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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Una nuova tendenza nel mercato editoriale

I LIBRI DEI FIGLI di Pier Mario Fasanotti i può dare retta alle percentuali. È sempre buona cosa. Ma le piccole va«Nelle librerie la mamma sa dove andare, trova cioè spazi dove cercare quel Tutto riazioni non spiegano di per sé una tendenza o un’inversione di che vuol comprare per il figlio che va alle elementari. Se ci riferiamo ai tendenza. L’editoria per ragazzi in questi ultimi anni dà procosiddetti giovani adulti, al lettore si offre una coloratissima confuè cominciato va di vivacità ed è la sola a renderci più ottimisti sul nusione nella quale è difficile districarsi. Servono molto le bibliocon Harry Potter. mero - faticosamente e modestamente crescente - dei lettoteche scolastiche, è vero, ma queste sono in pratica affidaDa allora, i volumi destinati te al volontariato degli insegnanti (aiutati talvolta dalri italiani. Se l’editoria rivolta agli adulti, sia di narrale famiglie, ma solo talvolta). È un problema di ritiva sia di saggistica, è ancorata al best-seller, alai teenager vengono condivisi sorse economiche, che fa sì che nel Nord e le varie mode, ai testi da cui prende spunti il con i “grandi”. Alla vigilia della Fiera nel centro d’Italia le cose vadano meglio e più cinema, quella per i più giovani ha un andadella Letteratura per Ragazzi, uno giù invece no. La solita macchia di leopardo». Ma mento lineare. I libri per i più piccoli continuano ad senza alcun dubbio c’è una «verità» che non si può scoavere un soddisfacente boom di vendite, mentre per il sguardo alle nuove proposte, vare tra i dati di vendita, nudi e crudi, ed è quella che ormai ragazzo che frequenta le medie la cosiddetta curva di lettura sempre più legate genitori e figli condividono sempre più spesso la lettura. non smette mai di scendere. Forse per risalire, ma qui le scommesse sono tante e sgangherate. Giovanni Peresson, responsabile dell’uffiall’attualità continua a pagina 2 cio studi dell’Aie (Associazione Italiana Editori) ci ha ha aiutati a capire:

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Persona di Sergio Belardinelli La voce totale di Annie Lennox di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Le chiare epifanie di Giorgio Caproni di Filippo La Porta

Il fantasma di celluloide di Orio Caldiron “Gran Torino” e “Frozen river” di Anselma Dell’Olio

La Roma “moderna” vista da Pinazo di Marco Vallora


i libri dei

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segue dalla prima Riassumendo il fenomeno potremmo usare questo slogan: «Mamma, ti passo questo libro, dimmi che ne pensi». Uso il termine «madre» perché è arcinoto che, salvo rarissime eccezioni, l’uomo, sia che sia padre sia che non lo sia, ha una sconsolante dimestichezza con la lettura. Arrivo a dire che è proprio lui l’esempio più negativo in casa, affascinato o rimbambito dalla televisione, il cellulare attaccato all’orecchio, poco incline a penetrare nel mondo dei sentimenti e quindi anche inabile, o vergognoso, nel sondare le sfumature caratteriali di un personaggio o del figlio stesso. Il fenomeno della condivisione fantastica ha avuto un’accelerata spaventosa con i racconti di Harry Potter (editi da Salani): spesso erano le madri a sottrarre ai figli quei libri, o comunque facevano a gara a chi lo divorava per primo. L’onda ha continuato quando l’editoria nostrana ha avuto il coraggio di scoprire e lanciare autori non stranieri, scoprendo che ce la possiamo fare anche noi, magari senza epigoni di streghe e di magie, certamente con draghi, mostri, fondali terrifici, fantasmi e vampiri. È il caso di Licia Troisi, trentenne ricercatrice del centro di Fisica a Frascati, ormai bestellerista con Le cronache del mondo emerso: la Mondadori vende i suoi libri a suon di centinaia di migliaia di copie. Lo stesso vale per Gregor Paolini (Rizzoli), giovanissimo italo americano, o per Jerry Spinelli, diventato noto con La schiappa (Mondadori).

Da segnalare il recentissimo Wunderkind di D’Andrea G.L. (Mondadori). È scritto molto bene (da un autore nato a Bolzano nel 1979) ed è la nebbiosa storia ambientata a Parigi di una moneta d’argento che sconvolge la vita di un certo Caius Strass. Metafora della lotta tra il bene e il male, ma anche di un destino che si materializza in un affascinante e tenebroso quartiere, il Dent de Nuit, mai segnalato da alcuna mappa. Trame, colpi di scena, impulsi a uccidere e a nascondersi: tutti bene inseriti in una grande città «dal cuore infetto». Mi sorprende-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

rebbe che nessun produttore cinematografico sfruttasse questo canovaccio. O che qualche cartoonista non si ispirasse a quelle atmosfere così sulfuree. Il 23 di questo mese si aprirà la Fiera della Letteratura per Ragazzi di Bologna. Non aspettatevi iniziative roboanti o lanci di grandi novità. La manifestazione, da qualche anno a questa parte, è tornata alla sua vecchia peculiarità, ossia a terreno di incontro tra businessmen dell’editoria specializzata. Ci saranno come al solito tavoli pieni di libri, qualche dibattito e poco di più. Non è una critica acida, ma un dato di fatto: «Ormai abbiamo inventato tutto e il contrario di tutto» dice Giovanni Peresson. «La tecnologia applicata al libro non può sfornare tante novità in tempi brevissimi».

Un’altra tendenza non di poco conto, e legata a quella che ho appena segnalato, è il romanzo che contiene in sé un qualche impegno sociale, un’attenzione marcata per l’attualità, i temi più scottanti del nostro vivere in comune come la coabitazione con lo straniero. L’esempio di ottima scrittura ancorata al presente così pulsante e contraddittorio viene da Silvia Roncaglia. Appena edito da Fanucci è il suo Perché mai è diversa questa sera?: intreccio di amori adolescenziali, ma non solo. Vicenda che ingloba, e non solo lambisce, la questione del razzismo. Per oltre metà libro la protagonista s’imbatte in quesiti che le saranno spiegati da un adulto. Helmut, uno dei protagonisti, ha un tatuaggio runico sul braccio. Segno di lingua nordica, precisamente germanica, già oggetto di interesse da parte di quel visionario e ignorante di Hitler. Che c’entra il numero 88, si chiede la ragazza. Gli skinheads neo-nazisti si definiscono Skin 88: il doppio otto indica una doppia «H», che è l’ottava lettera dell’alfabeto latino. Insomma, altro non significa che Heil Hitler. Più avanti si assiste al pestaggio di un eritreo, a «lavori sporchi» compiuti da ragazzi fanatici. È l’orrore quotidiano, che conosciamo bene leggendo i giornali.

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

È sempre l’editore Fanucci a insistere su storie che riguardano l’ombra che il passato getta sulla nostra quotidianità. Nel Confine d’Ambra Paola Zannoner ripercorre le dolorose tappe della giovanissima Anneli, in una Finlandia che prima combatte contro i nazisti e subito dopo cerca di respingere l’attacco dei sovietici. Ideali, spionaggio, amori: tutto in un contesto storico che non può non affascinare il giovane lettore. Il quale - e tutti i genitori lo sanno bene comincia ad avvertire il frusciare della curiosità storica quando il programma scolastico s’avvicina alla seconda guerra mondiale, ai grandi totalitarismi, alle tragedie che ci hanno resi più che barbari. E su questo filone s’inserisce il racconto di Robert Muller, Il mondo quell’estate (Mondadori Junior), la storia di un ragazzo per metà ebreo nella Berlino del 1936, anno dei giochi olimpici, il quale vorrebbe essere accettato dai compagni e avere il mitico pugnale che simboleggia l’appartenenza a «Sangue e Onore». Le sue radici non hanno liberi spazi in un paese invasato dall’odio e dalle suggestioni. E così la storia del mondo sconvolge la storia intima di una giovane creatura. Ma c’è anche uno splendido libro edito da E/L e scritto dalla raffinatissima Paola Capriolo, dedicato alla vita di Indira Gandhi. L’autrice salta a piè pari il rischio della noia che spesso accompagna le biografie dei grandi personaggi. Lo fa da narratrice, mai pedante, sempre attenta al contorno sociale in cui una donna diventò primo ministro del paese democratico più popoloso del mondo.

Poi ci sono le problematiche inerenti alle dinamiche familiari. È di questo che parla Armin Greder in La città (Orecchio Acerbo editore). Una favola sul rapporto tra madre e figlio, in cui alla morte della madre corrisponde la crescita del figlio. Scrittura scarna e incisiva. «La città - dice l’autore - ha a che fare con la paura della vita, con l’egoismo che rende ciechi e con l’incapacità di lasciar andare colui che si ama di più». Elegante è il libro di Fabian Negrin

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via di Santa Cornelia, 9 • 00060 Formello (Roma) Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938

figli (L’amore t’attende, dello stesso editore). Scritto in italiano e in inglese, tratta di una materia scabrosa ma non da escludere a priori: l’erotismo tra i ragazzi. C’è raffinatezza, c’è poesia: quel che si dovrebbe insegnare ai nostri figli. Di tono leggero, e divertente, è Gita di distruzione di Francesca Longo (E/L editore), che tuttavia affronta con impegno il limite tra lecito e illecito, tra piacere e distruzione. Confini che per gli adolescenti sono sempre molto vaghi, soprattutto se la nuova generazione si trova dinanzi a grossolane contraddizioni della vecchia generazione, che spesso predica bene e, come si suol dire, razzola male.

Innovativo e proprio adatto a una lettura a due, o a tre o a quattro, l’ultimo prodotto della casa editrice San Paolo, intitolato Cercasi antenato (di Lorenza Cingoli e Niccolò Barbiero). Al centro la famiglia. L’intenzione è quella di scoprirla attraverso un ameno gioco di memoria e di testimonianze, alcune da cercare e quindi in questo senso si favorisce la sempre meno usuale trasmissione dei ricordi da padri a figli, da nonni a nipoti. Nella sua introduzione, la psicologa Maria Rita Parsi spiega bene l’importanza educativa del libro, mai disgiunta dall’aspetto ludico: «La ricerca delle proprie radici può essere un gioco, un “serissimo” gioco che permetta al bambino (e a noi adulti) di esplorare e camminare a ritroso nel tempo. Si possono così “digerire”concetti fondamentali come la famiglia allargata e il primato dei vincoli d’amore, oltre che di quelli di sangue». Per i più piccoli c’è un gioiello editoriale che sta avendo un ottimo riscontro di vendite (e questo testimonia che le famiglie non sono poi così culturalmente distratte): Quante tante donne, di Anna Sarfatti. Il sottotitolo recita così: Le pari opportunità spiegate ai bambini. C’è una filastrocca dedicata alla badante, ironica e delicata, c’è una poesiola che ha come protagonista una «sindaca», impegnatissima a far contenti anziani e giovanissimi. Non manca la ragazza che vorrebbe giocare a pallone. Nella Nazionale, ovviamente.

Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 - 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: redazione@liberal.it Web: www.liberal.it Anno II - n° 11


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parola chiave

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PERSONA utto ciò che gli uomini fanno mangiare, bere, accoppiarsi, parlare, lavorare, costruire, creare un’opera d’arte; tutto ha, più o meno esplicitamente, una dimensione simbolica, qualcosa di irriducibile che rinvia oltre. Ma perché accade questo? A tale domanda assai complessa si potrebbe rispondere semplicemente: perché gli uomini trascendono costantemente se stessi, perché sono appunto persone. Ma, di nuovo, che cosa significa questa «trascendenza», questo «essere persona»? Si tratta, come è noto, di una delle questioni certamente più intricate e controverse della nostra cultura filosofica e che non pretendo certo di trattare in modo adeguato in questa sede. Mi limiterò pertanto ad alcuni spunti. Con un’espressione molto bella che mutuo da Hannah Arendt, direi che essere persona coincide con «il vivere come distinto e come unico essendo fra uguali». E questo non soltanto perché, pur appartenendo tutti alla stessa specie, il nostro volto, la nostra corporeità hanno sembianze diverse da individuo a individuo, ma per ragioni che hanno a che fare soprattutto con la nostra interiorità e la nostra capacità di riflessione e di azione. Il nostro «essere altro» rispetto alle cose che ci circondano, così come il nostro «essere distinti» rispetto agli altri esseri viventi diventano in noi «unicità» e la pluralità umana si configura come «la pluralità paradossale di esseri unici» (sono sempre parole di Hannah Arendt). Gli uomini appartengono tutti al genere umano, ma il modo in cui essi appartengono al loro genere è diverso da quello di tutti gli altri animali. Ogni uomo è nel suo genere unico e irripetibile.

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Con i nostri corpi, con le nostre azioni e i nostri discorsi noi ci distinguiamo, anziché essere meramente distinti, e tuttavia eccediamo costantemente anche ciò che di noi stessi diamo a vedere; lo stesso rapporto che abbiamo con il nostro corpo è ambivalente; da un lato sentiamo di essere il nostro corpo, dall’altro sentiamo di avere un corpo; sperimentiamo insomma una sorta di strutturale eccentricità rispetto a noi stessi, di irriducibilità al nostro aspetto fisico o alla nostra stessa biografia; tanto è vero che a chi ci domanda «chi sei?» rispondiamo in genere dicendo semplicemente il nostro nome e cognome, non certo mostrando la nostra fotografia o mettendoci a raccontare la nostra storia; d’altra parte tutto questo lo sa bene anche colui che ci pone la domanda, visto che è appunto una «persona» come noi. Quando domandiamo a qualcuno «chi sei» diamo sempre per scontato di ricevere una risposta approssimativa; vogliamo identificare colui che abbiamo di fronte, ben sapendo che ciò che egli è, come del resto ciò che io sono, sfuggono a qualsiasi determinazione che voglia essere esaustiva. Il nostro vivere «come distinto e come unico tra uguali» implica dunque che anche il rapporto che abbiamo con noi stessi sia spesso opaco; la domanda «chi sono io?» non è meno difficile della domanda «chi sei tu?»; qualche volta ci accorgiamo persino che gli altri, per esempio nostra madre, ci co-

La sua definizione sfugge a qualsiasi determinazione esaustiva ed è una delle questioni più controverse della nostra cultura filosofica. Ma, come sosteneva Hannah Arendt, la sua essenza si configura nel vivere come essere distinto e irripetibile nella pluralità umana

Unici fra uguali di Sergio Belardinelli

Lo spazio della presenza, del nostro agire, è imprevedibile, sebbene siamo noi a scegliere la maschera con la quale presentarci agli altri. Ma la rivelazione di chi siamo non dipende quasi mai da ciò che ciascuno di noi decide deliberatamente di mostrare, come ne fosse il padrone noscono molto di più di quanto ci conosciamo noi; per non dire dei momenti di insoddisfazione che proviamo nei confronti di noi stessi, dei desideri di cambiare, di diventare un altro.Tutto ciò potrebbe far pensare al vano desiderio di saltare sulla nostra ombra; ma in realtà esprime lo stato normale del nostro «io», il quale, contrariamente a quanto ritiene una parte considerevole del pensiero moderno e contemporaneo, recita sì volta a volta un ruolo, ma non è mai soltanto il ruolo che volta a volta recita, pensa e ha

coscienza, senza essere semplicemente pensiero e coscienza. Siamo insomma persone perché siamo eccentrici; sentiamo che ciò che siamo, il nostro «io», dipende dalla «natura», se così si può dire, ossia dall’equipaggiamento genetico col quale siamo venuti al mondo, ma anche dagli altri, dalla famiglia e dalla città nelle quali siamo nati, dall’educazione che abbiamo avuto, dalle persone che abbiamo incontrato, ecc.; solo successivamente intervengono, seppure in modo decisivo, la nostra intelligenza e la nostra volontà.

Siamo «persone», poiché in ultimo siamo noi a sceglierci la «maschera» con la quale vogliamo apparire nel mondo. Hannah Arendt direbbe che proprio questo «elemento di scelta deliberata intorno a ciò che si mostra e si nasconde sembra specificamente umano»; ed è per questo che, a suo avviso, il mondo umano, la polis, si configura come «lo spazio della presenza, nel più vasto senso della parola, lo spazio, cioè, dove io appaio agli altri come gli altri appaiono a me, dove gli uomini non si limitano a esistere come le altre cose viventi o inanimate ma fanno la loro apparizione esplicitamente».

Questo elemento di «scelta deliberata» in ordine al nostro apparire nel mondo non vuol dire che «chi siamo» ossia la realtà della nostra persona sia qualcosa che si trova, per così dire, totalmente sotto il nostro controllo. Lo spazio della presenza, lo spazio dove agiscono le persone, è uno spazio imprevedibile e, sebbene siamo noi a scegliere la maschera con la quale presentarci agli altri, la rivelazione di «chi siamo» non dipende quasi mai da ciò che ciascuno di noi decide deliberatamente di mostrare, come se ne fossimo i padroni. Posso mostrare intenzionalmente che sono bravo a giocare a calcio - mi basta in fondo una palla, un campetto e qualcuno con cui misurarmi, poi so bene che cosa fare. Ma non posso mostrare allo stesso modo «chi» sono io che gioco a calcio. Come dice in modo mirabile Robert Spaemann, «l’identità di un uomo è per un verso quella di una cosa naturale, di un organismo. In quanto tale è identificabile in ogni momento dall’esterno. Tuttavia, per altro verso, questa identità naturale di base contiene soltanto un’anticipazione del cammino di ricerca dell’identità, che allo stesso tempo ha il carattere di una fondazione dell’identità medesima. La persona non è il risultato di questa fondazione, non la fine di questo cammino, ma il cammino stesso, la totalità di una biografia, la cui identità di base per parte sua è consolidata biologicamente. Le persone non sono ruoli, ma esse sono ciò che sono soltanto quando giocano un ruolo, il che significa animando in qualche modo uno stile». È per questo che le persone, è sempre Spaemann a sottolinearlo, «sono individui in un senso incomparabile» (p. 5). Essendo qualcuno e non qualcosa, la persona trascende costantemente le condizioni biologiche o socio-culturali della sua esistenza; è irriducibile a queste condizioni; è persona, non perché ha determinate caratteristiche, poniamo, perché è intelligente, capace di intendere e di volere o perché è capace di assolvere le normali funzioni tipiche dell’individuo appartenente alla specie umana; lo è semplicemente perché appartiene alla specie umana. L’impiego del concetto di «persona» equivale insomma «a un atto di riconoscimento di determinati obblighi verso quanti sono definiti persone». Dicendole tali, noi in fondo non facciamo altro che riconoscere uno status che è tale, non perché qualcuno ce lo conferisce, ma semplicemente perché siamo nati uomini. L’unico status che può contrastare davvero qualsiasi potere.


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cd

musica

Con quella voce Annie può fare ciò che vuole di Stefano Bianchi ovessi compilare una classifica delle voci femminili da portarmi sulla classica isola deserta: Patti Smith, Marianne Faithfull, Björk. Poi però, se mi metto a ragionare su Annie Lennox, puff: la concorrenza scompare. Nel senso che la Smith, la Faithfull e la Gudmundsdóttir traboccano di talento e temperamento; ma il belcanto pop (e soul, e ci aggiungo bluesy) appartiene di diritto alla scozzese Ann-Lynne Angevene Griselda Lennox, 54 anni indossati infischiandosene del tempo che passa. La più nera delle cantanti bianche, in carriera, è riuscita a superare ogni ostacolo mettendo le sue sprezzanti coloriture vocali (di seta e d’acciaio, zucchero e pepe) al servizio degli stati d’animo, più che delle esigenze del music business. La ricordo, sul nascere degli anni Ottanta, debuttante con gli Eurythmics: versione rosa di David Bowie, giostrava il technopop di Sweet Dreams (Are Made Of This) col chitarrista Dave Stewart a farle da servizievole gregario. Tempi d’oro, quelli. Incastonati di pietre preziose come Sisters Are Doin’ It For Themselves, duetto scoppiettante

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in libreria

con Aretha Franklin; e There Must Be An Angel, titillata dall’armonica di Stevie Wonder. Poi, nel 1991, la coppia è scoppiata e chiunque altra, senza Eurythmics, avrebbe gettato la spugna. Lei, al contrario, dal ’92 al 2007 ha inanellato un poker di album solisti (Diva, Medusa, Bare, Songs Of Mass Destruction) coniugando glamour (memorabile il duetto con Bowie al Freddie Mercury Tribute Concert, sulle inconfondibili note di Under Pressure dei Queen) e l’impegno sociale in Africa per difendere i diritti umani e garantire le cure mediche ai malati di Aids. The Annie Lennox Collection, dunque, ce la racconta in 14 brani tratteggiandone un vivido ritratto, umano e musicale. Spiega lei: «Mi è sembrato il momento giusto per pubblicare la mia raccolta di canzoni senza tempo, diventate a loro modo “classici”». Sempreverdi, certo che sì: come il rhythm & blues speziato di rock che dà personalità a Little Bird; le orchestrazioni e l’aristocratico pop di Walking On Broken Glass; le celestiali melodie di Why, No More «I Love You’s» e A Thousand Beautiful Things, vocalmente impossibili da gestire per qualsiasi altra cantante; la soul music e le increspature gospel di Precious; lo spiritual che accende Cold; la fascinosa solennità di Dark Road; il magnetismo dark e le introspezioni di Love Song For A Vampire (dalla colonna sonora del Dracula di Francis Ford Coppola). E poi ci sono le riletture di brani altrui: dalla celeberrima A Whiter Shade Of Pale dei Procol Harum, trasformata in pura magia interpretativa, alle appena incise Pattern Of My Life (scritta da Tom Chaplin degli inglesi Keane) e Shining Light degli irlandesi Ash, che si traducono in persuasivi esempi di easy listening. D’altronde, Annie Lennox può cantare ciò che vuole, con quella voce. E mettere kappaò tutte le altre.

The Annie Lennox Collection, Sony Music, 18,90 euro

mondo

riviste

I PAPILLONS DI BRAHMS & CO.

MTV FORMATO ISLAM

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l segreto del titolo sta nella piccola storia che apre la raccolta. Ogni singolo pezzo si propone il difficile compito di raccontare la musica, di inserirla nel canone culturale, in un mix di narrazione, d’invenzione, di memoria dell’occasione musicale: un protocollo del vissuto individuale e sociale». Così Piero Violante, critico musicale e docente di Sociologia della musica,

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na nuova Mtv a misura di Islam. È questo il progetto di Ahmed Abu Haiba, fondatore di 4Shbab. Il canale musicale egiziano, che trasmetterà contenuti pop in tutto il Medio Oriente, ha preso il via in seguito a una massiva raccolta di fondi intorno al Golfo. In nome della «melodia di Allah», 4Shbab avrà particolare cura di presentare mise e testi rispettosi della tra-

«I

Indagine di Piero Violante su opere di grandi compositori e sulla cultura che le ha prodotte

La tv egiziana 4Shbab proporrà canzoni approvate da una commissione moderatrice

Erede di Gato Barbieri, il musicista portoricano non disdegna le incursioni nel soul

presenta I papillons di Brahms (Sellerio, 150 pagine, 15,00 euro). Colmo di implicazioni culturali, e fondato sulla rilevazione del potente influsso esercitato dalla musica sull’identità civile, il libro di Violante risuona delle opere di Mozart e Schoenberg, di Brahms e Kurt Weill, senza trascurare l’eccellenza di alcuni compositori siciliani contemporanei come Ottavio Ziino e Giovanni Sollima. Sintomo e diagnosi dello zeitgeist che li ha espressi, il talento musicale dei grandi compositori europei viene indagato a braccetto con la narrazione, l’aneddotica e l’invenzione. Una lettura raffinata e rigorosa, che fonde l’analisi al piacere del racconto.

dizione religiosa, e ciascun prodotto artistico passerà al vaglio di una speciale commissione costituita da cinque membri. Nel tentativo di spezzare l’egemonia della più scollacciata cultura occidentale, la tv egiziana si è però attirata le critiche di alcuni detrattori. «Stanno cercando di rendere la società più prudente nell’affrontare gli altri, e questo è un percorso pericoloso», ha fatto sapere Khalil Al-Anani, esperto dei movimenti islamisti di Al Ahram Foundation. Abu Haiba, determinato a recuperare la gioventù musulmana, minimizza. Sì al rap, ma con juicio.

tista portoricano che molti designano come erede di quella tradizione free che fa capo a Gato Barbieri e Archie Sheep. Di recente protagonista a Terni in jazz, il musicista sudamericano ha sciorinato un repertorio che non disdegna incursioni nel soul più tradizionale, fondendo i paradigmi del Berklee College of Music di Boston, dove si è formato, allo spirito latino di un suono in continua crescita. Il risultato è Awake, album di spessore in cui si incide l’esperienza musicale maturata attraverso le collaborazioni con Bob Moses, Danilo Pérez, George Garzone, la Either Orchestra e il San Francisco Jazz Collective. Premi e riconoscimenti sono fioccati.

a cura di Francesco Lo Dico

ZENÓN, SPIRITO LATINO l jazz di Miguel Zenón è un jazz assai vigoroso, fatto di un sound penetrante ma al contempo rotondo, che presenta modalità espressive capaci di suscitare una forte compartecipazione emotiva nell’ascoltatore. Gli armonici e i sovracuti richiamano alla mente, per qualità ed efficacia, quelli di grandi del passato». Alessandro Samsa presenta così su alla radio.org l’ar-


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classica

zapping

Quando gli Afterhours LEGGERANNO FLAIANO di Bruno Giurato li Afterhours nelle classifiche non ci sono. Hanno deciso di stare fuori dal mercato ufficiale e di promuovere una compilation indipendente dal titolo Il paese è reale, sottotitolo: «19 artisti per un paese migliore?». Col punto interrogativo. L’idea, diciamolo subito, è meritoria (punto esclamativo). Tra i 19 del paese migliore (punto interrogativo) ci sono stimabili personaggi come Marco Parente, emergenti di buona presa come Dente e i vertiginosi Zu. E poi la compilation di un paese migliore (punto interrogativo) è il modo per proporre una musica alternativa che, dato l’aprirsi del mercato, risulterà col tempo sempre meno di nicchia (Checco Zalone avrebbe detto: «di micchia»). Tutto bene e tutto bello quindi. Senonché affidare il traino della nuova musica italiana agli Afterhours ci sembra inopportuno, perché, diciamocelo nel modo più bieco, il gruppo di Manuel Agnelli e compagnia a noi sembra alla canna del gas. Gli Afterhours hanno detto qualcosa negli anni Novanta, quando il fenomeno brit-pop legittimava riletture beatlesiane perfino nella lingua del Metastasio. E poi si sono fermati lì. Il paese è reale, la canzone sanremese, aveva un tiro da opera leggera nella melodia (immaginarsela cantata da Claudio Villa è una liberazione), mentre le chitarre scordate e le voci stonate facevano forse punk, e il testo pedagogico faceva blogger di Nazione Indiana. Altro elemento a sfavore: gli Afterhours da un po’ di tempo hanno virato verso un’ispirazione letteraria, che potrà indurre qualche fremito di rispetto nella critica (e infatti hanno vinto il premio preposto a Sanremo), ma per un gruppo rock significa una cosa sola: canna del gas. Fra qualche giorno, non è uno scherzo, li troveremo a leggere Flaiano in pubblico. Ma chissà cosa ne avrebbe detto Flaiano? Punto interrogativo.

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La via crucis di Brutus Jones di Jacopo Pellegrini

l saggio di David Metzer comparso nel 1995 sul Cambridge Opera Journal, ragionando di «negritudine» e «bianchità» (blackness e whiteness) a proposito di Emperor Jones, adattamento musicale dell’omonimo dramma di Eugene O’Neill (1920) compiuto dal compositore ebreo russo-americano Louis Gruenberg (1884-1964), si concentra sul ritratto che del personaggio eponimo offrì il primo interprete, il celebre baritono statunitense (e bianco) Lawrence Tibbett. Per impersonare il negro americano Brutus Jones, galeotto pluriomicida fuggito chissà come in un’«isola delle Indie occidentali cui non è ancora stata imposta l’autodeterminazione da parte dei Marinai bianchi» (così la didascalia iniziale di O’Neill, omessa da Gruenberg), e colà, con astuzie e inganni, autoproclamatosi imperatore,Tibbett si tinse tutto il corpo alla maniera dei black-

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face minstrels, attori bianchi che impersonavano caratteri afroamericani (ancor’oggi noto Al Jolson). Metzer, ligio agli Studi di genere, legge questa incarnazione nei termini psicanalitici del feticismo: il fascino esercitato su spettatori maschi bianchi da corpi maschili neri, esibiti sulla scena per mezzo di sostituti bianchi dipinti. In effetti Jones, mentre di notte cerca di attraversare la foresta per sfuggire gli indigeni che, stanchi dei suoi soprusi, gli danno la caccia, si spoglia via via degli abiti sino a restare scalzo, a petto nudo e coi pantaloni ridotti a uno straccio intorno alla vita.Tibbett,

alla prima assoluta dell’Emperor Jones - 7 gennaio ’33 -, si trovò ad agire in mezzo a danzatori e figuranti black, ammessi per la prima volta sul palco della sala newyorkese. Ignoro se elementi di colore figurassero nelle passate edizioni italiane dell’opera, a Roma nel ’51 e a Palermo nel ’64, protagonista in ambo i casi il russo Rossi-Lemeni. Certo Metzer avrebbe trovato conferme alla sua tesi se avesse assistito al nuovo Jones, il primo in lingua originale, predisposto dal Teatro delle Muse, sempre prodigo di sorprese. Ad Ancona, infatti, il «negro puro sangue di mezza età, alto e possente» (sempre O’Neill, ancora una volta non seguito da Gruenberg) era impersonato dall’afroamericano Nmon Ford, giovane peraltro, e molto avvenente; anzi, a giudizio d’un giornale tedesco, «il più bel baritono al mondo». Donde mormorii gridolini e visibilio degli astanti per le doti fisiche generosamente esibite in una prova attoriale maiuscola. Feticismo allo stato puro, dunque; sebbene poi il cantante, pur incisivo e intenso, sia ancora lungi dall’essere «il più bravo al mondo». Tagli (oltre a moltissime battute, sparisce il capo indigeno Lem), aggiunte (gli interventi del coro, lo spiritual intonato da Jones), varianti (il suo suicidio in scena) apportate da Gruenberg a O’Neill puntano ad accentuare la componente simbolica: non una vicenda razziale, magari dai risvolti razzisti, bensì una via crucis scandita dalle allucinazioni notturne del fuggitivo, stazioni di una regressione inarrestabile verso la ferinità, da cui l’uomo, di qualsivoglia razza o colore, non può liberarsi. Quest’impulso allegorico la musica di Gruenberg (allievo di Busoni a Berlino e grande estimatore di Schönberg) lo esplicita con grande economia di mezzi: brevi disegni scalari dissonanti ostinatamente reiterati innervano la partitura, rimandando al rintocco ossessivo e ipnotico dei tam tam, che già nel dramma accompagna l’inseguimento di Jones e che verso la fine dell’opera dà a riconoscersi come una vera e propria marcia funebre.Tale almeno risultava per merito di Bruno Bartoletti, artefice d’una direzione incandescente e limpidissima (grazie anche a qualche aggiustamento allo strumentale), in sintonia con lo spettacolo di Henning Brockhaus, forse più ligio alle indicazioni di O’Neill che a quelle di Gruenberg, ma efficace nella sua ben dosata mistura di corporalità e astrazione.

jazz

Risveglio dal letargo a ritmo di jazz di Adriano Mazzoletti l giungere della primavera sta risvegliando dal letargo organizzatori e promotori delle grandi manifestazioni che dopo un inverno piuttosto apatico e deludente da cui non si è salvata neppure Umbria Jazz Winter, hanno inaugurato due manifestazioni i cui cartelloni propongono più di un motivo di interesse. La prima è la 23° edizione di Musica & Musica iniziata il 7 marzo che si concluderà domenica 19 aprile. Organizzata dalla Scuola Popolare di Musica del Testaccio, la più antica a Roma, presenta dieci appuntamenti tutti alla Sala Concerti di Piazza Giustiniani, (l’ex Mattatoio). Ai primi due, 7 e 8 marzo, sono state presentate l’Orchestra Mediterranea di Andrea Alberti e la Cashband con il sassofonista Carlo Conti e il contrabbassista Roberto Bellatalla, che mancava dalle scene romane da venticinque anni passati in Inghilterra, dove risiede abi-

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tualmente. È uno dei musicisti più attivi della scena dell’avanguardia europea e collabora regolarmente con Louis Moholo, Evan Parker, Elton Dean, Harry Beckett. Un bentornato a questo musicista di cui ricordiamo i tanti concerti nei locali romani e milanesi degli anni Settanta assieme a Guido Mazzon, Gaetano Liguori e ai mai abbastanza compianti Massimo Urbani e Danilo Terenzi. Domani, alle 18, suonerà l’Escaping Strings del sassofonista Michel Audisso con, fra gli altri, il pianista Riccardo Fassi, il batterista Davide Pettirossi e un quartetto d’archi. Nei giorni successivi il Quintetto di Pasquale Iannarella con l’eccellente vibrafonista Francesco Lo Cascio (sabato 21 marzo), la Big Band di Mario Raja (28), la cantante Patrizia Rotonda (29), l’S.T. Quintet con il sassofonista Daniele Titarelli (3 aprile), Isoritmo di Giampaolo Ascolese (4), la Testaccio Jazz Orchestra coodiretta da Michele Iannaccone e Silverio Cortesi con la par-

tecipazione di uno dei veterani del jazz romano, il sassofonista Enzo Scoppa (5) e infine il 19 aprile il Sestetto del pianista e vibrafonista Nino De Rose con la tromba Olivier Berney. Un’opportunità questa per ascoltare musicisti poco presenti in altre occasioni, soprattutto nella Capitale. Più breve, ma non meno intenso il 29° Eurojazzfestival di Ivrea che inizierà il 17 marzo per concludersi il 22. Al teatro Giocosa si esibiranno l’European Organ Summitt e il pianista e cantante Sergio Cammariere con la tromba Fabrizio Bosso ormai una delle realtà più significative del jazz italiano (20 marzo). Sabato 21 sarà la volta del trio di Dado Moroni in un omaggio a Oscar Peterson e il NYCQ (New York City Quintet) con il sassofonista bolognese Piero Odorici. Secondo una prassi instaurata oltre trentacinque anni fa da Umbria Jazz, anche l’Eurofestival di Ivrea andrà in trasferta in varie località. Il 18 a Bollengo il concerto forse più importante della rasse-

Roberto Ciotti gna con la tromba Franco Ambrosetti e il contrabbassista praghese, ma ormai americano da molti decenni Miroslav Vitous. A Banchette giovedì 19 il vibrafonista David Friedman antico allievo di Luciano Berio. Infine domenica 22 a Colleretto Giacosa la cantante Marta Raviglia. A questi festival che inaugurano la stagione 2009, vanno ad aggiungersi altri concerti che è doveroso segnalare. Lunedì prossimo 16 marzo al Moody Cafe di Foggia, il Quintetto della tromba Jack Walrath uno dei più importanti collaboratori di Charlie Mingus e per chi ama il blues, questa sera al Big Mama di Roma torna Roberto Ciotti uno dei migliori bluesmen europei.


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narrativa

el risvolto di copertina apprendiamo che questo magnifico romanzo di Boualem Sansal «è stato sottoposto a censura in patria». Ossia in Algeria, paese natale dello scrittore (nato nel 1949). A conferma, se ce n’era bisogno, del fatto che nei paesi a regime islamico (e di regime bisogna parlare, senza paraocchi politici) non vige la libertà di espressione. Il romanzo di Sansal parla di un eccidio, consumato nel 1994 in un paese dell’entroterra algerino, a opera dei fondamentalisti, gli sgozzatori. Parla anche in termini critici di quel paese: «…l’atmosfera da campo di sterminio che regna per le strade di Algeri…». E senza mezzi termini la vicenda storico-romanzesca, che affonda le radici nel Male con la svastica, asserisce l’equazione islamisti-nazisti.Verità scomode che i paesi teocratici, così vicini a noi, non vogliono elaborare, criticare, discutere, nemmeno per opporre altre «verità». Si censura e basta. La stessa cosa avveniva nella Germania hitleriana e nella Russia staliniana. La trama è drammatica e appassionante. Inizia con il suicidio di Rachel, figlio di Hans Schiller, dopo aver scoperto che il padre, da decenni neo-maomettano in Algeria, marito di una giovane araba, e qui massacrato dagli estremisti islamici, è stato capitano delle SS e funzionario operativo nei campi di sterminio come esperto chimico. Sapeva tutto dei gas asfissianti che uscivano dalle docce e sterminavano, giorno dopo giorno, centinaia di ebrei ammassati negli stanzoni della morte, prima del loro ultimo viaggio verso i forni crematori. Emerge il problema della colpa del padre ereditata dal figlio, il quale decide di gassificare se stesso, con un pigiama da deportato, nel garage della sua villetta francese chiedendo così perdono al posto del genitore, del quale mai ha sospettato nulla. Sono figlio di mio padre, dice a sé, e pago io al posto suo dinanzi al mondo, alla storia, ai tribunali che non mi ascolterebbero, consapevole che nessun delitto debba essere impunito. Sarà il fratello minore Malrich a leggere i diari di Rachel e a uscire dalla sbandata ignoranza, dalla remissività verso i barbuti Iman che nazisti-

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Auschwitz

Algeria di Pier Mario Fasanotti

libri

camente predicano l’odio contro i Kuffar (infedeli) nelle banlieu francesi, e a rifare il percorso doloroso del suicida alla ricerca, in tutta Europa e nella Turchia già ammiccante con il Terzo Reich, del passato di un uomo che poteva scegliere la dignità e la libertà di coscienza e invece, come altri milioni di tedeschi, diventò complice di un genocidio che non ha eguali nella storia. Mezzi francesi di origine tedesca e mezzi nordafricani, i due fratelli Schiller, in momenti diversi, inglobano quel che ha scritto Primo Levi: «voi che vivete sicuri/ nelle vostre tiepide case,/ voi che trovate tornando a sera/ il cibo caldo e visi amici:/ considerate se questo è un uomo». L’accusa dello scrittore torinese è come un macigno. Qui si parla del dramma planetario che affida la vita e la morte del singolo semplicemente a un sì o a un no, dell’orrenda arbitrarietà di chi, una volta nazista e oggi fondamentalista islamico, «proclama di avere Dio in franchising» e in suo nome di voler eliminare tutti gli altri. Tutti, non importa se ebrei, cristiani, armeni, zingari, handicappati, omosessuali, malati di mente o semplici dissidenti: Allah, dicono i barbuti, non nutre alcun sentimento di tolleranza (la democrazia per loro è un mostro giudaico-cristiano) o di perdono e affida ai predicatori degli scantinati europei la truculenta licenza di sterminio. Befehl ist Befehl, un ordine è un ordine: come dicevano gli ufficiali tedeschi. Lo stesso Schiller senior, quando si rifugiò in Algeria ove fu combattente e consulente militare, soleva dire ai figli: «Fa’ quello che ti dico, la tua opinione la discutiamo dopo, se c’è tempo». La matrice del male non fu mai estirpata. Il romanzo di Sansal, definito «sbalorditivo» dalla critica francese, non ha avuto uguali allori di vendita in Italia. Dove è finito il tam-tam dei lettori? Dove è finita l’attenzione dei recensori? Mi auguro che queste poche righe siano lette da qualche funzionario del Ministero dell’Istruzione. O dal ministro stesso. I giovani, e i loro genitori, hanno il dovere morale e civico di sapere. Boualem Sansal, Il villaggio del tedesco, Einaudi, 211 pagine, 19,50 euro

riletture

Il pensiero di Heidegger? Più greco dei Greci di Giancristiano Desiderio n anno prima della pubblicazione di Essere e tempo che, in questa rubrica di riletture non vi propongo di rileggere, ma se volete farvi una ripassata fate pure perché non fa male, anche se qualche piccolo problema di angoscia potrebbe procurarlo - Martin Heidegger tenne un corso universitario a Marburgo, nel semestre estivo, sui Concetti fondamentali della filosofia antica. Rileggendo quell’importante corso vi si ritrovano tante «anticipazioni» del capolavoro incompiuto di Heidegger e, ancor di più, ci si imbatte in una stimolante rilettura della filosofia greca dai Presocratici ad Aristotele. Proprio Aristotele è il modello filosofico e storiografico di Heidegger che

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muove dal libro A della Metafisica dello Stagirita e interpreta Talete, Anassimandro, Anassimene, Eraclito, Parmenide, gli eleati, Empedocle, Anassagora, gli atomisti, la sofistica e Socrate, quindi Platone e, ultimo ma non ultimo, anzi primo, Aristotele che è la vera guida della rilettura ontologica che Heidegger fa della filosofia greca nel tentativo di «pensare in modo più greco dei Greci». Il testo da procurarsi è quello pubblicato nel 2000 da Adelphi e riproposto nel 2007 con il titolo, appunto, I concetti fondamentali della filosofia antica. Il lettore si troverà davanti a una serie organizzata di «appunti» che servivano da guida alle lezioni (in appendice al testo vi sono le utili Aggiunte dalla trascrizione di Hermann Morchen che rendono il testo più chiaro e avvincente perché

lo integrano con la lezione). Che cosa dovevano essere le lezioni di Heidegger lo disse una volta Gadamer: «Avevamo la sensazione che davanti a noi apparisse il pensiero». Noi abbiamo la sensazione che lo sforzo di Heidegger dovette essere quello di riappropriasi della filosofia greca per pensare in modo più autentico. La sua filosofia - dall’opera incompiuta alla «svolta» - ha come filo conduttore il «pensiero dell’essere» e la necessità - si potrebbe dire l’ossessione - di non far scadere l’essere a ente. La differenza ontologica segna sin dall’inizio il pensiero di Heidegger e si può dire che sia il suo stesso modo di riappropriarsi della filosofia per sottrarla a ogni riduzione «positiva» e conservarla nella sua dimensione «critica» che in greco significa proprio «differenziare».

Lo sforzo di Heidegger lo si potrebbe definire come il tentativo di rendere esplicito ciò che è implicito, di mostrare ciò che è presupposto, l’essere appunto. Scrive a pagina 77: «L’essere non è dato nell’esperienza, eppure è nel contempo compreso in essa. Chiunque comprende quando diciamo: il tempo “è”nuvoloso; gli alberi “sono” in fiore. Comprendiamo “è” e “sono”, eppure ci è difficile rispondere alla domanda su che cosa “è”e “sono”significhino, su che cosa voglia dire “essere”». Tuttavia, c’è una pre-comprensione dell’essere che guida la comprensione che abbiamo di noi stessi e del mondo, delle cose e delle cose che adoperiamo e facciamo nel mondo. La messa a tema di questa pre-comprensione è il «gran mare dell’essere» del pensiero di Heidegger.


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storia

Ecco come andò l’Operazione Valchiria di Enrico Singer l cinema Operazione Valchiria è un kolossal che racconta il fallito attentato a Hitler nel lungo solco dei film hollywoodiani dove un gruppo più o meno sparuto di eroi è alle prese con una missione impossibile. Ma in libreria, l’azione del conte Claus von Stauffenberg si spoglia delle sembianze di Tom Cruise per diventare ricostruzione puntigliosa e documentata, ricca di ricordi diretti e di storie personali, di un evento che avrebbe potuto cambiare la storia. E risparmiare milioni di vittime. Mondadori ha appena pubblicato le memorie dell’ultimo testimone della vera Operazione Valchiria: Philipp von Boeselanger, che è sta-

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personaggi

to ufficiale di cavalleria dell’esercito tedesco durante la seconda guerra mondiale, ha preso parte al complotto e, dopo la fine del conflitto, ha vissuto in Francia fino alla sua morte, il primo maggio del 2008. Volevamo uccidere Hitler è un pezzo di storia vissuto il prima persona e, per questo, è una testimonianza rara e straordinaria che si apre con una dedica che contiene un motto in latino che da solo già spiega molte cose: Etiam si omnes, ego non. Anche se tutti, io no: come dire che anche se tutta la Germania sembrava seguire Hitler in una specie di delirio collettivo, c’era chi non era d’accordo. Il motto era quello del «gruppo Tresckow»: dei congiurati che si riconoscevano nel colonnello generale e capo di stato maggiore

delle armate di centro sul fronte orientale, Henning von Tresckow, che era stato già l’ideatore di un altro tentativo, fallito per poco, di assassinare Hitler nel 1943 e che decise di ritentare anche quel 20 luglio del 1944. Di lui Philipp von Boeselanger scrive: «Era un militare che amava la pace perché conosceva la guerra e aveva visto accumularsi sulla sua scrivania le prove delle inconcepibili violenze commesse dal nazismo».Treschov era un protestante prussiano, ufficiale figlio di ufficiale, che metteva a punto i suoi piani con gli altri congiurati durante le partite a scacchi che giocava ogni sera e che servivano proprio a coprire gl’incontri clandestini. Anche Philipp von Boeselanger era figlio di un ufficiale, di nobile discendenza

renana, educato alla libertà di pensiero, ma anche al patriottismo e al rigore morale. Entrato nella Wehrmacht per tradizione familiare, non intuì subito la pericolosità di Adolf Hitler come tanti altri militari di carriera, compreso il conte Claus von Stauffenberg che fu poi il capo e l’esecutore materiale del fallito attentato e che è il protagonista del film oggi in tutte le sale. Di sicuro chi ha visto Operazione Valchiria farebbe bene a leggere Volevamo uccidere Hitler e chi leggerà il libro avrà la curiosità di vedere come la stessa vicenda è diventata un film. Philipp von Boeselanger, Volevamo uccidere Hitler, Mondadori, 134 pagine, 18,00 euro

A scuola di antitotalitarismo da Andrea Caffi di Gabriella Mecucci ndrea Caffi è uno di quegli intellettuali che hanno capito tutto in anticipo. Nato a San Pietroburgo nel 1889, partecipò alla rivoluzione del 1905. Osteggiò il comunismo e, subito dopo, quando si trovò in Italia, il fascismo. Percorse l’intera Europa portando avanti la sua battaglia per la democrazia. Fece parte di Giustizia e Libertà, ma poi ruppe con Carlo Rosselli. Era grande amico di personalità quali Nicola Chiaramonte e Renzo Giua. Andrea Caffi è dunque uno straordinario personaggio e la sua figura, purtroppo dimenticata, come quella degli altri due suoi sodali, viene sapientemente ricostruita in un bel libro di Marco Bresciani dal titolo La

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narrativa/2

rivoluzione perduta. Andrea Caffi nell’Europa del Novecento, edito Il Mulino. Almeno due sono i punti qualificanti della sua biografia. Il primo riguarda le ragioni della rottura con Giustizia e Libertà e in particolare con Carlo Rosselli. L’inizio della divergenza fra i due fu quando, nel 1935, il leader giellino si rifiutò di pubblicare un articolo di Caffi particolarmente critico nei confronti dell’Urss. Il saggio uscì sulla rivista di Angelo Tasca, altro sodale dell’esule democratico russo. La seconda frizione, quella che poi portò alla rottura con Rosselli, riguardava la visione diversa della lotta al fascismo. Per Caffi si trattava di una battaglia culturale e politica di grande respiro e dai tempi lunghi mentre il capo di Gielle vedeva il proprio impegno

più schiacciato sul presente. Fra i due ci fu un aspro scontro nel corso del quale Rosselli non risparmiò a Caffi pesanti riferimenti alla sua omosessualità. In difesa di quest’ultimo si schierarono: Nicola Chiaromonte, Renzo Giua e Mario Levi. I quattro lasciarono poi Gielle. L’altro momento fondamentale della biografia di Caffi è la natura e la qualità della sua battaglia anticomunista nel dopoguerra. Una scelta politica che lo teneva però lontano dall’idea di uno scontro frontale: una «terza guerra» come diceva Koestler, con Mosca e una rottura insanabile con i partiti comunisti. L’esule russo preferiva invece una scelta di natura «pacifista». Ma non di quel pacifismo che era incline a fare parecchi favori ai sovietici. Una nonviolenza, piuttosto, che lo avvicinava ad Aldo Capitini, ma che non concedeva nulla al totalitarismo comunista e che guardava con occhi amichevoli a Israele. Marco Bresciani, La rivoluzione perduta. Andrea Caffi nell’Europa del Novecento, Il Mulino, 328 pagine, 25,00 euro

Discesa negli inferi della mafia corleonese di Francesco Lo Dico eggere il libro di Salvo Sottile equivale a cadere in ostaggio dello spavento. La materia narrativa ribolle certo di sangue, spari, lacrime e rimpianti. Ma ciò che atterrisce davvero, in questa irresistibile discesa nella mafia corleonese, è la sensazione di una parabola sghemba. Una corsa in punta di penna, dentro a un labirinto senza uscita. In una Sicilia di cartapesta, claustrofobica, dove persino la bellezza scivola via in un vortice di terrore, c’è la paura di sbandare, di cogliere un riflesso di se stessi da un vetro in frantumi. Il dolo-

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re di una donna fiera e sensibile, Rosa Martinez, che il giorno delle nozze prende marito senza sapere di andare incontro alla morte. La lotta di Elvira Salemi, magistrato volitivo che ingaggia una lotta con se stessa, divisa fra passione e giustizia. E poi i boss, Gaspare Occhiuzzo e Nino Giaconia, fiere fameliche in cui affiorano i segni di un’umanità deforme. Maschere truci e nobili, misere e generose, quelle tratteggiate da Sottile. Ma maschere nude. Volti che affiorano da un velo tetro e portano in faccia un sudario di rabbia e di sogni infranti. In esterni, l’azione secca e incalzante, ne scolpisce le parti in commedia. Ritmo e co-

struzione della sequenza non danno tregua. In interni, dialoghi feroci disegnano un lessico familiare salottiero e fuorviante, che scava il terrore e rende muti. La tragedia greca a braccetto con il teatro dell’assurdo. Un’umanità doppia, incapace di sopravvivere senza le luci del palcoscenico, che affida all’ultimo respiro un singhiozzo di verità tardiva. Pentimenti e delitti, giochi a scacchi con la fiducia, la scelta continua di un alleato, di un cuore sincero, di un amico. Forse, più segretamente, di un’altra vita. Nelle pagine di Più scuro di mezzanotte il linguaggio del coro si disarticola in frasi smozzicate, in carinerie fasul-

le e imperativi ineludibili. La parola si eclissa in recita. Ciò che conta è uccidere gli altri. Per scoprire, troppo tardi, di aver ammazzato se stessi. Fuori da quell’immensa liturgia scenica che è la mafia, dove solo i colpi di pistola sono veri, esiste però il coraggio di strappare il sipario. Schiacciati da vite volute, sbagliate, strozzate, i personaggi si dibattono in un duello all’ultimo respiro. In un mondo che è ormai il cuore di tenebra di un’Italia intera, la scelta, sembra dirci Sottile, è una sola. Morire di spavento o guarire. Salvo Sottile, Più scuro di mezzanotte. Una storia di mafia, Sperling&Kupfer, 345 pagine, 19,00 euro

altre letture Reinhart Koselleck è uno dei grandi protagonisti della storiografia contemporanea. Dobbiamo a lui l’elaborazione di un influente modello di storia concettuale fondato sulla convinzione che la dissoluzione del mondo antico e la nascita del mondo moderno abbiano lasciato tracce vistose nella storia dei termini e dei concetti politico-sociali. ”Storia”, ”progresso”, ”sviluppo”, ”emancipazione”, ”crisi”, ”utopia” sono tutti termini da cui è possibile dedurre le complesse dinamiche che hanno caratterizzato il passaggio alla modernità. Termini ora raccolti e spiegati nel Vocabolario della modernità (Il Mulino, 159 pagine, 15,00 euro). Dai trapianti di capelli alla bandana, dal ritocco fotografico alla chirurgia estetica, il corpo del capo è diventato la metafora vivente della nostra stessa idea di corpo, della sua durata nel tempo, del suo valore e del suo sfruttamento economico. È la tesi di Marco Belpoliti che in Il corpo del capo (Le fenici rosse, 153 pagine, 12,00 euro) descrive il modo in cui Silvio Berlusconi, sia come imprenditore sia come politico, ha usato il proprio corpo attraverso il potere dell’immagine ma dove ragiona anche sull’uso del corpo da parte dei politici post-moderni. Concludendo che, nell’epoca in cui ciascuno, come disse Andy Warhol, ha diritto al suo quarto d’ora di celebrità, il Cavaliere risulta essere il più warholiano dei politici. Dal forno a microonde a lettore dvd, dall’aspirapolvere alla lavatrice, decine di macchine fanno delle nostre case luoghi confortevoli. Dietro, insospettabili, ci sono secoli di scienza, geni come Faraday e Einstein. Le macchine invisibili di Piero Bianucci (Longanesi, 309 pagine, 18,60 euro) racconta la storia di queste macchine che per la maggior parte di noi sono misteriose scatole nere, a cominciare dai 30-40 motori elettrici che lavorano come docili schiavi nascosti negli elettrodomestici. Sostenendo che scienza e tecnologia hanno migliorato l’esistenza umana in modo incredibile: saponetta e frigorifero - dice Bianucci hanno salvato più vite degli antibiotici. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

MARIO SOLDATI DOPO ANNI DI GAVETTA ALL’OMBRA DI MARIO CAMERINI, DI SCENEGGIATURE E DOPPIE VERSIONI, NEL 1939 LO SCRITTORE REALIZZA “DORA NELSON”, IL SUO PRIMO FILM D’AUTORE. LA RAFFINATA COMMEDIA ALLA LUBITSCH GLI APRE LE PORTE DEL CINEMA DI QUALITÀ FINO AL TRIONFO DI “PICCOLO MONDO ANTICO”

Il fantasma di celluloide di Orio Caldiron el gennaio 1931 Mario Soldati, l’insolito passeggero della nave da carico Ida della Cosulich line, alterna l’euforia allo sconforto. Scaduto il permesso di soggiorno e sfumata ogni remota possibilità di lavoro negli Stati Uniti, non ha trovato di meglio per rientrare in Italia. Se non fosse assalito dai rimpianti per quello che si lascia alle spalle e dai timori per la precarietà che l’attende in patria, il viaggio nel cargo sbattuto dalla salsedine e dalle sciabolate del sole sarebbe quasi felice, senza nessun altro passeggero tranne lui che, improvvisatosi marinaio, corre a piedi nudi da una parte all’altra della nave, subito adottato da un equipaggio rotto a tutto, degno delle amatissime storie marinare di Stevenson e Conrad. Nel lungo mese attraverso l’Atlantico da New York a Trieste, il periodo della borsa di studio alla Columbia University, dove incontra Marion Rieckelman, destinata a essere la sua prima moglie, lascia il posto alla frustrazione di non essere riuscito a diventare cittadino americano ottenendo un impiego in un’altra università e all’amarezza per l’ostilità degli ambienti ufficiali italo-americani.

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Quando nel ’29 si era imbarcato sul Conte Biancamano, gli Stati Uniti gli sembravano quasi un miraggio, la terra promessa in cui allontanarsi per sempre dal fascismo che detestava, ma il giovedì nero di Wall Street avvelena il suo sogno americano squadernandogli davanti agli occhi l’epopea pazza e disperata del tracollo economico, del proibizionismo, dei gangster, dei bar clandestini, della disoccupazione e della miseria. Lo scenario del paese delle grandi contraddizioni, in cui avrebbe voluto vivere, si ritrova di lì a qualche anno in America primo amore, singolare rivelazione di un amore contrastato, tra illusione e risentimento. Il cinema non vi ha un grande posto, ma si confonde con gli incontri a Brooklyn, i vicoli di Harlem, i pellegrinaggi nella Bowery, è una tessera della nevrosi collettiva in cui si rispecchia e si confonde. Nel considerare il rapporto complice e viscerale che il cinema ha stabilito con il pubblico americano, non trascura il ruolo dell’industria, che ha finito col creare un vero e proprio gusto artistico, riconoscibile nei prodotti più diversi: «Gusto sicuro, definito, con le sue regole, i suoi schemi, le sue convenzioni, i suoi luoghi topici. Come tutti i gusti che formarono certi generi letterari e artistici, i mosaici bizantini, il teatro medievale, il poema cavalleresco, l’architettura barocca». Sono film basati sulla rapidità dell’azione: «Volgari, violenti, convenzionali, senza verosimiglianza, senza finezze psicologiche e fotografiche. Ma fatti, fatti, fatti. Uno dopo l’altro, che non danno tregua. Uno comico e uno tragico. Un bacio e una rivoltellata. Una preghiera e un inseguimento. Un treno di notte nella prateria e un’alba su un terrazzo di un grattacielo». Il cinema italiano in cui al suo rientro è costretto a lavorare per vivere - l’amico di famiglia Vittorio Arton amministratore delegato della Cines-Pittaluga non gli può offrire niente altro - è molto diverso. All’inizio le sue mansioni non sono affatto esaltanti. Ciacchista, aiuto, segretario di edizione, si

sente un forzato del cinema. Ma la mattina del luglio 1931 in cui entra per la prima volta in un teatro di posa si stampa indelebile nella sua memoria. Mentre nel silenzio dello studio risuona la voce dell’operatore, «Gira quel cinquemila! Inclinalo! Più giù, ecco, bravo: così! Adesso il parabolico. Alza!», nell’aria arroventata dei proiettori avviene l’incontro con Mario Camerini, il numero uno della regia che sta realizzando Figaro e la sua giornata. Nel lungo apprendistato lavora anche con altri, ma è da lui, dallo schivo maestro romano-abruzzese, che a poco a poco imparerà il mestiere. La collaborazione tra i due, Camerini ha trentasei anni Soldati venticinque, si farà sempre più viva e profonda. Il

per gli azzardi del doppio si avverte già nella strepitosa epopea del doppio gioco impersonata dal giornalaio Vittorio De Sica, che si finge il conte Max Varaldo. La felice messa in scena della finzione è il segreto del film, sempre in bilico tra verità e menzogna, apparenza e realtà, maschera e controfigura, illusionismo e svelamento.

Nel periodo della Cines, il classico incidente di percorso si chiama Acciaio (1933), il film ambientato nelle acciaierie di Terni che il regime considera il simbolo della modernizzazione del paese. Il soggetto era stato chiesto a Luigi Pirandello, che ne delega l’elaborazione al figlio Stefano dopo

Solo negli anni Settanta, Soldati osò rievocare l’amore senza esito sbocciato tra lui e Alida Valli, sua amatissima attrice feticcio, sul set del film tratto dal romanzo di Antonio Fogazzaro. Un segreto a lungo conservato ciacchista è promosso sul campo, diventando sceneggiatore di alcuni dei film più celebri del momento, da Gli uomini, che mascalzoni... (1932) a Il signor Max (1937). Nel primo, l’apporto dello scrittore-cineasta è evidente soprattutto nell’ambientazione milanese, nella scelta dello scenario privilegiato della Fiera con i suoi stand, autentica vetrina della modernizzazione, che rappresenta il clima diverso del Nord, dove l’industria culturale sta affermandosi con le prime avvisaglie della pubblicità di massa. Il signor Max è il film cui Soldati tiene di più, rivendicando a sé la perfetta geometria della costruzione e l’ironica raffigurazione del mondo aristocratico e alto borghese in cui il gioco del bridge è vissuto come un rito e il manuale teorico pratico di Ely Culberson qualcosa di simile al trattato sulla guerra di Karl von Clausewitz. Il gusto del futuro scrittore

avergli suggerito l’intelaiatura complessiva della storia. Nonostante l’entusiasmo dimostrato durante i sopralluoghi a Terni, negli impianti siderurgici e nelle vicine cascate dove sarà girato il film, il drammaturgo non è particolarmente interessato alla proposta avanzatagli dallo stesso Benito Mussolini. Nell’occasione non erano mancate assicurazioni sull’ampia risonanza internazionale del progetto, né garanzie di controllo sulla sceneggiatura e sulla realizzazione dell’intero film. Ma la scelta di Walter Ruttmann come regista si rivela subito sbagliata perché il grande documentarista non ha mai lavorato con gli attori e ripensa la storia nei termini congeniali della sinfonia visiva, infischiandosene delle esigenze narrative. La sceneggiatura, scritta da Soldati con Emilio Cecchi, allora direttore artistico della Cines, viene continuamente stravolta dal regista tedesco, che nessuno


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son». Dora: «È perché devo partire, altrimenti vi avrei fatto vedere io!». Pierina: «Già, così tutti saprebbero che si è potuto fare un film di Dora Nelson senza Dora Nelson». Dora: «E allora… buona fortuna, Dora Nelson». Pierina: «Buon viaggio, Dora Nelson, e tanti auguri!». Il gioco si chiude simmetricamente come era cominciato, ma questa volta il set è visto dal di fuori, mentre Carlo Ninchi e Assia Noris si lasciano alle spalle la città e le sue finzioni. Nella sequenza finale la vita e il cinema si salutano per l’ultima volta, congedandosi dagli spettatori dopo aver giocato a rifarsi il verso nello specchio malizioso dei simulacri contrapposti. Se Pierina va verso l’happy end del matrimonio, Dora si sente la principessa che non è riuscita a essere soltanto nella finzione cinematografica di La principessa misteriosa, il film che stanno girando.

Mario Soldati alla macchina da presa e Alida Valli. In basso, da sinistra: la locandina di “Piccolo mondo antico”, il regista sul set di “Dora Nelson” (1939) e di “Italia piccola” (1957), una scena di “Dora Nelson” e di “Piccolo mondo antico” (1941)

riesce a tenere a freno. Nell’incontro finale tra Pirandello e Soldati, il drammaturgo rimprovera duramente lo scrittore: «Credevo che avesse più rispetto per il Maestro». Il film è un flop clamoroso, di cui paga lo scotto soltanto Soldati cacciato su due piedi dalla Cines. Non gli resta che tornare alla scrittura: ma dai reportage giornalistici di quel periodo ricaverà America primo amore, uno dei suoi libri più clamorosi, in cui l’individuazione del modello del cinema americano, come artigianato, organizzazione industriale e gusto collettivo, non potrebbe essere più lucida e disincantata. 24 ore in uno studio cinematografico, il manuale pubblicato negli stessi anni, oscilla invece tra la guida pratica e il bozzetto di costume. Ma è tutt’altro che incerta nella tesi di fondo, che riecheggia uno slogan d’epoca: «Il cinema talvolta è arte, ma è sempre industria».

L’antica diffidenza del forzato del set è ormai esorcizzata. Ma nel mondo del cinema Soldati continua a essere considerato un letterato, cui si chiede di collaborare a numerose sceneggiature, mai di dirigere il film. L’avventura delle doppie versioni, da Il peccato di Regalia Sanchez a La principessa di Tarakanova e La signora di Montecarlo, rimanda la decisione, ma è insieme un rito di passaggio. Sprofondato nella sedia del regista dell’edizione italiana, lo scrittore si diverte nelle finte regie di film italo-spagnoli o italo-francesi, dove il grande impegno consiste soprattutto nel non fare assolutamente nulla, tranne girare con la mano sinistra qualche breve scena, qualche modesto raccordo. Soltanto nel 1939 riesce a vincere le resistenze dei produttori, debuttando nella regia con Dora Nelson, ambientato a Cinecittà sul set di un film di costume, dove si diverte a prendere in giro le convenzioni del cinema autarchico, mentre sfida il suo amato Lubitsch sul terreno insidioso della commedia sofisticata. Le poche battute che il principe e la diva si scambiano nella prima sequenza - «Vladimiro, non avrei mai pensato di trovarvi qui». «Vi rincresce?». «Oh, no…». «Lasciate allora, Sonia, che le mie braccia vi trasci-

nino in questo valzer inebriante…» - fanno subito pensare a un principato di cartapesta, dove l’ascendenza mitteleuropea si nasconde tra i maliziosi labirinti di una mappa immaginaria, se non fossero bruscamente interrotte dagli urli di Dora che manda all’aria il clima artificioso dell’inizio, strepitando di averne abbastanza e di non voler più girare. Un’uscita di scena che spiazza tecnici e regista e avvia il gioco del doppio al centro dell’intero film, la dialettica tra Dora e Pierina, la diva capricciosa e la povera modista, la realtà e la finzione, l’attore e il personaggio, l’amore e il caso, lo svelamento e la reticenza, mentre le porte si aprono e si chiudono per scandire le intermittenze del cuore, le am-

Il successo dell’esordio, che viene dopo il lungo tirocinio e gli alti e bassi del mestiere, apre a Soldati le porte del cinema di qualità. Carlo Ponti, un milanese alle prime armi, ma destinato a diventare uno dei maggiori produttori italiani, gli propone Piccolo mondo antico, dal romanzo di Antonio Fogazzaro. Soldati si entusiasma subito per il progetto, di cui intuisce le grandi possibilità anche se non ha letto il libro, uno dei preferiti di sua madre. Le trattative vanno per le lunghe, ma resiste; per scaramanzia ha deciso di leggere il romanzo solo dopo la firma del contratto. Quando finalmente tutto è deciso e ha già incassato il primo anticipo, passa la notte a leggerlo, rapito e felice dell’occasione che gli è stata regalata dal destino. Il romanzo è un capolavoro. Se ne può trarre certamente un bel film, pensa Soldati men-

tre non riesce a fermare le lacrime. Scritta la sceneggiatura, la lavorazione procede al galoppo dal settembre al dicembre 1940. Il regista confessa di non essere mai stato altrettanto duro e intransigente, sempre scontento e arrabbiato. Perché? La ragazza olandese di cui è innamorato lo ha lasciato, travolta dalle vicissitudini della guerra. Forse per essere un grande regista bisogna essere infelici e vendicarsi dell’amarezza che si sente dentro, tormentando attori, operatori, elettricisti, montatori. Quando esce, nell’aprile dell’anno successivo, Piccolo mondo antico conquista subito il pubblico, diventando uno dei maggiori successi dell’intero periodo. La critica

Dalla borsa di studio alla Columbia University ad “America primo amore”. Dagli esordi come ciacchista all’incidente di percorso con “Acciaio”. Da “Il Signor Max” agli azzardi del doppio, all’incontro decisivo con Carlo Ponti bizioni aristocratiche della diva, tanto ingenue quanto romanzesche, i trucchi escogitati dal marito creduto morto e che invece tira le fila della messinscena della messinscena. «Con Dora Nelson, ho provato finalmente il piacere di riconquistare l’autorità, di fare un vero film, di costruire l’architettura del soggetto», ricorda Soldati. «Mi sono sentito libero di divertirmi come volevo. Ecco perché questo film è venuto bene». Il divertimento nasce dall’euforia della libertà, dalla disinvoltura con cui il regista si sente in grado di muovere come vuole le sue pedine nella geometrica costruzione della commedia fino all’incontro decisivo tra la diva e la modista. Dora: «Ma quello è il mio vestito!». Pierina: «E quella è la mia faccia!». Dora: «Ma come osate fingervi Dora Nelson? Guardatevi, non siete nemmeno bella!». Pierina: «Mi dispiace per voi, perché tutti mi credono Dora Nel-

non si lascia sfuggire la novità di un film girato tutto in esterni, che per la prima volta va alla scoperta del paesaggio italiano. Sono tutti d’accordo nell’applaudire Alida Valli, che presta alla protagonista la scontrosa freschezza di una «mula» triestina di diciannove anni. Il pubblico si innamora della giovanissima attrice, che non vuole saperne di essere considerata una diva. Se ne innamora probabilmente anche Mario, che soffre per la sua olandesina e non ne vuole tradire il ricordo. Soltanto in un racconto degli anni Settanta, osa rievocare, tra sogno e realtà, l’enigmatica offerta di Alida, il suo incomprensibile rifiuto, il suo sconcertante trasalimento. Ma l’eterno innamorato di un «fantasma di celluloide» che non ha toccato nemmeno con un dito, è ormai un vecchio regista in pensione, deciso a conservare per sempre il segreto.


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tv

Quelle brave I ragazze di

l colore dominante è il verde. Ovviamente. La conduttrice-regina è Iva Zanicchi. Ovviamente. Le cravatte (in maggioranza) degli uomini in platea sono verdi. Ovviamente. Mi fermo qui, è facile capire che siamo a una festa leghista. Ma non nella piazza d’un paese del Bergamasco o del Varesotto, bensì su Rete 4, alle 23,30. Miss Padania aveva un’intenzione forte, quella di dimostrare che gli altri concorsi di bellezze femminili virano tutti sulla puttanaggine. Intenzione fattasi meccanismo scenico: le fanciulle erano in costume intero (verde) e non col due pezzi. Erano accompagnate prima da mamma e poi da papà, infine si sorreggevano al braccio o del fidanzato o dell’amico. Tutte o quasi hanno risposto a piccoli quesiti culturali. Insomma la dimostrazione che se non sei accompagnata da un parente sei una poco di buono. Lo spettacolo comincia con un conduttore giovane che ha problemi di microfono. Il tecnico glieli risolve e dice una frase con la parola «culo». Scusate, chi scrive queste righe fa fatica a comprendere l’accento della Val Brembana. Ma ha capito bene che la battuta derivava dal fatto che le ragazze erano di schiena, quindi con «il lato B» bene in mostra. La sezione corporea in questione a Montecatini Terme, dove si gareggia per diventare miss Italia, è bandiera di prostitute. A Rete 4 significa fortuna, gioia, benessere. Culo, appunto. Come si direbbe in una bettola del Vicentino. Sfilano le 24 bellissime e scopro ignorante che sono! che la Padania, questa invenzione geografica senza nessuna stampella storica, arriva fino alle Marche. C’è Ilaria che viene da Anco-

Miss Padania

web

video

na, un’altra da Iesi. Forse la prossima volta saremo nel Tavoliere delle Puglie: piatto, piattissimo. E ben gradito se a tener lontani i clandestini ci pensano le motovedette della Marina Militare. Non si sa mai: qualche stupenda donna berbera potrebbe far sfigurare le italiche, quelle con radici nordiche. Iva Zanicchi ribadisce il senso della manifestazione, pardon: della contromanifestazione: «Queste ragazze sono belle di fuori e belle di dentro, orgogliose, fiere, amano la famiglia, le radici, la loro terra». Difatti Nicole (nome straniero, ahi, ahi!) di Padova dichiara la sua passione: «risi e bisi e polenta e usei», specialità venete. Benedetta tiene a dire di essere «orgogliosamente veronese». Non le basta: «Quindi abbasso il Colosseo, noi abbiamo l’Arena». Povera Benedetta: e l’Arena di Verona chi l’ha costruita? Un guerriero di stirpe celtica o un bastardo architetto di Roma? La Zanicchi insiste: queste sono state scelte anche per le loro qualità morali. Tra il pubblico c’è anche Umberto Bossi, soddisfatto. Be’, è una bella conquista padana, in attesa del sospirato federalismo. Come dire: intanto mettiamo in tv cosce e sederi alti (in senso settentrionale), poi ci occuperemo d’altro. Oppure: occuperemo altre reti. Il sociologo Francesco Alberoni, presidente della giuria, chiede a una concorrente di citare almeno uno o due nomi di registi italiani viventi. Scena muta. L’assessore regionale Roberto Zanello, essendo alla Cultura, fa una sorridente domanda: in quell’altra riva del lago di Como è stato ambientato un romanzo, quale? La ragazza non ha esitazioni. Era un trappolone tremendo, bisogna ammetterlo. Emilio Fede chiede se si può parlare di informazione obiettiva. La prescelta risponde di volere notizie più ottimistiche sull’Italia. Scroscio di applausi. Lo psicologo Willy Pasini (che viene dalla Svizzera, ultra-padano quindi, anzi: sopra-padano) diffonde un certo imbarazzo: che differenza c’è tra intimità corporale e intimità sessuale? La brunetta dall’aria vispa la butta lì: l’intimità sessuale è puramente fisica. Come dire: col sesso non si va da nessuna parte, solo in un’auto parcheggiata in una strada buia. Bossi rifiuta di far domande. Forse il (p.m.f.) più sobrio di tutti.

games

dvd

KNOL CONTRO WIKIPEDIA

FAB FOUR ALLA CONSOLE

BYE BYE AUTO ELETTRICA

S

i chiama Knol e sfida in campo aperto un gigante del settore come Wikipedia. A lanciare l’attacco al cuore del sapere on line c’è ancora una volta Google. Già pronta la versione beta, Knol deriva il proprio nome dalla contrazione di knowledge, ossia conoscenza. Se dal famoso concorrente, l’azienda di Mountain View trae il concetto di sapere autoprodotto, Knol spinge in

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a Love me do a She loves you, da Ticket to ride a Strawberry fields forever. La passione per i Fab Four dilaga anche nel mondo delle console, presso le quali McCartney e soci debutteranno il prossimo 9 settembre. In una data, 9/09/09, altamente simbolica per i cinque di Liverpool, che attribuivano al numero particolare favore scarmantico. Basato su Rock Band, noto format tele-

e stazioni in disuso che contornano le highways californiane, danno la misura di un abbandono, ormai risalente a tredici anni fa, di quel progetto quanto mai attuale che fu l’Ev1. Chi ha ucciso l’auto elettrica?, documentario d’inchiesta per la regia di Chris Paine, ripercorre la storia delle vetture ecologiche, che finirono ammassate nel deserto dell’Arizona. Un migliaio di modelli, a emis-

In fase di sperimentazione, il progetto enciclopedico di Google si basa sul pluralismo

”The Beatles” permetterà ai fan di suonare chitarra e batteria con i membri della band

L’inchiesta di Chris Paine ripercorre la storia delle Ev1, che finirono ammassate nel deserto

avanti l’enciclopedismo in rete puntando sul pluralismo. Ciascun utente potrà redigere i propri contenuti offrendo cioè differenti versioni di uno stesso argomento. Inoltre ogni compilatore potrà chiedere e ricevere suggerimenti prima della pubblicazione, e ricevere poi, dato l’imprimatur, commenti, voti e recensioni. Su base volontaria, la collaborazione al progetto Knol non esclude ricavi. L’integrazione di link pubblicitari e il computo sulla base dello share, consentiranno all’autore guadagni proporzionali. Ancora scarna, la versione italiana è in rampa di lancio. Ma c’è da giurare che, finita la sperimentazione, gli epigoni di Diderot si fregheranno le mani.

visivo firmato Mtv, The Beatles «permetterà ai fan di prendere in mano chitarra, basso o batteria e provare lo straordinario repertorio della band con un gioco che li porterà in viaggio attraverso la carriera del leggendario gruppo», spiegano i produttori. L’interazione con il prodotto, i colori vivaci e l’atmosfera festosa del videogame, proseguono la nuova linea dei giochi ludici, sospinti sempre più verso la compartecipazione di piattaforma ludica e piattaforma fisica entro cui si muove il giocatore. La musica dei Beatles, interattiva per eccellenza, è perfetta allo scopo.

sione zero, ricaricabili, che nonostante le ottime performance e una velocità di punta di 250 km/h, finirono con l’essere boicottate dalle grandi case automobilistiche. Supportata dalle testimonianze di premi Oscar come Tom Hanks, Mel Gibson e Martin Sheen, l’opera si segnala per i brillanti contributi didattici legati alle emissioni inquinanti dei gas di scarico. Nata per far fronte allo Zev (Zero Emission Viechle), decreto californiano che fissava per il 1998 una quota fissa di auto a emissione nulla, l’ Ev1 ebbe un sostegno di Stato, un miliardo di dollari, devoluto alla General Motors. Finì con l’insabbiamento dei veicoli nel deserto, e l’onda lunga della guerra in Iraq.

a cura di Francesco Lo Dico

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cinema Eastwood senza aureola MobyDICK

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e un thriller mozzafiato di Anselma Dell’Olio eri sono usciti due film per i quali vale la pena scomodarsi da casa, cercare parcheggio e pagare il biglietto. Non succede tutte le settimane di avere la prova dell’ampia portata del cinema americano, dal piccolo film indipendente, a basso costo e senza star come Frozen River, di Courtney Hunt, alla ricca produzione di una major come Gran Torino, di e con Clint Eastwood: ecco perché il cinema americano domina il mercato. Frozen River, noir vincitore a Sundance, per fortuna è sfuggito all’oblio dei premiati precedenti, rimasti senza distribuzione. L’opera prima della Hunt ha avuto due meritatissime nomination all’Oscar: per sceneggiatura originale e per attrice protagonista. Melissa Leo, vincitrice con la Hunt degli Independent Spirit Awards, è un journeyman actor: una stimata professionista di lungo corso e di culto (per la detective Kay Howard nella serie tv Homicide) ma non famosa.

I

Nel film Leo è Ray Eddy, residente in una vecchia roulotte all’estremo Nord americano, dove New York confina con il Quebec. Incontriamo Ray seduta in macchina mentre fissa un libretto bancario. Il desolante panorama rispecchia lo stato interiore della donna; avvolta in una vestaglia, con i piedi nudi nelle pantofole, si accende una sigaretta. È troppo stordita perché si accorga del gelo. Mancano pochi giorni a Natale e ha appena scoperto che suo marito Troy, malato di gioco d’azzardo, è sparito dopo aver bruciato in una sala di Bingo i risparmi faticosamente racimolati da Ray per l’ultima, cospicua rata di una nuova casa prefabbricata «a doppia larghezza»; ora non ci sono neanche i soldi per dar da mangiare e comprare qualche regalino ai loro due ragazzi, un adolescente e un bambino di cinque anni. Ray lavora part-time in un emporio discount ed è ridotta a mettere in tavola, mattina e sera, solo popcorn e Tang, una pseudo aranciata fatta con la polverina. Frugando tra i cuscini del divano riesce a mettere insieme gli spiccioli da dare ai ragazzi per la merenda a scuola. Gli Eddy appartengono alla working poor, quelli che lavorano per il minimo sindacale e tirano avanti senza sussidi statali. Upstate New York, a nord di Manhattan, ha un’economia cronicamente depressa da decenni. La cittadina dove abita la famiglia Eddy è vicina alla riserva della tribù indigena moicana, una specie di zona franca a cavallo delle due sponde del Saint Lawrence, fiume che fa da confine con il Canada, e che si gela d’inverno. La tensione aumenta quando Ray scopre e segue Lila Piccola Lupa (Misty Upham), una giovane indigena alla guida dell’auto abbandonata dal marito. Lila si barrica nella sua casetta, e Ray tira fuori una pistola e spara contro la minuscola e malandata roulotte per costringerla a uscire. Lila, imbronciata e guardinga quan-

Torna in un ruolo che ricorda Callaghan l’attore-regista superlodato per “Million dollar baby” e “Changeling”. Ed è la formula che gli si addice di più. Da non perdere “Frozen river”, opera prima di Courtney Hunt vincitrice al Sundance Festival to Ray è tesa e disperata, si giustifica dicendo che l’auto era abbandonata e aveva le chiavi ancora attaccate; offre di portarla da un tipo disposto a pagargliela, per via dell’apertura automatica del portabagagli, molto più del suo valore di mercato. Invece Ray si trova coinvolta nel trasporto illegale d’immigrati clandestini dal Canada in Usa, attraversando il fiume ghiacciato dentro la riserva (dove i federali non entrano) con cinesi o pachistani nascosti nel bagagliaio. Ray è rispettosa della legge, ma i bigliettoni contanti che frutta il contrabbando sono una manna inaspettata. Lila è in disgrazia con il Consiglio della tribù che le ha vietato di possedere una macchina (ha la fedina penale sporca) e ha bisogno di Ray, perché la polizia tende a non fermare i bianchi, e possiede l’auto giusta. Lila ha altri guai: è vedova di un giovane contrabbandiere moicano morto quando il ghiaccio ha ceduto, inghiottendo lui e la sua auto, la suocera le ha sottratto il suo bambino, e non riesce a fare un lavoro normale per via di una miopia estrema non curata. Le due donne non sono alleate naturali. Lila fa subito sapere che non ama «i bianchi», e per Ray i moicani sono quasi degli extraterrestri e Lila una ladra. Ma sono due madri che la sfangano senza l’aiuto di un uomo e ciascuna ha un sogno: Ray vuole dare ai figli una vita decente e la casa dei loro sogni (e non perdere la caparra); Lila deve riuscire a guadagnare e creare un focolare accettabile per riavere il suo bambino. È un insolito buddy

movie al femminile, un Thelma e Louise con i piedi per terra, e se non gli si appiccica l’etichetta «neorealista» è perché manca la denuncia, il piagnisteo, il sentimentalismo e il cattivo di turno. Persino Troy, il marito che ha tradito la famiglia a Natale, è descritto come un buon padre, follia del gioco a parte. Gli anziani della tribù che non difendono Lila contro sua suocera, cercano però di aiutarla, cosa che lei rende difficile con la sua cocciutaggine. La storia è appassionante, con un buon ritmo, e gli sviluppi imprevedibili e verosimili. Quentin Tarantino ha detto: «Il film è uno dei thriller più emozionanti dell’anno, che stringe il cuore in una morsa fino all’ultima immagine». È la verità.

Gran Torino prende il nome da una Ford del 1972, un’auto classica da collezionisti. Clint Eastwood, dopo i solenni, piagnucolosi e artefatti Million Dollar Baby e Changeling, ritorna alle radici, quando il suo Ispettore Callaghan, castigatore di delinquenti, provocava l’ira delle Anime Belle che lo accusavano di esaltare un giustiziere fascistoide. Qui l’amante della legge e dell’ordine si chiama Walt Kowalski (Eastwood), reduce della guerra di Corea e metalmeccanico pensionato della Ford di Detroit, dove ha lavorato anche all’assemblaggio del suo amato gioiello vintage, tenuto come nuovo. Da buon colletto blu, Walt ama il suo cane, il suo fucile, la birra, la patria, i figli e la moglie appena morta, non necessariamente in quell’or-

dine. È anche un uomo irrascibile, amareggiato per i cambiamenti nel suo modesto quartiere, invaso da immigranti asiatici che occupano le villette che erano di polacchi e irlandesi. È un uomo privo di complessi perbenisti, e musi gialli è il più ripetibile degli insulti che usa per loro. Non gliene importa nulla che la famiglia della porta accanto sia Hmong, montanari del Sud della Cina; per lui sono tutti uguali e da evitare. La storia segue l’evoluzione di un reazionario con solidi valori, che scopre di avere più in comune con i suoi vicini con gli occhi a mandorla che con i figli, borghesucci riccastri che si sentono molto più evoluti di lui. I Hmong, invece, sono attaccati alle tradizioni, e onorano la famiglia, gli anziani e il loro codice etico: si lavora duro, ci si difende da soli e senza lamentarsi, e il proprio posto nel mondo si conquista con il sudore della fronte e senza chiedere nulla a nessuno. E se fai un torto a qualcuno, devi lavorare gratis per la vittima per ottenere il perdono. È quel che succede al timido Thao (Bee Vang), il giovane vicino che i cugini delinquenti vogliono arruolare a forza nella loro gang. Il rito d’iniziazione è rubare la Gran Torino al vecchio vicino. La trama ruota intorno alla lotta per strappare Thao, beccato in flagrante da Walt, alle grinfie dei malavitosi, e il suo apprendistato da uomo. C’è anche lo scontro generazionale tra Walt e i suoi bolsi figli maschi (uno vende auto giapponesi, con vasto disgusto del padre fordista), le nuore impiccione e l’imbronciata nipote piena di piercing che concupisce la Gran Torino del nonno. Sono impagabili i loro regali per il compleanno di Walt; patinati dépliant per un ospizio di lusso e un telefono con i numeri giganti. Grazie alla penitenza imposta a Thao dal codice Hmong, il vecchio brontolone entra in confidenza con i vicini asiatici, sedotto dal loro sano attaccamento alle radici, e dal buon umore di Sue, (Ahney Her, bravissima), la sorella maggiore di Thao, che sorride quando Walt la chiama Dragonessa, perché vi coglie tutto il ruvido affetto di un uomo anti sentimentale. Le imperfezioni del film non ne impediscono il profondo godimento, nemmeno nell’iperbolico finale; resta molto superiore all’asettico perfettismo di altri film di Eastwood ricattatori e sopravalutati. Ben tornato, Dirty Harry: ti sta meglio il fucile dell’aureola.


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poesia

Le chiare epifanie di Giorgio Caproni a poesia di Giorgio Caproni (19121990), piena di vento marino, di luce, di azzurro, mi travolse quando avevo trent’anni. Anche perciò lo incontrai con il cuore emozionato nella casa romana di via Pio Foà. Con il suo sguardo timido e arguto mi chiese quasi con apprensione: «Ma davvero il computer potrà sostituire il cervello umano?». Ovviamente la risposta alla domanda stava nella sua poesia. L’Intelligenza Artificiale è solo una metafora della mente umana. Se è concepibile un computer in grado di scrivere romanzi e poesie (è già stato fatto), si tratta di romanzi e poesie che già in sé hanno una desolante vocazione alla riproducibilità. Non riesco invece a immaginare alcun software in grado di comporre versi lontanamente comparabili a quelli caproniani, nei quali il pensiero più denso, verticale si fa quasi naturalmente verso, poiché è emozione diretta delle cose (la poesia come «pensiero emotivo» di cui parla Giorgio Manacorda, seguendo la neuroscienza). Poi Caproni mi disse di essere sommerso dai dattiloscritti di poeti esordienti. «Il livello medio è buono - aggiunse - ma proprio questo è il punto: a volte ci vorrebbe una piccola imperfezione, un errore, che almeno denoti una personalità, la presenza di una “voce”».

L

Questa stessa dichiarazione si potrebbe riferire alla sua poesia, la cui ariosa cantabilità è incrinata da dissonanze, scarti, torsioni del metro classico. Pur essendo un ousider, «scoperto» tardivamente (da una recensione di Pasolini nel 1952), Caproni mi appare come il poeta italiano più importante della seconda metà del secolo; e comunque in lui anche generi tradizionali come la canzonetta, la ballata, il sonetto sono registrati da una sensibilità sghemba, modernissima. Sui suoi versi è stato probabilmente detto tutto, così sui suoi temi ricorrenti (viaggio, congedo, esilio) e sulle sue parentele letterarie, da Saba e Petrocchi a Penna e Bertolucci (il miglior ritratto critico resta l’introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo al Meridiano). Insisterei sulla miracolosa leggibilità della sua poesia, che non è solo genericamente «musicale» ma soprattutto orecchiabile. Quasi tutta in rima (benché irregolare) si può imparare facilmente a memoria. Per cui anche se non riusciamo a essere attenti subito magari lo diventiamo in un secondo momento quando ce la recitiamo mentalmente. La sua comunicatività, insolita per la lirica moderna, si fonda su un riconoscimento pieno, solidale della realtà quotidiana. Cioè, nonostante il pessimismo storico («Fa freddo nella storia./ Voglio andarmene») e metafisico («si dice, anche,/ che la morte è un trapasso/ - certo: dal sangue al sasso -») sul mondo, da questo Caproni non si ritrae sdegnosamente o angosciosamente, anzi mostra di averne bisogno. E così nomina con umile attenzione gli oggetti anche minuscoli che lo popolano e gli eventi che ne scandiscono il ritmo: albe frigide, aromi acri, odori marini di erbe, e poi osterie, nebbiosi bicchieri, tram, spazzini, case cantoniere, mercati di pesce… Non aveva ragione il loico Calvino a sottolineare l’elemento del nulla, per cui nella poesia caproniana «ciò che è è poca cosa». No, ciò che è non è mai poca cosa, e anzi scombi-

di Filippo La Porta

PER LEI Per lei voglio rime chiare, usuali: in - are. Rime magari vietate, ma aperte: ventilate. Rime coi suoni fini (di mare) dei suoi orecchini. O che abbiano, coralline, le tinte delle sue collanine. Rime che a distanza (Annina era così schietta) conservino l’eleganza povera, ma altrettanto netta. Rime che non siano labili, anche se orecchiabili. Rime non crepuscolari, ma verdi, elementari. Giorgio Caproni da Il seme del piangere

na qualsiasi logica con la sua fisicità irriducibile e toccata dalla grazia: come l’«odore di tronchi sbucciati» che gli brucia la mente. Non che nei suoi versi sia assente il nulla. Le ultime raccolte (dal Franco cacciatore al Conte di Kevenhuller alla postuma Res amissa), che inclinano volentieri verso l’epigramma, sono altrettante variazioni quasi smagrite su una teologia negativa («Dio s’è suicidato», o anche «Sta forse nel suo non essere/ l’immensità di Dio»…). Il punto è un altro. Sappiamo come a Caproni piacesse giocare con il proprio nome di «caproncello». Leggendo i suoi ultimi versi viene da pensare alle caprette che si arrampicano sui ripidi sentieri di montagna tenendosi in bilico per non precipitare. Non perché attratte dal vuoto, dall’abisso, ma direi per una ragione di sicurezza, per misurare i propri passi e il proprio equilibrio. Così Caproni si spinge ai limiti del sentiero: a volte sembra che stia per cadere o che sia sprofondato («Son già dentro la morte»).

Eppure non precipita mai e anzi la salvezza, o più laicamente una possibilità di senso consiste per lui nell’assumere consapevolmente e ironicamente il limite stesso dell’esistenza. Chi invece si crede al riparo, chi procede tronfio e fischiettante è già perduto («Fischiettava, il fucile/ in spalla, spensierato./ Non pensava, lui assassino/ d’essere assassinato»). La «disperazione calma, senza sgomento» del Congedo del viaggiatore cerimonioso (1960-1964), è però come acquisizione precaria, così come l’«indicibile allegria» che una stoica «solitudine senza Dio» (Inserto, 1973) renderebbe possibile. La mia impressione è che accanto al riconoscimento e alla certezza della realtà (una esperienza legata al mestiere di maestro elementare) troviamo anche all’origine della sua poesia una disperazione invece sgomenta, tremante. E anzi mi sembra che nell’ultima produzione, benché capace di versi altissimi, si tenti di esorcizzare questa disperazione stilizzandola nel canto o in un raggelato virtuosismo. Mentre non si è più ripetuto quel magico equilibrio tra cantabilità e narrazione, tra abbandono lirico e descrizione realistica, che caratterizzava Il seme del piangere (1950-1958). Forse perché in quei versi il poeta mi appare del tutto disarmato. La disperazione, quando c’è, è nuda («E chi potrà più appoggiare/ l’orecchio al suo petto, e ascoltare/ come una volta il cuore,/ timido tumultuare»), così come è nuda la gioia dell’esistenza («Eppure quanta mattina il giorno ch’era partita Annina»). Ed è dal Seme del piangere che ho scelto il componimento riprodotto, nel quale Caproni invoca delle rime «chiare», in polemica con l’idea novecentista e simbolista di poesia programmaticamente oscura; e poi ricordandoci che l’«ambiguità» del linguaggio poetico nasce fondamentalmente da una chiarezza interiore e non dal pathos del disarticolato. Caproni sa bene che le parole «dissolvono l’oggetto», proprio «come la nebbia gli alberi», e dunque sa che il verso è un artificio che potrebbe allontanarci dalla realtà. Ma, sviluppando la sua metafora, mi verrebbe da dire che la nebbia, nascondendoci il paesaggio può rivelarci all’improvviso un albero come una epifania, mostrandone per la prima volta il suo nucleo originario.


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il club di calliope

che non sia tardi, e io non senta male fallo di sera no, meglio il giorno avrò luce fuori e chiasso di strada vai se proprio devi quando sarò lontana fallo, in assenza di luna

UN POPOLO DI POETI Quando la notte è serena e sembra che nulla possa rovinare quella quiete, improvvisamente mi sveglio, presa da una sciocca paura, assalita dal dubbio di te che scivoli via. Sei mio. Sei tu che mi parli La tua voce mi rasserena Sei la mia cura.

Francesca Merloni Giulia Raggi

Flutta notturno il mare rimanda ai fiori di biancospino e rimane il colore del giorno lontano

L’AMORE SECONDO CONTE, CUCCHI E MUSSAPI in libreria

di Loretto Rafanelli ella collana Poesie per giovani innamorati della Salani, dodici sono i libri finora usciti, si va da Lorca a Prévert, ai classici, ben tradotti e di facile lettura, per un pubblico che compra e regala questi agili volumi. L’ultimo, è assai benvenuto, perché gli autori antologizzati sono tre poeti di oggi, molto noti e sicuramente tra i più importanti della scena poetica nazionale e internazio-

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due scalini di lavagna/…giù la mia casa/ che aveva la veranda sul cortile di/ muschio e rovi attorno a un pozzo…/ Dietro quelle persiane, al terzo piano,/ ci fu l’amore…»), della meraviglia dell’amore («sentii che l’amore era questa/ angoscia di essere vivi, di gioire,/ di strappare al dolore»). Cucchi, autore attento alle vicende quotidiane, con lo scorrere semplice della vita, descritte in un tono contenuto,

Nella collana “Poesie per giovani innamorati”, i versi di tre autori contemporanei che diluiscono variamente, ciascuno a suo modo, l’elemento amoroso nale: Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Roberto Mussapi, che è anche curatore del libro (Altro bene non c’è che conti, 128 pagine, 8,00 euro). La scelta delle poesie è particolare, perché non si tratta di semplici versi d’amore, alla Neruda, per capirci, ma componimenti dove l’elemento amoroso si diluisce in vari modi, fino a diventare una linea fedele della vita, vista nel suo ricco, complesso, volgersi. Pensiamo che ciò sarà apprezzato dai giovani, certo è che questo libro può essere un’ottima occasione per conoscere la poesia contemporanea. Conte ci parla del mare, della natura, dei miti, dei memorabili anni di una stagione finita, quella giovanile nella Liguria sospesa tra acqua e collina («Ritorno a questa via, dove son nato…/ È questo il mio viaggio, questi portoni, i

misurato, che passano tra i ricordi del trasloco dalla casa di famiglia col doloroso distacco dalla madre, al pensiero struggente di un amore non vissuto («Il mio risveglio è stato nel tuo nome/ sussurrato e un saluto un bianco sogno/ Agnese che ritorni ombra che passi figuretta/ bianca sottile che non mi ami»). Mussapi vive la poesia nel segno di una vitalità magnetica, nel fuoco delle passioni e delle leggende antiche, ma pure nei sfuggenti attimi quotidiani e nella forza fulminea dell’amore («Non dove la cercavi…/ quella non fu felicità…/ No, fu nel suo volto che…/ rende eterno il fiato che la anima,/ non fu il cielo, non l’oasi, non fu il mare,/ signore, furono le loro corrispondenze in lei,/ i loro istanti di verità e di vita,/ quella fu la felicità, la bellezza»).

delle gemme di maggio del respiro del sole del sogno della ultima gioia. Teresa Donati

Resisteranno gli occhi nel baratro dei giorni di fango maculati e vivo pane sparso la più profonda voce dimenticata o muta, resisteranno gli occhi finché l’estrema luce polverizzato il tempo tutto inondi. Piero Buscioni

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

hi abita Roma o ci transita per interessi artistici, non dovrebbe trascurare quel luogo appartato ma affascinante che è la casa-museo dello scultore anglo-norvegese (ma in sostanza americano) Hendrik C. Andersen (nulla a che fare con lo scrittore di fiabe danesi) pupillo di Henry James (che gli scrisse lettere infuocate di passione artistica) e che ha colmato l’eclettica villetta-atelier di gigantesche sculture allegoriche e di nudi, a mezzo tra l’accademico e il torbido ufficialinconfessabile. Da qualche anno, sotto la guida esperta d’una studiosa dell’Ottocento quale Elena di Majo (che ahimé sta esaurendo il suo apprezzato mandato), il primo piano del museo s’è schiuso al confronto con altri artisti, poco noti ma provenienti come Andersen da ambiti cosmopoliti e che han fatto negli anni di Roma la meta delle loro appassionate e appariscenti ambizioni. «Ci piace ricordare - scrive Elena di Majo, come in un saluto di riepilogo-congedo - le mostre dello scultore norvegese Gustav Vigeland, che inaugurò il museo nel 1999, del pittore americano Elihu Vedder, vissuto e morto a Roma, ma del quale solo sporadiche tracce sono rimaste in Italia, e ancora quelle dedicate al pittore tardo-simbolista austriaco Herbert Reyl-Hanish, che espresse drammaticamente nelle sue opere gli eventi conseguenti al crollo della monarchia danubiana o al franco-statunitense Gaston Lachaise, le cui sculture costituirono un originale contributo al movimento del Modernismo americano». Adesso il museo si apre a un poco conosciuto, da noi, ma per la Spagna rappresentativo pittore di macchia e pre-impressionista, quale Ignacio Pinazo: che nell’ambito valenziano è considerato il rappresentante più autorevole, prima del più noto Sorolla, della pittura di luce. E che visse a lungo e ritornò nella Roma umbertina, destinata appunto a diventare burocratica capitale d’Italia. Pinazo arriva in Italia, come racconta Flavia Matitti nel bel catalogo della Generalitat Valenciana (ma in lingua italiana), in una Roma che sta evolvendo non solo politicamente, e non solo positivamente, anzi, soprattutto in ambito urbanistico e di costume. Rubiamo le parole al grande storico Gregorovius, inviso alla Roma vaticana, quale ex teologo luterano, ma adottato invece dalla città repubblicana, che ha intuito il potere turistico-pubblicitario dei suoi «pellegrinaggi» romani, sia pur critici (non è molto che il potere secolare ha scavalcato la breccia di Porta Pia - tra i soldati ribelli c’è anche un pittore rilevante, che ha nome Nino Costa - e relegato il corrucciato Pontefice Pio IX dentro il Vaticano, ove ascolterà l’eco dell’arrivo trionfale di Re Vittorio Emanuele II). «I cannoni di Castel Sant’Angelo tuonarono quando entrò il re - scrive Gregorovius - il cuore del Papa

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Pinazo a Roma testimone della modernità di Marco Vallora

arti

avrà sussultato a ogni colpo. Si svolge qui una tragedia senza pari». Il Quirinale viene espugnato a mano armata, perché il Cardinal Antonelli nega le chiavi pacifiche. La città viene «epurata» dei simboli sacri, via le edicole religiose e la via crucis, nel Colosseo: Roma deve diventare una metropoli repubblicana. Nel fremere della «febbre edilizia» si ripuliscono le croste dei secoli, «si gratta via la ruggine del tempo» e viene a Ignacio Pinazo, galla una Roma, brulla co“Autoritratto” me una gallina spennata: e “Il Pantheon «solo allora si vide quant’è a Roma” brutta Roma architettonicamente, trasformata da città santa in città temporale (...) i conventi vengono tramutati in uffici, dopo secoli il sole e l’aria penetrano di nuovo in queste clausure di frati, e quelli che ancora vi risiedono ne vengono stanati come tassi. Fa pena vederli vagare, come spiriti, nelle loro camerette, nei chiostri e nei corridoi». È in questa Roma-fantasma, che pare evocata da una tela bozzettistica di quell’Ettore Roesler Franz tanto amato dal nostro storico della decadenza, che giunge Pinazo, certamente attratto da un’idea di romanità ben differente. Anche se all’inizio è molto vicino a quel genere di pittura storica e calligrafica, da Cantar del mio Cid, che ha caratterizzato un lungo periodo della pittura pompier, ma caliente e suggestivo, d’ambito spagnolo, Pinazo è pur sempre nutrito di acidi spettinati, che provengono dalla pittura di Velazquez e di Goya (il giovane Picasso, a Malaga, non è poi così lontano) e quindi, in sintonia anche con la nostra pratica macchiaiola, e la pittura per esempio d’un Mancini, incomincia a sottrarre, a spiumare, ad affidarsi alla velocità e all’incompiutezza programmatica dell’abbozzo. La rapsodica ma ben concertata mostra romana, curata da Francisco Javier Pérez Rojas, ci permette di attraversare questo lungo cammino verso la modernità, a lato del nascente Impressionismo, ma conservando una curiosa e caparbia originalità. Fatta di vuoti, di risparmi cromatici, di chiazze rapide e sulfuree, di nudini o nudoni, guizzanti e maliziosi, al limite della sfrontatezza censurabile.

Ignacio Pinazo in Italia, Roma, Museo Andersen, in proroga sino a fine marzo, info 06 3219089

autostorie

Dalla Duna all’Amphicar, tutti i flop su quattroruote di Paolo Malagodi inalmente un libro che, sin dal chiaro titolo, alza il sipario su un mondo dell’automobile non sempre riverberato da pregi stilistici o da soddisfacenti esiti commerciali. Rispetto all’innumerevole progenie di testi celebrativi delle più belle automobili del mondo, nonché di quelle vendute in svariati milioni di esemplari, mancava infatti una ancorché minima rassegna dei non pochi casi contrari. Di quelle vetture, cioè, che si sono guadagnate un posto negli annali non tanto per gli obiettivi centrati, quanto per quelli mancati e che, nel corso della loro tribolata esistenza, sono state facile oggetto dell’ironia dei comici. Come faceva, ad esempio, Bebbe Grillo nel ricordare che la Fiat Duna «non riusciva a stare in strada nem-

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meno quando era parcheggiata»; o come nel caso di un anonimo frequentatore del sito www.fiatduna.com, fieramente soddisfatto della vettura e nonostante la constatazione che «quando è ferma ai semafori, i lavavetri si vergognano di pulirle il parabrezza». Questo a conferma del fatto che «malgrado i loro difetti, alcune delle auto più vituperate sono riuscite addirittura a fare la felicità di schiere di fedelissimi proprietari». Così annota il giornalista inglese Craig Cheetam, nell’introdurre un suo lavoro (Le peggiori auto del mondo, edizioni L’Airone, 320 pagine, 15,00 euro) che passa in rassegna 150 modelli delle maggiori case automobilistiche mondiali, senza volerli «in alcun modo offendere o deridere. Perché un’auto si sarà anche dimostrata un flop spettacolare, ma in qualche momento della sua ideazione ha

rappresentato il sogno di almeno un individuo». Tuttavia, i giudizi vengono espressi con toni del tutto personali e non di rado in forma caustica, come per la Lancia Beta presentata nel 1972 e «reclamizzata come la vettura che avrebbe trasformato la Lancia e lo fece davvero, rendendola l’ombra di quello che era stata». Particolarmente severo anche il giudizio sull’Arna, che Alfa Romeo fece debuttare nel 1981 montando un proprio motore boxer sul corpo vettura della Nissan Cherry e «nella presunzione che la fama di affidabilità del marchio giapponese avrebbe giovato a una reputazione già offuscata dall’Alfasud. Ma si era trascurato quanto brutta fosse la Cherry e, nella gloriosa storia della marca, l’Arna è una delle macchie peggiori». Per restare in ambito italiano, non tenera è la riflessione sul-

la prima versione, nel 1998, di una Fiat Multipla che «lasciò estasiati per la geniale disposizione dei tre sedili affiancati, ma il suo aspetto era tale da sbigottire la maggior parte degli acquirenti. In ultimo, Fiat corresse nel 2004 l’eccessiva originalità della Multipla ridisegnandone muso e coda». Sono queste alcune delle citazioni tratte da una variegata galleria di insuccessi, che riporta in copertina l’immagine dell’Amphicar, salutata nel 1961 come geniale per muoversi sia per strada che in acqua; «nondimeno, per essere in condizione di navigare, si presume che qualunque vettura debba resistere alla ruggine, invece in diversi esemplari si creavano delle falle che li facevano affondare. Inoltre, sulla terraferma la forma verticale rendeva l’Amphicar pericolosa, con nessuna aderenza».


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teatro

Delbono, laThyssen Krupp e la forza dello sdegno di Enrica Rosso arrabbiato Pippo Delbono, arrabbiato e deluso. Non ne fa mistero nella Menzogna al suo debutto romano sul palcoscenico del teatro Argentina. Un odio dichiarato per le contraffazioni, disgustato da una vita in cui c’è poco spazio per i rapporti umani, figuriamoci per la poesia, mette in scena la difficoltà di esistere, di essere presenti a se stessi e

È

agli altri. Lo fa prendendo spunto da un fatto di cronaca che ha segnato la nostra storia recente. Lo spettacolo è dedicato alle vittime del rogo avvenuto nella notte tra il 5 e il 6 dicembre del 2007 quando, nel reparto numero 5 dello stabilimento torinese delle acciaierie tedesche della Thyssen Krupp, si scatenò l’inferno e sette operai perirono in balia delle fiamme. Tutto è già

architettura

stato detto, tutto è accaduto, ma per Delbono l’onda dello sdegno non si è placata. Il suo non è uno spettacolo di propaganda per una causa, va oltre. Non prova dolore per quei morti sconosciuti, prova pietà. Mette in scena la pietà nei corpi parlanti della sua compagnia (23 individualità di forte impatto) nella grazia della disgrazia, della diversità, nell’unicità di quelle fisicità segnate dal proprio vissuto, in un mettersi in luce, svelarsi e rivelarsi con dolcezza, confrontandosi con la durezza dell’intorno. Lui è il grande officiante di questo rito trasgressivo in cui ci immerge. Un testo frammentato, praticamente solo degli spunti di riflessione: «Veniamo al mondo piangendo per essere vivi, per vivere in questo mondo teatro della follia». Per alimentare il senso di disagio, per allentare le nostre difese, ci bombarda di musiche, di immagini da cui ne scaturiscono altre opposte, di suoni e rumori al li-

mite del sopportabile in un delirio scenografico di scale che come in una composizione di Escher non portano a nulla; gabbie che non trattengono corpi ma al contrario proteggono emozioni, armadietti metallici a cui affidare speranze e in cui preservare sogni. Una scena ferrosa e fredda a opera di Claude Santerre che traccia nello spazio tutte le traiettorie possibili in un ingorgo visivo da cui irrompono le immagini ariose del video di presentazione della Thyssen Krupp, abbuffate di bimbi biondi e sorridenti orgogliosi dei loro papà impiegati nella fabbrica che inneggiano al sogno del futuro. Un’emergenza artistica quella di Delbono, un tempo in cui prendere contatto con la rabbia, con l’oscenità del non detto. La sua è una visione allucinata e provocatoria, ricchissima di riferimenti immediati e retrogusti impalpabili ma che ritornano su come un cibo indigesto. Ancora una volta un’esperienza che non si esaurisce nell’arco dei novanta minuti della rappresentazione. Per chi si sente pronto per una full immersion nella poetica di questo artista fuori dal coro segnaliamo la serata del 19 marzo, sempre al teatro Argentina, in cui Delbono darà voce al suo libro Racconti di giugno.

La menzogna, Roma, Teatro Argentina fino al 22 marzo, Info: 06-684000311 www.teatrodiroma.it

Gattonando tra i progetti italiani per Europan di Marzia Marandola uropan è un consorzio di 22 paesi della comunità europea finalizzato al coinvolgimento di giovani progettisti per risolvere problemi architettonici e urbanistici di città europee. L’iniziativa, partita nel 1989 da sei paesi, tra cui l’Italia, è ispirata a un’esperienza denominata Plan Architecture Nouvelle, da cui l’acronimo Pan, lanciata in Francia per offrire opportunità professionali ai giovani progettisti e coinvolgerli nei processi di crescita urbana. Dal 1989, ogni due anni i paesi europei aderenti a Europan bandiscono concorsi per idee di architettura e di urbanistica che, riservati ai progettisti europei sotto i quarant’anni, interessano centri urbani nelle diverse parti d’Europa, accomunati da esigenze riconducibili a temi condivisi. Il nono e ultimo ciclo bandito, quello del 2007 e concluso quest’anno, aveva come tema conduttore: Urbanità europea, città sostenibile e innovazione degli spazi pubblici. Per l’Italia hanno aderito otto comuni (Bisceglie, Carbonia, Catania, Erice, Firenze, Pistoia, Reggio Emilia, Siracusa), ognuno dei quali ha richiesto specifici progetti destinati ad aree urbane ammalorate o in condizioni comunque critiche, e dunque bisognose di interventi di riqualificazione architettonica e ambientale, giustificati in una logica urbanistica di ampio respiro, all’insegna della sostenibilità energetica e ambientale. I casi scelti sono stati oggetto di moltis-

E

sime proposte: un’apposita commissione ha selezionato per ogni città il progetto vincente, ha segnalato il secondo qualificato e, quando lo ha ritenuto opportuno, ha menzionato il terzo. La conclusione del nono ciclo Europan coincide quest’anno con i vent’anni di vita dell’iniziativa, che il gruppo italiano ha celebrato con la premiazione dei vincitori, avvenuta il 6 marzo, e con la mostra dei progetti per l’Italia, allestita a Trastevere con il contributo del Ministero delle Infrastrutture che è direttamente coinvolto tramite la

Direzione generale per l’edilizia residenziale e le politiche urbane e abitative. Se Europan nel complesso ha un indiscutibile valore perché sprovincializza la professione di architetto, travalica le frontiere culturali e incoraggia la partecipazione giovanile, la gestione italiana della manifestazione appare verbosa e dilettantesca, almeno a giudicare dall’esposizione, organizzata nell’ex-Gil (1933-35) di Roma, costruita da Luigi Moretti per la Gioventù Italiana del Littorio, che nonostante il restauro in corso mantiene intatto il suo potere di seduzione. Nell’atrio sono dislocati casualmente pannelli a doppia faccia rivestiti fittamente dalle tavole di progetto in minuscolo formato: alla difficoltà di decifrare ipotesi a scala territoriale stampate su fogli poco più grandi di un kleenex, si aggiunge il fatto che buona metà dell’esposizione si sviluppa al di sotto delle ginocchia del visitatore che, per vedere i progetti, dovrebbe gattonare. Poiché i progetti sono redatti su un supporto informatico, sarebbe stato molto più efficace dotare la sala di postazioni informatiche, dove il visitatore avrebbe potuto con tutta calma digitare luogo e progetto, da sfogliare sullo schermo fino ai dettagli. Ugualmente un’informazione trasparente e meticolosa sui risultati concreti dell’esperienza ventennale, in termini di edificazione e di successiva valutazione, avrebbe dato un opportuno segnale di serietà e di responsabilità civile.


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fantascienza

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ai confini della realtà

arrivo in Italia The Watchmen (I Guardiani, o i Vigilanti), il film di Zach Snyder, regista dell’innovativo 300, tratto, o meglio ispirato, alla graphic novel di 12 episodi creata da Alan Moore e dal disegnatore Dave Gibbons nel 1986, ha riportato in primo piano il motivo per cui questi personaggi dei fumetti, grazie anche alla completa digitalizzazione delle pellicole che consentono di far diventare realtà verosimile ogni cosa impossibile, siano così gettonati dalle case produttrici anche a discapito della fantascienza classica. È un po’ lo stesso problema postosi con l’attuale grande popolarità delVampiro di cui si è già parlato. Superman, Batman, Spiderman, i Fantastici 4, gli X Men, Ironman e ora gli Watchmen: perché? Intanto, si può cominciare a dire una cosa politicamente scorretta: che tutte queste vecchie-nuove figure che s’impongono all’Immaginario collettivo hanno fatto mettere da parte la famigerata frase di Bertold Brecht, per tanto tempo slogan dell’intellighenzia più ideologizzata e faziosa, quel «beati i popoli che non hanno bisogno di eroi» (perché - sottinteso - l’eroe è un prototipo «fascista») che si può ormai benissimo sostituire con «beati quei popoli che sentono il bisogno di supereroi».

L’

Semplicemente perché l’eroe, mortale o semidivino, è uno degli archetipi dell’umanità, uno dei miti base di tutte le civiltà, quindi anche della nostra così cinica, smagata e degradata. È un simbolo, una figura di riferimento, un fondatore di storia, realtà e società. Un eroe che, per assolvere queste «funzioni», non era quasi mai confinato in un empireo inaccessibile, ma viceversa molto, molto vicino alla normale umanità con tutti i suoi pregi e difetti, pur possedendo una sua diversità ontologica di fondo, e questo sin dalle più lontane origini: si pensi al sumerico Gilgamesh con la sua superbia, al celtico Cuchulainn con la sua ira, ai greci Achille e Ettore, a semidei come Ercole, ma anche a eroi cavallereschi come Lancillotto: tutti hanno le loro cadute, tutti sono succubi di sentimenti positivi e negativi (invidia, gelosia, vendetta), tutti commettono dei falli. Ma tutti alla fine superano se stessi, risorgono e portano a termine la loro missione in favore della società o dell’umanità che rappresentano, tutti restano punti di riferimento da imitare. L’eroe del tutto distaccato dai sentimenti e dagli umori della gente qualsiasi, paradossalmente rinacque a livello popolare negli Stati Unti degli anni Trenta e Quaranta: un supereroe con superpoteri come Superman e un supereroe senza superpoteri come Batman. Ma anche la stirpe che da essi vide la luce entrò in crisi negli anni Ottanta quando, mutati tempi e costumi, ebbero tutti bisogno di un restayling. Ed ecco apparire sui comic books nuove versioni di tutti i personaggi classici della DC e della Marvel: basti pensare a The Dark Knight di Frank Miller, di recente diventato film, che fece rinascere il mito di Batman. La scoperta del «lato oscuro della Forza» per dirla alla Guerre stellari. Ecco allora i «supereroi con superprolemi» come si disse a partire dal nevrotico Uomo Ragno. Gli Watchmen di Moore e Gibbons sono fra questi, con un paio di caratteristiche in più: sono nevrotici non per colpa loro ma perché emarginati da una società che prima li ha sfruttati e poi li ha messi al bando quasi come i criminali

Supereroi a misura d’uomo di Gianfranco de Turris che combattevano per difenderla; la loro vicenda si svolge in un mondo alternativo al nostro in cui la storia americana ha avuto un corso diverso non essendoci stato lo scadalo Watergate e avendo vinto gli Stati Uniti la guerra in Vietnam. Duplice interesse quindi per un’unica risposta di fronte al loro successo presso un pubblico che non è più soltanto quel-

ma non esattamente uguale, dimostra semplicemente che la voglia di evasione/cambiamento è sempre più diffusa e più forte, e si leggono romanzi o fumetti o si vanno a vedere film proprio perché storie alternative alla realtà ci vengono proposte. Anche se questo presente alternativo o questo futuro sono quasi quasi peggiori di quanto ci circonda? Sì,

Da Achille agli Watchmen, non sono immuni da pecche spirituali e morali. Ma anche con le loro debolezze rappresentano gli archetipi dell’umanità. Che oggi più che mai riesce a identificarsi meglio con quelli gravati da superproblemi. Purché siano salve le buone intenzioni... lo adolescenzialie ma anche adulto, di quegli adulti che erano ragazzi negli anni Settanta e Ottanta e oggi vivono in una società di cui francamente vorrebbero fare a meno, di cui sono profondamente insoddisfatti. La presenza di supereroi che non sono iperuranici ma che hanno pregi e difetti, sentimenti e istinti come uno qualsiasi dei loro lettori o spettatori, e in cui quindi è possibile identificarsi senza troppe difficoltà, e la descrizione di un mondo simile al nostro

anche in questo caso perché una delle caratteristica dell’ucronia, il non-tempo, è proprio quella dello spaesamento e della possibilità di instillare il dubbio che il Reale avrebbe potuto essere diverso sia in meglio sia, più spesso, in peggio. Purché una modifica del Fatto Compiuto avvenga si è quasi disposti ad accettare qualunque risultato. Che poi, come in The Watchmen, i supereroi (e gli eroi) possano essere considerati una specie di nemici della società,

visti con sospetto e ostilità dalle forze dell’ordine e dai politici, anche qui nulla di veramente nuovo sotto il sole. L’eroe è sempre ritenuto un Outsider, un Fuoriposto, nella società: esso infatti non rispetta quasi mai le regole cui la gente comune è obbligata: non lo erano forse non solo Robin Hood o Zorro, ma anche gli eroi della classicità con il loro rompere le regole? La nuova immagine degli odierni supereroi americani dei fumetti e dei film accentua queste caratteristiche e le vela di oscurità. I Vigilanti, per difendersi, diventano violenti e amorali e credono più a se stessi che a Dio.

Come al solito, su questi prodotti della modernità, anzi della post-modernità, si riverbera una eredità ancestrale che spesso si stenta (forse per paura, chissà perché) a riconoscere, mentre allo stesso tempo essi rispecchiano l’ambiguità dei tempi attuali. Un’epoca la nostra in cui non esiste più, purtroppo, un chiaro spartiacque fra Bene e Male, e anche il Bene può risultare inquinato, in cui anche i supereroi non sono immuni da pecche spirituali, morali, civili. Non per questo però non hanno spazio e successo gli eroi e i supereroi senza macchia e senza paura, quelli per i quali è possibile usare l’accetta o il filo della spada per dividere il lato luminoso e il lato oscuro: si pensi alla continuità del successo degli eroi di Tolkien o al revival sotto forma di fumetti, dvd e libri dei personaggi giapponesi, da Mazinga a Goldrake, rivisitazione ipertecnologica dei samurai difensori dei deboli e dell’imperatore. I tempi odierni sono tali, con la loro atmosfera di crisi incombente, che ognuno apprezza, ama e fa vivere o rivivere, decretandone un successo mediatico, ogni tipo di eroe. Purché al fondo, nonostante qualche magagna, resti tale come intenzioni e scopi.


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