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SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

MICKEY

IL GUERRIERO “The Wrestler” di Darren Aronofsky

di Anselma Dell’Olio rrori e strabismi nell’assegnazione degli Oscar sono ormai leggendato la carriera al suo apice per riprovare con la boxe, a cui aveva rinunciato ri: Charlie Chaplin e Orson Welles ne hanno vinto solo di minoda giovane per infortuni sul ring. Ha scoperto il mestiere d’attore e si è Quello ri (colonna sonora di Luci della ribalta per Charlot, scenegpresto imposto in film come Diner di Barry Levinson, Rumblefish non assegnato giatura di Quarto potere (con Herman Mankiewicz) di Francis Coppola, 9 settimane e mezzo di Adrian Lyne, Ana Rourke come migliore per Welles. Mentre Roberto Benigni, una maschera da gel Heart di Alan Parker. La lista dei film che ha rifiutacommedia dell’arte, ha vinto come attore contro to per fare il pugile è impressionante: Gli intoccabiattore protagonista è davvero un Tom Hanks, Ian McKellan, Edward Norton e li, Il silenzio degli innocenti, Rain Man, Blade Oscar mancato. Il suo “wrestler”, al secolo Nick Nolte. Perciò nulla d’insolito se Sean Runner e Platoon. Randy Robinson, professionista in auge negli Penn, già vincitore per Mystic River, ha scipCome Marlon Brando, soffriva del successo in un mestiere che considerava indegno di un uopato quello del 2009 per Milk all’infinitamente suanni 80, resta scolpito nella memoria. mo vero. Se Brando si è distrutto il corpo con il cibo, i periore, sublime Mickey Rourke in The Wrestler. Se il casting giusto è il 90% della riuscita di un film, anche Ma uno come lui a Hollywood démoni di Rourke l’hanno spinto ad abbandonare tutto per riprovare a 39 anni con uno sport violento e impietoso. il regista Darren Aronofsky si meritava almeno una nomination. è impopolare... È molto raro che personaggio e attore si compenetrino fino a questo continua a pagina 2 punto. Quattordici anni fa, Rourke era un uomo finito. Aveva abbandona-

E

9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Partiti di Gennaro Malgieri Rock ed etnici, magnifici U2 di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Le parole scagliate da Clemente Rebora di Francesco Napoli

Colpo di scena per il Papa Re di Claudia Conforti La voce delle donne di Pier Mario Fasanotti

Il Novecento allo specchio di Marco Vallora


mickey, il

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guerriero

segue dalla prima

poi bisogna rimuovere in camerino con le pinzette), spille, ferro spinato, perfino una cucitrice da ufficio, con ferite da medicare da soli dopo l’incontro. Non fanno sconti a se stessi pur di presentare uno spettacolo da urlo che valga il biglietto, che non deluda gli spettatori paganti. Sono un sollievo le pur strazianti scene di vita privata che s’intrecciano alla lotta quotidiana di Randy per resistere all’oblio. Dopo un match in cui esegue il suo «tuffo» a secco, sviene ed è ricoverato d’urgenza: ha subito un infarto. Deve assolutamente sospendere i match per permettere al corpo di guarire: ritornare sul ring e continuare a prendere gli steroidi sono rischi gravissimi per un cardiopatico. Randy frequenta un club di lap dance e ha una cotta per la spogliarellista Cassidy (Marisa Tomei, anche lei candidata all’Oscar), come lui attempata per il mestiere che fa. Lei accetta di parlargli in privato a malincuore, contravvenendo alle regole del mestiere: non si dà mai confidenza a un cliente. Passare dall’erotismo ersatz a pagamento, a sentimenti autentici è un salto troppo ardito: non porta nulla di buono. Ma Cassidy si commuove per la solitudine del combattente ferito, e accetta di parlargli dopo i ricovero; lo convince a cercare Stéphanie, la figlia che lo odia per le troppe delusioni che le ha procurato. Lo aiuta a scegliere delle giacche vintage da regalarle.

Dopo una serie di vincite e alcune sconfitte, si è dovuto ritirare, molto malconcio per le troppe offese corporee, tra le quali uno zigomo frantumato. Il viso massacrato è stato rappezzato da un chirurgo plastico pasticcione, il suo secondo matrimonio è fallito, ed era al verde. Con l’aiuto dei suoi cani, di un sacerdote e di uno psicoterapista che gli ha fatto credito a lungo, ha iniziato la risalita dagli abissi in cui il suo impulso autodistruttivo lo aveva gettato. Lo abbiamo ritrovato - irriconoscibile - in Sin City, in altri film minori, e ora è risorto in un ritorno d’incandescente splendore, frutto di un’alchimia artistica: la trasformazione di fango esistenziale in una gemma di raro pregio. The Wrestler è la storia di Randy Robinson, professionista in auge negli anni Ottanta (nome di battaglia The Ram, l’Ariete) ma da allora lotta per la sopravvivenza e contro la decadenza fisica con ogni arma. Vive in un trailer park del New Jersey, e lavora durante la settimana in un supermercato come scaricatore o dietro il bancone con la retina in testa. Nelle ore libere si allena in palestre scolastiche, si gonfia i muscoli di steroidi, si ossigena la lunga chioma bionda che è il suo marchio, e si abbronza nei solarium. Nei weekend si esibisce in locali scadenti, per pochi dollari e a volte anche gratis. Una sera trova la porta della sua roulotte sbarrata: non ha pagato l’affitto. Si addormenta in auto dopo aver ingerito antidolorifici per i suoi molti acciacchi: si capisce che non è la prima volta.

Il magnifico ritratto di un guerriero che spinge in là il tramonto è composto di tanti piccoli dettagli eloquenti: il più che cinquantenne Ariete con i capelli raccolti sulla testa in una cipolla, in posizione di «riposo» che ricorda un samurai, o il minuscolo gesto abituale di togliersi la macchinetta per l’udito e gli occhiali dal naso e poggiarli sul comodino prima di dormire. Il cuore del film sono i backstage degli incontri di wrestling. Tutti sanno che è uno sport teatrale, finto, programmato. Ci sono «i buoni» adorati dal pubblico e «i cattivi» da insultare e fischiare, con identico godimento: si recita sempre a soggetto, ma dentro binari concordati. Il film rivela la camaraderie tra combattenti «nemici», e i raccapriccianti trucchi del mestiere: per esempio come nascondere un rasoio per procurarsi piccole ma autentiche ferite che sanguinano abbondantemente, eccitando la folla. È vero che c’è una coreografia, ma altrettanto veri sono strappi, cadute, storte e logoranti dolori per le violente mosse e i colpi giusti e sbagliati ripetuti negli anni. Ogni wrestler ha un suo pezzo di bravura. Quello di Randy è spettacolare: sale su un palo del ring con le braccia alzate al cielo, e tra gli ululati del pubblico si butta a corpo morto sull’avversario già steso sul tappeto. Per quanto studiato per minimizzare il danno, bene non fa, specie in età avanzata. Gli attori che recitano i colleghi di Randy sono tutti professionisti del mestiere. Si capisce, vedendoli studiare insieme le movenze per lo spettacolo che andrà in scena, che sono atleti autentici, gladiatori sui generis, che invece della spada usano sul corpo proprio e altrui vetro tritato (che

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

Stéphanie lo accoglie con freddezza, ma «il vecchio bisteccone a pezzi» come si definisce Randy, tira fuori la sua parte più tenera e vulnerabile, che coesiste con l’egoismo e la violenza, e la convince ad accettare una cenetta riparatrice. La delude di nuovo nel peggiore dei modi e per la più futile delle ragioni: incappa in un droga-party con sgualdrine di quarta, dimentica l’appuntamento, vittima della sua insopprimibile coazione a dannarsi. Né il rapporto improbabile con Cassidy può avere un futuro, come lei saggiamente sa. Non resta che tornare sul ring, e chiudere in tremenda gloria tutti i conti, nell’unico posto dov’è sempre stato di casa. La storia di Randy Robinson resta scolpita nella memoria, mesi dopo la visione del film che ha vinto il Leone d’oro a Venezia. Regista e sceneggiatore sono bravi, ma è Rourke che alza la barra fino al cielo: da attore in stato di grazia filtra le proprie esperienze attraverso quelle del personaggio e ne forgia uno originale, indipendente dall’autobiografismo. Per cercare di capire come l’Academy abbia potuto preferire il corretto ma scontato Harvey Milk di Penn, ci sono due possibili spiegazioni. Rourke diceva che non avrebbe mai vinto per i mostruosi sgarbi comminati ai colleghi durante gli anni da ragazzaccio sulfureo. Ma sentite le sue dichiarazioni politiche, in radicale controtendenza al Verbo hollywoodiano sulla guerra al terrorismo islamico dopo l’11 settembre: «Il presidente Bush si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato; non so in che altro modo si poteva gestire quella situazione». E ancora: «Non me ne frega niente di chi si trovava o non si trovava al comando in quel momento; non esiste alcuna soluzione semplice a quel problema. Non sono tra quelli che danno a Bush la colpa di ogni cosa. Questa merda tra cristiani e musulmani risale alle Crociate, o no?». A Hollywood ti sanzionano per molto meno.

THE WRESTLER GENERE DRAMMATICO DURATA 109 MINUTI PRODUZIONE USA 2008 DISTRIBUZIONE LUCKY RED REGIA DARREN ARONOFSKY INTERPRETI MICKEY ROURKE, MARISA TOMEI, EVAN RACHEL WOOD, MARK MARGOLIS, TODD BARRY

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via di Santa Cornelia, 9 • 00060 Formello (Roma) Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938

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parola chiave

e la democrazia dei partiti è sostanzialmente finita, come si dice non senza ragione da più parti, quali sono le forme attraverso le quali si realizza il consenso? I politologi cercano risposte perlopiù insoddisfacenti, articolandole attorno a ragionamenti astratti. La gente non vede più operare quelle organizzazioni che, per quanto malmesse in alcuni periodi della nostra storia recente e meno recente, e per quanto degenerate in quella che genialmente venne definita «partitocrazia», costituivano tuttavia le cinghie di trasmissione tra le istanze popolari e il potere. Oggi dove sono finite? I partiti li ho criticati abbastanza nel passato per sopravvalutarne l’importanza. Ma di fronte al nulla politico che ci avvolge, come non avvertire una sorta di nostalgia per quei benedetti/maledetti partiti? Sì, confesso il mio profondo disagio. I loro riti congressuali, assembleari, correntizi; le loro manifestazioni di piazza, le mobilitazioni a cui davano vita, la ricerca di impossibili assoluti ai cui talvolta ingenuamente si dedicavano; le sezioni, i circoli, i centri di studi e di formazione, i campi scuola; i volantinaggi, le proteste, i tentativi (sovente disperati) di sensibilizzazione sui piccoli e grandi temi, la distribuzione domenicale del giornale, l’attacchinaggio, il ciclostile: tutto questo, e molto altro ancora, mi manca. Come mi manca il sentimento dell’avventura civile a cui i migliori nei partiti si sacrificavano con maniacale dedizione. E mi mancano pure le liti furenti e le generose, commosse riappacificazioni. Mi manca la vita che c’era nella politica delle chiacchiere e dei sentimenti; nelle baruffe e nelle utopie, nell’ostilità selvaggia verso l’avversario e il riconoscimento, quando se lo meritava, del suo valore; la gratificazione in un rigo conservato come un cimelio da parte del dirigente, del capo, del leader e la mortificazione di non essere stato all’altezza del compito assegnatoti. Mi mancano le mani tese della gente dopo i comizi, gli applausi delle piazze colme o quasi deserte, i suggerimenti di gente umile che faceva la fila davanti alle sezioni per segnalare problemi reali, minuti o irrilevanti. Mi manca l’entusiasmo dei militanti, l’affetto dei simpatizzanti, l’ammirazione degli elettori. E mi mancano tantissimo le icone cui ci si ispirava e le bandiere lacere e le memorie degli anziani e le insofferenze dei giovani.

S

Sì, l’assenza dei partiti mi fa assai male. Come mi fa male questa democrazia degli oligarchi, plastificata, mediatizzata, tutt’altro che innocente, priva di passioni, di entusiasmi, di virtù. Mi fanno male i giovani che vogliono diventare assessori, gli assessori che vogliono fare i deputati e i senatori, i deputati e i senatori che vogliono arrivare laddove neppure loro riescono a immaginare. E mi fanno male le risse televisive, le parole senza idee, la povertà polemica condita di volgarità, l’uso della diffamazione sistematica per distruggere, annientare, uccidere moralmente e civilmente l’avversario. Sof-

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PARTITI Li abbiamo demonizzati, impiccati all’albero dell’ignominia, gettati nel dimenticatoio. Ma con essi, cinghie di trasmissione tra le istanze popolari e il potere, è scomparso il sentimento dell’avventura civile. E oggi non resta che la nostalgia...

Il deserto della politica di Gennaro Malgieri

Non è un bene per la democrazia che le nuove formazioni politiche si siano aggregate sulla spinta di necessità imposte da un sistema elettorale e non per ragioni ideali. Sulle rovine delle vecchie case demolite non è stato costruito nulla, se non un’oligarchia plastificata, mediatizzata, priva di virtù fro ricordando famiglie politico-culturali e vecchie ideologie che davano un senso all’appartenenza davanti alla nullificazione parlamentare di battaglie che dovrebbero coinvolgere la gente, farla partecipare e invece la si sottrae all’impegno, la si oscura seppellendola sotto impressionanti quantità di strilli d’agenzia. I partiti. Li abbiamo demonizzati, impiccati all’albero dell’ignominia, affossati, gettati nel dimenticatoio insieme con tutte le cose inutili e dannose. Non esistono più e gli oligarchi hanno preso i loro posti, più famelici e arroganti di come Marco Minghetti, Ruggero Bonghi, Francesco De Sanctis o, più prossimi a noi, Giu-

seppe Maranini, Giacomo Perticone, Carlo Costamagna avevano rappresentato l’ingerenza dei partiti politici nella pubblica amministrazione, la corruzione a cui tendevano, la vita spregiudicata che conducevano. Oggi si rivoltano nella tomba. Come ci si rivolta un Roberto Michels, il più grande studioso dei partiti politici del Novecento, che faticherebbe a riconoscere la paretiana circolazione delle élite nelle cooptazioni da parte degli oligarchi di consiglieri circoscrizionali e di parlamentari, per non dire di amministratori pubblici e manager di Stato. Ma queste sono cose da studiosi, appassionanti almeno per qualcuno di noi, ma non per i cittadini

che faticano a riconoscere nei nuovi soggetti artificiali, in questi Frankenstein della politica che vediamo nascere e morire nello spazio di pochi anni o addirittura di pochi mesi, le vecchie «comunità» ideali o di «interessi» nelle quali bene o male si ritrovavano. Del vecchio partito politico è rimasta soltanto la patina organizzativa (piuttosto malconcia) dalla quale secondo Michels generavano le oligarchie le quali, tuttavia, erano pur sempre espressioni di una volontà popolare e non personalistica, selezionate in base a criteri se non proprio oggettivi e soddisfacenti, quantomeno legate al territorio, ai bisogni diffusi, al patrimonio ideale che animava i sostenitori dei movimenti. E le oligarchie, diceva lo studioso, erano inevitabili poiché i compiti da svolgere, la complessità dei fenomeni da fronteggiare, la specializzazione presupponevano conoscenze a cui non tutti si potevano dedicare. Erano oligarchie legate fisiologicamente alla forma-partito. La quale, secondo Max Weber, è «un’associazione rivolta a un fine deliberato, sia esso “oggettivo”come l’attuazione di un programma avente scopi materiali o ideali, sia “personale” cioè diretto a ottenere benefici, potenza e pertanto onore per i capi e seguaci, oppure rivolto a tutti questi scopi insieme».

Che cosa siano oggi i partiti, questi partiti, o per lo meno le presenti «associazioni di partiti» (una contraddizione in termini) nessuno sa più dirlo. E non è un bene per la democrazia. Come non è un bene che le nuove formazione politiche si siano aggregate sulla spinta di necessità imposte da un sistema elettorale e non per motivazioni ideali (o weberianamente «personali») senza superare vecchie identità al fine di dare luogo a inedite sintesi capaci di interpretare il «nuovo», il «cambiamento» come pure si diceva qualche anno fa. Si può avere nostalgia di ciò che non c’è più e rimpianto per quel che poteva essere e non è accaduto? Sono stato in Friuli e in Calabria nelle scorse settimane. Ho parlato in sale gremite di gente semplice che voleva capire quel che io stesso fatico a capire e non sempre ci riesco. Ma una cosa era chiara a loro e a me: sulle rovine delle vecchie case demolite, non è stato costruito nulla. Il cantiere è deserto. E tutti noi che amiamo visceralmente la politica come una delle più alte espressioni dello spirito, ci sentiamo terribilmente soli. Ma di questa solitudine agli oligarchi non importa molto. I partiti morti non rinasceranno. Ma quelli che s’illudono di essere vivi non faranno in tempo a passare alla storia. Se la democrazia riuscirà a trovare nelle fibre della società civile le sue ragioni, forse la giostra si rimetterà in moto e la politica riprenderà a correre. Per andare non si sa dove, come è sempre stato, comunque ben oltre questo deserto che ci assedia con i suoi talk show, con le sue convention che assomigliano tanto a varietà televisivi, con le improvvide dichiarazioni di improvvisati tuttologi capaci di pronunciare parole prive idee senza mai arrossire neppure una volta.


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cd

musica

Magnifici U2 rock, etnici, elettronici… di Stefano Bianchi li U2 sono bolliti, mi è sgorgato dal cuore ascoltando il power-pop caciarone di Get On Your Boots, lasciapassare del dodicesimo album in trent’anni di carriera. Dopo gli incolori e insapori All That You Can’t Leave Behind (2000) e How To Dismantle An Atomic Bomb (2005), di nuovo via col pilota automatico. Routine. E invece, la band irlandese è viva, vegeta e lotta insieme a noi. Chiedo umilmente perdono. Mi inginocchierò sui ceci. Get On Your Boots è il classico specchietto per le allodole che nulla c’entra con gli altri 10

G

pezzi (buona parte dei quali destinati a fare epoca, nel repertorio del quartetto) di No Line On The Horizon. Album dalla lunga gestazione: iniziata nel 2006 col produttore Rick Rubin, spedito a casa per richiamare Brian Eno, Daniel Lanois e Steve Lillywhite (quest’ultimo, a sovrintendere gli ultimi missaggi). Meglio, si sono detti Bono, The Edge, Adam Clayton e Larry Mullen Jr, riaffidarsi ai tre che hanno definito il nostro sound. Soprattutto quello modernista di Achtung Baby, anno di grazia 1991, che armeggiando una tecnologia dal volto umano gettò l’ideale

ponte fra Dublino e Berlino. Ecco: No Line On The Horizon ha la stessa fame sperimentale di Achtung Baby (e anche di Zooropa del ’93). Quella bramosia, cioè, d’essere rock e insieme etnici, con l’elettronica a far da spartiacque. In più, il nuovo orizzonte sonico degli U2 scorre più che mai sotto le dita di The Edge: chitarrista perfetto, di testa e di cuore. Questo disco è soprattutto suo, come lo fu per Keith Richards Exile On Main Street dei Rolling Stones. Detto ciò, la voce di Bono nell’incredibile muro di musica della title-track non è mai stata così affilata,

sofferente. Prologo maiuscolo, non c’è che dire. Che derapa nel look anni Ottanta di una Magnificent dalle profonde ed efficaci pieghe sonore. La etnomusica (desertica, ipnotica) si palesa invece nella già memorabile Moment Of Surrender (serpeggiando nel gospel), mentre Unknown Caller (con quel déjà vu di Where The Streets Have No Name) ha i crismi del «classico». The Edge spadroneggia, coi suoi «riff» inimitabili, nel pop felpato e poi increspato dal rock (I’ll Go Crazy If I Don’t Go Crazy Tonight) e nell’incalzante Stand Up Comedy giocata a strappi e cortocircuiti parafrasando i Led Zeppelin. Fez-Being Born, capolavoro indiscusso del disco, è la Kashmir degli U2, la Mysterious Ways all’ennesima potenza. Un flusso magmatico che destruttura il ritmo, cava fuori suoni dalla casbah, rende irrinunciabile la world music. Dopodiché, inevitabilmente, tutto si acquieta: dando spessore alle ballate White As Snow (echi folkeggianti, interpretazione «springsteeniana») e Cedars Of Lebanon, dove un Bono più recitante si traveste idealmente da Bob Dylan. E fra un brano e l’altro, Breathe delinea un rock tosto, muscolare, che stordisce. Per questo e gli altri pezzi (tranne Get On Your Boots), vale una sola parola: magnificent. U2, No Line On The Horizon, Island/ Universal, 16,90 euro

in libreria

mondo

riviste

COME ERAVAMO (SULLE NOTE DI SINATRA)

IL RITORNO DEI BLUR

TRITOLO E PIUMA D’OCA

«N

oi non vendevamo saponette, vendevamo sogni, emozioni, pensiero, divertimento: e certo subivamo tensioni, ma eravamo coinvolti in una “bolla artistica” e nell’orgoglio di portare a termine un’impresa grande. Perché allora la canzone era una cosa grande». Una vita «dentro la canzone», quella di Mimma Gaspari, che già dall’età di ventuno anni la catturò in una passione

C’

erano voluti nove anni prima che Damon Albarn e Graham Coxon tornassero a esibirsi sullo stesso palco la notte degli Nme Awards, ma alla fine, chi aveva intravisto nell’evento l’ultima conferma della laboriosa reunion, ha avuto ragione. I Blur si preparano al grande rientro sulle scene, e l’attesa è pari soltanto alla tensione con cui il frontman della band inglese

anto alternativo e insolito quanto dolce e psichedelico, il disco, supervisionato e prodotto da Giacomo Fiorenza, esplora territori lirici e sonori decisamente nuovi, visionari ed enigmatici». Così, altatensione.it, presenta I segreti del corallo, ultima fatica discografica di Moltheni. In perenne crossover, le strade del cantautore marchigiano incrociano anche in que-

Il brillante racconto della grande canzone nel diario autobiografico di un’addetta ai lavori

A cinque anni da ”Think Thank”, quattro tappe live per Demon Albarn e Graham Coxon

Lirismo e potenza si incrociano nei “Segreti del corallo”, ultima fatica di Moltheni

sconfinata. Le armi e gli amori della musica italiana prendono corpo nel suo Penso che un mondo così non ritorni mai più (Baldini Castoldi, 384 pagine, 20,00 euro), diario autobiografico che vede sfilare personaggi del calibro di Frank Sinatra, Paolo Conte, Sammy Davis e altri big come Patti Pravo e Renato Zero. Madrina di cantautori, e lavoratrice instancabile, la Gaspari regala un gioioso fluire di aneddoti serviti con una scrittura brillante e una piacevole leggerezza, che testimoniano di un clima irripetibile, in cui le canzoni cantavano da sole, lontane dalla tecnocrazia dei trafficanti d’arte, che trattano la musica come sofficini precotti. Una lezione di musica e di vita.

prepara il ritorno. Albarn, che si è detto «nervosissimo» in vista del debutto numero due della carriera, assicura di stare preparando con scrupolo il repertorio, ripercorso palmo a palmo, e di lavorare senza tregua in vista dei concerti finora confermati. Si parte dalla Men Arena di Manchester, il 26 giugno, per poi trasferirsi all’Hyde Park di Londra nel doppio appuntamento del 2 e 3 luglio. Il 12 sarà poi la volta della Scozia, con i due festival T in The Park e Oxegen. Quattro esibizioni live che nascondono forse l’annuncio di un nuovo album, a cinque anni dallo sfortunato Think Thank.

st’album il folk e il rock a ogni crocicchio, conferendo al suono una gamma emotiva che svaria dal minimalismo più metodico alla potenza più dirompente e massiva delle percussioni. Tritolo puro e piuma d’oca, che Moltheni, al secolo il quarantenne cantautore Umberto Giardini, alterna sempre con tempismo sopraffino. Una tela intessuta a perfezione dagli intarsi di Pietro Canali al piano, Barbara Adly nella sezione vocale e Carmelo Pipitone alla chitarra elettrica. Registrato e mixato in analogico, tradizionale e fresco insieme, I segreti del corallo è un lavoro asincrono e atipico, che non mancherà di risollevare gli animi dopo i postumi sanremesi.

a cura di Francesco Lo Dico

«T


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zapping

Morrissey e l’onda lunga DEGLI ANNI OTTANTA di Bruno Giurato è un filo sottile ma resistente che collega i fatti culturali di una certa epoca, annoda i paradigmi e all’occorrenza impastoia le anime. È lo stesso filo che impedisce all’uomo/donna medio/a di farsi più intelligente del proprio tempo (le eccezioni giustamente si chiamano geni). Parlando di musica, bisognerà pure dirlo che gli anni Ottanta furono il periodo più sfigato del Novecento, e che da questa ragnatela di traumi sonori ancora non ci siamo ripresi. Esempio: solo negli anni Ottanta è potuto capitare che uno come Morrissey venisse considerato una cima. Provi il gentile lettore a cercarsi Morrissey su YouTube, troverà uno splendido esemplare di pipitone (per chi non avesse familiarità con i dialetti del Sud: uccellaccio, in genere di malaugurio) cantare testi di malinconia sassone su basi altrettanto deprimenti e musicalmente nulle. E gli Smiths erano appunto una delle cime, il resto del panorama è larvale: la new wave, i Duran e gli Spandau, la dance all’italiana (non era meglio direttamente il liscio?) Taffy e Sandy Marton; ove l’unica coscienza critica del luogo e del tempo è Raf, con il suo Cosa resterà. Sole eccezioni a livello mondiale gli U2 e Prince, che però pescano in mari più ampi. Perciò quando leggiamo che Morrissey si vuole ritirare dalla musica fra cinque anni, oltre all’immancabile «campa cavallo» l’unica cosa che viene in mente sono i proclami dei trenta-quarantenni. Ricordate i trentenni del «patto generazionale» che dovrebbero ritirarsi a sessanta? Be’ così. E siccome il filo che annoda i paradigmi e impastoia le anime sempre quello è, allora diventa tutto chiaro. I trenta-quarantenni di oggi sono appunto cresciuti negli anni Ottanta. Tutto torna.

C’

jazz

Barbara Carroll? Ancora grande di Adriano Mazzoletti

Q

uando pochi giorni fa la casa discografica Venus ha pubblicato un nuovo disco della pianista e cantante Barbara Carroll pensavo che fosse la riedizione di vecchie incisioni che Barbara Carole Coppersmith, questo il suo vero nome, aveva realizzato negli anni Cinquanta, periodo della sua maggiore notorietà. Grande la sorpresa invece quando, leggendo le note di copertina, ho constatato che si trattava di incisioni nuovissime che l’ottantaquattrenne cantante aveva effettuato un paio di anni fa a New York. Non so quanti appassionati e cultori del jazz ricordino oggi la Carroll il cui nome da molto tempo non appare più nelle cronache musicali. Le sue ultime incisioni infatti risalgono a più di trent’anni fa ma, all’ascolto di questo nuovo disco sembra

non sia trascorso quasi mezzo secolo da quando Rca Victor e Verve pubblicavano i suoi album, sempre con grande successo. Il pubblico e la critica cominciarono a interessarsi a lei mentre, alla fine degli anni Quaranta, suonava all’Embers, un locale della 52° strada a New York. Al pianoforte aveva assimilato perfettamente la lezione di Bud Powell, all’epoca il pianista più imitato e apprezzato, come Parker lo era per i sassofonisti e Gillespie per i trombettisti. Negli anni successivi modificò il suo stile, all’amore per Bud Powell aggiunse quello per Art

Tatum e Oscar Peterson. Ma sono le sue qualità di cantante ad averle dato il successo. Timbro di voce particolare e personale, senso del ritmo ineccepibile e grandi capacità interpretative sia nei brani di atmosfera blues, Gee Baby Ain’t Good to You, che nelle canzoni dei grandi autori, Cole Porter You’d Be So Nice To Come Home To, Richard Rogers Where or When, George Gershwin I’ve Got A Crush on You. Accanto a questi celebri standard, che pochi cantanti oggi si azzardano a interpretare, la Carroll non esita a ripropone motivi lanciati da grandi cantanti del passato, come I Wished on the Moon che Billie Holiday incise nel 1935 con il complesso da studio di Teddy Wilson. Su tutte le interpretazioni emerge però una splendida versione di Pre-

La pianista e cantante Barbara Carroll. Una copertina di un suo vecchio album e, a destra, Bud Powell, suo ispiratore

lude to a Kiss che Duke Ellington compose nel 1938. La rielaborazione della Carroll è intensa, incisiva ma al contempo poetica nel rispetto della partitura originale. Accompagnata dall’eccellente contrabbassista Jay Leonhart e dal batterista Joe Coccuzzo, questa grande interprete, nel corso dei dieci titoli, dimostra, senza mai un attimo di esitazione, una vitalità e una forza sorprendenti in una signora nata il 25 gennaio 1925. Barbara Carroll Trio, I Wished on the Moon, Venus Record, Distribuzione Egea

danza

Dedicato ai giovani il tricôtage di Merzouki di Diana Del Monte

on Tricôté i Käfig, compagnia maschile nata nel 1996, hanno inaugurato martedi scorso la rassegna La Francia si muove, promossa dall’Ambasciata di Francia in Italia e dalla Fondazione Nuovi Mecenati. L’iniziativa, che aveva visto un primo, finora isolato, tentativo nel 2004, andrà avanti fino all’autunno prossimo e toccherà undici città e quindici teatri portando in Italia trenta compagnie di danza contemporanea francese. Un totale di quaranta giorni di spettacoli di cui nove prime italiane, una prima europea e un progetto in esclusiva per l’Italia per una stagione di danza che, come afferma Olivier Descotes, addetto culturale dell’Ambasciata di Francia in Italia e segretario generale della Fondazione Nuovi Mecenati, insieme alle altre rassegne legate alla musica (Suona francese) e al teatro (Face à Face) «co-

C

stituiranno per sei mesi il fulcro delle relazioni artistiche tra la Francia e l’Italia nel settore oggi particolarmente fecondo dello spettacolo dal vivo». La Francia si muove propone un’ampia scelta di nomi: da quelli più importanti come Trisha Brown, coreografa americana, ma francese d’adozione, a François Verret, Catherine Diverrés e Maguy Marin, a quelli di creatori più giovani come Mourad Merzouki con i

Käfig, ma anche Jérôme Bel, Bouchra Quizguen, Jennifer Lacey e molti altri. Nel lavoro presentato a Ferrara, Merzouki, coreografo e fondatore della compagnia, si prefiggeva un obiettivo apparentemente semplice: spiegare come nasce uno spettacolo di danza attraverso la danza. Tricôté indica qualcosa che è stato tessuto, dal verbo francese tricoter, ovvero, lavorare a maglia. Sul palcoscenico, infatti, l’autore dipana una matassa di fili narrativi che raccontano allo spettatore la creazione e la messa in scena di uno spettacolo dal vivo. I giovani sono dichiaratamente il primo obiettivo di questo progetto nato a gennaio dell’anno scorso e lo stile che caratterizza questa compagnia, un misto di hip hop e arti circensi, è particolarmente adatto all’obiettivo prefissato. Tuttavia, nella presentazione del suo la-

voro, Merzouki ritiene di poter interessare anche un pubblico più adulto confidando, per questo, nella curiosità che può accendere uno spettacolo simile. È così che, grazie ai virtuosismi dei cinque danzatori della sua compagnia, questo giovane artista dispiega le maglie di questo misterioso tricôtage fatto di audizioni, prove, prime e ripetizioni per avvicinare il teatro, ma soprattutto la danza a un pubblico più ampio e giovane. I Käfig, d’altronde, non sono nuovi alle sfide, il nome stesso della compagnia è rivelatorio - Käfig in arabo e in tedesco significa prigione, «gattabuia» per l’esattezza - e richiama tutti i principi su cui si fonda la cultura hip hop, primi fra tutti l’energia esplosiva della giovinezza e la passione per la ribellione e le sfide. Ma La Francia si muove, come abbiamo visto, non finisce qui e ci ricorda, ancora una volta, come il paese d’Oltralpe sia un territorio ricco di speranze per il futuro dell’arte tersicorea.


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narrativa

libri

Gioventù bruciata

made in Italy di Maria Pia Ammirati orino capitale, la sabauda, la prima città industriale d’Italia, la città borghese per eccellenza brucia, brucia al calore incandescente della scrittura di Giuseppe Culicchia l’ex enfant prodige di Tutti giù per terra, alle prese con un romanzo generazionale, di (de)formazione logorroico e denso. Brucia la città è una sorta di inno orgiastico post-futurista o un resoconto di autolesionismo esasperato, elaborato da un io-narrante, Iaio, e il suo gruppo di amici. Iaio e i suoi sono i protagonisti di un paradossale circo (o circuito) allestito in una città prevalentemente notturna, vissuta a perdere tra locali per l’after hour, per notti assordanti di musica, per rientri alle prime ore dell’alba. Tutto sotto l’effetto di cocaina sniffata ovunque «la mattina per affrontare il pomeriggio e il pomeriggio per affrontare la sera e la sera per affrontare la notte», o altre sostanze stupefacenti diligentemente elencate. A questo bisogna aggiungere litri di cocktail sempre utili per affrontare conversazioni, lavori inutili, serate di sesso di gruppo. Torino, squadrata e ferma nella sua architettura neoclassica, sembra un teatro impazzito per personaggi grotteschi che citano Paris Hilton come icona figa, vanno a lavoro con la tavola da surf sotto braccio, affrontano estenuanti brainstorming per trovare un nome nuovo a Torino che suoni hip, cool, young. E il nome che esce da questi surreali e divertenti teatrini è Giselle, una delle più pagate top model del mondo. Torino rinascerà Giselle? Iaio e i suoi sono creativi, drogati e beoni, ma con ottimi rapporti con la gente normale e quella che conta, assessori, politici giornalisti. Un mondo questo dove tutto si mescola: alto e basso, bello e brutto (con gran

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prevalenza di brutto). Ora è chiaro che in questo universo, dove le ragazze vengono tutte chiamate zoccola o troia, la chiave di lettura è tutta versata sul grottesco e l’ironico. Fa ridere certo la citazione della Hilton, da reginetta del trash a rappresentativa immagine di modernità, fanno ridere tutte le citazioni al mondo del consumismo sfrenato (i macchinoni Suv, il design di Starck alla portata tutti) e del fatato made in Italy; fanno meno ridere le piste di coca preparate su specchi, libri, tavoli, ragazzine appena diciottenni che devono uscire dai buchi dell’eroina. Una risata amara perché senza pietra di paragone, il mondo di Iaio è un mondo assoluto. Molto vicino a quello che i minimalisti americani degli anni Ottanta descrissero per l’America dei yuppies, tra tutti il più volte citato Mille luci di New York di McInerney, la cui rappresentazione però Culicchia distrugge col ghigno di chi conosce bene la grande provincia credulona, ma profondamente cinica. Vent’anni dopo quella generazione americana, distrutta da party a base di alcool e droga, entra di prepotenza nel nostro panorama letterario con il tono del cazzeggio ma con gli effetti tragici di descrivere il vero. Una gioventù che brucia (le città, i simboli, le famiglie) ma soprattutto si brucia per autocombustione, muore nei cessi di un appartamento cool, rimane sulla sedia a rotelle dopo folli corse notturne in macchina. La mimesi linguistica, di sconnesso turpiloquio infarcito di neologismi giovanili, non fa da contorno ma definisce ancor più i perimetri di un vuoto, pieno di tragici destini. Giuseppe Culicchia, Brucia la città, Mondadori, 401 pagine, 19,00 euro

riletture

Innamoramento e amore trent’anni dopo di Angelo Crespi a cosa più affascinante è la semplicità. A trent’anni di distanza il best seller di Francesco Alberoni, Innamoramento e amore (Rizzoli, 182 pagine, 10,00 euro) spiazza ancora per la lucida semplicità dell’esposizione. E quando il sociologo milanese candidamente ammette di averci messo decenni per imparare a scrivere così, non ne dubitiamo, specie paragonando la prosa piana degli elzeviri del lunedì del Corriere della Sera con l’ascosità di certi passaggi di Genesi del 1989. A ben pensarci, la semplicità è funzionale a uno sforzo maieutico, degno di altri evi della filosofia quando si scriveva per convincere e dire la verità più che per autocelebrarsi; uno sforzo maiuetico che con successo conduce il lettore non solo a condividere

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le tesi ma ad avvicinarsi appunto al vero. Tradotto in 25 lingue, milioni di copie vendute, il breve saggio è ormai un classico del genere che ai tempi ha però avuto il merito di spiazzare il main stream, ponendosi in modo antitetico rispetto alle correnti filosofiche e psicologiche dominanti «che riducevano l’innamoramento a una rimozione sessuale o a una regressione infantile». Alberoni al contrario «lo colloca nel campo dei processi collettivi in cui due individui si ribellano ai loro legami precedenti e danno origine, attraverso l’entusiasmo dello stato nascente, a una nuova comunità: la coppia innamorata, proiettata nel futuro». D’altronde, la definizione dell’innamoramento lascia quasi interdetti per sintesi: «È lo stato nascente di un movimento collettivo a due». Ma in questa breve formula c’è racchiusa l’invenzione, cioè di attribuire

all’innamoramento i meccanismi dello stato nascente dei movimenti collettivi e come tale studiarlo. Passo dopo passo, Alberoni ci conduce a scoprire i segreti e le regole invariabili che reggono il farsi dell’amore: quando e perché ci si innamora, di chi ci si innamora, quanto dura l’amore, perché talora non dura, come fare a eternarlo. E lo fa con la maestria del sociologo che fa apparire scontate le cose, ma scontate soltanto dopo averle lette così ben disposte tra le righe. La cosa più traumatica per l’innamorato che legge è però scoprire che il proprio sentimento non è unico, anzi quasi semplice coazione a ripetere della specie umana, o meglio dell’essere umano che in determinate condizioni di stress è costretto a innamorarsi per trascendere la propria condizione. Ciò nonostante non viene meno lo stupore, pagina dopo pagina di dire «è ve-

ro», «anche a me è successo», «è proprio così…». Di amare cioè come la prima volta, di desiderare più di ogni altra cosa l’amata, di voler condividere con lei il presente e il passato, di scoprirsi poeti perché solo la poesia può significare il desiderio d’amore, di sentirsi forti abbastanza per cambiare il mondo, ma nello stesso tempo fragili di non poter resistere alla lontananza del partner. Scoprire cioè tutte quelle cose che tutti hanno provato almeno una volta nella vita. Peccato che manca un tassello. Il tassello che rode di più il poeta, il filosofo, il mistico. E che forse il sociologo deve tralasciare perché non facente parte del suo campo d’analisi: se il meccanismo è questo, perché ci si innamora proprio di quella persona e non di un’altra? C’è predestinazione, caso, o Dio? Una domanda senza risposta che lascia attoniti gli innamorati.


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esordi

Storia del Signor Pressi, uomo qualunque di Pier Mario Fasanotti rillante è l’esordio narrativo di Cinzia Leone, esperta di fumetti, di satira e di costume. Il suo romanzo è di straordinaria e delicata tristezza e narra le vicende di un uomo di mezza età che scende nella scala sociale, nella stima di sé e degli altri e ritmicamente viene assalito da «un’ondata melmosa di pentimenti». Il signor Pressi e la sua esistenza appartata e insignificante ricorda Lo straniero di Albert Camus, ma anche l’imperioso e oscuro travolgere della burocrazia giudiziaria di marca kafkiana. Da poco entrato nella casa comprata con un mutuo «lungo come una

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società

condanna», lasciato dalla moglie poco prima del trasloco, privato del lavoro, cambia di continuo identità nominale e si finge interessato a comprare appartamenti. E così valuta spazi che non sa bene come arredare emozionalmente. Ha paura di tutto, anche delle eventuali osservazioni del portinaio, del giudizio della vicina di casa, dall’aspetto femminilmente duplice. Fa finta: di avere ancora un’occupazione stabile, di fare progetti di pratica rilevanza, di cavarsela in qualche maniera. A sua disposizione numerose e faticose ore per pensare. All’ex moglie che in materia erotica «pensava a tutto lei», dispettosa e fondamentalmente sfuggente e anafettiva, alla

propria vitalità mai un istante arrogante, a quel cappio attorno al collo che è sua madre, al fallimento come destino, alla vocazione d’essere accudito e di lasciare ad altri le redini delle sue giornate. Il signor Pressi è disegnatore industriale. Di sera e di notte continua a coltivare un progetto bizzarro e audace. Ma nello stesso tempo la sua matita funge da inconscio, ed ecco spuntare donne dalle forme sfacciatamente sensuali, ma anche donne pugnalate, intrise di sangue. Sono disegni che anticipano una disavventura giudiziaria. Cinzia Leone è abile nell’infilarsi nella testa e nelle emozioni di un uomo «né carne né pesce», nel

pensare come lui dall’inizio alla fine. Accompagna il suo personaggio che pare abbia come unico affanno quello di «controllare e arginare l’errore». Di fronte a questo pusillanime, un uomo qualunque e quindi noi stessi, il lettore prova empatia. Anche quando fugge dinanzi al fantastico brusio del nylon nel momento in cui una donna piacente accavalla le gambe «sull’orlo di un vecchio divano». Si avrebbe quasi voglia di aiutarlo. Ma questa è identificazione, dolorosa a tratti. Segno indiscutibile della riuscita delle pagine. Cinzia Leone, Liberabile (Storia di un uomo qualunque), Bompiani, 192 pagine, 9,50 euro

Superbia, gola, accidia: vizi antichi e mali moderni di Giancristiano Desiderio peccati non passano mai di moda. Anzi, nell’editoria c’è un revival dei peccati. Ogni tanto qualche casa editrice dedica una collana ai classici sette peccati capitali. Questa volta è la volta del Mulino. Dei sette vizi ne sono «usciti» i primi tre: Superbia di Laura Bazzicalupo, Gola di Francesca Rigotti, Accidia di Sergio Benvenuto. Che cosa c’è di nuovo da dire sui peccati e i vizi degli uomini che non sia già stato detto innumerevoli volte? Forse, nulla. Tuttavia, non è questo un buon motivo per non riprendere il discorso sui vizi e le virtù, perché, in fondo, è la comprensione di noi stessi che si basa su una perenne ripetizione di ciò

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narrativa/2

che siamo o crediamo di essere. I vizi capitali sembrano essere delle idee platoniche o dei modelli o degli archetipi che, calati nella contemporaneità, arricchiscono l’interpretazione della nostra vita, ci rendono più comprensibili a noi stessi, addirittura ci insaporiscono. Si prenda il caso dell’accidia, la più comune pigrizia che, in verità, è tristezza, sconforto, inquietudine, indifferenza, noia, ma anche depressione. Quel «male oscuro» che, chi più chi meno, un po’tutti ci portiamo dentro come nostro male secolare. L’accidia nasce come peccato nella religione e diventa malattia psichiatrica nell’epoca moderna e nella scienza laica. Il vizio della gola è forse quello più ingenuo, quasi meno vizioso. Eppure, il rapporto che abbiamo con il cibo nella nostra «vita stressata» è da indagare: il fast food e lo slow food, il cibo biologi-

co e l’agriturismo, le paninoteche, i precotti e i quattro salti in padella, l’obesità e l’anoressia. Il peccato della gola è stato geneticamente modificato nell’epoca moderna e del benessere, tuttavia il vizio goloso ci parla della nostra mente più che della nostra gola. Il peccato più affascinante è, però, la superbia: la passione dell’essere. Il superbo è colui che si ribella all’ordine delle cose, ma chi condanna il superbo su cosa basa la sua condanna se non sulla superbia della sua conoscenza dell’ordine delle cose? La superbia rimanda un senso di grandezza, a un ordine che viene o violato o conosciuto. La superbia è la tracotanza, quella che i Greci chiamavano hybris. Nel nostro tempo la superbia esiste ancora? Il nostro tempo appare inadatto alla superbia che si è trasformata nella presunzione, nella saccenteria, nella vanità e che, forse, è un tempo mediocre e non «superbo». Laura Bazzicalupo, Superbia, Il Mulino, 145 pagine, 12,00 euro; Francesca Rigotti, Gola, Il Mulino, 145 pagine, 12,00 euro; Sergio Benvenuto, Accidia, Il Mulino, 145 pagine, 12,00 euro

Quell’incontro fatale con Aldo Moro

di Francesco Capozza l 1977 è l’anno che precede il rapimento e il successivo assassinio di Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse. Quell’estate, raccontata da Sabino Caronia nel suo agevole libro edito dalla Schena Editore, è l’ultima vissuta dal leader democristiano. Lo scrittore trascorre la propria estate a Terracina, proprio come l’ex presidente del Consiglio. Un giorno, camminando sulla spiaggia di mattina presto, si imbatte in Aldo Moro, guardato a vista da una guardia del corpo (rimanendo particolarmente colpito dal fatto che l’angelo custode porta la pistola sotto il costume da bagno).

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Un incontro senza nemmeno una parola, fatto solo di un fuggevole sguardo, ma che segna profondamente l’autore, tanto da innescare in lui una vera e propria retrospettiva esistenziale. Un bilancio di vita che lo fa balzare indietro di quasi dieci anni, nel 1968, con una serie di flash-back di grande finezza psicologica. Il 1968, infatti, è l’anno in cui Aldo Moro scrisse, proprio a Terracina, un discorso poi pronunciato nel novembre di quello stesso anno e intitolato Una politica per i tempi nuovi. Con quello scritto lo statista democristiano aveva cercato di cogliere le ragioni che avevano determinato le contestazioni studentesche. Con quello scritto, guar-

dando forse al suo giovane nipote Luca, aveva voluto avvicinarsi a quelle ragazze e a quei ragazzi che avevano fatto della protesta il loro leit motiv politico. Caronia ripercorre anche il suo 1968, vissuto da sindacalista in erba, per poi soffermarsi sulle successive tappe della sua vita: professore a Perugia, successivamente in Sardegna, il suo matrimonio con la dolce moglie Adriana. Per un nefasto scherzo del destino, la morte violenta di Aldo Moro coincise con la perdita, per l’autore, del suo migliore amico Marco, morto in un tragico incidente stradale. Speranze, pensieri personali, s’intrecciano con la sorte e con la vita di Aldo Moro. L’ex primo mi-

nistro, osserva Caronia, era «nato nel giorno dell’equinozio d’autunno e forse anche per questo destinato a rimanere sospeso tra due mondi. Era il signore degli equinozi, dei giorni sottratti al triste divenire in cui il tempo e l’eternità si congiungono». La scrittura di Sabino Caronia è netta e fluente. Il racconto avvince e si rischia di leggere il libro tutto d’un fiato. L’inchiesta sull’ultima estate di Moro diviene ben presto l’inchiesta sul senso ultimo della vicenda esistenziale del protagonista e della sua generazione. Sabino Caronia, L’ultima estate di Moro, Schena Editore, 99 pagine, 13,00 euro

altre letture Che rapporto

intercorse tra Giovanni Gentile e il fascismo? Un rapporto molto più tormentato e problematico di quanto le semplificazioni della vulgata tendano a far credere. Il Gentile dei fascisti (Il Mulino, 369 pagine, 29,00 euro) di Alessandra Tarquini indaga proprio il rapporto tra il regime e il filosofo che lo sostenne intellettualmente e ideologicamente. La Tarquini nel suo saggio discute le varie reazioni, in termini di sostegno o di critica, che l’opera e il pensiero gentiliani suscitarono nel mondo fascista, fra esponenti del partito e membri del governo, filosofi, storici e giuristi, giovani fascisti e studenti universitari. Alcuni videro in Gentile il teorico del fascismo, lo difesero dalle critiche e ne condivisero il progetto politico e culturale. Altri lo avversarono strenuamente.

È una tesi polemica quella che Gilberto Corbellini presenta nel suo Perché gli scienziati non sono pericolosi (Longanesi, 248 pagine, 16,00 euro). Sostiene infatti l’autore che in Italia, a differenza dei Paesi più liberi e sviluppati, la scienza e gli scienziati sono considerati indispensabili motori dello sviluppo economico e civile. Lo dimostrerebbero il caso Di Bella, la Legge 40 sulla fecondazione assistita, i tentativi di censura verso l’insegnamento dell’evoluzionismo. A parte Di Bella però in Italia sulla fecondazione assistita c’è stato un referendum che i promotori hanno perso e sull’evoluzionismo a essere messo all’indice è semmai chi lo contesta. Non sono molti anni che il genetista Giuseppe Sermonti è stato violentemente contestato alla Sapienza di Roma per avere sostenuto tesi diverse dal darwinismo. Il manoscritto

Voynich rappresenta il maggiore e più sconcertante rompicapo letterario della storia. Si tratta dell’unico manoscritto medievale non decifrato esistente al mondo. È scritto in un codice incomprensibile, la cui chiave non è stata scoperta neanche dai crittografi militari che infransero i codici tedeschi e giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Le sue pagine sono piene di illustrazioni di donne nude, di piante, di animali inesistenti e di costellazioni sconosciute all’astronomia. Analizzato già nel Rinascimento, il libro sparì per centinaia di anni prima di essere riscoperto, agli inizi del Ventesimo secolo, da un libraio antiquario Wilfred Voynich a Frascati. Ora Marcelo Dos Santos ci conduce nell’Enigma del manoscritto di Voynich (Edizioni Mediterranee, 181 pagine,14,50 euro) attraverso un lungo viaggio che arriva fino al Medioevo raccontando i tentativi di risolverne il mistero. a cura di Riccardo Paradisi


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reportage

LA VOCAZIONE BAROCCA ALLA MERAVIGLIA IN DUE EMBLEMATICI VIAGGI INTRAPRESI DA INNOCENZO XII NEL 1696 E NEL 1697 PER ISPEZIONARE IL POTENZIAMENTO DELL’ACQUEDOTTO TRAIANEO DI CIVITAVECCHIA E DEL PORTO NERONIANO DI ANZIO-NETTUNO. UN RACCONTO EMERSO DA CRONACHE ANONIME CONSERVATE A CAMBRIDGE RISCOPERTE DA UNA STUDIOSA ITALIANA

Colpo di scena per il Papa Re di Claudia Conforti e strade disegnano reti che sottomettono il territorio, lo rendono domestico, percorribile e conosciuto. In antico regime questo significato si palesa nei periodici viaggi con i quali i monarchi solcano i loro regni, confermandone simbolicamente il possesso attraverso il transito fisico e gli atti di sottomissione dei feudatari, ritualizzati dall’offerta di prodotti della terra e delle chiavi dei possedimenti. In questa cornice si collocano anche i due viaggi del pontefice Innocenzo XII Pignatelli (1691-1700), di cui qui si narra. Il 1695 è un anno funesto per Roma e per lo Stato della Chiesa: alle guerre tra Francia e Spagna che travagliano il Piemonte, alle sconfitte di Venezia per mano degli Ottomani, si aggiunge una sequenza di terremoti che, iniziati in Terra di Lavoro nel 1694, si propaga al Veneto e il 10 giugno 1695 tocca il Patrimonio di San Pietro. Orvieto, Acquapendente e i villaggi intorno sono duramente colpiti; le acque del lago di Bolsena tracimano di ben quattro metri e sommergono le campagne. Queste calamità fanno seguito alle alluvioni del Tevere che hanno percosso Roma e l’Agro, favorendo epidemie febbrili. Guerre e calamità naturali significano carestia: la penuria di grano, che Roma importa dalla Sicilia e dal Nord Europa, colpisce soprattutto i poveri, che dalle campagne affamate affluiscono nella Capitale. Sulla miseria umana si invoca la misericordia divina e nel dicembre del 1695 Innocenzo XII indice un Giubileo straor-

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dinario, che rafforza più prosaiche iniziative: provvidenze di pubblica carità, come l’Ospizio Apostolico dei poveri invalidi di San Michele a Ripa Grande, iniziato fin dal 1692; l’istituzione di un orfanotrofio nel palazzo Lateranense e opere pubbliche a scala territoriale, come il potenziamento dell’acquedotto traianeo di Civitavecchia e del porto neroniano di Anzio-Nettuno. I porti delle due città sono nevralgici per l’approvvigionamento dei cereali da cui dipende la Capitale e il loro accrescimento rientra in un programma di sviluppo mercantile lucidamente perseguito dal Pignatelli. Le due infrastrutture sono all’origine dei viaggi intrapresi da Innocenzo XII, rispettivamente nel 1696 e nel 1697 e divulgati nelle cancellerie europee da cronache anonime, tra cui quelle, conservate a Cambridge, che disegnano la filigrana di questo racconto. Nonostante la presenza in entrambi i viaggi di Carlo Fontana, il più celebre architetto romano, principe dell’Accademia di San Luca, non si tratta di semplici sopralluoghi tecnici. Sono azioni politiche, i cui significati sono decifrabili nello sfarzo cerimoniale che le traduce in processioni trionfali, spettacolari ierofanie, cadenzate dagli omaggi dei feudatari, che rinnovano simbolici gesti di sottomissione al potere spirituale e temporale del Papa Re. A Civitavecchia, dove la popolazione è aumentata in meno di un secolo da mille a tremila residenti, il porto e l’arsenale hanno avuto da Urbano VIII Barberini un significativo incremento, che ha

Sfarzo cerimoniale, processioni trionfali, spettacolari ierofanie accompagnarono il percorso e le soste del Pontefice. Effetti che raggiungono l’apice nel palazzo effimero innalzato a Carroceto per accogliere il Santo Padre propiziato lo statuto di città ottenuto nel 1693. Il rifornimento idrico, calibrato su un migliaio di residenti, è divenuto insufficiente e poiché l’acqua dei pozzi diffonde epidemie, nel 1692 Innocenzo XII promuove il ripristino dell’antico acquedotto di Traiano, incrementato dalla captazione di nuove sorgenti. La costruzione dell’infrastruttura, che attraversa un territorio impervio di circa 24 miglia (35 chilometri), viene appaltata all’imprenditore privato Ferdinando Padrone. Allorché, dopo molte difficoltà e fatiche, nel 1696, l’acqua potabile sta per sgorgare a Civitavecchia, il Papa in persona si reca a ispezionare i lavori e a incoraggiarne il compimento.

La partenza ha luogo la mattina di domenica 6 maggio: dopo la messa, con la Corte, con il governatore di Roma cardinale Ranuccio Pallavicini, scortato da numerosi cavalieri, il Papa esce dal Quirinale e raggiunge San Pietro, dove il Sacro Collegio schierato gli augura buon viaggio. Dopo aver pregato all’altare del Sacramento, il pontefice esce in lettiga da porta Fabbrica, così detta dai materiali per il cantiere di San Pietro. Sull’Aurelia, a un miglio da Roma, il convoglio si arresta: parte dei cavalieri e dei cardinali smonta da cavallo e si inginocchia davanti al Papa che, impartita la benedizione, li congeda. Il viaggio

prosegue a ranghi ridotti: trentacinque cavalleggeri aprono il corteo, con due Lancespezzate, il capitano degli svizzeri e due capitani dei cavalleggeri; segue la lettiga del Papa preceduta dal Crucifero, con la Croce inalberata. A fianco del Pontefice marciano sei palafrenieri, due dei quali reggono le ombrelle di taffetà incerato a protezione della lettiga; seguono quaranta guardie svizzere con alabarde e moschetti. Poi cavalcano i membri della «famiglia bassa», cioè la servitù (bottiglieri, credenzieri, manescalchi, sellari, palafrenieri etc.). Nel corteo, che supera le cento unità, sfilano anche la carrozza cerimoniale e la «sedia da braccio» del Pontefice con otto sediari, che precedono le carrozze dei cardinali e della «famiglia alta», ossia i funzionari di corte. Una compagnia di trentacinque cavalleggeri chiude il convoglio. L’anonimo autore della cronaca si compiace dell’ordinatissimo corteo che «faceva una bellissima comparsa, particolarmente nelle strade lunghe e larghe, perché si vedeva il treno tutto in un’occhiata, che rendeva gran maestà non disgiunta dalla modestia e umiltà, virtù proprie di un sì Santo Pontefice». Non è difficile immaginare l’intimorito stupore che le carrozze rilucenti di ori, le insegne variopinte, gli splendidi abiti e le divise suscitavano nei pastori e nei bovari, solitari abitanti del desola-


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Sopra e a fianco, due vedute dell’effimero palazzo Borghese di Carroceto di Alessandro Specchi; a sinistra, quadro con la sezione del palazzo di Cristian Reder; nella pagina a fianco, due ritratti di Papa Innocenzo XII to agro romano. Il viaggio è scandito dagli omaggi di «robbe magnative» dei proprietari delle tenute: a Castel di Guido Innocenzo XII riceve Domenico e Nicolò, figli di Giovan Battista Rospigliosi, duca di Zagarolo che, onorato il Papa con fagiani, pavoni, tortore, tartufi, caci, polli, storioni, vino di Firenze, bacili di cioccolata e altre prelibatezze, lo scortano a cavallo fino ai confini di Maccarese, di cui i Rospigliosi sono signori. Don Livio Odescalchi, principe di Palo, accoglie nel suo maniero sul mare il Pontefice con spari di gioia e gli porge le chiavi del castello e della fortezza, che il Papa respinge, confermando così al principe il possesso del feudo e accettando la sua ospitalità per la notte. Il corteo viene rifocillato nei padiglioni che, predati ai turchi sotto Buda, sono stati donati all’Odescalchi dall’imperatore in persona. L’indomani, dopo una breve sosta a Santa Severa, proprietà dell’ospedale di Santo Spirito, il corteo raggiunge Santa Marinella, dove è accolto dal cardinale Carlo Barberini. L’entrata del Papa a Civitavecchia è preceduta, fuori dalle mura, dall’incontro con Urbano Sacchetti, cardinale vescovo di Viterbo, nella cui diocesi ricade la città, e con il governatore, cardinale Giorgio Spinola che, con quaranta ufficiali e «soldatesca a cavallo», scorta la lettiga papale accolta dagli spari di giubilo delle galere pontificie e dei vascelli al porto. Dopo avere ricevuto le chiavi della città, della fortezza e del porto, il Papa sosta in preghiera nella chiesa dei Domenicani; poi sulla sedia gestatoria, così che il popolo possa vederlo, accede agli appartamenti apostolici nella Rocca Vecchia. I veicoli e i cavalli sono ricoverati nei magazzini di ponente, appena costruiti (1692-94) dal principe Odescalchi, nel Ghetto edificato dal Papa e nella navata centrale del magnifico arsenale ideato da Giovan Lorenzo Bernini. Il 9 maggio Innocenzo XII, ispezionati i condotti per un miglio e mezzo fuori della città, si congratula con l’architetto Fontana, ideatore del progetto, e con il costruttore Padrone, e gratifica con monete gli operai. Il convoglio di ritorno, il giovedì mattina, è affiancato fino a Palo da cinque galere pontificie e da due vascelli genovesi che veleggiano lungo la costa, sparando colpi di artiglieria in segno di saluto al Papa, che viaggia in lettiga aperta. A Roma il Santo Padre è accolto da una folla tanto fitta che impedisce «il passaggio della cavalcata». Quasi un anno dopo si situa la visita al porto di Anzio, caratterizzata da una spettacolarità dirompente, che materializza la vocazione squisitamente barocca al colpo di scena e alla meraviglia. Effetti che raggiungono l’apice nel palazzo effimero innalzato dal principe Giovan Battista Borghese nella tenuta di Carroceto, dove sostano, sia all’andata che al ritorno, il pontefice e il suo seguito che Daria Borghese, in uno studio fondamentale, ha valutato in oltre quattrocento persone. La partenza dal palazzo di Montecavallo data alla tarda mattinata di domenica 21 aprile 1697: nonostante la pioggia battente, il Papa esce in sedia scoperta, per non deludere il popolo che attende il suo passaggio lungo le strade tra il Quirinale e San Giovanni in Laterano, attraverso Madonna dei Monti,Tor de Conti e il Colosseo. Il corteo ha un assetto analogo a quello per Civitavecchia, ma questa volta il Papa, dopo una preghiera a San Giovanni, viaggia in carrozza a causa della pioggia e della cattiva condizione delle strade. Anche in questo viaggio le soste sono cadenzate dai rituali di sottomissione dei proprietari delle tenute attraversate dal cor-

teo: a Tor di Mezza Via i fratelli Sforza e Mario Capizucchi accolgono il Papa in ginocchio e dopo aver declamato epigrammi in latino, offrono opulenti «robbe magnative». Alle Frattocchie l’ospitalità è allestita dal Connestabile Filippo Colonna nel giardino e nel salone della sua residenza; il rinfresco è seguito dalla rituale offerta di leccornie, guarnite di fiori spennellati d’oro e d’argento, cui si aggiungono sei pavoni bianchi in gabbie dorate. Cessata la pioggia, il Papa raggiunge in sedia la residenza di Castel Gandolfo, dove riposa nell’appartamento «verso il lago, contiguo ad una galleria, che signoreggia tutta la campagna». Prima di ritirarsi riceve nuovi omaggi, tra cui una vitella grande «al naturale» interamente modellata con il burro donata dai Cenci! È l’inizio di un crescendo di meraviglia che si dispiega spettacolrmente in tutto il percorso. L’indomani il cardinale Pietro Ottoboni fa trovare alla porta del palazzo un monumentale trionfo di cibi: forme intere di parmigiano come basamento, fiaschi argentati di vini pregiati come balaustre, due cedri e due palme onusti di frutti sono i montanti angolari di una gabbia dorata piramidale larga circa tre metri (15 palmi), piena di uccelli svolazzanti. All’apice un agnello vivo, che ricorda la Pasqua appena celebrata (il 6 aprile), mostra una bandiera rossa con le insegne del Papa.

La pioggia che ha ripreso a cadere rende le strade fangose e costringe a ripetute soste per disincagliare le carrozze. Soste che ritardano l’arrivo ad Albano, dove il principe Giulio Savelli ottempera ai tripudi d’obbligo con i consueti spari, offerta delle chiavi e dei prodotti della terra. Nel tragitto il Pontefice, in lettiga coperta, compulsa «un’esattissima descrizione miniata» di tutte le vigne e i possedimenti toccati nel viaggio: una preziosa guida donatagli dal principe Giovan Battista Borghese. Il 22 aprile l’arrivo a Carroceto, tenuta del Borghese, lascia la corte a bocca aperta: il rozzo casale è sostituito da «un gran palazzo alla Regia di tavole tutto dipinto», lungo circa cento me-

prontati forni, nevaie, grotte per i vini, due fontane con vino bianco e rosso, cucine, credenze e bottiglierie distinte per i diversi gruppi del seguito. Ai cardinali e ai nobili sono destinati i due appartamenti speculari al piano terra, muniti di dispensa, sala da pranzo e stanza di riposo. Il primo piano è per l’appartamento del Papa, composto da un’anticamera, la sala dell’udienza, la camera di riposo, una cappella, due stanze per il maggiordomo e una cucina privata. Due blocchi a due piani sorgono dietro le ali del corpo centrale: l’uno per il principe Borghese e l’altro per i cardinali. L’analisi dei conti dell’archivio Borghese, condotta da Daria Borghese, rivela che gli interni del palazzo sono sontuosamente decorati e forniti di argenterie e preziosi vasellami. I soffitti del piano terra sono drappeggiati da arazzi, le pareti dell’appartamento dei cardinali di damasco cremisi con trine d’oro; quello dei nobili di variopinta tela indiana. I soffitti delle stanze del Papa, dipinti dal pittore bolognese Giovanni de Alesandris, affiancato per i fregi dall’indoratore Silvestro Ferdichini, (entrambi identificati dalla Borghese) celebrano la Chiesa, le virtù del Pontefice e quelle del munifico ospite. Il colossale apparato è costato al principe non meno di ventimila scudi: una cifra iperbolica, se si confronta con il finanziamento per i lavori condotti al porto dall’architetto Alessandro Zinaghi, che ammonta a quindicimila scudi! Il Papa soggiorna poche ore a Carroceto, dove sosterà anche al ritorno, quindi prosegue per Nettuno, dove lo attende lo sfarzo mirabile del palazzo del principe Giovan Battista Pamphili, che ha convocato, per l’occasione, i migliori musici di Roma. Non è escluso che una delle ragioni del superlativo sforzo del Borghese risieda proprio nella magnificenza dell’ospitalità predisposta dal Pamphili, il quale arriva a far costruire una sorta di galleria aperta sull’acqua, tappezzata dagli arazzi «nobilissimi di disegno di Raffaello», per il diletto del Papa. In definitiva, oltre alle consuete preoccupazioni di rappresentanza che se-

La stupefacente reggia in legno e tela, lunga circa cento metri e larga venti, costò al principe Borghese una cifra iperbolica. Ma in gioco c’era una gara di rango col principe Pamphili per la magnificenza dell’ospitalità tri e largo venti, la cui costruzione ha sacrificato un’intera selva. La stupefacente reggia effimera in legno e tela incorpora il casale e si articola in un corpo centrale a due piani e nove assi di finestre, con due porte - una finta e una vera -, sormontate dallo stemma papale; ai lati due ali a un piano con sette assi. L’edificio polarizza un accampamento, geometricamente ordinato, capace di alloggiare e rifocillare tutto il convoglio, animali inclusi. Su progetto dell’architetto dei Borghese Tommaso Mattei, allievo di fontana, e con il significativo apporto di Domenico Botta, magister ludi dei principi ospiti, sono allestiti ricoveri per i servitori, i cavalleggeri e le guardie; tettoie per quattrocentotrenta cavalli, forniti di biade e di paglia, oltre che di un abbeveratoio appositamente montato. Nel piazzale sono ap-

gnano implacabilmente la vita sociale di Roma barocca, si può ipotizzare nel caso in esame una peculiare gara di rango tra due grandi principi, entrambi di famiglia papale, dove l’uno (il Borghese), non avendo a disposizione in situ un degno palazzo, fa ricorso alle arti sceniche per dotarsene. E affinché la memoria di tale fantastico apparato non si dissolva con la sua caduca fisicità, il principe commissiona ad Alessandro Specchi la veduta panoramica del palazzo e il suo spaccato prospettico con gli arredi minuziosamente raffigurati. I due disegni, tradotti in stampa da Domenico de’Rossi, sono alla base di due quadri del pittore tedesco Cristiano Reder, conservati in palazzo Borghese a Roma, resi noti e studiati da Maria Dusmet Lante (1967), da Luigi Lotti (1981) e Daria Borghese (1994).


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di Pier Mario Fasanotti on molta franchezza debbo dire che ho sempre considerato odiosa e ipocrita la dizione «Festa della donna», che si celebra l’8 marzo. Anche se indubitabilmente «festa» rimanda alla gioia, la trovo riduttiva e un po’ meschina perché indica un tempo, ossia un giorno soltanto, e come tale limitato, coartatamene tenuto entro limiti angusti. Di qui il senso della concessione, della «bontà sua» (del maschio), del carnevale che precede le Ceneri. Un modo di lavare la coscienza col detersivo della correttezza in dosi rigorosamente segnate nell’involucro, mai troppo grande, che contiene la sporadica generosità maschile. Preferirei che si festeggiasse l’«omaggio alla donna», e immaginerei un inchino garbato e nient’affatto lezioso dinanzi alla forza morale e alla bellezza di un essere che oggi buttiamo spesso nell’inferno delle nostre periferie geografiche e culturali, con disprezzo, stupri, indifferenza.

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libri

8 MARZO Come dare senso a una festa riduttiva e troppo spesso ipocrita

In ogni caso l’8 marzo è Festa. Magari qualcuno lanciasse l’invito, valido in quel giorno ma non solo, di censurare - sì, uso proprio questa parola come atto libertario - quella pubblicità - eh sì la solita dei sarti, bottegai vezzeggiati come artisti - che vogliono la donna come un semaforo erotico, un paracarro masturbatorio, un corpo da schiaffare contro la fiancata della macchina per poterlo volgarmente frugare e violare. È il caso, questo, di una ditta milanese di abbigliamento che ha affidato a due professionisti volgari (dell’agenzia pubblicitaria F&P) la rappresentazione della donna immobilizzata e palpeggiata da due poliziotti sullo sfondo della spiaggia di Ipanema (Brasile). Rio de Janeiro ha protestato in sede diplomatica. Il sindaco di Napoli ha ordinato di stracciare le foto, a Milano e in altre città le foto si guardano ancora: un modo per educare i nostri figli nel tempo in cui la politica ragiona su un decreto anti-stupro. Siamo non alla festa della donna ma alla donna cui fare la festa. Il gioco (sic) di parole non è da bar con vomitevole odore di vino, ma è spalmato su tabelloni. Se il concetto di vergogna è in disuso, occorre trasformare in decreto ingiuntivo la vergogna dei ti). Arianna, in effetti, è stata trattata male dai vita (il meandricolo filo del destino), tra gli stati pochi. O dei molti silenziosi che non possono maschilisti che hanno visto in lei solo il lato oscu- di coscienza (collega le tappe dello sviluppo spiusare i giornali come una passerella di moda, e ro e intrigante. Invece Arianna, come sostiene an- rituale) e tra i luoghi. Il labirinto è luogo sotterranemmeno dir la loro per il timore d’essere tritu- che il grande Karl Kerényi, è da ricordare per il neo dal quale si deve uscire dopo aver ferito a suo «fulgore». Non a caso i cretesi la chiamavano morte il Minotauro, ossia l’homo natura che ostarati nell’imbuto della non-modernità. Le origini della festa dell’8 Marzo risalgono al Aridela, ossia «la molto luminosa». Una caratte- cola il passaggio dell’essere all’homo logos. Le 1908, quando, pochi giorni prima di questa data, ristica, quella della luce, condivisa con altre divi- due parti, quella bestiale e quella intellettuale, a New York, le operaie dell’industria tessile Cot- nità femminili, non ultima Afrodite Pasiphaessa devono superarsi fondendosi. E chi è l’artefice di ton scioperarono per protestare contro le terribi- (letteralmente: «che splende dovunque»). Noi questa conciliazione degli opposti? Arianna, il cui filo altro non è che l’amore inili condizioni in cui erano costrette ziatico. Si deve rendere omaggio a lavorare. Lo sciopero durò per alNon solo corpi seducenti o esseri dimenticati alla donna, come dicevo prima, apcuni giorni, finché l’8 marzo il proin periferie geografiche e culturali. Ma autrici punto per il successo della rinasciprietario, tale Johnson, bloccò tutte di valore che riempiono gli scaffali delle librerie. ta, dell’uscita al sole. le porte della fabbrica per impedire alle operaie di uscire. Allo stabiE miti fondativi con i quali confrontarsi. Come quello U n a l t r o i n t e r e s s a n t e saggio limento venne appiccato il fuoco e di Arianna o della conciliazione degli opposti... (Miti d’amore di Umberto Curi, le 129 operaie prigioniere all’interno morirono avvolte dalle fiamme. Bompiani) ricorda le splendide paFu Rosa Luxemburg a ricordare l’episodio e a Arianna l’associamo a Teseo, a quel Teseo che en- role di Aristofane. Che potrebbero essere consitra nel labirinto per sconfiggere il Minotauro ma derate la più sublime espressione dell’amore: chiedere di farne un simbolo. Alla Luxemburg sarebbe stato gradito il sapere poi ne esce solo con l’aiuto del filo. Appunto quel- «Diventare l’uno con l’altro una medesima cosa, che oggi sono tante, tantissime le donne che han- lo di Arianna. La storia ha una valenza simbolica in modo da non lasciarsi mai né notte né giorno». no preso a raccontare di sé: con il cinema, la let- importantissima, che certo i sarti di oggi ignora- Anche in questo caso si deve fare i conti con la teratura, la diaristica, la televisione (quella buo- no del tutto e forse è un bene per evitare che ne separazione e la riconciliazione di due esseri, tana). Il flusso delle parole continua. Basta dare facciano volgare scempio abbeverandosi, almeno gliati in due da una divinità malvagia e invidiosa. un’occhiata agli scaffali delle librerie, basta sfo- a Milano, a quella generosa sorgente estetico-mo- Felice sarà chi troverà la metà corrispondente. Si gliare i cataloghi delle prossime uscite librarie: rale che è il leghismo. legge infatti che «la nostra natura antica era così ormai sono le donne la voce grande. Certo, a vole noi s’era tutti interi, per modo che ciò a cui diate stucchevole, a volte furbescamente intenziona- Arianna contiene in sé una duplice natura. È mo il nome di amore non è altro se non la brama ta a mettere su pagine l’ammicco erotico delle complessa, quindi viva ed eterna. È nume dell’a- e la ricerca di quell’intero». Ecco, Aristofane e alpubblicità dei sarti maledetti, in puttaneschi gio- more, ma è anche associata alla Regina delle om- tri ci indicano l’incompletezza del nostro essere chi di seduzione orale. In ogni caso nel brusio bre (così come Afrodite). La donna è Giano bi- due parti o parti divise. Ecco che si comprende il affollatissimo è difficile non poter scegliere bene. fronte, così come lo è l’essere umano che solo do- significato del termine «simbolo»: da syn-ballo, E così escono anche saggi nei quali si descrive il po aver raggiunto la consapevolezza della pro- metto insieme. Le volgarità dell’oggi continua a mito della donna, la potenza salvifica dell’eros, la pria duplicità può aspirare all’homo totus, intero. dividere, a contrapporre, a rendere uno oggetto e concezione dell’amore coltivata dai filosofi. Una Arianna in lingua cretese significa «oltremodo l’altro soggetto. Poi ci sono certi e fiacchi epigoni sorta di rivalutazione di Arianna la fa Arturo pura». E il filo che lei offre a Teseo? È un mezzo tardo-femministi che scommettono ancora sulSchwarz, filosofo e storico nato in Egitto nel 1924 di collegamento - ci spiega Schwarz - tra gli esse- l’orgoglio d’essere soli in tutto e felici in tutto. E e autore di La donna al tempo dei miti (Garzan- ri, il filo tenace degli amanti, tra i momenti della sempre «contro» l’altro.

La voce delle donne


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Malpensa-Italia di tutto di più opo Milano-Italia con Gad Lerner, la Rai, sul secondo canale alle 23,30 circa, lancia sette puntate di Malpensa-Italia con Gianluigi Paragone, ex direttore della Padania, foglio chiassosamente leghista, ed ex vice direttore del Giornale. L’impronta bossiana offre la spiegazione del titolo Malpensa, malinconica roccaforte nordica dei trasporti contro quei «levantini» (sic) di Roma-Fiumicino. Il paragone è disinvolto, non petulante, ma vuol mettere nel frullatore di una discussione troppe cose: temi che tra loro hanno collegamenti indiretti sia pur reali, titoli di giornale, scritte che riproducono aforismi. E a proposito di questi, in occasione della trasmissione dedicata ai gay e alla trasgressione, è stata fatta murales una frase di Baudelaire: «Il dandy dovrebbe aspirare a essere un intellettuale sublime. Dovrebbe vivere e dormire davanti a uno specchio». Ammiro i suoi Fiori del male, ma considero questa frase una cretinata. E poi che c’azzeccava con la trasmissione? Così, tanto per tirare in ballo la cultura delle citazioni celebri che si memorizzano per poter dire qualcosa di frizzante nei salotti o con la ragazza sulla spider turbo: ma guarda com’è colto quello, oltre che figo, dirà senz’altro lei, autoreggenti in bella vista. S’è cominciato a parlare dei trentenni che non si sposano mai, che spendono anche mille euro il mese per l’abbigliamento, che il venerdì sera si buttano in discoteca. Poi è entrata nell’agone del dibattito la tv: colpevole perché induce a comportamenti o solo specchio di comportamenti esistenti e fino a poco tempo fa ignorati? Inevitabile la presenza di Vittorio Sgarbi (sempre in collegamento), il quale, da intelligente-furbo, lancia frasi interessanti ma pervicacemente in contraddizione, e guai a farglielo notare perché direbbe che sono gli altri a non capire. Rispondendo al maestro dell’ubiquità che è Franco Grillini (Arcigay), Sgarbi prima sostiene che la famiglia «è un disastro, un carcere». Poi, quasi (molto quasi) emozionato afferma che se lui pensa alla famiglia pensa a quella dei suoi genitori, «magari senza divor-

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zio». Si vuole fare il punto su una società edonistica, ammaliata dal relativismo (un trentenne da discoteca è stato perentoriamente squallido: «Lavoro, guadagno, pretendo»), e bovinamente seduta davanti a quella noia-palinstesto che è il Grande Fratello. Spunti, provocazioni, idee, ospiti irrinunciabili come Platinette in versione (si fa per dire) maschile o «da spesa al supermercato».Valori, scambisti sessuali, il Sessantotto, il Nord-Est sazio, bigotto e sporcaccione (il ritratto fatto da Pietro Germi regge ancora, eccome), il Gay Pride definito una volta una carnevalata e un’altra manifestazione di libertà, Benigni che legge Oscar Wilde e Sgarbi che lo spernacchia come «osceno». Il frullatore gira, il conduttore non fa il vigile urbano e il traffico di parole somiglia a quello del Raccordo Anulare. Fa niente, il suo sorriso fomenta e stimola, spesso a casaccio. E poi il solito Costanzo che difende la tv e dà ragione un po’a tutti, con senile cordialità. E ancora: Sgarbi che elogia Platinette quale «risposta al perbenismo cattolico di Grillini», Grillini che ribadisce l’eguaglianza dei diritti, pure matrimoniali («come sei funereo» gli dice il critico d’arte «con ‘sta voglia di matrimonio dove salta sempre fuori una madre»), Carlo Rossella che asetticamente spiega che «la famiglia è come un libro giallo» e poi ci tiene a far sapere della sua rubrica di lettere su Chi con tutte quelle donne «in piena crisi di nervi». C’è anche una discussione sulla prostituzione. Quanta nostalgia per i cari bordelli. Messe sotto silenzio o quasi le obiezioni della senatrice Pinotti (Pd) sullo sfruttamento e la schiavitù. Un po’ di limpidezza concettuale appare quando interviene monsignor Fasani. La sua accusa è affilatissima: «Oggi si ragiona così: se questo mi piace è un bene, se non mi piace è un male. Ma come, io non posso più dire “questo è il mio bene” perché probabilmente indico il tuo male?». Rutilante caravanserraglio. Conviene dormirci su. Per capire qualcosetta. (p.m.f.)

dvd

A CACCIA DEI CENSORI

PARADISI DELLA VELOCITÀ

UNA NOTTE NEGLI ANNI OTTANTA

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ato da un progetto del Berkman center for Internet e Security che fa capo alla Harvard University, Herdict Web si propone di monitorare in tempo reale la censura di numerosi siti web in tutte le aree geografiche del mondo. Grazie alla collaborazione dei naviganti in acque perigliose, è possibile confrontare i dati di ciascuno per determinare se dietro l’inaccessibilità di alcune

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enù ridotti al minimo indispensabile, colonna sonora affidata alla grinta di Axel Rose, ed estrema giocabilità, fanno di Burnout Paradise un titolo di assoluto rispetto nel panorama delle corse automobilistiche. L’ultima creatura Criterion non aggiunge nulla di nuovo al genere, ma si segnala per un originale meccanismo di patente a punti, del tutto rovesciato. Infrazioni, inversioni di

ato dalla fantasia creativa di Emanuele Barison e Romeo Toffanetti, disegnatori di due fumetti culto come Diabolik e Nathan Never, Rockstalghia è il frizzante racconto di una notte in cui tre amici si ritrovano in un vortice di ricordi e sensazioni che li univa negli anni 80. Musicisti di una rock band chiamata A Band Apart, i tre reduci riassaporano la malinconia di un pic-

Nato all’università di Harvard, “Herdicted web” consente di monitorare le pagine oscurate

Il game Criterion si segnala per un curioso meccanismo: più infrazioni, più punti patente

Dalla fantasia di Emanuele Barison e Romeo Toffanetti, il ritratto di una generazione

pagine si nasconde un oscuramento più o meno legittimo. Fondato sul concetto di crowdsourcing, sulla collaborazione cioè di volenterosi e appassionati, il sito web di riferimento, herdictedweb.org consente la segnalazione di misteriosi black out da cui ricavare preziose informazioni sul dove, come e quando, alcuni contenuti sono stati proibiti o resi inservibili. È possibile inoltre fare ricerche per parole chiave, paesi di riferimento e periodi temporali definiti, e di vigilare inoltre sulla mappatura italiana. Il tutto secondo la logica che se la censura non può essere impedita, può di certo essere monitorata e preservata da abusi.

marcia, semafori bruciati e ogni altro genere di nefandezza stradale, vengono premiati con generose iniezioni di punteggio, che innalzano il giocatore fino ai vertici della sfrenatezza. Come d’abitudine, scelta e performance dei bolidi disponibili dipendono dal numero di vittorie e di bonus conquistati su strada, dove è possibile sfidare altri competitor oppure correre soltanto contro se stessi e le lancette del tempo. Non mancano i classici turbo, i commenti in voice over, e l’adrenalina di una soundtrack adeguata al battiato cardiaco. Bella grafica e ottima scorrevolezza.

colo mondo antico, oltre il quale, per tutti loro, si dischiuse l’età adulta. Complice il buio, e la vivezza irripetibile di una rentrée filmata con arguzia, Rockstalghia non è però solo un semplice grande freddo in salsa elettro-pop, ma anche una galleria visivo concettuale in cui pendono pezzi di mondi e di storie collettive. Un viaggio a tema che fonde malinconie e strascichi di un ’68 sempre più opaco e sdilinquito nei rutilanti anni 80, che aggiunge alla dimensione privata gli echi e le testimonianze di Lawrence Ferlinghetti, Massimo Cacciari, Francesco Guccini e molti altri. Un documento intimista e graffiante, in cui potrà riconoscersi una generazione intera.

a cura di Francesco Lo Dico

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poesia

Le parole scagliate da Clemente Rebora l decennio italiano 1910-1920 appare ormai chiaramente come uno dei momenti più articolati e fertili dove accanto ai magisteri ancora molto evidenti di Pascoli e D’Annunzio si ha uno straordinario fervore di poetiche e di autori impegnati nella ricerca di nuovi moduli tematico-formali per la poesia. Se possibile azzardare un paragone, quegli anni del Ventesimo secolo hanno la stessa forza tellurica della rifondazione della poesia italiana avvenuta all’indomani della parabola neovanguardista all’altezza della metà anni Settanta. In questo senso anche in poesia il Ventesimo è un secolo più che breve se si accetta di limitarlo al 1975. Forza tellurica perché proprio nel secondo decennio del Novecento con l’azione delle diverse componenti in gioco si creeranno i presupposti per la grande stagione poetica italiana incarnata di lì a poco da Montale, Ungaretti e Saba e poi via via dai protagonisti dell’ermetismo, i fiorentini Luzi e Betocchi e i meridionali Gatto e Quasimodo.

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In questo contesto agiscono molte spinte, dal crepuscolarismo al futurismo all’azione un po’ solitaria ma di grande fascinazione di Campana fino alla generazione vociana, generazione tormentata e inquieta, assillata da interrogativi pressanti, ribelle e innovatrice nel tentativo di creare nuovi linguaggi e stili quanto cosciente di una lacerazione epocale che esortava a una nuova moralità dell’atto poetico. Questi poeti, «maestri in ombra» secondo una felice definizione critica di Pier Paolo Pasolini, da Giovanni Boine a Michelstaedter, da Jahier a Sbarbaro, hanno regalato alla nostra storia letteraria un lascito in parte ancora da mettere in luce. E tra questi Clemente Rebora (Milano 1885-Stresa 1957) occupa sicuramente una posizione di rilievo assoluto. Il poeta lombardo si legò a Banfi e Monteverdi con i quali condivise la scelta universitaria laureandosi nella capitale meneghina su Giandomenico Romagnosi. Dal 1910, con un saggio su Leopardi, iniziò un’intensa attività letteraria collaborando anche alla Voce e vivendo quegli anni in un continuo tormento non solo letterario. Partì per la prima guerra mondiale dopo aver pubblicato nel 1913, proprio per le edizioni della «Voce», i suoi Frammenti lirici. L’esperienza bellica che tanto incise su Ungaretti ebbe anche su Rebora un effetto quasi devastante. Nel 1922 pubblicò i Canti anonimi poco prima di dare una svolta al suo lungo travaglio spirituale entrando come novizio dai padri rosminiani nel 1931 e prendendo gli ordini sacerdotali cinque anni dopo. Nel primo periodo del suo sacerdozio Clemente Rebora arrivò a ripudiare la precedente attività poetica acconsentendo solo nel 1947 alla pubblicazione del suo lavoro per le cure del fratello Piero che in un’edizione successiva mise insieme anche quei Canti dell’infermità apparsi un anno prima della fine. Se Boine pubblica i Frantumi, i Frammenti di Rebo-

di Francesco Napoli

Dall’intensa nuvolaglia Giù - brunita la corazza Con guizzi di lucido giallo, Con suono che scoppia e si scaglia Piomba il turbine e scorrazza Sul vento proteso a cavallo Campi e ville, e dà battaglia; Ma quand’urta una città Si scàrdina in ogni maglia, S’inombra come un’occhiaia, E guizzi e suono e vento Tramuta in ansietà D’affollate faccende in tormento: E senza combattere ammazza. Clemente Rebora V da Frammenti lirici

ra solo apparentemente si mostrano vicini al gusto tutto vociano dell’impossibilità della compiutezza dell’opera. La raccolta reboriana risulta invece molto compatta, con una organicità che sfocia in una studiata struttura poematica. Di frammentarietà si può parlare solo per il singolo componimento che sembra trapassare al successivo per un eccesso di affabulazione. La maggior parte dei testi si basa su una forte polimetria dove però continuano a dominare i classici endecasillabo e settenario pur con espansioni ritmiche su lunghezze quali dodici, otto o dieci sillabe. Sul piano linguistico i debiti del Novecento verso Rebora, l’espressione lirica più alta del clima «vociano», non son pochi. La parola assume per il poeta milanese una «carica di violenza deformante con cui egli aggredisce il linguaggio, lo sollecita a farsi azione e quasi lo scaglia contro la realtà» (Mengaldo) in un continuo e progressivo ingorgo tra tensione colta, non disdegnati arcaismi e una quotidianità di stampo espressionista. Tensione vibrante che si esprime con particolare efficacia in alcune scelte verbali quali intransitivi usati al transitivo o impieghi come «s’impasta e s’imbotta», di ascendenza dantesca, tutte adozioni che rifluiranno nella formazione della grammatica ermetica.

Invece, in comune con gli altri vociani, anche Clemente Rebora mostra lo stesso rifiuto del positivismo; un marcato ripiegamento sull’io, evidente segno di un’avvertita sconfitta e di una crisi del soggetto; l’adozione di una parola per lo più scelta sulla base di una forza «evocatrice» della stessa intessuta tra eredità aulica e bassa quotidianità del linguaggio. Se la vita umana, priva di senso, si riduce per un compagno ideale quale Sbarbaro all’«inseguire farfalle» ed è proprio la poesia vociana a cogliere ben prima dell’esistenzialismo la tragicità della situazione, Rebora allora scrive: «Vorrei così che l’anima spaziasse/ Dall’urto incatenato del cimento./ Se l’uom tra bara e culla/ Si perpetua, e le sue croci/ Son legno di un tronco immortale/ E le sue tende frale germoglio/ D’inesausto rigoglio,/ Questo è cieco destin che si trastulla?» (Frammenti lirici, V). Altro tema centrale della riflessione reboriana è la città moderna, talvolta dialetticamente opposta alla campagna, una modalità che attrasse sicuramente Pasolini, non riprodotta nelle rumorose esteriorità a lui pressoché coetanee del futurismo, città che di volta in volta nei Frammenti tende a essere identificata con un registro ostile fino a punte di tensione polemica, divenendo via via «vorace», «rombante», «ansiosa» «irosa», «lasciva» e «senza amore». È in definitiva quella città in ascesa, titolo di un quadro di Umberto Boccioni, che rappresenta l’Italia nella sua trasformazione moderna dove «scienza vince natura» e tutto si sta mutando «in ansietà/ D’affollate faccende in tormento».


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il club di calliope Se tutto dovesse andar bene, ma veramente bene, senza incidenti o crolli, infine arriverà la tremarella. Vedo amici più anziani che vibrano, il mento scosso, le mani inarrestabili. Parliamo allora di questo movimento, un vento che soffia da dentro per scuotere le foglie delle dita e non si ferma più. È questo stormire neurologico di fronde che dunque mi attende se tutto, proprio tutto, andasse bene. E mi tramuterò in una betulla o in un cipresso sul bordo del fiume, in quel tremolare di luci alzate dalla brezza. Mi farò soffio, mi farò soffiare, panno lasciato al sole ad asciugare.

Valerio Magrelli

NON ERA UN QUIZ: UNGARETTI, NON STEVENSON Forse i più avvertiti tra i nostri lettori avranno pensato di trovarsi di fronte a un indovinello: di chi era effettivamente la poesia pubblicata in queste pagine sabato scorso sotto il titolo di Il mio letto è una nave e a firma Robert Louis Stevenson? Ebbene, lo ammettiamo, non è stato un quiz a sorpresa ma un errore: quei versi attribuiti a Stevenson appartengono a Dove la luce di Giuseppe Ungaretti. Ecco la poesia dell’autore dell’Isola del tesoro a cui si riferiva il commento di Roberto Mussapi.

IL MIO LETTO È UNA NAVE Il mio letto è come un veliero: Cummy alla sera mi aiuta a imbarcare, mi veste con panni da nocchiero e poi nel buio mi vede salpare. Di notte navigo e intanto saluto tutti gli amici che attendono al molo, poi chiudo gli occhi e tutto è perduto, non vedo e sento più, navigo solo. E a volte mi porto a letto qualcosa, come ogni buon marinaio deve fare, a volte una fetta di torta cremosa, a volte balocchi per giocare. Navigo tutta la notte come in volo, ma quando infine il giorno è ritornato salvo nella mia stanza, accanto al molo il mio veliero è di nuovo attraccato. Robert Louis Stevenson

UN POPOLO DI POETI Era piovuto, eri lì avvolto in un pastrano fragile. L’aria sapeva di erba e di resina. Sulla corteccia dell’albero scrivesti: la poesia è figlia delle ferite. Francesco Gaspari

Quando vado su nel bosco gli alberi si aprono al sorriso e ci accompagnano al mondo della natura, che è il grande occhio che ci guarda, il fedele dono di Dio, la ricchezza di una lunga vita, parlano dell’esistenza gli alberi, più dei muri di questa città. Ennio Pieri

È l’ora in cui la tenebra porta con sé il primo sonno per gli uomini stanchi. Solo il battito sordo del cuore a sciogliere il silenzio caldo e appiccicoso della cameretta azzurrina, un silenzio anch’esso sordo. Gli atri e i ventricoli del più involontario dei muscoli si spremono ritmicamente e i loro tonfi sincopati sembrano abitare la stanca cavità del mio orecchio. Il battito del cuore e quell’unico, sincopato ronzio. E poi nulla. L’oblio. L’oppio del sonno mi sprofonda nel baratro più nero e sconosciuto, dove il velo sottile della realtà si squarcia nell’inconscio. È l’abisso dell’ignoto. È il sogno. Chiara Minotti

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

i sa che le banche e le fondazioni, con tutti i loro movimenti, accorpamenti, peripezie, nomine e rinominazioni, posseggono spesso nei loro segreti caveaux dei tesori, più o meno celati o esibiti: collezioni mercantili-status symbol oppure spesso ben calibrate. Ma questa, legata alla Fondazione Cariverona e al suo satellite Domus, riserva davvero delle sorprese ghiotte e insospettate, anche di grandi maestri e ben conosciuti della pittura italiana del Novecento. Alcune tele o sculture note, ma per lo si manifestano delle vere, interessanti novità, soprattutto in quell’area di pittura veronese - dopo i maestri «passatisti» e pur curiosi, come Dall’Oca Bianca, o vedutisti come Rubens Santoro e Tiratelli, qui presenti come introibo, un po’bozzettistico, al Novecento - che vede in città la presenza innovativa del divisionismo lombardeggiante del «calabrese» Boccioni e poi del secessionismo nostrano del «novarese» Casorati, accanto a una personalità curiosa e per lui pregnante come quella del più giovane Guido Trentini. Qui presente con un interessante La pianta rossa, che un po’audacemente il curatore, Gino Castiglioni, immagina aver già intravvisto le alberature teosofiche e ancora simboliste di Mondrian (mentre forse è molto più credibile il legame con Gino Rossi e con altri maestri dell’à plat primitivista francese). La Mole Vanvitelliana è uno spazio affascinante ma difficile da gestire, come già hanno dimostrato molte altre rassegne, nel tempo: invece di proporre una generica carrellata cronologica tra capolavori e non, si è provveduto, da parte di Silvia Cuppini e di una piccola legione di giovani critici volenterosi, a immaginare un percorso tematico con titoli e giocato per miriadi di rifrazioni, a partire dalla tela suggestiva e ben nota di Cagnaccio di San Pietro, Allo specchio, della voluttuosa dama déco, discinta alla sua toeletta (o si tratta di un’attrice pirandelliana, in attesa di entrare in scena, che però si attarda in fase languida di trucco?). Tutta l’opera, bontempelliana nelle fibre, ma anche un po’ moraviana (per ricordare tanto La scacchiera nello specchio quanto gli Indifferenti) nel suo tentativo di divincolarsi dal realismo magico e di avvicinarsi a una sorta di Nuova Oggettività trasognata, è risolta nel gioco incrociato di sguardi riflessi, che non dimentica di stampare sulla parete specchiata un’ombra inquietante, che anticipa o accompagna certe forme ibride di Alberto Martini. A partire da questo gioco del dettaglio (non a caso si cita qui Arasse: «che cosa succede nei momenti previlegiati in cui un dettaglio viene scoperto? Di quale sorpresa quei momenti sono portatori? Che cosa fa chi guarda “da vicino” e quale “ricompensa” imprevista cerca?», per poi tornare alla teoria barthesiana del «timido inizio del godimento») ecco che nasce qui, dettaglio dopo dettaglio, il piacere d’una passeggiata, annodata, tra alcuni quadri assai

S

arti

interessanti. Come i due Boccioni, prefuturisti (il ritratto di Tian, già visto recentemente a Padova e quello femminil-carnevalesco della zia, meno frequentato ma non lontano dal celebre e popolarissimo Idolo moderno della Estorick). La notevole natura morta d’un Severini inchinato al magistero di Picasso. Il bellissimo ritratto d’interno «viennese» di Casorati, che mi parve una rarissima scoperta, anche se la bibliografia in catalogo sgrida la mia memoria, perché scopro d’averlo già lodato trent’anni fa alla mostra veronese sui suoi esordi e non ne conservavo ricordo. Curiosa la composizione mercurialmitologica di Trentini, che più che dechirichiana, pare emulare un Nathan triestino. Bellissimi e rari i due Savinio: uno atletico-chiesastico, con birilli nella cupola d’un tempio, a ricordare il celebre Venerdì Santo del fratello, così ribattezzato dall’acquirente-Cocteau, l’altro un Idillio marino, con prua di transatlantico che viola la tela e una vanitas dilatata. Ma che brutto scherzo metterci accanto Chia, e passi, e soprattutto un polpettone marinaro di Cucchi, che par denunciare la responsabilità di Savinio nell’ingravidare l’indegna prole transavanguardistica. Lo sappiamo che è un celebre quadro «vangoghiano», che viene dal Museo di Amsterdam, che però se n’è liberato: ma in parte condividiamo l’insofferenza del pubblico avverso alla tela, che scrive animatamente le sue impressioni su un quadernetto e se la prende a morte anche con l’illuminazione piuttosto criminale. E anche qui ha ragione, soprattutto quando alcuni autori, come Gino Rossi, o Afro sono letteralmente umiliati da un’indegno accrochage. Si salvano invece i più accesi Vedova, Guttuso, Paresce (superbo il Concetto spaziale di Fontana) mentre un bel Licini geometrico è posizionato senza alcun criterio e Morandi stenta a districarsi tra le altre opere, come pure il lenticolare e stregato Castelfranco Veneto di Donghi. Molto curiosi anche gli effetti pre-magrittiani delle finestre incantate di Augusto Manzini, gl’incantesimi pauperisti dei Pescatori di Savini, i cartoni carnascialeschi di Orfeo Tamburi (che fecero tremare il regime) e una singolar tela di Ettore Beraldini, la Canzone del Piave, di estenuata eleganza morbosa.

Il Novecento allo specchio di Marco Vallora

Tre pittori in mostra: sopra Beraldini, sotto Casorati, in prima pagina Cagnaccio

fotografia

Allo Specchio, Ancona, Mole Vanvitelliana, fino al 19 aprile

Star e scatti d’autore per i bambini africani di Mario Accongiagioco

ttori, registi, personaggi dello spettacolo e della moda. Sono le star immortalate, in circa duecento ritratti, dal fotografo Gianmarco Chieregato, e protagoniste della mostra Fuori dall’ombra. L’esposizione di Palazzo Venezia partecipa al programma Bravo!, la campagna promossa dalla Comunità di Sant’Egidio per favorire la registrazione anagrafica dei bambini africani: il ricavato delle vendite sarà devoluto interamente al progetto. Pedro Almodovar, Penelope Cruz, Tim Roth, Andy Garcia, Luciano Pavarotti, Maria Grazia Cucinotta, Francesca Neri, Toni Servillo e molti altri. Volti affermati, ma soprattutto «nomi» noti, che pongono l’attenzione sull’impor-

A

tanza dell’identità anagrafica come condizione di esistenza. «Nel mondo un bambino su tre non viene registrato all’anagrafe - sottolinea Mario Marazziti della Comunità di Sant’Egidio e nell’Africa sub-sahariana sono sette bambini su dieci». È la prima causa di qualunque abuso: dalla prostituzione ai matrimoni precoci, dal reclutamento nelle forze armate al lavoro giovanile, dal traffico degli organi al contagio dell’Aids. Sono bambini «illegali» solo per il fatto di vivere. Il programma Bravo vuole la registrazione anagrafica per permettere a tutti di adottare un bambino e farlo esistere. Chieregato conferma il suo legame con i progetti «no profit» attraverso la sua attività dedicata alla moda e ai

personaggi del palcoscenico nazionale e internazionale. Nelle circa duecento fotografie a colori e in bianco e nero, scattate tra il 1995 e il 2009, c’è la sua intera evoluzione strettamente legata al concetto di «spazio» (l’artista romano è anche architetto). I volti e gli oggetti tracciano linee a cui non puoi sfuggire perché quando le guardi escono, appunto, «fuori dall’ombra». Come fuori dall’ombra vogliono uscire i bambini africani che non hanno ancora un’identità. Per smettere di essere invisibili. Gianmarco Chieregato, Fuori dall’ombra, Palazzo Venezia, Roma, fino al 15 marzo (ingresso gratuito, dal martedì alla domenica, ore 11-19)

Antonioni visto da Chieregato


MobyDICK

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moda

Nostalgia & Austerity (ma Armani è ottimista) di Roselina Salemi n po’ di futurismo (del resto, siamo in pieno anniversario con tanto di mostra) da Laura Biagiotti, che ha sempre amato i colori di Giacomo Balla, i mix di viola, nero e fucsia, le sue ardite geometrie. Un po’ di surrealismo da Dolce&Gabbana, grazie all’inconfondibile Marilyn stampata sugli abiti da sera, alle ruches dorate, ai cerchietti - anche tre - portati sulla testa come una corona, guarniti di nastri e conchiglie. Un po’ di anni Ottanta, sparsi dappertutto, un po’ di rock, di punk e di dark, ed ecco l’autunnoinverno 2009-2010. Donne androgine e pericolose da Gucci, inguainate in leggings di pelle e lamè, accompagnati da giacche maschili e occhiali a specchio (c’era anche un tacco 16). Donne che sembrano cloni di Tina Chow, la modella, bellissima e dannata, morta di Aids nel ’92: trent’anni fa furoreggiava nei club newyorkesi, oggi ha ispirato Frida Giannini. Donne che sembrano le sorelle di Jerry Hall e Bianca Jagger, con gli sfacciati completi animalier di Blumarine. Donne che portano lunghissimi guanti di vernice decisamente fetish (da Giorgio Armani) e non sorridono mai, corrono su alti tacchi a stiletto di giorno e si riposano, la sera, con gli stivali rasoterra. Donne che osano il nero e le borchie, i lacci e le catene, le pellicce e le gonne corte, come da Cavalli, che ha deciso di fare una moda meno ricca e romantica, con meno pizzi, e in compenso più tosta, adatta ai tempi. Donne arruolate da Prada per portare gli stivaloni caccia&pesca lunghi fino alla coscia, bassi o sorretti da un

U

design

tacco 10, tenuti su da cinghie di cuoio che ricordano le giarrettiere, e hanno un’aria peccaminosa, specie se abbinati allo short rosso di tessuto maschile o al cappottone con lo spacco che arriva alla vita. Come dice Giorgio Armani, (uno dei pochi ottimisti), dovranno pur vestirsi le donne, nonostante la crisi, perciò abbiamo il mix, sempre uguale, sempre diverso, di cristalli cuciti sulle maglie e spiritose parigine, ruches che occhieggiano sotto le giacche e abitucci da velina drappeggiati a fatica sui corpi femminili come tende troppo corte, calze a rete con il poncho, cappotti di piume e gonne di paillettes goffrate. In tutto questo, però c’è una nota cupa, non tanto per il nero e il grigio, tornati alla grande, o per la sussurrata certezza che si venderanno soltanto scarpe e borse, ma per gli scricchiolii dell’intero sistema moda, dove, entrato in amministrazione controllata il gruppo Itierre, gira con insistenza la parola austerity. C’è chi ha scelto di non sfilare, chi è a caccia di nuovi finanziatori, chi di nuove icone. La contesissima Scarlett Johansson, diventata bruna, è ospite d’onore da Dolce&Gabbana, oltre che testimonial dei loro cosmetici, Elisabetta Gregoraci, signora Briatore, sale sulla passerella per Ermanno Scervino, Martina Stella per Byblos, mentre una musica assordante, alle sfilate, ma soprattutto alle feste - nostalgiche, qualcuno ha rispolverato persino I feel love di Donna Summer - sovrascrive ogni possibile conversazione. Forse è un bene. Probabilmente non c’è molto da dire.

Due modelli della collezione Armani

Ron Arad, venticinque anni da indisciplinato di Marina Pinzuti Ansolini o discipline è il titolo della prima grande mostra con la quale Parigi e il Centro Pompidou rendono omaggio alla star del design internazionale, Ron Arad. No discipline, ovvero: nessuna regola a scandire venticinque anni di creatività espressa senza frontiere tra arte, design e architettura. La mise en scène della mostra, anch’essa firmata dal designer israeliano, è stata progettata per essere un’opera d’arte a sé stante alla quale partecipano in coro le sue molte creature in una sorta di autocelebrazione. La storia artistica di Ron Arad inizia a Londra con la fondazione, nel 1981, dello studio One Off e la creazione di una seduta destinata a diventare l’icona dell’avanguardia britannica di quel periodo: la Rover Chair, nata dall’assemblaggio di un sedile recuperato dalla demolizione di una Land Rover e una struttura di ac-

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ciaio tubolare. Nella Galerie Sud del Pompidou sono esposti più di duecento tra pezzi unici, serie limitate, design industriale, citazioni delle sue stesse architetture. Un grande divano realizzato per lui dal produttore italiano Moroso e un lungo bancone di acciaio laccato rosso, lo stesso realizzato nel 2003 per la boutique dello stilistaYamamoto, a Tokio, accolgono e introducono il visitatore alla mostra. Una grande spirale formata da una parete a nastro, riproduzione in scala di un altro suo progetto, il foyer dell’Opera di Tel Aviv, rappresenta il cuore dell’esposizione, dove sono collocati i pezzi unici e quelli realizzati in serie limitata. In essi è difficile individuare il limite tra arte e design. Nello stesso modo sorprendente in cui il marmo, tra le sapienti mani di uno scultore del Rinascimento riesce ad apparire morbido come la carne, leggero come un ve-

Ron Arad e la sua celebre “Big Easy”

lo oppure molle come un tessuto, così Ron Arad, corpo a corpo con l’acciaio, coniugando manualità e tecnologia, taglia, assembla, modella, spazzola e lucida il materiale fino a renderlo flessibile, sinuoso, avvolgente, erotico. Le sue sedute, divani e poltrone, quasi totalmente prive di angoli e linee rette, catturano la luce e riflettono lo spazio: la Big Easy del 1988, opulenta come una donna di Botero, e la London papardelle del 1992, formata da un nastro lucente di maglia d’acciaio inox, flessibile e arrotolabile. Dagli anni Novanta inizia la collaborazione con diversi galleristi; molte delle sue creature sono considerate delle vere e proprie sculture, esposte nelle gallerie e vendute a prezzi da capogiro. Battitore libero del design, conosce anche l’ironia necessaria alla produzione industriale. La libreria Bookworm, nata in acciaio e in edizione limitata, si trasforma e diventa flessibile in pvc colorato: nel 1993, sotto il marchio Kartell, entra nelle case a un costo accessibile, diventando un’icona del design alla portata di tutti. Storia analoga per la seduta Uncut. Nata in serie limitata, formata da un foglio di alluminio stampato lasciato intero, subirà una trasformazione e diventerà, prodotta da Vitra, una divertente sedia impilabile dalla scocca in polipropilene colorato. In terra, lungo il percorso della mostra ci si imbatte in una serie di frasi scelte dal designer. La sua preferita è quella di Marcel Duchamp, forse una risposta all’eterno dibattito sul confine tra arte e design: Il n’y a pas de solutions parce qu’il n’y a pas de problème.

No discipline, Parigi, Centre Pompidou, fino al 16 marzo


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i misteri dell’universo

combustibili fossili sono principalmente: il carbone, esistente in quantità enormi, pari a secoli del consumo odierno dei combustibili fossili; se ne trova in grandi quantità in Cina, Australia, India, Brasile. Si trova spesso a profondità notevoli e richiede tecniche di lavoro minerario, che in Cina danno luogo ad almeno 20 mila vittime in incidenti per crolli o esplosioni. Nella forma di torba, presente in Germania del Nord, può essere estratto con facilità, trattandosi di depositi superficiali dove si usano macchinari enormi, di dimensioni anche superiori a un ettaro! La torba ha tuttavia basso contenuto energetico e crea problemi di ricostituzione del suolo; - il petrolio, che dovrebbe già essere finito secondo le stime fatte all’epoca della guerra del Kippur del 1973 e della conseguente crisi energetica. È generalmente di facile estrazione (salvo in alcuni casi il pompaggio di acque per aumentarne l’estraibilità) se in giacimenti terrestri, fra i quali ne giganteggia uno in Arabia Saudita; ha costi maggiori se localizzato offshore; avrebbe costi ancora superiori, per non dire dei problemi di inquinamento, se venisse estratto dalle cosiddette sabbie bituminose, tar sands, che ne contengono la quantità maggiore e che sono in buona parte localizzate in America e Canada. Dopo gli allarmi prematuri del 1973, è tuttavia

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ai confini della realtà Idrato di metano MobyDICK

la nuova frontiera di Emilio Spedicato

Si trova in molti sedimenti oceanici, specie nelle zone polari e in quella caraibica. Il suo sfruttamento commerciale è tutto da venire ma la sua instabilità, dovuta anche a cambiamenti di temperatura o scosse telluriche, può chiarire molte catastrofi ancora inspiegabili… un fatto che in molte regioni il petrolio ha raggiunto il picco di estrazione, cominciando con gli Stati Uniti che furono a lungo il primo produttore, superando l’iniziale record della regione di Baku, nota da tempi antichissimi quale fonte di composti petroliferi. Il picco riguarda anche il Mare del Nord, la zona di Prudhoe in Alaska, il Gabon, l’Oman, la Cina, ed è aggravato dal fatto che scoperte di importanti giacimenti non si sono più avute, essendo da esplorare con qualche probabilità di successo solo l’Africa e l’Amazzonia. I giacimenti maggiori accertati sono nella penisola araba, in Iraq, Iran, Siberia occidentale. Occorre quindi pensare ad alternative a questo minerale straordinario, che continundo a essere bruciato priverà l’umanità del futuro della disponibilità di un composto chimico ricchissimo; la nostra generazione sarà forse maledetta per questo crimine; - il metano, il cui uso è crescente da vari anni e potrebbe aumentare ulteriormente, in quanto grandi quantità, presenti insieme al petrolio, non sono sfruttate, ma semplicemente bruciate. Chiunque abbia volato sulla Siberia occidentale, nella zona di Tiumen, bacino dell’Ob, avrà visto per oltre un migliaio di km fiamme uscire da centinaia di pozzi di petrolio. E la cosa è vera per altre regioni, basta ispezionare le foto notturne del nostro satellite. Oltre che bruciato, il metano spesso sfugge nell’atmosfera, dove contribuisce all’effetto serra in modo almeno di un

ordine superiore alla CO2. A questo metano immesso nell’atmosfera contribuiscono inoltre le emissioni dei milioni di bovini da carne e quelle delle termiti che digeriscono materiale dalle decine di migliaia di km di foreste equatoriali abbattute ogni anno.

Ora diamo ulteriori informazioni su questa sostanza, costituita a livello molecolare da un atomo di carbonio e quattro di idrogeno, che interagendo con l’ossigeno nel bruciare producono una molecola di anidride carbonica e due di acqua. Una reazione generalmente più «pulita» di quelle associate al petrolio, dove la combustione completa è più difficile, anche per la presenza di impurità, e genera quindi molte molecole, alcune cancerose (HC) e altre (Nox, CO) nocive per la salute e l’ambiente. Se usato nei motori delle auto, il metano ha ulteriori vantaggi, essendo in caso di incidente più sicuro (l’esplosione avviene sotto condizioni restrittive di miscelazione con l’aria) e assicurando una maggiore durata al motore: questa forse la ragione per cui l’industria automobilistica si è ben poco curata di incentivarne l’uso. Il metano oggi si estrae o insieme al petrolio o in giacimenti dove costituisce delle specie di bolle. Ma è presente su questo pianeta in altre forme e per una quantità totale immensa, superiore alla quantità di petrolio, se non anche di carbone. Ad esempio si trova in microbolle all’interno di molte rocce, che opportunamente fratturate ne pro-

durrebbero una quantità enorme, tecnica già descritta in un articolo del National Geographic all’epoca della crisi energetica del ‘73. Ma soprattutto, e di questo i media non ne parlano, si trova nella speciale forma di idrato in molti sedimenti oceanici, specie nelle zone polari e nelle piattaforme continentali, in particolare quella caraibica. L’idrato è un composto instabile di acqua e metano, dove le due molecole in certi casi potrebbero separarsi velocemente. Lo sfruttamento commerciale è tutto da venire e deve superare notevoli difficoltà tecnologiche. Tuttavia è possibile che occasionalmente processi naturali, quali brusche variazioni di temperatura o terremoti, anche del tipo cosiddetto silente, possano destabilizzare tale sostanza su vaste regioni con conseguenze catastrofiche.

Alcuni anni fa è stato accertato dal geomorfologo Stuart Harris che un immenso tsunami proveniente dai Caraibi invase, verso il 1450 a.C., epoca dell’Esodo e del diluvio di Deucalione e dell’esplosione di Fetonte, il bacino del Mississippi, lasciandone traccia in

detriti a circa 2000 km dalla costa. Tale evento sembra associato quindi alla fine della grande civiltà della valle del Mississippi orientale, in particolare dei bacini dei fiumi Ohio e Tennessee, e all’abbandono della straordinaria miniera di rame nativo dell’Isola Reale del Lago Superiore, dove lingotti di rame purissimo sono stati abbandonati e ritrovati in gran numero. E secondo vari autori la scomparsa repentina di navi in vari mari, fra cui la famosa zona delle Bermude, potrebbe spiegarsi con il loro essere incappate in una bolla di metano prodotta dalla destabilizzazione degli idrati. In questo caso il metano potrebbe formare microbolle nell’acqua, abbassandone la portanza. Oppure potrebbe portare a un sollevamento a forma di cupola della superficie del mare, incappando nel quale la nave finirebbe per affondare. Similmente potrebbero spiegarsi alcune scomparse di aerei, entrati in una bolla di metano, dove la minore densità destabilizzerebbe gli aerei. È possibile che questi idrati si trovino anche su Giove, un tema per un’altra rubrica…


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