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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Filippo Maria Battaglia

I CLASSICI

A MATITA E CARBONCINO

Fiere, manifestazioni e concorsi di ogni sorta impazzano. Eppure, nell’ultimo decennio, il fumetto - e in generale, il disegno - non sembra spopolare. Dà la sensazione di beccheggiare poco sotto l’asticella della sopravvivenza, relegato nella nicchia di culto e ai bisbigli sottovoce. Riviste e testate annaspano e la maggior parte delle iniziative sembra avere il carattere fané ed effimero delle vecchie rimpatriate tra reduci. Epperò, da qualche mese, sotto la coltre dei luoghi comuni, qualcosa pare muoversi. Protagonista e demiurgo, il cosiddetto graphic novel, ovvero il romanzo in forma di matita e carboncino. Gli editori ci credono, i lettori si divertono, le vendite iniziano a segnare una forte controtendenza. Tra i grandi marchi, in testa, ci sono Rizzoli e Guanda, che di recente hanno deciso di proseguire con sempre maggiore convinzione su questa strada, rispolverando perlopiù vecchi classici, rivitalizzati dall’estro creativo di abilissimi disegnatori. È il caso di Sonia Leong ed Emma Vercelli, che per l’editore milanese hanno rispettivamente curato due audacissimi Romeo e Giulietta (Rizzoli, 192 pagine, 16,00 euro) e Amleto (Rizzoli, 196 pagine, 16,00 euro). Tema e afflato dei capolavori shakespeariani restano pressoché inalterati. Cambiano invece radicalmente ambientazione e personaggi. La faida tra Montecchi e Capuleti viene così sostituita da due famiglie Yakuza, durante alcuni scontri per le strade di Tokyo; il dramma del principe danese rivive invece nel futuro (anno domini 2017), sebbene resti inalterato il cotè familiare che lo circonda (in primis, morte del padre e tradimento dei congiunti). Più fedele a trama e tradizione, la Guanda, che ha deciso di mandare in libreria alcuni dei più noti classici dell’ultimo secolo. Dapprima, grazie all’adattamento di Peter Kuper, è arrivata La metamorfosi (80 pagine, 14,50 euro), forse il migliore dei graphic novel usciti di recente.

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Gli editori ci credono, i lettori si divertono e le vendite iniziano a segnare una forte controtendenza che fa riguadagnare al fumetto posizioni da tempo perdute. Così le opere di Kafka, Bulgakov, Fitzgerald, Shakespeare diventano graphic novel. Aspettando Proust...

9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Primavera di Gennaro Malgieri Rosalia De Souza il sound d’Ipanema di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Il canto di Ariel e l’enigma dell’eternità di Roberto Mussapi

Flaiano, De Antonis e i paparazzi di Diego Mormorio Gwyneth, un serpente nell'East Side di Anselma Dell’Olio

Il mito di Babilonia da Erodoto a Fritz Lang di Marco Vallora


i classici a matita e

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Le storie N di Brancaccio fanno il giro del mondo

on solo Italia. Il fenomeno del graphic novel nostrano pare riesca a raggiungere una certa visibilità anche oltre confine, mantenendo una sua specificità o, nel caso, perfino accentuandola. Capita grazie ai meritori intenti di una casa editrice, Beccogiallo, specializzata ormai da anni nel genere

Qui sopra, la copertina di Brancaccio (a destra le strisce). Sotto, altri esempi di classici a fumetti

segue dalla prima Un successo dall’onda lunga - negli Stati Uniti, dove il disegnatore è considerato a ragione uno dei più talentuosi autori di strisce, ha venduto decine di migliaia di copie - che ha fatto spellare le mani a testate come il New York Times e il Publishers Weekly. Ma l’esperimento è stato ripetuto con altri due piccoli capolavori: Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov (disegni di Andrzej Klimowski e Danusia Schejbal, 128 pagine, 16,00 euro) e Il curioso caso di Benjamin Button di Francis Scott Fitzgerald (adattamento di Nunzio De Filippis e Christina Weir, illustrazioni di Kevin Cornell, 122 pagine, 16,00). Scelte non casuali, quelle dell’editore del gruppo Mauri Spagnol.

Tutte le storie si prestano infatti alla visionarietà e, grazie all’audacia deformante del fumetto, tendono a rivitalizzarsi di una linfa inopinata. Gli incubi di Kafka, quelli di Bulgakov e i sogni di Fitzgerald sono, in modo diverso, tele ideali sulle quali stendere una storia perlopiù espressionistica ma sempre assai intrigante, con buona pace degli accademici duri e puri che guardano con orrore a simili contaminazioni. E dato che la tendenza, almeno a livello di numeri, sembra funzionare, molti altri marchi stanno già facendo carte false per aggiudicarsi nuove edizioni, fino a coinvolgere nei loro cataloghi (sic!) opere monumentali come la Recherche di Marcel Proust. Per i tipi della Grifo, ad esempio, usciranno a breve i volumi dello scrittore parigino, con l’adattamento e i disegni di Stéphane Heuet. Certo, il lettore non troverà tutta l’ocea-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

(tra gli ultimi libri, Il massacro del Circeo, 160 pagine, 15,00 euro, che ricostruisce le tremende violenze subite dalle due giovani donne romane a metà degli anni Settanta). Nel 2007 decide di dare alle stampe Brancaccio. Una storia di mafia quotidiana (96 pagine, 13,00 euro) di Giovanni Di Gregorio e Claudio Stassi, vincitori di vari premi di settore, tra cui il «Napoli Comicon 2007». La storia narrata si svolge nell’omonimo quartiere del capoluogo siciliano, uno di quelli ad altissima densità mafiosa, divenuto tragicamente noto dopo l’assassinio – era il settembre 1993 – di don Pino Puglisi. Poco meno di cento pagine, che grazie a un ritmo narrativo sempre intenso raccontano le vicende di un intero quartiere sotto l’ombra sinistra di Cosa Nostra. Sarà per il tema, sarà per la bravura della coppia panormita, fatto che sta che, dopo qualche tempo dalla sua pubblicazione, l’editore francese Casterman manda in libreria Brancaccio. La mafia au quoti-

nica epopea proustiana, ma riuscirà comunque a rintracciarne una significativa campionatura: il primo volume sarà così dedicato a Combray; il secondo e il terzo a All’ombra delle fanciulle in fiore.

Rizzoli rilancerà invece con Le tigri di Mompracem di Hugo Pratt, dietro alle quali si nasconde un piccolo giallo editoriale. Concepite nel 1971 per il Corriere dei piccoli, non furono mai pubblicate. Il motivo, finora, è rimasto ignoto. Ciò che ormai invece sembra meno incomprensibile è il successo del genere, visto che anche altri grandi editori hanno deciso di puntare sull’acceleratore in direzione fumetto. L’Einaudi ha da poco pubblicato, ad esempio, New York (traduzione di Costanza Primetti, 428 pagine, 24,00 euro) di uno dei pesi massimi del settore, Will Esiner. Classe millenovecentodiciassette, Eisner ha attraversato tutte le stagioni del fumetto. Già con una buona esperienza alle spalle, negli anni Quaranta del secolo scorso inventò Spirit, un inserto domenicale di sedici pagine che toccò presto l’incredibile tiratura di cinque milioni di copie. Qualcun altro si sarebbe seduto sul lauto alloro e avrebbe proseguito per omnia secula seculorum. Non così Esiner, che decise di cambiare genere, aprendo il varco - nel periodo che lo vide sergente maggiore di stanza al Pentagono durante la seconda guerra mondiale - all’uso istruttivo dei fumetti e continuando a precorrere quella via anche a ostilità cessate, stavolta non solo per conto dell’esercito americano, ma anche per colossi privati come la General Motors. Superata la boa della mezza età, decise di dar vita al primo graphic novel. Titolo, Contract with God. Ne sarebbero seguiti altri venti, che avrebbero

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

carboncino dien, traduzione del graphic novel di Stassi e Di Gregorio. Il successo della coppia non si ferma qui: arriva anche una versione spagnola, stampata stavolta dall’editore barcellonese Norma. Titolo? Brancaccio. Una historia de la mafia cotidiana. L’exploit ha così portato il duo Di Gregorio-Stassi a parlare al 36° festival internazionale del fumetto che si tiene ogni anno nella città francese di Angoulême, una delle date cult per gli appassionati del genere. E persino El País ha colto l’occasione per presentare l’uscita della versione in lingua castigliana di Brancaccio: un’intera pagina della sezione culturale del giornale dedicata interamente all’opera, con tanto di recensione approfondita su temi e personaggi. Non appare allora così bizzarra e peregrina la fioritura, proprio in Italia, di corsi e scuole appositamente allestiti per affinare le tecniche degli aspiranti disegnatori. Un orientamento decisamente sollecitato dai gusti di un pubblico sempre più attento e fidelizzato, che pare avere riscoperto, tra le ombre del bianco e nero, un vero e proprio genere letterario che reclama (f.m.b.) identità e autonomia.

contribuito a conferirgli la patente di autorità del settore fino alla morte, avvenuta cinque anni fa. New York è un’antologia d’autore che pesca nello straordinario materiale nell’ultimo quindicennio di attività. Al centro, manco a dirlo, c’è la Grande Mela, anche se l’opera di Eisner non si riduce mai a un esercizio nostalgico o campanilistico. Semmai, come scrive nell’introduzione Neil Gaiman, si trasforma in «una serie di lettere d’amore particolari - una concentrazione di desideri non esauditi, di amori sconvenienti, destini evitati e inevitabili, persone danneggiate e ferite, speranzose o senza speranza, sulla via verso la tomba, da soli o in compagnia». Grandi successi, questi, che potrebbero fare pensare all’ultima moda in odore di esterofilia. Invece, in Italia, il fenomeno non sembra destinato a vivere di luce riflessa. Ne è una conferma la «Borsa del fumetto» di Milano, una delle tante piccole miniere disseminate lungo lo Stivale, nelle quali poter percorrere il filo à rebours della letteratura del genere: da Il compleanno dell’infanta di Oscar Wilde disegnato da Craig Russell alla Moll Flanders di Daniel Defoe nella versione di Laura Scarpa, passando per il Kim di Rudyard Kipling visto dalla coppia Sergio Tisselli e Valerio Riontini. Senza dimenticare vecchie glorie dei collezionisti che contano come il Corsaro Nero, Tom Sawyer, Sandokan e via dicendo. Grandi successi e piccole chicche editoriali, che da sempre fanno dire agli appassionati che il graphic novel - così come il fumetto - non va dimenticato nella cantina del sottogenere letterario. Da qualche tempo, la critica ha deciso di assecondarli. Adesso, tocca ai lettori. Ed è questa, forse, la consacrazione più gratificante per autori ed editori.

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parola chiave

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PRIMAVERA avanti all’indecifrabile allegoria di Sandro Botticelli, semplicemente intitolata Primavera, c’è soltanto una chiave di lettura possibile, mentre il resto viene lasciato necessariamente alle interpretazioni più diverse in ragione dell’enigmaticità del dipinto. Sullo sfondo scuro si staglia un promettente e avvincente corteo di bellezza danzante, nel quale spicca il sorriso malizioso e seducente di una giovane donna vestita di veli leggeri, fiorati, il cui sguardo s’insinua in un punto misterioso con un’insistenza e una determinazione che non lasciano dubbi: esso è promessa di rinascita e di ostentata sfida a tutto ciò che gli sta davanti, con la certezza che nulla lo spegnerà dopo aver attraversato presumibilmente il buio lasciatosi alle spalle, e che fa da sfondo al singolare quadro d’insieme che non si sa bene che cosa voglia rappresentare.

D

Non è invenzione dei poeti, né costruzione dei teologi. È un dono spirituale che conferma la promessa dell’Essere a non abbandonarci, a ritornare alla luce uscendo dal buio che si lascia alle spalle. Ma la profanazione del Tempo, propria della modernità, certo non aiuta a riconnetterci con quanto ci trascende…

L’eterno ritorno di Gennaro Malgieri

L’incanto dell’opera botticelliana ritorna alla mia memoria, fin da quando ne sono rimasto avvinto per la prima volta ed ero poco più che un ragazzo, ogni anno, di questi tempi, al volgere della stagione mite dopo i rigori dell’inverno. E al di là dell’avvincente evocazione estetica, essa mi ha sempre ispirato sentimenti di rinascita colorando un po’ la mia esistenza spirituale quasi gotica e riportando in superficie le luci mediterranee sprofondate nella coscienza di chi ha nietzscheanamente toccato con mano la decadenza. Ecco. La primavera non è soltanto un periodo dell’anno in cui si accendono, miracolosamente, nuove speranze e si ritrovano motivazioni spentesi con la fine dell’estate. Essa è un dono spirituale che conferma la promessa dell’Essere a non abbandonarci. E tutto quanto di visibile si manifesta è l’apparizione dell’eterno ritorno nel segno di una creazione che non teme di stupire con la sua bellezza disinvolta, sfacciata, esibita. Cambiano i colori nella consapevolezza che moriranno per rinascere; mutano gli umori esaltandosi nella gioia della natura che prorompe sapendo che torneranno grigi dopo mesi di passione culminante nel fuoco dell’estate; si arricchiscono le aspettative dei giovani davanti alla vita e un po’ si mitigano i dolori dei vecchi nella prospettiva della fine. Dalle mie parti, nel meraviglioso Sud affogato nel disprezzo comune e ingiustamente colonizzato da culture e costumi barbari, le feste della primavera, celebrate negli anni della fanciullezza e dell’adolescenza, retaggi di antichi riti pagani cui si sono sovrapposti quelli cristiani, erano feste di promesse e di rinascenza. Le sfolgoranti immagini di Madonne e Santi, portate in processione, non avevano mai la mestizia del martirio o del dolore, ma la vitalità che vince la brutale condizione umana per elevarsi nel cielo delle beatitudini. Ma il primo giorno di primavera è forse quello che ricordo meglio di ogni altro: la festa di San Benedetto, fondatore del monachesimo occidentale, grande mistico, patrono poi dell’Europa, ma per

Frugando nella memoria e nei sentimenti, ognuno riconosce nella primavera la propria rinascita. Così la poesia della stagione è un canto universale che i credenti celebrano attendendo la Resurrezione e coloro che cristiani non sono immergendosi in ritualità ancestrali che segnano la sconfitta della morte me simbolo della mia fanciullezza essendo stato educato dai Padri benedettini cui devo tutto ciò che spiritualmente sono. Nel fasto del 21 di marzo, tra le mura dell’Abbazia cavense, si ripeteva una professione di fede nei valori della nostra civiltà. E per me quella era la da-

ta dell’inizio del nuovo anno. Curioso, ma continuo a pensarla così. Anche gli usi domestici, le consuetudini alimentari, i festeggiamenti che precedevano, ma soprattutto seguivano la Pasqua di Resurrezione, venivano vissuti da popolazioni perlopiù contadine, come

gioiose promesse di rinnovamento in attesa dell’estate imminente e del raccolto che si sperava copioso. Sicché i campi, abbandonati dopo la potatura, prendevano l’aspetto di grandi piazze frequentate da uomini e donne e bambini ognuno intento al proprio piccolo raccolto: asparagi selvatici, mammole profumate, erbe tra rovi che a prima vista si sarebbero detti inaccessibili, dalle quali si ricavavano magnifiche insalate o frittate povere appena arricchite di alcuni odori dell’orto. E si cominciava a misurare la lunghezza dei filari delle viti, mentre dalle botti si spillava finalmente il vino nuovo messo a riposare in ottobre, e qualche salume appena essiccato faceva bella mostra sulla tavola imbandita di semplicità.

Quanta primavera ci fosse nelle cantine della mia infanzia e nel mio cuore di bambino non saprei dire. Ma il ricordo mi commuove forse perché l’età grave avanza e distende la sua ombra. E so che davanti a me di primavere ne sono rimaste poche. Abbastanza, comunque spero, perché di questi tempi, rifugiato nelle campagne che conosco, possa ancora assaporare l’aria frizzante ma non fredda del mattino, godere dello spettacolo dei mandorli, dei peschi, dei meli e dei ciliegi in fiore, raccogliere nei prati che so io le poche violette a cui l’edilizia selvaggia permette di vincere la sua brutale invadenza. E soprattutto posso assaporare il frutto indescrivibile della rinascita che spunta dentro di me e che poi appassirà e morirà per rinascere ancora. Ho sempre immaginato che dovendo scegliere il tempo della creazione, Dio abbia fatto il mondo e l’uomo in primavera. Non si spiegherebbe diversamente la ragione della sonnolenza che lascia il posto al risveglio. E, come nell’allegoria di Botticelli, la notte sullo sfondo esalta l’abbagliante luce che quasi fuoriesce dal dipinto. C’è un immenso amore in quel volto, in quei volti. E l’incedere della vita oltre le tenebre, così da sempre, come dal primo giorno. Frugando nella memoria e nei sentimenti, ognuno riconosce a primavera la propria rinascita. Sicché la poesia della stagione è un canto universale che i credenti celebrano attendendo la Resurrezione e coloro che cristiani non sono immergendosi in ritualità ancestrali che segnano la sconfitta della morte. Primus è l’inizio, come si sa. Ver in sanscrito sta per radici. Primavera è il nuovo inizio, dunque. E come tale la più sacra delle stagioni. Non è invenzione dei poeti, né costruzione dei teologi. È nata con l’uomo cui ha ispirato e ispira, almeno lo spero, suggestioni tali da ricongiungerlo con la sua natura stessa e con quella dalla quale deriva. La profanazione del Tempo, propria della modernità, certo non aiuta a riconnetterci con quanto ci trascende. E rischia di restare appesa al calendario, la primavera sconosciuta nelle sue pieghe e nelle sue intime ragioni. Oggi, Botticelli non saprebbe come dipingerla. O, più probabilmente, darebbe un altro nome alla sua opera.


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cd

musica Rosalia De Souza MobyDICK

il sound d’Ipanema di Stefano Bianchi i ritrovo fra le mani, ascoltando Rosalia De Souza, la sensuale magia di Astrud Gilberto, «la ragazza di Ipanema» che pizzicò gli anni Sessanta con la bossa nova e il samba jazzato di Corcovado, Tristeza, Insensatez. Quando sento il bisogno di staccare la spina del rock, di disintossicarmi dai decibel, meno male che c’è Rosalia. L’erede più logica di Astrud. Non è un’esagerazione. È così. Nata a Rio De Janeiro, nel quartiere di Nilopolis dove proliferano le escolas de samba, la De Souza ha ereditato da papà la passione per i Beatles e Dionne Warwick. Nel 1988, arriva a Roma e si iscrive ai corsi della Scuola Popolare di Musica del Testaccio. Studia, da interprete, i pesi massimi della musica brasiliana: da Tom Jobim a Baden Powell, da Sergio Mendes a Gilberto Gil, Milton Nascimento, Chico Buarque. E poi s’innamora delle nostre dive: Mina, Ornella Vanoni. Del repertorio, in particolare, che incisero negli anni del boom economico. Nel ’95, sulle note dell’acid jazz, debutta col Quintetto X. Nel 2001, prodotta da Nicola Conte, con Garota Moderna spicca il volo da solista. Nu Bossa, è il sapore irresistibile delle sue canzoni. Ed è già un bel sentire, corroborato da concerti all’Olympia di Parigi, al World Festival di Madrid, al Womad sponsorizzato da Peter Gabriel. Nel 2006, Rosalia De Souza è una certezza che corona il sogno di una vita: incidere un disco in Brasile supervisionato dal leggendario Roberto Menescal che

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in libreria

nel ’62, con Joao Gilberto e Tom Jobim, fu mattatore al Carnegie Hall Bossa Nova Festival di New York. Esce Brasil Precisa Balançar, e in quanto a ritmi e armonie non è poi così distante dal jazz. Come il nuovo album, D’improvviso, che ha permesso alla cantante di raggiungere «un equilibrio personale e artistico. E, ne sono convinta, anche un buon risultato». A cominciare dal sincero omaggio all’Italia: «Ossia De repente, canzone composta parecchi anni fa da Aldemaro Romero, pianista e direttore d’orchestra venezuelano, che ho voluto trasformare in D’improvviso interpretandola nella vostra lingua». Un gioiello bossanovista, che scandisce il disco più eclettico e sfaccettato di Rosalia, accompagnata per l’occasione da un valente ensemble di jazzisti con in prima linea Fabrizio Bosso (tromba), Luca Mannutza (pianoforte), Pietro Ciancaglini (basso) e Lorenzo Tucci (batteria). Si va dall’afro-jazz di Banzo, Candomblé e Amanhã, alla scoppiettante Carolina Carol Bela (firmata Jorge Ben & Toquinho) con quella meraviglia d’una sezione fiati; da Sambinha, che si ispira ai gruppi brasiliani degli anni Sessanta come Tamba Trio e Bossa Tres, al samba che palpita dentro Luiza Manequim scoprendo imprevedibili guizzi rhythm & blues. E quando Rosalia si mette ad accarezzare Samba Longe, a tessere le preziose trame di Bossa 50 e a spruzzare Ondina d’ineffabile dolcezza, Ipanema è davvero a due passi. E Astrud Gilberto, se avrà la bontà d’ascoltare questo disco, non potrà che applaudire. Rosalia De Souza, D’improvviso, Schema/Family Affair, 18,90 euro

mondo

BERLIOZ, GENIO RIBELLE

riviste

GIUGNO DA REGINA

ATTENTI A BONNIE BILLY

G

iunto a colmare un’inspiegabile assenza nella bibliografia musicale italiana, Hector Berlioz (Epos, 254 pagg. 38 euro) indaga vita e percorso artistico di un compositore ribelle, capace di rinnovare la timbrica orchestrale romantica e la fissità delle forme sinfoniche del tempo. Con stile asciutto e puntuale, l’autrice, Laura Cossu, accompagna il lettore nel contesto sociocultura-

A

ncora in gestazione, la tracklist definitiva di Far, che segnerà il ritorno di Regina Spektor a giugno, comprenderà senz’altro The calculation, hit annunciata, e la parodica Folding Chair, ispirata ai più tristi epigoni del pop. L’artista di origine russa, salita alla ribalta nel 2006 con il delizioso Begin to hope, riproporrà anche nel lavoro in uscita fraseggi sbilenchi, pronuncia caricatura-

l titolo minaccioso non tragga in inganno: il Principe vuole solo avvisare delle ‘conseguenze dell’amore’, dei suoi intrichi, dei suoi tormenti. Per il resto è sempre lui, un maestro di ‘contempo country folk’, un cantautore dolce e ispirato che da tempo dice di voler espandere la propria tavolozza stilistica e spostarsi di più verso il rock, ma poi finisce sempre per parlare pia-

Laura Cossu ripercorre vita e opere del maestro francese, finora trascurato in Italia

Quasi definitiva la tracklist di ”Far”, secondo album della Spektor dopo ”Begin to hope”

Strumentazione sobria, voce flebile soffiata sulle note, senso del racconto: ecco ”Beware”

le in cui Berlioz mosse i primi passi, e consumò i primi strappi con la tradizione musicale più anemica contro la quale si scagliò appena ventenne. Ne emerge il ritratto di un musicista ostinato, in direzione contraria, allergico alle lodi e indifferente alle critiche, persuaso che la sua sola insegnante fosse l’esperienza. Convinto che strumenti e voce dovessero costruire il trionfo della musica, il Berlioz raccontato dalla Cossu è un affascinante esempio di come l’incomprensione, restituisca con il tempo gloria e onore, a chi con talento e passione sconfinata ci ha creduto fermamente. Romeo e Giulietta e La dannazione di Faust, punte dell’artista, sono lì a ricordarcelo.

le e sound eccentrico, in bilico tra malinconia e gaiezza, che ne hanno caratterizzato l’ascesa. Attesa anche in Italia, tra fine giugno e inizio luglio, la Spektor prepara una serie di concerti in Europa sull’onda del successo che due anni fa le ha consentito l’ingresso nella top 20 mondiale. Cantautrice e pianista maturata nell’East Village newyorchese, la star moscovita trapiantata nella Grande Mela punta a replicare il grande successo di Fidelity, singolo conteso da decine di spot pubblicitari, che all’esordio fece registrare 200mila clic in rete. Scommessa a rischio zero.

no e pacato». Così Riccardo Bertoncelli presenta su del rock.it l’ultimo album di Bonnie Billy. Beware in effetti è, per chi si accosta per la prima volta alla musica del quarantenne cantastorie del Kentucky, un’elegante rassegna di ballate folk. Strumentazione sobria, voce flebile soffiata sulle note, senso del racconto. L’impressione è che non manchi nulla, e i numeri sono d’alta scuola. Il problema è però che niente di nuovo, Beware aggiunge alla discografia del Principe. Sempre magnifico il nitore formale delle composizioni, e vibranti le vene narrative che le accompagnano, l’album si cristallizza in una compostezza antica, senza punti di rottura evolutivi.

a cura di Francesco Lo Dico

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MobyDICK

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zapping

CARO PINO, SEI DEPRESSO non hai più ’a nervatura di Bruno Giurato ino perché hai detto così? Perché hai evocato il passato? Non lo sai che non c’è niente di peggio di ricordarsi del tempo felice nella sventura, Pino? Hai presentato il tuo nuovo disco che si intitola Electric Jam e hai preannunciato che in autunno ne uscirà un altro: Acustic Jam. E va bene, figuriamoci, sono anni e annorum che faccio scivolare distrattamente i tuoi “nuovi” dischi, mi sento qualche nota in radio, faccio finta di guardare i tuoi concertoni in Tv. Mi sono abituato a considerare il Pino di questi anni una apparizione mediatica tra le tante, un personaggio sbucato dal nulla, per non pensare al Pino di prima. Sorvolo sui tuoi concerti a Piazza Plebiscito con Gigi D’Alessio, sorrido quando come l’anno scorso fai un Cd di cover tue e scomodi perfino James Senese, Rino Zurzolo, Joe Amoruso e Tullio De Piscopo. Tiro fuori un sospiro quando ti vedo armeggiare con la Fender come se ti sentissi e fossi un chitarrista vero. Altro sospiro quando scorro la lista dei virtuosi speciali, di questo o quel solista, di questo o quel turnista che saranno ospiti del disco o del concerto. Perché essere un fan è più o meno come avere un fratello. In nome del rapporto sopporti le piattezze e le banalità. Adesso leggo che nel presentare il “nuovo” disco dici che Acoustic Jam ed Electric Jam se ci fossero stati ancora i 33 giri sarebbero usciti come facciata A e B di un unico 33 giri. Sembra una frase innocente, ma mi fa pensare al tempo dei 33 giri e mi fa ricordare il tempo felice del Pino antico. Quando c’era Terra Mia, Nero a metà, o il doppio dal vivo Sciò. Quando cantavi “se m’intosta a nervatura mett’a tutti a faccia ’o muro”, mica “sarà che sono un po’ depresso e non ho più margine” come oggi.

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classica

Serpa, la divulgazione come arte di Jacopo Pellegrini gni nuovo libro di Franco Serpa è una festa per larghe schiere di adepti e ammiratori. L’ultimo, una raccolta di saggi diversi dal 1980 a oggi, si presenta baldanzoso con la sua copertina arancione vivo e corre il mondo a testa alta mercé le cure certosine prestategli da Lorenzo De Vecchi e Corrado Travan, due giovani discepoli del Nostro: Miti e note. Musica con antichi racconti. Tutto da solo, il De Vecchi ha anche tentato una bibliografia degli scritti disseminati nell’arco d’un cinquantennio, tra musica, cultura tedesca, greco e latino, dal venerato Maestro. Epiteto appropriato per Serpa, che nella vocazione di educatore «identifica la forma più generosa di azione» (così egli stesso a proposito del prediletto Nietzsche, nella prefazione al suo lavoro più bello e decisivo, La polemica sull’arte tragica, Sansoni). Insegnante di materie classiche nei licei, indi, per un trentennio, docente di latino presso l’ateneo giuliano, la sua «crociata» didattica ha convertito falangi di studenti alla filologia, a Virgilio e a Orazio, a Toscanini e alla Callas, a Wagner e a Strauss, a Schopenhauer e a Nietzsche, a Puccini (argomento della sua tesi di laurea) e a Henze, alla buona tavola e al cocktail Martini (nella variante Hemingway: il vermouth si butta, resta solo il gin). Anche a chi non lo conosca di persona, già dalla pagina scritta lo studioso romano si presenta senza infingimenti o ipocrisie. La lingua, innanzitutto: limpida e netta come le tesi da dimostrare, un giro della frase austero e diretto, che ricorre con frequenza a forme verbali e sintattiche desuete non per abbellire il testo, ma per chiarire e dar forza al pensiero. Lo stile in funzione dell’idea: prosa soda e non fumistica, veicolo d’una dottrina vasta e dominata dall’alto, aperta perciò alla sintesi (la lunghezza media degli scritti ripresi in Miti e note è di 7 pagine, pochissimi arrivano o superano le 10), pur senza rinunciare ad argomentazioni pregnanti e ben documentate. La strategia comunicativa di Serpa si avvale in funzione espressiva di figure retoriche, quali la gradatio (crescendo verso un punto apicale) o la ripetizione intensificatrice. «Qui sono raccolti lavori quasi tutti nati per divulgazione», si legge nella Nota dell’autore: la produzione di Serpa in ambito musicale va da qualche tempo subendo un netto incremento, la sua auctoritas s’impone oggidì come valore di scambio raro e prezioso. Se pure sia divulgazione, lo è in maniera alta, dotta, nutriente, e guidata da una viva sensibilità per il suono, da un orecchio infallibile. In questo, specialmente, è dato riconoscere la lezione di Fedele d’Amico, il sommo critico musicale, e quella di Luigi Serpa, l’amato zio musicista. A loro è ricondotto «il buono che c’è, se c’è, in queste pagine». Ce n’è, eccome. Ma il merito va in buona parte a Franco, il quale, esploran-

O

do il mondo musicale germanico tra Otto e Novecento (investito secondo lui di «autorità e responsabilità maggiori» rispetto agli altri), si pone come un’alternativa complementare alle indagini di d’Amico. Nel volume, intreccio e passaggio dall’antico (biblico e classico) al moderno (la letteratura, la musica) implicano la presenza orientante del mito, quello greco-latino, rivissuto alle origini dell’opera (Jacopo Peri), dal Settecento (Goethe, Gluck) e dal Novecento (Strauss, Ravel, Schoeck, Dallapiccola, Henze), quello pagano o cristiano nordico (Wagner), quello cristiano «mediter-

Christoph Willibald Gluck

raneo» (D’Annunzio-Debussy). La memoria come nutrimento perenne funge da valore-guida per Serpa: nei suoi scritti i rilievi di ordine analitico-musicale non mancano, al pari di affondi in altri campi (su tutti, l’antropologia), ma sempre il dato «tecnico» si discioglie nell’esegesi spirituale e nel giudizio di merito a testimoniare il valore (eterno) dell’opera d’arte, quando sia veramente tale. Franco Serpa, Miti e note. Musica con antichi racconti, Edizioni Università di Trieste, 196 pagine, 18,00 euro

esordi

Joanna Rimmer, new entry tra le stelle del jazz di Adriano Mazzoletti l piccolo mondo degli autentici cantanti di jazz si arricchisce oggi di un nome nuovo, quello di Joanna Rimmer. Con una carriera alle spalle di modella, dieci anni fa decise di abbandonare l’alta moda per dedicarsi alla sua passione di sempre, il jazz. E bene ha fatto perché il suo disco d’esordio è straordinario. Erano anni che non ascoltavo una cantante europea del suo livello. Contrariamente a molti artisti che realizzano dischi a getto continuo e soprattutto al loro apparire sulla scena, Joanna ha deciso, dopo una lunga attività quasi sempre oscura che le è stata utile per affinare il suo stile, di presentarsi ufficialmente solo oggi nel mondo del jazz. Per le sue prime registrazioni ha voluto contornarsi di musicisti fra i più noti e brillanti, fra cui un’eccellente sezione ritmica con il pianista Riccardo Zegna, il contrabbassista Aldo Zunino

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e il batterista Alfred Kramer in grado di fornire un sostegno armonicamente ricco e ai quali non fa certamente difetto lo swing. Sì, perché Joanna Rimmer canta con uno swing sempre trascinante. Nei dieci dei quindici brani è presente anche il vibrafonista Andrea Dulbecco, uno dei solisti più esaltanti del jazz italiano. Ma sono anche altri i musicisti che la Rimmer ha voluto accanto a sé, Paolo Fresu, il clarinettista Gabriele Mirabassi, i sassofonisti Pietro Tonolo,

Claudio Chiara, Stefano Riggi, Charlie Mariano, i trombonisti Roberto Rossi e Stefano Calcagno e anche Stefano Bollani nella veste, che gli si adatta magnificamente in Pick Yourself Up, di cantante, ma anche improbabile speaker di una radio americana. Il repertorio comprende celebri standard, classici del jazz e un solo original, Over the Moon, scritto dalla stessa Rimmer che si rivela eccellente compositrice oltre che sensibile e intelligente autrice del testo. Come in Monk’s Mood, celebre tema di Thelonious Monk, di cui ha scritto il testo poetico. Fra gli standard, lo stupendo e raramente eseguito I’m Gonna Lock My Heart and Throw Away to Key che il pianista Terry Shand compose nel 1938, ma anche I’m Confessin con Charlie Mariano che adatta magnifica-

mente il suo fraseggio a quello della cantante, Dancing in the Dark, More Than You Know, ancora con Charlie Mariano, arpa e quartetto d’archi che creano un’atmosfera inusuale e seducente, All of You con un assolo di Fresu che ricorda il tempo in cui egli amava Miles Davis e le trombe hard bop. Fra i classici del jazz, Caravan con un riuscito e inusuale arrangiamento per cinque sassofoni e due tromboni forse dovuto a Riccardo Zegna, Pannonica e il già citato Monk Moods. Autentica cantante di jazz, Joanna Rimmer ha molte delle qualità che si riscontrano nelle grandi interpreti: personalità, fraseggio ricco e articolato, capacità di dare un senso strumentale alla propria voce a volte quasi infantile a volte sensuale, sempre avvincente. Dimenticavo. Joanna Rimmer ha un’altra dote. È bellissima. Joanna Rimmer, Dedicated to… just me, Distribuzione Egea


narrativa di Pier Mario Fasanotti

piace ripeterlo: siamo vittime, noi lettori, di un marketing superficiale e sbagliato, al quale sfugge spesso, troppo spesso, l’alta qualità di un libro. È il caso di Santiago Roncagliolo, nato a Lima nel 1975 e residente a Barcellona, collaboratore di El Pais. Il suo primo romanzo tradotto in italiano da Garzanti è qualcosa di molto forte, per contenuto, scrittura, tenuta della trama. Il New York Times ha scritto che Roncagliolo, vincitore del premio «Alfaguara de novela», «è il degno erede di Vargas Llosa». Difficile definire o incasellare questa opera. Certo, inizia come un thriller. Certo, c’è un magistrato che indaga. Ma siamo lontanissimi dal genere giallo. A cominciare dal protagonista, il sostituto procuratore distrettuale Chacaltana, uomo ossequioso delle leggi, timido, frustrato, ossessivamente legato alla madre morta, colpito dalle accuse della ex moglie («Tu non vali niente»), ma anche testardo e coraggioso nell’affermare, dinanzi all’unica donna che dissotterra il suo istinto vitale, di non capire niente in quella terra, la pampa «che trasmette la musica della morte». C’è il ritrovamento di un cadavere carbonizzato e senza un braccio. Chacaltana si muove ingenuamente, pone domande imbarazzanti ai militari che comandano rozzamente, controllano tutto e tutti salvo l’ombra sanguinante dei terroristi di Sendero Luminoso, preoccupati di far sapere al governo di Lima che la pacificazione è cosa fatta, il che non è affatto vero. Glielo dicono, sbeffeggiandolo: «Procuratore, non veda cavalli là dove ci sono solo cani». I militari si muovono come pupazzi crudeli, ignoranti di qualsiasi legge che non sia un comando, addestrati alla tortura, vittime loro stessi della spietata lotta degli oppositori clandestini, ben organizzati e ben lucidi quelli se si tratta di ammazzare, di gettare cadaveri in fosse comuni. Chi siamo noi e chi sono gli altri? C’è davvero una linea di demarcazione tra purgatorio e inferno? No, non c’è. Un recluso «senderista», tra i tanti catturati dai soldati, dice al magistrato: «Qui tutti ammazziamo sotto minaccia di morte. È questa che s’intende per guerra del popolo». Chacaltana s’è fatto trasferire ad Ayacucho, dove viveva la madre. L’uomo bruciato non è l’unico cadavere, nei giorni terribili della settimana santa. A perdere la vita c’è anche il parroco della chiesa dove il comando militare ha voluto trasformare un forno per il pane in una nicchia per cremazione. Ingannato dall’altalenante e beffarda cordialità del governatore militare, il procuratore viene spedito a controllare le «libere» elezioni in un paesino dove nessuno sa parlare spagnolo ma solo la lingua quechua, quella degli indios ai quali non importa nulla della politica, barricati come sono nelle case o a sudare nei campi. Ci sono falò notturni, incendi, scoppi, scritte sui muri. Chacal-

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libri Indagine all’inferno MobyDICK

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per l’erede di Vargas Llosa

tana tenta di indagare, tutti gli altri si mettono di traverso, ridono, gli sbattono in faccia la realtà della morte e l’ordine perentorio di dichiarare che la lotta contro Sendero Luminoso è stravinta da un pezzo. Molti però sanno già di essere morti, sanno di essere cadaveri «perché quelli tornano sempre». Poi raggiunge il paese materno e scopre che i rapporti che ha redatto valgono ben poco: il militare col grado più alto sapeva già tutto. Chi siamo noi e chi è il nemico: il quesito toglie il sonno al procuratore, che tenta ridicolmente di far valere l’autorità della legge. Irrita un uomo così. Pure i terroristi sanno di sua madre, delle poesie che leggeva

a Lima, del padre mai conosciuto. E poi non vige alcuna legge, né da una parte né dall’altra: ecco che cosa scopre, a sue spese. Ma il goffo magistrato, sostenuto da una giovane cameriera della quale s’innamora, arriverà a una verità sconvolgente. L’uomo che contiene in sé l’orrore della morte (un incendio ha segnato i suoi primi anni) si fa strada nell’inferno, in quella terra che nessuno vuole o può liberamente chiamare paese di cadaveri, anche se vivi, violenti, intimoriti. Santiago Roncagliolo, I delitti della settimana santa, Garzanti, 275 pagine, 17,60 euro

riletture

Keynes, esercizi di utopia sul futuro dei nipoti di Angelo Crespi a più bella battuta sull’economia la dobbiamo a John Maynard Keynes: In the long run we are all dead. O più estesamente: «Il lungo termine è una guida fallace per gli affari correnti: nel lungo termine siamo tutti morti». Eppure anche il riluttante, in quanto a teorie di lungo periodo, economista inglese nel 1928, davanti ai colleghi e agli studenti di Winchester e Cambridge si cimentò in una analisi che appartiene più al genere letterario dell’utopia che all’economia, fin dal titolo: Possibilità economiche per i nostri nipoti (ora ripubblicato da Adelphi con un post scritto di Guido Rossi, 53 pagine, euro 5,50). In poche cartelle, Keynes riassume la storia economica dagli albori, e disegna il futuro del mondo: «Nel lungo periodo, l’umanità è destinata a risolvere tutti i problemi di carattere eco-

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nomico. Mi spingo a prevedere che da qui a cento anni il tenore di vita nei paesi avanzati sarà fra le quattro e le otto volte superiore a quello attuale». Una profezia azzeccata per difetto. Quello che però interessa il lettore moderno non è la strada con cui si arriverà a questo miglioramento. Keynes, al contrario dei maltusiani, riponeva nelle scoperte scientifiche una fiducia che si rivela ben accordata. Quello che più incuriosisce sono gli esiti di questo miglioramento. D’altronde, dice Keynes, il problema dell’economia, della lotta per la sopravvivenza, che è sempre stato il più pressante per la nostra specie, presto sarà superato. E in questo modo l’umanità si troverebbe privata del suo obiettivo tradizionale. Col problema tutto nuovo di «come occupare il tempo che la tecnica e gli interessi composti le avranno regalato». Certo la futura età dell’oro dovrà arrivare per successivi steps. Ovvia-

mente, da principio gli uomini non potranno disfarsi in modo totale del lavoro che per millenni è stato fonte di sostentamento ma ancor di più di senso: «Tre ore al giorno dovrebbero senz’altro bastare per placare l’Adamo» che è in noi. Poi finalmente saremmo in grado di dismettere la cupidigia, il desiderio di ricchezza, l’avarizia: «l’amore per il denaro sarà agli occhi di tutti, un’attitudine morbosa e repellente, una di quelle inclinazioni a metà criminali e a metà patologiche da affidare con un brivido agli specialisti di malattie mentali». E allora di cosa si occuperanno gli uomini? Di indagare più liberamente il vero carattere della «determinazione» di cui la natura ci ha dotati. Cioè del fatto che noi uomini siamo costituzionalmente portati a proiettarci nel futuro, a crederci immortali, visto che l’uomo determinato, arguisce Keynes, «si proietta su una immortalità fittizia e illusoria dove i suoi atti rag-

giungeranno un risultato». Ed è sintomatico che abbiamo fondato proprio su un istituto economico come l’interesse composto (l’interesse che invece di essere pagato o riscosso, è aggiunto al capitale iniziale che lo ha prodotto) il nostro bisogno innato di immortalità. Ma a parte ciò, la strada è tracciata e la beatitudine economica scenderà su di noi a patto che saremo in grado di gestire quattro elementi: l’aumento della popolazione, eventuali tensioni sociali, affidare alla scienza il governo di quanto le compete, e infine controllare il tasso di accumulazione fissato nel margine fra produzione e consumo.Tutto questo avendo in mente, come chiosava lo stesso Keynes, che «le idee degli economisti e dei filosofi politici, giuste o sbagliate, sono più potenti di quanto si creda. Gli uomini pratici, che si ritengono liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto».


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società

Didattica del bullismo per scuola e famiglie di Giuseppe Lisciani

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uesto libro di Anna Oliverio Ferraris potrebbe considerarsi una sorta di breve trattato di psico-didattica del bullismo, a uso di genitori e insegnanti. L’autrice – che è psicologa e psicoterapeuta e insegna Psicologia dello sviluppo all’università La Sapienza di Roma – organizza la materia dividendola in due parti: una prima parte con prevalente scopo conoscitivo e una seconda parte dedicata alla ricognizione di strategie più o meno articolate che la famiglia e la scuola potrebbero e dovrebbero adottare, affinché certi modi di diventare adulti siano un

biografie

po’meno maledetti e un po’meno disperati. E un po’ meno violenti. Al fascino perverso della violenza è dedicato il primo capitolo della prima parte. E poi, via via, gli altri temi cruciali: come leggere, nei fenomeni di bullismo, il visibile ma anche l’invisibile, come percepire silenziose grida di aiuto, come evitare di essere complici di frustrazione, come capire la forza del carisma, l’importanza del contesto, le pulsioni aggressive, gli stress. La seconda parte del volume è dedicata a «prevenzione e interventi». Per prevenire il bullismo, la famiglia non deve essere«respingente/trascurante», né «iperprotettiva/possessiva»: lo stile migliore sta nell’essere «au-

torevoli» verso i figli, offrire feedback coerenti. Sono altri numerosi e pratici consigli per la famiglia. Né sono da meno i suggerimenti per evitare (o ridurre) violenze e bullismo nella scuola, alcuni anche articolati e strutturati in modo che più operatori possano condividerli, realizzarli e valutarli: ad esempio, il mosaico di Elliot Aronson, le abilità sociali di Karen Bierman, l’intervento sistematico dello psicologo scolastico. Anna Oliverio Ferraris spiega, descrive e propone con taglio pratico e convincente, non senza ricorso al racconto di emblematiche esperienze vissute. Ciò che mi lascia perplesso, in questo interessante e utile libro, è

che l’autrice abbia sempre come riferimento la scuola di Stato, centralizzata, anche se fa numerosi richiami alla individualità della condizione problematica del bullo, alla soggettività del contesto disagevole, alla personalizzazione dell’esperienza vissuta e degli eventuali progetti interattivi: al contrario, l’esigenza di personalizzazione dovrebbe indicare che il sistema scolastico centralizzato non è proprio in grado di fronteggiare gli eventi, data la molteplicità e complessità delle variabili in campo. Anna Oliverio Ferraris, Piccoli bulli crescono, Rizzoli, 224 pagine, 8,50 euro

Pasolini com’era, senza reticenze

di Mario Donati stato «il grande nemico». Della destra fascista e dei comunisti che pur se lo trovavano accanto, come compagno di strada. E questi poi fraintendevano, per rozzezza o per calcolo, il suo ancoraggio al sentimento del sacro. A tal punto che non capirono nulla del film Vangelo secondo Matteo, e addirittura, gli idioti, bisbigliarono di una sua conversione. Pier Paolo Pasolini affascinava, ma dava tanto fastidio. A chi? Ai cultori del perbenismo culturale borghese, ossificato dalle convenienze, a coloro che prendevano in considerazione un intellettuale solo se diventava cartello segnaletico e non coscienza scandalosamente critica. In questo esile e affilato

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narrativa/2

libretto biografico, Nico Naldini, cugino dello scrittore-regista-poeta (nato a Bologna ma affiliato alla materna terra friulana), ci offre un ritratto dell’uomo: terso e teso, affettuoso e vero fino alla brutalità. Racconta il Naldini che dopo la tragica morte di Pier Paolo, molte donne si radunavano nella vecchia casa di Casarsa. Visita al cimitero, parlottio con le zie di Pasolini: «era il legame incoercibile dell’immaginazione, o della proiezione fantasmatica, o l’impulso di un’occulta necrofilia». Pier Paolo: l’eroe morto. Ucciso quasi come Gesù. E poi in certi ristoranti di Olanda si buttava sui tavoli «il menù di casa Pasolini». Nel mezzo della sua vita Pasolini fu inchiodato come un Cristo: dalla censura, dai detrattori, dai conformisti che brandirono come miglior arma la sua omoses-

sualità, mai tenuta al riparo, anzi ossessiva nelle ore della notte. Lo fischiarono per quei Ragazzi di vita. Conviene ricordare le stupende parole di Pasolini su quei brufolosi che poi il consumismo tramutò in immondizia: «Nessuno sa dei ragazzi di vita che anima leggera e allegra che hanno. Essi sono cinici, troppo esperti, pronti a tutto, ma basta una maglietta e un paio di scarpini, perché si scopra che anche il bullo trema... Roma non sarebbe così bella, se non ci fossero i ragazzi, sono essi che le danno tono. Precoci sensuali, belli, maleducati, avidi, spiritosi, i ragazzi dettano legge con l’autorità della gioventù, della bellezza e dell’incoscienza». E le varie ipotesi sul «complotto», sulla morte? Naldini ricorda l’abbuffata volgare della giornalista Rai che strappa all’assassino la ritrattazione. Dove è andata a finire l’hybris del giovanottello che fugge da se stesso martoriando con l’auto il corpo di Pasolini? Nico Naldini, Breve vita di Pasolini, Guanda,139 pagine, 12,00 euro

Il romanzo di formazione di Insicuro Loan di Francesco Capozza ecensire un libro è sempre un impegno arduo, almeno per il sottoscritto. Ci si interroga, per esempio, sul perché una persona dovrebbe leggere proprio quelle pagine, o su quale messaggio l’autore voglia inviare al lettore ma, soprattutto, su come far giungerlo all’ignaro compratore (in cerca spesso di qualcosa per prendere sonno evitando il Tavor sottobanco). Questa volta, tutto è bypassato dalla voglia di raccontare una storia divertente, fresca e soprattutto giovane: l’autobiografia di un ragazzo omosessuale giunto a Roma a 18 anni dalla piccola provincia. Obiettivo? La-

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sciare il paese natìo dove la parola gay è spesso seguita da insulti e incomprensione e, magari, prendere anche uno straccio di laurea da poter esibire nel salotto buono di mamma e papà come contropartita ad anni di sacrifici per mantenere il figliuolo fuorisede. «Diciottenne, vergine e ignaro del mondo. Ma soprattutto, gay: almeno dai tempi della sua insana passione per l’album di figurine di Lady Oscar. Insy – che sta per insicuro, non per insipido – arriva a Roma dal profondo Abruzzo con in testa molte cose, non tutte salubri». Con questo messaggio l’autore presenta il suo libro che, come il titolo stesso può portare a immaginare,

deve aver avuto sulla sua persona l’effetto di una lunga seduta psicanalitica. Una sorta di confessione messa nero su bianco, con momenti di pura ilarità alternati in maniera naturale a riflessioni sulla proprie scelte sessuali ma anche di vita. Quel famoso «pezzo di carta» da regalare ai genitori in segno di riconoscenza non arriverà mai perché Alessandro, in arte Insy, si fermerà a un passo dalla laurea. Neppure la sua sessualità rimarrà un segreto da nascondere all’affetto genitoriale: un commovente, affettuoso, maturo coming out renderà più leggero l’animo del protagonista, almeno nei confronti della madre. Un modo divertente per capire che

quella che per molti è «anormalità», è invece assoluta normalità. Un racconto «di vita» vissuta a Roma tra due mondi paralleli: quello universitario e quello dei locali. Il lettore in cerca d’ispirazione per le corsie della libreria, non abbia timore di non trovare il libro in questione, Rizzoli ha puntato su una copertina che non passa inosservata: fondo bianco e scritta glitterata color argento. Il rischio è di rimanere accecati ma inforcate dei buoni occhiali da sole, compratelo e non ve ne pentirete. Insy Loan, Alla fine di questo libro la mia vita si autodistruggerà, Rizzoli, 218 pagine, 16,50 euro

altre letture L’uomo è antiquato? Un soggetto da dimettere, perché reso obsoleto dalla tecnica e dalla biopolitica? Il rischio, secondo Vittorio Possenti, docente di filosofia politica presso l’università di Venezia esiste eccome. E nell’Uomo postmoderno (Marietti, 233 pagine, 22,00 euro), un saggio su tecnica, religione e politica all’alba del Ventunesimo secolo, dimostra perché. Perché, dice Possenti, l’uomo di oggi è spinto dai nuovi seguaci di Prometeo verso un futuro radioso, verso l’antidestino del superamento del vincolo naturale, attirando l’attenzione sulle straordinarie possibilità aperte dalla leva scientifico-tecnica. Una deriva pericolosa che l’Occidente eviterà se saprà superare il grave deficit educativo che lo soffoca, scoprendo nuovamente la Persona. Le biografie di Goethe sono solitamente elaborate secondo un’ottica monumentale, mineralizzata, senza dinamismo interiore. Come se il pensiero di Goethe, il più vitale e lucido dei pensatori moderni possa essere ridotto al suo monumento. Il Goethe della biografia di Josè Ortega Y Gasset (Medusa, 91 pagine, 11,50 euro) è costruito secondo un’ottica diversa: un Goethe visto dall’interno. Dove, come scrive Stefano Zecchi nella sua introduzione, risalta un Goethe vitalmente inquieto e insoddisfatto, «come il suo Faust, come Werther, come Meister: grandi figure simboliche contro un mondo che si sviluppa senza eticità, contro un mondo che ha esiliato la bellezza tra le cose effimere della vita». La superbia occupa, nella gerarchia dei vizi, un posto speciale: ne è la regina in fondo perché radicata nella condizione originaria dell’uomo come male ambiguo, come desiderio di conoscere ma al tempo stesso di eccedere la misura. Superbia di Laura Bazzicalupo (Il Mulino, 145 pagine, 12,00 euro) passa in rassegna i grandi superbi della cultura occidentale: da Adamo ed Eva ai tiranni prigionieri delle ideologie, fino ai protervi paladini della tecnoscienza che manipola la vita e alle figure banalmente arroganti dei nostri tempi. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

PASQUALE DE ANTONIS È STATO UNO DEI PIÙ GRANDI FOTOGRAFI ITALIANI DEL NOVECENTO. NELLA ROMA DEL SECONDO DOPOGUERRA, IL SUO STUDIO IN PIAZZA DI SPAGNA RICORDAVA L’ATELIER PARIGINO DI NADAR: UN LUOGO D’INCONTRO DI MOLTE INTELLIGENZE CREATIVE. AMICO DI FLAIANO NEGLI ANNI DELLA GIOVINEZZA PESCARESE, FU LUI A ISPIRARE ALLO SCRITTORE, IN SENSO OPPOSTO, L’IMMAGINE DEL FOTOGRAFO DELLA “DOLCE VITA”

L’anti-paparazzo di Diego Mormorio el 1959 Ennio Flaiano scrive: «A un tavolo di Rosati, in una di quelle rapide presentazioni nella quali non si capisce niente, ma si sorride, ho conosciuto una signora americana asciutta, abbronzata, snella, con qualcosa di coleottero nello sguardo e nell’abito verde cangiante. Tale sensazione si è precisata meglio quando l’amico – con quel tono di gravità che redime il pettegolezzo di certi raccontini – mi ha detto che questa signora ogni anno si fa le sue vacanze sessuali in Francia e in Italia, tre mesi, pienamente d’accordo col marito. Sembra che gliel’abbia ordinato il suo psicanalista. Costei sceglie dunque i suoi uomini sorretta dalla fede di guarire. Nella borsa ha una piccola macchina fotografica e con questa ritrae prima o dopo i suoi soggetti, di preferenza nudi. Si documenta come può. Ha ormai un archivio, che forse le serve per ingannare la noia dei mesi invernali, quando la cura è sospesa. Ma io penso che quest’archivio rappresenti il tributo che ella paga al culto moderno che fa di ogni turista un fotografo preoccupato di raccogliere testimonianze della sua stessa vita (per avere la certezza di aver vissuto)».

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In poche righe Flaiano traccia un quadro impietoso, in cui la fotografia risulta parte di un gioco borghese, che appare tanto labile – o meglio ancora, tanto irrisorio – da avere bisogno di una certificazione fotografica. Da ciò, si può già intuire il distacco con cui Flaiano guarda alla fotografia. Un distacco che si palesa interamente nell’inizio del racconto Le fotografie: «Non mi si venga a dire che Pasqualino non è sprecato per la sua professione che del resto esercita benissimo; ma perché di questi tempi fare il fotografo alla fiera delle vanità? Il meno che se ne ricava è una sgradevole attitudine alla critica; e infatti Pasqualino ha acquistato un certo giudizio ironico sugli uomini proprio con la quotidiana osservazione dei clienti che hanno posato e posano davanti al suo treppiede». Questa professione – quella per cui Pasqualino sarebbe sprecato – è chiaramente quella del fotografo. Ma chi è questo Pasqualino? Come succede spesso nella letteratura di Ennio Flaiano, Pasqualino è un personaggio reale: Pasquale De Antonis, grandissimo amico dello scrittore, chiamato confidenzialmente col diminutivo. Un personaggio che agli occhi di Flaiano finì per incarnare una sorta di immagine ideale dell’uomo di talento e cultura che si dedica alla fotografia – l’antipaparazzo per eccellenza e, per quanto ignoto a molti, uno dei più grandi fotografi italiani del Novecento. Nella Roma del secondo dopoguerra, il suo studio in piazza di Spagna fu simile a quello che, nella Parigi dell’Ottocento, era stato l’atelier di Nadar: un luogo d’incontro di molte intelligenze creative. Quando nel 1934 De Antonis aprì il suo primo studio al numero 51 di Corso Umberto I, a Pescara, Flaiano ne disegnò il bozzetto e ne divenne, insieme a un gruppetto di amici, assiduo frequentatore. Trasferitosi verso la fine dell’anno a Roma, Flaiano fece ritorno a Pescara all’inizio del ’38, per la morte del padre, cui risale il racconto Le fotografie, di cui ci so-

no giunte due versioni: quella propriamente considerata un racconto e un’altra, più tarda – del 1947 – destinata a essere letta in occasione di una mostra del pittore Mino Maccari, grande amico sia dello scrittore che del fotografo. Il racconto comincia così: «Quell’anno 1938 a febbraio un esaurimento nervoso m’aveva ricondotto a casa; ero stanco, svogliato, persino nauseato. Passavo intere giornate nel negozio di Pasqualino, chiuso nel retrobottega a leggere i giornali davanti alla stufa. A Roma era morto il Papa e se ne stava facendo un altro. Si aspettava anche lo scoppio della guerra. Io e Pasqualino l’aspettavamo, come tanti altri, scrutandone l’approssimarsi nelle notizie insignificanti dei giornali. Spesso con un lapis, tanto per ammazzare il tempo, aggiungevo barba e baffi alle fotografie dei 48 cardinali che apparivano su quelle colonne. Non c’era altro da fare, in attesa dello scoppio della guerra. Così presi una certa mano a quel lavoro, incoraggiato da Pasqualino che lo trovava utile e mi regalava anche delle sue copie di scarto; sulle quali mi sarei avviato addirittura a scoprire i futili misteri delle fisionomie se avessi proceduto con metodo».

Della pratica di Flaiano di aggiungere sulle immagini barba e baffi, ci rimane una fotografia del gruppo amicale pescarese sulla quale lo scrittore fece anche un disegno che evoca i cartoncini fotografici dell’Ottocento, con citazione di medaglie e premi, nonché, sulla destra, la frase latina Omnia vincit amor. Non ci è giunta, invece, una fotografia che oggi risulterebbe oltremodo esi-

studio fotografico in piazza di Spagna, che era stato occupato da uno dei più celebri fotografi italiani, Arturo Bragaglia. Corse a vederlo e già l’indomani era lì dentro a mettere ordine. La nuova «bottega» di De Antonis era a due passi da dove abitava Ennio Flaiano, sicché anche qui lo scrittore fu subito di casa. Fu fra le mura di questo studio di piazza di Spagna 51 che il giovane De Antonis si perfezionò come ritrattista eccelso, uomo di raffinata cultura, cultore di musica classica, nonché grande conoscitore di arte antica e contemporanea.

Quasi sotto le finestre dello studio di De Antonis, c’era il luogo d’incontro privilegiato del fotografo e dei suoi amici, il Caffè Greco. «Allora – ricordava De Antonis – il Caffè Greco era quasi sempre vuoto e senza quell’eleganza che c’è adesso. Piazza di Spagna aveva ancora un aspetto dannunziano. La notte non si vedeva quasi nessuno e il cielo senza quella cappa di smog che c’è adesso, era sempre stellato. Con lo scultore bulgaro Peikoff ogni tanto andavamo a sederci sulla scalinata e lui mi insegnava a stabilire che ora fosse guardando le stelle. Di solito, però, dopo le undici, quando chiudeva il Caffé Greco, Flaiano, il giornalista Mezio, l’antiquario Arduini e io andavamo nella farmacia di piazza San Silvetro, che era l’unico posto che rimaneva aperto tutta la notte. Una volta, negli ultimi anni del fascismo, qualcuno ci denunciò perché parlavamo male della Petacci [l’amante di Mussolini]. La polizia ci mandò a chiamare. Ci fecero un interrogatorio. Flaiano fu brillantissimo, tanto che si divertirono anche i poliziotti. Alla fine però a me tolsero la licenza per un mese».

Ritrattista eccelso, raffinato cultore di musica classica e conoscitore d’arte antica e contemporanea, per le sue qualità umane e culturali incarnò nella mente dell’autore di “Tempo di uccidere” l’immagine ideale di un genere, la fotografia, altrimenti da lui poco stimato larante e che De Antonis ricordava come una delle cose più simpatiche dell’amico Flaiano. Un’immagine che il fotografo riprese intorno al 1930, in cui lo scrittore era stato ripreso mentre andava al mare in pigiama a righe bianche e nere. «Oggi – ricordava De Antonis – sembra una cosa inimmaginabile. Ma allora, a Pescara, c’era un omnibus a cavalli che portava alla spiaggia, sempre pieno di gente che sembrava pronta per andare a letto». Nel periodo pescarese, il lavoro fotografico di De Antonis è essenzialmente ritrattistico. Nelle pieghe di questa sua attività, seguendo il pittore Tommaso Cascella che amava scorrazzare in automobile per l’Abruzzo, tra il 1935 e il 1936, riprende alcune delle più belle feste popolari abruzzesi. Grazie a queste ultime immagini, nel 1936 De Antonis fu ammesso al Centro Sperimentale di Cinematografia. Cominciò così il suo andirivieni – quattro giorni a Roma e tre a Pescara – fino a quando nel 1939 non lesse sul Messaggero che era in vendita uno

A questa frequentazione della farmacia di piazza San Silvestro negli anni di guerra, risale la fotografia di Flaiano che fuma, mentre è di qualche anno più tardi – circa del 1949 – quella che riprende insieme lo scrittore e il fotografo mentre passeggiano a Villa Borghese. Risalgono invece al 1938 due fotografie inedite, riprese sul balcone della casa di Flaiano in via dei Greci. In tutt’e due si vede lo scrittore e solo una parte di una figura, che anche per via della scarpa per terra, si capisce che è una donna. La figura tagliata è, in realtà, quella una giovane amica di Flaiano e di De Antonis, che questi riprende sul divano-letto in cui dormiva lo scrittore. Dopo il conflitto, a partire dal 1946, frequentando la galleria L’Obelisco, diretta da Irene Brinn insieme al marito Gasparo del Corso, De Antonis si legò in amicizia con artisti passati alla storia: Afro, Caporossi, Cagli, Vespignani, Dorazio, Caruso, Donghi, Guerrini, Perilli, Guttuso, Turcato, Campigli, Clerici, Consagra, Leoncil-


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lo, Omiccioli… di cui ci ha dato dei bellissimi ritratti. In quello stesso periodo De Antonis cominciò la sua frequentazione di Luchino Visconti e del mondo del teatro, e, accompagnandosi a Irene Brinn, iniziò a riprendere delle suggestive fotografie di moda. Per parte sua Flaiano prese completamente la via del cinema, il cui ambiente era quasi detestato da De Antonis. I due amici cominciarono, dunque, a vedersi meno frequentemente, ma a mandarsi i saluti tramite molti amici comuni.

Per le qualità umane, il bagaglio culturale e le attitudini professionali, quella di Pasquale De Antonis restò nella mente di Ennio Flaiano quasi come immagine ideale del fotografo. Credo che possiamo dirlo senza rischio di sbagliare: fu in contrasto con la figura dell’amico, che egli concepì quella del «paparazzo» nella sceneggiatura del film La dolce vita che realizzò insieme a Federico Fellini e a Tullio Pinelli. «Una società sguaiata, che esprime la sua fredda voglia di vivere più esibendosi che godendo realmente la vita, merita fotografi petulanti.Via Veneto è invasa da questi fotografi. Nel nostro film ce ne sarà uno, compagno invisibile del protagonista… Dovremmo mettere a questo fotografo un nome esemplare, perché il nome giusto aiuta molto e indica che il personaggio “vivrà”. Queste affinità semantiche tra i personaggi e i loro nomi facevano la disperazione di Flaubert, che ci mise due anni a trovare il nome di Madame Bovary, Emma». La ricerca del nome del personaggio fu lunga e abbastanza travagliata. Quando Fellini e suoi sceneggiatori quasi disperavano di trovare questo nome emblematico, sfogliando la traduzione italiana di By the Ionian Sea di George Gissing, Flaiano esclamò il proverbiale eureka!. «Il fotografo si chiamerà Paparazzo. Non saprà mai di portare l’onorato nome di un albergatore delle Calabrie, del quale Gessing parla con riconoscenza e con ammirazione. Ma i nomi hanno un loro destino». Il nome era perfetto, ma i ricordi di Flaiano circa il ritrovamento non lo erano affatto, a partire da Gissing, di cui scrive male il nome, originando così un equivoco che va avanti ancora oggi. In molti libri di storia del cinema e della fotografia, infatti, il nome dello scrittore inglese – che nella sua una vita ha dovuto affrontare abbastanza problemi – si è cristallizzato in Gessing. A due anni del prezioso ritrovamento del signor Paparazzo, Flaiano scrive che Gissing parla di lui «con riconoscenza e con ammirazione». Ciò ci porta a pensare che lo scrittore abruzzese si sia limitato, come lui stesso dice, ad aprire «a caso» Sulle rive dello Jonio, a sfogliarlo velocemente. In realtà, Gissing non mostra per il signor Paparazzo alcun sentimento di riconoscenza e di ammirazione, ma semplicemente scrive: «Il vitto che mi provvedeva il signor Paparazzo mi andava bene». Ma per quello che scrive prima, si capisce chiaramente che l’albergatore calabrese aveva inammissibili pretese. Leggiamo: «L’albergo mi offriva poco svago dopo la Concordia di Crotone, ma non mancava di elementi caratteristici. Per esempio, trovai nella mia camera un avviso stampato che faceva appello, in termini molto

Al centro, Ennio Flaiano fotografato da Pasquale De Antonis In alto, alcuni personaggi da lui immortalati: Anna Maria Guarnieri, Marella Agnelli, Luchino Visconti. Sopra, la Festa delle Verginelle e alcuni scatti di moda del famoso fotografo degli Anni Cinquanta

Scriveva Flaiano: «Non mi si venga a dire che Pasqualino non è sprecato per la sua professione che del resto esercita benissimo; ma perché di questi tempi fare il fotografo alla fiera delle vanità? Il meno che se ne ricava è una sgradevole attitudine alla critica...» espressivi, a tutti gli occupanti della stanza. Il proprietario – così stava scritto – aveva saputo, con grandissimo dispiacere, che certi viaggiatori che dormivano sotto il suo tetto avevano l’abitudine di consumare i pasti in altri ristoranti. Egli considerava render noto che tale comportamento non solo feriva i suoi sentimenti personali – tocca il suo morale – ma danneggiava la reputazione del suo albergo».

Il comportamento del signor Coriolano Paparazzo conferma l’affermazione di Flaiano: «I nomi hanno un destino». Il signor Paparazzo, infatti, non era meno invadente di quanto hanno dimostrato di essere i paparazzi. Sebbene all’inizio fosse soltanto un nome, o meglio, un cognome – quello del fotografo interpretato da Walter Santesso, il quale segue come un’ombra il protagonista interpretato da Marcello Mastroianni – la parola paparazzo già si prestava a diventare un termine di-

spregiativo, per via del suffisso azzo, variante di accio. Quest’ultimo, come dice il Dizionario Garzanti della lingua italiana, è correntemente usato in italiano come «rafforzativo di un peggiorativo»: donnaccia, figuraccia, fattaccio, etc. Con lo stesso valore di accio, azzo rimane, pure essendo poco usato, anche nell’italiano di oggi – ad esempio, amorazzo, tresca amorosa –, mentre è ancora usatissimo nel Meridione. In alcuni dialetti settentrionali, inoltre, la forma italiana àccio, nella pronuncia è quasi la stessa della forma meridionale azzo. In questo senso, Paparazzo è un nome esemplare. Ha, per dirla ancora con Flaiano, «affinità semantica» col personaggio che lo porta. Non è stata una scelta casuale, ma, come la Emma di Madame Bovary, un felice ritrovamento. La creazione di un’immagine che gira per il mondo intero. Un’immagine del tutto opposta a quella di Pasqualino, del carissimo amico di Flaiano della giovinezza pescarese.


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tv

Piccoli ispettori

Derrick

crescono: nella noia

web

video

di Pier Mario Fasanotti rrivano i tedeschi, sullo schermo piccolo. Ma lo fanno con lentezza, senza alcuna voglia di invasione. Anche se, è ovvio, tutto dipende dagli importatori di fiction. Ossia noi: Rai, Mediaset e Sky. Come quasi tutti non vedo la tv della Germania, soprattutto perché non conosco la lingua. È probabile che ci siano prodotti ottimi, che però non varcano le Alpi. Il paese che ha dato i natali narrativi all’ispettore Derrick (dal 1974 al 1997: record di longevità per un poliziotto in tv), il John Wayne della polizia di Monaco di Baviera, con cravatta e impermeabile, è un paese ancora sconosciuto agli italiani. Continua, su Rete 4, la serie Siska, dopo la parentesi divertente del Commissario Rex, quello con il cane lupo che piaceva tanto ai bambini e ai grandi. Siska, anche perché fa coppia con un collega, vorrebbe essere (ma non lo è) l’erede di Derrick. È interpretato da un quarantacinquenne con i lineamenti forti, un po’ da ex pugile, gentile, efficiente, molto determinato. Non soffre di protagonismo: fa il suo dovere e mette in mostra quasi niente della sua vita privata. Un organizzatore che parte dall’intuito e dal suo ordine mentale. I misteri nei quali s’infila spesso riflettono mediocrità e miserie della società tedesca, della famiglia borghese che s’abbevera di relazioni extraconiugali scontatissime e discrete, di incomprensioni per usura matrimoniale. Una società formata da uomini dediti al lavoro o alla routine grigia al punto da diventare aridi, sentimentalmente distratti, talvolta brutali sia con le mani sia con le parole, o con i silenzi. Pare banale ripeterlo, ma su un canale Mediaset seguire sfumature, espressioni facciali, nomi e luoghi diventa difficile a causa delle interruzioni pubblicitarie. In pochi minuti si deve fare un ripasso mentale, e sovente la

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games

voglia di fedeltà televisiva precipita per il miscuglio di immagini (auto, dentifrici, dopobarba ecc.) che con la storia stridono sonoramente. È come addentare un hamburger nel quale, a scadenze temporali precise, vengono infilati altri ingredienti. Il sapore s’ammorba. Meno sospensioni commerciali indubbiamente su Rai 2 con Squadra speciale Lipsia. Peccato però che il prodottino sia di serie B, assolutamente non confrontabile con il serial francese Crime squad, dove c’erano ottima recitazione e regia originale. Il gruppo di Lipsia è dominato da due trentenni belloni, Ian e Miguel. Il primo tedesco doc, con aria e pose da modello; il secondo chiaramente latino (di cognome fa Alvarez), comunicativo, esplicito nei sentimenti e con qualche colpo di genio. Poi ci sono una collega quarantenne tranquilla e piacente, e un commissario sui 55 anni che per essere più credibile dovrebbe fare di più il capo e meno l’affettuosa badante. In uno degli ultimi episodi tutti hanno dovuto recitare il dolore, per via del rapimento del figlio di Ian. E qui sono scivolati. Tutto è diventato un sospiro, un moto di rabbia, o una frase sgangheratamente americana come «sei mio, maledetto bastardo» (colpa del traduttore? Non è da escludere). Di made in Usa c’è anche lo scappellotto sulla nuca, che pare vada molto di moda anche tra i ragazzi europei. Gesto frequentissimo nella serie Csi (Sky). Insomma, la “Polizei” televisiva – ripetiamo: quella che si vede sui nostri canali – è modesta. A volte moderata, patinata, impiegatizia (come in Siska), a volte solo una collezione di luoghi comuni cinematografici (come in Squadra speciale Lipsia). Sarebbe meglio convincere il bravissimo Diego Abatantuono a interpretare nuovamente Il giudice Mastrangelo: c’era il mare, le smorfie, la simpatia, l’ironia, l’intrigo.

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N

icolas Delaye ed Eric Viennot, duo vincente della Lexis Numérique di In Memoriam, ci riprovano con Experience 112, ’avventura grafica, che differisce dalle altre per una nuova interazione con il personaggio principale. Léa Nichols, eroina di questo game innovativo, fa delle scelte in proprio, e possiede una propria autonomia, lasciando al giocatore la possibilità di indi-

utto cominciò tredici anni fa, in seguito al ritrovamento di un ricco repertorio di filmati d’epoca. Gianfranco Cabiddu, regista di Disamistade e Il figlio di Bakunin, pensò di montare le clip dell’archivio Luce girate in Sardegna, per realizzare una storia emotiva dell’isola. Poi vennero aggiunte a commento musiche etniche, e infine venne la scelta di accompagnare con musica dal

Il provider ”Geophonia” offre tariffe vantaggiose per le chiamate internazionali

”Experience 112” ha al centro un nuovo tipo di eroina, capace di fare scelte autonome

Gianfranco Cabiddu mette in musica balli e immagini della sua isola: suonano Salis e Fresu

occorre registrarsi e selezionare la nazione di proprio interesse, chiamare il numero di telefono indicato dal gestore e digitare le cifre del recapito telefonico prescelto. Il bouquet proposto prevede tra l’altro chiamate in Spagna, Inghilterra, Argentina, Olanda, e Germania al costo di 2 centesimi al minuto, e in Francia, Romania, Brasile e Norvegia a 3 centesimi ogni sessanta secondi. Esiste inoltre la possibilità di abilitare alcuni numeri rapidi, con i quali entrare in contatto senza la mediazione di geophonia. Nessuno scatto alla risposta, buona qualità audio, e nessuno ingombro di cuffie e microfoni, i maggiori vantaggi.

rizzarla in una location piuttosto che in un’altra. Scampata da un naufragio, Lèa è l’unica superstite di un’equipe scientifica dedita a esperimenti genetici. A trent’anni dal disastro, dev’essere guidata alla ricerca della verità, lungo un concept di gioco ricco di echi contemporanei ed enigmi. Avventuroso, ricco di suggestioni visive e flashback esplicativi, Experiment 112 si rivela un gioco appassionante che aggiunge qualcosa di sostanziale alle avventure grafiche sinora prodotte. Superato l’impatto con il nuovo sistema di controllo, il divertimento è assicurato.

vivo il patchwork visivo. Il risultato è Passaggi di tempo, naturale proseguo artistico di quello che diventò nella versione teatrale del progetto, Il viaggio di Sonos e Memoria. Racconto di un work in progress iniziato nel 1995, il lavoro di Cabiddu indaga la storia e il folklore delle tradizioni sarde, alla luce di un viaggio sonoro che trova nel jazz di Paolo Fresu e Antonello Salis l’ideale complemento. Appaiono le ”launeddas”, strumento tipico ancora del tutto artigianale, accanto a balli tipici, feste e filastrocche. Canti, chiacchiere e sogni che vengono da un mondo antico, e sulle ali della musica tornano nel nostro. Passaggi di tempo, e nuova tradizione.

a cura di Francesco Lo Dico

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cinema Gwyneth

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un serpente nel paradiso dell’East Side di Anselma Dell’Olio wo Lovers , quarto film di James Gray, rinsalda sempre più la promessa legata al debutto di Little Odessa, una gangster story intimista, che girata a soli 25 anni gli è valsa il Leone d’argento alla Mostra di Venezia nel 1994. Anche The Yards era un film di genere, un thriller su malaffare politico e tradimento personale, ambientato nel deposito vagoni della metropolitana di New York. Interessante ma macchinoso, secondo la maledizione che spesso colpisce le opere seconde. Il terzo film, I padroni della notte, era invece un thriller sanguinoso attraversato da echi biblici, che racconta la saga di una famiglia di poliziotti e di un fratello, la ”pecora nera”, che gestisce un night in mano alla mafia russa. Godibile ma imperfetto, invitato a vari festival come i precedenti, ha avuto critiche non proprio unanimi.

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Con Two Lovers Gray cambia del tutto registro, dando vita a un dramma romantico in cui la famiglia ha sempre un ruolo di rilievo, ma la violenza e i tormenti sono interiori. Ispirato molto alla lontana a Le notti bianche di Dostoevskij, il plot apre su un tentativo di suicidio, un salto dal molo nell’Oceano. Leonard Kraditor (Joaquin Phoenix in tutto il suo splendore) è un giovane dai nervi molto delicati, tornato a rifugiarsi dai genitori e a lavorare nella tintoria di famiglia a Brooklyn, dopo un disastro sentimentale devastante. Il padre, Reuben (Moni Monoshov) tratta la vendita del suo negozio con un’altra famiglia ebrea di tintori, per andare in pensione; insieme alla moglie Ruth (un’incisiva Isabella Rossellini) ha

invitato a cena la coppia di acquirenti con la loro brava, bruna, nubile figliola Sandra (Vinessa Shaw). Nella migliore tradizione ebraica, i quattro genitori hanno un doppio sogno: se i due giovani si piacciono e si sposano, ognuno avrà sistemato il figlio unico nel migliore dei modi. Il fragile, bipolare Leonard avrà il suo futuro assicurato come socio ed erede del suocero, e la tranquilla Sandra, in un mondo che non sa cosa farsi delle garbate ragazze perbene, potrà crearsi un focolare ed essere apprezzata. Il primo approccio, tra i ragazzi delle due famiglie, è goffo quanto basta ma promette bene. Poi un serpente distratto e affascinante s’insinua in questo potenziale paradiso. Una bionda shiksa, (donna non ebrea) che sembra uscita

dalla prevedibile quotidianità dei bravi sgobboni borghesi che trottano nella parte sciatta dell’East River. Michelle è una tentatrice, e insieme un frutto proibito. Se fosse solo bella e solare, forse Leonard non avrebbe perso la testa fino in fondo. Ma il fibrillante giovane intuisce quasi subito che la sua esotica vicina è anche insicura, instabile, in cerca d’affetto e di attenzione. Sollecitato nel suo istinto protettivo, la diffidenza che lo protegge dalle delusioni evapora.

Quello che Leonard non riesce a capire, è che la squisita biondina è sì, bisognosa di cure e di coccole, ma che non necessariamente è disposta a darle (non a lui, almeno). Il film segue le relazioni parallele

”Two Lovers” è il quarto film di James Gray e la svolta di un regista di thriller. Cast (Gwyneth Paltrow, Joaquin Phoenix, Isabella Rossellini) e grazia le sue doti migliori. ”Teza”, dell’etiope Haile Gerima, è la storia di un ritorno in un’Africa in rivolta dalla febbrile fantasia di Philip Roth ne Il lamento di Portnoy, trasloca nell’appartamento di fronte a quella di Leonard. Lui la vede dalla finestra della sua camera, e ne rimane folgorato. Michelle (Gwyneth Paltrow, perfetta nel ruolo) è una visione quasi ultraterrena, per un ragazzo ebreo scosso e smarrito. È palesemente fuori luogo in periferia, la celestiale Michelle. Tutto in lei profuma di Manhattan, la metropoli incantata dove vivono principesse e cavalieri come nelle fiabe; è elegante, mondana, luminosa, distante anni luce

di Leonard con le due amanti, Sandra e Michelle. Quella con la seconda è tenuta nascosta alla famiglia, che guarda con il fiato sospeso all’evolversi del suo rapporto con Sandra. Lei è pronta a dargli cuore e comprensione, ad accettarlo così com’è, con le sue tare psichiche e le medicine che a volte trascura di prendere. Intanto Leonard scopre i miseri, banali segreti di Michelle. Ma come spesso succede, le tristi rivelazioni non lo dissuadono, e anzi rafforzano la sua missione: lui la salverà. Lei lo piega perciò alle sue esigenze, tramite l’esca delle belle e disperate di ogni tempo: chiede aiuto, dando per scontato che lei non ci rimetterà nulla. Appena Leonard scopre che il capo di Michelle, un uomo d’affari sposato, ne è anche l’amante, la ragazza chiede al giovane di accompagnarla a un rendez-vous con il datore di lavoro. Ha bisogno di capire se questi lascerà mai la moglie o la sta solo illudendo. La scena nel ristorante chic di Manhattan è particolarmente brillante e ben scritta. Leonard arriva per primo, e si è presi dal terrore che la coppia gli abbia dato buca, oppure che sia caduto in una trappola di Michelle, un piano per ingelosire l’amante

recalcitrante. Invece no; quando arriva, il fedifrago coglie subito che il tenebroso ragazzo di periferia non può fare ombra a uno attrezzato di limousine, autista e abiti su misura. Anzi, Ronald (Elias Koteas) ci entra subito in confidenza e chiede al ragazzo di“tenerla d’occhio”, perché teme che abbia ricominciato con la droga. Il ritmo è fluido, sostenuto. Il resto è meglio scoprirlo: il finale, che in mani meno abili sarebbe scontato, invece è sorprendente. Gray ha il dono di fare film di qualità senza tediare.

Teza è un bel film del regista etiope Haile Gerima, vincitore dell’Osella per la sceneggiatura all’ultima Mostra di Venezia. La prima parte è lenta, perché il protagonista Anberber, di ritorno nel suo villaggio dopo anni di medicina in Germania, è come annichilito da una nuova realtà. Il ritmo accelera con i flashback degli anni tedeschi e del suo primo rientro in patria da medico, quando i brutali sgherri della rivoluzione, e i sanguinosi tumulti del regime di Menghistu gli impediscono di riabbracciare la famiglia. Per sostituire un amico medico, massacrato dai gendarmi della purezza socialista, è inviato nella Germania dell’Est, poco prima della caduta del Muro. L’incontro a Ovest con i vecchi amici espatriati, gli fa capire che l’esilio non è una scelta possibile. Un’aggressione di naziskin gli fa perdere una gamba, e Anberber finalmente torna a casa. Sua madre è ebbra di gioia, ma il fratello lo guarda di traverso: si sente scavalcato nella considerazione materna, pur essendo il maggiore. Le molte e diverse avventure di Anberber, alle prese con le complicazioni e le meraviglie della sua cultura, sono il vero splendore del film. A volte ingenuo, a volte di una saggezza antica, Teza è la biografia di un uomo simbolo di una generazione africana arrivata in Europa per istruirsi negli anni della contestazione, con la speranza di ritornare e guarire i mali dei loro Paesi con le competenze acquisite. Intrisi del marxismo-leninismo allora in voga, i loro ideali si frantumano sullo scoglio delle efferate fazioni socialiste in lotta per il potere, Il film riporta in superficie anche il passato colonialista del nostro paese, con piglio fermo e asciutto. Classico film da festival, lungo e di non facile consumo, ripaga con gli interessi l’attenzione necessaria. Da vedere, non per sentirsi più buoni, ma per riceverne in dote uno sguardo più ampio sull’universo.


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poesia

Il canto di Ariel e l’enigma dell’eternità di Roberto Mussapi n giovane naufrago si sveglia sulla riva, miracolosamente salvo. Ricorda solo un’improvvisa e furiosa tempesta, la nave sbattuta dai marosi, gli alberi schiantati e poi lo scafo squassato, montagne d’acqua ribollente. Sulla riva lo desta una voce, che canta con un soffio incantevole, irreale, è la voce di Ariel, spirito del vento, demone celeste della leggerezza, che agisce per conto di Prospero, il mago che vive nell’isola. La tempesta che ha schiantato la nave e affogato i suoi occupanti è in realtà un inganno, un sortilegio di Prospero. Ferdinando, figlio di Alonso, re di Napoli, si risveglia sulla riva e immagina di essere l’unico superstite.

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CANTO DI ARIEL

Tuo padre giace nel fondo, a cinque tese, e già le sue ossa sono corallo, perle, quelli che furono i suoi occhi. Niente di lui è destinato a svanire ma a subire un mutamento dal mare, in qualche cosa di ricco e strano. Ogni ora le ninfe del mare suonano a morto la campana per lui.

William Shakespeare da La tempesta (Traduzione di Roberto Mussapi)

Qui Shakespeare affida al demone del vento un messaggio magico che allude ai segreti del fondo oceanico, dove il giovane presume suo padre sia affogato. Nel fondo del mare agisce una trasformazione profonda, l’illusione del corpo si dissolve, a favore di una realtà più duratura e profonda. Le labbra diventano corallo, gli occhi perle. Corallo e perle sono sostanze dure, immediatamente percettibili come resistenti al tempo, al contrario della nostra carne di viventi. Non immaginiamo perle e corallo sottoposti alla cruda legge del divenire, all’invecchiamento, alla senescenza, alla morte, alla disgregazione finale in polvere. La trasformazione del corpo operata dal fondo marino, dal cuore del mistero, dal calderone d’origine, conduce a una realtà più gemmea e durevole. Ma nello stesso tempo corallo e perle appartengono al reame della vita e della metamorfosi, il corallo è un animale, la perla è l’esito di una trasformazione nata all’interno di una bivalve vivente. Il mistero della trasformazione marina è quindi il mistero della compresenza di durata e metamorfosi, di permanenza e divenire, eternità e vita. La trasformazione è in corso, niente dell’affogato è destinato a svanire, ma a subire un mutamento in qualche cosa di «ricco e strano». Qualche cosa di ricco e strano è l’esito della nostra avventura dopo la morte, ricco perché legato a una durata oltre la morte stessa, strano perché misterioso e indefinibile. Questo è il senso, enigmatico ma non oscuro, delle parole, del canto di Ariel, nel capolavoro di Shakespeare in cui poesia e fiaba si fondono insuperabilmente. La Tempesta è la storia di una grande illusione, di un totale incantesimo, che alla fine si dissolverà, e a quel punto il mago Prospero spezzerà la bacchetta per lasciarla cadere in mare, restituendola all’abisso e alla sorgente di ogni magia, magia che evidentemente, per Prospero e quindi per Shakespeare, come la poesia, ci è data in prestito. Ma è necessaria una breve escursione sugli antefatti. Il XVI secolo vide l’Inghilterra assurgere a potenza dominante nel mondo. Il suo impero si stendeva dalla Cina al Nuovo Mondo, era interamente fondato sull’acqua. Quell’età di ricchezza e potenza, l’età dei corsari e dei pirati, delle grandi scoperte geografiche e naturalistiche, dei commerci incessanti tra Oriente e Occidente, vide splendere in Londra il fulgore dell’età elisabet-

tiana, dal nome della regina Elisabetta che portò la nazione all’apogeo. In quel secolo ha luogo in Inghilterra un fenomeno straordinario, simile a quanto accaduto in Grecia nel V secolo a.C., quando era fiorita ed esplosa la tragedia. Qui nasce un genere teatrale e poetico di straordinaria potenza, il dramma elisabettiano. Gli attori, che nel resto d’Europa continuano vagare ambulando di villaggio in villaggio, incontrano un pubblico sempre più vasto, fino a poter fondare a Londra grandi teatri stabili. Una generazione di giovani poeti dal talento straordinario decide di scrivere i suoi versi per le bocche e le voci di quegli attori, piuttosto che per la pagina del libro destinato a pochi. Masse di cittadini di ogni ceto affollano i teatri per assistere alle tragedie di Ben Johnson, Tom Kidd, John Ford, Ben Johnnson, Beaumont e Fletcher… Sopra tutti Willam Shaskpeare, e l’amico-rivale Christopher Marlowe, scrivono tragedie eterne, Amleto e Tamerlano, Romeo e Giulietta e il Dottor Faustus.

Verso la sua piena maturità William Shakespeare scrive e mette in scena nel suo famoso teatro londinese La tempesta, rappresentata per la prima volta il 1° Novembre 1611, con Prospero, il personaggio principale, interpretato da Richard Burbage, il più grande attore del tempo, legato a Shakespeare da un sodalizio trionfale. Una commedia romanzesca, una favola teatrale che narra una storia di redenzione su un’isola lontana, inimmaginabile senza i resoconti dei viaggiatori inglesi nei Caraibi. Con quest’opera Shakespeare, ancora giovane, ma già autore di una strepitosa produzione di tragedie, drammi storici, commedie, si congeda come autore dal pubblico. La storia del mago Prospero che abbandona le sue magie e i suoi incanti coincide con quella del drammaturgo che smette di produrre quegli incantesimi ammalianti che costituiscono la realtà e il segreto del teatro. La tempesta è la storia di uomini che esiliati dal loro Paese, si trovano in una terra sconosciuta, magica e misteriosa. Una storia di prodigi e redenzione, magia e perdono che, alla pari degli altri capolavori del grande poeta, una volta apparsa sul palcoscenico del mondo non ne uscirà mai più. Ne La Tempesta, la straordinaria demonico-platonica invenzione di Shakespeare ci presenta una figura medianica tra il mago Prospero, le potenze celesti di cui è profondo interprete e il mondo degli umani: è una figura ventosa, ridente, dalla voce incantevole che intona incantevoli melodie, subito percepite dall’umano di turno come magiche, streganti o celestiali, comunque non umane. Demone dei venti e delle brezze, Ariel è colui che simula la tempesta, il naufragio, che disperde e confonde i viaggiatori della nave, alcuni dei quali si erano macchiati di reati contro natura, tradimento, usurpazione, fratricidio e infanticidio. E avrà, il leggero e dolce Ariel, un ruolo decisivo nel mutare il progetto di Prospero, da vendetta in perdono, da conflitto in rappacificazione, compiendo in tal modo fino in fondo la propria celestiale missione.


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il club di calliope Un ponte d’acciaio conserva i passi dei nostri giorni di nebbia e di miseria, da una parte le ciminiere di carbone, dall’altra la città con le sue croci. Per mano mi trascini verso il mondo, madre che sai la guerra combattuta, come un salice spenzolo sull’acqua, guardo le giubbe ancora appese ai rami.

UN POPOLO DI POETI Un ponte d’acciaio conserva i passi dei nostri giorni di nebbia e di miseria, da una parte le ciminiere di carbone, dall’altra la città con le sue croci. Per mano mi trascini verso il mondo, madre che sai la guerra combattuta, come un salice spenzolo sull’acqua, guardo le giubbe ancora appese ai rami. Valentina Alberto La Femina

Roberto Carifi da Amore d’autunno

QUEL MUTEVOLE CONFRONTO CON L’ETERNO in libreria

di Giovanni Piccioni entare di dar conto dell’ultima raccolta di Cesare Viviani, Credere all’invisibile, (Einaudi), non è facile per la personalità dell’autore e la portata dell’opera. Fra gli autori esordienti negli anni Settanta, la sua è una delle figure più ricche e complesse. Il suo percorso poetico presenta mutamenti formali sostanziali, e si mantiene fedele ad alcuni principi fondamentali che cercheremo di indicare. Le prime raccolte (L’ostrabismo o cara del 1973 e Fiumana del 1977) si situano in un universo tragico; la lingua è rielaborata per analogia con la terapia psicanalitica (divenuta pratica professionale), distante sia dal vocabolario che dalla grammatica. L’amore delle parti è un’opera enigmatica e risale al 1981: per la prima volta viene messo in discussione il principio organizzatore del testo: il soggetto. In

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sta fa parte del prezioso fascicolo Le voci, il coro curato da Loretto Rafanelli. Per Viviani il linguaggio poetico si basa sulla concretezza della fede, che nasce nel momento stesso in cui l’autore «diventa anonimo». L’ispirazione è un «metodo naturale» indipendente dal raziocinio; è «spirito che si fa carne», «presenza umana» rinnovata. Il rapporto del poeta con la società è irrilevante: conta unicamente la forma. Quanto all’etica in poesia, essa risiede nell’«incomprensibile» insito in ogni espressione poetica. Infine la poesia si differenzia dalla comunicazione ordinaria: è solo se stessa, pura presenza. Ci sentiamo di dire che Credere all’invisibile porta a compimento il percorso che abbiamo tentato di ricostruire, aderendo ai principi appena esposti. Le ottantotto poesie, divise in sette sezioni costituiscono

Nebbie e foschie dal nulla da chi le percorre Banditi dai secoli i passi di chi sta per salpare e pensa quale canzone cantare durante il mare. Quel fischio di piume che cozza ed infine risolve rimosso dai canti di quanti andarono non dorme e rende alle nebbie melismi che serbano i porti notturni ai cargo e alle feluche richiami quanti sono i fiori e le creature vive e morte che solo a loro stessi portano ed oltre. Il porto in fiore Federico Rosignoli

“Credere all’invisibile”, nuova raccolta di Cesare Viviani, voce poetica tra le più complesse. Dove l’autore porta a compimento un percorso iniziato negli anni ’70 Preghiera del nome (1990) l’esperienza quotidiana viene detta attraverso una scrittura al negativo: dominano la contemplazione della morte e la fine di ogni esperienza. Nel 1933 esce il poema L’opera lasciata sola: la coscienza del vuoto informa tutta l’esistenza, accompagnata dal sentimento della fedeltà. La vita è caso, e la parola non ha utilità dinanzi all’«invisibile». Un’ansia di autenticità e di assoluto contrasta con l’impossibilità di comunicare con la trascendenza. Il testo è quasi mistico. Nelle ultime raccolte questa «poesia-pensiero» (Testa) si afferma in modo ancora più incisivo, fino a coincidere con il frammento meditativo. I principi fondamentali cui abbiamo accennato sono messi in luce dallo stesso Viviani in una breve ma esauriente intervista rilasciata a Massimo Baldi, successiva a La forma della vita (2005), poema che rappresenta «il bisogno disperato di speranza di ogni essere umano». L’intervi-

frammenti vicini alla narrazione o meditativi o lirici, tra immagini e riflessioni; stupiscono per l’equilibrio, sono puri nel lessico, trasparenti e riescono a comporre un’unità. Senza intaccare il nitore del risultato poetico, affiora in superficie un’emozione spesso lacerante, e si sviluppa il dramma dell’alterno rapporto comunicativo con la trascendenza, tra luci e ombre («Poi ci sono riflessi di materie/ o armonie di movimenti capaci/ di superare in altezza quello spessore/ di oscurità». Altrimenti: «Era la percezione estranea/ di avere di fronte una zona estrema/ di gioia,/ ma di non potervi accedere».). Nel mutevole confronto con l’eterno ogni poesia è una realizzazione compiuta. Fra gli esiti più felici vogliamo segnalare, per concludere il nostro discorso, i seguenti quattro versi: «Già la grazia di avere fatto parte/ di questa eternità incomprensibile,/ di questo miracoloso spazio,/ dovremmo essere grati».

La voce del Padre mi giunge quando soffia Vicino il lume del vento Quando scorre il dettato segreto, quando è La luce del mondo e niente va perso In noi che sentiamo Il suono e la visione ci appare, Abbiamo vicino il cuore freddo Del nemico e cantiamo. Franco Tozzini

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

abilonia, mito e realtà. Il logo interno al consigliabile catalogo del British Museum, in cui la mostra si tiene, proveniendo dal Louvre, è esplicito: dai portentosi leoni ruggenti in ceramica, che permettevano l’accesso alla città mitica dell’antico mondo pre-greco, al fortunato volume di Kenneth Anger su Hollywood Babylonia, divi ciccioni e pedofili, droga e debosce tipicamente post-moderne (rifare Alma Tadema ai tempi di Cecil B. de Mille). Il bello di queste mostre rotanti (nella primavera inoltrata sarà a Berlino, ove la frequentazione con i colossi archeologicobabilonesi è ancor più di casa) è che di viaggio in viaggio queste complesse e ben congeniate rassegne si arricchiscono via via di reperti ritrovati in loco, in musei storicamente rapaci, senza richiedere eccessivi spostamenti di delicatezze artistiche (peccato che l’Italia, che in verità non possiede quasi nulla, musealmente, di questi straordinari reperti, sia come sempre esclusa da tanti fortunati tour espositivi). Dunque ancor più completa della versione francese, di Marco Vallora questa divertente, didattica e non troppo erudita mostra (qualcuno anzi potrebbe esigere ancora un po’più d’incremento filologico-archeologico, ma si vedrà poi a i due ancora esistenti fiumi, il Tigre e l’Eufrate, terre feBerlino) è divertente proprio perché passa dalle prime conde, è di essere insieme realissima, grazie appunto testimonianze storiche, che vanno dal pioniere Erodo- alle testimonianze storiche di Erodoto (ma non soltanto al viaggiatore barocco Della Valle, dalle prime esem- to, grazie anche alle capillari informazioni, che le indiplificazioni ritrovate di quella civiltà, ai decrittatori an- struttibili stele cuneiformi ci hanno riservato e sputano tesignani dei caratteri cuneiformi, ai primi archeologi- ancora fuori, imprevedibilmente, a ogni ricerca) e al escavatori illuministico-settecenteschi, sino alle testi- tempo stesso di essere una città per antonomasia legmonianze grafico-immaginarie e manieriste di Philips gendaria e mitica: dunque legata a ipotesi, dicerie, racGalle e Maarteen van Heemkerck, dunque in pieno cli- conti, menzogne. Certo, era celebre per le sue mura imma fiammingo, degli zigurat presunti. E ancora: dai te- ponenti (che Veronese tenta di reimmaginare, ovvianebrosi teleri secenteschi, che ritraggono Balthazar o Semiramide (ma è presente anche il bel quadro giovanile di Degas, che tenta di rifare un mondo perduto, ispirandosi al purismo imborotalcato di Puvis de Chavannes) alle Peter Bruegel Il Vecchio, simulazioni fotografiche ottocente“La torre di Babele” sche, con tableaux vivants di destina(1563) Vienna, zione carnevalesca e ancora, le reinKunsthistorisches Museum venzioni cinematografiche, con la lussuosa sequenza babilonica, agli esordi del muto, di Intolerance di Griffith e, in filigrana, l’ombra mitica delle minacciose mura, proiettata sin dentro a quell’incunabolo della fantascienza moderna che è Metropolis di Friz Lang. Infatti la caratteristica di Babilonia, che oggi geograficamente si ritroverebbe nel cuore guerresco dell’Iraq (e infatti ecco le banconote coi mustacchi feroci di Saddam e le antiche vestigia nobilitanti sullo sfondo e gli ulteriori guasti della guerra) la città tra

B

Il mito

di Babilonia da Erodoto a Fritz Lang

arti

mente in stile palladiano, come se la vasta città fosse una garrula villa veneta moltiplicata per moduli abitabili) e per i chiacchieratissimi giardini pensili (al punto che si guadagnò ben due menzioni, nel guinness delle Sette Meraviglie del Mondo, trasformandole in otto) ma oggi qualche serio archeologo, dopo secoli e secoli di ricerche, cerca addirittura d’insufflare l’ipotesi che i mitici giardini forse non siano mai davvero esistiti (come risolvere i complessi problemi d’irrigazione, in una zona di miracolata, pantografata oasi, ma quasi desertica?) e fossero invece la proiezione immaginaria e urbanistica d’un sogno edenico, che non abbandona l’uomo, soprattutto oriental-islamico. Una città mitica, ma che sappiamo costruita dall’intraprendente e gran immobiliarista Nabuccodonosor (memorie melodrammatiche e ottecentesche a iosa, da Verdi a Hayez) leggendariamente fondata da Semiramide (che vediamo, in un bellissimo Guercino, portare le mani a coppetta, per ascoltare la tragica notizia dell’assalto nemico, in annuncio delle grandi arie belcantistiche di Rossini) «tomba» dei sogni imperialisti di Alessandro il Macedone, qui sepolto (c’è di che costruire molte mostre, con tutto questo serbatoio di memorie bibliche e mitologiche e strategico-militari). Soprattutto quando tutto questo materiale storico-archeologico compie un saltello mitico e ci ritroviamo nella biblica e fantasmatica traslitterazione di Babilonia divenuta impercettibilmente Babele (dove avviene il salto?) con la leggenda o meglio parabola della torre empia, che vuol raggiungere il cielo e che non sarà mai portata a termine, a causa della «babele» proterva e politica delle troppe lingue che entrano in gioco e mai si mettono d’accordo: metafora terribile e ancora attualissima. In questa ricca «babele» di storie incrociate, la storia dell’arte, oltre l’archeologia, fa la sua gran parte: con la duereriana e blekiana Gran Puttana di Babilonia, la scena del banchetto rembrandtiano di Balthazar, che scorge terrorizzato il dito di Dio scrivere la sua condanna, e le varie torri di Babele che da Breughel giungono sino a Escher ed epigoni, senza contare la storia di Semiramide, che tocca persino gli affreschi gotici della Manta vicino a Torino o s’insinua, secondo qualche iconologo, persino nella Primavera di Botticelli, ove sarebbe omaggiata la guerriera orientale, sotto le fattezze reali di Semiramide de’ Medici, moglie di Pierfrancesco. Babylon. Myth and Reality, Londra, British Museum

diario culinario

Spaghetti al cipollotto all’ombra della Madùnina di Francesco Capozza i chiedessero come, avendone la possibilità, vorremmo mangiare a casa tutti i giorni, potremmo rispondere snocciolando il menù di “Aimo e Nadia”. Non leggetelo come un ridimensionamento, ma come un’esaltazione per una cucina che più buona e sana, come piace a noi, è difficile trovare. Il ”Luogo”in questione non è un’osteria, nè uno di quei laboratori asettici ove si mangia avvolti in un silenzio quasi claustrale come usa adesso, ma uno dei migliori ristoranti d’Italia, nella Milano della moda e degli affari. Ad un’esasperata selezione delle materie prime segue infatti una sapientissima elaborazione all’italiana. Nessun tecnicismo dell’ultim’ora ma un rigore e una precisione di cotture e accostamenti che derivano da una cultura

C

sopraffina delle cose buone. Davanti a questi piatti non c’è da porsi vigili e in ascolto, come piace imporre a molti “profeti” della nuova cucina d’autore: qui le pietanze parlano chiaro, netto, senza finzione e senza orpelli. I fiori di zucca farciti con granseola e zucchine sono saporiti, sensuali e morbidissimi e l’abbinamento con la crema di piselli freschi alla mentuccia non fa che esaltarne i profumi. Uno straordinario inno ai sapori mediterranei sono poi le linguine di semola di grano duro con alici del Mar ligure, capperi di Pantelleria e pomodori essiccati al sole e leggermente piccanti (grandioso l’equilibrio del gusto). Ma il primo piatto che da solo vale il viaggio sono i fantastici spaghetti al cipollotto, simbolo di questo ristorante e vero e proprio sberleffo nei confronti di chi, ispirato forse dalla moda dilagante, vuol stupire con piatti tal-

mente elaborati da risultare spesso fin troppo astratti per essere capiti dal normale avventore. Semplicemente perfetta la cottura del maialetto di Cinta senese (Aimo è di origine toscana, e non lo dimentica) croccante al miele di timo, servito con purea di ceci e mele renette: il trionfo della gola e del piacere palatale. Come intermezzo, giusto per far sentire come a casa gli ospiti del suo ristorante, Aimo potrà servire un assaggio della sua celeberrima zuppa etrusca nella quale gli ingredienti mantengono integrità e identità pur nei diversi tempi di cottura. Selezione ad hoc per gli amanti dei dolci cioccolatosi: la suadente varietà Esmeraldas è la base della mousse con cuore di aceto balsamico, gelato allo zafferano e salsa ai pinoli di San Rossore. La lista dei vini è un monumento all’originalità e perfino alla praticità (operazione non facile in

un momento storico in cui ai ristoratori piace “apparire” mostrando i muscoli con cantine quasi esclusivamente… cartacee), con le etichette divise per sezioni a tema. Non essendo un’osteria, va da sè, la spesa non sarà leggera quanto la cucina ma un paio di validi menù degustazione consentono di non esagerare con il conto che, alla carta, si attesta sui 90 euro. Aimo e Nadia è un vero e proprio monumento della cucina italiana e vale la visita né più, nè meno che al Duomo o alla Triennale Non è proprio nel centro di Milano, pertanto munitevi di automobile o studiate le coincidenze con la Metropolitana onde evitare di far tardi: la cucina chiude alle 14. Il Luogo di Aimo e Nadia, Milano, via Montecuccoli 6, Tel. 02.416886 www.aimoenadia.com


MobyDICK

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architettura

La Zecca di Ponte: quando il Papa batteva moneta di Marzia Marandola olti elementi concorrono al vivo interesse che suscita lo studio di Micaela Antonucci sull’antica Zecca di Roma, nota come palazzo di Santo Spirito, nel rione Ponte, in vista di castel Sant’Angelo. In primo luogo la straordinaria architettura dell’edificio e i modi con cui viene analizzata e interpretata dall’autrice; la meticolosa ricostruzione delle vicende politiche e costruttive del palazzo tramite la densa raccolta di materiali iconografici e documentari; la maturità critica con cui essi sono confrontati e valutati e, infine, il linguaggio preciso e appropriato, che sa assumere un andamento affabile e narrativo, in grado di raggiungere anche i non specialisti. L’edificio in questione sorge nell’ansa del Tevere, tra il porto di Ripetta e l’isola Tiberina, dove il denso edificato confluisce, come un imbuto, verso ponte Sant’Angelo, passaggio obbligato per la basilica di San Pietro. In quell’imbuto, innervato sul primo tridente viario del mondo moderno, costituito dalla via Recta (oggi dei Coronari), via Papalis (oggi Banchi Nuovi) e via Florida (oggi Banchi Vecchi), dal Quattrocento si addensano le case e i banchi dei cambiava-

M

lute e dei mercanti banchieri. Quando Papa Giulio II della Rovere, tra il 1504 e il 1512, imprime un vigoroso impulso alla rifondazione istituzionale della Chiesa e di Roma, sua capitale temporale, sceglie proprio quel quartiere, latinamente detto forum nummulariorium, cioè piazza dei banchieri, per costruire la nuova Zecca. All’architetto Donato Bramante, che ridisegna e allarga le strade di accesso al ponte, è probabilmente affidato anche il progetto per la Zecca, che tuttavia resterà inattuato per la morte del Pontefice, seguita a breve da quella dell’architetto. La costruzione

della Zecca ha un valore politico e propagandistico: l’edificio non è voluto in funzione del conio delle monete, che all’epoca era affidato a un singolo orafo, che solitamente lavora nella sua bottega, o in alternativa nei palazzi Vaticani. L’obbiettivo autentico dell’edificio consiste nell’asserire, tramite l’evidenza solenne dell’architettura, la prerogativa papale del battere moneta. In definitiva: l’architettura della Zecca deve conclamare ai pellegrini e al popolo romano la pienezza del potere temporale del Papa, che contempla anche l’emissione della moneta, un tempo esclusiva del

Campidoglio. La preminenza del messaggio politico orienta il progetto di Antonio da Sangallo, ideato con Papa Clemente VII Medici nel 1524-25. Giorgio Vasari, che conobbe bene il Sangallo, è l’unica fonte diretta che gli attribuisce il progetto: «Fece Antonio in Banchi la facciata della Zecca Vecchia di Roma, con bellissima grazia in quello angolo girato in tondo, che è tenuta cosa difficile e miracolosa». L’espressione allude all’aggraziata concavità del fronte che attira e rifrange le convergenze prospettiche dalla chiesa dei Fiorentini, dal ponte e da castel Sant’Angelo. E la facciata, per costruire la quale fu tagliata la punta dell’isolato, concepita come proiezione su una superficie concava di un arco trionfale innalzato su un podio bugnato, sarà per oltre un secolo tutto ciò che viene costruito della Zecca. Nel 1665 l’edificio è acquistato dall’ospedale di Santo Spirito che vi insedia il proprio banco, provvedendo a nuovi ambienti e ai risvolti laterali della facciata che Giovanni Tommaso Ripoli disegna ripetendo il partito di Sangallo. Micaela Antonucci, Palazzo della Zecca in Banchi, Istituto Poligrafico e Zecca della Stato, 153 pagine, 180,00 euro

moda

Chutzpah, la nuova era del tubino nero di Roselina Salemi on è una parola facile, anzi è decisamente difficile. Viene dall’yiddish e si pronuncia con la h aspirata, ma è divertente e un po’ snob. Chutzpah, che significa coraggio, audacia e un po’ di impertinenza, è la nuova definizione fashionista del little black dress, la petite robe noir di mademoiselle Coco Chanel, il classico abito nero che risolve qualsiasi necessità festaiola, cocktail-aperitivicompleanni. Rivisto e corretto, però. La parola, arrivata da New York, rimbalza sulle colonne del Financial Times, dove le giornaliste di moda, commentando il postmodern little black dress, dicono che finalmente è chutzpah. Finisce nei blog, nei siti di moda, entra nel linguaggio segreto delle fashion addict. Il significato originale del termine (negativo) assume una sfumatura di orgoglio non conformista, perfetto per la moda. Vero, i piccoli abiti neri passepartout sono diventati, nelle mani degli stilisti, davvero audaci e impertinenti, grazie a dettagli plissettati, orli tagliati al vivo, fiocchi, ruches, pizzi osé, pietre scintillanti, piume, strass, trasparenze, frange, applicazioni (visti addosso a Paris Hilton, Mischa Barton, Lindsay Lohan). Ma possono anche essere semplici, come quello di Michelle Obama, che non brilla, non ammicca e non è

N

neanche molto corto, eppure tutti l’hanno giudicato audace e persino un po’ impertinente per la foto ufficiale di una first lady. L’icona chutzpah, una Audrey contemporanea, è naturalmente Victoria Beckham, che ci mette, insieme alla frivolezza, un pizzico di arroganza, pochissima stoffa, cintura e sandali vertiginosi. Perciò il tubino, per meritare la definizione di chutzpah (il classico bon ton è sorpassato, antico), deve essere accessoriato in maniera esagerata: scarpe d’argento, altissime, borsetta d’oro o di strass, orecchini vittoriani, maxispille. In alternativa, giri e giri di perle false. Il contrario del minimalismo, ma scherzandoci sopra. Niente paura quanto a budget: il tubino nero Audrey Hepburn audace e impertinente si col tubino nero trova nelle catene low di Chanel cost, da H&M a Zara, da (a sinistra Mango a TopShop, oltre indossato da una modella) che nelle collezioni di Valentino, Givenchy e in tanti Chanel di Karl Lagerfeld. Non è questione di prezzo, ma di stile. E in fondo è sempre stato così. Nell’ultimo, fluviale romanzo della scandalosa Almudena Grandes, storia d’amore di mille pagine (Cuore di ghiaccio pubblicato da Guanda), Angélica, entra in

scena con un abito nero, stretto, corto e senza maniche, «talmente classico che poteva essere molto costoso o molto a buon mercato, talmente semplice che sulla maggior parte delle donne invitate alla festa sarebbe parso insignificante, ma addosso a lei risultava estremamente elegante». La scena è ambientata nel 1954, più di mezzo secolo fa, ma l’idea è ancora giusta. Può essere la risposta alla crisi e alla voglia di moda, di leggerezza, con quel tocco di moderno in più. Darà a tutte una bella carica di chutzpah, coraggio e impertinenza. Accessori che con un little black dress, di questi tempi, possono sempre tornare utili.


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fantascienza

MobyDICK

ai confini della realtà

i sa che certe volte, il personaggio letterario da un lato prende tanto la mano al suo autore da diventare un’ossessione, dall’altro raggiunge tanta popolarità e vividezza presso i lettori, da mettere in disparte il suo creatore e da essere quasi considerato una cosa viva. L’esempio più clamoroso è quello di Sherlock Holmes e Arthur Conan Doyle. Ma c’è una interessante variante letteraria a questa situazione, ed è quella del trasferimento totale della fantasia in realtà e viceversa; della trasformazione del mondo immaginario in mondo reale e della possibilità di una osmosi tra i due.

S

In altri termini, è come se diventasse concreta, quindi sul piano della quotidianità, la teoria di Tolkien circa la “subcreazione”: Dio crea il Mondo Primario, lo Scrittore come un Demiurgo di grado inferiore crea il Mondo Secondario, quello descritto nei suoi libri, ma con tutti i crismi della “realtà”. Un esempio ben riuscito è il film da poco apparso sui nostri schermi: Inkhearth - La leggenda di Cuore d’Inchiostro che si ispira al primo volume di una trilogia di una scrittrice per una volta tanto non angloamericana bensì tedesca, Cornelia Funke: Tintenherz (2003), tradotto senza molta eco da Mondadori come Cuore d’Inchiostro (2005) e ripresentato adesso con l’occasione del film di Ian Softley. Gli hanno fatto seguito Veleno d’Inchiostro nel 2005 (Mondadori, 2006) e Alba d’Inchiostro nel 2008, non tradotto ancora. Un romanzo assai curioso e particolare sotto molti aspetti e che riprende con qualche novità un tema non del tutto nuovo nella letteratura fantastica. L’autrice, intanto, segue una via già tracciata soprattutto dal suo compatriota Michael Ende con il fortunato La Storia Infinita (1979), da cui è stato tratto il film di successo di Wolfgang Petersen (1984), dove si narra di come il piccolo Bastiano entri nel mondo del libro per salvare il Regno di Fantàsia dall’avanzata del Nulla. È quel che si definisce un“metalibro”: un libro nel libro. Lo stesso è per Cuore d’Inchiostro dove però l’autrice introduce, non si sa quanto consapevolmente (e se fosse stata inconsapevole è ancor più significativo), una fondamentale variante: un “medico dei libri”, Mortimer, ha la straordinaria proprietà di rendere reale quel che legge, personaggi, cose, avvenimenti, fenomeni naturali. In sostanza, in questo modo si rende in un contesto di favola moderna un potere tradizionale, il Potere del Verbo, la Potenza creativa della Parola. Magari ricordare che secondo moltissimi miti delle origini (da quello cristiano a quello induista) tutto ha origine da una parola o da un suono potrà sembrare esagerato, così come ricordare che una parola iscritta dal rabbino Loew sotto la lingua o sulla fronte d’argilla dà vita al golem, ma almeno non si può non rammentare che sia la religione sia la magia si basano sull’esattezza della parola durante i riti: sbagliando le parole i riti non funzionano più, le evocazioni non hanno efficacia. Le parole giuste, quindi, producono effetti sul piano sia metafisico che reale. Mortimer per produrre effetti non solo deve pronunciare le parole esatte, ma deve leggerle sul libro, non può dirle a memoria. E non importa dove esse sono scritte, purché lo siano: per indirizzare gli eventi in un senso diverso da quello previsto dal ro-

Inkhearth vero come la finzione di Gianfranco de Turris manzo fantastico intitolato appunto Cuore d’Inchiostro, Meggie, la figlia di Mo che ne ha ereditato il potere, deve scrivere il nuovo finale sul suo braccio e quindi leggerlo. È questo anche il Potere della Fantasia o se vogliamo, in senso più lato, della Immaginazione: il mago, e qui il “medico dei libri” e sua figlia, hanno la capacità di trasferire dal Mondo Secondario al Mondo Primario le creazioni della fantasia di uno scrittore. Non solo, ma questo si rivela un duplice trasferimento: come per compensare un vuoto che non può sussistere, se qualcosa viene attratto da una parte, un’altra cosa viene spostata dall’altra. E ciò complica, come s’immagina, le cose.

Dei mondi letterari che prendono realtà e magari coinvolgono e quasi imprigionano il loro autore, se ne era occupato sin dagli anni Quaranta un prolifico

so famoso il praticamente sconosciuto Jasper Fforde: Il caso Jane Eyre (2001), Persi in un buon libro (2002), Il pozzo delle trame perdute (2003), C’è del marcio (2004), tutti editi da Marcos y Marcos. La protagonista dal buffo nome di Thursday Next (Giovedì Prossimo) fa di professione la “detective letteraria”, cioè in un mondo alternativo che si basa sulla letteratura, deve impedire che le trame dei romanzi non vengano modificate e che i personaggi, usciti da quelle legittime e codificate, non combinimo pasticci. E se non vogliamo risalire addirittura ai pirandelliani Sei personaggi in cerca d’autore, perché potrebbe essere considerato un riferimento troppo pretenzioso (ancorché legittimo), possiamo almeno ricordare La rosa purpurea del Cairo (1985), di cui è regista Woody Allen, dove il protagonista di un film che ha questo stesso titolo, stanco della mo-

La trilogia dell’autrice tedesca Cornelia Funke, da cui è stato tratto il film “Cuore d’inchiostro”, ripropone la teoria di Tolkien su Mondo Primario e Mondo Secondario, ossia sull’osmosi tra immaginazione e realtà. Antecedenti e diramazioni di un tema praticato anche da Woody Allen scrittore americano dei pulps, L.Ron Hubbard, poi divenuto fondatore prima della Dianetica poi della controversa Scientologia, che nel 1940 pubblicò sulla rivista Unknown il romanzo Typewriter in the Sky tradotto su un vecchio Urania come La trama nelle nubi. E il mondo immaginario dei libri, soprattutto dei classici inglesi, diventa una specie di multiverso alternativo che fa da sfondo addirittura a una quadrilogia che ha re-

notonia della sua parte, esce letteralmente dallo schermo e vive vita propria accanto a una sua innamoratissima fan. E perché, a questo punto, non anche un fumetto del Corriere dei Piccoli alla sua epoca famoso? Certo, proprio quel Pier Cloruro de’ Lambicchi, realizzato da Giovanni Manca nel 1930, l’inventore dell’arcivernice: spalmandola sui personaggi dei libri, dei quadri, dei manifesti, li porta a vita reale con negative conse-

guenze per lo sfortunato scienziato. Come si vede, andando a scavare in alto e in basso si possono trovare molti riferimenti a prima vista impensabili. Le idee di Cornelia Funke hanno diramazioni e antecedenti che – in maniera più o meno indiretta – si basano su una teoria di fondo: il Mundus Imaginalis, per usare il termine del francese Henri Corbin, ha una sua consistenza ed una sua esitenza, anche se non sul piano della nostra Realtà: si possono richiamare entità da esso, ci si può trasferire in esso, lo si può rendere vivo e concreto. I due Mondi, Primario e Secondario, possono essere in comunicazione: e c’è chi può trovare migliore l’uno o l’altro, come lo stesso autore di Cuore d’Inchiostro che, alla conclusione del film, chiede a Meggie di trasferirlo nel mondo fantastico che lui stesso ha creato, che ormai reputa migliore del mondo in cui vive ed ha scritto il romanzo.

Infine, non si può non notare un fatto curioso: la scrittrice tedesca, pur creando i personaggi principali dai nomi inglesi ambienta tutto il suo libro in Italia, e lo stesso autore del romanzo che è al centro della trama è un italiano, Fenoglio (peccato, però, che la copia del libro trovata in Italia abbia sempre il titolo inglese!). I paesaggi sembrano quelli delle Alpi al confine della Svizzera e la villa della zia Elinor sembra sul Lago di Como, e la città di Fenoglio una cittadina ligure (le scene sono state girate ad Alassio e Albenga), e la roccaforte del bandito Capricorno è un borgo abbandonato del comune di Balestrino.Tutto visto con gli occhi e il ricordo di una turista tedesca che ha trascorso meravigliose vacanze nel Bel Paese!


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