03_21

Page 1

Poste italiane s.p.a. Spedizione in abb. postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art.1; comma 1 - Roma • Non acquistabile separatamente da liberal

mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

QUELLA CANAGLIA DI MESRINE

In due film la storia del celebre criminale francese

di Anselma Dell’Olio vventuroso, irrequieto e avido di denaro, divertimento e gloria, l’affacomposta di molteplici e svariate correnti che resistono alla composizione in scinante bandito Jacques Mesrine è una perdurante icona frandi tre atti, come insegnano a fare nelle scuole di sceNon facile una drammaturgia cese di libertà e anarchia. È già nelle sale il primo di due film neggiatura. E poi raramente fanno centro al botteghino. I registi di impresa far brillare sulle sue sbalorditive, esplosive vite. Il plurale è meritarango non li amano sia per queste ragioni, sia perché quelle rato per i numerosi travestimenti, giravolte, trasferte, mogli, re volte che incontrano il favore del pubblico, se ne attribuisullo schermo una vita. Jean amanti e fughe contenuti in una carriera piuttosto sce il merito all’attore protagonista. (Un maestro come François Richet c’è riuscito. E Vincent lunga per un criminale intemerato e spavaldo coPeter Weir, regista di Master and Commander e me lui, morto a 53 anni e dichiarato Nemico Truman Show, ha detto di aver giurato a se Cassel veste bene i panni del “nemico pubblico stesso che non avrebbe mai girato né una biopubblico n. 1 francese negli anni Settanta. Il N. 1”. Il risultato è che “Istinto di morte” grafia né un film d’animazione). Il primo dei due regista Jean François Richet e lo sceneggiatore Abe “L’ora della fuga”, in uscita film, Istinto di morte, inizia con una convenzione classidel Raouf Dafri hanno vinto una sfida temibile, che ben conosce chiunque affronti l’ostico genere del film biografico. ca del film biografico: il decesso, anche se in questo caso è il 17 aprile, inchiodano A Hollywood li chiamano biopic con spregio, per l’enorme diffipiù corretto definirlo un abbattimento. lo spettatore coltà di far brillare sullo schermo una vita, che per definizione non ha continua a pagina 2 solo due o tre trame da intrecciare in un plot canonico. Ogni singola vita è

A

9 771827 881301

90321

ISSN 1827-8817

Parola chiave Povertà di Sergio Valzania Viaggio intorno a Patti Smith di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Libero De Libero: l’immobilismo è solo apparenza di Francesco Napoli

Alberto Beneduce, il Signor Iri di Giancarlo Galli

con un intervento di Mauro Canali

Piccioni: chiaroveggenze su una “Lavagna bianca” di Pier Mario Fasanotti

Le vedute interiori di Carlo Guarienti di Marco Vallora


quella canaglia di

pagina 2 • 21 marzo 2009

mesrine

segue dalla prima

cuni critici si sono lamentati perché la parte di Dépardieu è generica, poco approfondita, come quelle di molti altri che si avvicendano intorno a Mesrine. Si tratta di uno dei tanti scogli che rendono accidentata la scrittura di uno script biografico. In un film narrativo normale il protagonista è affiancato da un numero limitato di personaggi che lo accompagnano, chi più chi meno, dall’inizio alla fine del racconto. Così è possibile sviluppare personaggi secondari più complessi. Ma in una vita movimentata e spesso dedicata alla fuga come quella di Mesrine, le persone intorno a lui cambiano di continuo; con ogni new entry bisogna ripartire da zero nel delineare il suo rapporto col protagonista, prima che sparisca per essere sostituito da altri. Eppure si accetta questo susseguirsi di mini ritratti, per quanto abbozzati, perché i due film hanno un gran bel ritmo sostenuto. E chi se ne importa se «il linguaggio» non è innovativo, e se i molti primi piani lo rendono suscettibile della definizione «televisiva». Avercene, in Italia, non uno ma due film consecutivi dello stesso regista, che inchiodano come Istinto di morte e L’ora della fuga. Faremmo molto volentieri a meno del calligrafismo, dei virtuosismi o dei citazionismi cinefili di molti autori italici, che così raramente hanno qualcosa di affascinante da imbellettare.

Si capisce subito che c’è da fidarsi quando Mesrine (Vincent Cassel) e l’ultima compagna Sylvie (Ludivine Sagnier) issano pesanti valigie in auto per una fuga furtiva. Quante volte abbiamo visto film in cui è fin troppo evidente che bagagli, supposti pieni per ragioni di copione, sono chiaramente vuoti? Si espira contenti: siamo in buone mani. Richet ha imparato bene con Assault on Precinct 13, remake del classico poliziesco di John Carpenter degli anni Settanta, che il suo forte sono le scene d’azione. Quel film è stato criticato per un eccesso d’esposizione e di scavo sui personaggi. Non ha ripetuto l’errore. I film sono tratti dall’autobiografia di Mesrine, da lui scritta in prigione perché non sopportava di essere trascurato dai giornali, prima dell’ultima, spettacolare evasione. Questo particolare appartiene al secondo film, L’ora della fuga, che esce il 17 aprile. Mesrine ci mette in guardia lui stesso contro la propria mitomania. Nel libro rivendica una quarantina d’omicidi. Il suo avvocato (Anne Consigny) gli chiede se è pazzo: tra due mesi sarà processato e lui confessa tutti quegli omicidi? La polizia aprirà vecchi casi irrisolti e scaveranno per trovare i cadaveri. Mesrine risponde che scaveranno a lungo, perché lui li ha inventati per «dare più ritmo» al racconto, per compiacere i lettori; è certo che nessun tribunale lo crederà così folle da mettere per iscritto certe cose, se fossero vere. È un dettaglio rivelatore di questo «uomo dalle mille facce» e dalla personalità multiforme e sfuggente. È un violento, un rapinatore, un rapitore, un delinquente, un vendicativo, un atroce maschilista e anche un homme à femmes, un galantuomo, spiritoso, arguto, generoso, leale con gli amici e mantiene la parola come pochi.

Il primo film è dedicato ai suoi inizi, il secondo agli ultimi, movimentati anni: per forza di cose comprimono e saltano molti passaggi. A grandi linee corrispondono a quello che si sa; ma sopratutto, funzionano e non annoiano. Incontriamo Mesrine come soldato nella guerra d’Algeria, dove partecipa alla pesante repressione dell’esercito francese dei partigiani del Fronte di liberazione nazionale, la cui resistenza è celebrata da Gillo Pontecorvo in La battaglia d’Algeri. (In propria difesa, Mesrine scrive che gli hanno insegnato a sparare al suono della Marsigliese, e lui ci ha preso gusto e non ha mai smesso.) Al ritorno in patria suo padre, un bravo borghese del ramo tessile, gli trova un posto in un’azienda che produce pizzi. Dura poco: una pacifica routine e la tirannia dell’orologio non fanno per lui. Le sue amicizie delinquenziali e la destrezza con le armi gli rendono assai facile imboccare la strada che porta oltre il confine del codice penale, per lui sempre una materia opinabile. Comincia anche a farsi le ossa con periodi in gattabuia. Durante una vacanza s’innamora di una brava ragazza spagnola, con la quale fa tre figli. Per un breve periodo prova a raddrizzarsi con un lavoro legittimo, per amore della famiglia. Ma appena si trova disoccupato non esita a ributtarsi in braccio a Guido, il suo vecchio boss (Gérard Dépardieu, con faccia cadaverica grazie a quintali di cerone). Al-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

Entrambe le parti sono avvincenti e sarebbe un peccato non vederle tutte e due. Il primo film racconta la giovinezza, l’impazienza di un uomo sopra le righe che sembra non dubitare mai di se stesso, ma che sente ancora il richiamo, per quanto flebile, di una vita normale. Alla fine farà il salto definitivo nell’illegalità, orgoglioso della sua stessa fama e assetato di risarcimenti e vendette per una propria idea non del tutto balorda della giustizia. Il secondo film, per il quale Cassel si è appesantito per calarsi negli anni più maturi del mito, è dedicato alle molte e spettacolari fughe da prigioni in Francia, Canada e Stati Uniti, e alla spericolata vita da gangster gonfio di denaro altrui, con pupa adorante appresso e spese pazze per gioielli, vestiti e auto di lusso. Sempre in cerca di nuovi complici, per via di arresti, discussioni e morti violente, negli ultimi anni s’intriga e inizia a pasticciare con il terrorismo rosso, attraverso un ex compagno delle carceri speciali, Charlie Bauer. Mastica un po’ di demagogia marxista-leninista, è affascinato dalla banda Baader-Meinhof e si diverte a riattizzare l’interesse dei media con slogan anticapitalisti, pro domo sua. Durante la sua ultima fuga, terminata a Porte de Clignancourt, dice a Sylvie che a breve andrà con Charlie a Milano per incontrare le Brigate Rosse. Di spirito indipendente, geloso della sua autonomia e libertà d’azione, amante della bella vita, non sarebbe durato a lungo il sodalizio con i criminali massimalisti e le loro rigide regole, vita spartana e processi interni. C’è molto più onore e lustro nell’aver finito la sua carismatica, cruenta carriera da fuorilegge in un agguato della polizia tante volte beffata, che nell’essere eliminato (inevitabilmente) come deviazionista o indisciplinato da una congrega d’invasati illusi, parecchio più stolti e fetenti di lui.

NEMICO PUBBLICO N. 1 - L’ISTINTO DI MORTE GENERE AZIONE DURATA 113 MINUTI PRODUZIONE FRANCIA, CANADA, ITALIA 2008 DISTRIBUZIONE EAGLE PICTURES REGIA JEAN-FRANÇOIS RICHET INTERPRETI VINCENT CASSEL, CÉCILE DE FRANCE, GÉRARD DEPARDIEU, ROY DUPUIS, ELENA ANAYA

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via di Santa Cornelia, 9 • 00060 Formello (Roma) Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938

Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 - 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: redazione@liberal.it Web: www.liberal.it Anno II - n° 12


MobyDICK

parola chiave

olo gli uomini si dividono in ricchi e poveri, è un loro strano privilegio. Nel regno degli animali questa separazione non esiste. Il leone non è un re ricco, mentre neppure il più rognoso dei cani randagi viene considerato povero. Nel mondo sono stati gli uomini a elaborare con pazienza e determinazione la prassi e le categorie della proprietà e a seguire della ricchezza, di un rapporto privilegiato con alcuni beni capace di trascendere il semplice possesso, l’uso abituale, per diventare qualche cosa di più intimo, quasi assoluto, e riproducibile oltre ogni limite fisico. Così, poco per volta, nel corso dei millenni si sono costruite distanze abissali fra ricchi e poveri. Intere regioni della terra si sono liberate con fatica dai vincoli atavici che le legavano alla fame e alle malattie, mentre altre sono precipitate in condizioni di indigenza diffusa e scandalosa, private persino dei rudimentali sistemi di organizzazione della sopravvivenza che un passato lontano aveva consegnato ai loro abitanti.

S

Nello stesso tempo la divisione fra ricchi e poveri si è calata in ogni contesto, quasi in ogni comunità umana, con un visus di ingiustizia dolorosamente offensivo, tale da ledere con evidenza il principio conquistato con fatica dell’uguaglianza fra gli uomini. A nulla sono valsi gli sforzi fatti per eliminare gli squilibri economici, a volte a prezzo di rivoluzioni e di spargimenti di sangue. A tutte le riorganizzazioni egualitarie e virtuose faceva seguito l’inasprirsi delle differenze e delle ingiustizie, tanto che alla fine è sembrata prevalere una stanchezza rassegnata, disposta ad accettare e rendere legittime anche le distanze più grandi. Nessun guadagno, nessun arricchimento, nessuna continuità di lusso appare più ingiusta o immorale, mentre la povertà, persino quella che lede i diritti elementari, fino a insidiare quello alla vita, viene giudicata molte volte l’esito di una necessità cieca, alla quale gli uomini non si possono opporre. Neppure la globalizzazione dell’informazione, l’arrivo in tutte le case delle immagini dei luoghi della disperazione sembra capace di attivare meccanismi capaci di affrontare la questione con speranza di successo. Davanti a questa consapevolezza si pone il messaggio delle beatitudini, che nel vangelo di Luca si apre con le parole «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio». L’imbarazzo provocato in noi abitanti della parte ricca del mondo non viene attenuato di molto dal fatto che in Matteo la proprietà del regno di Dio venga attribuita ai «poveri in spirito». Il tema della povertà, affiancato a quello che don Milani definiva «lo scandalo della ricchezza», attraversa come un filo rosso tutta la riflessione etica sviluppata nella storia, per investire di conseguenza ogni teoria politica. Come ripartire beni che non sono illimitati? E come premiare chi è capace di creare benessere per tutti? Si tratta di domande, e risposte, che possono contare su declinazioni sofisticate. Per esempio c’è

21 marzo 2009 • pagina 3

POVERTÀ Non solo una situazione materiale, che in contrasto con lo “scandalo della ricchezza” attraversa la riflessione etica e la teoria politica. Ma uno stato d’animo necessario per comprendere il mondo e godere delle sue vere occasioni di arricchimento

Le beatitudini e Nuvola Rossa di Sergio Valzania

I poveri chiamati ad abitare il regno di Dio non sono gli sconfitti di questo mondo. Non sono coloro che hanno perduto la gara della vita. Al contrario, proprio perché hanno riconosciuto i doni ricevuti sono i vincitori nella città degli uomini e avranno il privilegio di vivere nella città di Dio chi riconosce la necessità di far accumulare il capitale in modo che esso possa essere fruttuosamente investito per far prosperare la collettività, mentre altri ricordano che solo l’ereditarietà dei beni fa sì che qualcuno faccia tesoro dei propri averi in modo da lasciarli alla discendenza, anziché dilapidarli, e che così si costituisce la base di ogni possibile stabilità sociale. Ma proprio oggi, quando siamo di fronte a una crisi della quale non sappiamo riconoscere i contorni, sentiamo un fastidio maggiore per i racconti che ci provengono dall’America attorno alle ric-

chezze ammassate da quegli stessi che con le loro operazioni finanziarie preparavano il disastro per tutti. Vengono in mente le parole di un capo indiano, ricordate qualche mese fa a Torino da Carlin Petrini, in occasione dell’inaugurazione di Terra Madre, assemblea mondiale degli artigiani della produzione alimentare. Di fronte al Congresso degli Stati Uniti Nuvola Rossa rivendicava con grande dignità la situazione di disagio del suo popolo affermando: «Noi siamo poveri perché siamo onesti». Le implicazioni di quella frase, suggerite anche dall’occasione nella quale veniva ripropo-

sta, sono molto complesse e si collegano con il discorso delle beatitudini. In questo contesto interpretativo ricchezza e povertà non sono più situazioni puramente materiali, esiti di vicende più o meno virtuose, condizioni fenomenologiche distribuite lungo un percorso lineare, che incolonna gli uomini e le donne a secondo del loro patrimonio. La povertà si trasforma in qualche cosa di più complesso, diviene una sorta di stato d’animo necessario per comprendere il mondo e godere delle sue vere occasioni di arricchimento. Mentre avverte il Congresso delle ragioni della povertà del proprio popolo, Nuvola Rossa denuncia uno squilibrio etico, pronuncia una condanna. Lo stesso aveva fatto Gesù Cristo quasi duemila anni prima. I poveri chiamati ad abitare il regno di Dio non sono gli sconfitti di questo mondo. Non sono coloro che hanno perduto la gara della vita. Al contrario, proprio perché sono i vincitori nella città degli uomini avranno il privilegio di vivere nella città di Dio. Si tratta di coloro che hanno riconosciuto i doni di Dio e li hanno saputi far fruttare e non si sono lasciati abbagliare dalle lusinghe di occasioni diverse, fra le quali campeggia quella della ricchezza. Qui la povertà diviene rapporto non rapace con l’esistente, attenzione a godere della bellezza del mondo e dei sentimenti, a cimentarsi con lo studio e con la preghiera e nello stesso tempo rifiuto di quel genere di appagamento che è ottundimento dei sensi ma soprattutto delle tensioni spirituali.

Nei Salmi ricorre spesso un’invocazione particolare. Si chiede a Dio di «mostrare il suo volto». La contemplazione del volto di Dio è insieme un dono concreto e la metafora di un rapporto correttamente compiuto con la propria vita. Lo spogliarsi delle vesti fino alla nudità di san Francesco testimonia del suo porsi davanti al volto di Dio senza privazioni, ma in pienezza, senza sofferenza, ma nella gioia dell’incontro. Quando si parla della morte si ricorda che si tratta di una porta che bisogna attraversare nudi. Secondo la fede dei cristiani quello è il momento privilegiato dell’incontro con Dio: non è strano che per viverlo nel modo migliore sia richiesta la povertà, intesa come mancanza di attaccamento ai beni terreni, ma non alla propria dimensione spirituale. La vita è un cammino in molti sensi. In quello del movimento permanente, in quello del portare in ogni momento in sé le proprie ragioni di essere, nella necessità di avere un bagaglio leggero, ma anche nel costituire la migliore forma di allenamento per la propria prosecuzione. Chi ha affrontato viaggi a piedi sa che ogni giorno che passa il fisico si adatta meglio all’andare, le gambe si irrobustiscono e il fiato aumenta, anche lo spirito si rafforza e diviene amico della fatica. Ma per camminare felici è necessario uno zaino che non pesi troppo, solo così ci si può godere il percorso. Se poi occorre liberarsene in modo definitivo al momento dell’arrivo non ci sarà un rimpianto eccessivo, soprattutto a paragone di quello che ci aspetta.


MobyDICK

pagina 4 • 21 marzo 2009

dvd

avalli. Rossi. Che corrono nella prateria. Ripresi al rallentatore. Il film Dream Of Life (accompagnato dal libro Vita di sogni. Le rivoluzioni di Patti Smith), comincia così. Citando Horses, l’album che nel 1975 la consacrò poetessa del rock metropolitano. E lei, in uno dei momenti più toccanti della pellicola diretta da Steven Sebring, stringe fra le mani un’antica urna persiana che raccoglie le ceneri di Robert Mapplethorpe: l’amico fraterno, il fotografo che la catturò in bianco e nero sulla copertina di Horses. Se cercate solo la musica nello struggente viaggio attorno all’arte di questo miracolo di donna ossuta, faccia da apache e capelli arruffati, avete sbagliato indirizzo. In due ore, di musica, c’è solo qualche fulminante scheggia: Beneath The Southern Cross, My Generation, Gloria, Rock’n’Roll Nigger… E poi, lei che canta Bob Dylan pizzicando «Bo», la sua chitarra Gibson del ‘31. E intona folk in-

C

musica

Viaggio intorno a

Patti Smith di Stefano Bianchi sieme al commediografo Sam Shepard. E suona il clarino su una spiaggia deserta, accompagnata dalla tromba di Flea dei Red Hot Chili Peppers. Tutto il resto del dvd, in bianco e nero con qualche scoppio di colore, racconta dodici anni di vita vissuta dentro e fuori l’America, sui palcoscenici e nei backstage. Nel silenzio ovattato dell’intimità domestica. È il ’95, quando Patti Smith si sente pronta per ricominciare. Non incide

dischi dall’88 e sta per pubblicare Gone Again. La morte del marito, il chitarrista Fred «Sonic» Smith, è una ferita che non si cicatrizza. Conosce il fotografo Steven Sebring. Si «annusano»: lui le scatta alcune foto e non la lascia più andar via. La pedina, fino al 2007, con la videocamera concretizzando il «sogno di una vita». Dando cioè corpo alla cantante, donna, madre, poetessa, scrittrice, fotografa, pittrice. Patti Smith a 360

gradi. Che si racconta. E racconta, in Dream Of Life, i suoi amori letterari: Walt Whitman, William Blake, Arthur Rimbaud, Sylvia Plath, Allen Ginsberg e Wiiliam Burroughs, compagno di bevute a El Cojote. Che rivive la NewYork dei primi concerti col pugno alzato al CBGB’s e le notti sgualcite al Chelsea Hotel. Si rivede bambina guardando un vestitino handmade e raggiungendo la casa di legno col caffè di papà, la cucina con le mucche della mamma e gli hamburger da gustare tutti insieme. Patti Smith: voce rauca, sorriso dolcissimo. Ribelle e asceta. Rockeuse e aristocratica. Che gira l’America e l’Europa, l’India e il Giappone: in jeans, anfibi e una giacca che pare uno straccio. Monaci tibetani e autostrade, devoti mantra e gli Usa sfregiati da George Bush, si rincorrono in un flusso incessante di sequenze. L’indomita Patti, che voleva diventare Maria Callas, Billie Holliday e Lotte Lenya; e non si sarebbe mai sognata di entrare in una rock and roll band, nel privato dipinge quadri pensando al forsennato dripping di Jackson Pollock. E si congeda dal «sogno» dicendo: «La mia missione è comunicare, svegliare la gente. È dare la mia energia. E accogliere la loro». Patti Smith, Dream Of Life, Feltrinelli Real Cinema, 17,90 euro

in libreria

mondo

riviste

DOSSIER PAVAROTTI

IL RITORNO DI PETRUCCI & CO.

«P

uò sembrare sorprendente che Luciano Pavarotti, dopo aver toccato livelli di popolarità planetaria senza precedenti per un cantante, abbia detto, poco prima di morire, di voler essere ricordato come un tenore d’opera […] In realtà, questo desiderio, confessato come una sorta di testamento spirituale, rivela la piena consapevolezza che il personaggio me-

P

adri del metal prog, sulla cresta dell’onda da vent’anni, dieci milioni di dischi venduti in tutto il mondo. I Dream Theater tornano il 23 giugno con il nuovo album Black Clouds & Silver Linings. John Petrucci, Mike Portnoy e John Myung si riprendono la scena con sei nuove tracce vigorose, che ripropongono la consolidata alchimia tra sperimentazione e virtuosismo

«U

Mauro Balestrazzi rivisita la figura del tenore al di là del sensazionalismo mediatico

Esce il 23 giugno ”Black Clouds & Silver Linings”, atteso album dei Dream Theater

La colonna sonora dell’ultimo film di Muccino esalta il plot drammatico con archi e piano

diatico aveva finito col fagocitare l’artista, o quello che ne restava, relegandolo in secondo piano». Nell’incipit del suo Pavarotti dossier (L’Epos, 268 pagine, 28,30 euro), Mauro Balestrazzi preannuncia il filo conduttore del volume: l’intento di liberare il cantante dalla fitta minutaglia di schegge mediatiche, da quel sensazionalismo incessante che lo ha reso prigioniero del suo appeal. Oltre le chiacchiere, e le menzogne talvolta imbarazzanti come quella che lo voleva incapace di leggere la musica, Pavarotti dossier indaga la carriera del maestro emiliano con rigore documentario. I rumori fuori scena passano, la sua voce resta.

tecnico, che è da sempre il marchio di fabbrica della band. Accompagnato da una special edition contenente tre cd, di cui uno di cover (ancora ignote) e uno di tracce strumentali remixate, il lavoro di Petrucci e soci sarà supportato da un tour mondiale. A sostenerli sul palco, i già annunciati Pain of Salvation, Zappa plays Zappa e Beardfish. Un grande ritorno, che presenterà ancora una volta brani di impatto filosofico come A nightmare to remember e A rite of passage, primo video tratto da Black Clouds che sarà girato a fine marzo.

cino su colonne sonore.net. Firmata dalla musica inedita di Angelo Milli, la scrittura dei brani aderisce bene al plot drammatico di Sette anime. Molto curati, i movimenti eseguiti dalla Hollywood Studio Symphony Orchestra, vedono in primo piano la sezione d’archi e il pianoforte, alternati in un tappeto sonoro segnato dalla sospensione. Quasi impalpabili Seven Days Seven Seconds e Seven Names, è invece notevole Sarah, brano che brilla per compostezza e fa delle lunghe note tenute uno degli episodi più felici della tracklist. Così come il Requiem, che apre il finale di Sette anime a squarci di lirica cupezza.

a cura di Francesco Lo Dico

LE SETTE ANIME DI MILLI n lavoro indubbiamente da apprezzare, a opera di un artista ancora acerbo ma già, stando all’ascolto di questa Seven Pounds, in grado di gestire in modo ragionato, puntuale e preciso, il corpo orchestrale e di scrivere pagine indubbiamente degne di una moderata attenzione». Così, Valerio Mastrangeli giudica la soundtrack dell’ultimo film americano di Muc-


MobyDICK

21 marzo 2009 • pagina 5

zapping

LA PARABOLA DISCENDENTE dell’ex “diavola” Madonna di Bruno Giurato a diavola dello Zeitgeist a pollastra di provincia. Madonna avrebbe dovuto buttarsi in politica al tempo giusto, quando era ancora maritata col regista farlocco e aveva la cittadinanza inglese. Glielo avevamo anche suggerito, qui dalla colonnina di liberal Mobydick (la signora Ciccone non legge i giornali giusti): buttarsi in politica, coi laburisti. Madonna aveva tutto per far dimenticare Gordon Brown: presenza, passato sgallettato che ormai è tutto valore aggiunto, senso manageriale ed estetico. Ed era una working class hero (o meglio working class heroin, il nuovo oppio, sintetico, dei popoli) che si è fatta da sola e sa scegliere i suoi collaboratori. Aveva tutto ciò che serve per buttare via il passato popstar e cavalcare lo spirito del tempo con piglio diavoligno, la Madonna vestita non d’umiltà ma di latex, fitness e sogni. Avrebbe dominato il mondo. E invece no. Prima pianta il marito regista, come un’attricetta o cantantucola qualsiasi. Poi torna a New York e si mette con un modello brasiliano di 22 anni, appena un gradino sopra la sciura che si fidanza coll’istruttore di pilates. Infine, per completare la regressione da star a squinzia, si fa fotografare mentre va a una festa vestita da scolaretta: gonnelina, calze a rete, camicia, cravatta nera e gilet gessato. Quale sarà la prossima mossa? Tornerà a fare foto osé come ai tempi belli? Tornerà a dire cavolate da David Letterman? La riprenderanno disabbigliata dove non batte il sole mentre scende da una macchina, come Britney Spears? Hai voglia a costringere tutti quelli che ti stanno attorno a convertirsi alla Qabballah e a mangiare macrobiotico. Senza una salto di livello, artistico o politico, qualsiasi trovata freak si risolve in una parabola sciampistica.

D

teatro

Fellini visionario in forma di musical di Enrica Rosso ollywood 1956: il premio Oscar per il miglior film straniero viene assegnato a La strada di Federico Fellini nell’interpretazione dell’indimenticabile Giulietta Masina e di uno splendido Anthony Quinn (chi non ricorda l’inconfondibile timbro di Arnoldo Foà magnificare le proprie doti di mangiafuoco?). 2009: Massimo Venturiello e Tosca interpretano Zampanò e Gelsomina nella Strada in scena al teatro Valle di Roma fino al 29 marzo. Diciamo subito che, nonostante la matrice comune e il medesimo titolo, diversissime sono le strade intraprese per estrapolare il nucleo poetico dal romanzo di Jack London a cui entrambi si ispirano. All’adattamento teatrale di Tullio Pinelli e Bernardino Zapponi tratto dall’omonimo film e che ne mantiene inalterati i dialoghi, Venturiello, forte della presenza in scena di Tosca, addiziona una partitura musicale d’appoggio piuttosto consistente che diventa linguaggio referenziale per l’intera compagnia. Et voilà il gioco è fatto: signore e signori si cambia genere. Eccoci dunque ad assistere a un’operina: 2 ore e 20 di teatro musicale. Germano Mazzocchetti compone le musiche di sapore circense e Nicola Fano e lo stesso regista le ornano di parole. Svelato il trucco tutte le scelte successive si rivelano essere consequenziali. Ecco quindi che un’onda lunga di colori e suoni e luci riverberanti ombre di tendoni e profumo di zucchero filato invade lo spazio scenico. Alessandro Chiti costruisce una struttura tutto sommato neutra che oltre a offrire vari piani di azione si limita a indicare un generico esterno, una strada appunto, che con l’ausilio del disegno luci di Vincenzo Raponi assume di volta in volta differenti personalità. I costumi di Sabrina Chiocchio materializzano presenze importanti della visionarietà felliniana componendo in scena una varia umanità in libera uscita dalle pellicole del Maestro: la morbida Gradisca di Amarcord, la Maria Maddalena e la Gobba del Casanova, gli artisti aerei e i pagliacci del Circo… La compagnia di cantanti attori sembra totalmente a proprio agio in questo disegno, in particolare il matto sognatore di Camillo Grassi, e si presta complice a una regia che sembra esaurirsi nell’idea iniziale volta soprattutto a

H

coordinare i movimenti in scena di questo drappello di strane creature. Tosca ha un’energia forte e passionale che viene tenuta a bada nelle attitudini del corpo ma che vibra alta nell’aria quando canta, in netto contrasto con la fragilità lunare del personaggio. Una Gelsomina pavida e concreta che, come da copione, fa i conti con lo stomaco e con l’età che avanza, ma che perde di vista la risata cristallina che si porta dentro, lo stupore infantile e temerario che la trascina verso la disfatta. Massimo Venturiello smorza i toni dell’omone Zampanò, scegliendo di restituire un essere profondamente solo, un orfano ruvido, che non riesce più a cogliere il bello dell’esistenza. La prima romana è stata salutata da calorosi applausi e dedicata allo sceneggiatore Tullio

Pinelli recentemente scomparso. A coronamento del progetto il foyer del teatro accoglie, nell’allestimento dell’Eti in collaborazione con Nuove Strategie, la mostra Federico Fellini: tra sogno, magia e realtà. Il materiale esposto proviene dall’archivio di Roberto Mannoni, amico, collaboratore ed erede storico del Maestro, ed è visibile al pubblico nell’orario di apertura del teatro per tutta la durata delle repliche.

La strada, Roma, Teatro Valle fino al 29 marzo, info: 0668803794 www.teatrovalle.it

festival

Contaminazioni rock e soul a Umbria jazz

di Adriano Mazzoletti i annuncia un cartellone di grande livello per Umbria Jazz 09: star indiscusse del pop, del soul, del blues e naturalmente del jazz che si alterneranno sul main stage dell’Arena Santa Giuliana, nei teatri, nei club e nelle piazze». Con questo annuncio la direzione artistica di Umbria Jazz ha recentemente reso pubblico parte del programma dell’edizione 2009 che si svolgerà a Perugia fra il 10 e il 19 luglio. Ma vediamo subito quali sono i nove appuntamenti, sette dei quali però dedicati al mondo della canzone e del rock. La deriva verso altre musiche che era già stata constatata nelle scorse edizioni del festival, quest’anno si fa maggiormente evidente. Gli appassionati di jazz avranno solo la possibilità di applaudire Chick Corea che incontrerà Stefano Bollani (lunedì 13 luglio) e Wynton Marsalis che

«S

James Taylor ospite di Umbria Jazz

con la Lincoln Jazz Orchestra, martedì 14, riproporrà con Francesco Cafiso, il concerto-evento del 19 gennaio scorso tenuto in occasione dell’Inauguration and Martin Luther King jr. Day all’Eisenhower Theater at the Kennedy Center di Washington, una delle iniziative che hanno preceduto il giorno dell’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti. Con piacere vediamo tornare Francesco Cafiso notato nel 2002 al Festival del Jazz di Pescara proprio da Wynton Marsalis, che lo volle subito scritturare per il tour europeo in programma per l’anno successivo. A 13 anni, fu per lui la definitiva consacrazione internazionale. Da allora, il giovane musicista siciliano non si è più fermato, esibendosi nei maggiori festival di tutto il mondo e ottenendo anche l’International Jazz Award assegnato ai migliori giovani talenti dagli organizzatori di festival. Ma Cafiso è uno dei rari musicisti eu-

ropei a esibirsi con regolarità accanto ai grandi del jazz, ricordiamo fra i molti Hank Jones, Joe Lovano e la Count Basie Orchestra. Le altre serate programmate all’Arena faranno felici gli appassionati della canzone, del rock e della soul music che potranno applaudire, Paolo Conte, Steely Dan, i Simply Red, Burt Bacharach, George Benson, James Taylor, Donna Summer e Tuck and Patty. Umbria Jazz però non lascerà completamente a bocca asciutta gli appassionati che durante il festival avranno modo di ascoltare fra gli altri Roy Haynes, Ahmad Jamal, McCoy Tyner, ma anche Flavio Boltro, Paolo Fresu, Rosario Giuliani, Enrico Pieranunzi, Danilo Rea e Renato Sellani oltre al redivivo trombonista George Lewis che per tre giorni con una orchestra di ventun musicisti proporrà un revival della musica improvvisata così in auge negli anni Settanta.


libri L’isola e il continente secondo Niffoi MobyDICK

pagina 6 • 21 marzo 2009

narrativa

di Maria Pia Ammirati ei trentatré libri promessi dall’autore, Adelphi pubblica il quinto, Il pane di Abele, un romanzo, come accenna il titolo, sulla fratellanza e sull’amicizia. L’autore, Salvatore Niffoi, è uno scrittore «nuovo» arrivato alle cronache e alla popolarità nel 2005 con La leggenda di Redenta Tiria e passato agli onori della letteratura con la vincita del Campiello nel 2006. Oggi quest’ultimo romanzo non scontenterà i lettori affezionati alla tipica affabulazione di un romanziere vorace e sanguigno, darà il destro ancora una volta a quella critica che legge in Niffoi una costruzione manierista e tipicizzata sullo sfondo di una Barbagia che sembra fondale di cartone. I luoghi dello scrittore ci sono tutti a cominciare dalle rappresentazioni dei personaggi sardi, a quella delle donne niffoiane (furbe, forti, aggressive), ai piccoli mondi rurali, alla presenza dell’animalità (le bestie sia produttive che selvagge), fino alla rappresentazione dello scontro, che è scontro tra due pensieri, due civiltà, due mondi venuti a stretto contatto che regolano in maniera privata i loro conti. Si accenna ancora una volta, come in La vedova scalza e Redenta Tiria, al tema della giustizia fra gli uomini, sottratta alla legge vigente e riportata alla spietatezza dell’affare privato. Anche per questo la carnalità dei romanzi di Niffoi resta un fattore costante e dirimente, perché se è

D

vero che la giustizia è roba privata il più delle volte il meccanismo si compensa con omicidi dove il sangue scorre a volontà. La carnalità si fonde con un altro importante ca-

talizzatore che è la lingua usata dallo scrittore, una lingua ridondante e barocca sempre alterata metaforicamente, lo spessore linguistico ed espressivo ricalca la forza delle sce-

ne, la durezza della vita, l’aggressività dei maschi e la scaltrezza delle donne, un paesaggio arcaico. Cose e parole si rappresentano per un tutt’uno, perché rappresentano un

mondo lontano ma perenne nella sua fissità. Così nel Pane di Abele la visione dei due mondi che si fronteggeranno, per scontrarsi infine, è limpida fin dalle prime pagine: due bambini che partono dall’adolescenza e si legano di un’amicizia tenace e cameratesca ma che sono l’isola e il continente. Zosimo che «aveva imparato da piccolo a scaldarsi le mani stringendo i capezzoli delle pecore durante le mungiture», il giorno del suo compleanno ingoia tre spicchi d’aglio verdi per tenere lontani i vermi; Nemesio, il bambino vestito alla continentale che arriva nel paese di Zosimo a seguito della famiglia «a cinque anni sapeva leggere e scrivere anche se nessuno gli aveva mai insegnato niente». Nella loro diversità sta la vera attrazione, la capacità di trasferire conoscenza e tradizioni da Zosimo a Nemesio, l’avventura della crescita e la sfida di una lingua ammaliante. Ma il loro essere distanti è nelle cose, perché l’uno resta a fare il pecoraio l’altro torna in continente e diventa ministro. Come avverrà lo scontro è materia di romanzo e di sorprese narrative. C’è di mezzo come sempre una donna, un po’ madre un po’ puttana, figura sensuale e torbida, la donna di Niffoi è la lingua madre, generatrice ma alla bisogna lucida assassina. Salvatore Niffoi, Il pane di Abele, Adelphi, 168 pagine, 18,00 euro

riletture

Pagine scelte per capire l’attualità di Simone Weil di Giancristiano Desiderio li anniversari sono occasione di riscoperte, riconsiderazioni e riletture. Simone Weil nacque a Parigi nel 1909 da una famiglia di ebrei benestanti e laici. La sua opera, al di là delle «svolte» che a torto e a ragione si sottolineano per cercare di darle una classificazione, è semplicemente attuale perché riesce a parlarci di cose che ci riguardano non solo sul piano storico e della conoscenza del Novecento (e, aggiungo, del decennio centrale degli anni Trenta) ma anche dal lato della nostra condizione. La forza del pensiero della Weil accompagna ogni sua pagina e suggerire di rileggere quel libro piuttosto che l’altro suona come parziale e ingiusto. Ci viene incontro un testo uscito ora per i ti-

G

pi della casa editrice Marietti 1820 intitolato semplicemente Pagine scelte. Un volume che consiglio vivamente di procurarsi a tutti coloro che desiderano o avvicinarsi al pensiero dell’autrice di La prima radice o riconsiderare l’intera opera dell’allieva di Alain e del suo insegnamento socratico. Il libro presenta non solo un’ampia e significativa scelta dagli scritti della Weil, ma anche un ottimo saggio introduttivo di Giancarlo Gaeta che rilegge l’opera filosofica di Simone Weil nella sua ricchezza spirituale e nella sua intelligenza viva e critica. In particolare, le prime pagine scelte - quelle sulla libertà e l’oppressione ricavate come sono dal saggio del 1934, che fu pubblicato solo dopo la morte della pensatrice, sono per noi oggi di un’attualità insostituibile. Il ti-

tolo del saggio è: Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale e fu tradotto dallo stesso Gaeta e pubblicato in Italia da Adelphi nel 1983 (mentre la prima edizione francese è del 1955 nel volume Oppression et Liberté edito da Gallimard. Uno scritto, dunque, che non è di facile reperibilità in libreria e il volume della Marietti offre la possibilità di averlo a portata di mano. Nel 1934, poco prima di lasciare l’insegnamento ed entrare in fabbrica alla Renault, la Weil aveva venticinque anni, ma le cose che scriveva in quel saggio portano già il segno di un’autonomia intellettiva e di una maturità spirituale che non si incontrano facilmente nella storia del pensiero. La forza delle parole in particolare salta agli occhi del pensiero del lettore.

«Nulla al mondo può impedire all’uomo di sentirsi nato per la libertà. Mai, qualsiasi cosa accada, potrà accettare la servitù; perché egli pensa». L’esordio del saggio è tanto semplice quanto penetrante. Si avverte la lezione del socratismo di Alain. Continua così: «Non ha mai smesso di sognare una libertà senza limiti, sia come una felicità remota di cui sarebbe stato privato per una punizione, sia come una felicità futura che gli sarebbe dovuta per una sorta di patto con una provvidenza misteriosa. Il comunismo immaginato da Marx è la forma più recente di questo sogno. Questo sogno è sempre rimasto vano, come tutti i sogni, oppure è servito da consolazione, ma come fosse oppio; è tempo di rinunciare a sognare la libertà, e di decidersi a concepirla».


MobyDICK

21 marzo 2009 • pagina 7

storia

E a Waterloo iniziò la guerra moderna di Riccardo Paradisi a Waterloo, come disse Goethe dopo la battaglia di Wilmy, comincia una nuova storia. Comincia il declino tragico e inarrestabile di Napoleone Bonaparte, l’uomo che aveva messo in moto la ruota della storia, comincia la fase di restaurazione del vecchio ordine europeo, tramonta un sogno condiviso da milioni di uomini. Ma lo snodo che Waterloo rappresenta ha prodotto nell’immaginario collettivo e nella stessa vulgata storica l’idea che l’esito di questa battaglia fosse iscritto nel destino ineluttabile del grande generale còrso, la cui stella era fatalmente tramontata. A restituire a Waterloo la sua storicità è invece ora nel

D

narrativa/2

suo Waterloo, 18 giugno 1815 lo storico di Cambridge Andrew Roberts che descrive le tappe cruciali della battaglia analizzando in modo approfondito le ragioni della sconfitta francese. È quello di Roberts uno dei resoconti più convincenti di Waterloo, dove viene dimostrato come quella gigantesca battaglia - che lasciò sul campo 71 mila uomini tra morti e feriti - fu in realtà altalenante e incerta fino all’ultimo momento. Vinse alla fine colui che commise meno errori o che potè, come Wellington, gettare nella mischia all’ultimo momento il «provvidenziale» soccorso dell’esercito prussiano. Ma allora dov’è l’unicità di Waterloo? Forse che questa pietra miliare della storia moderna fu solo in realtà uno dei

tanti episodi di cui è punteggiata la storia? No, dice Roberts: Waterloo, al netto delle filosofie della storia che ha ispirato, resta un evento di primaria importanza, che in maniera decisiva e incontestabile pone fine alla Gloire, quel senso tipicamente francese di superiorità militare che era stato il fattore centrale della politica europea. Ma Waterloo ha segnato anche altri snodi. Segna indirettamente la nascita degli Stati Uniti come iperpotenza globale. Infatti anche l’America trasse benefici dalla sconfitta di Napoleone, dato che dopo Waterloo «non si affacciò nemmeno più il remoto pericolo di un potente impero francese che potesse di nuovo nazionalizzare l’acquisto della Louisiana del 1803». E dopo la conclusione

delle due guerre contro la Gran Bretagna del 1812 e del 1815 gli Stati Uniti si trovarono liberi di espandersi verso Ovest. Waterloo, infine, è anche l’annuncio dell’inizio vero e proprio dell’impero britannico moderno e l’ultima rappresentazione di un modo antico di fare la guerra. L’inizio della guerra moderna infatti comincia proprio a Waterloo, mentre contemporaneamente l’onore, lo slancio guerriero, il gesto cavalleresco, tutta l’estetica classica del conflitto in armi hanno parte per l’ultima volta nella storia dell’umanità proprio in questo scontro. Andrew Roberts, Waterloo. 18 giugno 1815, Corbaccio, 170 pagine, 16,60 euro

La vacillante Madame Bovary di Mishima di Angelo Crespi rovate a immaginare Emma Bovary nel Giappone fine anni Cinquanta. Le stesse pulsioni, lo stesso dissidio tra etica e istinto, lo stesso spleen nei confronti della vita. Poi date questo personaggio in mano a uno scrittore raffinato come Mishima il quale tende a una vita sopra le righe, ma scrive come un grande dell’Ottocento. E avrete una sorta di Madame Bovary meno tragico, sebbene altrettanto incalzante. Solo che la cavalcata esistenziale della giovane adultera di Yonville, esposta e vitalistica e che lascerà i segni su tutto quanto le sta accanto, diventa nel romanzo di Mishima una sorta di introversa autoanalisi da cui è escluso ogni impatto

P

gialli

sul reale. Se Emma si uccide dopo aver provocato intorno a sé la tragedia, Setsuko muore dentro perché alla fine prevale la tradizione sul desiderio di rompere i precetti morali della propria società e della propria famiglia. Non per questo la storia della ventottenne Setsuko Kurakoshi, moglie e madre, in bilico tra la fedeltà al marito e la passione per un coetaneo, è meno interessante. Mishima ce la descrive con lucida estraneità, approfondendo tutti i motivi e le circostanze, tutte le necessità e le contingenze, che spingono Setsuko a tradire il marito, a far esplodere la propria repressa sensualità, a scatenare la propria gelosia, fino alla comprensione dell’inutilità di quella passione vissuta comunque fino in fondo.

Come non vedere, in una sorta di specchio biografico, riflesso il percorso dello scrittore, omosessuale, e però «costretto» per tradizione a inscenare un matrimonio con una donna e ad accettare le regole perfino di quella borghesia tanto avversata nel nome del codice aristocratico del samurai. Uscito a puntate nel 1957, Una virtù vacillante fu un successo strepitoso nel Giappone del Dopoguerra.Tanto che «vacillante» divenne sinonimo di «cedere alla tentazione dell’adulterio». Eppure il romanzo, splendido nella sua brevità, più che un trattato sull’infedeltà, è una sorta di manuale d’amore al femminile in cui vengono analizzate quasi con spietatezza le regole che ne determinano il sorgere e il morire. Alla fine, la decisione presa dalla protagonista di rompere la storia d’amore trova radici nella verità delle cose della vita, come solo un poeta può far rilucere. Yukio Mishima, Una virtù vacillante, SE, 144 pagine, 18,00 euro

ispettiamo la sapienza dei critici più raffinati, ma dobbiamo riconoscere che la narrativa ha elementi imponderabili. Leggendo l’ultima storia poliziesca di Petros Markaris, tra i più famosi scrittori greci, ci si chiede come mai il lettore possa non staccare gli occhi dalla pagina quando il commissario Charìtos discute e litiga con la moglie Adriana per il fatto che la loro figlia ha deciso di sposarsi in Comune e non in Chiesa, scontentando genitori e suoceri. Ma che c’entra con la vicenda che di lì a poco viene dipanata, tra gli splendori e il chiasso di Istanbul dove la cop-

R

«Ah! Siete voi.

Lo immaginavo». La stella era gialla, fissata su un drappo rosso, quasi fosse una quinta attaccata alla parete di fondo di quella stanza «lunga e molto stretta» dove lo avevano portato. Lui girò lo sguardo per qualche istante, poi si voltò e li fissò. «Presidente, ha capito chi siamo?». «Ho capito chi siete». Erano le Brigate rosse, quella volta certe di aver colpito al cuore lo Stato. Sono alcuni passaggi, riferiti al rapimento di Aldo Moro che compaiono in Qui Brigate rosse, il racconto, le voci (Baldini Castoldi, 784 pagine, 22,00 euro) di Vincenzo Tassandori. Attingendo alle sue personali esperienze, ai dialoghi con i protagonisti, allo studio dei documenti giudiziari e dell’organizzazione, di calarci nella quotidianità dei brigatisti, nella preparazione degli agguati, nei retroscena dei pentimenti.

Nell’università

italiana governano i «Baroni»: uomini di potere abituati a gestire l’Accademia come un giocattolo personale, a premiare la fedeltà anziché la libertà, a preferire un mediocre candidato «locale» a un ottimo candidato «esterno». Cose risapute, si dirà, ma seguire l’odissea di chi è stato massacrato da questo sistema universitario fa ancora più impressione. E rabbia. I baroni. Come e perché sono fuggito dall’università italiana di Nicola Gardini (Feltrinelli, 203 pagine, 13,00 euro,) è una denuncia e una confessione di dieci anni passati a barcamenarsi tra concorsi fasulli, scadimenti di ruolo, umiliazioni professionali. Il protagonista alla fine diventa professore a Oxford, dove vince un concorso pur non avendo conoscenze.

Il riconoscimento

In cerca della balia Maria per i vicoli di Istanbul di Mario Donati

altre letture

pia è andata in vacanza? L’episodio fa parte della loro vita. Vero, ma non basta. È il modo in cui fa parte che è interessante: e qui l’autore - anzi: ogni autore - sfodera la sua abilità nel creare a tutto tondo l’atmosfera e l’ambiente in cui il detective lavora. La riuscita dipende dal grado di calda familiarità conseguita. Markaris ci porta non solo nei meandri di una storia poliziesca, ma anche nei dintorni di vari caratteri e situazioni. Risultato: Charìtos diventa il nostro amico: se lo incontrassimo per strada gli chiederemmo tante cose, compresa quella che ha a che vedere con la figlia. L’abile scrittore ci «affilia». Il commissario di Atene s’imbatte per caso nella

sparizione della novantenne Maria, che fu balia d’un uomo che, allarmato, vorrebbe trovarla. Si sa che era partita dalla Grecia a bordo di un pullman. Dove sia andata è un mistero. Certamente in Turchia, dove lavorò come servetta dall’età di 12 anni. Si viene a sapere, con la collaborazione un po’ elettrica tra polizia ellenica e quella turca, che il fratello è stato trovato avvelenato da una torta di formaggio (la tyròpita), che stessa sorte è capitata alla signora Kalliopi. Maria la balia sarebbe la responsabile. Non altri. Dietro a questo dramma c’è quello storico dei «romei», i greci che a ondate sono stati fatti allontanare forzosamente dalla Turchia. Un esodo biblico: nel

1921 erano due milioni e mezzo, ma il numero scese drasticamente a 500 mila. Poi nel 1955 un altro pogrom, organizzato dall’allora dittatore Menderes. La tribolata infanzia di Maria, i suoi antichi e mai sopiti rancori social-familiari fanno da sfondo a un’incredibile catena di omicidi da pasticceria. Le indagini rincorrono un esserino minuto e fragile, sul punto di cedere. Charìtos e il suo omologo turco, con cui ha scontri ma anche un’intesa sulla pietas, s’infilano nei vicoli colorati e disordinati della Città, così come viene chiamata l’antica Costantinopoli. Petros Markaris, La balia, Bompiani, 288 pagine, 18,00 euro

giuridico di un nato come figlio del padre era nell’antica Roma affidato al diritto: il padre riconosceva come proprio suo figlio sollevandolo da terra in presenza di testimoni. Le cose cambiano nel XX secolo con l’irrompere della scienza sulla scena: prima le analisi del sangue poi il Dna permettono di stabilire con crescente certezza l’identità del padre. Oggi è superata anche questa fase: le tecniche di fecondazione eterologa infatti costringono ad avviarsi verso una nozione di paternità che prescinda dal mero dato biologico, ponendo l’enfasi sul ruolo. Giulia Galeotti nel saggio In cerca del padre (Laterza, 265 pagine, 20,00 euro), ricostruisce la storia dell’identità paterna dall’antichità all’età contemporanea. Un affresco utilissimo a capire il percorso della paternità. a cura di Riccardo Paradisi


MobyDICK

pagina 8 • 21 marzo 2009

ritratti

ALBERTO BENEDUCE FAUTORE NEGLI ANNI TRENTA DELL’INTERVENTO DELLO STATO NELLE BANCHE (TEMA DI SCOTTANTE ATTUALITÀ), IDEÒ L’ISTITUTO PER LA RICOSTRUZIONE INDUSTRIALE DI CUI È STATO PRESIDENTE FINO AL 1944. LA FIGURA DEL POTENTE E MISTERIOSO BANCHIERE, AMICO DI MUSSOLINI, CHE HA RIMODELLATO LA FINANZA ITALIANA RACCONTATA IN UNA BIOGRAFIA DA FRANZINELLI E MAGNANI

Mister Iri di Giancarlo Galli e nostre banche sono «malaticce». Un po’ per i loro misfatti, soprattutto perché il virus perverso che imperversa nel sistema finanziario internazionale le ha contagiate. In quale misura è impossibile capire, in quanto chi sta in alto, e dovrebbe sapere (dal premier Berlusconi al superministro Giulio Tremonti, sino al governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi), ci vanno ammannendo bollettini medici rassicuranti. In sostanza: la malattia c’è, ma meno grave che in altri Paesi. Che sia davvero così, s’ha da sperarlo. Nei mesi a venire sapremo se la diagnosi, tutto sommato benigna, risponde a verità. Comunque, fra una dichiarazione «dal sen sfuggita» e la successiva smentita a denti stretti, s’è cominciato a ventilare l’ipotesi di una nazionalizzazione delle banche anche in Italia. Per lo meno di quegli Istituti che versano in particolari difficoltà. Riportando la sfera degli orologi economici all’indietro di ottant’anni, agli anni Trenta del secolo passato. In quel periodo, di fronte a una crisi che presenta molte analogie con l’attuale, il governo fascista nazionalizzò i tre pilastri (barcollanti) del sistema bancario italiano: Banca di Roma, Credito Italiano, Banca Commerciale, facendole assorbire dal neonato Iri, Istituto per la ricostruzione industriale.

L

Ideato, voluto, presieduto (sino alla primavera del 1944, alla vigilia della Liberazione di Roma), da un abile quanto potente e misterioso banchiere, a nome Alberto Beneduce, che godeva del raro privilegio di dialogare direttamente con Mussolini a Palazzo Venezia. Spesso incontrandolo di buon’ora, mentre il Duce si sbarbava. Con eccezionale tempestività, la Mondatori ha dato alle stampe un interessante e intrigante saggio su Beneduce. Scritto a quattro mani dallo storico Mimmo Franzinelli e dall’economista Marco Magnani. Entrambi autorevoli e dal prestigioso curriculum. Franzinelli con all’attivo una serie di volumi sui molti volti del fascismo (in particolare: I tentacoli dell’Ovra, da Bollati-Boringhieri; La Repubblica del Duce, Mondadori); Magnani con monografie di economia industriale, in cui ha sfruttato la sua posizione alla Banca d’Italia, dove dirige il servizio statistiche. Impegnarsi in una biografia su Beneduce non era facile, trattandosi di un terreno per così dire minato, poiché si trattava di gettare un cono di luce su uno dei personaggi che dopo aver rimodellato la finanza italiana, venne gratificato dall’establishment dell’Italia tornata democratica di un oblio «giustificazionista». Tant’è che quando sia il bravo Fabio Tamburini e chi scrive con due biografie di Enrico Cuccia (rispettivamente: Un siciliano a Milano, Longanesi; Il padrone dei padroni, Garzanti), provarono a scavare su Beneduce, si trovarono dinnanzi a un muro di silenzio. Finendo anche dimenticati, persino nelle note, da Franzinelli & Magnani. Semplice dimenticanza o perché il Tamburini e il Galli erano stati piutto-

sto severi nei giudizi etico-politici sul Beneduce, del quale gli attuali biografi danno in taluni passaggi l’impressione di essersi un tantino innamorati? O, con una punta di malignità, non sarà perché il «misterioso Beneduce», fautore dell’intervento dello Stato nelle banche, abbia finito col trasformarsi in un modello al quale gli attuali governanti attingono a piene mani alla vigilia di non improbabili nazionalizzazioni? Chissà!

Accantonando le dietrologie, stabilito che Franzinelli & Magnani hanno scritto un ottimo libro che il ribaltamento dello «specchio dei tempi» proietta nell’attualità (le nazionalizzazioni bancarie, appunto), rientriamo nel seminato. Raccontando del Beneduce Alberto da Caserta (Napoli), anno di nascita 1877. Alberto è figlio di un tipografo partenopeo, protoso-

Di formazione risorgimentale, repubblicana e laicista, fu pupillo di Nitti e autorevole esponente della Massoneria. Pose l’economia nazionale al servizio dello Stato fascista ma fu l’anello di congiunzione con l’Alta Finanza mondiale

Quell’impunità per il caso Matteotti di Mauro Canali i è nella vita di Alberto Beneduce un periodo, quello tra il 1924 e il 1926, che permane abbastanza oscuro, e che è collegato al suo coinvolgimento nella vicenda del delitto Matteotti. Fu infatti una iniziativa partita da Beneduce a costringere Mussolini, nel gennaio del 1925, a imboccare la strada che avrebbe condotto alla costruzione del regime totalitario. Cesare Rossi, uno dei più stretti collaboratori di Mussolini, «eminenza grigia» del suo governo, nonché capo della Ceka fascista, la polizia segreta al servizio del capo del governo, dimissionato dal suo capo e inseguito da un mandato di cattura emesso contro di lui per il ruolo svolto nell’esecuzione del delitto Matteotti, aveva trovato rifugio in casa del deputato socialista riformista Attilio Susi, suo grande amico. Convinto che la propria vita corresse seri pericoli, aveva affidato a un memoriale il racconto di tutti gli atti di violenza politica direttamente ispirati da Mussolini, ed eseguiti dalla Ceka tra il 1922 e il 1924. Do-

V

po aver affidato il memoriale a Susi, s’era consegnato alla magistratura. Il documento era stato sottratto a Susi da suo genero Alberto Virgili, che lo aveva consegnato appunto ad Alberto Beneduce. I protagonisti della vicenda erano tutti autorevoli rappresentanti della massoneria di Palazzo Giustiniani. Massoni erano Rossi, Susi e Virgili, e massone era Beneduce, iscritto col numero 19574 alla loggia G. Bovio di Roma. Beneduce aveva consegnato il memoriale al capo della massoneria giustinianea, Domizio Torrigiani, grande nemico del fascismo. Beneduce sapeva bene che il documento sarebbe stato utilizzato contro Mussolini. Infatti Torrigiani lo consegnò a un altro «fratello» molto autorevole, il deputato Giovanni Amendola, che lo mostrò al re, pensando che questi, considerata la gravità del contenuto del documento, si decidesse a dimissionare il capo del fascismo. Ma non fu così. Allora Amendola consegnò il memoriale Rossi al direttore del Mondo, Alberto Cianca, che lo pubblicò alla fine di dicembre


MobyDICK

21 marzo 2009 • pagina 9

cialista e mangiapreti dichiarato. Il fratello Ernesto è affiliato alla massoneria, che non perde tempo nel portarlo in Loggia. Grembiulino, compasso, cappuccio, carriera assicurata. Studia all’Università di Napoli, s’iscrive al partito socialista. Si sposa a vent’anni, e avrà cinque figli. «Nessuno dei quali viene battezzato», precisano i biografi. Per completezza: l’ultima nata, Nuova Idea Socialista (nome che verrà poi progressivamente riassunto in Nuova Idea, infine in Idea tout-court), andrà successivamente in sposa a Enrico Cuccia, nel 1939.

Seguiamo i tempi, le evoluzioni di Beneduce. Stando ai biografi: «La sua formazione è risorgimentale, repubblicana, laicista, in cui l’istanza anticlericale e massonica si coniugano».Trasferitosi a Roma all’inizio del Novecento, il giovane Alberto, fresco di laurea, tramite il confratello sindaco Ernesto Nathan trova una poltroncina e un regolare stipendio nei ministeri. Destreggiandosi fra le varie correnti socialiste, diviene il pupillo del socialriformista Francesco Saverio Nitti, antagonista dichiarato del liberale piemontese Giovanni Giolitti. Non è uno di quei burocrati che scaldano le poltrone, il Beneduce. Onore all’intraprendenza. Nonché alla lealtà, tipica della gente meridionale. Pupillo di Nitti (coetaneo nato in quel di Melfi, Basilicata), sensibile al tam-tam delle Logge, lo segue come un’ombra. Discreta ma vieppiù potente, e ispiratrice della «visione sociale e civile che ben si combina con l’appartenenza alla Massoneria, di cui diviene esponente fra i più autorevoli, tanto da scalarne la gerarchia sino al massimo grado», spiegano i biografi. Nitti è un radicale; i socialisti passano da scissione in scissione. Beneduce è prudente: mantiene la tessera, ma quando nel 1912 Mussolini fa espellere dal partito Leonida Bissolati e Ivanoe Bonomi, in punta di piedi si defila. Nitti gli offre (1913) una candidatura alla Camera, quale premio per una battaglia vittoriosa: la costituzione dell’Ina (Istituto nazionale delle assicurazioni), che ha suggerito all’amico Nitti, ministro del Tesoro. Arriva la Grande Guerra, e «don Alberto» come lo chiamano ormai amici e incensatori, ha da indossare la divisa. Mobilitato il 10 giugno 1915 (a trentotto anni!) col grado di sottotenente del genio territoria-

La sua politica bancaria ha fatto comodo a molti: oltre a salvare le banche, ha protetto il sistema industriale, pubblicizzando le perdite e lasciando ai privati gli utili. Un modello che lo specchio dei tempi proietta nel nostro presente

del 1924. Fu il culmine della crisi, che Mussolini superò con il discorso del 3 gennaio 1925, e con la trasformazione del suo governo in un regime autoritario e repressivo. Beneduce era stato eletto deputato nel 1919 e nel 1921 nelle file del partito social riformista di Bonomi e Bissolati, ma poi, maturata una forte crisi di sfiducia nei confronti della vita politica, aveva deciso di rinunciare alla candidatura nelle elezioni del 1924. Aveva tuttavia conservato rapporti stretti con alcuni settori della democrazia parlamentare, e la consegna del memoriale a Domizio Torrigiani rappresentava quindi un gesto coerente con le proprie convinzioni. Gli interrogativi della vicenda sono legati piuttosto ad altre considerazioni. Finché l’istruttoria del delitto Matteotti era rimasta nelle mani della magistratura ordinaria, l’assoluto riserbo dei giudici Del Giudice e Tancredi aveva garantito la segretezza degli atti istruttori. Il governo era stato tenuto del tutto all’oscuro del procedere delle indagini e di ciò aveva sofferto Mussolini che non aveva potuto approntare alcuna contromisura per arginare l’offensiva della magistratura. Ma nel dicembre 1924, Giuseppe Donati, direttore del giornale cattolico Il Popolo, male interpretando la prudenza degli inquirenti, aveva denunciato De Bono per correità

nel delitto Matteotti. De Bono era un senatore e pertanto poteva essere giudicato solo dal Senato riunito in Alta Corte di giustizia. I senatori componenti la commissione istruttoria senatoriale poterono così prendere visione degli atti istruttori fino ad allora raccolti, e Mussolini seppe in tal modo chi aveva collaborato con la magistratura e chi aveva contribuito alla crisi del suo governo. Seppe anche del compromettente ruolo svolto da Beneduce nella vicenda del memoriale Rossi. Cosa della vicenda appare dunque inspiegabile? Superata la crisi politica, Mussolini non aveva esitato a perseguitare tutti coloro che, durante la crisi Matteotti, lo avevano, in un modo o nell’altro, tradito o avevano contribuito a metterlo in difficoltà. Rossi venne incarcerato e riottenne la libertà solo dopo quattordici anni. Susi, Virgili e Alberto Cianca, si rifugiarono in Francia. Amendola pagò con la vita. Domizio Torrigiani finì al confino. Dei personaggi legati alle vicende del memoriale Rossi solo Beneduce se la cavò o, meglio, venne lasciato in pace da Mussolini, che finì anzi per affidargli la direzione di settori delicati della finanza nazionale. Anche se poté contare su alte protezioni, tuttavia l’impunità di cui Beneduce godette, nonostante il ruolo compromettente svolto durante la crisi Matteotti, continua a restare tuttora inspiegabile.

le, è spedito fra Tagliamento e Carso. Dopo pochi mesi, scatta un congedo «temporaneo», destinato a trasformarsi in definitivo. Per l’intercessione (documentata) del dominus della Banca d’Italia, Bonaldo Stringher. Beneduce non ha sparato un colpo di fucile, né sentito odor di trincea.Tuttavia, registrano correttamente i biografi, «quell’esperienza gli varrà l’aura del volontario di guerra, che d’ora in avanti ne illuminerà la biografia e avrà un certo ruolo nella candidatura alle elezioni politiche del 1919». Infatti, con Nitti al governo, Beneduce assume la presidenza del Crediop, ente da lui concepito per erogare mutui. Due anni dopo (1921), rieletto deputato, è ministro del Lavoro nel governo Bonomi, il penultimo dell’Italia liberale. Il fascismo sta per agguantare il potere, e Beneduce che fa? «Alberto è smarrito», scrivono i biografi. «All’inizio del 1924 quando si profilano elezioni anticipate, rinuncia al seggio parlamentare e manifesta pubblicamente quel distacco dalla vita politica di fatto già praticato dalla Marcia su Roma». Da quel momento, al pari di tanti esponenti del mondo imprenditoriale e finanziario, Alberto Beneduce sceglie di «lasciar passare la nottata». Stando ai biografi (nella fattispecie assai compiacenti): «Pur restando antifascista, decide di abbandonare la politica per dedicarsi a tempo pieno alle istituzioni finanziarie, sostenuto dall’influente capo della Banca d’Italia, Bonaldo Stringher. Mussolini, lungi dal penalizzare l’ex avversario politico, ne valorizza le straordinarie qualità e stringe con lui un patto fiduciario che non verrà mai meno». (Per inciso: Nitti, esule a Parigi, bollerà di tradimento l’ex pupillo). Ha ben motivo di essere soddisfatto e riconoscente, il Duce. Lo spiega lo stesso banchiere, nella relazione al consiglio d’amministrazione dell’Iri (trasformatosi nel frattempo da «provvisorio» in «permanente»), dell’aprile 1937: «Poiché la situazione bancaria diventava sempre più tesa e soprattutto critica (…) con un deciso intervento [si sono avute] le convenzioni con i tre maggiori Istituti di credito che li estromettevano d’un colpo da tutte le posizioni industriali rappresentate sia da azioni che da crediti; fissando la nuova condotta che le banche devono seguire e le forme precise che avrebbero regolato il debito (…). Il Regime avverte che sta per giungere il tempo nel quale può imporre la sua disciplina in tutto l’ambiente bancario. Lo Stato afferma così [con la legge del 12 marzo 1936] il suo netto dominio, non soltanto per regolare la forma, ma anche per regolare il merito di rapporti vitalissimi per la vita della nazione. La Banca al servizio dello Stato. La grande industria organizzata per settori e controllata dallo Stato, il quale avrebbe affermato la sua preminenza».

Uomo dal duplice volto, Beneduce. Se su un versante pone l’economia nazionale al servizio dello Stato fascista, sull’altro costituisce l’anello di congiunzione con l’Alta Finanza mondiale, americana e inglese, largamente imbevuta di massoneria. Sino alla vigilia della guerra, sarà, con frequentissimi viaggi, il banchiere-plenipotenziario incaricato di «accreditare» Mussolini nei santuari della finanza anglosassone. In particolare in Gran Bretagna, nell’entourage di Winston Churchill. Il suo potere comincerà a declinare, anche a causa di gravi problemi di salute, con lo scoppio delle ostilità. Nell’ultima stagione della sua vita, in una Roma ancora occupata dai tedeschi, riceve il conforto di amici banchieri, come Raffaele Mattioli e Donato Menichella oltre che del genero Enrico Cuccia (tutti «dipendenti» dell’Iri); mentre nessun processo di collaborazionismo viene intentato. E non solo poiché è passato ad altra vita: si tratterebbe di mettere in discussione una «politica bancaria» che, tutto sommato, ha fatto comodo a molti. Infatti l’Iri, in via diretta o indiretta, oltre a salvare le banche, ha «protetto» il sistema industriale: pubblicizzando le perdite, lasciando ai privati gli utili, come nel caso degli Agnelli e dei Pirelli. Con lo Stato che, oggi, sta rientrando a vele spiegate nei gangli dell’economia, il «modello Beneduce» sembra dunque di scottante attualità. Col passato che ritorna, un interrogativo: c’è un «nuovo Beneduce» nel nostro futuro e chi, da dietro le quinte, potrebbe reincarnarlo?


MobyDICK

pagina 10 • 21 marzo 2009

Ristampato “Lavagna bianca” di Leone Piccioni

1963 diario di un anno, anticipando il Duemila di Pier Mario Fasanotti n tempi così slabbrati, in tempi in cui chi si occupa di cultura spesso si ritrova, perché nella vita ha sgomitato o gli vien chiesto di tuffarsi dentro, a dover indicare questo o quello scrittore al grande pubblico e allora, per esserci a tutti i costi o per far presto, compila noterelle ammiccanti o polemiche, arredate magari da un voto scolastico, di quelli reintrodotti dal ministro in carica. Dietro quelle parole s’intravede la piroetta, il non detto, o più sovente il non sufficientemente pensato. Senza essere spietati, ecco, è questo il ritratto più triste del divulgatore culturale di oggi che, il più delle volte, sostituisce la propria frustrazione, o l’invidia, con un protagonismo giornalistico che si abbevera di titoli che causino provocazione o polemica.

I

Piccole considerazioni che vengono a galla leggendo Lavagna bianca di Leone Piccioni (edito dai Quaderni del Circolo, 259 pagine, info 0971 411846). Pagine che sono il diario del 1963. E a questo punto il lettore cortese ha subito la tentazione di dire che sono attualissime. A parte la deferente cortesia che si deve a uno studioso e critico letterario come Piccioni, la realtà uno non la può cambiare: sono attuali eccome. Segno non solo di un esame approfondito, ma anche di una chiaroveggenza che non nasce certo da sola, per incanto, semmai è concimata da continue comparazioni intellettuali, da riflessioni compiute sacrificando (ma per Piccioni non era gran sacrificio, come egli confida) la mondanità cinguettante e scansando il vizio italico di preferire il narcisistico e chiassoso monologo al pacato e costruttivo dialogo. Piccioni, nel capitolo «Un’alluvione di libri», si rammarica che «i classici non entrano più nel giro delle nostre meditazioni», che l’«attualità noiosa» tenti molti a sbandierare il capolavoro del mese. Basta sfogliare, 47 anni dopo, certi settimanali per provare fastidio verso certi recensori che, come scriveva Piccioni, scrivono frettolosa-

libri

o la misteriosa studentessa torinese, e poi il «desiderio di ferirle o di vendicarsene». Ma Fitzgerald non è così lontano dalle Langhe. Da lui, annota Piccioni, «è venuta l’indicazione narrativa di una nuova presenza romantica dell’amore o dell’innamoramento, collegata però ai fatti della nostra epoca, al cinema, o al jazz, alla vita dei giovani, o alle notturne corse con le macchine, allo spazio della vita meccanica d’ogni giorno, pur sostenuta da una possibile carica vitale d’amore; la provvisorietà, l’indifferenza e il delirio, il telefono, l’aereo, l’immediato e drammatico mutamento di scena, di esperienza, di vita». Pavese aveva un «minor dono lirico», ma sperimentava a fondo e collocava le sue creature nelle notti in collina, «nelle feste alle ville dei signori, tra la gente elegante e disperata, pur in un mondo di provincia, quasi dialettale all’origine». In entrambi gli scrittori s’avverte odore di «tempi accaniti, disagiati e aridi», tempi in cui «il povero cuore non ha appigli». Scrivere di un libro è relativamente facile. Non lo è il far vibrare ciò che c’è dietro. Prendiamo il Tommaso Landolfi di Rien va, e allora Piccioni abbozza un ritratto di quell’uomo che voleva e disvoleva, che nutriva il suo bel «dispitto», il dare e il ritrarsi di un essere complesso che rischiava sempre di fare il karakiri, che corteggiava la morte evitando però il masochismo cicisbeo. Certi lettori, e Piccioni lo sa bene, potrebbero sentire «la fumisteria», il gioco paradossale e compiaciuto su temi filosofici attorno ai quali è stato detto tutto o quasi. No: Landolfi parla di sé «in modo che altri si possano riconoscere». E vale la diaristica di Landolfi a confermare: «Sono stanco di questi giochetti d’intelletto. Oggi è una meravigliosa giornata… ed io sono affranto… Che vaneggiamento senza prode è il mio di certi giorni!».

Una delle grandi passioni di Piccioni si chiama Carlo Emilio Gadda. I due si conobbero, prima a Firenze, poi negli studi romani della Rai. Il critico L’infuriare dell’inflazione libresca, il vizio italico letterario confessa che un cerdi preferire il narcisistico monologo al costruttivo to modo di comprendere il Gran Lombardo (e il suo medialogo, i recensori frettolosi e tuttologi… passare dalla linE poi cinema, musica, letteratura. Chiaroveggenze raviglioso gua al dialetto, contrariamene riflessioni attraverso Leopardi, Pavese, te al percorso più battuto) peccava di rigidità. Ci si deve acFitzgerald, Landolfi, Gadda ecc. ecc. costare al Gadda uomo, al suo nucleo dominante: «il trascormente «un paio di cartelline su tutto di Un esempio, Piccioni scrive di Cesare Pa- rere degli umori e sentimenti, il loro actutto, senza informazione di precedenti, vese e trova una forte assonanza con cavallarsi, incastrarsi, sovrapporsi, sì senza quadratura né storica né cultura- Francis Scott Fitzgerald. Al di là delle ap- che i diversi stati d’animo non sono più le». L’approfondimento e l’indagine? È da parenze e oltre il dato incontestabile che diversi, non sono momenti che si succedire: rende pochino in termini economi- il narratore piemontese non ha mai tra- dono a momenti: costituiscono una muco-giornalistici. Avvertenza di Piccioni - e dotto o prefatto l’americano. Eppure il fi- tevole fissità, un superbo modo di saripeto: siamo nel 1963 - sull’«infuriare lo di congiunzione esiste e ne è rimasta piente interpretazione della realtà». È dell’inflazione» libresca, e sulla necessità traccia in una lettera a Davide Lajolo: utile oltreché gradevole ricordare la vis di «salvare i valori veri: per lo meno quel- «Non ho voluto tradurre io i libri di que- polemica, sempre grottesca e affilatissili che tali ci sembrano». Ma perché l’ope- sto scrittore per la Casa Editrice perché ma, di Gadda, le sue frasi che sono i cazrazione riesca, lo studioso deve sicura- mi piacevano troppo e anche perché ero zotti dell’intelligenza. Dissacrava se mente incasellare quel che legge e si fa già intento a scrivere qualcosa su quel stesso mettendo alla berlina gli altri, e lo materia di riflessione, ma deve altresì ri- metro». Affermazione onesta e importan- faceva con la sua proverbiale timidezza. trovarsi dinanzi a una metaforica biblio- te, che ci riporta al «tema della donna e Una timidezza ritrosa, dietro l’ossequio teca i cui gli scaffali sono privi di paratie dell’amore nella sua invenzione poetica». e l’ironia. Si rilegga questa sua frase: o comunque muniti di vasi comunicanti, Piccioni salta a piè pari la pedanteria ac- «L’autore non può rimpiangere la sua in modo tale che l’intera materia pulsi con cademica e ricorda i problemi di Pavese inesistita giovinezza». Schiaffi di tale voci interne, molteplici ma non l’una con le donne, la sua polemica con gli es- portata oggi - Lei converrà, caro profesignorante dell’altra. seri femminili, la seducente «voce rauca» sor Piccioni - sono merce rarissima. Sopra Leone Piccioni A sinistra, dall’alto: Landolfi, Gadda e Pavese


video Protagoniste I MobyDICK

tv

21 marzo 2009 • pagina 11

n modo sempre più accentuato la televisione riproduce la vita quotidiana, esaltandone a volte le qualità e a volte i vizi. E i vizi, o lo squallore, diventano spettacolo: vedi Grande Fratello, La fattoria e altre scempiaggini voyeuristiche. Purtroppo viviamo in tempi in cui uno come Maurizio Corona, il paparazzo che si crede onnipotente, non viene fischiato per strada, ma corteggiato dai giornali e da varie antenne. Su Sky ha trovato un suo spazio l’universo femminile. A essere sincero penso che la rappresentazione di questo mondo venga fatta secondo stereotipi che le stesse donne, quelle intelligenti, vorrebbero vedere abbattuti. Mi riferisco al programma Protagoniste. Il titolo è forte e sa di revanche. Come dire: l’antenna è nostra e ce la gestiamo noi, maschi avvisati: non rompeteci le scatole, il protagonismo non è più vostro. Si siedono a un tavolo Marina Terragni, Anna Galiena,Valeria Graci e Ilaria Ingleri. Pubblico solo femminile, e non si capisce perché: mica siamo in Iran, doAnna ve le donne - loro sì bandiera di rivendiGaliena cazioni libertarie e democratiche - sono (in alto) costrette a parlare tra di loro se vogliono e Marina essere libere. Una delle ultime puntate è Terragni, partita in tono sdolcinato, da tea-time conducono con pasticcini e chiacchiere e gridolini in con Valeria Graci e Ilaria caduta libera. Ha cominciato la Galiena Ingleri parlando del suo gatto. Si è dilungata a “Protagoniste” tal punto che c’era il rischio che anche la femminista più arrabbiata cambiasse canale dopo aver detto «ma che me frega!». La Terragni, dall’aria super-impegnata con quella sua severità facciale, le ha dato botta descrivendo il suo cane e riproducendo il verso del suo adorato quando ha voglia del biscottino: «Quik». In realtà era un modo per introdurre un’etologa cui porre domande sugli animali dome-

ma non libere dagli stereotipi

web

games

stici. Quest’ultima sarebbe stata in grado di spiegarci cose molto interessanti sugli animali. Qualcuna è riuscita a dirla: cani e gatti ci imitano, ma anche desiderano accontentarci, condiscendenti come sono dinanzi alla creatura (l’uomo) che si crede al centro dell’universo e impone agli altri il proprio modo di sentire e comportarsi. Ma la studiosa è stata interrotta dalle carinerie protagonistiche delle intervistatrici, travolta da presunte esigenze di brillantezza discorsiva. Risultato: l’augurio che l’etologa sia invitata in altra trasmissione e qui possa finalmente svolgere il suo ruolo. Poi è stata la volta, come ospite, di Carmen Bin Laden, cognata del terrorista numero uno al mondo. Donna sobria e bellissima, metà svizzera e metà iraniana, residente con le sue tre figlie a Londra, New York oltreché a Ginevra, ha raccontato il suo affrancamento da una famiglia, quella saudita (lei ha sposato uno dei 14 fratelli di Osama), che - ha detto chiaramente lei - si sente «l’élite della élite» e considera gli altri come cani rognosi o come nemici da abbattere e nel frattempo gente con cui fare affari (pecunia non olet anche per i «purissimi» islamici, ma guarda un po’). La Galiena faceva da traduttrice, con il suo fluent english, ma l’incrociarsi delle domande ha inevitabilmente ridotto l’intensità dell’argomento: come ci si sente a portare un nome così funesto? Una domanda, la più ovvia e forse la più attesa, non è stata formulata: signora, lei che ha visto e frequentato il sanguinario cognato, ci può dire come è, come si comporta, che cosa dice in famiglia? Per fortuna madame Bin Laden ha pronunciato frasi importanti: la ricchezza non è niente se non riesci a essere quel che vuoi essere; le donne hanno libertà di fare shopping ma non di pensare, e nemmeno di lasciare l’Arabia Saudita; l’élite fondamentalista, che ha radici più vaste di quel che possiamo immaginare ed è convinta di potere e di dovere dominare il mondo. Chi volesse sapere di più, compri il suo libro, Il velo strappato (2004, Piemme editore). (p.m.f.)

dvd

I “SOLDI VERI” DELLO SPAM

GLI UOMINI NUOVI ON LINE

IN DIRETTA DA NAIROBI

D

opo la distruzione del pachidermico McColo, provider responsabile dell’inquinamento delle caselle mail di milioni di navigatori, il fenomeno dello spam (invio di messaggi spazzatura non autorizzato) si era dimezzato. Sembrava a tutti una lieta novella, ma era solo un rito di passaggio. Il mail bombing è tornato infatti più adulto che mai nel volgere di pochi mesi. Le at-

G

ioco di ruolo che scaraventa il web in pieno umanesimo, I Regni Rinascimentali è nato nel 2004 a opera della Celsius on line, per diventare negli ultimi anni un vero cult per gli appassionati. Diverso dagli altri Mmorpg, (indifendibile acronimo che sta per Multiplayer online roleplaying game) impone al giocatore che spera in una lunga permanenza, buone relazioni con gli al-

l punto da cui siamo partiti era il tentativo di rendere autori ragazzi che generalmente sono oggetto dei media, e di scoprire attraverso il loro punto di vista un nuovo modo di guardare il mondo che li circonda». Giulio Cederna e Angelo Loy presentano così il loro Tv Slum, progetto che ha affidato alla regia di otto piccoli ragazzi kenioti, il racconto in presa

L’università di Barkeley calcola che per ogni campagna, lo spammer incassa 7 mila dollari

”I Regni Rinascimentali” proietta i giocatori nelle dinamiche socio-politiche del Quattrocento

Sogni e speranze di otto ragazzi che filmano la loro vita nella baraccopoli keniota

tuali valutazioni parlano di un fenomeno giunto sulla soglia dell’80 per cento del numero totale di messaggi inviati. Paese leader nell’esportazione del prodotto - secondo i dati recenti diffusi da Symantec - gli Stati Uniti, detentori di un buon 23 per cento nel business della spazzatura elettronica. A seguire il Brasile, con una fetta del 10 per cento. La rinascita del settore è presto spiegata: soldi veri. Per ciascuna campagna, l’università di Barkeley valuta l’ammontare dei compensi di ogni spammer (l’odioso tizio invisibile che inzeppa le nostre caselle mail di idiozie) in circa 7 mila dollari. In tempi di crisi, sappiamo bene anche da noi che la spazzatura rende. Eccome.

tri utenti del mondo virtuale. Nessuna sfera esclusa. Politica, lavoro, agricoltura e commercio vanno curati dal giocatore con perizia e mente illuminata. In possesso di un personale lembo di terra, da scegliere tra più di 150 città e svariati regni, ciascun abitante deve mostrare capacità di influire sul benessere del territorio, costruirsi una buona reputazione e conquistare la fiducia degli altri giocatori a suon di punti fiducia. Per i più abili nel mostrarsi homines novi, c’è in palio la possibilità di governare, di imbandire cene prestigiose e coltivare velleità da mecenate.

diretta delle baraccopoli di Nairobi. Sogni, speranze, delusioni e denuncia si intrecciano in questi piccoli sguardi d’autore, senza il filtro delle sovrastrutture retoriche. La macchina da presa viaggia libera negli anfratti di una metropoli variegata, densa di contraddizioni, in cui molti giovani fanno fatica a restare nell’alveo della legalità. La creatività di cinema e teatro, e la possibilità di raccontarsi in prima persona, diventano laggiù armi di riscatto sociale. A Nairobi vivono in strada, spesso orfani, più di 300 mila ragazzi randagi. Tv slum è una finestra sul loro mondo, così come loro stessi lo vedono. Cinema puro, che è pre-cinema.

a cura di Francesco Lo Dico

«I


MobyDICK

pagina 12 • 21 marzo 2009

poesia

Un immobilismo che è solo apparenza di Francesco Napoli a parabola poetica di Libero De Libero (1906-1981) è stata alquanto particolare, formando un capitolo a se stante della poesia italiana novecentesca, vivendo la sua prima esperienza saldamente collegato agli umori degli anni Trenta, l’ambito ermetico e Leonardo Sinisgalli in particolare, e partecipando con convinzione di quella koinè poetico-culturale. Ma, all’interno di questa corrente, la sua voce si isola, pur continuando a viverne le suggestioni formali e linguistiche e, in parte seppur minore, concorrendo alla formazione della grammatica dell’ermetismo. De Libero segue soprattutto Sinisgalli, conosciuto e frequentato a Roma, e Quasimodo, un legame, quest’ultimo, che probabilmente gli valse un attacco formidabile da parte di un altro rappresentante dell’ermetismo, quell’Alfonso Gatto che sulle colonne di Campo di Marte, la rivista da lui creata e diretta con Vasco Pratolini nella fervida Firenze fine anni Trenta, parlò di «rozza e casuale dipendenza logica [di] una definizione di contenuti avuti da altri, in ispecie da Quasimodo». Ma altrettanto probabilmente Gatto aveva ben altro obiettivo in questa stroncatura di Testa di De Libero: parlava a nuora (De Libero) perché suocera (Quasimodo) intendesse. La specificità dell’azione poetica di De Libero risiede nel fatto che, unico nella sua generazione, non si è mai scostato dalla sua prima misura, è rimasto nei confini originari con immagini, lessico, costrutti pressoché invariati, insomma «De Libero è passato indenne nella selva del tempo, è rimasto cosciente e innocente, scoperto e da scoprire: una voce soddisfatta in se stessa» (Bo).

L

Libero De Libero in un manifesto al Salone del Libro di Torino

AUTOBIOGRAFIA È un veliero la mia vita dall’infanzia segnato sulla mano e l’ancora sta dentro la terra. Perciò nel mio sonno alberi fanno verde cielo ma sono oscuri i semi dell’estate mia. Se m’è fatica svegliarmi qual gallo mi rinnegherà? Fossi nato da una pianta a fianco avrei il genitore Libero De Libero da Solstizio

Nato nella provincia, a Fondi, Libero De Libero, come autoritrasse la sua infanzia, è stato «il solito ragazzo nutrito con schiaffi, fette di pane e libri d’ogni specie che, un giorno, scrive una poesia e se ne vergogna più che d’un grosso peccato, poi da giovane ci riprova e se ne vergogna di meno, ma da uomo ha continuato senza troppi scrupoli». Si stabilisce a Roma nel 1927 dove si laurea in giurisprudenza, ma il suo destino non è certo tra i banchi di un tribunale. L’anno successivo, infatti, dà vita, con l’amico Luigi Diemoz, al quindicinale Interplanetario. Vita breve, come capitava spesso ai tempi, della testata, appena otto numeri, ma una corte di importanti firme da Alvaro a Bontempelli a Moravia. Lui, De Libero, si mostra subito incline alla critica d’arte e si ritrova così nel giro degli artisti della Scuola Romana, stringendo forte amicizia con Scipione e quel Mafai cui dedicò un imponente saggio nel 1949. Dal 1935 e per tre anni diventa animatore e direttore della galleria La Cometa dove i massimi esponenti delle arti figurative d’Italia avranno lo spazio per memorabili personali. Alberto Ziveri, che espose con successo nella galleria, ricorda come «Mafai fu per De Libero l’artista

che più lo commuoveva per il suo incantato lirismo pittorico». La prima raccolta, Solstizio (1934), De Libero la pubblica grazie ai buoni uffici di Giuseppe Ungaretti che, dopo averlo letto e apprezzato, gli scrive: «C’è nella Sua poesia qualche cosa che tormenta e nello stesso tempo che trasfigura, espresso, nei Suoi momenti felici, come non ho sentito ancora da altri». Seguono con ritmo incalzante: Proverbi (1937), Testa (1938), Eclisse (1940), messe poi insieme in Scempio e lusinga (1930-1956) pubblicato nel 1972 per Mondadori che nello Specchio gli aveva già stampato l’anno prima il riassuntivo Di brace in brace (1956-1970) e che poi gli editerà l’ultima prova, Circostanze, nel 1976. La sua poesia si muove sin da Solstizio tra istanze naturalistiche e surrealismo figurativo in consonanza con Sinisgalli («Ilare un gregge arricciò l’alba/ e rondini io vidi/ coinvolte alla luce/ e assai di frumento/ mature per il viaggio,/ altre volubili mirai/ nel salice sciolto di gridi») e, sempre con Sinisgalli, condivide l’idea di un tempo scandito attraverso connotatori naturali. Così se per il poeta lucano c’è un «tempo delle vespe d’oro» per De Libero «Accaduto è il tempo delle vigne». Nel primo decennio poetico De Libero ricorre con persistenza all’immaginario barocco vestito di imagerie onirica, «Vedo i cani negli occhi/ d’aurora, il primo cavallo/ d’alba fumante si annuncia,/ altero è il secondo lampo» (Caccia). Già da Solstizio la figura del poeta, rimbaudiana («come un battello vissuto»), trova un radicamento esclusivo e robusto nella terra nativa («È un veliero la mia vita/ dall’infanzia segnato sulla mano/ e l’ancora sta dentro la terra», nella qui trascritta Autobiografia), al pari di quanto avviene negli altri ermetici meridionali Sinisgalli, Gatto, Quasimodo e Bodini. È con Eclisse (1940) che l’esperienza poetica di De Libero giunge al suo vertice evidenziando una più matura compattezza stilistica e tematica nel quale il rigoglioso immaginario delle prime prove si piega come docile fibra a una maggior rigore formale e il motivo portante dell’ermetismo, l’assenza, si concretizza in una panica adesione alla realtà («Nell’acqua corrono i giorni/ e io ardo come fieno estivo./ Nemici gli inviti al ricordo,/ eterna tu sei nell’assenza,/ a questa pianta che io sono/ bisogna la luce che sei tu»). Nel dopoguerra De Libero intensificherà, come gli ermetici tutti, gli accenti realistici e politici nel suo fare ma conservando una fedeltà quasi assoluta alla cifra espressiva degli esordi, quelli di un «Orfeo senza lira che trascina/ di nuvole e sassi i pensieri». (Sono uno di voi). Una sorta di apparente immobilismo espressivo che ingiustamente non gli valse quella considerazione critica che ben altrimenti meritava l’ardore e il fremito segreto della sua poesia.


MobyDICK

21 marzo 2009 • pagina 13

il club di calliope ai tuoi sguardi le pareti il bianco che t’allatta da ogni lato. O non sei tu un rifugio di tarli che stanno sfarinando?

UN POPOLO DI POETI Spesso sfugge cosa sia la morte calmo oceano senza venti d’impazienza fine immensa che il confine delle isole disegna

Non è la stanza è solo il circolo che porta sangue da mani a piedi.

e la dimensione

l’esistenza.

Tocca porto a porto il barco Franca Mancinelli

le verginità di rocce e mercanzie malattie tesori e frutta porge e muove come un mestolo.

LE ULTIME POESIE DI MARIO LUZI in libreria

Forse questa navigatio è la vita.

di Loretto Rafanelli i giunge come un dono inaspettato, come una epifania poetica, il libro di Mario Luzi, Lasciami, non trattenermi, nella bella verde edizione Garzanti (154 pagine, 19,00 euro), curato con perizia da Stefano Verdino. Ma ci giunge anche inappellabile quel sottotitolo Poesie ultime, e turba sapere che questo volume sancisce definitivamente la fine di un percorso, di una voce, tra le più alte del Novecento. Non avremo più libri di Mario Luzi, ma il suo lascito si sa, ed è quasi ovvio dirlo, è di immenso valore, compreso questo straordinario scritto. Di Lasciami, non trattenermi non parleremo del ritmo, della musicalità, della classicità del dettato, tutte cose risapute, essendo egli il grande maestro del verso, forse l’ultimo dei classici, seppure il geniale interprete di quella nuova linea mallarmiana che ci

C

ta esattamente così, come una poesia di disarmante onestà, che si confronta, senza remore, nel dolore e nella serenità, sul proprio percorso di vita, nella spietata consapevolezza di un bilancio finale. I versi di Luzi sono un esempio di totale verità, in lui non ci sono infingimenti, divagazioni, mimetizzazioni possibili. Egli si presenta «spogliato» e volutamente indifeso, aperto al dubbio e alle incertezze, aperto ai giudizi e alle intemperie, egli sta di fronte alla verità con la sola forza di una semplice parola, senza limiti di sorta e di convenienza. La poesia di Luzi è certamente una riflessione continua, una espressione somma di pensiero, quel pensiero poetante che Carifi chiama caritativo, e che non può essere assertivo, codificato, accerchiante e violento, bensì qualcosa che rende ciò che ci circonda nella loro interezza, nella loro sempli-

Nei versi che lo impegnarono fino agli ultimi giorni, un incalzante corpo a corpo con la vita, con la morte, con Dio, con l’amore, con l’enigma del tempo, con i ricordi, con la natura porta all’ermetismo fiorentino (con Bigongiari, Parronchi, Gatto); piuttosto del libro di Luzi vorremmo dirvi dell’emozione che ancora una volta le sue poesie ci consegnano, e questa volta forse ancor più sapendo che il poeta fu impegnato a questa stesura fino a pochi giorni dalla fine, nei suoi pieni 91 anni, in un incalzante corpo a corpo mentale con la vita, con la morte, con Dio, con l’amore, con l’enigma del tempo, con i ricordi, con la natura. Insomma non può che esserci grande partecipazione per una poesia dall’interrogazione continua, nella ricchezza di una sincerità poetica e di una intensità interiore, che lascia stupefatti.Torna alla mente leggendo questo libro, il richiamo di Saba al concetto di onestà a cui i poeti dovrebbero sottostare, onestà, si può affermare, di dire di sé, di dire dell’altro (che è pure in noi), di dire del mondo, e tutto senza incorrere nel manierismo e nel vuoto di un dettato senza forza vitale, senza sangue (tanto diffusi, aggiungo). Ebbene la poesia di Luzi si presen-

cità. Una poesia che si configura come scavo, stupore e ricerca del segreto di un «oltre» a noi vicino, nella preziosa dimensione di uno svelamento continuo. Luzi scrive un libro che rivela anche le apprensioni e le felicità di un cuore, il cuore perennemente teso a un amore. Ricordiamo a questo riguardo l’impertinente e sciocca domanda di un intervistatore, che nel 2004 chiese al poeta se alla sua età poteva ancora amare, e lui stupito più che offeso rispose: «…perché io non dovrei amare?». Un amore che si sostanzia peraltro in senso lato e non solo per la figura femminile, che pure c’è ed è intenso. Non possiamo infine tralasciare la sua sofferenza per l’amore «dimenticato», nel bellissimo poemetto iniziale egli parla della moglie lasciata anni addietro, una dura auto-requisitoria, un «deliquio» amaro («Un nodo doloroso mi stringe il cuore/… è confitto nella mente/… per lei anni d’agonia») che dice sul tanto che aveva perduto, su quel tempo penoso che se ne era andato.

Caravella Federico Rossignoli

Con il privilegio delle fondamenta delle cose, all’altezza degli orli delle gonne, crescono le tue idee sul mondo. Distanze dilatate energie arrossate, il tuo relativo è ben più dei grevi teatri. Il sorriso sempre accampa, tra le gote, divampa nei tuoi tempi sospesi …«Chissà cosa pensi…» Marina tua

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


MobyDICK

pagina 14 • 21 marzo 2009

mostre

onfessiamo una piccola deroga deontologica: un peccatuzzo, speriamo veniale. Nobilmente si dovrebbe detestare quella prassi che, ahimé, è invalsa, nel marcatale dell’arte - una delle tante - per cui un curatore, con astuzia, riesce subdolamente a recensirsi, e bene pure, la mostra che ha testé abborracciato e via, con l’inconfessato incenso grottesco di sé. No, volgarità pura: per cui è decenza star ben lontani, criticamente, da quanto ci compete, o vagamente ci concerne. Ma nel caso simpatico di Carlo Guarienti ci sia concesso un incolpevole dispensa papale. Intanto perché le mostre (una a Londra, fortemente voluta da Rossana Pittelli all’Istituto di Cultura Italiana, l’altra congeniata a Parigi dalla simpatica e italianizzante Thessa Herold. Anche se in verità a concertarsele è pur sempre Guarienti) ebbene non le ho curate io, e dunque sono in parte assolto, se ora ne parlo, con entusiasmo. Certo, c’è un testo mio, nel duplice catalogo trilingue, curato da Paola Gribaudo. Ma è un testo truccato, mascherato, uno strano dialogo (non immaginario, ma improbabile) in cui è l’Artista a parlare davvero, dunque deontologicamente non compaio altro che come il docile magnetofono-scriba, il valletto alla Watteau, che gli permette di sputar fuori seraficamente i suoi veleni contro il mondo dell’arte contemporanea e farci capire di più la sua pittura (e scultura), così incomparabile, che è difficile saper catalogare categatorialmente. Per questo, sotterraneamente e come cripticamente, la mostra stessa e il nostro dialogo, risultano dedicati al fantasma labile e sfuggente (vedi anche certi suggestivi autoritratti «assenti» del Nostro) di Fernando Pessoa. Che qui userò come subdolo grimaldello, per decifrare quest’arte così difficile da far «parlare» e addentrarmi meglio nel simbiotico immaginario visivo di Guarienti. Pessoa: lo scrittore dai mille eteronimi, dalle molteplici maschere di narratore, che s’inventa continui alter ego (eghi?) per metter in dubbio pure la propria identità. Ma tutto questo, come si può volgere in pittura, raccontare per immagini? Proviamo a leggere: «Mi sento multiplo. Sono come una stanza dagli innumerevoli specchi fantastici che distorcono in riflessi falsi un’unica anteriore realtà, che non è in nessuno ed è in tutti..». Ma questo non è già Guarienti, quel suo modo nebuloso e sabbioso (e sgranato di salsedine) d’en-

C

Guarienti vedute interiori ispirate a Pessoa di Marco Vallora

arti

trare dentro gli specchi metafisici delle cose, coseombra, che son diventate però ormai dei simulacri vuoti, pneumatici, delle immagini fantasmatiche? È quell’«archeologia del presente» di cui parla anche Sgarbi e che dà il titolo alla mostra. Pittura laica, quant’altri mai, senza fede nella realtà e nelle certezze. Pittura orientale, che evoca le interrogazioni paesistiche di monaci, che pregano il vuoto subacqueo e credono nel satori, piuttosto che nella pienezza blasfema d’un unico Dio ben satollo, foss’anche la Deità Pittura. Sismografia platonica in trance, di ectoplasmi e d’interrogativi fragili ed enigmatici come affreschi scampiti, l’arte di Guarienti più che sottrarsi e sottrarre moltiplica sottrazioni. Quasi fossero velature religiosamente sovrapposte e irrorate di stupefazione bianca queste vedute interiori, deglutite e ibernate però nel brinato luminescente d’una notte mentale, senza scampo. Ma è Guarienti che ha letto Pessoa o è Pessoa che ha visto Guarienti? Provate a sostituire «poeta» con «pittore», e «versi» con «pennellate», e state a vedere che cosa succede. «Fissare uno stato d’animo quand’anche non lo sia, in versi che lo traducano impersonalmente: descrivere le emozioni che non si sono mai sentite con la medesima emozione con cui si sono sentite: è questo il privilegio di coloro che sono poeti, perché, se non lo fossero, nessuno li crederebbe. Ci sono poeti che fanno questo coscientemente, come Fernando Pessoa. Ci sono poeti che lo fanno inconsciamente, come Fernando Pessoa. Sono troppo amico di Fernando Pessoa per dire bene di lui senza sentirmi male; la verità è una delle peggiori ipocrisie a cui costringe l’amicizia. Se il lettore troverà ingiuste queste parole che ho detto, supponga che io abbia detto quelle che lui ritiene giuste. Ciò che è giusto sarà giusto senza di me e senza di lui. Del resto, l’unica prefazione di un’opera è il cervello di chi la legge». D’accordissimo: sono troppo amico di Guarienti, spero, per non dovermi sprecare in lodi sfogate, che paion salamelecchi: trovo molti di questi quadri delle opere straordinarie, anche e proprio per la loro straordinarietà, nel panorama contemporaneo. E li vorrei tutti, per addobbare la mia stanza mentale, come un cenotaffio vivente.

Carlo Guarienti. Décoder le passé pour inventer l’avenir, Parigi, Galerie Thessa Herold, fino a marzo; Carlo Guarienti, Londra, Istituto italiano di cultura

diario culinario

Panelle e cassata, la vera Sicilia sbarca a Roma di Francesco Capozza oma si sa, non è certo quel crogiolo di culture gastronomiche così come ci si attenderebbe da una grande capitale. Rispetto a Londra, Parigi o New York, come abbiamo già avuto modo di ricordare qualche settimana fa in questo nostro appuntamento goloso, le «altre» cucine mancano di valida rappresentanza all’ombra del Cupolone. Allora parlammo di cucine etniche, stavolta siamo a rammaricarci per l’asfittica rappresentanza di cucine italiche affidabili e ineccepibilmente tradizionali. Prive, cioè, di quella fusion all’italiana che troppo spesso oltrepassa il campo dell’impresentabile, divenendo più segnatamente una vera e propria confusion. Un solido e valido faro che fa da contrasto a tutto questo è dato dalla trat-

R

toria siciliana La Norma, in via Flaminia Vecchia. Non un omaggio all’opera di Bellini, ma al tradizionale piatto isolano rappresentato da pasta condita con una salsa a base di melanzane a cubetti (rigorosamente fritte in precedenza in olio extra vergine d’oliva), passata di pomodoro e ricotta salata grattugiata al momento. Un primo piatto emblema di questo piccolo e raccolto ristorantino non distante da corso Francia, non meno degli spaghetti alle sarde (realizzati, come da tradizione, con l’aggiunta di uvetta, pinoli, finocchietto selvatico e pangrattato fatto in casa e bruschettatto in padella con un filo d’olio a far le veci del parmigiano). Prima, però, concedetevi una golosa divagazione con gli antipasti. Varia la scelta, ma noi consigliamo l’assaggio misto (a 12,00 euro) che comprende: panelle (le classiche focaccine con fari-

na di ceci), olive «cunzate» (condite, cioè, con sedano, olio siciliano e scorza d’arancia), caponata tradizionale e formaggio Ragusano d.o.p. Manca solo il «pani cà meusa», panino con la milza, e potreste sentirvi proiettati tra le strade di Palermo o di Messina. Al momento del primo, se la Norma o le alici non dovessero attrarvi, potrete comunque scegliere tra diverse paste tra cui svettano (per golosità, ma anche per prezzo) le bavette con l’aragosta.Tra i secondi da non perdere le sarde a beccafico, una sorta di involtino di pesce azzurro arrostito in forno e condito con uvetta, pinoli e finocchietto selvatico, la grigliata di pesce o, più semplicemente, la fresca e appetitosa insalata di finocchi, arance e olive nere. Arrivati a questo punto vi aspettano momenti di puro piacere (anche se il girovita non ve lo perdonerà facil-

mente): i dolci siciliani, infatti, sono un trionfo di gola, lussuria e purtroppo calorie. Non lasciatevi sfuggire, però, i cannoli siciliani fatti in casa (croccanti e friabili al punto giusto) o il gelato al pistacchio mantecato al momento e realizzato con i veri pistacchi di Bronte, la suadente cassatina monoporzione o, più semplicemente, gli ottimi sorbetti agli agrumi di Sicilia (che per una volta, vivaddio, sanno di frutta e non di composto edulcorato di infame memoria). A tutto questo faranno d’accompagnamento un ambiente raffinato ma al tempo stesso casalingo e una carta dei vini studiata per rappresentare al meglio le realtà territoriali. Spenderete all’incirca 35 euro.

La Norma, trattoria siciliana dal 1995, Via Flaminia Vecchia 731-733, Roma, tel. 06 3330210


MobyDICK

21 marzo 2009 • pagina 15

moda

Parigi, sulla passerella dove osano le donne di Roselina Salemi erto, bisognerà vedere quante donne, il prossimo inverno, avranno il coraggio di osare gli stivaloni con le giarrettiere, lasciando scoperta quella striscia di pelle candida destinata a diventare oggetto di desiderio. Quante svetteranno sui tronchetti alti 20 centimetri di Kenzo o sui trampoli rossi di Alexander McQueen che hanno richiesto studi di ingegneria per essere realizzati. Pochissime probabilmente, ma il punto non è questo. Come sempre, il buonsenso ridimensionerà le follie da sfilata e se gli stivali piumati di Givenchy (uccello del paradiso, nientedimeno) non troveranno acquirenti, a diecimila euro al paio, pazienza, non entreranno in produzione. In compenso, archiviato il viola, il grigio e il nero regolamentare si illumineranno di rosso: una borsa, una maglia, un drappeggio. Il punto è questo: mentre Milano comprime la settimana della moda in cinque giorni, Parigi tiene le posizioni e raccoglie la sfida. E molti dei nuovi creativi sono italiani: Stefano Pilati da Yves Saint Laurent, Antonio Marras da Kenzo, Riccardo Tisci da Givenchy, Marco Zanini da Rochas, Chiuri&Piccioli da Valentino. Non si tratta soltanto di mercato, di crisi, di budget che svaporano, ma di idee. Si tratta di raccontare una nuova identità femminile. Le donne ormai reagiscono più con il linguaggio della moda che con le ideologie, perciò un tailleur da karatè (Issey Miyake), un cappotto-bozzolo, avvolgente, protettivo come un’armatura (Dior) e gioielli giganteschi, da usare eventualmente come armi (Lanvin), saranno la risposta al bisogno di sicurezza, la reazione a una so-

C

archeologia

cietà aggressiva e molestatrice. La stessa donna, oserà un delicato abito sottoveste di Stella McCartney o un nude look velato d’oro stile odalisca (Dior) per conquistare uomini sempre più difficili e fragili. Potrà mimetizzarsi in un elegante minimalismo con i tailleur di Chanel, quest’anno davvero molto Coco, i colli alti e le gonne drappeggiate di Romeo Gigli o i nuovi Valentino senza fiocchi, cinture di perle, pizzi. Ma se è vero che quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare, è Jean Paul Gaultier che spinge la moda verso il limite estremo della trasgressione con le gonne a luci rosse, un look provocatorio - pelliccia inguinale e stivali - e sotto il trench, niente. Premia l’avventuriera, interessata al sesso e ai soldi, armata di frusta e cuissard, (il tipo che comprerà i sex toys nel meganegozio inaugurato da Roberto Cavalli, che amerà la pelle nera, il tocco fetish), ambigua quanto basta. E per quanto tutti, a Milano come a New York, biecamente inseguano i ricchi, che ci sono sempre, anche durante le crisi più nere, Parigi fa qualcosa di più: mette in scena le molte, contraddittorie anime di una donna che può essere seduttrice dolce o sfrontata, combattente un po’ dark, borghese eccentrica, viaggiatrice romantica, ma comunque vincente. Il problema non è adeguarsi al «che cosa si porta» e come, ma raccogliere il messaggio implicito. Le donne, idealmente infilate dentro alti stivali, sagomate da abitini stretch, ingentilite da gonne a palloncino o difese da cappotti antistupro, camminano tutte su una metaforica passerella. Ed è vietato cadere, vietato perdere.

Un modello di Balmain e uno di Miu Miu (a sinistra) della collezione Autunno/ Inverno

E dal “castello del faraone” sbuca Tutankhamon di Rossella Fabiani na statuetta del faraone egiziano Tutankhamon è stata scoperta in Mesopotamia, l’attuale Iraq. La scultura, che misura 12 centimetri, è stata datata a 3.400 anni fa. Questo ritrovamento getta una luce nuova sui rapporti tra Egitto e Regno di Mitanni durante il XIV secolo. A effettuare l’importante scoperta è stata una missione archeologica curda che da alcuni anni scava nel Nord dell’Iraq, nella Valle di Dahuk, a 470 chilometri da Baghdad. Anticamente gli abitanti locali chiamavano questo sito «il castello del faraone». L’annuncio del ritrovamento, che gli archeologi non esitano a definire sensazionale, è stato dato da Hassan Ahmed, direttore della soprintendenza archeologica di Dahuk. «La scoperta di questo manufatto mostra che il nome di “castello del faraone” non era un’invenzione dei locali ma trovava fondamento su un fatto storico. Questo collegamento finora non era noto e adesso la scoperta permette di chiarire alcuni aspetti dei rapporti

U

tra l’Egitto e la Mesopotamia e al tempo stesso consente di riprendere le ricerche archeologiche in questa direzione». Il Regno di Mitanni, uno Stato hurrita fiorito tra il 1500 e il 1350 circa a.C. nell’alta Mesopotamia, sotto il re Shuttarna, conquistò l’Assiria, sottraendola al controllo degli ittiti, contro i quali stabilì un’alleanza con l’Egitto anche attraverso una mirata politica matrimoniale.Tre faraoni sposarono, infatti, figlie di sovrani hurriti, tra cui quella di Tusharatta, che, andata in sposa ad Amenofi IV (Akhenaton), assunse il nome di Nefertiti. L’aiuto dell’Egitto mancò tuttavia proprio nel momento più difficile del regno di Tusharatta, minato da rivolte interne e dalla minaccia ittita. Il Regno di Mitanni venne infine conquistato dal re ittita Shuppiluliuma (1380-1346 circa a.C.) e reso vassallo del suo impero. Appartenente alla XVIII dinastia egiziana, il faraone Tutankhamon morì a soli 18 anni nel suo nono anno di regno, circa 1318 anni prima di

Cristo. La sua tomba venne scoperta il 4 novembre 1922 nella Valle dei Re grazie alla tenacia dell’egittologo inglese Howard Carter, finanziato dal ricco collezionista Lord Carnavon. Il ritrovamento del tesoro del «Faraone dimenticato» suscitò uno straordinario interesse in tutta Europa.Teste coronate e semplici viaggiatori si riversarono nella Valle dei Re, dove Carter, per oltre un decennio, continuò nel lavoro di restauro e di classificazione dei reperti che la tomba racchiudeva.\\u2028La fama di Tutankhamon è legata princi-

palmente alla scoperta della sua tomba anche se non possiamo dimenticare che fu proprio questo faraone che segnò la fine dell’eresia amarniana del dio unico Aton, con il trasferimento della capitale da Akhetaton, (l’attuale Tell el-Amarna, città voluta dal faraone «eretico» Akhenaton-Amenofi IV) alla città di Menfi. Il «Faraone dimenticato» evidenziò questo importante avvenimento anche con il cambiamento del nome da Tutankhaton (immagine vivente di Aton) in Tutankhamon (immagine vivente di Ammon).


pagina 16 • 21 marzo 2009

ai confini della realtà C’era una volta…

i misteri dell’universo

ul nostro pianeta esistono molte specie viventi, quante nessuno conosce con precisione. Si tratta di qualche decina di migliaia degli ordini più complessi (mammiferi, uccelli, rettili, pesci) e vari milioni del tipo più elementare, come artropodi, insetti, protozoi, batteri… per non dire delle piante, alghe, muschi e altri esseri che costituiscono la meraviglia della vita sul nostro pianeta, fino ai virus e ai prioni, sulla cui natura di esseri viventi o solo di supermolecole si è ampiamente discusso. Il numero delle specie di insetti, dei quali mi occupai da ragazzo, quando ero collezionista di lepidotteri (farfalle) e coleotteri e socio della Società Entomologica Italiana è ancora ignoto. Mezzo secolo fa, quando armato di un retino me ne andavo a caccia nelle Groane milanesi, se ne erano classificate qualche centinaia di migliaia e si pensava che dovessero essere oltre un milione. Ora si ritiene che possano essere anche una trentina di milioni, localizzate soprattutto sulla cosiddetta panoplia equatoriale, ovvero la parte alta degli alberi che svettano dalle foreste equatoriali, in Amazzonia, Africa, Borneo e Nuova Guinea e in poche altre parti.

S

Gli insetti delle panoplie sono di difficile raccolta e costringono gli studiosi a difficili arrampicate o a farsi portare da elicotteri. Di un numero forse confrontabile anche gli appartenenti agli ordini degli artropodi, protozoi e vermi vari che vivono nei sedimenti marini e nell’humus terrestre, costituendo un complesso sistema biologico la cui struttura è in gran parte ignota. Si tenga tuttavia presente che, anche se invisibili a occhio nudo, questi esserini hanno massa totale che può raggiungere nel caso di humus molto grassi e fertili anche un quarto del peso totale! Sono state consisulla derazioni presenza di materiale vivente nei suoli che hanno permesso al grande scienziato Clarbruno Vedruccio di sviluppare una apparecchiatura per lo sminamento dei campi minati (siti in Afghanistan, Iraq, Namibia, Bosnia…) dove le mine nascoste portano ogni anno all’uccisione di centinaia di persone e alla mutilazione di migliaia. Vedruccio ha sviluppato uno strumento basato su un maser che avverte la presenza delle mine perché dove esse stanno diminuisce bruscamente l’assorbimento di certe radiofrequenze prodotte dallo strumento. Da alcune migliaia di anni assistiamo alla scomparsa di una quantità indefinita di specie sul nostro pianeta, ma curiosamente ogni tanto se

MobyDICK

in Nuova Zelanda di Emilio Spedicato poi citare il gigantesco leone berbero, scomparso da 150 anni, i leoni della Tracia che tanto fastidio diedero all’esercito di Serse, attaccandone gli asini, le tigri del Caspio, Amu Darya e Tarim… Possiamo qui dire che almeno il leone berbero potrebbe essere clonato utilizzandone i resti praticamenti intatti che, insieme con quelli di altri animali e gladiatori, si trovano nell’immenso fossato sito sotto Piazza Venezia. Tali resti emersero nei lavori di sistemazione della piazza in era fascista, e furono prontamente ricoperti per il fetore

Da alcune migliaia di anni assistiamo alla scomparsa di una quantità indefinita di esseri viventi sul nostro pianeta. Come il Moa, uccello gigante di cui parlano i Maori, o il leone della Tracia che rese la vita difficile a Serse, l’okapi e il celocanto. Oggi il rischio maggiore lo corrono le api e le farfalle

ne scoprono di ignorate o ritenute scomparse da ere geologiche, anche a livello delle specie più avanzate, come mammiferi e pesci. Ricordiamo alcune delle specie perdute, sulla base di informazioni trasmesse se non di verifiche a livello di fossili. In Nuova Zelanda viveva un uccello gigante, il Moa, scomparso verso il 1200 a.D. È tesi corrente che si sia estinto causa la caccia praticata dai Maori, ma esiste la possibilità che, come affermato dai Maori, sia scomparso nel gigantesco incendio che avrebbe colpito le foreste dell’isola nel 1178 a.D., quando piccoli asteroidi caddero, formando i crateri Tapanui. Ancora più grande, e documentato da fossili, era l’uccello elefante del Madagascar, isola che è stata popolata solo in tempi relativamente recenti da uomini provenienti dall’India e dall’Indonesia, forse trasportati dai Pani, i grandi navigatori indiani. Il piccione dell’A-

merica settentrionale, presente in miliardi di esemplari, e i bisonti nordamericani sono scomparsi nel secolo Diciannovesimo, per effetto della caccia dell’uomo bianco dotato di fucili (miracolosamente un branco di bisonti sopravvisse nel Canada settentrionale e vi è presente in un grande parco a lui dedicato, il Wood Buffalo Park).

Da vari autori latini e greci, come Gellio e Ateneo, sappiamo che nel corso di una guerra d’Africa, verso il 200 a.C, i soldati romani trovarono in un fiume della Tunisia di oggi, un serpente immenso, lungo un centinaio di piedi. Cercarono di catturarlo, ma spade e lance nulla potevano contro la pelle durissima di questo rettile, che uccise molti soldati, ma alla fine perì schiacciato da massi scagliati con le catapulte; la sua testa di tre metri restò esposta a Roma per più di un secolo. Fra le varietà, o sottospecie, scomparse, possiamo

che ne emanavano. Curioso che se ne sappia così poco. Quanto agli insetti e alle altre specie cosiddette minori è difficile dire quante ne siano scomparse nell’ultimo secolo, quando inquinamento chimico ed elettromagnetico hanno creato problemi ben poco studiati. Pare che in Inghilterra negli ultimi cinquant’anni siano scomparse circa la metà delle specie di farfalle e imenotteri (cui le api appartengono). Un anno fa circa i giornali hanno parlato con preoccupazione della scomparsa di gran parte delle api, con rischi sulla pollinazione. Non tutte le piante sono soggette a pollinazione da vento o artificiale, quindi il rischio ecologico è forse il maggiore fra quelli di oggi, e nessuno ne parla. Anche se qualcuno ha scritto che la scomparsa delle api porterebbe in soli quattro anni alla scomparsa dell’umanità. Qualche volta si trovano specie nuove o considerate scomparse. Sono casi rari ma interessanti. Così l’okapi, animale molto particolare e di difficile accesso, fu trovato seguendo le indicazioni dei pigmei. Il celocanto, ritenuto perduto da milioni di anni, è stato pescato a grandi profondità presso l’isola Mauritius. E potrebbe aprirsi una possibilità simile anche per animali del tipo plesiosauro, come il mostro di Loch Ness (il corpo di un simile animale è stato ritrovato su una spiaggia australiana) o lo yeti, con le sue varietà asiatiche e nordamericane, forse associabile al gorilla o forse all’uomo di Neanderthal.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.