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SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

Il film di Stephen Daldry

LA COLPA DI HANNA di Anselma Dell’Olio e invece di chiamarsi The Reader, il film di Stephen Daldry (Le ore, 2002) se educato le porta un bouquet di fiori per ringraziarla. Donna sbrigativa priva di si chiamasse La banalità del male e le sue conseguenze, forse sarebmetalinguaggio e col passo pesante da popolana, Hanna lo manda a prendeTratto re due secchi di carbone in cantina. Michael ritorna tutto sporco come be stato più chiaro. La storia, adattata da David Hare dal romandal best seller se ci si fosse rotolato dentro. Hanna dice che non può tornare a cazo best-seller di Bernard Schlink, mette molte emozioni di Bernard Schlink, sa in quelle condizioni, gli ordina di spogliarsi e lo infila nella contraddittorie in campo, nel tentativo di comprendere l’invasca da bagno. È il primo dei lavacri rituali, amorevolcomprensibile: come convivere - e vivere - con la consaè la storia di un amore mente ripresi, con cui inizia ogni loro incontro; è talpevolezza della partecipazione di persone amate tra un adolescente e un’ex guardia mente insistita la liturgia che s’insinua il duballa Soluzione Finale di Hitler. Romanzo e film di Auschwitz. Una riflessione che farà discutere bio che sia una metafora del tentativo di sbianraccontano una liaison pericolosa tra un liceale care sporcizie indicibili e indelebili. In ogni caso lei gli borghese quindicenne e una tranviera di trentasei ansulla banalità del male ma anche dà una strigliata da schwester che sfiora il sadismo. Mini, nella Repubblica Federale Tedesca degli anni Cinquansulle responsabilità della chael ha un’erezione, lei lo avvolge in un’enorme telo da bagno ta. Michael Berg (l’eccessivamente lodato David Kross) si sente nazione culla della e la loro storia di sesso e lettura si avvia. male per strada e viene soccorso da Hanna Schmitz (Kate Winslet) appena scesa dal suo tram, che lo porta a riprendersi nel suo appartamenKultur continua a pagina 2 tino proletario. Il ragazzo, dopo la guarigione dalla febbre scarlatta, da borghe-

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Istituzioni di Gennaro Malgieri Tom Jones l’inossidabile di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Govoni, immaginifico oltre il tempo di Francesco Napoli

L’avventura di Ungern Khan di Mario Bernardi Guardi Arendt e Heidegger incontro fatale di Gabriella Mecucci

La rivoluzione di Carlo Cardazzo di Marco Vallora


la colpa di

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segue dalla prima

hanna

Per volontà di lei, presto si rovescia la sequenza: «Prima leggi ad alta voce, poi facciamo l’amore». Michael si offre di prestarle i libri, che sono i classici che sta studiando a scuola (Omero, Cechov, Tolstoj) ma lei ogni volta respinge l’offerta: «Preferisco sentire la tua voce». Quando la donna, che gli vuol bene con la secca ruvidezza che le è naturale, nota che Michael è combattuto tra il forte legame libidinoso e affettivo con lei e il desiderio di divertirsi con i suoi coetanei, ha la delicatezza di sparire all’improvviso senza lasciare tracce. Anni dopo, mentre Michael studia legge all’università, il suo professore (Bruno Ganz) porta il suo piccolo seminario («Siamo pochi ma buoni», celia il primo giorno) al processo per crimini di guerra a un gruppo di ex guardie del settore femminile di Auschwitz. Il giovane rivede per la prima volta Hanna, che è nel gruppo delle sei donne sotto processo per aver selezionato le prigioniere da mandare periodicamente nelle camere a gas (Hanna aveva impegnato alcune di loro come lettrici) e per aver lasciato bruciare vive trecento detenute in una chiesa incendiata dalle bombe, pur di non lasciarle fuggire e «creare il caos», come afferma con lo sconcerto della corte. Il trauma di Michael nell’apprendere che la donna, il suo primo oggetto del desiderio e il suo primo amore, aveva partecipato all’ordinaria follia nazista, e il suo sforzo per sistemare psicologicamente dentro di sé sentimenti in guerra tra loro, sono il vero soggetto del racconto, che Schlink afferma essere «in parte autobiografico». Forse la sua affermazione ha un senso anche letterale, ma è più probabile che si riferisca alle esperienze della sua generazione, nata nel dopoguerra, e al suo rapporto con quella precedente, genitori inclusi.

che accetti nobilmente l’ergastolo (mentre le coimputate se la cavano con quattro anni) perché le colpe sono tali che per espiarle rinuncia a un triste distinguo delle responsabilità. Ci chiedono di credere che una donna del popolo tema di più di essere bollata come ignorante piuttosto che come serial killer in capo. E che Michael sia dilaniato se rivelare il suo segreto al tribunale, procurandole così una pena molto minore ma tanta insopportabile umiliazione. Siamo invitati a condividere la perdurante tenerezza di Michael per Hanna: il suo amore così poco sentimentale (lo chiama sempre «ragazzo»), la sua generosa iniziazione dell’adolescente agli splendori di una sessualità sana, senza complessi, esteticamente inappuntabile, e virtù suprema, la sua passione per la buona letteratura. Più che una storia sulla colpa dei Padri (e delle Madri navi-scuola, in questo caso) s’indaga l’irrisolvibile conflitto dei Figli, che devono convivere con il silenzio-assenso, come minimo, e al massimo con le complicità dirette delle persone a loro più care. Libro e film hanno sollevato molte comprensibili polemiche. La trama equivoca, l’eleganza formale del film, le cremose grazie di Kate Winslet, la sua bravura nel rendere adorabile una che lavorava nei campi della morte, danno fastidio a molti. Il film ha avuto cinque nomination all’Oscar: regia, sceneggiatura non originale, attrice protagonista, fotografia e film. Winslet ha avuto molte lodi e qualche critica. Bisogna andarci piano con le critiche, perché solo uno scherzo del destino (una gravidanza) ha impedito che il ruolo fosse interpretato da Nicole Kidman. Nella classifica per miglior attrice mettiamo Kate subito dopo Melissa Leo (Frozen River, non ancora uscito in Italia e da non perdere), un po’ prima di Anne Hathaway (Rachel sta per sposarsi) e molto prima di Meryl Streep (Il dubbio) e di Angelina Jolie (Changeling).

La scoperta dell’analfabetismo di Hanna, per il quale lei «soffre» a tal punto che accetta di essere incriminata come capo direttamente responsabile degli efferati ordini di morte, assume i contorni del MacGuffin (termine hitchcockiano per l’espediente narrativo che rende dinamica la trama). Perché la spiegazione che Hanna, pur di non ammettere il suo analfabetismo, accetta la condanna all’ergastolo come mandante, fa acqua da tutte le parti. All’epoca la ragazza aveva appena vent’anni. Era diventata guardia nei campi nazisti perché la promozione nel lavoro di fabbrica l’avrebbe costretta a rivelare la sua incultura. (Alibi non proprio straziante.) Ma anche senza la prova di scrittura, che sarebbe servita per appurare se gli ordini criminali erano di suo pugno, il solo fatto che le altre guardie erano sensibilmente più anziane di lei avrebbe dovuto far venire dubbi alla corte. Invece nessuno ci fa caso, e noi dovremmo mutuare il suo atto di autoaccusa in compassione per il suo dilemma? O cosa? Hanna si mostra stupita all’idea che avrebbe potuto ribellarsi agli ordini (Lei che avrebbe fatto? chiede al giudice); dunque non è concepibile

Il film si segue bene, senza stanchezze. Ralph Fiennes ha il ruolo ingrato di Michael da adulto: gelido, anaffettivo, marchiato a vita dall’ossimoro del suo affetto profondo per una criminale di guerra. Dopo la proiezione, uno spettatore dissacrante ha detto: «È inconcepibile che un maschio battezzato sessualmente da Kate Winslet non abbia un largo sorriso stampato in faccia fino alla fine dei suoi giorni»; sentimento facilmente condivisibile. Fiennes non è molto animato, ed è di moda bacchettarlo come pessimo; ma forse è ingiusto, date le esigenze del personaggio scritto, che sono quelle di un alienato perenne. La critica più raffinata e percettiva dell’elaborato centrale è della straordinaria scrittrice Cynthia Ozick, nella sua recensione del romanzo apparso sulla rivista Commentary: «È un prodotto, consapevole o meno, del desiderio di sviare l’attenzione dalla colpevolezza della popolazione piuttosto colta di una nazione rinomata per la sua Kultur». Per fortuna il doppiaggio italiano è impeccabile. Se accettate i rebus senza soluzione, e l’esperienza vicaria di lacerazioni insanabili, è un film da vedere, anche per le discussioni che provocherà.

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

THE READER - A VOCE ALTA GENERE DRAMMATICO DURATA 124 MINUTI PRODUZIONE USA, GERMANIA 2008 DISTRIBUZIONE 01 DISTRIBUTION REGIA STEPHEN DALDRY INTERPRETI KATE WINSLET, RALPH FIENNES, DAVID KROSS, LENA OLIN, BRUNO GANZ

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C Via di Santa Cornelia, 9 • 00060 Formello (Roma) Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938

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parola chiave

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ISTITUZIONI e ne parla molto. Da decenni. Perlopiù a sproposito. Le istituzioni politiche sono al centro di un’orgia di parole e di suggestioni come poche altre nel nostro tempo. Sembra che a esse ci si appassioni, ma non è vero. La discussione della quale sono al centro è il pretesto per parlare d’altro. Intanto deperiscono. Insieme con il sistema che dovrebbero governare. L’istituzionalismo, negli scritti di Santi Romano, per esempio, è stata una grande dottrina. Nella pratica dei governi europei ottocenteschi una guida straordinaria dalla quale hanno tratto linfa le amministrazioni pubbliche più avanzate e coese come quelle francese e austriaca. Oggi semplicemente è scomparsa dal nostro vocabolario. Le istituzioni sono l’espediente teorico per non decidere, a differenza di quanto immaginava Carl Schmitt o si illudeva che potesse accadere Gianfranco Miglio. Così la politica senz’anima tiene in piedi un dibattito sulle riforme delle istituzioni che non decolla. Importante è riferirsi a un tale astratto concetto soprattutto quando nulla lascia intendere che esso possa tramutarsi in qualcosa di concreto. E le istituzioni deperiscono. Seguite dalla società che non trova difesa agli elementi che la costituiscono in nessun soggetto abilitato a garantirne la vitalità, l’espansione in un contesto di libertà.

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Le istituzioni a cui ci si riferisce qui sono essenzialmente quelle costituzionali tipiche di uno Stato di diritto. Un tempo vivevano «naturalmente» nell’ambito di una cittadinanza consapevole, non v’era neppure bisogno di richiamarsi a esse per legittimare atti che erano coerenti la loro essenza. Si sapeva e veniva pacificamente accettato che il potere legislativo e quello esecutivo e quello giudiziario avevano ambiti di competenza e d’azione che la legge fondamentale impediva di travalicare. L’invasione dell’uno nell’altro non era minimamente immaginabile. La rottura è avvenuta quando la politica si è infiacchita, ha mostrato tutta la sua debolezza palesandosi inadeguata a reggere l’urto della modernità. È allora che legislativo ed esecutivo hanno preso a confliggere e nel conflitto s’è inserita, come supplente della funzione rappresentativa, la magistratura che ha riempito i vuoti che le altre due sfere avevano prodotto. Il quadro, con il passare del tempo, ha provocato il deterioramento dello Stato sicché le sue strutture oggi appaiono oggettivamente anarchiche. Nel suo ambito hanno luogo convulsioni e avvitamenti di fronte ai quali perfino la Corte costituzionale è costretta a emettere sentenze interpretative-manipolative che quasi mai accontentano le parti in causa. La crisi di legittimità del potere ha toccato livelli che fino a qualche tempo fa era difficile immaginare. La società anarchica si nutre della «guerra» tra le istituzioni le quali mostrano la loro crisi quando

Sono al centro di un’orgia di parole ma in realtà deperiscono insieme al sistema che dovrebbero governare. Non più dominate dalla legge astratta ma da personalismi giuridici, si sono frantumate in una società anarchica che le vuole in guerra

La politica senz’anima di Gennaro Malgieri

Se la magistratura, deputata ad applicare le leggi, fa sapere preventivamente che esse non sono condivise o le reputa addirittura sbagliate, si capisce perché la distruzione del principio di legalità repubblicana comporti la fine della legittimità stessa del potere non sono più dominate dalla legge astratta, ma dal personalismo di coloro che incarnano l’esecutivo al punto di arrogarsi, come è avvenuto frequentemente nel Novecento, il potere di emanare norme giuridiche. Non diversamente, se la magistratura, deputata ad applicare le leggi quali che esse siano, fa sapere preventivamente che esse non sono condivise o le re-

puta addirittura sbagliate, si capisce come e in qual modo la distruzione del principio di legalità repubblicana comporti la fine della legittimità stessa del potere. Che nel caso italiano è un potere fondato sullo Stato legislativo, secondo la definizione che ne diede Carl Schmitt nel 1932 nel saggio Legalitat und Legitimitat: «Uno Stato legislativo è un sistema statale

dominato da norme, di contenuto misurabile e determinabile, impersonali e perciò generali, prestabilite e perciò pensate per durare: un sistema in cui legge e applicazione della legge, legislatore e organi esecutivi sono separati fra loro. In esso “governano le leggi”, non uomini, autorità o magistrature; più esattamente ancora, le leggi non governano, esse si limitano ad avere il valore di norme. Non vi è più dominio e potere bruto; chi esercita il potere e il dominio agisce “sulla base di una legge” oppure “in nome della legge”. Egli non fa altro che applicare in modo competente una norma già vigente. La legge è prodotta da una istanza legislativa, la quale però non governa, né rende esecutive o applica le sue leggi, ma si limita soltanto a produrre le norme vigenti, in nome delle quali poi organi esecutivi soggetti alla legge possono esercitare il potere statale. La realizzazione organizzativa dello Stato legislativo conduce sempre alla separazione fra legge e applicazione della legge, legislativo ed esecutivo». È questo un «principio costruttivo di fondo» su cui si basa il limite della personalizzazione del potere e, dunque, della confusione tra chi è abilitato a esercitarlo. Il potere, insomma, è la norma che trova nella stessa il soggetto legittimato a esercitarlo. Oggi chi può dire che accade la stessa cosa in Italia, ma potremmo riferirci anche al resto dell’Occidente dominato da centri di potere personali che non promanano da nessuna norma e decidono senza passare al vaglio di nessun soggetto a cui si applicano le decisioni stesse?

Ecco la frantumazione e la irriconoscibilità delle istituzioni. E perciò l’insorgenza e la dilatazione della società anarchica priva di un centro riconoscibile di potere. La conseguenza è la distruzione dell’ordine comunitario fondato su valori inalienabili che vengono costantemente calpestati in nome di una democrazia distorta e non più sostanziale poiché rappresentata in un’astratta volontà generale e non in atti di concreta partecipazione popolare che dovrebbero essere gli elementi costitutivi di un corale sentimento di appartenenza e, conseguentemente, fonti di decisioni normative sottratte all’arbitrio di chi usa confondere i momenti del dispiegarsi della legalità poiché ritiene di poter negare in radice il principio della legittimità dello Stato legislativo. Le istituzioni muoiono quando non sanno più rigenerarsi. Sono come mostri che divorano se stessi. E in questa barbarie è racchiuso tutto il dramma che viviamo in una comunità senza Stato. Non so, francamente, quanti si rendono conto che la crisi sta producendo deserti politici, ma anche civili e morali. L’uso strumentale che si fa del tema delle riforme, mi induce a ritenere che la consapevolezza ancora non opera. E forse è già tardi.


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cd

i scodella 24 Hours, canzoniere da meraviglia, ed è come se i quarant’anni e più da It’s Not Unusual, Thunderball, What’s New Pussycat e Delilah non fossero mai volati via. La voce? Tale e quale. Godetevela, mentre flirta con un rhythm & blues dalle nervature beat (I’m Alive), suona molto lounge, stile Burt Bacharach (If He Should Ever Leave You) e profuma di bossanova (In Style And Rhythm). Testosterone puro. Alla faccia dei 69 anni che compirà a giugno. D’altronde, per i conterranei gallesi, lui è (e sempre rimarrà) «Jones the Voice». Vale a dire l’infaticabile, inesauribile Tom Jones che di recente s’è messo a cantare come un busker, accompagnato da un chitarrista acustico, davanti alla Royal Festival Hall di Londra. Ripreso dalle telecamere della Bbc, ha snocciolato un po’ di sano rock’n’roll (fra cui Great Balls Of Fire di Jerry Lee Lewis), poi s’è fatto largo fra la gente con un secchiello per le offerte e ha raccolto 460 sterline prontamente devolute alla Cancer Research. Tom dal cuore d’oro. Che se non ci fosse (o non avesse mai inciso quei prodigi di Sex Bomb e Kiss), addio a Mark Ronson, Duffy, Ami Winehouse e Joss Stone. Bravi, non c’è che dire. Ma vuoi mettere il carisma del loro padre ispiratore? Che salta fuori, infuocato più che mai, da 24 Hours. Gran disco. Fra i suoi più belli in assoluto. Il primo, oltretutto, a promuoverlo autore di quasi tutti i pezzi. L’idea è nata in un nightclub di Dublino. Tom Jones sta chiacchierando con l’amico Bono degli U2: «A un certo punto ha cominciato a chiedermi della mia vita, degli inizi di carriera. A farmi ricordare le speranze e le aspirazioni di quegli anni». Tom ha metabolizzato il tutto, ha messo a fuoco i temi che più gli stanno a cuore (famiglia, vita, morte, potere della memoria) e li ha spalmati in

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in libreria

musica

Tom Jones l’inossidabile di Stefano Bianchi

13 canzoni «che non appartengono a un album di vecchi ricordi. Al contrario, volevo far capire quanto io sia radicato nel presente, in carne e ossa, più che mai attivo». E più che mai ispirato. Lo dimostrano la soul music di We Got Love e Give A Little Love; The Road, appassionata ballad dedicata alla moglie Linda; Seasons, tempra da spiritual e parole giuste («C’è una ragione per il passare del tempo. Queste sono le stagioni della mia vita»); la vena blues di Seen That Face; il coinvolgente pathos di 24 Hours, che derapa a sorpresa nell’adrenalina funky; l’energia contagiosa di Feel Like Music, che ricorda il miglior James Brown. E Bono? Che fine ha fatto dopo la conversazione dublinese? Ha chiamato il chitarrista The Edge, hanno composto il rhythm & blues muscolare di Sugar Daddy e l’hanno regalato all’inossidabile Tom. Perché se lo merita, davvero. Tanto più, aggiungo, se nel finale del disco rivisita magistralmente The Hitter di Bruce Springsteen, pescandola dall’album Devil & Dust. E quella storia di un pugile arrivato all’ultimo, fatidico, incontro, corona il più bel match della sua carriera. Tom Jones, 24 Hours, Parlophone/ S-Curve/Emi, 20,60 euro

mondo

riviste

ALLE RADICI DELLA POPULAR MUSIC

I SIMPLE MINDS QUATTRO ANNI DOPO

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a popular music ha il vezzo di essere la più consumistica delle gamme sonore, e la meno approfondita. Esperti, critici e appassionati, la descrivono spesso in base a moduli comunicativi abusati e frammentari, ignorandone sistematicamente i complessi processi che ne hanno sviluppato il mood. Rispolverato alla luce di una rigorosa teoria musicale, il pop contemporaneo viene indagato

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quattro anni dall’uscita di Black & White, sembra tutto pronto per il nuovo lavoro firmato Simple Minds. Già concordata la line-up ufficiale, e concluse le registrazioni in studio, la band di Jim Kerr presenterà probabilmente Graffiti Soul entro maggio di quest’anno. «Un album di rock’ n’ roll vibrante che lascerà il segno», fa sapere il frontman del gruppo che non ha voluto aggiungere nessun altro dettaglio. Di certo un la-

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L’originale viaggio di Richard Middleton nella più consumistica delle gamme sonore

Dopo “Black & White”, annunciato per maggio un nuovo album che lascerà il segno: “Graffiti Soul”

Dopo il successo di “Five for fun”, il trombettista parla del suo percorso artistico su “jazzitalia.net”

con acume da Richard Middleton nel suo Studiare la popular music (Feltrinelli, 416 pagine, 14,00 euro). Dal folk alla music hall, dal blues al punk passando per il rock and roll, l’autore ricompone gli stilemi tipici della cultura musicale di massa che ha trovato una variegata fioritura lungo tutto il Novecento. Contro lo snobismo critico, e a favore di un serio metodo d’indagine, Middleton fa il punto su una speciale teoria culturale della musica, che trova nel pop un unico terminale di stili e tendenze immediatamente riconoscibili dall’orecchio, ma non ancora del tutto decodificati a livello musicologico. Un viaggio originale nella cultura di massa, praticata da tutti ma studiata da nessuno.

voro itinerante, che ha visto il gruppo scozzese avvalersi di set italiani come Roma e la Sicilia, ma anche Antwerp e Glasgow. A ventitré anni dall’hit Don’t You (Forget About Me), brano scritto da Keith Forsey per la colonna sonora del film Breakfast Club, pare dunque che i Simply Red vogliano proseguire sulla strada ritrovata di Black & White, dove al sound tagliente e incisivo di Home, canzone simbolo della loro rinascita, si abbina la collaborazione di componenti storici del gruppo, come il tastierista McNeil e il bassista storico Derek Forbes, accreditati nel nuovo album. Per Kerr e soci, un radioso avvenire è già dietro le spalle.

percorso artistico su jazzitalia.net. Trombettista dalle abilità tecniche illimitate, unite a carisma e umiltà straordinaria, Bosso ripercorre il suo debutto, fortemente voluto da Mimmo Cafiero, e le collaborazioni che gli hanno data fama e largo pubblico grazie alle incisioni con Sergio Cammariere e Mario Biondi. Reduce dal recente successo di Five for fun, album di inediti dell’High Five Quintet, che ha regalato al giovane musicista numerosi allori anche in Giappone, Bosso non si nega neppure a platee dell’entroterra italiano in cui la voglia di jazz è affidata a esigui drappelli di pubblico, smaniosi di ascoltarne le esclusive jam session.

a cura di Francesco Lo Dico

FABRIZIO BOSSO SI RACCONTA on mi ritengo un talebano del jazz. Semplicemente adoro la musica di qualità. Mi piace fare incursioni in tutti gli stili e ascolto tanta musica anche non jazz, perché ritengo che sia importante ricevere influenze dagli altri mondi musicali per creare nuovi percorsi». Così Fabrizio Bosso, giovane bopper italiano ormai noto al pubblico internazionale, presenta il suo


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zapping

VIVA I DISCOGRAFICI idealisti duri e puri di Bruno Giurato iccome siamo bravi ragazzini calabresi, e siccome l’ultima volta che siamo andati al cinema siamo rimasti terrorizzati dagli spot antipirateria (e soprattutto a casa abbiamo Fastweb e il Mac, e l’accoppiata mal si addice a un pacifico utilizzo di aMule) abbiamo deciso di fare le cose per bene. Per ora e per sempre. Scaricare musica solo legalmente. Giusto. Avendo sottomano il magnifico libro di George Martin, The summer of love. The making of Sgt Pepper (Coniglio Editore) siamo stati presi da smania beatlesiana, e ci è presa la voglia di risentire il capolavoro dei baronetti. E qui è cominciato il calvario. Avevamo avuto notizia dei contrasti tra la Apple e iTunes, ma, ragionevolmente, avevamo pensato che si trattasse di bagattelle superate. Invece no, i dischi dei Beatles non ci sono su iTunes, non si possono comprare online. Cerchi Beatles su iTunes store e non esce niente (potrebbero metterci una schermata con una manina che fa il gesto dell’ombrello). Ci siamo documentati, e abbiamo letto che la questione legale sui diritti online dei Beatles va avanti da anni. E in quel momento siamo stati presi da ammirazione. Non è vero che le case discografiche sono dei moloch dediti al profitto. Pensi il benigno lettore: pagare stormi di avvocati che sbuffano su e giù per sale riunioni in palazzi di vetro, e magari sbagliano ascensore e si perdono in palazzi kafkiani; ma soprattutto pagare (in termini di mancati guadagni) anni e anni di download illegali del gruppo più venduto del pianeta è operazione da idealisti duri e puri. La cosa ci ha commosso. Andremo a comprarci Sgt Pepper su cd. Una decina di euro è l’obolo giusto, prima che la schiatta dei discografici finisca seppellita dal mercato.

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classica

La dissociazione dell’io secondo Bellini di Jacopo Pellegrini el riferire mesi fa sul nuovo allestimento dei Puritani montato al Massimo di Palermo da Pier’Alli, non avevo nascosto le mie perplessità. Dopo averlo rivisto al Comunale di Bologna non mi pare di dover mutare idea: tante statuine, neppure troppo belle, sulle quali i riferimenti simbolici vantati dal regista tardano a farsi riconoscere. Già nella tappa isolana Friedrich Haider, dal podio, aveva limitato i tagli al minimo; sotto le torri, Michele Mariotti (30 anni da compiere, direttore principale dell’orchestra felsinea) ci ha fatto la lieta sorpresa di riprodurre il «melodramma serio» di Bellini nella sua intierezza. Anzi, in uno slancio di generosità, ha addirittura rimesso al loro posto due dei tre brani soppressi dall’autore durante le prove o dopo la prima (Parigi, Teatro Italiano, 24 gennaio 1835); brani già ricuperati a Catania nel 1960 su iniziativa di Francesco Pastura, pioniere degli studi belliniani, e oggi infine inclusi nell’edizione critica curata da Fabrizio Della Seta: il Cantabile del Terzetto Enrichetta-Arturo-Riccardo nell’Atto I (che, in assenza di documenti d’epoca, Della Seta ha dovuto in parte ricostruire) e la Cabaletta in ritmo di polacca tra Elvira e Arturo alla chiusa dell’opera. Mariotti predilige il canto in ogni sua accezione (voci e strumenti), trasuda slancio ed energia, ostenta persino una certa sicurezza; soprattutto, ha chiara la necessità di delineare un’atmosfera specifica per ciascun episodio, nonché di stabilire campi di tensione tra di essi. Ciò perché, in assenza di un libretto teatralmente (e poeticamente) efficace, la drammaturgia dei Puritani è affare esclusivo della musica, che in piena autonomia disegna un paesaggio onirico, teatro di una doppia parabola: da un lato la dissociazione dell’io (oltre alla folle Elvira pure i personaggi maschili presentano tratti «doppi»), dall’altra l’empatia come unica via di guarigione e salvezza (se amore = pianto, è anche = commo-

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zione, tramite, a sua volta, della riconciliazione). L’idea di un Bellini «lirico puro» avanzata quasi un secolo fa da Pizzetti se poco ha a che fare colla produzione italiana, ben s’addice invece allo spartito parigino. Laddove però, l’effusività melodica continua si accompagna a nuove soluzioni armonico-timbriche e a un trattamento spregiudicato delle forme (ragione per cui il reinserimento del Cantabile nel succitato Terzetto, al di là dell’intrinseco - non eccelso - valore musicale, mi lascia perplesso: in quanto restauro di una convenzione). Mariotti dunque, intuisce il clima sospeso, volentieri estatico, dei Puritani, solo non riesce a materializzarlo fino in fondo o troppo a lungo. Non lo soccorre, va detto, un’orchestra dal suono brusco e brutto, mentre il coro, affidato a Paolo Vero, dà segni di miglioramento. Tra le parti di fianco, ottimo Gianluca Floris (Bruno), assai meno le due assegnatarie di Enrichetta, cooptate, chissà perché, dal coro. Accanto al Giorgio inappuntabile di D’Arcangelo, la coppia degli amorosi sfoggia Juan Diego Florez, al suo debutto in Italia come Arturo, elegante, studiosissimo e a suo agio su tutta l’estensione vertiginosa, e Nino Machaidze, soprano di bella figura e di voce ancor più bella, sorretta oltretutto da una non comune personalità d’interprete. A costo di offendere la suscettibilità degli aficionados, andrà tuttavia notata nell’uno la parsimonia di mezzevoci (che lo mettano a disagio?) e la carenza di piglio cavalleresco (tutt’al contrario, il tenore sostituto, Celso Albelo, scala con squillo guascone acuti e sovracuti sino al fa - Florez si «ferma» al re -, ma è ancora inferiore al collega nella morbidezza dell’impasto), nell’altra un’emissione da aggiustare senza indugi nei passi d’agilità e nelle note più alte. Pur senza demeritare, Viviani e Del Savio (primo e secondo Riccardo) si posizionano un gradino sotto. Successo folle.

jazz

Ballando con Balla e con gli Intonarumori

di Adriano Mazzoletti rapporti fra il nascente jazz in Italia e il futurismo è argomento che meriterebbe un’ampia disamina anche perché alcuni fra maggiori esponenti di quel movimento, di cui si festeggia il centenario, erano sinceramente interessati alla nuova musica americana che al termine della prima guerra mondiale era apparsa anche nel nostro paese, inizialmente a Roma e Milano. Il Comune di Roma dedica un’importante manifestazione a questo anniversario e Marcello Rosa, ha ideato per l’Alexander Platz dove si esibirà, da lunedì 23 a venerdì 27 con i suoi «Intonarumori», uno spettacolo futurista con cinque musicisti (Andy Gravish, Max Ionata, Paolo Tombolesi, Francesco Puglisi, Alessandro Marzi) il critico Filippo La Porta e lo scrittore Giuliano Compagno. Le cinque serate dal titolo Balla con Depero forse sarebbe stato più opportuno titolarle Balla con Balla inteso come Giacomo Balla,

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maestro di Fortunato Depero. Perché proprio Balla? Perché il grande pittore, scultore, scenografo e soprattutto protagonista del Divisionismo ebbe rapporti assai stretti con il jazz primitivo italiano. Fu lui infatti a decorare il primo locale notturno moderno aperto a Roma nell’autunno del 1921, il «Bal Tic Tac». Si trovava a via Nazionale all’angolo del cosiddetto traforo che porta a via del Tritone.Vi suonò per oltre due anni la prima jazz band romana di cui faceva parte il banjoista Alfredo Gangi, padre di Mario Gangi celebre chitarrista virtuoso. Il «Bal Tic Tac» venne inaugurato da Filippo Tommaso Martinetti e decorato appunto da Giacomo Balla. Ancor oggi un gruppo di bozzetti usati dal grande futurista - la cassa del botteghino, alcuni mobili, la balconata, le lampade, l’insegna - fanno parte di

una collezione privata romana. Sono stati esposti in due mostre a Torino nel 1928 e nel 1963. Un altro disegno di Balla, La ballerina del Bal Tic Tac è stato esposto a Roma nel 1998. Oltre a Balla numerosi intellettuali dell’epoca, in gran parte legati al movimento futurista, vennero colpiti dall’esteriorità del jazz. Nel 1922 Alfredo Trimarco pubblicò un poemetto intitolato Orchestrina. L’anno successivo il giuliano Ivan Jablowsky licenziava il suo Jazz-tazzine-tazzum e nel 1925 Diavolo Mari pubblicava Jazz Band, ma il futurista più vicino al jazz fu il triestino Vladimito Miletti che nel 1934 dava alle stampe il suo Aria di Jazz. Coloro che da lunedì a venerdi passeranno una serata all’Alexander Platz ad ascoltare Marcello Rosa e i suoi Intonarumori, debbono sapere che i cosiddetti Into-

narumori furono una famiglia di strumenti musicali inventati nel 1913 da Luigi Russolo, che li presentò al Teatro Storchi di Modena quando il jazz non era ancora conosciuto neppure in America. Formati da generatori di suoni acustici permettevano di controllare la dinamica, il volume, la lunghezza d’onda di diversi tipi di suono. Ogni strumento era formato da un parallelepipedo di legno con un altoparlante di cartone o metallico nella parte anteriore. Il suonatore schiacciava bottoni e leve per mettere in funzione il macchinario e controllarne le dinamiche. Secondo il rumore prodotto, questi strumenti erano classificati per famiglie, i crepitatori, i gorgogliatori, i rombatori, i ronzatori, gli scoppiatori, i sibilatori, gli stropicciatori e gli ululatori. Siamo molto curiosi di ascoltare Marcello Rosa alle prese con questi strumenti ormai caduti in disuso.

Balla con Depero, Alexander Platz, Roma, dal 23 al 27 febbraio


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narrativa

isognerà dire subito, ad apertura del nostro commento, che affrontiamo un testo complesso, difficile, arduo, fluido, che dovrebbe accendere la miccia di una discussione appassionante tra critici, che il romanzo di Giorgio Pressburger potrebbe avere adoratori e tenaci detrattori ma non lasciare indifferenti. Nel regno oscuro è l’ultimo romanzo di Pressburger che Bompiani stampa in edizione tascabile, scelta intuibile ma che lascia qualche perplessità, proprio per un libro summa, dove tutto entra, la narrazione, la Storia, l’ideologia, la saggistica e la ricerca filologica, racchiuse in un sorvegliatissimo e puntuale (aggiungerei accerchiante) commento al testo di circa mille note. Questo libro è un vero e proprio viaggio (al di fuori della banale metafora) in tutto l’orrore del Novecento, con al centro l’incandescenza mefitica della strage nazista contro gli ebrei, un dolore insuperato non solo per chi lo ha vissuto o ne è stato testimone. Il protagonista è un ebreo ossessionato dalla ricerca del padre e del fratello gemello morti, che, dopo aver molto vagato nella speranza di poterli rivedere un’ultima volta, una sera incontra finalmente il dottor Freud. Con lo psicanalista sale le scale dello studio al centro di Vienna e da lì, dalle sedute con «l’antico metodo», sdraiato sul lettino comincia il cammino che lo porterà nel regno oscuro, im dursten Reich, citazione dal Faust di Goethe.

B

libri

Il viaggio di Pressburger nel regno oscuro di Maria Pia Ammirati Freud, che diviene la guida del viaggio, avverte il paziente, e con lui il lettore, che si tratterà di un viaggio tremendo tra morte e vita, che si scenderà nel regno dei morti e si tornerà a quello dei vivi ogni giorno. D’altra parte il mondo stesso è gli inferi se noi ogni giorno «camminiamo su cumuli di cadaveri». Il viaggio dunque comincia, carichi d’ansia accompagniamo il protagonista-paziente a metà del secolo al cui centro troviamo il terribile cancello del lager di Birkenau. E qui vediamo tutto ciò che abbiamo saputo dalle testimonianze e dai libri: gli aguzzini azzurrini, chiari e ridenti le vittime nude e scure, macchiate dalla malattia e dalla fame. Ma poi il viaggio penetra nel profondo, accede, cioè, all’inaccessibile mentre il protagonista si fa morto tra

i morti. La nekuia, il passaggio agli inferi, riparte da Dante, dalla materia, dai corpi gonfi e purulenti, dalle rive del fiume che separa i due mondi dove sta il mostro dell’umanità che oggi è Mengele, il medico tedesco, «lo squartatore di esseri umani». L’io-narrante si confonde con i morti, accompagna le vittime nelle sale delle docce dei lager, dove a gruppi di centinaia gli uomini vengono gasati e poi bruciati nel forni, si fa inghiottire dalle acque scure di sangue e incontra morti famosi, per prima i suicidi, coloro che non riuscirono a sopportare l’orrore, il dolore del mondo, poi gli assassinati: tra gli altri Paul Celan, Benjamin, Rosa Luxemburg, Andrea Pazienza. Per ognuno di loro c’è una domanda, un brandello di conversazione, come quando a Han-

nah Arendt si chiede com’è possibile amare il proprio carnefice, amare Heiddeger l’uomo che non lasciò mai la moglie e sostenne con convinzione il nazismo? Nel mondo dei morti è chiaro che il tempo sia ormai eterno, che Milena, la fidanzata di Kafka, citi due artisti italiani a lei non coevi, Moravia e Gillo Pontecorvo. È un libro spietato che non ama le astuzie, le mistificazioni, oserei dire persino i simboli, non vuole infingimenti ma vuole essere vera e carnale testimonianza di quel che è stato, di quel che potrebbe essere perché «morti e vivi sono una grande comunità sulla terra. Una comunità che non si può suddividere». Giorgio Pressburger, Nel regno oscuro, tascabili Bompiani, 330 pagine, 10,50 euro

riletture

La Bibbia di Enea Silvio, papa umanista di Giancristiano Desiderio iciamo la verità: non è che uno legga normalmente I commentarii di Enea Silvio Piccolomini ovvero Papa Pio II. Quindi suggerire di rileggere - come si fa in questa rubrica - le pagine del grande umanista sarebbe un po’ una presa in giro. Tuttavia, chi non ha studiato, magari anche di malavoglia, l’umanesimo? Chi non ha passato in rassegna i grandi nomi del Quattrocento e del Cinquecento (più del Cinquecento, in verità, perché - come si sa - il Quattrocento viene visto come una fase di passaggio, ma conoscete una fase della storia che non sia di passaggio?). Il nome di Enea Silvio Piccolomini è tra quelli che rimangono in mente, come quello di Poggio Braccio-

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lini o di Leon Battista Alberti, non fosse altro perché suonano bene e si ripetono con piacere come una filastrocca. Al nome secolare di Pio II è legato una scenetta di Paolo Panelli e Bice Valori: lui è un tassista e lei è la cliente che deve andare, appunto, a via Enea Silvio Piccolomini ma lui, niente da fare, non ce la vuole portare, e avanti così, in questo botta e risposta estenuante che va avanti all’infinito fino allo svenimento di lei. Ho mischiato sacro e profano? Non direi, l’umanesimo ha questo di bello e affascinante, che se non è erudizione e polvere, è azione umana e si occupa delle cose di questo mondo di quaggiù. Anche se si è un Papa o, forse, proprio per questo. In fondo, questo umanista che si fece pontefice, capo della cristianità, per quanto di una cristianità che si

apprestava a dividersi, è il grande antesignano dei «papi scrittori» di oggi, da Wojtyla a Raztinger. Ma come fare per leggere I commentarii? La Adelphi ci viene incontro. Qualche anno fa la grande opera, il grande diario storico di Enea che interpreta tutto con l’occhio della Provvidenza, fu pubblicata dalla casa editrice milanese in un’edizione non accessibile a tutte le tasche. Oggi, in tempi di crisi, recessione ed euro, non mi verrebbe mai in mente di dirvi di tirare fuori un po’ di banconote di centinaia di euro per portarvi a casa la «Bibbia di Piccolomini», ma uno strappo si può fare perché la Adelphi ha mandato in libreria l’edizione economica che conta, pagina più pagina meno, 2726 fogli, ma con 42,00 euro vi portate a casa un patrimonio umano che vi sopravviverà, sia in latino sia

in italiano visto che I commentarii sono tradotti a cura di Luigi Totaro. Enea Silvio Piccolomini nacque a Corsignano, poi Pienza, nel 1405, e diventò papa nel 1458 con il nome di Pio II. I commentarii furono da lui composti fra il 1462 e la fine del 1463, pochi mesi prima della sua morte, avvenuta ad Ancona nell’estate del 1464. Quando divenne papa e gli chiesero con quale nome voleva farsi chiamare, disse: «Col nome di Pio». Eugenio Garin spiegava così: «Sum pius Eneas - fama super aethera notus (Eneide, I, 378): a Virgilio e al suo eroe, e non al santo pontefice Pio I, per concorde opinione Enea Silvio Piccolomini avrebbe pensato il 19 agosto 1458, allorché dopo una serie di incontri drammatici e di intrighi vergognosi, i voti dei cardinali vennero convergendo su di lui».


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ecologia

Perché il progresso fa bene all’ambiente di Angelo Crespi

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uella degli anticatastrofisti sembra una battaglia persa, sebbene sempre più voci fuoriescano dal coro dell’ambientalismo più ideologizzato. Il problema è che in nome dell’ambiente si muovono decine di miliardi di euro ed è sempre più difficile distinguere chi è in buona fede da chi ha fatto del verdismo semplicemente una professione ben remunerata. D’altronde abbracciare il catastrofismo ecologista permette di disegnare scenari apocalittici restando però nel mainstream più scontato, di lavarsi la coscienza di occidentali colonialisti e capitalisti salvo poi continuare con le proprie dannate

personaggi

abitudini antiecologiche, e infine, cosa da non buttare, di essere protagonisti nei salotti più chic vaneggiando al ritmo delle egloghe. La posizione contraria è invece molto dura da difendere. Spiegare con numeri e statistiche che il mondo non sta peggiorando malgrado le apparenze, che il petrolio non sta finendo, che abbiamo in abbondanza acqua e cibo, che Kyoto e una stupidata, e che per paradosso l’unica risorsa che scarseggia davvero è l’uomo. Per questo appare di una cocciutaggine ammirabile lo sforzo di Riccardo Cascioli e Antonio Gaspari che hanno all’attivo una ventina di libri dedicati al tema, con i quali hanno cercato di smontare le bugie degli ambientalisti hard.

Alla base del «fraintendimento», sta il successo secolare delle teorie malthusiane che in modo diabolico riappaiono sotto diversa scorza ma per dirci sostanzialmente sempre la stessa cosa: che siamo in troppi, cresciamo troppo velocemente, mentre le risorse sono limitate e presto finiranno. La bibbia degli ecologisti catastrofisti è il famigerato I limiti dello sviluppo che il Club di Roma confezionò nel 1972 e che da allora, benché superato, resta quasi una sorta di mitico testo iniziatico per chi decidesse di emulare Al Gore. La critica al verdismo del duo Cascioli/Gaspari si fonda invece su una diversa concezione del termine «risorsa», visto che le risorse,

cosa sotto gli occhi di tutti, non sono un dato fisso ma crescono man mano che l’uomo si sviluppa. Un buon ambientalismo quindi non deve battersi per il rallentamento del progresso e dello sviluppo dei paesi più avanzati, semmai perseguire politiche di sviluppo che portino anche i paesi più poveri a produrre risorse e ad aumentare il proprio livello di vita. Solo così facendo, la terra sarebbe tutelata nella sua reale funzione di dimora dell’uomo. E non divinizzata come un bene da preservare in sé, perfino a discapito dei suoi abitatori. Riccardo Cascioli-Antonio Gaspari, I padroni del pianeta, Piemme, 204 pagine, 13,50 euro

La vita alla caffeina di Marinetti

di Pier Mario Fasanotti i voleva proprio un geniaccio come Pablo Echaurren per descrivere in modo ordinatamente disordinato la vita di Filippo Tommaso Marinetti: con parole, proclami e disegni che abbondano di treni, aerei, macchine, eleganti curve femminili, trucidi volti del gerarchismo imperante. E così ci si addentra in quell’esplosione che avrebbe dovuto, secondo i sognatori senza museruola, distruggere per ricostruire, «marciare per non marcire». Si sgretolano i suoni convenzionali e a essi sono contrapposti i rumori, quelli più spavaldi e selvaggi, provenienti dalle macchine e dalle piazze. Tutto è in corsa, e la pittura ritrae il movimento, lo cattura nell’istante fornendo l’idea che mai tutto è uguale, immobile e funereo. Una

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società

matrice c’è nella «più grande avventura politica del Novecento», e va ricercata nel luogo dell’infanzia, in Egitto, nelle «mammelle color carbone» della nutrice sudanese, nella «concezione un po’ negra dell’amore», nei mercati arabi già naturalmente futuristi, in quell’Alessandria ove si sente «odore di pece oliofritto pistacchio pestato da un tondo sole d’oro che rotola beato sulla linea dell’orizzonte». Un’infanzia della mente che si tradurrà in ribellismo, in lancia che trafigge i lagnosi cantori del chiaro di luna, i suonatori imbalsamati della cultura petulante, quella che schiaccia, opprime, toglie il fiato. Sarà, per dilatazione, anche battaglia a favore delle donne, con le necessarie esagerazioni sulla lussuria per scantonare dal peccato del «disprezzo», e pure inno alla guerra come «unica igiene del mondo» da usare

contro «la grassa spanciata dei tedeschi» che son corvi e iene. Da comprendere pure l’abbaglio che il bolscevismo sia cosa anarchica, che il fascismo non si pieghi, come è accaduto, al conformismo istituzionale e alla decretazione della fantasia come elemento sovversivo. Quel volto dai tratti borghesi, con baffi e bombetta, scuoterà molte anime letargiche: sì, quel Marinetti che parte da Milano - città vivace all’inizio Novecento, e poi non più - per coinvolgere altre folle e altri gruppi. Efficacissimi i volti tratteggiati da Echaurren laddove si parla della necessità, più spirituale che ideologica, di intervenire in guerra, di schierarsi «contro la caserma d’Europa, la Kultur tedesca che nell’incapacità di fare le grandi cose proibisce le piccole». L’italico genio sbuca fuori e mena colpi al «pedantismo austroungarico». La gran voglia di scazzottate continuerà fino all’orlo dell’abisso europeo, quando le mosche non saranno più insetti fastidiosi, ma divise feroci, aguzzine e barbare. Pablo Echaurren, Caffeina d’Europa (vita di Marinetti), Gallucci editore, 59 pagine, 13,00 euro

iuseppe Bertagna è docente di Pedagogia generale e direttore del Centro per la Qualità dell’Insegnamento e dell’Ap-prendimento (Cqia) presso l’Università di Bergamo. Ed è stato ispiratore, organizzatore - e anche «ideologo» - della riforma Moratti. Nel suo libro più recente, scritto nella plurima veste di protagonista, studioso e testimone, Bertagna delinea una fenomenologia della scuola italiana nell’intrecciarsi concreto di quattro concetti: Costituzione formale, Costituzione materiale, autonomia funzionale, autonomia tout court. 1. Secondo la Costituzione formale (cioè la carta costituzionale del

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Cercando una nuova chiave di interpretazione del mondo che ne spieghi l’apparente stranezza Ervin Laszlo, scienziato e presidente del club di Budapest, indica in Risacralizzare il cosmo (Urra editore, 246 pagine, 15,00 euro) un percorso che la scienza ha dimenticato da tempo. Percorso che fa riscoprire un universo unificato, un mondo rispiritualizzato. Infatti, secondo Laszlo, tutti gli aspetti e le dimensioni del cosmo - dall’atomo alle galassie, dall’anima al cervello, dalla nascita alla morte - sono connessi e integrati tra loro, in maniera non così dissimile dalle visioni spirituali della realtà proprie dell’induismo e delle religioni dei nativi americani. Un cosmo reincantato insomma quello di Laszlo È l’attore italiano più famoso nel mondo, ma ha anche vestito la maglia azzurra della nazionale di pallanuoto. Il suo volto bonario e le sue scazzottate in coppia con Terence Hill sono una leggenda del grande schermo. Nei 100 metri stile libero è stato il primo italiano a scendere sotto il minuto. Stiamo parlando ovviamente di Bud Spencer, al secolo Carlo Pedersoli, il protagonista di innumerevoli film di culto e uno dei volti più amati del cinema italiano. Ma Bud Spencer è anche il protagonista di una vita avventurosa che ora Franco Gattaiola, Matteo Norcini e Stefano Ippoliti raccontano in Continuavano a chiamarlo Bud Spencer (Edizioni Struwwelpeter, 191 pagine, 24,50 euro). La regina,

Per la scuola, la “cura svedese”: smantellarla di Giuseppe Lisciani

altre letture

1948), la Repubblica doveva emanare norme generali (no specifiche!) sull’istruzione e chiedere allo Stato di: a) istituire scuole statali e assicurare la parità: istituire, appunto, non governare; b) controllare gli apprendimenti e la funzionalità delle scuole: naturalmente, rispetto alle «norme generali»; c) dettare i «principi» per l’«istruzione artigiana e professionale», riservata alle regioni dall’art. 117, comma 1 della stessa Costituzione 1948. 2. Molte circostanze congiurarono, invece, contro lo splendore della Costituzione formale e a favore della opacità inglobante della Costituzione materiale (cioè il complesso di norme che di fatto si è sovrapposto alla carta costituzionale e ha affidato l’educazione alla «bu-

ropedagogia ministerialista», dimostrando scarsa fiducia nelle istituzioni periferiche). 3. Ma la traballante efficienza della Costituzione materiale ha indotto un processo di revisione, il cui primo significativo esito (l’art. 21 della legge delega 15 marzo 1997, n. 59) è considerato da Bertagna l’avvio formale della «stagione dell’autonomia». Ancora una volta, però, la «buropedagogia» ministeriale ha trovato la chiave di sopravvivenza, elaborando un concetto deviato di autonomia: la cosiddetta «autonomia funzionale», nel senso, precisa Bertagna, di «“funzionale”alla realizzazione delle disposizioni comunque emanate dal “superiore” ministero». 4. Nel marzo 2001, il governo appro-

va la riforma del Titolo V della Costituzione, che - dice Bertagna - «non lasciava più adito ad alcun dubbio interpretativo: la Repubblica doveva recuperare il dettato della Costituzione formale del 1948». Si muoveva su questa linea la normativa emanata tra il 2003 e il 2005 (riferita alla riforma Moratti). Ma ecco scatenarsi «una sistematica e spesso rumorosa opera di interdizione». Che fare? Bertagna suggerisce la «cura svedese»: smantellare, in tempi certi, la scuola attuale e forzare verso le scuole autonome (cioè quelle della Costituzione formale). Giuseppe Bertagna, Autonomia. Storia, bilancio e rilancio di un’idea, Editrice La Scuola, 256 pagine, 16,00 euro

l’alchimista e il cardinale è l’ultimo romanzo di Roberto Gervaso (Rubbettino, 279 pagine, 18,00 euro) ambientato alla corte di Francia di Luigi XVI che sta per essere travolto dallo scandalo del secolo, passato alla storia come «l’affare della collana». L’intrigo, ordito da una nobildonna decaduta, assetata di denaro e bramosa di scalare i vertici dell’alta società parigina e di avere un ruolo a corte, coinvolge nelle sue trame l’ambizioso cardinale Rohan, il sedicente mago e alchimista Cagliostro, fidatissimo amico dell’alto prelato, e la stessa regina Maria Antonietta, spianando la strada alla Rivoluzione dell’89. L’affare della collana non resta confinato fra le mura dei tribunali, ma diventa subito di pubblico dominio. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

ROMAN VON UNGERN STERNBERG SOGNAVA UN’EURASIA SOTTO IL SUO DOMINIO. NEL MITO DI ATTILA, GENGIS KHAN E TAMERLANO, FU CAPO DI STATO MAGGIORE DEL PRIMO ESERCITO “BIANCO” ALL’ATTACCO DEI BOLSCEVICHI. ADESSO UN LIBRO, “IMPERI DELLE STEPPE”, RIEVOCA LA FIGURA DEL BARONE NERO CHE HA INCANTATO ANCHE CORTO MALTESE…

L’avventura di Ungern Khan di Mario Bernardi Guardi aldamente in sella al suo cavallo e con lo sguardo acceso da sacro furore, il «Barone Nero» Roman Fiodorovic von Ungern Sternberg sembra davvero un dio della guerra, del sangue e della morte. Per i suoi uomini è la reincarnazione di Gengis-Khan: anche lui è convinto di esserlo e sogna un’Eurasia sotto il suo dominio. Ma prima c’è da spazzare via le orde bolsceviche. Sciabola in pugno, Roman è un concentrato di nervi tesi fino allo spasimo. Sempre in movimento, da una città all’altra, da un villaggio all’altro: è un angelo sterminatore, si batte come una belva, va all’assalto, conquista, brucia, già a cavallo della leggenda, già oltre la vita, proiettato nel mito e nell’epopea, là dove l’enfasi è di rigore. Di giorni gliene restano pochi, il Barone lo sa perché un’indovina ha guardato nel suo futuro, e deve spenderli al meglio dell’ebbrezza. Eccolo dunque - la febbre negli occhi, di un azzurro che ammalia e gela - mentre incita i suoi guerrieri della Divisione di Cavalleria Asiatica: «Avanti… Alla ricerca delle nostre follie e delle nostre glorie». E poi, rivolgendosi al generale Semenov della Divisione Selvaggia dei Cosacchi del Transbaikal, «siamo bellissimi, Semenov, bellissimi…».

S

aumenta, e ha bisogno di essere «liberata». Meglio ancora plasmata, raffigurata in un personaggio capace di attraversare, con la stessa vocazione anarchica e stravagante, tutte le mappe geografiche, comprese quelle dell’occulto. Ecco, allora, Corto Maltese, che ama le donne e l’azzardo, i viaggi e la solitudine, le delizie della carne e i brividi dello spirito. Corto Maltese, col suo orecchino e il suo «cigarillo», sempre in cerca di avventure giuste e di personaggi «all’altezza», nel bene, nel male, in ciò che è «al confine» oppure «oltre la linea dell’orizzonte».

E come fai, ripetiamolo, a non fargli incontrare Ungern Khan e a non lasciarlo in forse - poi dirà no, ma quella «causa pèrsa», comunque, lo ha «intrigato» - di fronte alla proposta del Barone di combattere con lui in nome della crociata antibolscevica e del mito eurasiatico? Già, il mito eurasiatico. Ma anche la «realtà» di complesse vicende più che millenarie, in cui relazioni e conflitti si intrecciano. Ungern Khan, insomma, ma non solo, come ben attesta un volume di studi che è una polifonica ricognizione sul tema, in termini di cultura storica, geo-politica e antro-

Coraggioso e spietato, nacque in Austria nel 1886, ma nelle vene gli scorreva sangue magiaro e vichingo. Sotto le insegne dello Zar, conquistò la Croce di San Giorgio. Quella Croce che volle ingoiare prima di essere fucilato dai sovietici nel 1921 Bellissimi, belli e impossibili, belli e dannati, il bel gesto, la bella morte… Parole d’ordine di una cultura che ha il suo spazio eletto nella storia e nell’immaginario del Novecento. Hugo Pratt lo sapeva bene quando inventò Corto Maltese e quando al fascinoso avventuriero, figlio di un marinaio bretone e di una zingara andalusa, fece incontrare von Ungern, in un percorso che parte da una calle veneziana magicamente aperta sull’Altrove (Corte Sconta detta Arcana, Milano Libri Edizioni, 1982). Incontro come appuntamento predestinato: tessiture borgesiane, alchimie dell’esperienza, avventure/eventi, tutto in sospensione tra incanto, intelligenza e ironia. Il «mondo» del veneziano - con ascendenze anglo-normanne da parte di padre ed ebraico-ispaniche da parte di madre - Hugo Pratt che a diciassette anni, col fervore romantico di chi sta dalla parte dei vinti, si arruola come marò volontario nel Battaglione Lupo della Decima Mas. Ci resta pochissimo, però, perché la nonna, affrontando a muso duro il comandante («Ho perduto un figlio in guerra e poi un altro nipote. Non voglio piangere altri lutti», Cfr. Luciano Lanna-Filippo Rossi, Fascisti immaginari,Vallecchi 2003), se lo riporta a casa. Ma la voglia d’avventura resta, anzi

pologico-simbolica (Imperi delle steppe, a cura di Daniele Lazzeri, prefazione di Franco Cardini, illustrazioni di Francesco Iacoviello, Centro Studi Vox Populi info@vxp.it, 293 pagine, 19,00 euro). E che si offre come occasione di dibattito più che mai «attuale», visto che, contrariamente alle profezie di Francis Fukuyama, siamo tutt’altro che «usciti dalla storia» e che il Nuovo Ordine Mondiale con l’imprimatur della «pax americana» è tutt’altro che una realtà indiscutibile e indiscussa. Anzi, c’è molta confusione sotto il cielo e gli scenari futuri appaiono, per dir così, in movimento. Quali, le ipotesi? Nella sua prefazione, Franco Cardini scrive: «Occidente atlantico versus Eurasia? Oppure Occidente statunitense (o meglio, magari angloamericano) versus un asse più o meno esplicitamente russo-iranocinese, con un complesso e variegato coinvolgimento dei paesi del Vicino Oriente, dell’Africa e dell’America Latina, e magari di un’Europa mediatrice, plaque tournante, ago della bilancia, collegata con i paesi del Mediterraneo?». Nel momento stesso in cui vengono formulati gli interrogativi che

Roman Fiodorovic von Ungern Sternberg in un ritratto e in una sbiadita foto d’epoca. In basso la copertina di “Corte Sconta detta Arcana” dove Hugo Pratt ha immaginato l’incontro tra Corto Maltese e il Barone Nero. In alto a destra, alcuni disegni di Francesco Iacoviello che illustrano il libro “Imperi delle steppe”


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partono da un hic et nunc ribollente, si esplorano le contrade del passato, solo in apparenza territori «alieni» rispetto ai problemi della contemporaneità. Andrea Marcigliano, ad esempio, partendo dagli studi di Mario Bussagli su un «Attila europeo», si concede digressioni ucroniche e si chiede se dietro l’azione del terribile unno sia possibile intravedere un ardito, grandioso disegno: «un Impero multietnico, multiculturale, multireligioso, che nascesse dalla fusione di popoli diversissimi, intorno a un asse centrale formato da un lato dagli Unni, dall’altro dai Romani». Chissà… Certo è che per modellare qualunque scenario è opportuno fugare la nebbia dei pregiudizi, quella «vulgata» che, all’insegna di una «paura dei Mongoli» datata XIII secolo, ha trovato solide radici nell’immaginario, propiziando tic e tabù. Ebbene, che cosa sappiamo dei Mongoli? Sulla loro storia, la loro cultura, gli usi, i costumi, le credenze, il fermentante sottosuolo mitico, le dottrine iniziatiche, Imperi delle steppe offre le puntuali riflessioni di Ermanno Visintainer e Aldo Ferrari, Gregorio Bardini e Andrea Forti, Luca Mantelli ed Erdenesukh Purev. Mentre Salvatore Santangelo scrive di fratellanze guerriere e di Cosacchi, evocando quei gruppi di cavalleria che, inquadrati nelle armate del Reich, ottennero dai nazisti la concessione di occupare un’area in Carnia, nel Friuli, dove costruire un loro Stato e dove arrivarono in una sorta di trasmigrazione collettiva, con i cavalli, le carrette, le mogli, i figli, i vecchi, i pope con gli arredi sacri, le icone, così come ha raccontato Carlo Sgorlon nel romanzo L’armata dei fiumi perduti. Odissea e tragedia, la loro sorte: nel maggio del ’45, infatti, i cosacchi della Carnia si arresero fiduciosi agli inglesi che, venendo meno ad antiche tradizioni amicali, li consegnarono ai russi. Ma di fronte alla prospettiva della schiavitù sovietica, migliaia di loro scelsero il più feroce dei codici d’onore, gettandosi con le mogli e i figli nelle acque del fiume Drava. Una storia, tra le tante. Ma tutte sembrano in qualche modo convergere su Ungern Khan, quasi che l’icona del Barone assuma il valore di simbolo e segno, significato e sintesi delle sparse vicende eurasiatiche. Ed è così che venture e sventure del guerriero (profilo spirituale e coté esoterico compresi), vengono evocate, con differenti accenti, da Daniele Lazzeri, Claudio Tessaro de Weth, Federico Prizzi. Secondo l’illustre orientali-

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sta Pio Filippani Ronconi, il Barone, «religiosamente affiliato a una corrente tantrica …, sin dalla conferenza panmongola di Cita del 25 febbraio 1919, aveva dichiarato la sua intenzione di ristabilire la teocrazia lamaista nel cuore dell’Asia, “affinché da lì partisse la vasta liberazione del mondo”. Per Ungern Kahn - sostiene Ronconi - la controrivoluzione era solo un pretesto per evocare sul piano terreno una gerarchia già attuata su quello invisibile», una gerarchia che doveva proiettarsi su un «mandala», un mesocosmo simbolico, il cui centro sarebbe stata la Grande Mongolia, comprendente, oltre alle sue due parti geografiche, l’immenso spazio che dal Baikal giunge allo Hsin-Kiang e al Tibet. Invece, un lontano discendente del Barone, lo storico dell’antichità Jürgen von UngernSternberg, sui sacri fuochi di miti, leggende ed esoteriche chiavi di lettura getta l’acqua di uno sprezzante scetticismo.Tanto abbondante che finisce col potenziare l’icona anziché svilirla. Sia come sia, la breve, densa e spericolata vita di Roman Fiodorovic sprizza fascino da ogni sequenza conosciuta o immaginata. Ma cosa sappiamo davvero? Il Barone nasce a Graz, in Austria, nel 1886 da una famiglia di tedeschi baltici. Ma nelle vene gli scorre

spirituale che si fondi sulla restaurazione della monarchia e su una santa alleanza tra Imperi: quello russo, quello mongolo-manciù e quello cinese. Ungern Khan, che si è convertito al buddhismo, vuole risalire alle fonti dei grandi maestri dell’India e studia il sanscrito, lancia dunque una lotta senza quartiere contro il comunismo e contro la decadenza dell’Occidente. È un «fascista» quest’uomo dalla testa piccola, le spalle ampie, gli occhi d’acciaio, i capelli biondi arruffati, i baffi rossicci, il volto magro ed emaciato come un’icona bizantina? Diciamo che ha i tratti dell’Anarca e dell’Avventuriero, del Mistico e del Soldato politico: un impasto straordinariamente moderno, diremmo quasi mass-mediatico, ma cha affiora dall’Altrove della Tradizione primordiale. Un uomo «estremo». Straordinario nella fiera determinazione nella coerenza, tra marce forzate e spaventose battaglie. Truppe cinesi, in combutta con Mosca, hanno occupato la Mongolia? Ungern, il 3 febbraio 1921, ne attacca la capitale, Urga, al comando di quattromila uomini e celebra la vittoria con una strage e un saccheggio che ricordano i terribili fasti di Attila, Gengis Khan e Tamerlano.Venerati maestri di un Guerriero che libera dal-

Hugo Pratt nella “Corte Sconta detta Arcana” immagina un incontro tra il suo eroe e von Ungern. Quasi un appuntamento predestinato tra due personaggi in cerca delle stesse emozioni oltre la linea dell’orizzonte sangue magiaro e vichingo, forse anche mongolo. Cresce aTallin, in Estonia, che fa parte dell’Impero zarista, e frequenta la Scuola Militare di San Pietroburgo. Di stanza in Siberia, è colpito dallo stile di vita nomade dei Mongoli e dei Buriati. Durante la Grande Guerra combatte valorosamente sotto le insegne dello Zar in Galizia e in Volinia, conquistando onorificenze come la Croce di San Giorgio e la Spada d’Onore. Quando scoppia la rivoluzione bolscevica, raggiunge l’atamano Semenov nei territori orientali della Siberia, tra il Baikal e la Manciuria, diventando capo di stato maggiore del primo esercito «bianco» e organizzando una divisione di cavalleria composta da mongoli, buriati, russi, cosacchi, caucasici, tibetani, coreani, giapponesi, cinesi.

È coraggioso e spietato: non teme la morte per sé, non esita a dare la morte. Ego ipertrofico, carisma immenso: i suoi uomini lo chiamano «Piccolo padre», come lo Zar. E lui è convinto di svolgere un ruolo provvidenziale. Il Bene contro il Male, come dall’alba dell’umanità. Male è il bolscevismo, serpente dalle mille teste, male sono le moderne ideologie. Urge una grande reazione politica e

la prigionia il Dalai Lama e gli conferisce il titolo di Primo signore della Mongolia. Mentre cresce la volontà di potenza, Ungern avanza in Siberia. Ma, complice il tradimento, cade nella mani dei «rossi». Il generale Blücher gli propone salva la vita: basta che «scelga». Ungern quella scelta la rifiuta e ingoia la medaglia con la croce di San Giorgio per non consegnarla nelle mani dei sovietici. Condannato a morte, viene fucilato il 15 settembre 1921. Questa, una delle versioni. Ne esistono altre, ovviamente: raccontare l’«eccezione» da sempre apre la via a mille varianti. Una «piccola biblioteca» sul Barone? Suggeriamo di partire da un libretto di Mario Appelius (sì, quello del Dio stramaledica gli inglesi) La cosacca del barone von Ungern, stampato due anni fa dalle Edizioni Ar. Per poi proseguire con Bestie, uomini, dei di Ferdinand A. Ossedowski (Mediterranee, 2003) e librarci in ancor più elevate aure con Il Re del mondo di René Guénon. Ma Corte Sconta detta Arcana è comunque d’obbligo, come era d’obbligo che Corto Maltese conoscesse il Barone e decidesse di non seguirlo, forse inquieto di fronte a quella spaventosa pienezza, forse pentendosi di non aver chiuso con lui il Libro dell’Avventura.


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libri

di Gabriella Mecucci reue,“fedeltà”, true, vero e fedele. Come se ciò a cui non possiamo rimanere fedeli non fosse mai stato vero. Di qui il grande crimine dell’infedeltà, se non si tratta, per così dire, di infedeltà innocente; uccidiamo ciò che fu vero, sopprimiamo di nuovo ciò che noi stessi abbiamo messo al mondo, un vero e proprio annientamento, perché nella fedeltà, e soltanto in essa siamo padroni del nostro passato… La perversione della fedeltà è la gelosia. Il suo contrario non è l’infedeltà in senso comune - quest’ultima è prefigurata piuttosto nel proseguimento della vita e della vitalità -, ma solo l’oblio, la dimenticanza. È l’unico peccato reale, poiché cancella la verità, la verità che fu». Hannah Arendt scriveva questa straordinaria definizione in Quaderni e diari, sei mesi dopo aver rivisto Martin Heidegger. E non c’è dubbio che quelle parole vennero vergate pensando proprio a lui. Era un modo per dirgli: io non ti ho dimenticato mai. Per ricordare a se stessa che quella sofferta storia d’amore e quel fervido rapporto intellettuale non era mai stato coperto dalla coltre dell’oblio, nemmeno nei momenti in cui i due furono più distanti. Quella liaison passionale e razionale fra le più penetranti intelligenze del Novecento viene oggi raccontata in un libro bellissimo dal titolo: Hannah Arendt e Martin Heidegger. Storia di un amore, l’autrice è Antonia Grunenberg e in Italia è da poco uscito per Longanesi. È una cavalcata nell’amore, nella storia, nel pensiero del secolo da poco chiuso. Hannah Arendt incontrò Martin Heidegger a Marburgo dove lui insegnava e lei frequentava l’università. Lei era una bellissima diciottenne, lui un trentaquattrenne già sposato, non bello, piccoletto, fisico sportivo e quegli occhi neri che sprizzavano intelligenza e passione. A novembre del 1924 iniziò la loro straordinaria storia. Un amore che li sconvolge entrambi e che «ispira» l’opera filosofica più importante di Martin: Essere e tempo. Il libro ha un impatto straordinario: ribalta, sconvolge la vecchia filosofia. L’essere è tradizionalmente senza tempo. Il titolo di Heidegger indica il contrario: «L’essere è esso stesso temporale». Non è un soggetto autonomo e isolato così come era nella filosofia classica (da Platone a Kant), ma un esser-ci. Non è il padrone di una situazione, bensì qualcosa di esposto a essa. Si tratta insomma di una «rivoluzione copernicana» che muta il modo di porre la stessa idea di verità, mettendone l’assoluto e l’eterno che è in lei. Martin indicava in Hannah l’ispiratrice del suo lavoro, ma in realtà era molto preso da sé e dallo straordinario successo che Essere e tempo ebbe. Hannah non voleva fare la musa del grande pensatore e decise di andarsene da Marburgo. Nell’aprile del ’28 i due si incontrarono di nuovo e, subito dopo, lei scrisse una lettera all’amante e al maestro: «Ti amo come il primo giorno… Il cammino che mi avevi indicato è più lungo e difficile di quanto pensassi. Richiede tutta una lunga vita. Avrei perso il mio diritto alla vita, se perdessi il mio amore per te, però perderei questo amore e la sua realtà, se mi sottraessi il compito a cui esso mi spinge». Hannah ha deciso di percorrere la sua strada, una strada che la porterà lontana anni luce, nello spazio e nel pensiero, da Martin, ma continuerà però ad averlo sempre dentro di sé. La storia li separò per vent’anni. Mentre lui diventava nazista e veniva ricoperto di onori dal regime, lei, ebrea, venne arrestata. Poi, riuscì a fuggire in America dove visse a lungo e felicemente sposando due uomini e coltivando una straordinaria amicizia con Jaspers, ex grande amico e sodale di Heidegger, che non gli perdonò mai la sua scelta a favore di Hitler. Alla sconfitta del nazismo, Martin venne epurato e iniziarono per lui momenti difficilissimi. Hannah invece cominciò a lavorare alla sua opera più importante: Le origini del totalitarismo in cui rintraccia le ragioni del moderno antisemitismo nella condizione sociale in cui vennero a travarsi gli ebrei, nel ruolo «distaccato» che avevano assunto. Nell’isolamento che avrebbe reso possibile il loro annientamento. Il totalitarismo si è instaurato sulle macerie dell’ormai sfaldata società articolata in classi. Ed è in quella che la Arendt definisce «l’era delle masse» che ha reso possibile l’affermarsi del comunismo sovietico e del nazionalsocialismo. Un libro straordinario, un’analisi fra le più originali e penetranti che verrà pubblicata nel 1951 e darà alla Arendt un successo notevole e una grande visibilità.

«T

Hannah & storia di un amore Martin Antonia Grunenberg ricostruisce la liaison passionale e razionale tra la Arendt e Heidegger

Iniziò nel novembre del 1924 a Marburgo, dove lui insegnava e lei studiava. La giovane ebrea fu la musa di “Essere e tempo”, ma intraprese il suo percorso alternativo prima che il suo maestro scegliesse il nazismo. Nonostante tutto, li separò solo la morte Un anno prima che uscisse il suo capolavoro, Hannah rivede, nel 1950, Martin. La situazione fra i due è completamente ribaltata: lui è un uomo in difficoltà, lei è sulla cresta dell’onda. Eppure quella signora ebrea, che vive a NewYork e fa del suo impegno contro i totalitarismi il centro della sua vita intellettuale, appena rimette piede in Europa corre a salutare Martin, ancora sospeso dall’insegnamento con l’accusa di filonazismo. Lo vede e scrive le riflessioni bellissime riportate all’inizio. Sarà il primo incontro del dopoguerra, ma non l’ultimo: ce ne saranno altri. Riprende un dialogo intellettuale come se non si fosse mai interrotto. La Arendt non si stacca mai dalle categorie heideggeriane: le usa, le approfondisce, le critica, ma restano per lei la grande lezione della sua vita. Il concetto di libertà era ciò che divideva più profondamente lei e Martin e alla fine fu quest’ultimo a fare un passo di avvicinamento a Hannah. Una volta lei tenne una conferenza in Europa e scorse fra il pubblico venuto ad ascoltarla il vecchio amante. Esordì così: «Esimio professor Hei-

degger, signore e signori». La Arendt negli anni Sessanta ebbe una vita difficile: le polemiche intorno al suo secondo grande libro, La banalità del male. Polemiche particolarmente amare perché provenivano da parti importanti della comunità ebraica che non avevano sopportato quel suo aver raccontato Eichmann come «un ragioniere dello sterminio», e soprattutto l’aver messo in discussione il significato simbolico che si era voluto dare al suo processo. Mentre Hannah era nel ciclone, ricevette la solidarietà di Martin. E lei contraccambiò più avanti scrivendo uno splendido discorso celebrativo del maestro quando questi compì ottant’anni. «Non è la filosofia di Heidegger ma il pensiero di Heidegger - annotò - ad aver contribuito in maniera così decisiva a determinare la fisionomia spirituale del nostro secolo. Questo pensiero è caratterizzato da una peculiare penetrazione… consiste nell’uso transitivo del verbo pensare. Heideggerr non pensa mai su qualcosa, ma pensa qualcosa». E lui in risposta: «Più di ogni altro tu hai colto il movimento interno del mio pensiero. Dai tempi delle lezioni sul Sofista esso è sempre rimasto lo stesso». Li separò solo la morte. O forse no, nemmeno quella. Hannah una volta gli aveva scritto: «Se Dio vorrà ti amerò dopo la morte ancora di più».


tv

video

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Da Fazio a Giacobbo

di Pier Mario Fasanotti

F

luci e ombre del piccolo schermo

web

acciamo come con la bandiera della Juventus, che è un po’ nera e un po’ bianca. Opposti colori. Esiste una televisione nera o nerastra, ossia brutta o pessima, ed esiste una televisione bianca, ossia buona o molto buona. Cominciamo dalla seconda. Che tempo che fa, Rai 3, condotta da Fabio Fazio, il quale ha il grandissimo pregio di stare ad ascoltare gli altri, di interessarsi all’intervistato, e dai suoi movimenti facciali e dal modo di guardare si capisce che è lui il primo a essere contento di ascoltare le cose che sta ascoltando e sta facendo ascoltare a milioni (speriamo sia così) di italiani. Fazio scansa l’avvitamento retorico, evita il tono sopra le righe, odia l’enfasi. Sorride, smorza le note troppo accese, stempera anche l’irruenza comica di Luciana Littizzetto, che oggi è la più convincente interprete del costume italiano assieme ad Antonio Albanese. Nella penultima puntata, Fazio ha avuto ospiti di eccezione. John Simenon, figlio del grande Georges e curatore dell’opera paterna. Un’emozione, certamente. Ma John ha aggiunto poco, riservato com’è, alla vasta aneddotica sul narratore. Poi Piero Angela, il principe della divulgazione scientifica e storica. Racconti pacati, i suoi, pieni zeppi di cose, tutte culturalmente e umanamente importanti. Uomo che sa ridere. Fortunato a dire che a 80 anni non ha mai lavorato così tanto. Infine una sorpresa televisiva, lo scrittore Erri De Luca, autore del Giorno prima della felicità (Feltrinelli), pare già in odore di premio Strega, a dare ascolto ai movimenti militari delle case editrici. Uomo dal volto asciutto e ieratico, ha parlato della sua Napoli dalla quale si è «autoespulso», della città che «ha nervi sempre accordati a un’ottava sopra», città che reagisce senza bisogno di una regia politica e ciò che accadde il 4 settembre 1943 lo conferma, essendosi ribellati da soli, i partenopei, ai nazisti. I primi e unici in Italia a farlo. Ci ha raccontato poi d’essere lettore meicoloso delle Sacre scritture.

Lui non credente. Ed è entrato, su stimolo di Fazio, su alcuni dettagli affascinanti. Per esempio, sostiene che la Bibbia è stata tradita dai traduttori. «Donna, partorirai col dolore», si ricorda di solito. Sbagliato: il termine ebraico antico efez significa affanno, sforzo, «e non dolore, non mala-intenzione della divinità di procurare sofferenze supplementari al genere femminile». Altro esempio riguarda Adamo, al quale fu dato questo avvertimento: sarà maledetta la terra. Ebbene, spiega De Luca, «questa è una constatazione, non una condanna: Adamo non avrà più il privilegio di cogliere frutti spontanei, ma l’obbligo di estrarli; la terra maledetta sta nell’accanimento produttivo». Tutto questo raccontato senza piglio accademico. Da un uomo che dice di «voler bene» alla tv considerando che fa compagnia agli anziani, ai detenuti, a tutti coloro che sono soli. Un’ultima cosa: sul termine clandestino, lo scrittore è stato dolcemente perentorio. «Dire che ci sono clandestini è un abuso di confidenza con la vita, visto che secondo le Sacre scritture siamo tutti ospiti e non residenti o proprietari». Ricordiamolo ai leghisti, così lontani dallo spirito evangelico. E ora sfioriamo il nero della cattiva televisione: Voyager, ai confini della conoscenza, Rai 2. Chiedo a Viale Mazzini, sede Rai a Roma, di spedire al conduttore, Roberto Giacobbo, alcuni buoni libri. Nella penultima trasmissione ha pervicamenente sostenuto l’ipotesi che Shakespeare fosse di origine siciliana. Basta l’Otello, dramma della gelosia? No, bastava che lui sfogliasse un bellissimo libro, Il mondo è un teatro di Bill Bryson (Guanda) per accorgersi che del Bardo si sa pochisimo. Di un drammaturgo che ha scritto quasi un milione di parole, delle quali noi ne abbiamo solo 14 scritte di suo pugno, ora tale Giacobbo viene a dirci che proveniva da Messina. Ai confini della conoscenza? Piuttosto oltre il buon senso. Sappiamo che queste «paraculate», come si dice a Roma, fanno audience (2,2, milioni di telespettatori, in media), ma rendono pessimo servizio alla verità storica, disorientano i giovani telespettatori. Fermate quell’uomo, per favore. Il mio molto più autorevole collega (in tv) Aldo Grasso è ricorso a una prosa ridanciana. Io sono più grezzo. E più meridionale: che c’azzecca la Sicilia con Shakespeare? Viva Piero e Alberto Angela.

games

dvd

AMORE PER I CANI NON SOLO VIRTUALE

L’INFERNO DI DANTE ALLA CONSOLE

ALLA CONQUISTA DELLE ANDE

S

i chiama ilcercapadrone.it il primo canile on line d’Italia. Promosso dall’omonima associazione onlus, il sito si propone come centro d’adozione capace di convogliare richieste e notizie da tutti gli ostelli canini d’Italia. Dai classici annunci corredati di fotografie e recapiti utili, a informazioni sulle attività di volontariato, alla denuncia di abusi e misfatti contro gli animali, ilcercapadrone consente

«N

on ragioniam di lor ma guarda e passa», aveva detto Virgilio. Saggio consiglio, che nel mondo dei videogames può essere letale. Nessun filosofema o astruseria lessicale potrà salvare l’Alighieri in Dante’s Inferno, nuovo succulento titolo che Electronic Arts proporrà agli appassionati per la fine del 2009. Dai produttori dell’horror Dead Space, arriva una Commedia gotica, ricca di suspence e singolar

il 1985 quando i due alpinisti Joe Simpson e Simon Yates partono alla conquista delle Ande peruviane. La scalata sino alla vetta del monte Siula Grande, situata a più di 6300 metri di altezza, si presenta proibitiva. Il lato ovest dell’imponente montagna, che presenta una parete quasi del tutto verticale, non è mai stato solcato da anima viva, mai due amici inglesi tentano l’impossibile. Un’im-

Il primo canile online in Italia, “ilcercapadrone.it”, promosso dall’omonima associazione onlus

Dai produttori dell’horror “Dead Space”, un viaggio tra i dannati ispirato alla Divina Commedia

L’impresa di Simpson e Yates rievocata vent’anni dopo in un bel documentario di Kevin MacDonald

inoltre ai numerosi canili d’Italia che hanno aderito di adoperarsi in un quadro di interconnessione. Non mancano inoltre link a video e articoli di cronaca, comunicati stampa e lettere dei cittadini secondo il dettato imperante del social network. Iniziative, reclami e annunci di manifestazioni fanno del sito un ottimo osservatorio contro la violenza sugli animali. Gli annunci di adozione godono inoltre di ampie e diffuse didascalie sulla condizione di salute degli amici a quattro zampe. Compilate direttamente dai veterinari che se ne prendono cura, le schede sono per i potenziali padroni garanzia di serietà. Sito encomiabile, esempio di una rete che congiunge gli affetti e non li lascia virtuali.

tenzoni, che mantiene inalterata la struttura letteraria dell’Inferno. Un viaggio fra i dannati, colpevoli di lussuria, tradimento, avarizia ed eresia, che i giocatori vivranno in terza persona a testimonianza della immutata freschezza immaginativa del capolavoro dantesco, attuale anche al tempo delle console. Da smilzo e ossuto cantore, il Dante secondo Ea sarà bellicoso e tutt’altro che pio, un implacabile paladino tetragono ai colpi di sventura come non mai. Già disponibile il trailer e alcuni screenshot, l’epica dantesca riveduta e corretta sarà disponibile in versione XBox e Playstation 3. La caccia a Beatrice è aperta.

presa, quella di Simpson e Yates, coronata dal successo e da terribili incidenti. Una straordinaria avventura in bilico fra il cielo e l’abisso, che vent’anni dopo ha riportato i due alpinisti sui luoghi dell’ascesa, nel vivido documentario di Kevin MacDonald, significativamente intitolato La morte sospesa. Fra scorci mozzafiato, campi lunghi che travalicano le nubi, ricostruzioni della scalata e commenti che ricolorano le scene infisse nella memoria dei due alpinisti, l’opera del regista inglese brilla per un’efficace rimanipolazione della tensione e per lirismo narrativo. Rievocazione e terrore, viaggiano a braccetto nei crepacci di un cinema liminare, che riforma lo sguardo senza un effetto speciale.

a cura di Francesco Lo Dico

È


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poesia

Govoni, immaginifico oltre il tempo di Francesco Napoli olto ha scritto Corrado Govoni (1884-1965) della benestante provincia agricola ferrarese e quasi sempre lo ha fatto lontano dai binari della tradizione italiana novecentesca. Per aver tanto prodotto è un autore che ha subìto, se così si può dire, anche un’intensa attività di antologizzazione, inaugurata da lui stesso già nel 1920 con Poesie scelte. Un costume critico che permette di osservarlo forse nella sua dimensione migliore come aveva ben capito Eugenio Montale, sicuro ammiratore di Govoni, che colse l’occasione di una recensione sul Corsera a un’antologia govoniana curata negli anni Cinquanta da Giacinto Spagnoletti per dare un giudizo in merito alquanto esplicito: «Il suo vero dono (il suo immaginismo, il suo naturismo) porta solo genericamente l’impronta di un tempo e fa di lui un tipico poeta d’antologia, fuor d’ogni data e d’ogni storia».

M

GLI ORGANI DI BARBERIA Per la nebbia, per la pioggia e pel sole, lungo le vie dei collegi e dei conventi suonano tutto il giorno le loro canzoni morte, sotto le finestrette con le viole o il basilico, come mendichi insistenti che supplicano l’elemosina con le lor sporte; e una vedova dai capelli bianchi s’affaccia ad ascoltar la musica randagia con il micino candido e affamato sui ginocchi, ed un infermo con dei passi stanchi che à la fronte febbrile cinta di bambagia, s’accosta ai vetri e il pianto gli ristora i deboli occhi. Organi miti che si conformarono a la malinconia dell’antichità! Organi bene amati come i fuochi d’artifizio! Organi dolci che si rifugiarono tutti tutti ne la mia vecchia città come invalidi poveri e malati in un ospizio! Corrado Govoni da Fuochi d’artifizio

Crepuscolare in prima battuta, amico di Corazzini col quale rivaleggia sulla primogenitura del verso libero in Italia, anche se ai tempi era ormai matura nell’aria questa scelta formale; Futurista della prima ora, un po’ alla Palazzeschi se si vuole, con un’adesione convinta, tenuta sul filo della circospezione ma comunque ben aderente al pensiero marinettiano, la sua poetica si delinea per una distinguibile fantasmagoria di temi, ritmi, immagini, colori. Gli è del tutto estranea ogni volontà di scavo interiore in anni, i primi del XX secolo, nel quale lo Spiritualismo sembra in Italia l’alternativa più ricercata alla decadenza del Positivismo. La sua è una poesia che non lascia spazio ad alcunché di astratto. Anzi, proprio la concretezza materiale e un po’ distruttiva del Futurismo sembra attrarlo. Esordì giovanissimo, già nel 1903, pubblicando a sue spese due raccolte intitolate Le fiale e Armonie in grigio et in silenzio. Ma il 1903 è anche l’anno dei Canti di Castelvecchio di Giovanni Pascoli come di Maia di Gabriele D’Annunzio. Per alcuni critici, Sanguineti in primis, il 1903 è anche l’anno che segna nel calendario della nostra letteratura poetica l’inizio del Novecento del quale il nostro è sicuro protagonsita. Govoni appare in queste prime prove aver già fatto i conti con i due maggior corni dell’Italia poetica di allora, li ha assunti a piena gola con sorsate lunghe ma autenticamente proprie, assimilandoli secondo un suo precipuo gusto. Il duplice e contemporaneo esordio incuriosisce, non ricordo casi analoghi. La curiosità cresce quando si scopre come le due opere sono sostanzialmente il positivo e il negativo della medesima foto, con ampi tratti speculari e simmetrici e con una sorta di complementarietà: il primo posizionato sul versante esotico, e debitore di D’Annunzio; il secondo sul registro umile, con non pochi debiti verso Pascoli. «Peregrinità, dunque, e quotidianità, ma entrambe iscritte all’insegna del sublime:

sublime d’en haut e sublime d’en bas» (Tellini) sono i segni forti e distinguibili di queste raccolte. Oltre questi debiti nostrani, Govoni sembra fortemente intriso di quella temperie tardosimbolista francese e fiamminga che lo porta a diventare una sorta di cantore, ironico quanto autoironico, dell’organetto di Barberia e di molti temi provenienti da quell’area culturale. Lo fa seguendo un profilo basso con accostamenti talvolta folgoranti: «bianchi nenufari» incastrati «con nappe pendule di pannolini» e «ineffabili azalèe» e «candide ninfee» a far coppia con un «leccio intisichito». Un repertorio tutto crepuscolare, certo, fatto di oggetti talvolta disposti anche in puro senso elencativo come quando, un po’alla Mallarmé, Govoni cerca di trovare le cose che fanno un colore, «Limbo ed esilio, avvento ed innocenza./ Abdicazione. Prima comunione/ delle cose. Eden. Rinunziazione./ Digiuno bianco. Pallida astinenza» (Bianco), in tutti i sonetti (la misura govoniana per eccellenza) della corona delle «Poesie d’Arlecchino» degli Aborti. Un gusto particolare al quale anni dopo guarderà con non poco interesse un Leonardo Sinisgalli particolarmente attratto dalle soluzioni del Govoni fantaisiste.

Dopo la pubblicazione di Le fiale, si dedicò soprattutto a una continua attività di scrittura, lui che aveva compiuto studi che definirli irregolari è già un eufemismo, iniziando un’intensissima serie di collaborazioni con le più prestigiose riviste dell’epoca: da Lacerba a Riviera Ligure di Novaro, da La Diana di Gherardo Marone a Poesia di Marinetti. Era sicuramente attratto dal multiforme ingegno di Filippo Tommaso e le due raccolte successive, ravvicinate tra 1905 e 1907 (Fuochi d’artificio e Gli aborti), segnano decisamente il suo passaggio alla sponda della roboante avanguardia. Vi aderì entusiasta, o quasi, ma nonostante le molte concessioni al gusto futurista nelle successive raccolte, Poesie elettriche (1911) pubblicata proprie nell’edizioni della rivista milanese e Rarefazioni e parole in libertà (1915), Govoni definì «un gioco» tale adesione però, a occhio, il paroliberismo e la grafica delle prove raccolte proprio in Rarefazioni appaiono più di un gioco, sembrano denunciare una convinzione che va ben oltre eventuali atteggiamenti ludici. Avrà voluto smarcarsi Govoni dall’egemonia fin troppo ridondante di Marinetti, ma dopo questa stagione, forse anche perché costretto a dedicarsi ai mestieri più vari per far fronte al tracollo economico della sua famiglia, non ha avuto la forza di ritrovarsi. Trascorsa la fase futurista, Govoni continuò a comporre una poesia ricca di immagini ma caratterizzata da una maggiore essenzialità, da Aladino (1946) alla postuma La ronda di notte (1966). Il meglio, però, lo aveva ormai già consegnato con i primi anni della sua attività riassunti nell’indicativa autoantologia già citata, Poesie scelte, all’altezza del 1920.


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il club di calliope Il contegno è non perdersi dietro alle piccole paure e confrontarsi con la grande. E la preghiera più giusta, più vera: «Uniscimi, Signore, al resto del mondo, agli altri, agli alberi, alla terra». Ma alla condizione umana non erano date le luminose altezze, né le buie profondità, né le ariose lontananze. Cesare Viviani da Credere all’invisibile Einaudi

LA SOLITUDINE DI LORCA ALLA COLUMBIA UNIVERSITY in libreria

di Giovanni Piccioni arlo Bo tradusse la raccolta Poeta a New York di Federico Garcia Lorca due volte, nel 1962 e nel 1975. È un merito di Einaudi aver riproposto una nuova versione del testo del grande poeta di Fuentevaqueros nella collana Collezione di poesia, a cura di Glauco Felici. Un breve passo tratto dall’introduzione di Bo del 1965 a un volume di Guanda che comprendeva alcune raccolte dell’autore del Lamento per Ignazio chiarisce che siamo in presenza di «uno dei rari fenomeni di esplosione poetica del nostro tempo… soltanto per Lorca si ha la sensazione di un movimento di grazia, di un intervento irresistibile, di spontaneità riassorbita dall’arte che altrove non c’è mai stato». E che strappa «alla violenza del grido una parola umana, placata, quasi serena nell’eco della disperazione».

C

della borsa. Conosce Prezzolini. A Natale prende la Messa di mezzanotte in una chiesa cattolica. A marzo va a Cuba, dove conosce un tempo di felicità. «Se mi perdo, cercatemi in Andalusia o a Cuba», scrive in una lettera. Sei anni dopo il ritorno in patria gli eventi precipitano. Prima di partire per Granada consegna a un amico redattore di una casa editrice i versi scritti in America e a Cuba. Il giorno in cui scoppia la guerra civile viene assassinato da truppe falangiste. Le poesie verranno pubblicate nel 1940. Poeta a New York si articola in dieci sezioni. Alcuni titoli sono sufficienti a dare un’idea dell’opera: Poesie della solitudine alla Columbia University, I negri, Strade e sogni, Introduzione alla morte, Fuga da New York. Una successione di immagini audaci e tormentate, incalzan-

Ristampata a cura di Glauco Felici la raccolta “Poeta a New York”, già tradotta da Carlo Bo. Dieci sezioni in cui si avverte “l’esplosione poetica” dell’autore del “Lamento per Ignazio” Il poeta arriva a New York nel giugno del 1929, trentunenne, in fuga dal regime di Primo de Rivera: prova simpatia e interesse per la vita degli afroamericani della società moderna più evoluta ed è stimolato dalle letture di Whitman, Eliot, Dos Passos. Contemporaneamente viene a contatto con la civiltà industriale e percepisce la condizione desolata di gran parte dei newyorkesi. «È il controcanto», secondo la definizione di Felici, addolorato di tanti versi del libro. A Whitman dedica un’Ode indimenticabile, ne citiamo tre versi: «Ma nessuno si addormentava,/ nessuno voleva essere il fiume, nessuno amava le foglie grandi,/ nessuno la lingua azzurra della spiaggia». Conosce Hart Crane e vive la propria sessualità senza inibizioni. A Wall Street si fa un’«idea chiara» della gara per il denaro. In ottobre assiste al crollo

ti evoca i contrasti drammatici e la peculiare bellezza di New York: «Il mondo solo nel cielo solo/ e il vento all’uscita di tutti i villaggi…/ Oh fiume grande mio./ Oh brezza mia dai limiti che non sono miei./ Oh lama del mio amore, oh lama che ferisce». Oppure: «Oh croce! Oh chiodi! Oh spina!/ Oh spina ficcata nell’osso fino a che si ossidino i pianeti!/ Poiché nessuno voltava la testa, il cielo poté denudarsi./ Allora si udì la gran voce e i farisei dissero: “Quella dannata vacca ha le tette piene di latte”./ La folla chiudeva le porte/ e la pioggia scendeva per le strade ben decisa a bagnare il cuore…». Infine la fuga dalla metropoli, l’arrivo a L’Avana, una vita naturale: «Quando viene la luna piena andrò a Santiago di Cuba,/ andrò a Santiago/ in un cocchio d’acqua nera./ Andrò a Santiago./ Canteranno i tetti di palma…».

UN POPOLO DI POETI Ho sete… sete chiusa in un sarcofago di cristallo il tuo esile respiro in pasto ad un popolo corrotto Ho sete… imploravano i tuoi silenzi le tue labbra che mai più pronunciarono affetto mai più alle tue orecchie la voce di un padre Ho sete… Caino, che hai fatto? «sono forse io il custode di mia sorella?» muore ancora Abele il giusto per mano di falsa pietà Ho sete… si divisero i tuoi ricordi sul tuo corpo tirarono la sorte sorte decisa con ingiusta sentenza fu tolta di mezzo con giudizio di antiche menzogne Ho sete… non c’era più acqua in cima alla canna di spugna d’aceto dal tuo costato neanche una goccia della vita che ti spensero Ho sete… si spaccò il tuo cuore con muto grido ma Salvezza ha parlato e.lui.ama non abbandonerà la tua vita nel secco sepolcro né lascerà che la sua Santa veda la corruzione E lui ama Luca Rossetto

Lei, la morte morirà tra queste pietre, già eterne. Il nostro eterno lo abbiamo consumato nelle parole, nei sorrisi, nelle corse sui prati, o in sguardi rapiti da siepi di sole. Che importa se resteranno le pietre e noi no. Eppure sento che avremo ancora tante cose, da dirci pianissimo, senza respiro. Senza l’energia del pianto. E poi, ritorneremo, quando tutto sarà normale. Pietre Martino «Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

è una fotografia, meravigliosa di Mulas, nel raccomandabilissimo catalogo Electa su Carlo Cardazzo, Una nuova visione dell’arte, in cui l’ambiguità è sovrana e morde. Con una cannetta da passeggio e la sua aura da divo di Hollywood, trapiantato pigramente a Venezia, i baffi stanchi alla William Powell, imbozzolato dentro la sua milanese galleria del Naviglio e attorniato dagli amici spazialisti, da tele di Tancredi e da un giovane Arnaldo Pomodoro, Cardazzo compare come un’epifania misteriosa, non capisci se nel vano d’una porta - con gradino interno alla galleria, quella stessa porta, nel retro, firmata da tutti i grandi pittori, come una celebre opera di Picabia - oppure riprodotto in icona, dentro un manifesto: fotografia dentro la fotografia, «messa in abisso». Indecifrabile. Ma non potrebbe esserci miglior icona, sfuggente, di questo grande e rivoluzionario collezionista, che scompare giovanissimo cinquantenne nel 1963, che amava le immagini, la musica, i libri, e che da ricco figlio d’un importante costruttore veneziano, impegnato anche in notevoli opere pubbliche, si trasformò, poco a poco, in geniale e innovativo gallerista («tutto è meglio che svegliarsi alle quattro di mattina, per andare in cantiere») e che rivoluzionò davvero, quasi da solo, con la complicità della sola «veneziana» Peggy Guggenheim e di pochi altri, il gusto paludoso del timido collezionismo italiano. E anche, se vogliamo, la storia stessa dell’arte nostrana militante, aprendosi allo spazialismo e a Fontana, senza dimenticare il suo amato surrealismo «minore» (allora non certo di moda) incarnato da Tanguy, Brauner e da Matta, che riuscì in un gesto anticipatore e scandaloso a portare sin sulle sacre pareti delle Sale Napoleoniche del Correr. Libero nei gusti e nelle scelte, da vero intenditore che rischia e punta su cavalli bizzarri ma promettenti, quello che si ammira oggi in lui, con gran nostalgia - e questa mostra lo documenta in modo apprezzabilissimo - è la sua apertura mentale mai dogmatica, che non conosce steccati, museruole, imperativi categorici di modernità calvinista. Capace di mettere Carrà di fronte a un Kline (vedi simbolica fotografia in catalogo) e di far infuriare di gelosia Vedova di fronte a un Pollock-rivale, di sposare Eugene Bergman con Pollock, Léonor Fini con Cy Tombly, di esporre per primo Anthony Caro o Dubuffet, Jasper Johns o Rotella, senza mai tradire i «suoi» Gentilini, Cesetti, De Pisis. Così come di farsi ritrarre «borghesemente» da Campigli e insieme «scompostamente» da Asger Jorn, il primo Co-

C’

La rivoluzione di Cardazzo di Marco Vallora

Giuseppe Capogrossi, “Superficie 512”, 1963 (© Giuseppe Capogrossi, by Siae 2008) Sopra, Carlo Cardazzo e Capogrossi davanti allo stesso quadro (Courtesy Archivio del Cavallino)

arti

bra che «importa» in Italia. Ma è impressionante la lista che si legge in catalogo, a firma del valente curatore Luca Massimo Barbero, di tutte le «prime notti», anche mondiali, di artisti allora misconosciuti, che lui tiene a battesimo, preveggente senza confronti. Dapprima nella sua veneziana Galleria del Cavallino («impiantata» da Carlo Scarpa, così come il Padiglione dei Libri della Biennale, di cui lui è un sotterraneo, decisivo fiancheggiatore, nelle novità, che prima però passano di rigore dalla sua bottega) a quella milanese del Naviglio. Nel ’42, a New York, Peggy apre la rivoluzionaria Galleria Arte di questo secolo, affidandosi a un genio dell’architettura funzionalista, come Frederick Kiesler: un primordiale ventre molle, semovente, nel cuore della modernità. Cardazzo, a Venezia, apre il Cavallino e si rivolge a Scarpa, che gli disegna un antro pulitissimo e seducente, comunque un antro specchiato, razionalissimo, nel cuore d’una città che agonizza: i due collezionisti hanno idee parallale, intuizioni comuni, lei il surrealismo e l’espressionismo astratto, lui il surrealismo e lo spazialismo. Ma poi, in laguna, si scambieranno gli amori. È sottile l’intuizione che Barbero propone, in questa sorta di «vita parallela», tra Peggy Guggenheim e Cardazzo, nel clima ostile d’una Venezia renitente e gonfia di gelosie (hanno stima reciproca, i due, ma non saranno mai amicissimi. Fanno «affari» insieme, ma sono affaires nobili, non solo mercantili, lanciando artisti difficili e vulnerabili, come Tancredi, l’amante-suicida di Peggy, o Pegeen Vail, la figlia, visionaria e non meno autolesiva). C’è un’altra fotografia, bella e terribile: la «tipografia» disastrata del Cavallino, dopo l’alluvione. Una montagna perduta di magnifici testi per bibliofili, dove intravedi macerati i nomi di Carrà, Scipione, Joyce,Valery. Perché Cardazzo, amico di poeti quali Ungaretti e Sinisgalli, dopo essersi volto alla fotografia «alla Moholy Nagy» e al cinema, in senso pittorialista-astratteggiante (di puro montaggio, alla Ivens-Pasinetti) si dedica anche a una collana, oggi ricercatissima, di libri eccentrici, da Lautreamont a Savinio, da De Chirico a Carrieri: «controllare i nostri capricci, sposare, se ci riesce, Mondrian a Bodoni...». Guarda caso, il primo volume è l’autobiografia raccontata di Peggy, prefazione di Alfred Barr: Una collezionista ricorda.

Carlo Cardazzo. Una nuova visione dell’arte, Venezia, Fondazione Guggenheim, fino alla fine di febbraio, catalogo Electa

diario culinario

Quando pane, burro e alici è cibo da re

di Francesco Capozza affaccio alla finestra e vedo il mare: vanno le stelle, tremolano l’onde. Vedo stelle passare, onde passare: un guizzo chiama, un palpito risponde. Ecco sospira l’acqua, alita il vento: sul mare è apparso un bel ponte d’argento. Ponte gettato sui laghi sereni, per chi dunque sei fatto e dove meni?». Così scriveva Giovanni Pascoli nel 1892, chissà ispirato da quale paesaggio marittimo della Romagna, sua regione natìa. Di certo, se il Poeta fosse vivo oggi, potrebbe scrivere quegli stessi versi seduto a uno degli eleganti ancorché minimalissimi tavoli del ristorante di Mauro e Katia Uliassi, proprio sulla banchina di Levante di Senigallia. E dai tavoli di Uliassi si gusta davvero il mare, con tutti e cinque i sensi. Con la

«M’

vista, perché basta alzare lo sguardo dal piatto ché le onde del mare sembrino infrangersi sulle finestre del ristorante. Con il tatto, perché alcuni piatti come lo Scampo zen si è invitati a mangiarli senza posate. Con l’olfatto, perché ogni creazione di Mauro profuma intensamente di mare, di iodio. Con il gusto perché, nemmeno a dirlo, qualsiasi pietanza qui innesca delle reazioni (talvolta al limite del piacere fisico) palatali indescrivibili. Uliassi è questo, ma è anche molto di più. È, per esempio, un’accoglienza straordinariamente piacevole e gentile curata dalla bellissima Katia, sorella di Mauro e sua nemesi al timone di questa ideale nave del gusto. È una cantina strepitosa, dove la selezione di bollicine è pari solo a quella dei bianchi marchigiani. È uno dei menù più interessanti d’Italia, con alcune preparazioni che potrebbe-

ro già essere iscritte nell’albo d’oro della cucina italiana. Quest’anno, poi, a dar linfa vitale e ulteriore gioia è arrivata la meritatissima seconda stella Michelin che sommata ai già altissimi riconoscimenti delle guide gastronomiche italiane ha fatto schizzare (ed era ora!) questo paradiso ai primi posti nella classifica dei ristoranti migliori d’Italia. Un unico problema attanaglierà il cliente una volta seduto a uno dei tavoli di Uliassi: la scelta del menù da assaggiare. Prendere il degustazione Uliassi 2005-2008, grazie al quale è possibile assaggiare una serie di piatti che hanno fatto la storia recente del ristorante (da primo premio: Patate, ostriche, gelato di cipolla di Tropea caramellata e cacao, oppure il Pane, burro, alici & alici all’arancia con gelatina di mandarino per non parlare dell’Infuso al lemon grass, gorgonzola, finocchio,

granita di latte di mandorla e sorbetto alla pera)? Ovvero scegliere il menù Tutto Crudo, ove spiccano per incredibile bontà la Tagliatella di seppia e pesto di alga nori e la meravigliosa Esquisada di baccalà? O, ancora, optare per il divertente menù 7 Corse? Da quest’ultimo, però, chiedete di estrapolare, almeno in un assaggio, gli Spaghetti affumicati alle vongole con pendolini alla griglia: un’esperienza ai limiti del misticismo. Un consiglio: chiedete allo chef di farvi fare un percorso concordato con lui nel prezzo e nel limite delle portate, siamo certi che rimarrete entusiasti e divertiti. Perché nel migliore ristorante di pesce d’Italia, il divertimento è assicurato.

Ristorante Uliassi Banchina di Levante 6, Senigallia (An), Tel. 071 65436 - info@uliassi.it


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teatro

Quell’aggraziato parlar di nulla sulle orme della Storia di Enrica Rosso talia 1978. Lui: «Buongiorno, sono Marco Rozzi, sono dell’Ariete». Lei: «Buongiorno, io sono della Bilancia». Lui: «Ma no, il giornale l’Ariete!». L’intervista di Natalia Ginzburg per la regia di Valerio Binasco, in scena al Teatro Eliseo di Roma fino all’inizio di marzo, si autodenuncia dalla prima battuta come una commedia agrodolce. Ultima in ordine di scrittura delle nove produzioni teatrali della Ginzburg nonché seconda prova d’amore di Binasco per la prosa dell’autrice (ri-

I

sale al 2005 l’allestimento di Ti ho sposato per allegria).Tre i personaggi in scena più uno presente solo nell’immaginario di chi racconta o ascolta, ma che è il vero motore della storia, quello per cui tutto accade. Ma andiamo per ordine: il giovane ed entusiasta Marco Rozzi, fresco inviato del giornale l’Ariete si intestardisce a voler incontrare, scopo intervista, Gianni Tiraboschi, intellettuale di chiara fama che, dandogli sempre buca, lo costringe, en attendant, a intrattenersi con la di lui compagna Signora Ilaria.

architettura

Tra i due si instaura da subito un rapporto fatto di incantevoli timidezze e slanci improvvisi, divagazioni gentili e grandi complicità, tipico di chi è abituato a fare i conti con quella solitudine interiore che genera solidarietà. Lo stesso incontro mancato si ripeterà, con lo stesso esito, a distanza di un anno e in ultima istanza dieci anni dopo concludendosi però, dopo il solito preludio, con la tanto agognata intervista del titolo, ormai depauperata del suo significato originale. Si unirà a loro, sempre sfuggente, al limite della ritrosia, la figliola dello studioso, gustosa adolescente. A fare da sfondo un decennio di storia italiana filtrata attraverso il vissuto dei tre. Una scrittura aggraziatissima quella di Natalia Ginzburg, intelligente e ironica, delicata, molto femminile; già da sola ci intrattiene con leggerezza durante i novanta minuti della rappresentazione. Estremamente rispettoso l’approccio del regista Valerio Binasco che per non perdere nulla per strada di questo piccolo capolavoro è attento a

non sovraccaricare tanto l’impianto scenico quanto quello interpretativo. Un teatro di parola, un tempo durante il quale non succede praticamente niente a livello di azioni, un parlar di nulla che trova forma e si concretizza grazie all’abilità degli interpreti. Maria Paiato, gentile, acuta, rilassata, sensibilissima, capace di affidare a un gesto la luce interiore del personaggio, un’attrice generosa che ha al suo attivo una galleria di personaggi memorabili a cui aggiungere questa Ilaria, trova pane per i suoi denti in Valerio Binasco che smessi i panni del regista, entra in scena a cesellare l’emotività del protagonista. Due strumenti perfettamente intonati. La scena monolitica di Antonio Panzuto, grande sala d’attesa della vita, come la punta di un iceberg diventa luogo d’incontro di realtà diverse. L’illuminazione di Pasquale Mari è anch’essa morbida, sobria, e traccia il trascorrere delle ore. Gli abiti scelti da Sandra Cardini sono trascinanti nel segnalare la loro appartenenza a un’epoca dietro l’angolo, ma che sembra già preistoria. Le musiche composte per l’occasione da Antonio Di Pofi dilatano il tempo e ne onorano il passaggio dandoci la possibilità di riflettere sul vissuto dei personaggi.

L’intervista di Natalia Ginzburg, Teatro Eliseo fino al 1 marzo, Info: 06-4882114 - www.teatroeliseo.it

I pericoli (visti dall’alto) dell’American way of life di Marzia Marandola entre in Italia si dibatte per mesi se costruire o meno un edificio alto in qualche piccolo paesino dell’entroterra, soppesandone l’impatto con il contesto urbano, negli Stati Uniti, dove la popolazione raggiunge i 300 milioni di persone, si ingombrano aree sterminate con casette unifamiliari. Se infatti nelle grandi città sono i grattacieli a tenere il campo, nelle zone suburbane si verifica un fenomeno poco conosciuto, ma molto preoccupante per il consumo enorme di territorio che comporta. Si tratta della costruzione di estesissimi insediamenti residenziali che, costituiti di villette unifamiliari, sono paracadutati in aree desolate, pressoché desertiche. Negli Usa si prevede entro il 2030 un aumento della popolazione di 60 milioni di abitanti; sono previste di conseguenza, oltre alle case in sostituzione di quelle distrutte da calamità naturali, nuove residenze per un totale di 60 milioni di unità, a cui si devono aggiungere gli edifici per il terziario. L’abbondanza di territorio disponibile degli Usa consente agli immobiliaristi di acquistare a prezzi irrisori enormi appezzamenti di terreno, in aree periferiche lontane da centri urbani e dotate di un unico requisito: la prossimità di un asse stradale. La ten-

M

denza attuale dell’edilizia americana consiste nella costruzione di case unifamiliari di grandi dimensioni, con giardino e back yard, a prezzi relativamente contenuti, in quanto localizzate in località isolate e mal collegate ai luoghi di lavoro e di svago. La grande richiesta di residenze unifamiliari ha dapprima indotto e poi incentivato queste iniziative immobiliari sconsiderate, che in aree isolate nel cuore dell’America, hanno costruito migliaia di unità residenziali, monadi isolate, prive di ogni minimo spazio comune e di relazione. Oltre l’alienante situazione sociale che questo modello di sviluppo urbano compor-

ta, esso è anche all’origine di un colossale spreco di territorio e di risorse comuni, poiché esige altissimi costi di trasporto dell’energia elettrica, di costruzione degli impianti idrici e fognari; inoltre obbliga al ricorso costante all’automobile, anche solo per i più piccoli acquisti quotidiani. Le straordinarie quanto impressionati immagini aeree di questo fenomeno che sta stravolgendo il territorio americano sono raccolte in un corposo volume dall’eloquente titolo Over. American way of life. Una minaccia ecologica vista dall’alto. Le spettacolari foto sono di Alex MacLean, pilota e fotografo statunitense, che alla guida di un piccolo aereo, da più di trent’anni sorvola il paese, documentandone la perenne trasformazione per mano dell’uomo. Dai paesaggi agricoli, alle zone industriali, alle fitte maglie della città, MacLean racconta attraverso le immagini, il cambiamento del paesaggio americano, affidando all’evidenza visiva la valutazione delle conseguenze drammatiche di uno stile di vita egoistico e noncurante della non rinnovabilità delle risorse del pianeta. Alex MacLean, Over. American way of life, una minaccia ecologica vista dall’alto, 22publishing, 336 pagine, 49,90 euro


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i misteri dell’universo

arlerò di tre studiosi italiani, che considero fra i grandi della cultura italiana del Novecento, il primo morto da una ventina di anni, gli altri ancora attivi, anche se Alinei ha superato gli ottant’anni: ma sappiamo di studiosi le cui opere maggiori sono uscite quando avevano più di novant’anni, come Schieldman, il decifratore della misteriosa lingua della Vallindia, e il grande biologo Mair, il cui opus magnum è uscito quando aveva 93 anni. Giuseppe Tucci, indologo, tibetologo, conoscitore di molte lingue (Fosco Maraini era affascinato dalla naturalezza con cui passava dal sanscrito all’urdu al tibetano) fu studioso affascinato dall’India e dal Tibet, viaggiatore in territori mai visitati da occidentali, raccoglitore di documenti sconosciuti che fotografava se non poteva portarli con sé (cosa non difficile, dato lo stato di degrado culturale e morale dei monaci, facilmente corruttibili), e scrittore affascinante. Nei suoi numerosi viaggi, accompagnato da un’infermiera che poi sposò e che vive ritirata in un piccolo paese di montagna del Lazio, fu per un certo periodo accompagnato dal giovane Fosco Maraini. Questi da lui ebbe lo stimolo per la successiva carriera di antropologo in Giappone, dove si recò accompagnato dalla famiglia, finendo in un campo di concentramento durante la guerra (vedasi La nave di Kobe di Dacia Maraini, per me il più bello dei suoi libri).

MobyDICK

ai confini della realtà

P

Maraini aveva risposto all’annuncio di ricerca di un fotografo definendosi tale pur senza averne alcuna seria esperienza. La documentazione che diede attraverso meravigliose foto in bianco e nero nel libro Tibet segreto è straordinaria. Entrambi donnaioli, i rapporti fra i due si deteriorarono perché Maraini aveva spesso più successo di Tucci, tanto da conquistare la bellissima principessa del Sikkim che gli fece capire il suo sì facendo cadere un profumato fazzoletto di seta rossa. Altri tempi, come quelli in cui Claudia Muzio, il soprano che Montale chiamò divina, si recava alla Scala su una carrozza trainata da cavalli bianchi e coperta di rose bianche… Felice Vinci è giunto alla mia attenzione grazie al professor Di Trocchio, storico della scienza. Vinci, ingegnere nucleare impegnato in un’azienda ex Enel finalizzata a decidere cosa fare delle centrali dismesse, ebbe tutto il tempo di meditare su uno dei più studiati problemi della cultura occidentale, ovvero la questione omerica. Grande conoscitore dei testi (li ha letti una ventina di volte, utilizzando la versione di Rosa Calzecchi Onesti, teologa e grecista, novantenne nipote di uno dei due scopritori della radio trasmittente, ovvero Temistocle Calzecchi Onesti, essendo l’altro Righi, non Marconi!), e dell’era del bronzo, Vinci ha affrontato l’accusa a Omero di essere ignorante, in quanto la geografia omerica nel Mediterraneo darebbe luogo a inaccettabili errori, definiti dai commentatori libertà poetiche (scappatoia solita per chi non sa le cose). Notando anche che gli aspetti climatici in Omero (nevi-

Achei e Troiani? Venivano dal Baltico… di Emilio Spedicato cate, mare plumbeo, camini accesi e matrone impellicciate) non si accordano con il Mediterraneo, Vinci ha arguito in una sostanziosa monografia che l’epica omerica si sia svolta nella zona del Baltico e durante l’ottimo climatico, quando la vite cresceva in Svezia meridionale. Da tale zona gli Achei, i Danai etc. si sarebbero poi mossi verso il Mediterraneo usando i fiumi della Russia. Gli antenati degli Achei sarebbero vissuti in Danimarca e Svezia meridionale, quelli dei Troiani in Finlandia. Il suo libro, Omero nel Baltico. Saggio sulla geografia omerica (Pa-

mente fra l’809 e il 799 a.C., quando visse Omero, che per tenere insieme i combattenti greci provenienti da città spesso fra loro ostili, sviluppò un’epica basata sulla memoria di eventi di 700 anni prima… Durante la guerra di liberazione dell’Arabia dal controllo turco verso il 1920, cantori arabi svolsero lo stesso ruolo, vedasi il libro I sette pilastri della saggezza di Laurence d’Arabia.

Mario Alinei è stato professore a Utrecht e ora lavora nella sua trecentesca villa vicino a Firenze. È uno dei maggiori studiosi del secolo di

Nevicate, mare plumbeo, matrone impellicciate. Alcuni aspetti climatici e geografici descritti da Omero hanno suggerito a Felice Vinci l’ipotesi che l’epica omerica sia ambientata nella penisola scandinava. Durante l’ottimo climatico, quando la vite cresceva in Svezia, prima dell’esplosione di Fetonte lombi editore) è stato tradotto in inglese, russo, estone ed è lettura obbligatoria in vari corsi universitari in Usa (ovviamente non in Italia, nemo propheta in patria). Chi scrive aggiungerebbe solo che l’evento che ha mutato il clima e prodotto la migrazione fu l’esplosione di Fetonte sopra la Germania del Nord nel 1447 a.C.. E che altre guerre fra Achei e Troiani si ripeterono poi nello scenario Mediterraneo, l’ultima probabil-

dialetti e dell’indoeuropeo, dove sostiene l’inesistenza di una invasione indoeuropea, tesi ora anche di vari studiosi indiani, fra cui Subhash Kak. E in una straordinaria monografia, usando la sua conoscenza delle lingue del gruppo ugro finnico, sostiene che l’etrusco sia antico magiaro. Qui aggiungo mie considerazioni relative alla geografia dell’origine degli Etruschi. I magiari, localizzati fra Pamir e Altai, furono la

tribù, o un insieme di tribù, che per prima forse sviluppò la tecnologia dei metalli e la lavorazione dell’oro. Il loro nome può derivarsi da magi=nagy=grandi e ari=arani=oro, i grandi nel lavorare l’oro. Dovevano essere addetti anche alla lavorazione dell’oro della miniera di Ophir, sul Kailas, la sacra montagna nel Tibet, trono di Shiva. Un loro gruppo lavorava in India, nella città di Tharsis (nome derivabile da altra parola per oro, tharasa), producendo gioielli sia per uso locale che per esportazione. Alcuni certo seguivano come specialisti nelle lavorazioni metalliche i Panis, i grandi navigatori dell’India, nelle loro mete verso Egitto e Mediterraneo. Quando gli Assiri con Nino e Semiramide conquistarono il bacino dell’Indo, da Tharsis mossero verso il Mediterraneo, nella zona di Tarso e Tursa da cui fuggirono in Toscana, con il greco nome di Tursenoi, da cui il nostro Etruschi, quando gli Assiri conquistarono Siria e Anatolia. (Gli assiri amavano scuoiare vivi i rappresentati dell’élite e appenderne le pelli sulle mura della città. Onore non a tutti gradito). Un arrivo quindi in Italia dall’Oriente, come affermato dagli antichi, iniziato dalla regione dell’alto Jenisei, via India e costa mediterranea fra attuale Siria e Turchia. Si noti che i Magiari solo in parte arrivarono in Ungheria nel IX secolo, al tempo di Gengis Khan erano ancora presenti nelle regione originaria.


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