partire da quel primo frammentismo cantilenante al limite della nenia, fissato tra bisillabi e trisillabi, più Palazzeschi per l’accento ironico che Ungaretti, del quale non traspare alcuna tragicità pensosa, «L’assenza/ Del mare/ Mescolai/ Alla mia./ Poi entrai/ Nella cronaca» (Speranza); procedendo poi anche per un convinto gusto barocco, quasi lorchiano, delle immagini, «A ogni fine giornata/ Quando il cielo muore/ Con la gola tagliata» (Fine di giornata); per giungere a certe consonanze tematiche con gli ermetici meridionali, e Gatto in particolare, come la povertà emblematizzata attraverso le parti del corpo («Non ho più/ Niente di mio./Anche le mani/ Hanno cessato/ Di essere mie», Non ho niente). Ma si distacca Carrieri dagli ermetici meridionali pur tanto frequentati, per una poesia che dal Sud ha certo tratto la propria linfa, l’ars vitae, immaginosa, fantastica, restando però strettamente legata al concreto, agli umori, al sangue di un uomo che scrive come cammina o ride, come viaggia o ama, di chi, gabelliere una volta, ha visto passare ogni materia, cosa e speranza, ma del quale pochi hanno intravisto l’ungarettiana condizione di «uomo di pena»: «Mi sono ubriacato d’odori/ Ho vissuto solamente di effluvi/ Come un Mustafà da gabella./ Ma nessuno ha saputo l’ambascia/ La mia pena di giorno e di sera/ L’ho portata in ogni contrada./ La mia pena non ha barriera/ La mia pena non si sgabella».


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il club di calliope LA BICICLETTA Ricordo l’aria calda sul viso il mare tra gli scogli verdi rami di ligustro e mosaici sul marciapiede. L’equilibrio precario, un solco sottile e sotto le gomme musica di spine, erba bruciata e sabbia. Il manubrio sapeva di plastica nuova. Prime prove sulla sabbia dura curve controllate e pericolo. In particolare, mi piaceva un ponte acuto, la discesa ripida e il vento apparente. Piero Gaffuri (da Una nave impazzita, Edizioni Il Foglio)

UMBERTO PIERSANTI, TRA ALBERI E VICENDE in libreria

UN POPOLO DI POETI Rievoco il tempo perduto - alba sottratta al mio cuore che più non sorge oltre l'orizzonte di questi pensieri già tristemente maturi (eppure maturi perché, quale immortale teorema può rivelarci con assoluta certezza l'età del nostro spirito?). Schegge di un universo lontano tracciano con forza ed arroganza i contorni della mia intera esistenza: amici, amore, chimere e cascate d'amare illusioni tutto vi è racchiuso al pari del cielo che in silenzio ci osserva! “Durerà finché noi vorremo” - mi disse una volta un compagno “Utopia!” - replicano ora le lancette, salde come sempre nei loro rugginosi propositi... Ed allora eccomi qui, nudo di fronte al giudizio del tempo, ad accordare frammenti disordinati d'un passato mai dimentico di sé incerto - come sempre - se inginocchiarmi al futuro ed abbandonare così ogni vagheggiamento, ogni miraggio... “Finché il vento piegherà le cime del canneto” - mi ripete instancabilmente la coscienza “O quantomeno finché i tuoi sogni cesseranno la loro danza” ribatte con sarcasmo il presente.

di Loretto Rafanelli a un po’di tempo è iniziata l’antologizzazione dei poeti della Quinta generazione, segno di una centralità ormai definita degli scrittori nati negli anni Qaranta e nei primi anni Cinquanta. Di questi giorni poi di Umberto Piersanti abbiamo l’opera completa (Tra alberi e vicende, poesie 1967-1990, Archinto, 309 pgine, 14,00 euro), e non una scelta, dei primi cinque libri, curata da Alessandro Moscè, che premette ogni rac-

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del ‘68 e con uno scetticismo pasoliniano che lo rende così diverso da molti intellettuali di quel tempo, ma certo la via della poesia civile o tanto meno politica, non è la sua strada, e già in alcuni bellissimi versi si comprende quale deve essere il registro su cui insistere: «Il volo dei tordi/ infiascati sugli orli dei fossi/ per l’aria memore di ghiacci/ in quella primavera stentata/ presso la gora morta/ fradicia di scorie…». L’urlo della mente (1977), dice del disagio

L’opera completa del poeta urbinate. Un lungo e sicuro cammino iniziato nel 1967 ma solo di recente giunto alla consacrazione. La natura e i luoghi i suoi temi più riusciti colta con ampi saggi. Raccolte che fanno da viatico a quella trilogia einaudiana (I luoghi persi, 1994; Nel tempo che precede, 2002; L’albero delle nebbie, 2008) che porrà il poeta urbinate come una delle figure centrali della poesia italiana. Le sillogi raggruppate nel volume, tracciano il percorso di un poeta (nato nel 1941) che ha avuto la sua consacrazione in tempi recenti. Ma il lungo sicuro cammino, porterà a esiti alti e consolidati. Diciamo allora che i quasi trent’anni di attività poetica prima de I luoghi persi sono il tempo che ci voleva per raggiungere i risultati conosciuti (e la poesia non si misura con gli esiti precoci). Il tragitto che Piersanti compie, inizia con un’opera (La breve stagione, 1967) che pare un po’ incerta, pur se alcuni squarci ci inducono a capirne gli sviluppi. Con Il tempo differente (1974), Piersanti si addentra nella cronaca politica da critico

psichico che prende l’autore in quegli anni: «Colui che era presso la Croce/ generò questo male/ poi vennero parole stampate/ del mio tempo/ medioevo prossimo venturo/ e fu l’assurdo», un diario fedele di un asfittico e chiuso scenario contrassegnato dalla «lunga malattia», dalla paura, dalla morte, e il verso qui si contrae in un urlo incessante alla Munch. Ci sono nella prima parte di Nascere nel ’40 (1981) i ricordi struggenti della guerra, della campagna, degli amici, dei parenti, temi che torneranno poi nelle opere successive, ma è soprattutto in Passaggio di sequenza (1986) che troviamo il Piersanti migliore, quello della natura e dei luoghi e qui la scrittura assume quel passo speciale che conosciamo, come in questi versi: «Era caldo il fiato delle cose/ sospeso in ghiaccio azzurro dentro l’aria/ ed ero teso come la palomba/ che vola in banco fitto alla marina».

Il tempo perduto Luca Cenisi

Mi ero avvicinata quando l’acqua scendeva copiosa e forte dal cielo e spegneva la luce, erano i primi giorni di un mese sconosciuto, come un campo assetato e freddo il mare era sparito e sentivo in ginocchio la notte andare, e chiedevo il tuo amore, che tradirò presto, quando nasce il primo fiore. Teresa Donnici

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

hissà come avrebbe reagito Giorgio Soavi allo spolpamento radicale della sua stravagante casa di via Santa Cecilia, a Milano, protagonista dell’asta Sotheby’s il 21 aprile, che solleverà certo qualche mormorio nella Milano bene, che lui frequentava, ma con qualche diffidenza e asprezza, soprattutto negli ultimi anni, un po’ bisbetici e segnati da una lenta malattia, che lo aveva sottratto ai suoi frequenti e puntuali racconti sui giornali, ove ci ri-raccontava ogni volta i suoi amati Giacometti e Balthus e Buzzati e Topor, a ogni tappa reinventando aneddoti e dettagli e chissà quali mai fantasie, ormai inverificabili. Forse ci avrebbe fatto sopra una risata sarcastica, mefistofelica, sapendo che l’arte ha un suo tempo, come la passione. E tutto, in fondo, si disfa: nulla ha l’imperio duraturo e saccente del marmo. L’arte che lui amava, di Guccione, Ferroni, Bottoni, Folon, era fatta di misura e di ordine, talvola iper-minuzioso, miniaturistico, ma anche di nulla: un filo d’orizzonte, una macchia di polvere, l’ombra d’un’ombra. Non a caso amava le carte, le tecniche miste, le incisioni e acquatinte, gli acquerelli e i rari esperimenti materici, che popolavano le sue stanze e le sue agende Olivetti, e che di fatto avevano la meglio, nella sua collezione, come si deduce anche dalle opere messe all’incanto (in fondo con prezzi di partenza di fatto contenuti: le vere passioni autentiche e non mercantili, non provocano mai un surplux glamour di risultati). Ma è immalinconente pensare che finirà nel nulla soprattutto quella sua arte di sprezzatura elegante, nel saper mescolare insieme opere alte e difficili (spesso a livello di solo abbozzo o di schizzo, come gli acquerelli preparatori, bellissimi, per il ritratto che gli fece Sutherland; oppure i foglietti maniacalmente martoriati di segni femminei e di ragnatele insoddisfatte di Giacometti, sottratti ai ripieni tavoli di lavoro o al pavimento stesso, e chiazzati ancora dell’eventualità della vita, con magari sopra numeri di telefono o conti della spesa; «rubati» furtivamente alla futura spazzatura, con la complicità sorniona dello stesso artista), il tutto frullato insieme a quegli oggettini kitsch, o giocattoli stravaganti, o finti reperti da moderna Wunderkkamer, che facevano la sua gioia e che davano il cachet, manicalmente tassonimico e allegramente libero, del suo abitare, sia in via Santa Cecilia, a Milano, che nella stipatissima e poco mondana casa di Cortina, ove passeggiava accanto all’amico e contradditore Indro Montanelli (con lui aveva seguito le esperienze del Giornale e della Voce) o anche a Monte Marcello, una casa concepita insieme alla pittrice Graziella Marchi. Non avrebbe sopportato una casa-museo, dicono alla

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Giorgio Soavi collezionista: all’asta i “suoi” pittori di Marco Vallora

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arti

casa d’asta, e soprattutto questo lo hanno pensato i due figli, Michele, regista del terrore e non solo, molto più bravo del suo presunto «maestro» Dario Argento, e Albertina, restauratrice, nati dal matrimonio con Lidia, figlia di Adriano Olivetti, con cui Soavi lavorò a lungo, soprattutto nel campo della grafica e dell’editoria. Come conservare tutto questo stipato ben di dio, dal momento che quella di Milano era una casa in affitto? Si sono tenuti qualcosa, di più affettivo, tra oggetti e quadri, ma hanno ceduto a Sotheby’s molte delle opere-gioiello d’una collezione atipica, che ha una sua linea di gusto ben precisa, che disegna la sua carta del tenero (niente astratti o informali, nessuna arte povera o pop). Da Klimt a Picasso, da Mattioli a Sutherland, e poi Maccari, Guccione, Aleckinsky, Theimer, Bottoni, Velasco, ecc. Alcuni di loro sono stati protagonisti delle ricercatissime e ghiotte agende Olivetti o di volumi illustrati cui Soavi, amico di alcuni dei grandi designer italo-americani, come Lio Lionni, Herbert Bayer, Milton Glazer, specialisti di grafica, si dedicò anno per anno. Andarlo a trovare in ufficio era anche questo, desiderare segretamente che arrivasse il grido di battagla, che ogni tanto scattava, imprevedibilmente: «Sidonella - la sua leggendaria segretaria - Sidonella, portami il Robinson di Pericoli - per esempio - o il Pinocchio di Innocenti». I suoi pittori rappresentavano dei veri amori esclusivi: li inseguiva, li riempiva di attenzioni, li martellava di richieste, li farciva nei suoi racconti: non voleva essere un critico tradizionale o forbito, rivendicava la sua voglia di capire la pittura attraverso la conoscenza psicologica degli artisti-amici, grazie a una serie ben concertata di aneddoti e di visite agli atelier (spesso accompagnato dalla sua abile machinetta di fotografo, più o meno autorizzato. Come nel caso complesso degli scatti «rubati» allo studio-chalet di Balthus, che poi il vecchio pittore dovette accettare sornionamente, al momento di pubblicare un bel volume sulla sua vita). Mancherà all’appello lo straordinario ritratto che Sutherland gli dipinse addosso, incatenandolo alla seggiola, come per cerottare la sua facondia, e anche quel fascinoso, torbido ritratto d’interno, con ragazzino nudo alla stufa, e uomo barbuto che lo guata di lontano, d’anonimo nordico. Quante volte aveva detto agli amici-critici, Tassi, Testori, Sanesi, scriviamo tutti un racconto, e ognuno cerchi di svelare l’enigma. Se ne sono andati via tutti, à l’anglaise. Adesso si defila pure la sua casa.

Giorgio Soavi collezionista, asta da Sotheby’s, Milano, 21 aprile. Preview dal 16 al 21 aprile

Tra Italia e Irlanda, le luminose visioni di Onia di Mario Accongiagioco cieli d’Irlanda. Fiorella Mannoia gli ha dato voce, Anne Donnelly gli dà vita. L’artista di Belfast è a Roma, alla galleria Il Saggiatore di Carla Gugi, con la sua personale L’universo poetico di Onia. Osservatrice della natura, dove la terra natia fa da padrona, la pittrice ritrae aerei paesaggi, azzurri voli di gabbiani, verdi canali. Dove non mancano alberi mediterranei, giardini in fiore e magici animali. E il misticismo della sua terra si ritrova in auliche figure femminili che danno volto all’Irlanda. Un mondo intenso di visioni che il suo tratto sa trasformare in poesia. Il percorso della pittrice è iniziato a Dublino, poi gli studi all’Escuela de Bellas Artes San Fernando di Madrid e all’Ecole Julienne di Parigi hanno perfezionato la sua tecnica. La sua esperienza si basa

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anche sui numerosi viaggi in Andalusia, Marocco e Grecia, ma il contatto costante con la natura e lo studio dell’arte del Rinascimento non l’hanno mai separata dalla sua Irlanda. Anne Donnelly, però, si è fatta influenzare anche dal fascino dell’Italia. Più di quarant’anni fa sì è trasferita sulle colline toscane e dal ’67 vive a Tivoli (con lo studio che affaccia su Villa Adriana) dove ha accudito alla numerosa famiglia: il coniuge, Carlo Mazzantini, scrittore e poeta scomparso nel 2006, e le quattro figlie, tra cui la scrittrice e attrice Margaret. Elogiata dalla critica italiana e straniera, membro della Duna (International Association of Women Artist), Anne Donnelly ha esposto con successo fin dagli anni Cinquanta.Tra le mostre più recenti: nel 2007 la personale Riflessi Diversi: Artista e poeti irlandesi a Torre di Magione (Parma); nel 2008 le collettive

Equus, semper. Arte all’Ippodromo a Roma, Summer Exhibition alla Claremorris Gallery e Spring Summer and Christmas Exhibitions alla celebre Pappercanister Gallery di Dublino. Patrocinata dall’Ambasciata di Irlanda,

dal Comune di Roma, dall’Assessorato alle Politiche Culturali della Provincia di Roma, dal Comune di Tivoli, la mostra (a cura della storica dell’arte Bruna Condoleo) è composta da trenta opere a olio, dipinte su tela e su carta, realizzate dalla pittrice irlandese negli ultimi quindici anni. Anne Donnelly si conferma padrona di una tecnica raffinata che dà vita a un colore pastello nitido e delicato, dove l’immagine della realtà diventa incorporea grazie alla varietà luminosa della sua creatività.

Anne Donnelly. L’universo poetico di Onia, Roma, Galleria Il Saggiatore, fino al 9 aprile


MobyDICK

4 aprile 2009 • pagina 15

architettura

Guido (Canella), i’ vorrei che tu, Carlo (Aymonino) e io… di Marzia Marandola pesso la creatività e la produzione artistica sono strettamente intrecciate con sentimenti di amicizia e di solidarietà, con frequentazioni amicali che influenzano, in termini più o meno evidenti, le scelte espressive e le posizioni culturali. Si tratta in genere di rapporti sotto traccia, sostanzialmente privati, che lasciano scarse testimonianze documentarie: alcune cartoline, qualche fotografia di viaggio, uno schizzo tracciato per gioco una sera a cena, una dedica scherzosa sull’apertura di un libro. Indizi labili, celati spesso dalla gelosa dimensione famigliare, quando non coniugale degli artisti, che pertanto solo raramente entrano in gioco nella riflessione critica e storiografica. Eppure quando questo accade, la produzione di un artista sembra respirare con il ritmo del tempo, dilatandosi in nevralgici risvolti sociali, in inedite sfaccettature culturali, che si tingono di una realtà individuale più intensa. Allora, per incanto, i fili diversi della storia si riannodano e parlano al presente. È esattamente questa l’impressione che suscita la preziosa mostra allestita nella Galleria AAM (Architettura Arte Moderna), al primo piano di via dei Banchi Vecchi 61, da Francesco Moschini, celebre critico di lunga militanza e generoso promotore della galleria stessa, insieme con Gabriel Vaduva. Il titolo della mostra, Guido, i’ vorrei che tu Carlo ed io fossimo presi per incantamento…, risuonando dei celebri versi rivolti in dolce stil novo da Dante agli amici, annuncia la sua natura speciale. Gli straordinari disegni esposti, la selezionatissima profusione di libri, gli schizzi e le fotografie ripercorrono le opere e i progetti di Carlo Aymonino, Aldo Rossi e Guido Canella, tre protagonisti dell’architettura del se-

condo Novecento. La loro attività è riletta attraverso disegni e memorie della loro strenua amicizia, cementata da una comune e raffinata tensione intellettuale che prosegue oltre la morte, che ha rapito precocemente Aldo Rossi nel 1997. I disegni del quartiere Gallaratese, progettato da Aymonino e Rossi, del Campus scolastico di Pesaro, del museo del Campidoglio di Aymonino; del solenne cimitero di Modena e del gioioso Teatro del Mondo, la struttura acquatica ed effimera che Rossi ideò per la Biennale di Venezia del 1979; quelli del municipio di Segrate e del complesso di Pieve Emanuele di Canella, pur diversi nel tratto e nelle modalità espressive, testimoniano una confidenza reciproca e una visione condivisa, risvegliando gli echi di un’amicale affabulazione capace di rinnovare la memoria (e la speranza) di una magnifica stagione creativa dell’architettura italiana. L’elegante equilibrio tra la dimensione sentimentale e privata e quella pubblica e produttiva, che governa magistralmente la mostra, trova la propria clausola critica nella rilettura fotografica delle opere dei tre amici architetti affidata all’obiettivo creativo di Gabriele Basilico. E al grande fotografo di architettura è dedicata la mostra Ritratti di architettura. La bella architettura tra attonite sospensioni e stupite fissità, che si è appena inaugurata alla stessa Galleria AAM. Attraverso un centinaio di straordinari scatti fotografici Basilico esplora le più innovative opere dei grandi maestri del Novecento.

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archeologia

Guido, i’ vorrei che tu Carlo ed io fossimo presi per incantamento…, Galleria AAM, via dei Banchi Vecchi 61, Roma Il Teatro del Mondo in uno schizzo di Aldo Rossi

Alessandria e i tesori dell’Egitto sommerso di Rossella Fabiani

a più straordinaria avventura dell’archeologia contemporanea ha inizio nell’estate del 1984: sommozzatori alla ricerca dei resti dell’Orient, la nave ammiraglia della flotta napoleonica affondata nel 1798 durante la battaglia di Abukir, si imbattono nelle testimonianze di una città perduta dell’antico Egitto. In questi giorni una grande mostra allestita a Torino, dopo essere già stata a Madrid, rievoca la storia dei Tesori sommersi della mitica terra che Erodoto definiva un «dono del Nilo». Con la conquista macedone, l’Egitto, che già aveva incontrato l’Oriente, entra in contatto con l’Occidente e agli egiziani arriva il nuovo e più umano linguaggio dell’Ellenismo. L’esposizione sabauda aperta fino a maggio, racconta questo storico incontro da un insolito punto di vista: quello

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del fondo del mare. Alle Scuderie della Venaria Reale di Torino sono arrivati 500 reperti emersi dalle acque della Baia di Alessandria. E che anticipano l’ambizioso nuovo museo sottomarino che l’Unesco vorrebbe realizzare con il governo egiziano: un lungo percorso subacqueo che permetterebbe di ammirare, direttamente dal fondo del Mediterraneo, il patrimonio storico e culturale che sta ancora emergendo dalla baia della città. Organizzata dallo scopritore dell’Alessandria sommersa, Franck Goddio, la mostra ha un innovativo allestimento di Robert Wilson accompagnato dai suoni di Laurie Anderson. I materiali vengono da Alessandria, Herakleion e Canopo, tre delle città della zona del Delta del Nilo che tra il III secolo a.C. e l’inizio dell’era cristiana sprofondarono nelle sabbie della costa sudorientale del Mediterraneo. Alessandria, Canopo e Herakleion sono altrettante Pompei subacquee con i sedimenti marini al posto della lava a conservare i reperti, tanto meglio quanto più profondamente vi sono immersi. «All’inizio non cercavamo niente in particolare - spiega Goddio - volevamo fare una topografia della parte

sommersa di Alessandria, e per questo avevamo letto i testi di Strabone. Nei primi tempi ci siamo limitati a condurre ispezioni sistematiche, senza scavare. Dopo cinque anni abbiamo iniziato gli scavi. Ora abbiamo una mappa molto precisa del Portus Magnus ellenisticoromano, come doveva presentarsi nel II secolo d.C. a un viaggiatore in arrivo via mare, con le sue 1500 colonne di granito rosa». Prima dell’arrivo in Egitto di Alessandro Magno, quando la città che porta il suo nome ancora non esisteva, era stata per quattro secoli Heraklion - il porto commerciale di Canopo la grande porta di accesso a Kemet, il Paese dalla terra rossa come veniva chiamato l’Egitto, passaggio obbligato per i commercianti che risalivano il Nilo. Una città completamente egiziana, sebbene ospitasse una grande comunità greca e greco fosse il nome con cui Diodoro Siculo ne ha tramandato la memoria. In origine il suo toponimo era infatti Thonis come già aveva intuito JeanYoyotte e come si legge in una stele del primo anno di regno di Nectanebo I, riportata in superficie da Goddio. Con l’arrivo di Alessandro tutto

cambia. Il macedone decide di fondare una nuova capitale dove trasferire l’emporion: Alessandria. In diciotto anni di ricerche nel Delta del Nilo gli archeologi subacquei hanno riportato alla luce resti di templi e di quartieri residenziali, statue colossali e oggetti quoti-

diani, monete, gioielli, amuleti che documentano un millennio e mezzo di storia egiziana, dalle ultime dinastie faraoniche all’inizio dell’epoca islamica. Reperti unici e spettacolari che raccontano di Alessandria quando era il principale centro della mediazione economica e culturale tra Oriente e Occidente.

Egitto, tesori sommersi,La Venaria Reale, Torino, fino al 31 maggio


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i misteri dell’universo

MobyDICK

ai confini della realtà

ella precedente rubrica abbiamo fatto un veloce quadro delle specie viventi sul nostro pianeta, osservando come molte siano in fase di scomparsa, soprattutto quelle non ancora completamente classificate e conosciute e cosiddette minori, ovvero insetti e altri ordini viventi in ambienti speciali, mentre si ritrovano specie considerate scomparse o specie prima non note perché viventi in ambienti di difficile accesso. E osserviamo come non si possa escludere il recupero di specie scomparse per clonazione da Dna in parti organiche conservate (ossa, pelle etc). Si è cercato senza successo di effettuare tale operazione su un mammuth rinvenuto congelato e in buone condizioni nel permafrost della penisola del Taymir, in Siberia, nota per l’esplosione della più grande bomba all’idrogeno (ordinata da Krusciov negli anni della guerra fredda, 50-70 megatoni di potenza, contro i 2 delle bombe più usuali; ma un ordine di grandezza sotto la potenza dell’esplosione della Tunguska e due ordini sotto quella prevedibile se Apophis fra una ventina di anni visiterà il nostro pianeta). E si è anche osservato come in piazza Venezia a Roma stia la gigantesca fossa dove i cadaveri delle tenzoni nel Colosseo venivano gettati e coperti di terra, preservatisi molto bene, anche se andrebbero in rapida decomposizione riaprendo la fossa. Ebbene non è impossibile che da essi si possa recuperare Dna di migliore qualità di quello del mammuth del Taymir. E quindi oltre a riavere il gigantesco leone berbero potremmo rivedere i gladiatori…

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Ora vediamo un’altra categoria di esseri viventi, la cui esistenza non è certa, alcuni ritenendo le prove sufficienti, altre giudicandole fantasie o allucinazioni. Si tratta degli esseri che in Asia sono definiti yeti, in America settentrionale sasquatch. Sono documentati da osservazioni da tempi remoti e sono visti ancora oggi, nonostante il restringersi del loro habitat. In Asia hanno vari nomi, che dipendono e dalla regione in cui sono avvistati e dalla loro tipologia: alcuni sono alti come pigmei, altri come noi, altri arrivano ai due metri e mezzo. Sono stati avvistati in Cina occidentale, in particolare nel montuoso Yunnan dove vivono pure tribù umane assai speciali, come una il cui linguaggio ha una ventina di tonalità; sull’Himalaya, Karakorum, Pamir e Tien Shan… e sul Caucaso. Hanno braccia lunghe, corpo peloso, al passaggio lasciano un forte odore di aglio, sono raramente visibili e solo al crepuscolo, vivono in zone isolate, presso il limite superiore della vegetazione. Il grande scalatore Messner non credeva alla loro esistenza, sino a quando ne osservò uno nel Tibet sud-orientale, a circa 4000 metri di altezza, alto oltre due metri, e di cui fotografò le tracce. Ha quindi raccolto ampia documentazione, scrivendone un libro, da cui sappiamo che gli yeti non attaccano l’uomo ma si nutrono, oltre che presumibilmente di radici e piante, di carne; a volte penetrano nei recinti dove i tibetani tengono gli yak, uccidono quello prescelto con un pugno sulla testa, lo sollevano sotto un braccio e lo portano in alto, dove lo seppelliscono sotto un po’di terra per impedire che avvoltoi o altri animali se ne cibino, in tal modo conservandone la carne a lungo. Ebbene abbiamo in altro saggio osservato che tale procedimento è esattamente quello che Humwawa

Sulle tracce dello Yeti di Emilio Spedicato nell’epica di Gilgamesh minaccia di fare a Gilgamesh, il che fa supporre che Humwawa fosse uno yeti, di un tipo più gigantesco ora sparito. Messner inoltre afferma che a volte gli yeti rapiscono donne da cui hanno figli, il che implica una somiglianza genetica con noi molto forte, come se si trattasse di una specie umana evolutasi in un ambiente isolato. Racconta la storia di uno yeti che aveva rapito una donna facendo un buco nelle pareti di pietra della casa dove abitava. La donna fu ritrovata dopo anni, aveva

mentazione di antropologi sovietici che avevano studiato il caso di uno yeti femmina catturata e semiaddomesticata in un villaggio dal Caucaso. Non parlava, emetteva solo fischi, aiutava nella raccolta del legname, e aveva un udito straordinario (qualità che l’epica di Gilgamesh riferisce pure per Humwawa). Gli uomini si accoppiavano con lei ed era sempre incinta, ulteriore conferma della somiglianza genetica. Gli infanti appena nati erano da lei immersi nell’acqua di un ruscello, dove morivano

In America settentrionale lo chiamano “sasquatch” e tremila avvistamenti di questo essere, della cui esistenza dubitano in molti, sono stati effettuati e documentati. Così come in Asia, dove anche Messner ne ha incontrato uno, in Tibet, a quattromila metri di altezza, descrivendolo poi in un libro bambini, che furono uccisi, e si disperò a essere portata via da questo essere con cui evidentemente aveva stabilito una relazione positiva. In un’altra storia un cacciatore era stato bloccato da una valanga entro un’ampia caverna, dove stavano addormentati due yeti. Sopravvisse uccidendone uno per cibarsi delle carni.Verso primavera l’altro si svegliò e si mise a liberare l’ingresso della caverna facendogli segno di aiutarlo… Messner riporta anche l’impressionante docu-

tutti, salvo due che le furono sottratti dalle donne e allevati come persone del villaggio. Crebbero non differenti dagli altri e l’ultimo, di nome Kvit, morì negli anni Cinquanta.

Sulla base di questi fatti, gli yeti potrebbero essere classificati come una sottospecie di umani che non ha sviluppato la parola, ma comunica con fischi, modo forse migliore per relazionarsi in ambienti montani… Nell’America set-

tentrionale sono stati effettuati, e documentati presso un centro universitario, almeno 3000 avvistamenti dell’essere chiamato localmente sasquatch, di cui sono state anche raccolte presso tale centro alcune centinaia di orme. Tale essere è stato visto nelle foreste delle Montagne Rocciose che si estendono dalla California settentrionale all’Alaska, in gran parte prive di presenza dell’uomo bianco. È un essere peloso, con braccia più lunghe delle gambe, cranio con una specie di cresta centrale, occhi molti infossati. Ci sono storie di uomini che sarebbero stati rapiti, per poi sfuggire, da questi esseri che hanno una loro vita familiare. Non mi risultano storie di accoppiamenti risultanti in una prole. Le caratteristiche di questi esseri fanno pensare a un tipo di gorilla, anche se le impronte sono più umane che da primate. È possibile che un giorno si possa catturare qualcuno di questi esemplari o studiarne un cadavere fresco. Messner cita un caso di yeti ucciso da soldati cinesi, ma sappiamo come i cinesi in tale caso preferiscano usarne le parti per la loro farmacopea piuttosto che per analisi scientifiche. Chi viene a contatto con tali esseri è generalmente privo di sensibilità storico-scientifica. Come avvenne alla morte di mio zio prete, quando la sua perpetua gettò via oggetti di epoca romana, trovati negli scavi della nuova chiesa, giustificandosi che erano vecchi…


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