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mobydick

SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

“I promessi sposi” di revisione in revisione

MANZONI FOREVER di Filippo Maria Battaglia hi sia Lucia Mondella o chi sia Renzo Tramaglino, lo sanno tutti, persiGiovanni Leone, allora Presidente della Repubblica, disse senza esitare fra’ CriFilm, no chi non ha mai letto un libro in vita sua. Merito di un fortunato stoforo; Nilde Jotti ribatté con l’Innominato; Giovanni Malagodi scelse sceneggiato per la regia di Sandro Bolchi, merito soprattutto Renzo; Giulio Andreotti, manco a dirlo, puntò dritto dritto sulla figura fiction, opere del genio narrativo di Alessandro Manzoni. In più di cendel cardinale Federigo. Ricorda Giorgio De Rienzo che nessuno liriche, musical, tottant’anni, i suoi Promessi sposi hanno subito riadattascelse Lucia Mondella. Colpa, forse, di una «virtù troppo trasposizioni letterarie. inossidabile per piacere ai laici, troppo vigorosa per esmenti di ogni forma: cinque film, quattro fiction, due sere democristiana, decorata com’è dai suoi silenopere liriche, un paio di musical, una fortunata seIl capolavoro manzoniano zi e dai suoi rossori». Ma il gioco dell’editore rie comica, persino uno spot pubblicitario. ha subito riadattamenti di ogni forma. non concluse affatto la giostra delle interpretaUna tradizione nata da subito e proseguita fino Come quello di Guido da Verona nel ’29, zioni. Piero Chiara, ad esempio, stravolse la storia ai nostri giorni. Per dirne una, tra le meno remote: con la sua straordinaria capacità narrativa. Nella sua biznel 1977, in occasione del centocinquantesimo anniversaora ristampato, o quello zarra trasposizione, Lucia mise così in mostra le sue «forme rio della prima edizione, un piccolo editore ebbe l’idea stravagante di chiedere un giudizio dell’opera ai più noti politici. E di se- immaginato da Bassani esuberanti» con tanto di «seno mastodontico». per la Lux... gnalare quale dei protagonisti avesse riscosso maggiore simpatia. Ne continua a pagina 2 venne fuori un diagramma significativo delle pulsioni elettorali dell’epoca:

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Città di Sergio Valzania Leggende del rock per War Child di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

L’infanzia assoluta di Stevenson di Roberto Mussapi

Prove di volo a Tor Bella Monaca di Andrea Di Consoli Shopping e famiglia ai tempi della crisi di Anselma Dell’Olio

L’enigma del realismo di Marco Vallora


manzoni

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segue dalla prima Prima del riadattamento dello scrittore di Luino, era stata la volta di Guido Da Verona. La sua versione, da poco ripubblicata dalla casa editrice Otto-Novecento per le cure di Max Bruschi (297 pagine, 16,00 euro), era un condensato ad alto tasso di ironia e goliardia. È vero: anche qui il ramo del lago di Como volge sempre a mezzogiorno, ma trama e personaggi farebbero gridare allo scandalo persino i bravi di manzoniana memoria. Il clou della storia si svolge agli inizi del Novecento, la pia Lucia è diventata una provinciale dalla gamba allegra, Don Abbondio non è da meno, si accontenta dei più comodi offici della perpetua, convertendo tra l’altro i buoni del tesoro in prestiti del littorio. Per le strade ci sono già le prime macchine (Renzo viaggia in Fiat 525, Don Rodrigo sceglie la lussuosissima Chrysler) e i terreni costano duemila lire al metro quadro. È il 1929 quando il libro vede la sua prima edizione e non è difficile immaginare che sia subito messo al bando per vilipendio della religione, della morale e dell’ideologia fascista. Ma il capolavoro manzoniano lega a sé decine e decine di altri tentativi, alcuni peraltro assai più sofisticati. È il caso di Giorgio Bassani, che nel Dopoguerra riceve una lettera dalla Lux Film del seguente tenore: «Illustre Signore, la Lux Film ha intenzione di produrre un film sui Promessi sposi, e prima ancora di stabilire a chi affidare la sceneggiatura e la regia vorrebbe chiarire le linee generali secondo cui è più opportuno interpretare oggi il grande romanzo in termini cinematografici. A questo scopo si rivolge a Lei, come ad altre eminenti personalità della nostra letteratura particolarmente studiose e competenti dell’argomento, pregandoLa di comunicarci il Suo parere in proposito. Si tratta, abbiamo detto, di stabilire il tono fondamentale della trasposizione cinematografica; quali elementi del romanzo debbano essere, secondo Lei, particolarmente sottolineati, in che limiti si debba intendere quella fedeltà al testo letterario che è nostro fermo desiderio rispettare». In particolare, proseguiva la lettera, «poiché il film, anche se più lungo del normale, non potrà mai contenere tutte le vicende del romanzo», i produttori chiedono «quali personaggi e situazioni possono essere a Suo avviso soppressi senza danno». La comunicazione della Lux non trascura neppure gli esiti commerciali e le potenziali ricadute dell’iniziativa: «Un altro punto vorremmo segnalare in modo specialissimo alla Sua attenzione. È questa la terza versione cinemato-

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

forever

grafica e della sensibilità degli spettatori riguardo ai contenuti del romanzo, un fatto nuovo si è verificato, nella storia della sua fortuna, che merita attenzione. Una recente traduzione inglese del romanzo a opera di Archibald Colquhoun, ha risvegliato improvvisamente l’interesse del mondo internazionale della cultura, e particolarmente di quella anglosassone, attorno a quest’opera che, sebbene faccia parte sostanziale del patrimonio spirituale degl’italiani, era finora praticamente ignorata all’estero Si intravede dunque la possibilità che un film su I promessi sposi sia compreso anche fuori d’Italia, contribuendo in qualche modo ad avviare una più larga conoscenza del romanzo. È allora evidente che questa situazione impone un problema nuovo: il problema di tenere conto del nuovo pubblico, quello non italiano, che i film precedenti avevano completamente ignorato; in che termini?».

Seguono indicazioni tecniche circa la misura dell’intervento, la data di scadenza, i compensi. Bassani prende molto sul serio il problema e spedisce prontamente l’articolo richiesto. Come ricorda Salvatore Silvano Nigro nella nota al libro Sellerio che presenta per la prima volta l’adattamento di Bassani (I promessi sposi. Un esperimento, Sellerio, 152 pagine, 10,00 euro), lo scrittore è piuttosto fiducioso, anche perché ha già lavorato per la Lux come collaboratore alle sceneggiature di grandi film come Tempi nostri di Blasetti e Senso di Visconti. E il risultato cui giunge non è affatto scarno di temi e risultati imprevedibili: «il manzonismo di Bassani - scrive Nigro - era in chiave anti-neorealistica. Se Manzoni si “teneva di sopra”, i neorealisti si “tenevano di sotto”». L’autore del Giardino dei Finzi Contini, invece, «teneva in mano I promessi sposi. E si inoltrava nella infinita tragedia di una memoria (ebraica in prevalenza) abitata (come nel racconto The Dead dei Dubliners di Joyce) da una folla di morti. Agli scomparsi Bassani voleva restituire la vita, nella storia: nelle sue “storie”. In una intervista pubblicata nel 1977 dal Canadaian Journal of Italian Studies, Bassani dirà: “se c’è uno scrittore che nell’Ottocento mi abbia tirato ancor più, molto più di Leopardi, è proprio Manzoni… Perché sta all’origine di questa società… Il suo sforzo in tutti i sensi, e politico e morale, e soprattutto letterario - la popolarità del suo dettato, non il populismo, lo sforzo di farsi umile fra gli umili, lui aristocratico di farsi borghese e razionale - sta all’origine della società nella quale ancora viviamo. L’unica differenza tra me

e quel grande è che lui credeva in Dio e io non credo”». Il film non verrà mai prodotto, ma l’audience manzoniana continuerà a mietere altri illustri vittime.Tra queste, c’è di sicuro il personaggio-Lucia, decisamente massacrato da diverse prime lame della narrativa nostrana: «insipida contadinotta dabbene» per Anna Banti, «leziosa e cocciuta» per Alberto Moravia, provvista di un «infallibile spray di noia» per Alberto Arbasino, «bella baggiana» per molti altri scrittori. «Eppure - ha scritto Giorgio De Rienzo - a leggere bene I promessi sposi, Lucia non è solo anima. La“lieta furia”di Renzo che vuole sposarla in fretta, la “gelosia”cupa di don Rodrigo, la preoccupazione trepida di fra Cristoforo (la sua “carità pelosa”), la curiosità morbosa di Gertrude svelano la carne di Lucia. Questa “bella baggiana” dagli “occhioni” sempre bassi, non è frigida. Renzo lo sa. E se attende, assecondando con pazienza e con rispetto i tempi della “sua”donna, è perché ha il proprio tornaconto. Non per nulla l’epilogo del libro ci mostra, tra la corona di una numerosa famiglia, un Renzo finalmente pago, si direbbe sazio». Chi pare invece che non si sia mai saziato - considera-

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

te le attese - è il pubblico. Di revisione in revisione, si arriva infatti a quelle strampalate dei più giovani. Maledetti promessi sposi era meglio se vi sposate, oltre a essere il titolo di un bestiario a cura di John Beer (Rizzoli, 210 pagine, 10,00 euro), può tranquillamente assurgere a grido d’invocazione di almeno tre generazioni di studenti alle prese con la lettura (coatta) delle vicende di Renzo e Lucia. E infatti, nell’antologia di Beer, Renzo e Lucia si elevano a protagonisti incontrastati al pari di Dante e di Orlando. Sconfessando così i numerosi critici, alcuni dei quali stranieri, che non hanno mai amato il genio manzoniano.

Da ultimo, lo storico della cultura Donald Sasson che nella monumentale Cultura degli europei (Rizzoli) scrive: «Alessandro Manzoni aveva avuto l’ambizione di scrivere “il” grande romanzo popolare italiano. I promessi sposi fu celebrato dalle élite e imposto a generazioni di studenti, adattato per il teatro, per il cinema e infine per la televisione, ma non divenne mai popolare. I lettori italiani erano abituati ai romanzi di Dumas, Sue e Verne e ai loro imitatori locali, così come lo era-

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no stati a Scott e ai suoi emuli italiani. E quando andavano a teatro amavano i melodrammi francesi di Scribe e le farse di Labiche.Tra il 1838 e il 1850 una versione teatrale di Papà Goriot di Balzac venne messa in scena settanta volte. Le fonti contemporanee riportano di come “tutti”leggessero Balzac o in lingua originale o in una delle varie traduzioni correnti. I critici italiani invece, sebbene riconoscerlo che Balzac aveva una capacità di coinvolgere i lettori che nessun loro connazionale sembrava possedere, avevano allo stesso tempo una visione elevata di come avrebbe dovuto essere un grande autore. Doveva essere qualcuno come Manzoni, e l’opposto di Balzac: doveva avere “valori”, comunicare spiritualità, essere impegnato nell’edificazione pedagogica, avere uno stile di vita adeguato e non essere troppo interessato alle questioni economiche. Balzac era considerato troppo popolare, troppo rivolto al semplice intrattenimento, quindi un modello che avrebbe corrotto gli scrittori italiani. Il risultato era che molti italiani leggevano Balzac per piacere e Manzoni per dovere». Nulla di più vero, e al tempo stesso nulla di più falso.

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parola chiave

aspetto della città moderna è minaccioso. Essa sembra esibire in modo muscolare la sproporzione esistente fra la propria dimensione smisurata, fra i propri ritmi frenetici e rapidissimi e quelli del singolo abitante. Pare vivere in base a regole disumane. Nella città tutto viene sottoposto a una spinta enfatizzante, le dimensioni non sono mai congrue. Il lusso delle vie centrali contrasta in modo quasi doloroso con la miseria delle periferie e anche le città del mondo dei ricchi offrono agli sguardi avvertiti lo spettacolo inquietante di luoghi interstiziali dove hanno trovato rifugio gli esclusi da ogni altra accoglienza. Ma neppure loro sono gli ultimi, qualche legame familiare li sostiene. Il barbone, l’emarginato, il clochard esiste in simbiosi con la città, che prima lo ha espulso da ogni forma relazionale e poi lo ha indirizzato verso una vita marginalissima di solitudine.

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La possibilità di un’esperienza di isolamento estremo pare confliggere con l’evidenza urbana della mancanza di spazio, della coercizione alla vicinanza, alla promiscuità, persino al contatto fisico esasperato e ricco di afrore della metropolitana nelle ore di punta estive. Nel luogo dell’affollamento e della sovrappopolazione, della ressa e dei problemi di approvvigionamento tutti sono però reciprocamente estranei e quindi soli. L’esperienza del saluto è rara, di solito uomini e donne si incrociano senza guardarsi, camminano per strada senza vedersi, si difendono dalla presenza di un numero di simili troppo elevato. Questo luogo si spaesamento e spoliazione identitaria, a volte oggettivamente simile ai lager nelle forme concentrazionarie e violente che adotta, ha però una poderosa forza di attrazione. Convoca gli abitanti della campagna a cimentarsi con possibilità che altrimenti non potrebbero in nessun modo intercettare e a volte capita persino che con qualcuno la città mantenga le promesse fatte. Intanto mette in crisi retaggi culturali antichi, rompe l’equilibrio dei saperi nei rapporti intergenerazionali e spezza rapporti millenari con la terra e le stagioni. Tutte le tradizioni riconoscono come un momento rischioso, aperto alle occasioni di perdizione, quello dell’uscita dalla comunità agricola per affrontare la spersonalizzazione urbana. Rispetto alla campagna, in città tutto è diverso, non solo l’etica, che rende i rapporti più spicciativi, dato che il controllo sociale cala. Nel contesto urbano l’antropizzazione si è realizzata in maniera più compiuta, il distacco dalla natura, con le sue regole e i suoi ammonimenti di morale diretta, sembra totale. Anche i giorni e le stagioni paiono ritrarsi di fronte all’esperienza urbana, con la sua luce elettrica che cancella le stelle, con le fabbriche e gli uffici nei quali il lavoro prosegue senza mutamenti in tutti i mesi dell’anno, indifferente al clima e alla lunghezza delle giornate. Nell’uomo tutto ciò non può che produrre ybris, sentimento e illusione di potenza. Nel

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CITTÀ Il suo aspetto è spesso minaccioso, a volte disumano. Ma il luogo dell’affollamento e della sovrappopolazione che produce solitudine, spaesamento e spoliazione identitaria, può essere anche quello dove i pensieri si confrontano dando forma al nuovo

Ritorno a Gerusalemme di Sergio Valzania

Boston, Filadelfia, Parigi, San Pietroburgo, Mosca... Nelle metropoli moderne sono nate le rivoluzioni, ma anche le comunità più importanti di cristiani si organizzarono nelle città: è a esse che sono rivolte quasi tutte le lettere pastorali di Paolo, i primi testi scritti della nuova religione luogo dove il tempo è stato ammaestrato, privato della sua ciclicità per essere ridotto alla misura di un calendario da tasca nel quale le ferie possono essere scritte in qualsiasi settimana - tanto sono tutte uguali - sorge per forza l’ambizione faustiana di sovvertire anche altre leggi naturali o divine. Per questo le città moderne sono il luogo della rivoluzione. Dalla lontana Boston, con Filadelfia, dove viene rifiutata l’autorità del re inglese,

come avevano già fatto i mercanti olandesi di Amsterdam, Rotterdam e l’Aja con Filippo II di Spagna, fino a Parigi, metropoli europea per eccellenza, e poi San Pietroburgo e Mosca. Solo in Oriente, in Cina e in Vietnam la ribellione degli esclusi nasce nelle campagne e da lì assale le città. In Europa, persino nella periferica Russia, Stalin parte da Mosca per costringere i contadini a compiere il loro viaggio verso una modernità fati-

scente. Una rivoluzione ancora più importante è quella avvenuta a livello di sensibilità estetica, con l’affermazione totale non tanto dei valori urbani quanto dello stile di vita cittadino. Resta vero che il modello bucolico conserva un’attrattiva di maniera, ma la larghissima maggioranza delle occasioni legate all’immaginario condiviso, cinematografiche, televisive e persino letterarie sono inserite nel tessuto cittadino. I piccoli centri si ingegnano di imitare quelli maggiori e i loro abitanti si convincono di vivere l’esperienza della grande città. Tanto è vero che il turismo verso le metropoli si diffonde sempre di più, in cerca di confronto con stili di vita, abitudini sociali, mode, tipologie di consumi proprie dei grandi agglomerati.

Oltre a essere meta turistica e a dominare l’immaginario collettivo, la città è anche il luogo di Dio, almeno così ci appare nella tradizione cristiano-giudaica per la quale il luogo sacro per eccellenza è Gerusalemme, appunto una città, che reca nelle sue vie e nella sua storia lacerata i segni della propria santità sofferente. «Esultai quando mi dissero: andiamo alla casa del Signore» recita il Salmo 122, uno dei Canti della Salita, le preghiere rituali dei pellegrini al Tempio. I contadini e i pastori di Israele, che vivevano in mezzo alla natura, si recavano in pellegrinaggio alla città per un incontro più prossimo con Dio. La predicazione di Gesù si risolve in un pellegrinaggio a Gerusalemme in occasione della Pasqua ebraica, così che la città già santa diviene ancora più luminosa grazie al suo sacrificio e alla risurrezione. Dopo la Pentecoste è da lì che gli apostoli partono per la loro predicazione. Il nome di «cristiani» nasce ad Antiochia e le comunità maggiori e più importanti si organizzano nelle città. È a esse che sono rivolte quasi tutte le lettere pastorali di Paolo, i primi testi scritti della nuova religione. La redazione dei Vangeli, anche di quelli sinottici, è successiva. La predicazione sembra andare in cerca delle città, immaginarne la necessità, considerarle luoghi privilegiati perché avvenga la chiamata. In effetti la città sviluppa una vocazione alla novità. La sociologia ci conferma la vocazione dei luoghi marginali a conservare la tradizione, mentre il nuovo nasce nel nucleo incandescente delle comunità, dove i pensieri si incontrano e si confrontano. L’immagine classica del bacio fraterno fra San Pietro e San Paolo rappresenta l’incontro festoso, a Roma, delle due anime del cristianesimo, continuamente attive in un dialogo fecondo, che riconoscono la necessità di un abbraccio fra quelli che avvertono la priorità del Gesù sacrificato e risorto e coloro che invece fissano l’attenzione sul Cristo Pantocrator, generato prima dei tempi e per mezzo del quale tutte le cose sono state create. La città, a un primo incontro luogo della solitudine, dell’ingiustizia e della violenza scopre e dichiara allora l’altro volto, caritatevole e missionario.


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cd

musica

Leggende del rock per i bambini della guerra di Stefano Bianchi

umeri da brividi. Che non possono lasciarci indifferenti. Due milioni di bambini, nell’ultimo decennio, sono morti in guerra. Sei milioni hanno subìto mutilazioni. Più di un milione è rimasto orfano. Dagli ottomila ai diecimila, ogni anno, vengono dilaniati o gravemente offesi dalle mine antiuomo. Le ultime stime parlano di 150 milioni di bambini abbandonati in strada e 300 mila che hanno imbracciato un mitra. Per War Child, ente benefico fondato nel 1993 quando infuriava il conflitto nei Balcani, è inaccettabile che il 66% di chi muore in guerra venga strappato alla vita nel fiore degli anni. Perciò, si batte quotidianamente in Iraq, Afghanistan, Uganda e Congo affinché i soldati-bambini e i bimbi di strada possano essere restituiti all’affetto delle loro famiglie. E le scuole bombardate, rinascere. Per farlo, occorre anche la musica. Spiega Paul McCartney: «Dal ’95 contribuisco alla causa di War Child, con l’obbiettivo di salvare il maggior numero di piccole vite nelle zone di guerra». L’ex Beatles è fra le leggende del pop e del rock che hanno selezionato la propria canzone favorita e deciso a chi farla reinterpretare. Nel suo caso, la scelta è andata a Live And Let Die e alla talentuosa Duffy, che l’ha rivisitata con piglio cameristico e soul. Il pezzo, insieme ad altri 14, è inserito nella compilation War Child - Heroes incisa a Londra, Manchester, Parigi, Berlino, New York e Los Angeles, e masterizzata nei londinesi Abbey Road Studios. La quinta della serie (il cui incasso verrà devoluto a War Child), iniziata con Help nel ’95. Heroes. Eroi tascabili di guerre senza senso. Vittime inconsapevoli. Heroes, come la canzone di David Bowie affidata ai TV On The Radio che la rendono

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scarna, minimale e poi techno. Si susseguono, quindi, pezzi cantautorali e schegge rock; fulgida black music e new wave anni Ottanta. Leopard-Skin PillBox Hat di Bob Dylan, viene trasformata da Beck in un blues nevrile. Atlantic City (Bruce Springsteen), nell’esecuzione degli Hold Steady è puro pathos. Rufus Wainwright, rivisita Wonderful/Song For Children (Brian Wilson, ex Beach Boys) in chiave sinfonico-pizzicata. E ancora: Superstition di Stevie Wonder, glorificata dall’ottima Estelle; Running To Stand Still (U2), intima e pianistica nelle corde degli Elbow; Straight To Hell (The Clash), che Lily Allen diluisce in un vellutato pop; Do The Strand dei Roxy Music, rielaborata in discomusic dai Scissor Sisters; Victoria (The Kinks), sublimata in rock & roll dai Kooks; il caos punkeggiante di Search And Destroy (Iggy Pop), denudato con basso e batteria da Peaches; Transmission (Joy Division), che gli Hot Chip inondano di electropop e funky; Sheena Is A Punk Rocker (The Ramones), sintetizzata in rockabilly dagli Yeah Yeah Yeahs; You Belong To Me (Elvis Costello), che i Like sdoppiano in punk & folk. Il finale, catturato in concerto, vede i Franz Ferdinand misurarsi con Call Me (Blondie) in chiave hard rock. Contribuendo al valore (e al significato) dell’intero progetto.

War Child - Heroes, Parlophone/Emi, 18,90 euro Lily Allen

in libreria

mondo

riviste

ANCHE PASOLINI SCRIVEVA CANZONI

BOCELLI, EROE DEI DUE MONDI

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on vedo perché sia la musica che le parole delle canzonette non dovrebbero essere più belle. Un intervento di un poeta colto e magari raffinato non avrebbe niente di illecito. Anzi la sua opera sarebbe sollecitabile e raccomandabile. Personalmente non mi è mai capitato di scrivere versi per canzoni, non mi si è presentata l’occasione, credo che mi interesserebbe e mi divertirebbe applica-

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ncanto, titolo dell’album che ha già venduto un milione e mezzo di copie in tutto il mondo, è la parola giusta per esprimere il suo grande successo. Andrea Bocelli, già detentore di quattro dischi di platino, continua a spopolare in Stati Uniti, Inghilterra, Canada, Francia, Germania e Inghilterra. Con un album che rende omaggio alle radici folk della canzone italiana, da Un amore così grande a Funiculì Funiculà, passan-

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Raccolte in un volume con cd audio, sono arrangiate da grandi firme come Morricone, Endrigo e Piccioni

Mentre il nuovo album “Incanto” spopola, annunciato un tour in America Latina e negli States

“Odusia”, il viaggio musicale del violoncellista Mario Brunello sulle note di Giovanni Sollima

re dei versi a una bella musica, tango o samba che sia». Così si esprimeva Pier Paolo Pasolini, in un’intervista in cui lasciava trasparire il desiderio di comporre testi anche per la musica leggera. Un’ambizione, poco nota e frequentata dalle biografie ufficiali, che spinse il poeta a realizzare quattordici canzoni. Raccolte da Aisha Cerami, Nuccio Siano e Roberto Marino, nell’agile volumetto Le canzoni di Pier Paolo Pasolini (Edt, 64 pagine, 15,00 euro), e nel cd audio allegato, se ne trovano scritte per il cinema, altre ludiche e poesie musicate. Chicche introvabili, firmate dagli arrangiamenti di alcune stelle di prima grandezza come Morricone, Piccioni, Endrigo e Modugno. Prezioso e godibile.

do per Mamma e Voglio vivere così, l’interprete italiano, capace di fondere insieme suggestioni operistiche e semplicità popolare, senza mai scader nel bozzetto ha conquistato i consumatori abituali di canzonette easylistening destinate al rapido smaltimento. E sull’onda del successo, l’artista italiano forza le tappe preparandosi da marzo a un tour de force.A Palermo dal 20 e 22 marzo, impegnato nel Faust di Charles Gounod al Teatro Massimo, il tenore comincerà un tour in aprile, quando toccherà le principali città dell’America Latina, per partire alla volta degli States in giugno. Un italiano, che molti chiamano ormai «eroe dei due mondi».

suo ideatore. Brunello, noto per le interpretazioni passionali delle suite di Bach, presta alle risonanze omeriche del concept, il colore e gli echi di un Mediterraneo che trova in Spasimo la sua perfetta realizzazione. Opera del violoncellista palermitano Giovanni Sollima, la composizione è dedicata all’omonima chiesa sconsacrata di Palermo dalle tribolate vicende storiche. Brunello ne offre una rilettura inappuntabile, di vertiginosa vividezza espressiva. Cavata magnifica e 34 minuti di ininterrotto stupore musicale. Il rigore musicale di Sollima e la fantasia ispirata di Brunello convolano a nozze in un’Odusia indimenticabile.

a cura di Francesco Lo Dico

IL MEDITERRANEO E I SUOI SPASIMI ibrante, poetico, erudito. Colto nell’esecuzione, popolare nell’intenzione. Odusia è un viaggio musicale carico di suggestioni, un’opera di contaminazione alta che non ha nulla a che spartire con crossover discutibili o esotismi d’accatto». Così, Claudio Todesco presenta il nuovo album di Mario Brunello su jamonline.it. E Odusia è in effetti un disco prestigioso quanto il


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teatro

zapping

DATE A MICHAEL JACKSON quel che è di Michael Jackson di Bruno Giurato intomo e bizzarria che Michael Jackson sia diventato l’incarnanazione, anzi la plastificazione del soggetto pop. Lui proprio lui, cioè la caverna di Alì Babà dei critici musicali e dei gonzo journalist che in sua assenza avrebbero ben poco da gonzare. Michael Jackson, si dice, è l’icona del declino umano e dello splendore falso, dove appunto l’oro che circonda le icone sacre si sarebbe convertito in plastica, farlocchissima plastica. Jackson, secondo queste brillanti spiritose menti, sarebbe niente di meno che il tramonto d’Occidente. Che il suo voler diventare white essendo nato nigger gli sia andato male sarebbe la giusta vendetta per tutti i precedenti storici: le deliziose ragazze coloured che già dai primi del Novecento si stiravano i capelli crespi. Ben gli sta, a Michael tutto quanto dunque, perfino le accuse di pedofilia (resta solo un dubbio nella mente dei gonzo journalist: che forma e che colore avrà la pipinna di Jackson? Sarà un caffelatte slavato? Assomiglierà al suo naso?). Ben gli sta anche la rovina finanziaria: gli unici miti spendibili oggi sono i maudit. Evviva i moralisti, dunque. Però l’angolino giusto dell’anima, quello che ancora ascolta la musica con le orecchie e guarda ballare con gli occhi e non con il palloso armamentario delle idee, si ribella. Perché Jackson non è una Madonna qualsiasi. È un genio del canto e della danza, un magnifico esemplare di animale da palco, un artista afroamericano dei massimi. Quindi quando leggiamo che dovrebbe guadagnare 180 milioni di euro per trenta concerti londinesi ci viene in mente una massima paesana: «buoni, santi e benedetti». Lui sì, li merita davvero.

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L’epica western di Lillo & Greg di Enrica Rosso asquale Petrolo e Claudio Gregori in arte «Lillo e Greg» cavalcano la scena del Teatro Brancaccio fino all’8 marzo con la loro ultima creazione Far West Story: commedia epica-parodistica che molto si ispira alle creazioni anni Sessanta con tutto quel gran cancan di costumi, balli e canti (mi tornano in mente le parodie dell’inossidabile Quartetto Cetra e sorrido). Si esplora in questa occasione il mondo dei cow boys con il loro humus di pupe e pianisti, saloon e sceriffi, stelle e pistole, nell’atmosfera fumosa e alcolica dei giocatori di poker. Si sprecano le citazioni dei grandi interpreti del genere pescando indistintamente dai classici americani come dai più familiari spaghetti western. A ciò si aggiunge l’invenzione dell’attore interattivo: vale a dire in grado di scambiare battute con se stesso piuttosto che con terzi che agiscono, contemporaneamente, nel filmato che si proietta sul grande schermo che fa da sfondo alla scenografia; quello stesso schermo che ci permette di assistere ai contributi da homevideo che ci sparano - d’altronde siamo in pieno western dritti dritti sulle nostre belle poltrone di casa con le pantofole ai piedi. Un ulteriore gioco nel gioco, ma anche uno show multimediale. È una sordida storia di denaro a muovere i fatti: un vedovo padre di due procaci fanciulle in età da marito tenta di recuperare l’altra metà di una mappa contenente le indicazioni necessarie per entrare in possesso della refurtiva, frutto dell’assalto alla diligenza. Non fa in tempo a pensarlo che viene consegnato a miglior vita dal cattivo locale che

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ne approfitterà per sottrattagli la mappa. In suo aiuto, o meglio delle di lui figliole, si schiereranno due gagliardi pistoleri di passaggio, che si troveranno, loro malgrado, coinvolti in un gioco degli equivoci che li vedrà navigare in pessime acque, schierati in opposte fazioni. Alla fine il bene trionferà, il super cattivo verrà consegnato alla giustizia e tutti vivranno felici e contenti. La scrittura come sempre a opera di Claudio Gregori gode di passaggi tanto vertiginosi quanto irriverenti, comunque esilaranti. Due individualità piuttosto dissimili quelle dei due comici che sembrano aver trovato una loro cifra, oramai un marchio, scekerando senza pietà, ma con intelligenza diversi linguaggi. Surreali, al limite del nonsense, sempre affiatatissimi. Il risultato è uno stile unico, molto apprezzato soprattutto da una fascia di pubblico giovane che accorre numerosa ogni qualvolta il duo si propone in teatro. In quest’ultima realizzazione perdono a volte il ritmo per assecondare le esigenze dei numerosi cambi scena che forse meriterebbero qualche invenzione in più. A condividere le loro avventure, come nel precedente, amatissimo La baita degli spettri, gli stessi quattro attori giocherelloni, impegnati in un carosello di personaggi: Virginia Raffaele, Simone Colombari e Valentina Paoletti (lo scatenato terzetto che opera anche nelle irrinunciabili peripezie televisive di Normalmen) e il tenebroso Lorenzo Gioielli specializzato nei ruoli da cattivo. I quattro interpreti si cimentano ora, per amor del vero con risultati disomogenei e comunque discontinui, anche nel canto e nei balletti. Sempre molto graditi dal folto pubblico presente in sala i contributi extra da dvd con cui si apre e chiude lo spettacolo e che trascinano gli astanti in un vortice di risate.

Far West Story, Teatro Brancaccio fino all’8 marzo, info: 06 98264500 www.teatrobrancaccio.it

Wynton Marsalis a scuola da Danny Barker

di Adriano Mazzoletti

scrizione di quando a otto anni, suo padre lo portò da Danny Barker, chitarrista con le grandi orchestre swing degli anni Trenta. «A mio padre ci volle circa mezz’ora per portarci in macchina allo spiazzo dove la Brass Band della Fairview Baptist Church faceva le sue prove. Là incontrammo un vecchio che supposi fosse il signor Barker. Era un personaggio pittoresco, pieno di vitalità e di fantastiche storie che sapeva raccontare assai bene. Amava la musica di New Orleans e amava i bambini». Barker insegnò a

l jazz insegna a immedesimarsi e pure a essere se stessi. Nella nostra musica esistono molti modi per individuare ed esprimere la propria personalità; non c’è uno schema prestabilito di regole. Quand’ero ragazzo mio ero accorto che i jazzisti amavano tutte quelle persone strane che in altri ambienti sarebbero stati degli emarginati. Sembrava che ci fosse posto per tutti». Chi parla, o meglio chi scrive è il grande trombettista Wynton Marsalis il cui libro Come il jazz può cambiarti la vita è stato pubblicato tempestivamente anche da noi. È un piccolo volume di 160 pagine con il più alto condensato di cultura e vita jazzistica, mai raccontato in un libro di jazz. Marsalis nato a New Orleans nel 1961, figlio di un pianista, spiega il jazz a tutti, colti e profani, con un linguaggio semplice e affascinante. Inizia con la deWynton Marsalis

«I

Wynton e a suo fratello Brandford i segreti del jazz. Lo swing, i blues, ma soprattutto i rapporti con gli altri giovani musicisti che iniziavano a suonare. Frequentare gli altri musicisti fu per i due fratelli una scuola eccezionale, «perché parlavano ed erano capaci di ascoltare. Quello era il loro mondo: parlare e ascoltare, ascoltare e parlare». In ogni pagina del suo libro, Wynton racconta una infinità di cose. Il ruolo della sezione ritmica, l’importanza di ogni singolo strumento, che cosa significano break, riff, head chart, vamp, trading, shout chorus, tutti termini che vengono spiegati in qualsiasi libro di jazz, ma Wynton lo fa in un altro modo. Ecco come spiega il riff, quella corta frase musicale ripetuta soprattutto dagli strumentisti a fiato: «Chi ha dei figli conosce l’uso corretto di un riff: Sali in macchina - Sali in macchina Sali in macchina, oppure Mangia la minestra - Mangia la minestra o ancora Piantala di picchiare tua sorella - Piantala di

picchiare tua sorella. Il riff insiste su un concetto per ottenere un risultato, ripetendolo con un costante crescendo di intensità. Così anche in musica. I buoni riff sono compatti, coerenti, equilibrati, orecchiabili». Il libro è ricchissimo di esempi del genere, ma la sua importanza risiede nella capacità di Marsalis di spiegare in modo del tutto nuovo il rapporto che esiste fra musicisti e fra questi e il pubblico. Ma non solo. Racconta e fa comprendere come il jazz è musica unica e inimitabile. Racconta che nel jazz non esistono barriere razziali e generazionali e che il jazz è una musica così importante che a chi lo pratica può addirittura cambiare la vita. Un libro che può sostituire qualsiasi altro libro sul jazz e che consigliamo a tutti, soprattutto a coloro che organizzano concerti, dirigono istituzioni, scrivono su riviste di jazz, dove spesso la musica che presentano e di cui parlano non è per nulla quella raccontata da Wynton Marsalis. Wynton Marsalis, Geoffrey C. Ward, Come il jazz può cambiarti la vita, Feltrinelli, 168 pagine, 14,00 euro


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narrativa

libri

di Pier Mario Fasanotti a giornata si vede dal mattino, così si dice. Questa è una scemenza metereologica, vista l’attuale variabilità climatica. Ma la regola vale, eccome se vale, per i romanzi. A volte basta una sola pagina per indurre il lettore ad appassionarsi alla narrazione o per convincerlo che la prosa contiene un valore indipendentemente dalla trama. A volte - ed è il caso più frequente per le opere ottocentesche e dei primi del Novecento - occorre aver pazienza e aspettare trenta, quaranta o cinquanta pagine. Jonathan Kellerman, noto in tutto il mondo e lan-

L

ciato in Italia dall’editore Fanucci, è una sorta di calamita sin dai primi capoversi. S’annusa il clima, si intuisce che i personaggi sono ben costruiti ossia del tutto credibili, che l’ambientazione (Los Angeles) non è solo un fondale di cartapesta ma un terreno pulsante, vivissimo, affollato di contraddizioni e di spunti per riflettere sia sull’America di oggi sia sul mondo odierno. Ossessione riacciuffa il protagonista, nonché io narrante, Alex Delaware, esperto di psicologia in stretto contatto con le indagini della polizia, illuminante nei piccoli dettagli e determinante laddove la scienza criminologia è carente, slabbrata o comunque insufficiente per far luce da sola su verità nascoste. Un’indagine non tanto sui singoli fatti delittuosi, ma sull’animo umano: ed è questo il tratto sapiente che rende un romanzo poliziesco un romanzoromanzo. Tutto inizia con delle piccole macchie di sangue trovate su un’auto lussuosa in un quartiere lussuoso. Il ladro l’ha poi lasciata a poche centinaia di metri dal luogo dove l’ha prelevata, chiavi nel cruscotto. Una sfida? Una prova di autobravura? compiacente Poco dopo la signora Mancusi, settantenne, viene accoltellata appena fuori da casa sua. Ex insegnante, nessun mistero apparente nella sua vita semplice, a parte un figlio dai contorni psicologici incerti col quale litigava spesso. Coltellate brutali al ventre in piena mattina, inferte da un uomo che si muove con la lentezza e la rigidità di un anziano, poi sparito

La scena del crimine?

È l’animo umano

su una Mercedes. Tanti i delitti compiuti con auto costose. A indagare una figura simpatica, il tenente Milo Sturgis, che per il fatto di essere gay è stato bersaglio di pregiudizi, esperto di crimini irrisolti. Abituati come siamo ai serial televisivi imperniati sull’onnipotenza scientifica, che tutto ricostruisce e che tutto chiarisce come se fosse un immenso Luminol, ci confortiamo non poco quando Milo ci fa sapere che l’ormai famosa «scena del crimine» non è quasi mai la chiave di volta di un’indagine. Chiaro e tondo, Kellerman ci avverte: «… le magie della scientifica erano un’ottima fonte di intrattenimento per il pubblico, ma i dettagli della scena del crimine si rivelavano importanti in meno del dieci per cento dei reati». Può apparire spaventosa questa percentuale, ma è reale. La verità raramente viene a galla in un asettico laboratorio biomedico. Comunque questo accade solo nella serie Csi della rete Fox Crime di Sky: affascinante, ma pur sempre una forzatura da copione. Poi c’è la Los Angeles delle solitudini individuali, delle ossessioni in stile Charles Manson (il capo della banda che massacrò l’attrice Sharon Tate, moglie di Roman Polansky), di vampiri che si spostano come volando sulle highways e si nascondono dove e quando vogliono, e l’occultarsi è facile in una città-regione. L’esperto Alex arriverà sull’orlo dell’abisso. L’abisso si chiama Dale Bright, un uomo che ha un senso di giustizia che definirlo tutto particolare è assai limitativo. Ma, trattandosi di un giallo di grande qualità narrativa, sarebbe inopportuno addentrarci nel labirinto della follia che sta alla base non di un solo ma di tanti delitti, quindi di un meccanismo compulsivo così aderente alle ombre della psicopatia. Non è un caso che l’autore sia esperto di psicologia clinica. Una premessa culturale che si riversa, senza alcuna pedanteria, sulle sue pagine. Jonathan Kellerman, Ossessione, Fanucci Editore, 400 pagine, 18,50 euro

riletture

L’insostituibile magistero di Emilio Cecchi di Leone Piccioni a quanto tempo non scrivo su Emilio Cecchi? Da una ventina d’anni, perché nel ’90 recensii la ristampa di Pesci rossi del 1920. Da allora ho visto una ristampa di Messico, della Piccola storia letteraria inglese (se ricordo bene) e finalmente il Meridiano Mondadori con tutte le prose e i viaggi di Cecchi (1884-1966). In un saggio del 1968 scrivevo: «Cecchi, nel panorama della vita letteraria italiana, occupava da più di mezzo secolo un posto inconfondibile, insostituibile: era il suo uno di quegli spazi che oggi non pare più possibile siano occupati da altri, non solo perché così grande talento raro appare nel tempo, ma perché l’organizzazione stessa della vita, il ritmo di interessi diffuso pare non consentire più, mai

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più, in terreno umanistico tanta passione, tanta pazienza, tanta continuità di invenzione. Difatti il posto di Cecchi nessuno lo ha occupato, nessuno lo potrà occupare». Oggi, quarant’anni dopo, vorrei proprio aggiungere che nella letteratura italiana del Novecento il posto così centrale e ampio di Emilio Cecchi non è stato mai più occupato: si pensi alla nuova prosa che si può far nascere proprio nel ’20 con i Pesci rossi, alla continuità della sua critica letteraria, gli interessi artistici, la conoscenza della letteratura inglese e le «scoperte» (si può dire) della più recente produzione americana, il carattere stesso che lo distingueva da tutti gli altri, ecco se non tutte alcune cose che lo rendono insostituibile. E bisogna pur dire che nella sua produzione gli scritti di invenzione superano le altre attività. C’era dietro di lui la

scioltezza toscana, il carattere schivo e avverso a ogni cerimoniosità, una forza di suggestione medianica, un gusto per il mistero da penetrare e capire con una fortissima vocazione lirica che tentava di soffocare quanto più poteva. Si vedano, appunto, se non altro i Pesci rossi, le Corse al trotto, certi ricordi della sua vita. E ricordiamo ancora la sua rubrica del Corriere della Sera, dal ’27 alla morte, e la fondazione della Ronda (1919). Chi mi conosce sa che dò molta importanza a certe battute udite dalla bocca di scrittori e artisti: non solo per la loro forza ironica ma perché lasciano segni inconfondibili del carattere. Quando l’onorevole Nenni fece parte per la prima volta dei governi di centrosinistra fu lui ad avere l’incarico di salutare all’aeroporto il Papa: «L’hai visto?» diceva Cecchi.

«Pareva un gatto che gli avessero fatto vedere la trippa!». Viaggiando in treno da Roma a Firenze per una riunione dell’Approdo sfogliava un libro di Bigongiari, fattosi critico d’arte d’avanguardia: «Al Bigongiari - disse - non gli resta che di mangiare il foco!» (di questa battuta Bigongiari moltissimo si divertiva). Tornando da Firenze con lui in treno, con sorpresa trovai ad aspettarmi alla stazione mio padre che era membro del Governo e che aveva sempre ammirato il lavoro di Cecchi. Non si conoscevano, si presentarono e subito Cecchi disse: «Onorevole, dica a Fanfani che si cambi il cappello»; lo portava all’insù forse per parere più alto. Grande prosatore Cecchi sapeva di D’Annunzio maestro di prosa. Quando uscì il Notturno ecco Cecchi: «È tornato il gatto. Ed era giusto che il gatto fosse tornato di notte a passi di velluto».


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storia

Se la libertà viene prima dell’uguaglianza di Angelo Crespi ppare quanto mai complesso descrivere la «libertà», perché essa sembra una precondizione all’accadere delle cose, piuttosto che una cosa. Un po’ come l’aria, ci si accorge della libertà solo quando manca. Per il resto ci respiriamo dentro. D’altronde la libertà, insegna il cristianesimo, è nata per morire. Siamo liberi, ma una volta che abbiamo scelto siamo eticamente legati a quella decisione. Certo, possiamo scegliere un’altra volta, infinite altre volte, eppure la questione non cambia: siamo liberi solo negli interstizi di tempo non coperti da una decisione, cioè,

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personaggi

in sostanza, mai. Malgrado ciò, è quanto mai opportuno per un liberale riflettere sulla libertà e sulla sua sfuggevole essenza. Compito che Egidio Sterpa, liberale di solide tradizioni, assolve con lucidità in un sapido libretto in cui si dà conto appunto della «storia della libertà» dagli albori fino ai giorni nostri. Una sorta di manabile per giovani liberali, in cui si dà conto della versicolore parola che, è bene ricordarlo, neppure esisteva al di fuori dei confini del mondo greco-romano. Non se ne dà traccia infatti nelle antiche civiltà orientali e neppure in quelle semitiche. Secondo l’etimologia il termine greco eleutheria e quello latino libertas deriverebbero comun-

que da un’antica radice indoeuropea, leudh, che significa «etnia non schiava». E infatti a Roma il «liberto» era lo schiavo liberato, anche se poi un liberto, come ricorda Orazio, figlio di liberto, era pur sempre «criticato perché liberto» e mai completamente libero. Bisogna però aspettare Giustiniano e il suo Corpus iuris civilis (528 d.C.) per vedere sancito il principio: «La libertà è la facoltà naturale di chi può fare ciò che vuole, se non gli è proibito con la forza o dal diritto». Anche se poi, il passaggio dalla libertà naturale a quella sociale e politica fu lungo e tortuoso, e come un fiume carsico difficile da seguire risalendo lungo gli evi.

La libertà nella Grecia delle polis era intesa in modo diverso da come fu vissuta nella Roma imperiale, a sua volta fu differente nel Medioevo, nel Rinascimento, e perfino complicata da comprendere durante la Rivoluzione francese che davanti alle tricoteuses mieteva teste proprio nel nome della liberté. Cosa assurda per un vero liberale come Karl Popper che duecento anni dopo predicava quanto «la libertà» fosse «più importante dell’uguaglianza». Cioè siamo liberi perfino di non essere uguali, siamo liberi perfino di non essere liberi. Egidio Sterpa, Storia della libertà, Rubbettino, 144 pagine, 15,00 euro

Il pluralismo utile di Sir Isaiah

di Giancristiano Desiderio zzardiamo una (facile) previsione: sir Isaiah sarà un autore sempre più apprezzato e studiato negli anni a venire. Chi è sir Isaiah? Uno dei maggiori, se non il maggior rappresentante del liberalismo nella seconda metà del XX secolo: Isaiah Berlin. La sua opera, formata in larghissima parte da saggi nati come conferenze, discussioni, dialoghi - ha dunque una spiccata dimensione socratica - è pubblicata in Italia da Adelphi. Il cuore del suo pensiero è questo: il canone occidentale ritiene che per ogni domanda c’è una e una sola risposta, ma per le domande più importanti della vita e dell’etica non solo ci sono più risposte, ma sono anche tra loro in conflitto: in conflitto tra

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bestiari

culture diverse, società diverse, ma anche nella stessa cultura e nella stessa società e perfino nel medesimo individuo. Detto in parole semplici: per la domanda «Come devo vivere?» non c’è una risposta unica, necessaria e razionale valida per tutti e per sempre. Il liberalismo di Berlin presuppone il pluralismo e la confutazione del monismo. Recentemente sono usciti due libri su questa straordinaria figura in cui si intrecciano quattro culture: quella ebraica, la russa, l’anglosassone e quella italiana. Il primo è una monografia di una studiosa dell’accademia Bruna Piatti Morganti che ripercorre tutto il filo del pensiero di Berlin attraverso la sua formazione, i suoi interessi, le sue battaglie. Il secondo è dedicato all’incontro tra Berlin e Anna Achmàtova ed è stato scritto da Gyorgy Dalos: un in-

contro durato solo lo spazio di un giorno e di una notte, a Leningrado, ma destinato a lasciare un segno indelebile nel filosofo e nella poetessa. In seguito a quell’incontro la Achmàtova fu spiata dal Kgb, espulsa dal Partito comunista e dall’Unione degli scrittori sovietici, mentre alcuni dei suoi cari finirono in Siberia. Nacque allora il «caso Achmàtova» e la poetessa si convinse che la guerra fredda ebbe inizio proprio in quella notte del 25 novembre 1945. L’importanza del pensiero di Isaiah Berlin deriva anche e soprattutto dall’esperienza totalitaria: il suo liberalismo pluralista matura contemporaneamente sul piano teorico e nella attiva opposizione politica alla mostruosità dei regimi totalitari del Novecento. Il pluralismo è una critica al potere di verità e di volontà. Ecco perché Berlin è interessante per oggi e per domani. Bruna Piatti Moranti, Isaiah Berlin, Quattroventi, 295 pagine, 19,00 euro; Gyorgy Dalos, Innamorarsi a Leningrado, Donzelli, 168 pagine, 22,00 euro

Tra uomo e animale il confine c’è, ma non si vede di Mario Donati ll’inizio ci fu Esopo il greco, inventore dei bestiari. Poi l’ex schiavo Fedro (Phaedrus, come testimoniò il pettegolo Cicerone), infine Jean de La Fontane, il francese la cui penna corrosiva continuò a vergare su carta malgrado la strettissima, quindi ideologicamente contradditoria, vicinanza a quei nobiles gallici che sul catalogo delle virtù si soffermanavo raramente. In questo filone si inserisce Roberto Barbolini, tra i più eleganti e arguti scrittori di oggi, che riprende il vecchio proverbio secondo cui «Più gente c’è, più bestie si vedono». Non è, il suo, tutto un belareabbaiare-ruggire-gracchiare d’ani-

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mali vari perché, con stile sornione e alludente l’autore (modenese, quindi dotato di bonario ma non meno efficace veleno) non segna così nettamente il confine tra gli esseri cui noi neghiamo l’anima e quelli cui l’assegniamo, sia pure obtorto collo.Anzi: il confine non si vede, e questo è il colpo più basso che può menare un narratore. C’è l’agnellino che la Pasqua sacrificherà, belante «come un minchione», destinato a rimanere nella memoria dolorosa di un bambino affamato di amicizia con un quadrupede morbido. C’è la gallina «Coccodè», davvero priva di fantasia, saggiamente lontana da «esagerazioni teatrali», ma anche in grado d’essere fiera come una matrona romana se il corvo minaccia i suoi

pulcini: allora fa come ha visto fare il gallo e gonfia il petto. Il collo prima o poi qualcuno glielo tirerà, ma intanto dà prova di coraggio allungandolo minacciosamente. Nessuna morale alla Esopo o alla La Fontane, e neppure l’accenno a una petulante virus. Barbolini arricchisce il suo miscelatore fantastico e lascia giudicare. E noi stiamo dalla parte delle galline, un po’ meno da quella dei medici che tastano la prostata a chi vien messo in una «posizione scomoda, un po’ comica, agli antipodi d’ogni arroganza virile». Non mancano tratti somatici che richiamano il mondo animale. È il caso di Bach che prova attrazione per il naso «senza redenzione» di Anna Margreta, poi sua sposa. L’uomo che aspirava al

Bello dell’arte s’innamorò del difforme. Un bestiario estetico-morale, questo: «In natura come nell’arte il brutto, nel suo manifestarsi al grado più alto, non è miracolo o prodigio inferiore al bello; né meno tenace è la fiamma del suo fuoco creativo». Non era Bach l’emiliano che uccise il diffamatore arabo dei grugniti blasfemi (solo per Maometto), ma da compatire per il suo disperato gesto a difesa dell’italica bestialità tutta da consumare: a tavola, ma pure nelle stanze che puzzano di sangue e di morte.Va bene un colpo al cranio, l’insulto no, quello proprio no. Roberto Barbolini, Più bestie si vedono, Aragno editore, 212 pagine, 17,00 euro

altre letture Il Rapporto sulla popolazione pubblicato nel 2007 forniva un quadro complessivo della situazione demografica in Italia all’inizio del XXI secolo. Ora il nuovo Rapporto sulla popolazione. Salute e sopravvivenza, redatto dal gruppo di coordinamento per la demografia (il Mulino, 169 pagine, 11,50 euro) approfondisce gli aspetti riguardanti salute e longevità della popolazione affrontando questioni come sopravvivenza, cause di morte, qualità della vita, salute infantile e riproduttiva, longevità e benessere degli anziani, salute dei giovani e comportamenti a rischio. L’Italia in questi ambiti ha in Europa un’ottima posizione anche se permangono all’interno del nostro Paese differenze profonde tra Nord e Sud. Solo il materialismo più ottuso ha potuto pensare che l’abitare umano potesse essere ridotto semplicemente a una faccenda di riparo e pura sussistenza. Un’allucinazione che ha prodotto i mostri abitativi del socialismo reale e l’urbanistica folle di periferie grigie e criminogene. Di cui anche nel nostro Paese abbiamo dolorosi esempi. La dimora infatti non esaurisce e non fonda l’essenza dell’abitare: «Il soggiorno scrive Martin Heidegger - è un soffermarsi. Esso necessita di un lasso di tempo in cui l’uomo trova la quiete. Ossia il fondato acquietarsi nella costanza della propria essenza». Per una fenomenologia dell’abitare di Virgilio Cesarone (Marietti, 242 pagine, 20,00 euro) cerca di individuare nel pensiero di Martin Heidegger i tratti di una fenomenologia dell’abitare e i suoi differenti aspetti: il rapporto con la terra, la comprensione della spazialità, la propria lingua come terra patria. Tremate le streghe son tornate. Ma tranquilli, non sono le femministe stavolta, sono streghe vere. O almeno aspiranti tali. Si perché la Wicca - uno dei movimenti religiosi che sono più cresciuti negli ultimi vent’anni specie fra le donne - è un’ideologia che prende sempre più campo tra le giovani donne occidentali e che promette la restaurazione di una società e di una religione matriarcale. Si propongono addirittura di restaurare il culto della fertilità risalente al neolitico. Si tratta in realtà di un fenomeno sorto negli anni Trenta dello scorso secolo negli ambienti occultistici inglesi a partire da ricerche nel campo dell’etnologia. Christian Bouchet in Wicca (Edizioni L’Età dell’Acquario, 17,00 euro) fa luce sulla storia di questo movimento, sulla sua ideologia e le sue pratiche. a cura di Riccardo Paradisi


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reportage

VIAGGIO NOTTURNO DI UNO SCRITTORE NELLA DRAMMATICA REALTÀ DELLA GRANDE BORGATA ROMANA CHE CONTA CIRCA 230 MILA ABITANTI. NON È IL BRONX E NON HA BISOGNO DI RIVALUTAZIONI INTELLETTUALI. MA DI RIQUALIFICAZIONE SÌ. AGGREGANDO I SUOI GIOVANI, AVVICINANDOLI AL CENTRO DELLA CITTÀ E PRESTANDO ATTENZIONE ALLE COSE CHE CI SONO. COME QUEL VIDEO SU YOUTUBE CHE LA DICE LUNGA...

Prove di volo a Tor Bella Monaca di Andrea Di Consoli a cosa più commovente di Tor Bella Monaca - la grande borgata romana di circa 230 mila abitanti che si trova oltre il Grande Raccordo Anulare, tra la Prenestina e la Casilina, e fulcro dell’VIII Municipio romano, che comprende altre borgate problematiche tipo Torre Angela, Torre Maura e Borghesiana - l’ho vista di ritorno da un viaggio-sopralluogo che ho fatto lì di notte con lo scrittoreYari Selvetella, da poco in libreria con il suo nuovo romanzo Uccidere ancora, che ha vissuto a Tor Bella Monaca tutta la sua giovinezza, e che probabilmente è l’unico vero amico romano che ho della mia generazione (è nato, come me, nel 1976). Dicevo che di ritorno da questo viaggio notturno, memore anche di una frase cheYari mi aveva detto («per riqualificare Tor Bella Monaca bisogna partire dalle cose che ci sono; per esempio su YouTube ci sono dei video bellissimi che alcuni ragazzi hanno fatto»), sono andato sull’archivio diYouTube e, digitando «Tor Bella Monaca», mi è apparso un cortometraggio di circa 9 minuti intitolato Ladri volanti, regia di Alberto Cozzutto, con protagonista un attore strepitoso che si chiama Fabio «Flow», un parkourista che mi ha letteralmente commosso.

un’assurda giornalista di Rai News 24 che, qualche tempo fa, con la postura greve di una giornalista della Cnn, si aggirava per le strade di Tor Bella Monaca, intervistando allarmata e intimorita povera gente che voleva farle capire che quello in cui si trovava non era il Bronx. No, Tor Bella Monaca non è il Bronx, signora giornalista di Rai News 24. Forse voialtri avete bisogno di emozioni forti, ma a Tor Bella Monaca i problemi sono molto più tristi e insidiosi di quello che pensate: c’è la disoccupazione, la povertà, il disagio sociale, la mancanza di servizi, l’orrore urbanistico (le famose Torri), il piccolo spaccio, l’abbrutimento dei rapporti umani (non il razzismo). Però non si spara. Non c’è la ca-

Ora, io prima di ieri non sapevo niente del parkour, né saprei spiegarlo con precisione adesso. Si tratta di uno sportfilosofia che consiste nello scavalcare - con salti estremi muri, recinti, tubature e ostacoli vari della città. Avevo visto qualcosa di similmente bello, qualche mese fa, in un remix di Another brick in the wall dei Pink Floyd, in cui, appunto, un gruppo di parkouristi entrava e usciva dalle case facendo salti vitali bellissimi, di grande suggestione. In questo cortometraggio, Fabio «Flow» viene inseguito da alcuni loschi uomini, epperò lui scappa per tutto il tempo, si difende, vola sulle loro teste, sale sui muri, si salva, riesce a scappare, finché - libero - non si ferma sul terrazzo di un casermone di Tor Bella Monaca (un grattacielo, in pratica) e, dopo essersi riposato a testa in giù, con sullo sfondo un crepuscolo di sole rosso, riprende la corsa, mentre sullo schermo compare la scritta: Don’t stop your run! Mi sono commosso - è la verità. Ho anche letto i commenti al video: tutti favorevoli, tra cui l’immancabile «è ‘n sacco figo». Ora, mi piacerebbe che tutti coloro che volessero sapere qualcosa di questa drammatica borgata, prima di fare qualsiasi altra cosa, vedessero con attenzione questo cortometraggio. Da qui bisogna partire, da questo desiderio di fuga che il film esprime, dall’istinto di «Flow» di non essere acchiappato da nessuno. Un altro commento dice: «Orgoglioso di essere romano!». Anche io ho provato lo stesso sentimento di orgoglio, forse perché anch’io, nella mia vita, sono sempre scappato, e ho sempre tentato di non farmi acchiappare da nessuno.Vorrei dirlo aYari (appena lo vedrò glielo dirò), perché anche se abbiamo due storie diverse (io sono cresciuto in un paese della Lucania, lui in questa borgata), ugualmente ci siamo detti, quella notte, che è stato faticoso per entrambi conquistare Roma, il suo centro. Non dirò mai che Tor Bella Monaca tutto sommato è bella (come ha fatto qualche intellettuale radical-chic di buona famiglia, che ovviamente vive ai Parioli), né farò mai come

morra, né la mafia. Non ci sono prostitute. Anzi, a Tor Bella Monaca ci sono un sacco di persone serie: impiegati, operai, persone che la mattina, come dice Yari, alle 6 sono già per strada, alle fermate degli autobus, perché questa borgata è mal collegata, è fuori dal mondo e, per raggiungere i posti di lavoro, ci vogliono anche due ore. A Yari ho detto: «Alle Vele di Scampia, a Napoli, vent’anni fa si respirava questa stessa aria. Speriamo che le cose non peggiorino. La vita delle periferie è difficile, le situazioni possono sfuggire di mano. Tor Bella Monaca va collegata in tutti i modi con il centro di Roma». Ma a Roma la camorra non esiste, e questo è un bene. Esiste però un altro problema, ovvero i pregiudicati che stanno agli arresti domiciliari, e che a Tor Bella Monaca sono centinaia. E questo dei pregiudicati è un grande problema della zona (Torre Maura,Torre Angela, Ponte di Nona e Tor Vergata), perché i pregiudicati ai domiciliari sono migliaia, qualcuno parla addirittura di 30 mila. Una cifra spaventosa, che ci dice qualcosa sull’ambiente quotidiano, sul tipo di clima che si respira da queste parti. Tra l’altro, tradotto in vita quotidiana, tutto questo significa: problemi di dipendenza dalla droga, violenza domestica, debiti, disagio femminile, figli affidati ai servizi sociali, ecc. Certo, adesso - dal 2005 - c’è il Teatro di Tor Bella Monaca (direzione artistica di Michele Placido), ma Yari è scettico. Mi porta davanti ai cancelli d’ingresso e mi dice: «E questo sarebbe un luogo di aggregazione? È tutto chiuso, è un bunker. Certo, un teatro è una cosa buona, ci mancherebbe. Ma la borgata ha bisogno di unire le persone, di farle aggregare». Concordo con lui, ma so anche che fare qualcosa per «riqualificare» le periferie è tremendamente difficile - destra o sinistra non conta. Giriamo a lungo in macchina in una notte che qui è spezzata dalle luci colorate dei negozi chiusi (il mitico centro commerciale Le Torri), e dai puntini accesi degli appartamenti dei casermoni di cemento arma-

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È un luogo border-line che pone a tutti di fronte a una scelta: possiamo minimizzarne la portata guardando a problemi più gravi o possiamo intervenire con forza per estirpare i suoi mali. Da questo può dipendere il nostro futuro to. Quanto cemento, Dio mio! Nel dopoguerra l’Italia si è gonfiata con tonnellate di televisione, cemento e pistole (e politica, quanta politica!). Ne sa qualcosa Yari, che qualche anno fa ha scritto un fortunato libro-inchiesta intitolato Roma criminale. Ma giriamo nella notte senza grazia di Tor Bella Monaca, e ogni tanto gli dico di fermarsi, e scatto qualche fotografia, ma le foto vengono più scure del solito. Infine, a via dell’Archeologia, scendiamo e io mi metto a fotografare una Torre lambita dalla luna. Subito però mi si avvicina con il motorino un ragazzo esaltato e strafatto. «Che stai a fa’?» mi chiede, accelerando istericamente da fermo. Lo guardo con calma e gli rispondo: «Sto ‘a fotografa’‘a luna». Lui si volta verso i suoi amici (tutti presumibilmente spacciatori) e si mette a gridare: «A raga’, avete capito? Questo s’è messo ‘a fotografa’‘a luna!». Poi mi guarda negli occhi - mentreYari mi fa segno di andare - e mi dice: «Altro che ‘a luna! Voi che te faccio fotografa’‘e stelle?». E si volta di nuovo verso i suoi compagni: «A raga’, che c’avete ‘n po’ de spiccioli de stelle pe’‘sto cristiano?». Parte a razzo e va verso il suo gruppo.Yari mi trascina in macchina e mi dice che è meglio andare, perché quando uno sta così fuori di testa tutto può accadere. «Siamo padri di famiglia» aggiunge. Sconsolato, e tranquillo, ascolto il suo consiglio. E così abbiamo ripreso il nostro cammino. In macchina, memori di alcune inchieste lette, ci confermiamo il dato che sono circa quattrocento a Tor Bella Monaca i minorenni che vivono quotidianamente di spaccio.

Non so perché, ma mentre giravamo per Tor Bella Monaca (per esempio a via Scozza, dove i pianterreni si allagano ogni volta che piove, ché hanno costruito su una falda acquifera) in mente mi ronzava la più bella colonna sonora che io conosca, quella del film Mery per sempre (la protagonista, Mery, è un’attrice trans del mio paese lucano, e si chiama Alessandra Di Sanzo). M’immaginavo


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Non c’è la camorra né la mafia. Non si spara e non ci sono prostitute, ma tante persone serie, impiegati, operai che alle 6 di mattina sono alle fermate degli autobus con la prospettiva di metterci due ore per raggiungere i posti di lavoro

che ognuno di questi ragazzi - anche i più feroci - avrebbe avuto voglia di confessarsi e aprirsi come Mery davanti a Michele Placido (le coincidenze!), con quella struggente musica lì. Ecco, il segreto è riuscire a entrare nelle persone, aprire il loro cuore. Ascoltare le storie delle persone è già guarirle, o almeno curarle. Ma io e Yari rimaniamo in silenzio, stanchi, ed è notte fonda. Sono però combattuto, perché non riesco a decidermi: a decidermi, cioè, se certe sacche di disagio sono fisiologiche e «normali» in una realtà comunque evoluta e benestante come quella italiana (magari proprio pensando alle migliaia di fognature sociali nel mondo, dove la vita vale meno di niente), o da combattere come fossero emergenze rischiose. Certe volte mi guardo allo specchio e penso che noi italiani siamo comunque sulla punta dell’iceberg più bello: la nostra pelle è rosea, le guance paffute, le tavole ben apparecchiate. Forse ci spaventiamo per il disagio sociale solo perché non vi siamo più abituati; o, ancora peggio, perché abbiamo paura di perdere i privilegi che ab-

biamo ottenuto, e di finire prima o poi, come non ci capitava da tempo, nella fognatura dei rapporti degradati, e del «tutti contro tutti». Tor Bella Monaca, perciò, ci interroga in pieno in quanto italiani del 2009.

Dobbiamo decidere se avere paura oppure no. Se ci scandalizziamo, vuol dire che abbiamo ancora speranza in un’Italia civile e benestante; se restiamo indifferenti, e come impotenti, vuol dire che la nostra nazione è pronta a darsi in pasto al redde rationem dei poveri che danno assalto alle fortezze dei «ricchi», che poi saremmo noi. Si può minimizzare e si può gridare all’emergenza. Entrambe le opzioni sono legittime, perché Tor Bella Monaca, essendo un luogo border-line, può essere letta e guardata da più prospettive. Possiamo minimizzare guardando ai più grandi mali italiani e mondiali; e possiamo intervenire con forza, sradicando per tempo ogni pianta marcia. Da come si deciderà di guardare questi «tumori benigni» dipenderà il futuro della nostra nazione. Io e Yari ci fermiamo al McDonald’s che han-

Alcune immagini di Tor Bella Monaca e di Torre Maura. In alto alcuni ragazzi impegnati nel “Parkour”, filosofia dell’anima oltre che sfida alla gravità di cui racconta il video “Ladri volanti” di Alberto Cozzutto

no aperto da poco, e ci beviamo una cosa nella caffetteria interna (io un tè verde,Yari un caffè). Neanche qui, però, oltre a un gruppetto di ragazzini con la felpa della «Magica», c’è anima viva. A Tor Bella Monaca le persone stanno chiuse in casa.Yari mi racconta che il liceo classico l’ha fatto all’Augusto dell’Alberone, in pratica al centro. «Se avevo una fidanzata, era una tragedia. Dovevo prendere tre autobus per andarle a prendere, e tre per riaccompagnarle. Ho passato la mia adolescenza sugli autobus. Ma i miei genitori hanno sempre creduto in me. Ma gli altri giovani, loro che fanno? Un sacco di giovani si perdono. Si perdono per sempre. Sono stato fortunato, tutto sommato». Fumiamo in silenzio, e ho tosse forte. È tardi, e fa freddo. Ci rimettiamo in macchina e torniamo nell’altra Roma, quella più vivibile. Ma, prima di chiudere, ai ragazzi di Tor Bella Monaca vorrei chiedere di scappare dall’orrore come il parkourista Fabio «Flow». Correte, ragazzi, non fatevi acchiappare dalle cose brutte! Trasformate Ladri volanti nel vostro manifesto, nel vostro poetico riscatto.


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tv

Buona cronaca L’

e sobrietà

web

video

di Pier Mario Fasanotti

omaggio a Federica Sciarelli, conduttrice di Chi l’ha visto? (Rai 3), non è subdolamente doveroso o dettato da galanteria, essendo la giornalista molto bella oltreché bravissima. Semmai è il voler segnalare un programma che non riduce la cronaca a sensazionalismo, piuttosto offre un servizio pubblico (genere che latita oggi in Italia) e nel contempo un acquerello della nostra società in perpetuo e nevrotico movimento. La Sciarelli, anni fa titolare del Tg, continua nella sua professione di reporter sobrio. Scava in casi difficili, afferra l’occasione per dare notizie inedite su fatti misteriosi, aggiungendo tasselli a numerosi puzzle storici (per esempio la scomparsa dello scienziato Ettore Majorana, che ispirò un esemplare testo di Leonardo Sciascia). Succeduta a Corrado Augias, non ne ha ereditato l’anglosassone supponenza ammantata da sorrisetti di intenzionale ma non riuscita tolleranza. Lei registra, mostra testimonianze e filmati, fa domande, rispetta emozioni forti, talvolta comprensibilmente scomposte. Ha dei detrattori, che spuntano su Internet. Inevitabile, mica ci dobbiamo scandalizzare. A proposito di un celebre fatto delittuoso, un bilioso commentatore si lamenta che Chi l’ha visto? non lascia spazio al dubbio. Ma quando mai? Il programma ha come perno proprio il dubbio. Ovviamente parte dalla cronaca raccontata dai quotidiani e dai telegiornali, ma lì non rimane ancorato: sarebbe una contraddizione in termini. Va giù pesante quando s’interroga pleonasticamente, e con grevità da bar, sul «chi è questa Sciarelli?» e aggiunge che la sua impressione su di lei è «funerea». Poi l’inevitabile «Vergogna!»: da girare immediatamente alla realtà e non a chi la descrive. C’è poi chi, sempre su web, approfitta dei link, e segnala il proprio studio di indagini psicologiche. Come è facile e come è volgare oggi farsi pubblicità. Ma a proposito di sensazionalismo, vale la pena di segnalare un’altra sobrietà

games

giornalistica: quella di Lamberto Sposini, conduttore di La vita in diretta (ogni pomeriggio su Rai 1). Sposini è un gentiluomo, uno che è capace di sopportare, glissare, smussare i toni, ma anche fermo, fermissimo nel ribadire che chi fa le domande è lui e non gli ospiti ingombranti e malati di protagonismo, quelli insomma che vorrebbero rispondere a quesiti formulati da se medesimi. Una prova di quel che affermo? L’arrogante intervento di Loredana Lecciso, nota per aver dato due figli al cantante Al Bano, giornalista radiata dall’Albo, così orgogliosa, presumo, di mostrarsi (in Distraction) senza mutandine. Ebbene, Sposini, non gliele ha mandate a dire: «Se non le piace essere qui può anche rifiutare di rispondere… quanto alla mia vita privata non ho motivi di essere reticente, ma a patto che lei mi inviti in un suo programma, se l’avrà… le domande qui le faccio io». Niente da fare, lei nervosa e petulante, gambe accavallate alla Sharon Stone, con evidentissime e vistosissime differenze estetiche, ovviamente. In una delle ultime puntate s’è parlato dello stupore a tutti i costi. In studio un uomo di mezza età completamente tatuato che altro non ha saputo dire se non che «il corpo ha la sua espressione, la sua comunicazione visiva». Contento lui… Contentissima una trentenne di Reggio Emilia, Flavia, che ha subito ben 17 interventi di chirurgia plastica. Voleva a tutti i costi assomigliare a Pamela Anderson, nota per il suo enorme seno. Una correzione, se fosse possibile, dovrebbe farla anche alla sua sintassi visto che ha detto «orecchie a ventola». Ma fa niente. Una che ha speso 90 mila euro in sala chirurgica ha poi l’impudenza di dire che «l’importante è essere belli dentro». Viene da interrogarsi: per «dentro» che cosa intende? Non vorrei essere troppo maligno. L’apparenza, dicevo. Problema pungente di oggi. Sposini a questo ha dedicato una mezz’ora e passa. Anche in questo caso nessun sensazionalismo. Solo buona cronaca.

dvd

IL CONTINENTE SOMMERSO DELLA RETE

HOTEL 626 DALLE 18 ALLE 6

S

i chiama web invisibile e non è altro che l’insieme delle risorse informative non segnalate dai normali motori di ricerca. Un continente sommerso, di cui la rete di cui tutti usufruiamo rappresenta soltanto la superficie. La Bright Planet, organizzazione statunitense, valuta che a fronte dei circa due miliardi di documenti indicizzati da Google, ne sono presenti in realtà 550 miliardi. Perciò, il cele-

I

l nome è tetro, le testimonianze agghiaccianti, e la giocabilità garantita a tutti quanti possiedono una normale connessione internet. Protagonista di un prepotente passaparola che ne ha fatto il miglior gioco in flash agli Fwa Award del 2008, Hotel 626 è un game interattivo che mescola i più eccitanti ingredienti ludici dell’horror. Ambientato nell’omonimo hotel, il gioco tormenta il protagonista

I

A fronte dei 2 miliardi di documenti indicizzati ce ne sono 550 miliardi invisibili. Google li cerca…

Disponibile su internet 12 ore al giorno il gioco interattivo con i migliori ingredienti dell’horror

In bilico tra ieri e oggi, Marco Bertozzi rivisita l’architettura simbolica del Ventennio

bre motore di ricerca ideato nel 1998 da Larry Page e Sergey Brin, si è lanciato alla ricerca del continente sommerso. Un’operazione che a breve sarà resa possibile da una nuova tecnologia targata Kosmix. Gran parte dei dati si celano spesso in database invisibili, o protetti da password di accesso o formule di abbonamento che restringono il numero di accessi e di informazioni disponibili. Mancano inoltre all’appello numerose porzioni di web non codificate in linguaggio html, e volutamente tenute al riparo da sguardi indiscreti. «La rete navigabile è solo la punta di un iceberg», ha spiegato Alex Wright sul New York Times. La caccia all’Antartide è già partita.

con la continua e improvvisa presenza di figure sinistre da cui cercare scampo, alternate a enigmi e rompicapi che richiedono il massimo del sangue freddo disponibile. Giocabile solo per dodici ore dal giorno, dalle 18 alle 6 del mattino, Hotel 626 richiede una semplice registrazione e la, vivamente consigliata, accettazione dell’accesso alla propria webcam e al proprio microfono. Detto che Hotel 626 si è guadagnata la fama di gioco più spaventoso di sempre, i trailer disponibili su YouTube rendono abbastanza bene l’idea dell’avventura. Molto buio, tanto affanno e forse troppo, troppo coraggio.

zi, docente di cinema e brillante filmaker, opera una re-visione dei materiali d’epoca che non è semplice decostruzione dell’architettura fascista, ma ri-visitazione dell’urbanistica mentale di un luogo e di un ambiente, che fu la matrice immaginifica del pensiero mussoliniano. Accompagnato dai contributi degli storici Pierre Sorlin e David Forgacs, l’opera di Bertozzi scardina da una parte gli infissi di chi osserva Predappio alla luce di voice over paradivine e rimuove dall’altra le grate della damnatio memoriae. Nell’intento di varcare la finestra, il ritaglio che oggettiva, Bertozzi si mescola alla gente, e filma ciò che accade in ciò che è già accaduto.

a cura di Francesco Lo Dico

LUCE SU PREDAPPIO mmune da febbri revisioniste o apologetici cliché d’epoca, la Predappio in luce di Marco Bertozzi è un’escursione nella memoria di ieri, che fa tappa nell’immaginario di oggi. Sarabanda di moduli architettonici del Ventennio, e appendice turistica di un demi-monde orfano, la cittadina romagnola è punto nevralgico di una storia d’Italia edificata sui cinegiornali del tempo. Bertoz-


cinema

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Lo shopping e la famiglia

è una sola, vera ragione per vedere la commedia romantica I love shopping, ed è la protagonista, Isla Fisher. Particolare divertente: è la compagna di Sacha Baron Cohen, il comico vertiginosamente surreale di Borat, con il quale ha appena avuto una figlia, Olivia. Fisher è la spiritata, burrosa protagonista Rebecca Bloomwood, nel film tratto da due dei tre romanzi best-seller di Sophie Kinsella, pseudonimo fortunatissimo della scrittrice inglese Madeleine Wickham. Sono libri che appartengono alla categoria Chick-lit, letteratura (parola per ragazze generosa) (chick=pollastrella) giovani, single, in carriera e post femministe, e sono la passione di molte teenager che divoreranno anche il film. (Rischiano di essere deluse poiché il film trasforma il più sottile humour british del libro in slapstick yankee di grana grossa). Gli intrecci amorosi, la disparità sociale tra maschi e femmine e le diverse condizioni economiche tra aspiranti fidanzati, devono molto all’opera dell’immensa Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio in testa. Basta pensare a Candace Bushnell (Sex and the City), a Helen Fielding (Il diario di Bridget Jones), Kinsella e diverse altre, che le Dio perdoni per la profanazione del modello originale.

C’

MobyDICK

non si parla solo di mascalzoni mordi e fuggi, e di femmine sempre deluse o illuse nella caccia all’anima gemella. Sono esaminate con una certa perizia gli alti, i bassi e i qui pro quo del gioco amoroso, sia tra i single sia tra le coppie, sposate o di fatto. Jennifer Aniston e Ben Affleck sono Beth e Neil, conviventi innamorati di lungo corso. Sono felici, ma quando lui insiste per l’ennesima volta che sposarsi gli sembra una cavolata, lei non la prende bene. Janine (Jennifer Connolly) e Ben (Bradley Cooper) sono sposati, ma entrano in crisi durante la ristrutturazione della casa (sorpresa!), e Ben inizia una storia con Anna (Scarlett Johansson), un’insegnante di yoga che si arrapa solo per gli uomini già impegnati. È difficile prendersela con Ben, poiché Janine è un’arpia nevrotica che lo tormenta perché continua a fumare di nascosto, e non ride né sorride mai. Cosa ci fa in una commedia l’intensa Connolly? Appena compare, leggerezza e romanticismo scompaiono. È un’ottima tragedienne, ma non ha in dotazione corde comiche. Drew Barrymore ha una parte poco scritta. Ogni tanto riciccia circondata da amici gay, ha qualche battuta felice, ma forse in quanto produttrice si è accontentata della parte più abbozzata. Chi rende l’esperienza memorabile è Ginnifer Goodwin, che si è fatta notare nella serie tv americana Big Love (Cult Tv) nella parte di Marge, la terza e più giovane moglie di un mormone poligamo. Goodwin è Gigi, un indomito cuore solitario, una ragazza sempre confusa da maschi che la invitano a uscire una volta, promettono di richimare presto, e poi svaniscono. Come Conor, l’agente immobiliare che Gigi insegue, che invece è innamorato di Anna (Scarlett Johansson) che lo vuole solo come tappa buchi, in attesa che Ben lasci la moglie. Goodwin, la rivelazione di questo film, era la prima moglie infelice di Johnny Cash in Quando l’amore brucia l’anima. Gigi invece è dolce, ottimista e vulnerabile, senza uno straccio di difesa contro maschi dal comportamento ambiguo che lei non riesce a decifrare. Finché non incontra un simpatico barista cinico e donnaiolo che le insegna a decrittarli. Il critico del New York Times lamenta la sparizione di film con protagoniste cazzute come Thelma e Louise (1991). Come mai questa invasione di film sul desiderio di accasarsi e mettere su famiglia? Dove sono quelle intrepide amanti della libertà, ragazzacce che sanno divertirsi, difendersi da sole e mandare al diavolo mariti rompiscatole? Chissà, potrebbero essere sepolte, almeno per ora, con tante altre speranze e ribellioni sotto le macerie delle Due Torri. Forse in tempi di gravi minacce all’ordine costituito, si è portati a ripristinare valori antichi: il focolare domestico e i suoi riti, la comunità, le identità fondative. Quando le care cose che si davano per scontate sono sotto assedio, si mettono in circolo i carri e si riscopre l’importanza di avere compagne e compagni di vita fidati.

ai tempi della crisi

Rebecca scrive per una rivista di giardinaggio, ma aspira a farsi assumere da Alette, un giornale di moda tipo Vogue (che è della Condé Nast; nel film trasformato in Dantay West) diretto dall’arcigna Alette Naylor (Kristen Scott Thomas, che fatica a trovare una chiave interpretativa che non sia un’imitazione al ribasso di Meryl Streep in Il diavolo veste Prada). Invece di subire una conversione da intellettuale a fashion victim, come succede a Anne Hathaway in Prada, la protagonista parte già drogata cronica di stracci firmati e costosissimi. Ha tale e tanti orgasmi virtuali durante lo shopping (descritti con dovizia di metafore dalla voce fuori campo di Rebecca mentre guarda le vetrine), da aver sforato il limite delle sue troppe carte di credito. Rimasta senza stipendio quando la sua rivista fallisce, scopre di essere al verde con un debito di oltre 16 mila dollari. Di famiglia proletaria, ha la fortuna di vivere con un’amica ricca che le permette di vivere a sbafo. Ha una fortuna infinita, Rebecca, perché manda un suo articolo sulle trappole dispendiose della modamania ad Alette, che finisce per sbaglio in mano a Luke Brandon, il giovane direttore di una rivista finanziaria dello stesso gruppo editoriale. Pur avendola già respinta dopo un primo colloquio in quanto ignorante del settore, appena legge l’articolo di Rebecca la assume all’istante. Luke è Hugh Dancy, un bravo attore inglese, qui nella parte un po’fessa di spalla della Fisher. Dancy è un primo attor giovane adorato dalle ragazzine, e fa le parti che prima andavano a Colin Firth, adorato dalle loro mamme. Guarda caso Luke è uno ricco di famiglia, ma vuole farcela da solo,

di Anselma Dell’Olio

Del film tratto da due dei tre best-seller di Sophie Kinsella, la cosa più convincente è la protagonista, Isla Fisher. Per il resto, buone occasioni comiche sciupate. Divertente e pungente “He’s just not that into you” appena uscito negli States un’esigenza che il Mr. Darcy di Orgoglio e pregiudizio non ha mai avvertito. Rebecca ha un successo istantaneo con il pezzo che mette in guardia contro lo shopping selvaggio, ma in segreto non riesce a rinunciarci. Dedica il suo tempo a mentire, a schivare creditori, ad accumularne altri, a raccogliere consensi come giornalista e a far innamorare l’ingenuo Luke. Buone occasioni comiche sono sciupate. Per esempio regia e script non sfruttano a dovere la scena in cui l’altera e snob direttrice Alette va a offrire una rubrica all’ormai rinomata Rebecca, nella casa tutta ruches e ninnoli di ceramica dei genitori, i bravi e sprecati John Goodman e Joan Cusack. Ma in compenso il regista P.J. Hogan si dedica senza riserve a far risaltare la verve di Isla Fisher. Australiano come lei, Hogan ha diretto Il matrimonio del mio migliore amico (1997) e Muriel’s Wedding, (1994), ma ritrova la forma solo nella direzione della protagonista. Non è poco, perché è nata una stella. Isla (pronunciato «Ai-la») si era fatta già apprezzare nello spassoso Wedding Crashers: due single a nozze, dove

rubava regolarmente la scena a un navigato e superbo attore comico come Vince Vaughan. La seconda forza del film: la protagonista è schiava dello shopping ma non del maschio, a differenza delle protagoniste di tante rom-com, altra terrificante abbreviazione che sta per «commedia romantica». Attenzione, perché è facile confondere la Fisher con la sua quasi sosia, l’altrettanto brava e rossa Amy Adams. Sulla tempistica di un film con un tema, che in piena crisi economica esalta il lusso sfrenato, stendiamo un velo (non) firmato.

La verità è che non gli piaci abbastanza è l’esatta traduzione dall’inglese del film chick-lit romcom uscito pochi giorni fa negli Stati Uniti He’s just not that into you. Anche questo è tratto da un libro, costruito su un episodio di Sex and The City in cui la storica frase intende porre fine alle infinite speculazioni di Carrie sulle vere intenzioni di uno sfuggente corteggiatore. I critici, specie quelli maschi, sbuffano, «Ma lo sanno tutti» che se uno ha promesso di chiamarti e non lo fa, è ovvio che non ti vuole. E invece il film è ben scritto, divertente e pungente. Diverse storie di coppie s’intrecciano, e


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poesia

L’infanzia assoluta di Stevenson Q

uando Robert Louis Stevenson (Edimburgo, 1850-Upolu, Isole Samoa, 1894) annunciò ai suoi amici, la crema letteraria di Edimburgo, che si sarebbe ritirato in un cottage nelle Highlans, con la moglie, il di lei figlio, le frequenti visite dei genitori, per scrivere un romanzo di avventura imperniato sulla ricerca di un tesoro, nell’età della pirateria, alcuni lo presero per matto, altri semplicemente diradarono i rapporti, anche epistolari. Il giovane brillante scrittore dal wit francese, l’impareggiabile imitatore virtuoso di classici latini e parigini, si degradava a un genere di letteratura popolare e fanciullesca. Così, con i consigli del padre, l’ingegnere Thomas Stevenson, famoso costruttore di fari d’avamposto (cioè prominenti sulle scogliere, come registra con gran rilievo l’Enciclopedia Britannica) conoscitore quindi del mare, e, da buon scozzese, infatuato di storie e leggende marine e di pirateria, scrisse L’isola del tesoro, l’Odissea dell’età moderna. Il capolavoro assoluto per chi come Borges crede che il libro perfetto sia l’incarnazione non di un sogno, ma di tanti, infiniti sogni che miracolosamente convergono in uno, potente, luminoso e tenebroso insieme, assoluto.

Quando Harry Jammes, giovane e famoso scrittore americano, recensì il libro dell’autore scozzese, più o meno coetaneo, ne lodò la micidiale capacità narrativa e la perfezione cristallina dello stile. Concluse la ultralaudante recensione con una domanda scherzosa, ma convinta: l’unica cosa che ci lascia perplessi, scriveva, è la storia, è come si possa pensare a un giovane che parta alla ricerca di un tesoro. Letta la recensione Stevenson scrisse una lettera di sentito ringraziamento, che terminava più o meno così: «Se il signor James non ha mai sognato di partire alla ricerca di un tesoro ciò significa semplicemente che il signor Harry James non è mai stato un bambino». Il non mai bambino, quale in realtà fu il sommo scrittore americano, lo cercò subito, si incontrarono, divennero amici. Il mondo dell’infanzia, così dichiaratamente supremo e fondante per Stevenson, si configura nella sua opera all’opposto della regione di ripiego di tanta letteratura e tanta psicologia, l’orto segreto, il nascondiglio, il sogno della piccola evasione quotidiana. Nessun piantino alla Pascoli, nessun piagnucolio, nessun fanciullino, e molto, molto più anche dell’esperto e mercuriale puer di Hilmann, il capriccioso demone che plasma e muove Pinocchio e anima tutti i grandi infantili del mondo, soprattutto italiani, da Leonardo che si lancia dagli argini coi suoi complicati congegni alati a Francesco che senza battere ciglio predica agli uccelli e ammansisce il lupo, fino ai puer moderni, Fellini, Mastroianni, Gassman, Benigni. L’infanzia in Stevenson è assoluta e luminosa, il faro da cui irradia la conoscenza del mondo, superiore, ripeto, e non è difficile, alle bambinate di Pascoli e Chagall, ma anche al puer complesso e geniale di Hilmann, che va da Icaro a Marcello nella Dolce vita. È un’infanzia assoluta, un teatro tragico, come nei due poemi omerici, in questo solo elemento dell’infanzia affratellati: barbarica, nell’Iliade e in Achille, stupita, nell’Ulisse che si lascia perenne-

di Roberto Mussapi

IL MIO LETTO È UNA NAVE Come allodola ondosa Nel vento lieto sui giovani prati, Le braccia ti sanno leggera, vieni. Ci scorderemo di quaggiù, E del male e del cielo, E del mio sangue rapido alla guerra, Di passi d’ombre memori Entro rossori di mattine nuove. Dove non muove foglia più la luce, Sogni e crucci passati ad altre rive, Dov’è posata sera, Vieni ti porterò Alle colline d’oro. L’ora costante, liberi d’età, Nel suo perduto nimbo Sarà nostro lenzuolo. Robert Louis Stevenson Traduzione di Roberto Mussapi

mente incantare (non in quello che mira a Itaca e al ritorno, come non c’è infanzia ma virilità nell’Ettore dell’Iliade). Dall’Isola del tesoro alla cupa e svelante, e anticipatrice vicenda del Signor Hyde, che nemmeno le letture psicanalitiche sono riuscite a guastare (impossibile vincere il bambino che è in noi, se è poeta e atleta), alle meraviglie dei racconti e resoconti dei Mari del Sud. Dalla vicenda del Ragazzo rapito, che pare una fiaba delle Mille e una notte, ai presagi sinistri di Ballantrae, in Stevenson l’infanzia racchiude ed esprime il gioco di luce e buio che è la primordiale, elementare tatuante realtà del bambino che viene alla luce e scopre il mondo, e lo scopre come avventura. Il sogno per Stevenson non è mai una sciocchezza puerile o uno spasimo sentimentale, insomma un rifugio, ma un mondo incantato e inquietante, come lo percepiscono e intendono i poeti e i bambini, i filosofi del mondo antico e gli sciamani: un mondo diverso (pur se misteriosamente intrecciato a quello della veglia), un mondo in cui regnava un altro tempo, più lento, stregante e nello stesso tempo capace di accentuare la percezione di certe realtà, quando altre scorrevano in muta dissolvenza. Miracoli e meraviglie si alternavano a spettri e incubi, con il succedersi di bellezza e orrore che osserviamo anche nel giorno, ma in una prospettiva dilatata, ingigantita, rallentata fino all’amplificazione tremenda e assoluta di un istante.

Questo mondo trova espressione in un libro di poesie magnifico, assolutamente sottovalutato rispetto al suo valore assoluto, A Child’s garden of verses, titolo perfetto nella lingua originale, ma infelice se tradotto in italiano. Per questo, curando questo libro di versi in rima, non so se sui bambini o sull’infanzia, optai per il titolo di una poesia emblematica: Il mio letto è una nave. (Il volume, con testo originale a fronte, sta per essere ristampato da Feltrinelli e dal 9 aprile sarà in libreria, ndr). È dedicato a Cummy, la nutrice: raramente a scuola, per la salute cagionevole, Robert Louis trascorre lunghe giornate con Cummy, che inizialmente forma con la sua voce i primi libri, cantando e recitando filastrocche e poesie, poi lo inizierà alla lettura. Nasce il libro magnifico dei giochi nel giardino, degli agguati nascosto sotto il divano quando calano le ombre della sera, degli incendi immaginati vedendo le fiamme del camino, dell’approdo che ogni sera, chiudendo gli occhi, il bambino immaginava salpando per mari e porti misteriosi. Il mondo del sogno appare agli occhi del piccolo che si sta addormentando, e al risveglio il mondo appare come alla sua nascita, il primo giorno. Le frasche del giardino divengono giungle avventurose, il ruscello fiume tortuoso dove si celano coccodrilli e caimani, i piedi del letto la poppa di un vascello che sta salpando per mari lontani, il fruscio delle gonne della zia, nel silenzio serale, un ronzio misterioso e fatato, mentre dalla finestra, nella nebbia edimburghese, il piccolo genio scruta, col naso contro il vetro, il lampionaio che accende la luce nel buio, illumina la notte come aveva fatto suo padre costruendo i fari sulle scogliere, come farà lo scrittore da grande, sempre lucidamente, eroicamente bambino.


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il club di calliope NEL TUNNEL FERROVIARIO

UN POPOLO DI POETI LEGGERE EMOZIONI DI PIETRA

Quanta vita si specchia in un lampo nel finestrino nero, quando va via la voce e i destini rimangono isolati. Ma quel lume sottile, a metà cammino tra il procedere e il ritornare, come la impugna la vita, come la fa tremare nel desiderio di non doversi pronunciare. Così, sospesi nell’incolmabile confine, attendiamo uno squarcio nel vela templi, la mano sicura che ci riveli che la notte è alle spalle e ormai prossima l’ennesima salvezza.

Tiziano Broggiato

LA POESIA CIVILE E APPASSIONATA DI ALDO FORBICE in libreria

di Loretto Rafanelli n una bella prefazione a Giorno dopo giorno di Quasimodo (il Quasimodo «civile»), Carlo Bo diceva: «C’è un intervento della coscienza che nessuno vorrà trascurare e sottovalutare». Bo, parlando di coscienza, era un po’ anomalo rispetto a una critica poetica che non era solita introdurre questo termine, forse temendo di allontanarsi dall’energia creativa della parola. Ma a volte è senz’altro necessario

I

re del mondo. Grida che ritroviamo anche nel suo recente libro La grande ombra (Sciascia Editore, 48 pagine, 7,00 euro), dove egli ripropone il suo scandalo per l’indifferenza e la doppiezza di tutti coloro che non vedono le violenze che si ripetono ovunque. Forbice nella sua molteplice attività di conduttore del programma radiofonico Zapping, di saggista, di giornalista, di poeta, continua con questo impegno morale e umano. Egli ci

Versi forti sul senso della vita e nel sommo rispetto di essa. Nella “Grande ombra” l’intarsio fra l’amore per una donna e l’esigenza morale e pubblica della denuncia usare una tale parola, perché quando si incontrano gli eventi tragici di questo mondo, che incalzano e feriscono, allora dire certe cose diventa una questione di coscienza. Dinanzi a taluni eventi terribili non si può tacere. E senz’altro siamo vicini a quei poeti che non sanno tacere. Aldo Forbice è certamente uno di questi (rari) scrittori. Egli scrive versi forti, dettati dalla volontà di interrogarsi sul senso della vita e lo fa in un modo che diremmo totale, in uno slancio civile che nasce da un fortissimo senso di responsabilità e da una profonda onestà (senza compromessi ideologici), teso com’è a ricercare l’unica verità possibile: il rispetto sincero e sommo della vita umana. Una poesia quindi che grida il dolo-

dice che non ci si può nascondere e barare con se stessi e col mondo, bisogna dire dei fatti dei nostri tempi, in una interrogazione interiore che deve animare anche la poesia, a costo di travolgerla. Ancora Bo affermava che Quasimodo: «è vittima della sua voce e della sua coscienza». Così è per Aldo Forbice, il quale rimuove l’antica distinzione fra poesia intimistica e civile, costruendo un intarsio fra l’amore per una donna e l’esigenza pubblica della denuncia. Il contatto amoroso è interrotto o intervallato dalle tragedie della guerra o dei bimbi che muoiono di fame, anzi si evidenzia l’impossibilità di un canto e del dispiegarsi di un amore, quando costoro cadono nel massacro dell’indifferenza.

Le parole che non so dire sono molte sono tante sono pietre che rotolano sono sassi che pesano sono pensieri che non sanno volare ma che nel cielo vorrebbero scappare sono fuoco che infiamma sono acqua che scorre sono pioggia che rinfresca sono rocce che cadono gocce senza vita in un mare ghiacciato a volte non so piangere a volte verso fiumi di lacrime a volte non so dire ti voglio bene altre volte coglierei la luna per te a volte mi sento morire a volte non guardo in faccia nessuno a volte non so ridere a volte cado a terra e muoio dalle risate a volte spaccherei tutto quello che è intorno a me a volte abbraccerei tutto il mondo a volte non so dirti quanto ti amo a volte vorrei aprirti il mio cuore a volte sono troppo felice a volte prenderei un stella e le darei il tuo nome a volte farei di tutto per farmi notare volerei da te per dirti tutto ma a volte non so che dire

mi sento un ragno legato alla sua tela mi sento una nave senza vela mi sento un gatto che rincorre un topo un leone senza criniera una bomba che sta per scoppiare un toro che non finirà mai di combattere e poi mi sento triste come se fossi bloccato nel buio più profondo come un’aquila impagliata mi sento sereno quando ti penso libero da tutti i miei problemi quando sto con te e vorrei un giorno di pensieri leggeri una bilancia senza pesi un anno senza mesi amore senza disperazione vorrei passare per una strada senza essere giudicato e ricordare sempre quello che ho dimenticato vorrei gioia che coprisse la terra vorrei stare con un amico finché viene sera vorrei essere più grande essere indipendente essere un falco libero nel cielo a volte vorrei essere semplicemente felice

I ragazzi della II Media della Scuola “Arcobaleno” di Roma

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

è una frase illuminante, attribuita al pittore «realista» Courbet, e che ritroviamo anche qui, nell’impegnato catalogo Marsilio, nel saggio introduttivo della curatrice della mostra, Laura Gavioli, in cui il pittore del Funerale di Ornans e di Bonjour Monsieur Courbet (ovvero la quotidianità più bassa e anodina, elevata però alle dimensioni sacrali d’un glorioso quadro di storia, di mitologia celebrata della Vita) in cui l’artista annota, insofferente: «Ho percorso la tradizione come un buon nuotatore attraverserebbe un fiume. Gli accademici vi si annegano». Quasi un aforisma. La «tradizione» è qualcosa di talvolta impetuoso (lui «esce» dalla temperie romantica, ma vi si stacca) o di impacciante, comunque: flutti che bisogna superare e dominare per traghettarsi nell’incognita del «di là» (il mondo dell’avanguardia tedesca vivrà un’analoga idea del die Brucke, del ponte che origina da una riva solida e conosciuta e ci conduce là dove le basi non sono ancora costruite, ed è appunto l’incognita che esalta). Rimanere nel «fiume» della tradizione, è, per Courbet, la vera dannazione: un cimitero, quello ufficiale dell’Accademia, dei pompier, che non spengono alcun incendio, ma che imbalsamano la vita. Termine che prima abbiamo messo tra virgolette e in maiuscola, perché è il mito imprendibile del Realismo - prima che il decadentismo s’impossessi di quella mitologia, per trasformare la vita stessa in arte, in capolavoro: la vita «come» arte, inimitabile. Ma scrive ancora Courbet. «Il titolo di realista mi è stato imposto, come agli uomini del 1830 è stato imposto quello di romantici». Inutilità e rischio delle etichette: mentre gli artisti guadano i rivoli freschi delle novità, o le paludi plumbee della tradizione, non è che possano fermarsi a riflettere se siano barocchi, o romantici, o realisti: nuotano e basta. E cercano di raggiungere la riva opposta. Anzi, è soltanto a partire, probabilmente, dal neo-classicismo precettistico, che gli artisti si fanno consapevoli di «versare» dentro una precisa e vincolante etichetta storico-vivente: prima i pittori manieristi o gli scultoAntonio Bueno ri barocchi non sapevano nemmeno “Autoritratto” di collaborare a instaurare quelle ri1946 gide etichette, che avrebbero fatto la gioia cataloghizzante degli storici.

C’

Da Courbet a Manzoni l’enigma del realismo di Marco Vallora

arti

Lo invera anche Courbet: «In ogni tempo i titoli non hanno dato un’idea giusta delle cose; altrimenti le opere sarebbero superflue». Sacre parole: e una mostra come queste dimostra quante possibili «opere» ed esiti diversi possa generare un’etichetta, equivoca e feconda, come quella di realismo. Anni fa a Ferrara Fabrizio d’Amico curò una discussa e sgomentante rassegna dedicata proprio alla «realtà» nell’arte: sgomentante, perché tutto, invero, in arte può essere e ritrovarsi realtà. Persino l’astratto o, paradossalmente, il non-reale, l’immaginario, il «limbico», cui Klee ha dedicato parole emblematiche. Questa di Potenza ha l’astuzia di rifarsi a un «titolo» caro a De Chirico, che è «l’enigma»: l’enigma del vero, senza pretendere di dimostrarsi esaustiva o assertiva, proponendo risposte certe a questo annoso e irrisolto problema. E lo dimostra la longevità di questi fantasmi. Dai fiorellini benpensanti, condotti, con mano tremante alla commossa maestrina di Toma (calchiamo la mano sugli aggettivi deamicisiani), ai cavalli vivi e focosi della performance di Kounellis, fotografati da Claudio Abate; dalla micrografia alle soglie della caricatura del volto butirroso del «carattere» borghese di Dudreville, alle bianche pagnotte seriali di Manzoni e alla sacralizzata persiana vera di Tano Festa. Ovvero dal verismo più bozzettistico (senza nessun spregio nell’attributo) al «vero» macchiaiolo di Fattori e compagni, dal simbolismo di Sartorio al divisionismo di Balla, dal realismo magico di Oppi e Cagnaccio, ma anche, per un attimo, di Levi e Socrate, agli asparagi affatturati di Trombadori e agli specchi sordi di Donghi, dalla natura morta stregata di Sciltian (dedicata a Longhi) alle periferie catramose di Vespignani, dal realismo sociale e visionario di Zigaina e Ziveri (incredibilmente bello L’inondazione del Polesine di Pizzinato) alle «cose stesse» del Nouveau realisme e di Ferroni: una trafelata cavalcata davvero. Senza dimenticare il nevralgico rapporto tra arte e fotografia, e non soltanto nel Novecento.

L’enigma del vero. Percorsi del realismo in Italia. 1870-1980, Potenza, Galleria civica, fino a marzo (info 097127185)

diario culinario

Tradizione ma non solo nell’antro goloso della Sibilla di Francesco Capozza iunto finalmente ai lidi euboici di Cuma, il pio Enea si dirige verso la rocca, su cui l’alto Apollo comanda, ove sono le caverne della spaventosa Sibilla, nell’antro gigantesco: ad essa il profeta di Delo infonde la grande anima e la mente e svela il futuro». Così scriveva Virgilio nel VI libro dell’Eneide, ma noi quest’oggi vi parleremo di un’altra Sibilla, anch’essa posta in cima a una rocca, tutt’altro che spaventosa però, piuttosto assai golosa. La Sibilla è il ristorante di Simone Frittella e Andrea La Caita (già proprietario dello strapitoso, ancorché sfortunato Vesta, a pochi metri di distanza), nel pieno centro storico di Tivoli. La proprietà ci tiene a ricordare che «il ristorante nasce nel 1730, nella roccaforte

«G

medievale della Cittadella, cuore della città. Da allora a oggi, molti degli uomini che hanno fatto la storia del nostro pianeta vi hanno avuto alloggio e hanno saziato i loro appetiti. Ieri Leone XII, Federico Guglielmo III re di Prussia, il Principe Girolamo Napoleone, Gabriele D’Annunzio e Pietro Mascagni; oggi segretari di Stato e vicepresidenti degli Stati Uniti d’America, l’imperatore Hiroito del Giappone, la principessa Margaret d’Inghilterra, la cantante Yoko Ono e il primo uomo sulla luna Amstrong», come si legge tra le righe di presentazione edite per gli avventori. Non c’è da inibirsi, però, La Sibilla è un antro gioioso e goloso, oggi meta prevalentemente di gourmet che si avventurano appositamente per le stradine del centro tiburtino, ma anche di allegre e spensierate famigliole in gita domenicale fuoriporta. L’unione fa la forza, di-

ce il vecchio adagio, e questo ristorante ne è la prova lampante. Se Simone, infatti, gestisce questo locale ormai da anni (ma sotto l’occhio vigile di mamma e papà), Andrea è entrato da poco meno di un anno, da quando, cioè, ha dovuto chiudere il suo Vesta (se un Dio protettore dei golosi esiste, lo preghiamo di fare il possibile affinché quel meraviglioso locale possa presto riaprire), una delle novità più interessanti degli ultimi anni nel panorama gastronomico laziale, per colpa di cedimenti strutturali dovuti alla storicità del luogo. Oggi i due cugini dirigono assieme questa Sibilla chiamata così per onorare il tempio di Vesta che fa splendidamente capolino appena fuori il giardino - e insieme donano un paio d’ore di pura delizia ai fortunati avventori di quest’antica locanda. Dalle sapienti mani di Franco Perna, cuoco di stanza del ristorante, e di Ga-

briele Terralavoro, consulente gastronomico e già chef del Vesta, vengono preparati squisiti pani artigianali (su tutti quello coi ciccioli, da primo premio oltre che da attentato alla dieta) e piatti sia squisitamente tradizionali sia moderni e innovativi. Tra i primi da non perdere l’abbacchio dei Monti Sibillini alla scottadito con cicoria di campo strascinata e l’insuperabile antipasto misto della tradizione (ove ricordiamo la polenta alla brace con le spuntature, il filetto di baccalà fritto, il carciofo alla giudìa, oltre ai salumi locali). Di seconda scuola, invece, la parmigiana di cardi gobbi e i ravioli di crostacei. Più che un oracolo, quindi, aspettatevi un momento di puro piacere del palato.

Ristorante La Sibilla, Via della Sibilla 50, Tivoli (Roma), Tel. (+39)0774.33.52.81 - Fax: (+39) 0774.33.05.61


MobyDICK

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architettura

Elogio (e importanza) degli schizzi nell’era digitale di Marzia Marandola

li architetti contemporanei solitamente elaborano e illustrano i propri progetti attraverso sofisticati disegni digitali e rendering, ovvero rappresentazioni a colori in tre dimensioni che prefigurano le opere come fossero già costruite, con luci ombre, persone e automobili che sembrano già vivere e percorrere lo spazio ideato. Infatti la grafica digitale ha il pregio di rendere facilmente comprensibili, anche ai non addetti ai lavori, progetti architettonici complessi, articolati in volumi intersecati, spesso generati da geometrie non elementari. Se la grafica standardizzata composta di rappresentazioni bidimensionali di pianta, prospetto e sezione, richiede la conoscenza delle convenzioni del disegno tecnico, la visualizzazione tridimensionale digitale semplifica la lettura del progetto, anche se talvolta banalizza l’immagine architettonica. Comunque sia, che si progetti disegnando a mano o con il computer in 3D, quel che resta inalterato dal passato fino a oggi per i progettisti è il ricorso agli schizzi grafici. Questo è il primo segno grafico, rapido e sintetico, tracciato di getto per fissare un’idea, per visualizzare immediatamente le forme e le tecniche costruttive immaginate. L’importanza degli schizzi oggi è ancora maggiore poiché la diffusione del digitale limita largamente la redazione manuale di elaborati dei

G

moda

progettisti, dei quali rischiamo di non conservare o di non conoscere alcun disegno originale tracciato direttamente sulla carta. Inoltre se in passato lo studio del carteggio tra committente e progettista ha permesso agli storici dell’architettura di ricostruire le vicende costruttive di opere risalenti anche a cinquecento anni fa, oggi l’uso della posta

elettronica rischia di far perdere ogni traccia del contesto progettuale di un’opera architettonica. Gli schizzi divengono quindi una rara e preziosa testimonianza dell’elaborazione di un’idea progettuale, ed è per questo che l’Ordine degli Architetti di Roma e provincia ha promosso la costituzione di una galleria per la raccolta e la conservazione di disegni e

schizzi di progettisti romani. Questo progetto è stato presentato martedì 24 febbraio alla Casa dell’Architettura di Roma: nell’occasione alcuni prestigiosi progettisti hanno donato i loro schizzi per incoraggiare questa importante iniziativa. Ospiti alcuni tra i più celebri architetti della capitale: Franco Purini, Paolo Portoghesi, Alessandro Anselmi, Carmen Andriani, Bruno Darò, Maria Claudia Clemente e Francesco Isidori, che in questa occasione hanno donato alcuni loro disegni e rilasciato interviste raccolte nei tre dvd presentati nella stessa occasione. L’iniziativa è volta a conservare memoria del processo progettuale che partendo da una prima idea conduce alla costruzione di un’opera architettonica. Essa costituisce il primo tassello per l’allestimento di una raccolta permanente dove conservare «il segno dell’architetto», che per l’architetto Andriani è «uno strumento straordinario di concretizzare un concetto formale, di fissare sulla carta in modo fulmineo un’invenzione spaziale, il segno per l’architetto è la vista della sua mente». Allo stesso intendimento è ispirata la mostra (aperta fino al 19 marzo) all’Accademia Nazionale di San Luca a Roma, curata da Francesco Moschini, nella quale sono esposti i bellissimi disegni di ottanta accademici tra scultori, pittori e architetti, italiani e stranieri.

Ecco cosa resterà di quegli anni Ottanta… di Roselina Salemi curioso che la rivoluzionaria presidenza dell’«abbronzato» Barack Obama cominci, almeno nella moda, con un colorato rimpianto dell’edonismo reaganiano, i dolci, spensierati e un po’ incoscienti anni Ottanta, gli anni delle tangenti, del consumismo, dei tostapane placcati oro come regalo di Natale e del Versace più sfacciato che trionfava ovunque creando l’olimpo delle top model. Curioso che le sfilate di New York, molto sottotono, senza resse e spintoni, senza ritardi e facce hollywoodiane in prima fila, nonostante l’obbligatoria sobrietà, sognino freudianamente un mondo festaiolo. È la nostalgia canaglia per gli eccessi e gli slanci creativi, i Picasso comprati a stock, l’illusione del «lusso di massa», vaporizzato dalla crisi. Marc Jacobs non ci ha badato, ma i suoi gialli, rosa, turchese, i segni grafici, le scarpe borchiate fanno pensare a Madonna com’era venticinque anni fa, a Billy Idol, a una stagione di allegra prosperità che sembrava infinita. Con Miss Sixty ritornano le spalle imbottite che erano state buttate via senza rimpianti, la vita stretta, i colori elettrici, le citazioni ironiche di Richard Avedon. Con Lacoste, ecco il cappuccio della principes-

È

sa Leila di Star Wars e anche lì siamo in zona Ottanta. Donna Karan fa finta di niente, pensa alla sua elegante signora in grigio e blu con accessori di coccodrillo (ma quanti se li potranno permettere?) e Diane von Furstenberg cerca di rallegrare il Grande Freddo della crisi, che ci accompagnerà purtroppo sino all’autunno inverno 2009/10, con un mix di colbacchi, tartan scozzesi, disegni rubati agli aborigeni o ai tappeti della Mongolia. E mentre il Wall Street Journal ammette francamente che passeggiare nella celebre Madison Avenue, tempio dello shopping per le ragazze di Sex and The City e non solo «dà brividi quasi cimiteriali», mentre si trova posto come niente fosse in qualsiasi ristorante esclusivo, l’unico evento di rilievo diventa l’apertura del nuovo negozio di vetro di

Giorgio Armani sulla Fifth Avenue (2800 metri quadrati, quattro piani), con sfarfallio di star e l’applauso del sindaco. Anche perché accompagnato da una generosa donazione (un milione di dollari) al Fondo delle Scuole pubbliche di New York del quale Caroline Kennedy è vicepresidente. Esiste il fondato timore che le più blasonate passerelle, come quella di Yoshji Yamamoto, con le sue linee maschili, le sue uniformi rivisitate, come gli appuntamenti più mondani, tipo quello al Waldorf Astoria con le ventitre creazioni di Victoria Beckham (abitini sexy dotati di total zip dietro, dal collo all’orlo) non riescano a eliminare dal fashion system l’insistente aura di superfluo che svuota le boutique. A chi venderemo, si chiedono i buyers? Per cominciare, alla nuova inquilina della Casa Bianca. Dopo le recensioni internazionali, tutte negative, del completo giallo, Michelle Obama, la first lady nera passata alla storia con il Vestito Sbagliato, studia una rapida ristrutturazione del guardaroba. La sua assistente, Desirée Rogers, coccolatissima alle sfilate, prende appunti. Tutti la adorano già.


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fantascienza

MobyDICK

ai confini della realtà

no spettro si aggira per l’Europa, anzi per l’intero orbe terraqueo. Non è il marxismo, come voleva intendere il suo teorico, ma qualcosa che gli assomiglia: è il Vampiro. Una singolare moda che ha avuto una nuova origine almeno cinque o sei anni fa oltre Atlantico, ma che sta raggiungendo, con un moto transnazionale, adesso il suo apice e di cui non si accenna a vedere ancora la conclusione. Un trend, come si usa dire, generalizzato. Un fenomeno curioso che sta contagiando anche il costume. C’è dunque da chiedersi per quale motivo una delle figure del racconto d’orrore classico come il vampiro furoreggi tanto nei mass media dell’Occidente postmoderno, inquieto e sull’orlo di una crisi economica epocale. E perché spopoli soprattutto fra le giovani generazioni con opere (romanzi, fumetti, film e serial tv) dovute in genere ad autori a loro volta giovani. Perché il Vampiro e non, ad esempio, il Fantasma, il Licantropo, il Mostro-tipo-Frankenstein, la Mummia? Anche questi ultimi hanno avuto spettacolari espressioni cinematografiche, ma non il successo generalizzato e a cascata come gli eredi di Dracula, perché?

U

Ecco, Dracula. Il personaggio non venne «inventato» da Bram Stoker nel 1897, ma ha un retaggio antichissimo che venne codificato - ma guarda un po’- durante il Settecento illuminista: una particolare specie di revenant affamato e vendicativo, a differenza di altri resurgenti. Lo scrittore irlandese lo rese popolare e dopo di lui i film muti e in bianco-nero dell’espressionismo tedesco come Norferatu di Murnau (1922). Il personaggio era totalmente negativo: da allora è stato dissezionato non tanto dai critici letterari e cinematografici, quanto dagli psicoanalisti, dai sociologi, addirittura dai politici (di volta in volta è stato visto come metafora del capitalismo e, all’opposto, del comunismo). Ora, ma non da adesso, almeno dagli anni Settanta, ha subito pian piano un cambiamento. Iniziarono due scrittrici: Anne Rice con la saga di Lestat con Intervista col vampiro (1976) a suo tempo edito da Bompiani, poi Chelsea QuinnYarbro con la serie di romanzi scritti a partire dal 1978 sul conte di Saint-Germain (tradotti da Gargoyle Books), la cui immortalità è spiegata proprio con l’essere egli un «vampiro gentiluomo»: due personaggi introversi, inquieti e dubbiosi. Poi, nel mondo dei telefilm impazzò fra il 2000 e il 2005 la serie di Buffy, l’ammazzavampiri di Joss Whedom, apparsa anche sui piccoli schermi italiani, un prodotto pensato per i teenager che ha avuto una versione a fumetti e che si può considerare l’antesignana dei vampiri adolescenti che oggi vanno per la maggiore, e che hanno esordito nella pratica con Twilight (2004) di Stephanie Meyer, cui hanno fatto seguito altri tre romanzi (New Moon, Eclipse, Breaking Dawn, tutti editi come al solito, chissà perché, con i titoli in inglese e non tradotti - facilmente e con effetto non meno suggestivo - da Fazi), da cui è stato or ora tratto un film, ovviamente di successo.Altri adolescenti in un romanzo dello svedese J.A. Lindquist, anch’esso diventato subito film: Lasciami entrare (Marsilio). Ma volendo solo enumerare, senza parlare di qualità e originalità, recenti titoli ad hoc che hanno invaso le nostre librerie, ecco la serie del Diario del vampiro di Lisa Jane Smith (Newton Compton), Il vampiro delle nebbie di Christie Golden

Vampiri postmoderni per piccoli brividi di Gianfranco de Turris (Armenia), Il vampiro ballerino di Pat Bad (Piemme), La rinascita del vampiro di Nancy Kilpatrick (Newton Compton), la serie di Anita Blake cacciatrice di vampiri di Laurell K. Hamilton (Nord), la serie della «vampira gentildonna» Geneviève Dieudonné di Jack Yeovil, pseudonimo di Kim Newman (Hobby & Work), la serie di Demonata di Darren Shan (Mondadori). Ma ci sono anche gli italiani, fra cui spicca per originalità e scrittura Gianfranco Manfredi, che si occupa da lunga data di questi temi, con Ho freddo (Gargoyle Books). Il Vampiro di oggi non è però quello di un secolo fa: non terrore delle belle donne, non mostro assetato di sangue, non fisicamente orripilante, non amante del buio

mortale ma sotto condizione: per vivere deve sottrarre l’energia vitale agli altri. Non sempre e non solo il sangue. Anzi, anzi: il nostro vampiro adolescente e snervato è pure politicamente corretto: invece di sangue umano in alcuni casi si nutre di sangue animale o, addirittura, di sangue sintetico! Un po’ ridicolo, ma è proprio così...

Facile che i ragazzi s’identifichino in lui, cioè nelle nuove raffigurazioni che ci presentano i romanzi e i film che vanno per la maggiore: in fondo in fondo, il Vampiro di oggi (non solo maschio, ma anche femmina) è una replica moderna, adatta ai nostri tempi con tutti i suoi nuovi tic e nuovi tabù, del cliché romantico

Furoreggiano in romanzi, fumetti, film e serial tv. Ma l’attuale “revenant” non genera terrore, non abita cripte tenebrose. Anzi, è snervato e politicamente corretto. Sembra il nuovo eroe romantico che incarna i conflitti dei giovani d’oggi. Altro che Dracula! Un cambiamento iniziato negli anni Settanta… e delle bare, non abitante di castelli diroccati e cripte temebrose, ma personaggio più complesso, sempre inquietante ma attraente allo stesso tempo. Insomma, un po’il simbolo del nostro mondo ambiguo: da respingere e da accettare, spesso anche simbolo di colui che si pone contro una società omologata e massificante. Lui contro il volgo, in nome della propria sopravvivenza. Infatti, il Vampiro è im-

che ha sempre fatto effetto e continua a fare effetto, per smagata e cinica voglia essere o apparire la gioventù di oggi. Insomma, il «bel tenebroso» o la belle dame sans merci di una volta: solitario, affascinante, perseguitato, non cattivo di per sé ma magari costretto a esserlo, afflitto dalla propria immortalità che quasi subisce, quasi costretto a sopportarla a mo’ di fardello, un po’ maledetto ma in-

somma... Come non stare dalla sua parte, come non amarlo, come non farne una icona pop soprattutto se giovane e bello? Come non cadere nelle sue braccia, soprattutto se ha ritrosia a mordere? Egli è un «diverso» rispetto a un’umanità mediocre, burocratica, consumista, condizionata da mille cose (anche lui però lo è, ma non ci si fa caso) cui le meraviglie della scienza e della tecnica non hanno portato in fondo la felicità, proprio come ai ragazzi piace atteggiarsi. Con lui è rinato l’Eroe solitario ed emarginato dalla gente ottusa, solo contro tutti, che si batte in fondo per la vita. Magari è anche «cattivo» secondo i parametri attuali, e proprio per questo affascina ancora di più in un mondo che ha fatto del buonismo lacrimoso ma fasullo un dovere, anzi un obbligo. Il perché di questa trasformazione, lo spiega in parte lo psichiatra Vittorino Andreoli quando, lasciate da parte alcune interpretazioni freudiane francamente superate, afferma giustamente che «finito il freudismo, abbiamo vampiri con dentini da latte, giusti per questa generazione di ragazzi senza una forte identità di genere: giovani maschi ben vestiti, pettinati, che provano un richiamo sessuale molto debole». Infatti, in questi vampiri postmoderni l’attività di succhiare il sangue, che è in fondo un equivalente dell’atto sessuale (penetrazione, suzione, nutrimento) non avviene quasi mai o ha, come ricordato, alternitive grottesche. Sicché, in realtà, questi nuovi romanzi sono semplicemente una versione molto, ma molto edulcorata del classico romanzo horror («Moccia con un po’di orrore» è stata definnita la Meyer), giunto, secondo i canoni classici, sino alle rivistazioni di Stephen King: non fanno molta paura, al massimo inquietano, adatti a una generazione complessata e in cerca di una precisa identità, condizionata dai nuovi conformismi anche se non vuole ammetterlo, vittimista perché ha la sensazione che il mondo ce l’abbia con lei e a cui piace restare in disparte, riscoprendo, come detto, l’icona dell’eroe romantico maledetto e solitario. Come ha scritto il critico americano Leslie Klinger, che ha appena curato una nuova edizione del romanzo di Stoker, il vampiro postmoderno «non dà i brividi, quelli che il vecchio Dracula continua ancora oggi a regalare».


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