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SUPPLEMENTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

SHYLOCK A GAZA

Attualità (e universalità) di Shakespeare

di Nicola Fano ettiamola così: se io fossi ebreo, finanzierei un allestimento del Mercanto e applauda. Ossia: il teatro deve sopravvivere e deve avere successo; e le due Un te di Venezia a Gaza. Sì, quello di Shakespeare; in mezzo alle bomcose sono correlate. Si sopravvive solo se si ha successo; questo fa dei teatranti dei vanitosi cronici, anche se è dubbio che ci si possa misurare be, ai ragazzini usati come scudi umani, ai fanatici del pietiallestimento diciamo da giovani, aspiranti teatranti - se non si è almeno un po’ smo. Sovvenzionerei uno spettacolo del genere perché del “Mercante ammalati di vanità. Shakespeare non faceva eccezione: era potrebbe forse spiegare in modo chiaro, diretto, alcune ragiodi Venezia” nella Striscia teatrante nel senso di attore, prima che autore. Giammai ni di quel conflitto altrimenti difficilmente dicibili. Ecco: poeta. Il suo sostentamento dipendeva dal successo cercherò prima di sostenere il perché e poi il come. spiegherebbe qualcosa di più delle ragioni delle sue produzioni, le quali dovevano ricamaMa le due cose sono collegate, come vedrete. di Israele. Che come l’ebreo descritto dal Bardo, re emozioni forti su qualcosa di riconoscibili al Dunque, il perché. Perché Shakespeare si può tiprovocato in continuazione, esplode proprio pubblico. Nel senso che - come è noto - il porarlo per la giacca come si vuole. Non parlo della poevero Shakespeare non guadagna in diritti d’autore ma per sia (quella è materia da accademici): parlo di teatro. Il quain una reazione forse eccessiva le teatro se ne frega, di norma, della poesia: ha bisogno di emola quota d’incassi che gli spettava in quanto co-produttore degli ma certo zionare non per elevare il cuore e l’anima, ma per far sì che ciascuno spettacoli della sua propria compagnia. motivata... spettatore pagante torni la sera appresso, e la sera dopo ancora mandi in continua a pagina 2 platea un amico, un fratello, uno zio o chi vi pare a voi, purché paghi il bigliet-

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9 771827 881301

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ISSN 1827-8817

Parola chiave Lavoro di Sergio Belardinelli Franz Ferdinand meglio se di notte di Stefano Bianchi

NELLE PAGINE DI POESIA

Giovanni Pascoli le vibrazioni del mondo di Filippo La Porta

Quell’ungherese a Casablanca di Orio Caldiron Benjamin Button senza ironia di Anselma Dell’Olio

Due missionari della scultura di Marco Vallora


Shylock a

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segue dalla prima

viene da ricchezze accumulate da ebrei, da atei, da cattolici o da mormoni. E non serve nemmeno riportare, qui, i versi celeberrimi della prima scena del terzo atto: «Non ha occhi, un ebreo? Non ha mani, un ebreo? Non ha mani stomaco statura sensi affetti passioni? Non sente anche lui le ferite? Non è soggetto anche lui ai malanni e sanato anche lui dalle medicine; scaldato e gelato anche lui dall’estate e dall’inverno come un cristiano? Se ci pungete non diamo sangue, noi? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci offendete non dovremmo vendicarci?». Insomma, il fatto è che Shakespeare ha una simpatia sincera per Shylock. Di questo sono convinti un po’ tutti i suoi studiosi. Una simpatia teatrale, naturalmente, non ideologica, perché da quel punto di vista era inevitabilmente preconcetto per ragioni pratiche: alla fine del Cinquecento ebrei erano i soli banchieri (specie in Venezia, appunto) che si rendevano disponibili a prestare soldi agli attori, ritenuti - giustamente - clienti non sempre solvibili data la complessità dei loro traffici economici (mode, gusti volubili del pubblico, ma anche dazi incerti e differenti da città a città, da piazza a piazza). Simpatia scenica, proprio, quella di Shakespeare. Ma egli conosceva le preferenze del suo pubblico, sicché a Shylock, che pure è il protagonista assoluto del copione, non assegna il titolo dell’opera, che anzi è destinato a un personaggio tutto sommato secondario, nonché antipatico, sommessamente vanaglorioso (fa tump tump tump non solo a Shylock, a quanto pare, leggendo fra le righe), animato più da passione omosessuale nei confronti di Bassanio (il protagonista negativo dell’opera o lo stupido, per dirla tutta) più che da amicizia del tutto disinteressata, come dimostra una certa freddezza non solo iniziale nei confronti della di lui amata Porzia (la vera protagonista dell’opera, ma come titolarla La mercantessa di Belmonte in provincia Venezia?).

Cioè i Lord Chamberlain’s Men prima e King’s Men dopo: i quali non mettevano in scena esclusivamente testi del socio Shakespeare (ex attore, per altro), ma certo quando mettevano in scena i testi del socio guadagnavo molto di più. Ed ecco la ragione per la quale Shakespeare aveva a cuore il successo: guadagnare, spedire rimesse in sterline alla moglie e ai figli rimasti a Stratford, togliersi qualche soddisfazione immobiliare (tipo comprare la più espansiva dimora privata della sua città natale; o investire in appartamentini londinesi). E non è che il mercato immobiliare non sia poetico (avrei comunque qualche dubbio, soprattutto pensando a un Coppola, a un Ricucci), ma certo quando la prima esigenza è quella di mettere insieme il pranzo con la cena è molto probabile che la poesia passi in secondo piano. Il guaio è - semmai - che una volta preso l’abbrivio del guadagno, ci si adagia sugli agi e scivolare da un coscio di montone a una villetta il passo può essere breve.

A dirla cruda: Shakespeare se ne fregava della poesia (milioni di indizi lo certificano) ma gli era indispensabile avere successo quindi usava storie universali, capaci di suscitare immedesimazione in chiunque a qualunque livello sociale o culturale (a teatro nella Londra elisabettiana andavano proprio tutti, beati loro). Le sue storie sono generiche - almeno a un livello di lettura immediato - proprio perché devono arrivare a tutti e prestarsi a qualunque lettura. Ragione per la quale nella vicenda di Riccardo III, poniamo, noi oggi possiamo leggere sia la storia inglese del Quindicesimo secolo (lo fece pure Shakespeare direttamente); sia la genesi eroica della conquista del potere da parte della dinastia Tudor (che avvenne un secolo dopo e il cui trionfo a Shakespeare stava ben a cuore); sia la parabola sinistra di Hitler (è stato fatto sovente); sia il destino sanguinoso di Saddam Hussein e Tareq Aziz (sarebbe lungo da spiegare qui per filo e per segno, ma pensateci appena un poco e capirete). Personaggio storico, o vittima dei Tudor venturi, o nazista o baathista: sempre autentico Shakespeare è. E spero in questo modo aver suggerito perché il nostro possiamo tirarlo da tutte le parti che ci pare: era lui stesso a cercare questo effetto con sopraffini esercizi di virtuosismo teatrale. Giacché questo è il teatro: una buona approssimazione, sufficientemente generica da potersi prestare ai gusti, alle emozioni e alla cultura di chiunque assista. E Shakespeare - beato lui - era un «approssimatore» di genio: il migliore che sia passato sulle tavole dei palcoscenici del mondo in due millenni e quattrocento anni di storia scenica documentata. E per questo Shakespeare si offre anche a una tournée nella Striscia. Resta da dire, ora, quali gusti, quali emozioni e quali culture bisognerebbe tirare in ballo mettendo in scena Il mercante di Venezia a Gaza. Ed eccoci al come, che poi è un altro perché.Voi avete presente la musica techno che oggi viene ascoltata e goduta da una parte (tutto sommato esigua, ma rumorosa) degli adolescenti d’Occidente? Tump tump tump in continuazione (sarebbe piaciuta a Marinetti!): ritmica incessante e ripetitiva fino all’ossessione con alcune impercettibili variazioni melodiche (ammesso che il termine tecnico melodia s’adatti a quelle variazioni). Insomma, è come se uno ti bussasse in continuazione su un braccio, giorno e notte, ventiquattrore su ventiquattro, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno. Una cosa da diventare pazzi, da perdere la testa. I missiletti che Hamas sputa da tempo, giorno e notte, ventiquattrore su ventiquattro, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, su Israele non hanno un effetto bellico molto maggiore di quel tump tump tump: loro lo sanno e ne traggono forza. Come di chi brandisca la propria inefficacia militare come una minaccia perpetua. Azioni di disturbo, si chiamano in gergo. Che per l’appunto disturbano. Fino a impazzirne (ripensate alla techno). Lo dice anche Shylock del suo occasionale antagonista Antonio (il mercante di Venezia, appunto): «Mi ha maltrattato, fatto perdere mezzo milione - e ha riso delle mie

MOBY DICK e di cronach

di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa a cura di Gloria Piccioni

gaza

Sopra, Flavio Bucci nelle vesti di Shylock. In alto, Al Pacino, protagonista del “Mercante di Venezia” al cinema. Al centro, il celebre ritratto di William Shakespeare del 1623 perdite; ha preso in giro i miei guadagni, vilipeso la mia razza, intralciato i miei affari; mi ha alienato gli amici, aizzato contro i nemici: e tutto perché? Perché sono ebreo». E glielo dice anche in faccia, non è tipo da aver paura: «Signor Antonio, tante e tante volte, in Rialto, mi avete dato la baia per via dei miei denari e degli interessi che pratico. E io sopportavo, rassegnato: perché la rassegnazione è la divisa della mia tribù. Mi date del miscredente, dello strozzino, del cane: avete sputato sulla mia gabbana da ebreo: e tutto perché faccio il miglior uso del mio. Be’, e adesso vi fa comodo - pare - il mio aiuto. E allora, sotto! Voi venite da me e mi dite: “Shylock, abbiamo bisogno di denaro”. Così dite, voi, che vi siete soffiato il naso sulla mia barba, voi che mi avete cacciato via a calci come caccereste un cane rognoso dalla soglia della vostra casa. E ora, voi, venite a chiedermi denaro. E io che dovrei rispondervi? Perché non dovrei dirvi: “Ha denaro un cane? Può prestare tremila ducati un cane?”. O dovrei inchinarmi fino a terra e, con un tono da schiavo umile, col fiato rotto e con un filo di voce dirvi così:“Signore mio bello, voi mi sputaste addosso lo scorso mercoledì; il talaltro giorno mi prendeste a calci e il talaltro ancora mi deste del cane; e ora, per tutte queste cortesie, dovrei prestarvi, io, una somma così considerevole?”». Risulta (e sia detto assolutamente di passaggio perché ci serve solo a dimostrare la genialità di Shakespeare) che le autorità palestinesi abbiano ottenuto e ottengano molto denaro dai paesi d’Occidente, senza fare distinzione se

Progetto grafico di Stefano Zaccagnini Impaginazione di Mario Accongiagioco Società Editrice Edizione dell’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento)

Se andate a rileggervi le Lezioni di teatro (Einaudi) tenute da Eduardo De Filippo all’università di Roma nel 1981 proprio sulla figura del mercante ebreo e che sfociò nella redazione di un testo collettivo intitolato L’erede di Shylock, capirete meglio di che simpatia si tratta. Non si tratta di essere ebrei, né aprioristicamente solidali con loro: ma di essere dalla parte di chi è insolentito in continuazione e a un dato punto della sua vita esplode con una reazione forse fuori misura (forse: e comunque la libbra di carne che chiede Shylock è ben misera cosa di fronte a tante altre vendette, non solo letterarie), ma di sicuro ben motivata. Ecco: la linea di Shakespeare è quella di «motivare» la vendetta di Shylock. Non è un pazzo sanguinario: se lo fosse non avrebbe quella ambiguità che è indispensabile a ogni personaggio per essere un grande personaggio teatrale. Antonio non è limpido per la medesima ragione: di un buono assoluto il teatro non sa che farsene, diventa presto stucchevole. Ed ecco perché Il mercante di Venezia, allestito a Gaza, direbbe qualcosa di più delle ragioni di Israele, anche ammettendo qualche proprio eccesso ma di sicuro mostrando con chiarezze gli eccessi altrui: perché, appunto, non ci sono relazioni lineari, univoche, senza ambiguità. Salvo che poi ciascuno valuta le ambiguità colpevoli (tump tump tump) e quelle di reazione. Ah! Resta una cosa da dire: di Porzia. Detto che è la protagonista potrebbe essere detto tutto. Giusto si può aggiungere una parola sulla sua sicumera sospetta (s’innamora e si sposa pur sempre con uno stupido, Bassanio), ma è come se Shakespeare la ponesse al di sopra delle cose. Direte: com’è possibile che alla fine del Cinquecento un personaggio femminile, per quanto saggia, potesse risolvere una questione giuridica tanto complessa come quella sollevata da Shylock che nemmeno il Doge in persona era stato in grado di risolvere? Risposta: perché è un personaggio al di sopra delle cose. S’era in Inghilterra, anno 1596, e sapete chi era il personaggio pubblico più potente, più saggio, più al di sopra delle parti? Una donna: Elisabetta I Tudor. Che però, certo, non aveva sposato uno stupido vanesio e scialacquatore come Bassanio.

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a crisi nella quale ci dibattiamo ha principalmente ragioni finanziarie e richiede certo risposte di tipo finanziario. Ma essendo anche crisi economica, in quanto tale, essa ripropone alcuni temi cruciali per la nostra società. Penso al tema dell’impresa e della cultura che è necessaria a sostenerla - una cultura fatta di responsabilità, solidarietà, passione, competenza, disponibilità al rischio, non certo di propensione allo stipendio fisso, all’assistenzialismo e cose simili. Penso soprattutto al tema del lavoro e del significato che gli attribuiamo. Ovviamente i due temi sono strettamente connessi. La capacità di un’impresa di stare sul mercato, di produrre ricchezza dipende certamente dall’efficienza della sua organizzazione, dai profitti che è in grado di realizzare, dalla qualità dei suoi prodotti, ecc.. Ma io credo che dipenda anche e soprattutto dalla sua capacità di promuovere, in tutte le sue diverse fasi, a tutti i suoi diversi livelli organizzativi, determinate risorse, quali il rispetto di sé e degli altri, la reciproca fiducia, la responsabilità, il senso del proprio dovere, il senso del sacrificio, in una parola, un lavoro che sia davvero «umano».

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Un’impresa non raggiunge il proprio obiettivo, diciamo pure la propria «missione», col semplice conseguimento di profitti. Questi ultimi, infatti, sono sì indispensabili per qualsiasi impresa degna del nome (un’impresa, come dicevo sopra, deve saper stare nel mercato). Tuttavia lo spazio semantico legato al «mercato» è meno rigido di quanto si creda e comunque, nella sua dimensione economicistica, sempre più inadeguato a caratterizzare compiutamente un’impresa. Le merci che troviamo nel mercato rinviano immediatamente agli uomini che le hanno prodotte, a quelli che le comprano, al significato simbolico che viene loro attribuito; per certi consumatori sta diventando sempre più decisivo come sono state prodotte e da chi. È insomma il lavoro il vero cuore genetico dell’impresa, ciò che rende l’impresa un luogo privilegiato in cui si esprime il lato forse più profondo della cultura umana. Altro che i vapori della finanza. Tramonato il marxismo, che aveva enfatizzato il lavoro come l’«essenza» dell’uomo (sta qui una certa grandezza del marxismo) e come la forma più alta di «ricambio organico tra uomo e natura» (sta qui il suo grande errore), da molto tempo abbiamo smesso di interrogarci su questa importante realtà. Fatta eccezione per la grande enciclica Laborem exercens di Giovanni Paolo II, che risale ormai a quasi trent’anni fa e che rappresenta a mio avviso uno dei livelli di consapevolezza più alta in tema di umanità del lavoro, abbiamo ridotto ormai il lavoro a mero strumento per soddisfare i nostri crescenti bisogni, dimenticandoci appunto del suo senso più profondo che interroga addirittura l’«essenza» dell’uomo. L’operaio, direbbe il giovane Marx, mette in ciò che produce «la sua vita»; nel lavoro

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LAVORO Lo abbiamo ridotto a mero strumento per soddisfare i nostri bisogni, dimenticandoci che attraverso di esso si esprime l’essenza dell’uomo.Occorre una svolta culturale che valorizzi il grande capitale personale e sociale che ogni attività racchiude in sé

La vita buona dell’homo faber di Sergio Belardinelli

Il solo tempo in cui ci sentiamo felici sembra essere, oggi, quello libero dal lavoro. È questa insensatezza la causa principale della maggior parte dei mali che ci affliggono: caduta di professionalità, bassa produttività, disaffezione egli si pone «in rapporto all’altro uomo»; «vede se stesso in un mondo fatto da lui». Altro che semplice strumentalità del lavoro. Nel lavoro è l’uomo che si esprime, trascendendo sempre la natura, umanizzandola secondo i propri progetti e costruendo un mondo umano, all’interno del quale soltanto egli può condurre una vita veramente di sé. Senza questo mondo «fatto» da noi, saremmo veramente tutt’uno con la natura, col suo incessante fluire che tanto assomiglia alla mors immortalis di cui parlava Lucrezio. Grazie al lavoro, invece, diciamo pure, grazie ai nostri strumenti, alle nostre imprese, alla nostra tecnica, anch’essi

frutto del nostro lavoro, noi sopperiamo ai nostri bisogni «naturali», la nostra fame, la nostra sete; riusciamo cioè a «sopravvivere» e in più ci costruiamo un mondo (le case, le chiese, le città), la cui stabilità soltanto ci consente di «vivere bene». Marx era in fondo convinto che la vita buona (il comunismo), pur attraverso il travaglio inevitabile del lavoro alienato, sarebbe scaturita come una sorta di esito necessario del «movimento della proprietà privata». Hannah Arendt, tanto per citare un altro autore, riteneva che il mondo del lavoro e quello dell’homo faber fossero separati tra loro e, soprattutto, entrambi separati dal

mondo della politica, il mondo dei fini, il mondo dove si decide la bontà della vita. Oggi, a mio avviso, dovrebbe essere chiaro a tutti come non abbia senso parlare di vita buona, senza che il lavoro diventi esso stesso più «umano», senza la possibilità che la vita buona sia estenda anche alla vita lavorativa e agli uomini che lavorano. Se è vero che «l’operaio mette nell’oggetto la propria vita», lo ripeto, non si può pensare al lavoro come a una semplice attività strumentale. Anche le cosiddette attività strumentali, infatti, proprio perché dell’uomo, rappresentano sempre l’attualizzazione di un significato che non è mai meramente strumentale. Nel lavoro è sempre qualcosa di umano che si realizza; soltanto lo «schiavo per natura», lo «strumento animato», come lo chiama Aristotele nella Politica, diciamo pure, il robot potrebbero svolgere un’attività meramente strumentale, che sarebbe appunto non propriamente «umana». Non a caso l’apostolo Paolo esorta a pensare a Dio qualsiasi cosa gli uomini facciano. Pensare a Dio costituisce la migliore strategia per non dimenticare mai (qualsiasi cosa facciamo, appunto) la grandezza del nostro essere uomini. Guai dunque a un lavoro come semplice «merce» e a un uomo come semplice «forza lavoro», ma guai anche a un lavoro sganciato, se così si può dire, dall’umanità che lo costituisce e considerato mera strumentalità.

Oggi siamo per lo più indotti a pensare che la nostra vera vita incominci soltanto dopo che abbiamo finito di lavorare; il solo tempo veramente nostro, il tempo in cui ci sentiamo veramente felici, sembra essere soltanto il tempo libero dal lavoro. In questo modo, però, senza rendercene conto, abbandoniamo all’insensatezza la maggior parte del tempo della nostra vita. È questa insensatezza la causa principale del «malessere» che affligge ormai da anni il mondo del lavoro. Caduta di professionalità, mancanza di motivazioni, disaffezione dal lavoro, bassa produttività sono soltanto alcuni sintomi di questo malessere, al quale si può certo cercare di porre rimedio con nuove forme di organizzazione del lavoro, nuovi incentivi professionali, economici e cose di questo genere. Ma il vero problema è un altro. C’è bisogno soprattutto di una svolta culturale, che sappia valorizzare il grande capitale «personale» e «sociale», oltre che economico, che si esprime nel lavoro. Come dicevo sopra, competenza, inventiva, senso del proprio dovere, capacità comunicative, organizzative e relazionali sono soltanto alcune espressioni di questo capitale, attraverso le quali riconferire il giusto senso al lavoro. La crescente finanziarizzazione della nostra economia, che si è registrata negli ultimi anni, ha contribuito senz’altro ad accantonare una riflessione adeguata sul senso e il significato del lavoro e del sistema economico in quanto tale. Non sarebbe male approfittare della crisi per riscoprirne il lato profondamente umano e liberante per l’uomo.


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cd

musica

Franz Ferdinand meglio se di notte… di Stefano Bianchi otto con un’altra band scozzese. Dopo avervi parlato dei Glasvegas, è il turno dei Franz Ferdinand. I quali, citando l’arciduca assassinato nel 1914 in quel di Sarajevo da Gavrilo Princip, si sono rivelati casus belli nella pop music britannica. C’era da spedire in soffitta Oasis e Blur? Con l’ausilio di altri gruppi dal roboante nome (Kaiser Chiefs, Maxïmo Park, Kasabian) il quartetto di Glasgow ha forgiato un Britpop nuovo di zecca. Più epico e marziale delle stucchevoli schermaglie fra i Gallagher e

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Damon Albarn, che giocavano a fare i novelli Beatles e Rolling Stones. Con Franz Ferdinand (2004) e You Could Have It So Much Better…With Franz Ferdinand (2005), gli ardimentosi capitanati dal cantante e chitarrista Alex Kapranos hanno inanellato riff chitarristici post-punk (in quanto a rapidità), combattivi ritornelli e un tour che ha toccato Australia, Giappone, Russia e Sud America. Dopodiché, silenzio da coprifuoco. Proprio nel momento d’oro. Un classico, per chi morde il successo in quattro e quattr’otto e si ritro-

va carico di responsabilità. Meglio, allora, rintanarsi in trincea. Attendere tempi migliori. Facendo gli scongiuri affinché il pubblico non perda la pazienza. Sicché, sull’orlo di una crisi d’identità, i Franz Ferdinand hanno affittato un palazzo d’epoca vittoriana e là (di notte, quando l’ispirazione vien più facile) hanno composto e inciso canzoni prendendosi tutto il tempo necessario. E fra una session e l’altra, varcato l’uscio della nobil dimora, le hanno proposte dal vivo agli aficionados. Per vedere l’effetto che facevano.

Ottima strategia. Temporeggiare, e ripartire. Sempre di notte. Come il risultato finale, Tonight: Franz Ferdinand, che esprime quella sensazione d’attesa che si prova prima d’ogni concerto. E poi la scarica d’adrenalina, la notte che prosegue e l’alba che ci sfugge, cogliendoci nel sonno. Alex Kapranos & soci, nottetempo, sono cambiati. Al posto delle scariche elettriche, c’è l’elettronica. Luci stroboscopiche. Pulsanti giri di basso. E quel non so che, sornione, da New Romantics anni Ottanta (decennio che in questo momento paga, eccome se paga). Danzereccio è Ulysses, passo d’apertura del cd; fra technopop e discomusic, sgomita Live Alone. Turn It On e No You Girls, con quel tiro funkeggiante, ricordano gli INXS. Brusche, invece, sono le (rétro)marce di Send Him Away e What She Came For, appiccicate al cabarettismo caro ai Kinks e alla vena glam dei Roxy Music, mentre Lucid Dreams punta allo psichedelico e ai convulsi botta-e-risposta delle chitarre. E se Dream Again è un ipnotico tintinnìo, la conclusiva Katherine Kiss Me ribalta imprevedibilmente tutto il discorso mirando all’acustico e al cicaleccio folk. «Ascoltate il disco a basso volume, ma alto sarebbe meglio. E durante il giorno. Anzi, di notte», precisano i Franz Ferdinand. Che si esibiranno il 29 marzo all’Estragon di Bologna e il 30 al Palasharp di Milano. Franz Ferdinand, Tonight: Franz Ferdinand, Domino/Spin-Go!, 17,90 euro

in libreria

mondo

riviste

L’ANIMA DI BILL EVANS

NOVITÀ SUI DIRITTI D’AUTORE

MILANO, LA DECADENTE

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esto, stralunato, vibrante di spasmodica aritmia. A leggere Un amore supremo (Instar Libri, 304 pagine, 15,00 euro) di quell’immaginifico scrittore che è Luca Ragagnin, non si può non pensare che l’odissea del jazz abbia trovato il suo bardo. Inenarrabile per definizione, paradossale perché irriducibile, il suono sincopato che danna da un secolo i filologi del pentagramma, trova nei sessan-

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n seguito al paventato ritiro del materiale discografico targato Warner dai suoi archivi, YouTube corre ai ripari e stringe con un partner d’eccezione come la William Morris Agency. Tra le più influenti e ricche agenzie artistiche americane, ottimamente rappresentata da numerosi sedi europee, la Wma compendia gli interessi musicali e cinematografici di star strapagate co-

ilano da bere, trampolino di yuppies e aperitivi chic, formicolante di doppiopetti e griff d’oltreoceano. A trent’anni di distanza sembra essere rimasta solo una polverosa cartolina, e la rabbia di giovani che restano invischiati nella sua decadenza. L’originale analisi di Simone Dotto, su kalporz.com, è impietosa. Milano è una «balena piaggiata». La rassegna dell’autore percorre testi e

“Un amore supremo”: ritratti atipici dei grandi del jazz nei sessantaquattro racconti di Luca Ragagnin

Un accordo tra YouTube e la William Morris preannuncia lo scioglimento di un nodo gordiano

Su “kalporz.com” un’impietosa analisi della città attraverso i testi di band contemporanee

taquattro racconti di Ragagnin, una rappresentazione compiuta e inafferrabile. Chet Baker, Miles Davis, Bill Evans e Charlie Parker, sfilano in ritratti atipici, lontani anni luce dai noiosi desiderata manualistici, prossimi a cavare l’anima di ciascuno dai suoni e dai corpi, in una multicroma fantasia che conferisce a ognuno un colore stilistico irripetibile. Pittore di parole, scultore di corpi, sia che Ragagnin si attardi su «Pensieri e visioni di Lennie Tristano mentre esegue Requiem», o si abbandoni al lirismo raffinato di «Bix Beiderbecke nella foschia», racconta un’epoca, e in controluce, anche la nostra. Una struggente rapsodia in blues sulla barbarica grancassa dei nostri giorni.

me Rolling Stones, Britney Spears, Lynyrd Skynyrd e Fatboy Slim, e di numerosi protagonisti dell’hip hop internazionale, da Eminem a Diddy, passando per Kanye West e 50 Cent. L’accordo, rivelato da Brian Stelter sul New York Times, consentirà alla più celebre piattaforma video del pianeta, di attingere da una piattaforma di clip professionali realizzati appositamente per YouTube. Agli artisti detentori dei diritti e alla stessa agenzia saranno inoltre garantite royalties e quote di proprietà. L’accordo preannuncia il definitivo scioglimento del nodo gordiano legato ai diritti d’autore sul web: diritti diversificati e contenuti specifici per i nuovi media.

ritmi di numerose band contemporanee, che raccontano di una città ormai ridotta a un verminaio di sconcezze. Si svaria dalla Milano cantata da Marta sui Tubi, milanesi d’adozione, in Sushi & coca, alla Milano postindustriale delle Luci della Centrale elettrica, gruppo rock che ne denuncia i veleni e la dimensione di «deserto illuminato a giorno». Si prosegue con gli Afterhours, che dedicano alla loro città il recente album I milanesi ammazzano il sabato e con i giovani Ministri, gruppo che punta il dito contro la nuova wave salottiera e radical chic della cultura milanese. Un disagio profondo, che forse covava già dai tempi di quel happy hour che firmò gli anni Ottanta.

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classica

zapping

STANCHI DI BONO e dell’altro se stesso di Bruno Giurato è il nuovo disco degli U2 che esce domani e da par nostro per una volta siamo tranquilli a scatola chiusa, sarà un disco da ascoltare. Lo sarà perché gli U2, rimosse le montagne di glamour e altri rifiuti tossici pop, sono sempre degli artisti. Perché il chitarrista The Edge è uno che ha creato uno stile. L’anima musicale del gruppo è lui. Bisognerebbe scrivere una storia dei segreti legislatori della musica, i musicisti che stanno in ombra ma che con le loro intuizioni caratterizzano uno stile e un’epoca. Sono molto di più di artigiani e salariati, sono i veri grandi artisti. Togliete le chitarre da un brano degli U2 e spesso ne uscirà fuori qualcosa di simile agli Spandau Ballet. Siamo quasi sicuri dunque, No line on the orizon sarà almeno un disco interessante. Ma se gli U2 producono, il loro cantante-santone-profeta (nonché columnist del New York Times) Bono Vox sempre straparla. E ascoltarlo è sempre una gioia. Per esempio adesso dichiara alla rivista Q: «Sono stanco di Bono e stufo di me stesso», e poi ci informa di essere rimasto a corto di cose interessanti da dire (al NYT saranno disperati ). Bono ha affermato che, ad esempio, su No line on the horizon vi sono almeno due brani composti dal suo «altro io». Si tratta di Cedars of Lebanon, per il quale il cantante degli U2 si è immedesimato in un corrispondente di guerra, e di Tripoli, per il quale è entrato nei panni di un poliziotto francese che si assenta senza avere avuto il permesso per farlo. E tutto ciò, permettete, è una vera bomba epistemologica. Un autore che immagina di scrivere dal punto di vista di un personaggio è una rivoluzione copernicana. Bravo e Bono, quindi. Anche noi siamo d’accordo con te almeno su un punto. Siamo stanchi di Bono e stufi di te stesso.

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L’epica religiosa di Lee Hyla di Pietro Gallina

i Lee Hyla, compositore statunitense, si presenta una registrazione certamente inusuale per i nostri tempi: si tratta della Vita dei Santi (Lives of Saints), una raccolta di brani musicati con testi selezionati dallo stesso autore, tratti dalla Divina Commedia, dai Fioretti di San Francesco, dai Diari di Santa Teresa d’Avila e da altri testi su San Gerolamo e San Lorenzo. Si diceva incisione inusuale perché negli Usa per la musica sacra in genere non c’è stata una significativa tradizione che abbia sviluppato temi dei santi o della liturigia cattolica, come in Europa, e anche perché musica atonale o dissonante dedicata ai santi non è poi così frequente nel panorama compositivo passato e attuale. Il disco contiene anche un brano basato sul pezzo di teatro Noh, Matsukaze in 4 movimenti. Hyla considera questi suoi lavori come le sue due epiche religiose, una cattolica e l’altra buddista che vuole essere solo uno studio di caratteri legati al sentimento del divino. Il primo è del 2000 e l’altro del 2003. Hyla, nato negli anni Cinquanta, è un compositore poliedrico con esperienze di pianista, musicista rock e improvvisatore. Ha studiato in vari Conservatori, ha vinto numerosissimi premi, è stato direttore del Conservatorio del New England e attualmente insegna alla Northwestern University di Chicago. Hyla non è interessato religiosamente al buddismo, ai santi o al cattolicesimo, piuttosto è stato attratto dagli elementi simbolici della musica che si collegano ai temi dello spirito, al rapporto con la natura e con il sovranaturale.Tutto nasce da testi che non essendo propriamente sacri, trattano tuttavia di questo stato meditativo spirituale o sentimento del divino che i santi hanno vissuto e raccontato, a contrasto con la loro vita materiale, o che, in assenza di loro racconti, poeti e scrittori si sono incaricati di narrare. Il primo pezzo della Commedia viene dal III Canto del Paradiso: bisogna pensare la musica come alla verità interpretando Hyla? La dolce bellezza della verità è anche la bellezza della musica? Con pensieri infantili Dante sembra ritrarsi davanti all’inafferabile che riflette spiriti in cielo, come se fossero suoni che non si afferrano quali oggetti; Beatrice lo convince che sono anime reali e non riflessi e lo induce a parlare, ad ascoltare e a credere nella (loro) verità e dunque nella musica che appaga; ogni uomo infatti sazia i suoi desideri in paradiso e le ansie si compiono nella beatitudine. Qui la musica intensa e dissonante di Hyla gioca sulla drammatica sensibilità, abilità e duttilità della voce di Mary Nes-

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singer e dunque la beatitudine tra nirvana e rapimento mistico mette in rilievo il passaggio di Santa Teresa - musicalmente quasi uno sprechgesang - presa da un rapimento che la lascia distaccata e fredda, in uno stato tra delirio e straniamento che non viene spiegato. Ecco i rapidi episodi di San Gerolamo e San Lorenzo seguiti dal San Francesco di Dante che lo introduce e narra delle sue nozze con la povertà nel Canto XI, poi passi assai lunghi dei Fioretti con il miracolo delle stimmate e l’invocazione alle sirocchie uccelli: che è un’intensa e complessa parte di recitativo con aria. Quello che alla fine emerge da questa musica è che pur se strutturalmente diversa ricorda molti linguaggi e

autori del XX secolo, dalla Seconda scuola di Vienna, a Strawinsky un po’ jazz-funky, ad accenni di belcanto pucciniano, a minimalismi vari, fino a qualche citazione di ritmi sincopati sudamericani, il tutto magistralmente fuso in una corrente di polifonia strumentale toccante e poetica. Il filo interno che è all’origine di tutto ciò pare quasi nascere da un desiderio dell’autore di spiritualizzazione, di meditazione o di distacco dalle cose materiali. Lo prova anche il brano scritto sul teatro Noh At Suma beach, commissionato dalla Japan Society di NewYork: infatti esso si chiude con un’aria lieve e delicata, quasi una musica di meditazione sulla natura e sul mondo, anche se è la storia di un mito di due sorelle di cui Matsukaze è la protagonista.Tanto di cappello allo strepitoso e virtuosistico gruppo da camera del Boston Modern Orchestra Project diretto da Gil Rose e ancora alla virtuosissima mezzo soprano Mary Nessinger. Lee Hyla, Lives of Saints - At Suma beach, Bmop Sound

jazz

A Rivoli, nel nome di Django Reinhardt

di Adriano Mazzoletti he il jazz in Italia goda ottima salute lo dimostra l’Annuario del Jazz 2008 in edicola da pochi giorni per i tipi dell’editore Luciano Vanni, direttore responsabile della lussuosa Jazz It, rivista bimestrale di ben 160 pagine ricca di notizie, interviste, approfondimenti e anche pubblicità, a riprova del fatto che il jazz non è poi così lontano dagli interessi promozionali. Ma ritorniamo all’Annuario. Si tratta di un testo indispensabile per tutti coloro che si interessano professionalmente alla materia, ma è anche una lettura illuminante per chi desidera conoscere più approfonditamente il mondo del jazz italiano. Le oltre centottanta pagine offrono infatti tutto ciò che è necessario sapere. Delle venti regioni italiane, solo una, la Val D’Aosta, è assente da qualsivoglia attività jazzistica, le altre offrono con re-

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golarità una quantità impressionante di appuntamenti. Solo in Piemonte, da Alessandria a Vercelli, si può scegliere fra trentaquattro eventi, alcuni come Moncalieri Jazz Festival o il Festival del jazz «manouche» di Rivoli, dedicato alla musica di Django Reinhardt, assolutamente di alto livello. Su tutti però emerge la Lombardia con ben settantaquattro manifestazioni a cadenza annuale, come il Festival di Bergamo, che esiste ininterrottamente dal 1969. Scorrendo i lunghi elenchi si è colpiti dai nomi di alcune rassegne. Polenta e Jazz a Corte Palasio in provincia di Lodi dove ogni anno dal 9 ottobre al 18 dicembre il jazz viene servito con «contorno» di polenta, nella speranza che possa piacere a tutti.Vi è anche uno Zero Zero Jazz Fest (Montegrotto Terme dall’11 al 13 aprile), dove non è ben chiaro a cosa si riferisca quel doppio zero. Comprensibile invece il titolo della rassegna Amarone Jazz Festival

(San Pietro in Cariano provincia di Verona dal 12 al 14 settembre). Sorprendente la relativa carenza, rispetto alla Lombardia, ma anche alla Puglia con quarantaquattro fra festival e rassegne, dei «soli» quarantuno appuntamenti nel Lazio. Ma a parte queste considerazioni a carattere statistico, colpisce la straordinaria attività jazzistica che annualmente coinvolge quasi un migliaio di località e un numero impressionante di musicisti. I più richiesti, Enrico Pieranunzi, Rosario Giuliani, Giovanni Tommaso, Fabrizio Bosso oltre ai sempre presenti Enrico Rava e Paolo Fresu. Accanto ai concerti, molte manifestazioni, inseriscono conferenze, dibattiti, mostre, convegni di studio proprio per valorizzare una musica per certi versi non ancora completamente conosciuta.

Annuario del Jazz 2008, Luciano Vanni Editore, 9,00 euro


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narrativa

libri

Discesa agli inferi in

Revolutionary Road di Pier Mario Fasanotti h, Gesù… era così maledettamente carina stamane». Questo pensa Frank dopo il fatto luttuoso. Frank e April: storia quieta e tremenda in un’America che va sotto l’analisi schiacciasassi di Richard Yates, autore che è stato riscoperto dal film tratto dal suo romanzo Revolutionary Road (Anselma Dell’Olio ne ha parlato magistralmente tre settimane fa su queste colonne). Yates non risparmia nulla e nessuno, e impietosamente punta il dito contro un paese dalle emozioni fragili e ovattate, un paese dove la sfera collettiva, grigia, efficiente e solo orizzontale, non riesce a fornire bastevole concime a una spiritualità individuale nata mozza e destinata a essere tale, a meno che non si vogliano immaginare provate voi lettori, se riuscite - incredibili zone fertili. Si ha un bel dire, leggendo questo straordinario romanzo colpevolmente dimenticato fino a oggi, che gli anni Cinquanta sono stati beati, almeno in un paese che ha vinto la guerra e ha fatto molto, generosamente e molto, perché gli altri - i contorti europei - ne dimenticassero gli aspetti più orribili. Ma quali anni beati?! Siamo in un’America che per dirla con Frank «è un’enorme, oscena illusione». Dove la cosiddetta saggezza dell’uomo comune è in grado forse di regolare il traffico e la raccolta dell’immondizia, ma non sicuramente di far uscire l’individuo «dal sacchetto di cellophane». E dentro questo involucro che da sociale si fa continuamente individuale c’è una pervicace asfissia. Volendo sottrarsi alla mancanza d’aria o all’aria viziata e cosparsa di «fradicio sentimentalismo», il trentenne Frank sogna un suo lontano oltreoceano. Questo desiderio

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è nevroticamente condiviso dalla moglie April, che lo spingerà a tappe forzate verso la partenza (Parigi? Certo, è il simbolo dell’Europa vitalistica e inventiva). La generosità della donna è solo apparente, in realtà lei pensa a sé, alla fuga più che al viaggio, anche quando configura un futuro diverso e più autentico per il coniuge. Siamo al «ti amo quando sei gentile»: qui il limite della vera partecipazione matrimoniale. April non è la sola colpevole. Frank sbanda, oscilla in un palazzone di New York dove dovrebbe lavorare ma invece non lo fa, ricorda la perfida umiliazione che l’ambiente, gli uomini, la struttura aziendale avevano inflitto a suo padre. Poi si trova in una situazione analoga a quella del padre, invischiato nella finta felicità professionale. Il corto circuito, tra la patologica esitazione di lui e le instabili emozioni di lei, alla fine scoppia. Attorno ci sono i vicini di casa, gli amici insopportabili («diciamocelo: i Wheeler sono una gran perdita di tempo»), i superficiali ficcanaso. Ciò che cova all’interno di una coppia è situato nel quartiere residenziale di Revolutionary Hill:

Richard Yates casette colorate e linde che paiono finte e che non possono assolutamente prevedere altro che una quotidianità fatta di whisky, treno alla stessa ora, moderati progetti sul futuro, relazioni cortesi col vicinato, decoro sopra tutto, pregiudizi, luoghi comuni. Asfissia, dunque. Alla quale ognuno dei coniugi reagisce in modo differente. Tragicamente differente. E in questa mancata sintonia reattiva sta il nucleo del dramma. Che comprende l’anello finale della discesa agli inferi: il violento e solitario rifiuto di April della maternità. L’autore non poteva scegliere miglior finale. La dispettosa, rompiscatole signora Givings visita la villetta data in affitto a Frank e ad April. Ora, dopo la tragedia, è rimasta vuota. Va in cantina e riferisce, in modo irremidiabilmente petulante, al marito: «Sai che cosa ho scoperto? Piantine morte e secche… eh sì, erano due ragazzi un po’ strani». Il marito Howard s’allontana come può da una vita di quartiere americano che non offre squarci di resurrezione emotiva. Lo fa staccando dall’orecchio l’apparecchio acustico: «Udì soltanto un tonante, piacevole mare di silenzio». Richard Yates, Revolutionary Road, minimum fax, 457 pagine, 18,00 euro

riletture

Maccari e Rosai nei ricordi di un gallerista fiorentino di Leone Piccioni iero Pananti è uno dei migliori galleristi che agiscono soprattutto in Toscana e a Firenze. Molti artisti fanno base alla sua bella galleria di Via Maggio a Firenze. In un raro suo libretto, da lui stesso stampato (Una vita in mezzo ai quadri avendo come sottotitolo Scampoli della memoria di un gallerista), appaiono ritratti sia di pittori che di gallerie, alcune non più esistenti. Ma la citazione degli artisti presenti o che furono attivi a Firenze facendo spesso riferimento alla Galleria Pananti, sono molte decine e non si possono naturalmente citare tutti. (Confesso che non credevo a un numero così alto di pittori anche negli anni in cui vivevo a Firenze). Citazioni inevitabili quelle di Maccari, Tirinnanzi, dei fratelli Bueno, Magnetti, Farulli,

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Loffredo, Capocchini, Berti, Conti, Marcucci, ecc. ecc.. Naturalmente su tutti spicca la presenza e la personalità di Ottone Rosai. Scrive Pananti: «Conobbi Maccari quasi all’inizio della mia attività di gallerista: lui, più anziano e a quel tempo famoso, allora poteva avere all’incirca sessant’anni, io poco meno che ventenne». E prosegue: «Senza dubbio Maccari è stato, insieme a Mario Marcucci, l’artista dal quale ho ricevuto il maggiore aiuto, specialmente nel periodo non facile dell’avviamento della galleria e non posso dimenticare che fu lui stesso, con una memorabile mostra delle sue opere, a offrirsi di inaugurarla nell’ottobre del ’68. (…) Buono e comprensivo con tutti, ancora di più Maccari lo era con chi aveva reale bisogno: ai meno furbi e ai più disarmati regalava qualcosa mentre vendeva a pochi mercan-

ti, di norma amici fidati e sempre senza contrattare sul prezzo, disprezzando apertamente chi speculava, i parvenu e i cafoni». Prima di passare al Maestro Rosai bisogna far preciso riferimento a Silvio Loffredo che - secondo Pananti - «è stato in assoluto l’artista cui sono stato più affezionato, stimandolo sul piano professionale alla pari di pochissimi altri». Ma un vanto Pananti può ancora affermare per la scoperta, la diffusione e l’aiuto che ha sempre dato a Venturino Venturi. Sarebbe lungo parlare dell’attività di Venturino che da Loro Ciuffenna mandava via via i suoi dipinti e più che mai le sue sculture, proprio a Pananti. (E dispiace pensare che questo artista abbia ancora quote così basse nel mercato dell’arte). Ma eccoci a Rosai. Scrive Pananti: «Di Ottone Rosai, della sua opera e

del suo mondo avevo sentito parlare dal mio babbo. Eppure tanti, tantissimi a Firenze sostenevano che Rosai non solo non era pittore ma che non sapeva nemmeno disegnare, come a dire in poche parole che di lui non valeva la pena di parlare». Trattato come un artista provinciale, un violento, fascista (e lo fu davvero), omosessuale e quant’altro, era respinto da una certa parte dei compatrioti. Pananti conclude - e io sono perfettamente d’accordo con lui - che Rosai è stato uno dei pochi fra i grandi maestri del primo Novecento di cui non di rado si hanno inaspettati ritrovamenti di opere importanti e bellissime e completamente inedite. Venivano, e forse ancora verranno, dalle cantine e dalle soffitte dove gli scontenti compratori avevano accantonato le opere di quel grande Maestro.


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memorie

Faccia a faccia con Dio in stile yddish di Giancristiano Desiderio l lamento del prepuzio di Shalom Auslander è un libro ironico, divertente, irriverente, sorprendente, coinvolgente, dirompente. Auslander ha fin da bambino un piccolissimo problema: Dio. Vorrebbe liberarsene, ma è praticamente impossibile. Ha fatto del suo meglio e del suo peggio, ma non c’è stato niente da fare: Lui è sempre lì. A pagina 11 dice: «Gli insegnanti della mia gioventù non ci sono più, i genitori sono vecchi e non siamo più in buoni rapporti. Il tizio di cui mi parlavano, però, è ancora in circolazione. Non me lo scrollo di dosso. Ho letto Spinoza. Ho letto Nietzsche. Ho letto il Na-

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personaggi

tionl Lampoon. Non è servito.Vivo con Lui ogni giorno e lo scruto: è ancora arrabbiato, ancora vendicativo, ancora - eternamente - incazzato». Il Tizio è fatto così e non c’è niente da fare. A meno che non siate umoristici. E Shalom Auslander lo è. È cresciuto in una comunità ebraica ortodossa nello Stato di New York, fra mille divieti e sotto la costante minaccia di un Dio vendicativo e arrabbiato. Ha fatto di tutto per scrollarselo di dosso, inutilmente. Il suo Dio persona è presente e lui è convinto che ce l’abbia personalmente con lui per rovinargli qualsiasi gioia e a rifilargli qualche fregatura. Così abbondano le imprecazioni, i litigi e i vaffanculo e i «sei uno stronzo». Per-

ché il vantaggio e lo svantaggio di avere un Dio persona è proprio questo: ti puoi rivolgere direttamente a Lui e dirgli le cose come stanno. Anche se Lui, in realtà, già le conosce. Altrimenti che razza di Dio persona è? Leggendo Il lamento del prepuzio ci prenderete gusto e, dopo un po’, comincerete anche voi a rivolgervi direttamente al Signore Dio Tuo e a raccontargliene quattro.Vi ricorderete di quella volta in cui volevate andare a giocare con gli amici e invece vi toccava andare alla lezione di catechismo «perché sennò Gesù piange». Perché il Dio persona non è un’esclusiva degli ebrei. Anzi, proprio Auslander nell’ultima pagina dice: «Ho scoperto che c’è una cosa su

cui la maggior parte delle persone religiose si trova d’accordo, che si tratti di ebrei, cristiani o musulmani, ed è che se dopo le presentazioni inizi con loro una breve conversazione e dici per esempio: “Dio è uno stronzo”tendono a reagire male». In effetti, così la conversazione inizia maluccio. Ma aggiunge: «Cosa che io trovo sorprendente. Perché sono loro che me l’hanno detto. Mi hanno raccontato tutto di Lui: le inondazioni, le statue di sale, le uccisioni, i massacri…». Eppure, senza questo Dio non saremmo liberi. Slalom Auslander, Il lamento del prepuzio, Guanda, 268 pagine, 15,50 euro

La casa della vita a Palazzo Primoli

di Gennaro Cesaro inventario topografico dedicato al fantasmagorico museo di Mario Praz, «illustre anglista», studioso e umanista di fama europea, è un’opera pubblicata, in elegante veste tipografica, dalle Edizioni di Storia e letteratura a cura di Patrizia RosazzaFerraris, col patrocinio della Soprintendenza alla Galleria d’arte moderna e contemporanea. L’ampio volume rappresenta la suggestiva traduzione iconografica della passione di raffinato intenditore e collezionista di opere d’arte, che fu una delle più significative sfaccettature della personalità di Praz, la cui esistenza si snodò all’insegna dell’immaginifico binomio di genio e bizzarria e verso cui la cultura italiana ha un enorme

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fotografia

debito di riconoscenza. Nato a Roma il 6 settembre 1896 (dov’è morto il 23 marzo 1982), fu il fondatore della moderna anglistica italiana e un acclamato critico d’arte e di letteratura italiana e straniera. Era arrivato a quest’attività dopo essersi lasciato alle spalle una laurea in giurisprudenza, con una tesi di diritto internazionale sulla Società delle nazioni. Fu anche un esperto di antiquariato di alto bordo, manifestando la multiformità dei suoi interessi con una prosa quanto mai personale ed estrosa, che

era - ed è - la fedele proiezione di uno stile di vita, che travalicava gli stereotipi più o meno dannunzianeggianti in voga nella prima metà del Novecento. A conferirgli ufficialmente la patente di eminente saggista fu l’opera La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica uscita nel 1930 e più volte ristampata. Da allora la sua bibliografia si venne arricchendo di titoli, che rappresentano ancora oggi il segno più palpabile dell’eccentrica etereogenicità delle sue cognizioni e dei suoi studi. Di una

cosa si può essere matematicamente sicuri: Mario Praz è stato una delle più nobili e fulgide figure della cultura italiana di ogni tempo e le sue opere costituiscono altrettante pietre miliari nei diversi campi dello scibile umano: Storia delle letteratura inglese (1937), Gusto neoclassico (1940), La filosofia dell’arredamento (1945) e La casa della vita (1958), la sua autobiografia. Un notevole contributo alla conoscenza della sua poliedrica identità etico-culturale ci è offerto dal Carteggio Cecchi-Praz edito nel 1985 da Adelphi, con prefazione di Giovanni Macchia.

Museo Mario Praz - Inventario topografico delle opere esposte, a cura di Patrizia Rosazza-Ferraris, Edizioni di Storia e Letteratura, 332 pagine, 39,00 euro

L’attimo fuggente che vive in eterno

di Mario Accongiagioco oto ergo sum. È lei che ci parla, la fotografia in persona. È lei che si racconta nel monologo teatrale Io, la fotografia di Diego Mormorio. Figlia di un’intera epoca, fece i suoi primi passi nel 1826 quando Nicéphore Niépce sintetizzò la prima «antenata» dalla finestra della sua casa di Saint-Loup de Varennes. Più di dieci anni dopo fu Daguerre a far sì che le lenti rispecchiassero l’immagine in una frazione di secondo. E poi Bayard e Talbot iniziarono uno sviluppo che continua ancora oggi. La storia della fotografia è fatta di contraddizioni. C’era chi le dedicava poesie, come Apollinare (nell’agosto del 1915), che però aveva già dedicato gli stessi versi alla sua amata Madeleine Pagès. E c’era chi scatenava le proprie «maledizioni»: Baudelaire definiva la fotografia nemica dell’immaginazione («rifugio di tutti i pittori mancati»), ma poi amava farsi immortalare su pellicola. Fu invece lo scrittore austriaco Thomas Bernhard a sostenere che quel tipo di immagine «mostra solo un istante

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grottesco, è una falsificazione della natura». La fotografia è molto di più, raccoglie l’istante, non giudica, è un concetto «obiettivo» (in tutti i suoi significati). La fotografia è vita, come sottolinea il premio Nobel polacco Wislawa Szymborska nella sua poesia sull’11 settembre. Le persone che si gettano dalle finestre sono ancora vive. La morte arriva dopo. Nelle istantanee dei cari defunti brilla ancora la luce dell’esistenza, in una sorta di eternità, la morte può essere solo negli occhi di chi la guarda. La fotografia è morte, ma solo quando viene coinvolta nella guerra. E come Tolstoi si chiedeva in Guerra e pace, «Perché milioni di uomini cominciano ad ammazzarsi a vicenda?», non c’è una sola risposta. La guerra è continuamente in cammino. E la fotografia ne è una delle testimonianze. Anche quando ritrae un bambino col caschetto biondo di nome Adolf o un giovane Stalin ancora privo di baffi e pipa. Lo scatto è nell’istante, non bada al passato e tantomeno al futuro. È un’immagine che vive nel centesimo di secondo. È il bisogno di una mano che afferra l’attimo che fugge. Concetti che legano fotografia, filosofia e letteratura.

Un triangolo del quale è diventato grande esperto Diego Mormorio che anche in Meditazione e fotografia traccia un filo conduttore tra l’uomo e la fotografia. L’esercizio del guardare è espresso indicando l’obiettivo della macchina come un ampliamento dell’organo della vista. L’occhio meditativo, da Platone al filosofo Merleau-Ponty, è considerato il centro dell’uomo. L’apparecchio fotografico ci fa osservare le cose con una luce diversa e un punto di vista nuovo. E questo ci permette di meditare e riflettere, divisi tra spontaneità e movimento, pittura e realtà. La fotografia è dunque un attimo che vive in eterno e ci aiuta a ricordare le cose amate: persone, animali, oggetti, paesaggi. È la necessità di combattere il terrore del nulla: convinti che tutto viene dal nulla e nel nulla scompare. Nonostante De Lavoisier, da duecento anni, continui a ricordarci che nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Diego Mormorio, Io, la fotografia, Soter, 64 pagine, 10,00 euro; Meditazione e fotografia, Contrasto, 168 pagine, 19,00 euro

altre letture Che cosa è la destra, che cosa è la sinistra? si domandava il compianto Giorgio Gaber. Pietrangelo Buttafuoco risponde nel suo Cabaret Voltaire (Bompiani, 224 pagine, 18,00 euro) che «la destra non è altro che la sinistra al culmine della sua fase senile. La guerra al sacro, mai portata a termine dalla sinistra, viene più efficacemente portata a termine dalla destra occidentalista, e non con la costruzione razionale della scienza, ma con le bandiere della libertà, della democrazia, due illusioni che non hanno neppure bisogno di nutrire utopie ma solo di formale enunciazione». Insomma con la destra e la sinistra, categorie figlie della rivoluzione francese, Buttafuoco getta nello sciocchezzaio della storia anche la libertà, la democrazia e l’Occidente. L’alternativa? L’Islam dice Buttafuoco. Provocatore come sempre. Elegante. Anche ingeneroso verso questa parte di mondo. Il caso Imprimatur (Biblohaus, 158 pagine, 15,00 euro) è un libro in un libro. È il racconto della censura di un romanzo storico ambientato nella Roma del 1683 - nella settimana di settembre che coincise con la battaglia di Vienna tra le truppe cristiane e quelle turche del comandante Kara Mustafà - scritto Rita Morandi e Francesco Sorti, due giornalisti romani alla loro prima prova letteraria. Pubblicato prima in Italia da Mondadori il libro viene a un certo punto ritirato dalla vendita. I due autori riottengono i diritti e lo pubblicano con un altro editore. Il libro arriva in almeno 45 paesi, tradotto in oltre venti lingue, e vende più di un milione di copie.

L’Italia delle trame oscure, degli scheletri negli armadi, dei misteri e dei segreti. L’Italia insomma. A raccontare il lato oscuro del nostro paese è Philip Willan in L’Italia dei poteri occulti (Newton Compton, 320 pagine, 14,90 euro), un libro dove il giornalista inglese parte dalla morte del banchiere Roberto Calvi - ritrovato impiccato sotto il ponte dei frati neri a Londra - per affrescare il quadro oscuro dei retroscena del nostro paese. Le vicende di cui Calvi è stato protagonista e vittima coinvolgono una galleria di personaggi ambigui e pericolosi. Sullo sfondo l’ombra della P2, della mafia, dell’Opus Dei, dei servizi segreti. a cura di Riccardo Paradisi


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ritratti

MICHAEL CURTIZ ERA UNO DEI PIÙ GRANDI PROFESSIONISTI DI HOLLYWOOD, PIÙ COMPLESSO E SOFISTICATO DI QUANTO NON SI SIA FINORA CREDUTO. ANARCHICO E AMBIGUO, IDENTIKIT DELL’IRASCIBILE REGISTA CHE HA PORTATO NEGLI STUDI AMERICANI LA CULTURA EUROPEA E LE OSSESSIONI DELL’ESPRESSIONISMO. E CHE NEL SUO FILM-CULTO HA SCOLPITO PER SEMPRE IL PROTOTIPO DEL GRANDE AMORE

Quell’ungherese a Casablanca di Orio Caldiron ulla soglia degli anni Ottanta è toccato a Rainer Werner Fassbinder, una delle voci più spregiudicate del nuovo cinema tedesco, richiamare l’attenzione sul singolare paradosso per cui l’autore di un cult movie celeberrimo è un regista pressoché sconosciuto al grande pubblico: «Tra tutti coloro che considerano il cinema, il film, come un’essenza amorosa, di tenerezza e di voluttà, non c’è quasi persona che ignori l’Humphrey Bogart di Casablanca con Ingrid Bergman. Sono convinto però che siano in pochi a sapere che Casablanca è stato girato da Michael Curtiz. E coloro che lo sanno, credono che a Curtiz questo capolavoro sia riuscito per caso. Opinione diffusa tra i cinefili, ma altrettanto errata e ingiusta. Michael Curtiz ha fatto anche di meglio».

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Sappiamo pochissimo di Mihály Kertész, alias Michael Curtiz, che nasce a Budapest il 24 dicembre 1888 e muore a Hollywood il 10 aprile 1962, primogenito di un’agiata famiglia ebrea. Il padre, architetto, ha una passione per il bel canto. La madre è una stella dell’opera, in cui giovanissimo fa le sue prime esperienze di attore. Sin dall’inizio del secolo entra a far parte di varie compagnie teatrali, ma presto passa al cinema di cui come regista intuisce le straordinarie potenzialità espressive. Nel 1919, quando lascia per sempre l’Ungheria, ha già fatto in tempo a partecipare alla prima guerra mondiale come cineoperatore e a realizzare trentotto film quasi interamente perduti. Non parlerà mai di Viene mio fratello, il corto di propaganda che realizza per la Repubblica dei Consigli di Béla Kuhn, con tanto di bandiere rosse al vento e di slogan rituali: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!», in un momento in cui alla breve esperienza rivoluzionaria partecipano anche Béla Lugosi, il futuro Dracula, e Sándor Corda, destinato a diventare lo zar del cinema britannico. La successiva esperienza viennese è fondamentale per il regista che con la Sascha-Film del conte Alexander Kolowrat dirige Sodoma e Gomorra, grandioso pasticcio biblico dalle ambizioni anticapitaliste, e il dramma in costume Il giovane

Medardo dalla pièce di Arthur Schnitzler, ma è Schiava regina, fastosa rievocazione del ritorno degli ebrei nella terra promessa firmato Henry Rider Haggard, a richiamare su di lui l’attenzione di Harry Warner, che nel 1926 lo chiama in America. L’ambiguità è la musa di questo ungherese di Hollywood, un americano che è europeo, un professionista fedele per trent’anni alla stessa major e che non è affatto un esecutore anonimo, un regista di film di successo misconosciuto come autore, un uomo-cinema che ha avuto l’Oscar ma non la considerazione della critica. Nel corso di una lunghissima avventura che vede sfilare al timone di comando della Warner personalità diverse come Darryl F. Zanuck, Jack Warner, Al B. Wallis, Jerry Wald, le propensioni più segrete del regista si misurano con le regole dello studio system per cui far cinema «è come costruire un’automobile: si mettono insieme i pezzi e il gioco è fatto». Se i dirigenti dello studio continueranno a rimproverargli le predilezioni eccessive, le composizioni eccentriche, la mania della gru, i complicati movimenti di macchina, è proprio nello scontro con le regole produttive che si verrà definendo la sua estetica della velocità, capace spesso di armonizzare dinamismo narrativo e invenzione visiva, politica della casa e confessione cifrata.

Sopra, Michael Curtiz, nato a Budapest nel 1988 e morto a Hollywood nel 1962. A sinistra, Humphrey Bogart e Ingrid Bergman in “Casablanca” (vicino al titolo la locandina del film). In alto alcune scene di “Casablanca” e, a destra, Bogart con Curtiz. In basso, altre scene del film e a destra, James Cagney e Bogart in “Gli angeli dalla faccia sporca”, altro celebre film di Curtiz Il suo primo grande successo americano è L’arca di Noè (1928), che lo fa conoscere nel difficile momento di passaggio dal muto al sonoro. «Il film mostra il concepibile e l’inconcepibile», scrive Variety, «folla, folla e ancora folla, un Niagara d’acqua, un disastro ferroviario, guerra a volontà, crolli, diluvi, e ogni cosa in grado di provocare brividi allo spettatore». Il kolossal contribuisce a dar vita alla leggenda del regista «crudele», pronto a riversare ca-


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pre alla ricerca del tesoro nascosto. Il cappa e spada coltiva l’illusione di una visualità da toccare con mano, si anima nella profondità della superficie, esclude ogni spessore psicologico. «Questo genere di racconti tratta di un solo argomento fondamentale, il pericolo», sostiene Stevenson, «quanto ai personaggi vengono tratteggiati solo nella misura in cui esprimono il senso del pericolo». La psicologia non deve mai turbare la capacità d’azione dei personaggi, essenziale all’intreccio avventuroso. Non sono ammesse pause né incertezze, dal conte fino all’ultimo pirata, ognuno deve fare la sua parte. Non sono meno coinvolgenti i suoi polizieschi, di cui il più curioso è Il pugnale cinese (1933), che ripropone il Philo Vance di S.S.Van Dine, un classico del giallo americano, facendolo interpretare all’impeccabile William Powell. Il film risolve le contrapposizioni tipiche del cinema poliziesco tra teoria e pratica, dilettantismo del dandy e scientismo delle procedure, nell’indagine come set, crocicchio di entrate e uscite, agitato luogo di raccordo in cui l’omicidio rimbalza dai poliziotti ai giornalisti per diventare subito cronaca. Si sente ancora di più l’impatto con l’attualità in Gli angeli dalla faccia sporca (1938), uno dei suoi film più celebri in cui si avvertono gli schemi sociologici e le sottolineature finto documentaristiche dello stile Warner. Nello specchio del mimetismo non si ritrovano solo i ragazzi di periferia che rifanno il verso a Rocky Sullivan (James Cagney), ma anche la stampa e la radio chiamati direttamen-

Raccontava Ingrid Bergman che i dialoghi venivano dati agli attori giorno per giorno senza nessuna previsione sul finale. E che il suo più grande disagio era non sapere se doveva essere innamorata di Humphrey Bogart o di Paul Henreid scate d’acqua sulle comparse. Nel giro di qualche anno è considerato dai produttori un money maker, cioè un regista capace di realizzare nel tempo stabilito e con il budget previsto dei film destinati a un successo praticamente sicuro. Sul piano umano il personaggio resta misterioso e sfuggente. La mondanità non gli interessa, ha pochi amici, non concede interviste, vive per lavorare e disprezza quelli che lavorano per vivere. Se si esclude la tenacia con cui difende la propria privacy, la sua eccezionale bravura di campione di scherma, il suo inglese sgangherato e fantasioso che fa ridere anche gli amici più indulgenti, la fama di despota cinico e arrogante che comanda a bacchetta tecnici e comparse, di lui si continua a sapere molto poco, mentre si consolida la fama del temibile stakanovista che sfianca tutti di lavoro e non esita a insultare i divi più capricciosi.

Negli anni Trenta il genere in cui ottiene i maggiori successi è il cappa e spada. Capitan Blood (1935), La carica dei 600 (1936), La leggenda di Robin Hood (1938), Il conte di Essex (1939), Lo sparviero del mare (1940), segnano anche l’incontro con Errol Flynn, spregiudicata incarnazione dell’eroe muscolare che esercita il suo fascino su Olivia de Havilland, la compagna di tante imprese, ma anche sul pubblico femminile in sala. Nel cinema d’azione rivive lo statuto del romanzo d’avventure che nasce dal «meraviglioso telescopio» del desiderio, dal sogno infantile sem-

te in causa in un film che mette in scena i mass media, i rapporti ambigui tra modelli di comportamento e mezzi di comunicazione. L’ultima sparatoria si svolge come in un set con i grandi riflettori che illuminano la scena, ricordandoci che l’evento criminale cresce insieme alla sua ricostruzione, è già la spettacolarizzazione di se stesso. Nel film ha un ruolo importante - quello di un losco avvocato, ex compagno di giochi di Sullivan - anche Humphrey Bogart, che era già apparso in L’uomo di bronzo (1937), vivace ricognizione nel mondo corrotto del pugilato, e dopo la consacrazione di Casablanca riapparirà in Il giuramento dei forzati (1944), melodramma dalle atmosfere fosche e incombenti ambientato negli anni di guerra, che è tra i suoi film più efficaci. Nell’ipertrofia degli spazi - che tende a cancellare le differenze tra il salotto borghese e la sala del trono, il quadrato del ring e la tolda della nave - si ritrovano l’enfasi del grande orchestratore di eventi, l’abilità manipolatoria del burattinaio, il teorico del delitto perfetto, altrettante metafore del padrone del set a cui più volte i suoi film direttamente o indirettamente rimandano. Il grande gioco dell’avventura e del mistero intreccia i propri percorsi con l’esperienza cinematografica che affonda le radici nella cultura mitteleuropea. La drammaturgia dell’ombra e la spazialità espressionista convivono con la vertigine dello sguardo dall’alto, che tende a superare la forza di gravità appropriandosi del mondo dal punto di vista di una visio-

ne superiore. Nell’accumulo maniacale degli indizi, nel sovrapporsi delle prove a carico, si delineano le forme rituali dell’illusionismo del regista che sembra intento a fare concorrenza alla realtà anche quando più esplicita è la forza dell’invenzione visiva. Il cinema della visualità onnivora e impaziente squaderna davanti ai nostri occhi la suggestiva efficacia di un universo artificiale ma vivacissimo.

Nel cinema naturalizzato americano di Michael Curtiz l’attraversamento dei generi narrativi, la stessa prodigiosa fecondità degli ottanta film in trentacinque anni sono incalzate dalle segrete strategie di una profonda incertezza in cui la crisi dell’eroe è solo la copertura di un enigma nell’enigma, dell’inquietudine devastante dell’io. L’eroe che intravede la fine del viaggio chiede una prova d’appello. La navigazione si è rivelata un lento processo di corrosione dall’interno che ha tutta l’aria di un congedo. Chi è l’eroe? Non siamo più sicuri di saperlo. Non è certo la femme fatale che Il romanzo di Mildred (1945) e L’ora scarlatta (1956) smontano pezzo per pezzo mostrando che sotto l’etichetta della dark lady si nasconde una donna «marcia, ordinaria e mediocre», attratta soltanto dai soldi. Ma non c’è da credere che gli uomini se la passino meglio. Non resta che fare una puntata a Casablanca in cui il mito rinasce su se stesso sotto l’unica forma oggi possibile dello stereotipo. La miscela del film - immortalato in migliaia di poster e di fotografie, citazioni e rifacimenti - è esplosiva per la spudorata capacità di riprendere e rielaborare un numero infinito di collaudatissimi cliché narrativi, una sorta di rimpatriata degli archetipi, in cui la storia individuale si intreccia con la storia collettiva. Se il mappamondo dell’inizio del film gira fino a inquadrare Parigi e poi Lisbona, centro dell’imbarco per l’America, i meno fortunati, tra un’incursione aerea e una visita alla Kommandatur, aspettano a Casablanca i visti per potersene andare. Su chi scommettere, su Humphrey Bogart o su Paul Henreid, sull’equivoco proprietario del Rick’s Café Américain o su Victor Laszlo, uno dei capi della resistenza europea, sul rassicurante passato del flashback parigino o sul futuro ignoto e minaccioso? Ingrid Bergman ha più volte raccontato le difficoltà di una lavorazione in cui, mentre sceneggiatori e produttori non smettevano di litigare, i dialoghi venivano dati agli attori giorno per giorno, senza poter prevedere quale sarebbe stato il finale. «La cosa che metteva più a disagio - ricorda Ingrid - era il non sapere di chi dovevo essere innamorata, se di Paul Henreid o di Humphrey Bogart. Non osavo guardare Humphrey Bogart con sguardi innamorati perché poi non avrei saputo come guardare Paul Henreid». Solo alla fine si capisce che il sacrificio di Rick a favore della resistenza contro il nazismo corrisponde alla fine della politica isolazionista americana e alla necessità dell’intervento statunitense nel secondo conflitto mondiale. Certo, le cose importanti restano, mentre il tempo passa. Un bacio è solo un bacio. È un colpo di cannone o è il mio cuore che batte? Nonostante il richiamo struggente di As time goes by, il rapporto tra pubblico e privato propende necessariamente per le esigenze del momento storico che risolve le difficoltà sentimentali del melodramma. L’eroe è chi accetta le regole o chi si ribella? Nel suo saggio sul regista citato all’inizio, Fassbinder suggerisce l’immagine dell’anarchico a Hollywood, dell’anarchico che agisce al di fuori delle regole costituite, che si scontra con il sistema in nome dei bisogni più autentici, dei propri segreti desideri, delle proprie pulsioni fantastiche. Forse è proprio lui, Michael Curtiz, l’eroe del suo cinema, in cui ha sempre in qualche modo parlato di se stesso, facendo di ogni singolo film, di ogni singola sequenza, «un tassello compiuto della sua personalissima immagine del mondo».


MobyDICK

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tv

di Pier Mario Fasanotti

Ficcanasi per vocazione

Dall’alto: Caterina Balivo, Serena Dandini, Donatella Rettore e Neri Marcoré

web

NELL’ERA DELL’AUTOPUBBLICAZIONE

video

zzardo una previsione: con la piega che ha preso la televisione, orientata all’interrogatorio intimo e agli incontri-interviste, sarà sempre più grama la vita dei settimanali popolari. La tv ormai ci offre sempre più sovente la confessione. Una manna per coloro che vogliono sapere tutto degli altri. Ci sono due trasmissioni che vanno su questa scia, per coloro che sono o si sentono soli e quindi vorrebbero una chiacchierata da ballatoio o da sala da tè, come ai vecchi tempi. La prima è Dimmi la verità (Rai 1, ore 21), la seconda è Parla con me (Rai 3, verso le 23). La prima è condotta da Caterina Balivo. Faccio una galante premessa a un programma che è a dir poco modesto: Caterina, oltre a essere una giovane donna di bellezza fresca e cordiale, è assai brava nell’evitare d’essere petulante, invadente, artificialmente comica o sbracata. È una che la vorresti come amica: ti mette a tuo agio. Detto questo, il meccanismo del suo programma oscilla tra l’infantile e il voyeuristico. Un tale professor Fernandez, con accento ovviamente spagnolo, infila i polpastrelli della «cavia» in ditali-elettrodi. Alle sue spalle i grafici delle emozioni. La macchina della verità è quella che nei film americani invocano i presunti innocenti. Il partner della «cavia» formula le domande. Poi l’iberico esperto di balle rivela se la risposta data è vera o falsa, in base a criteri elettricoemozionali. Ora mi domando a chi davvero possa interessare sapere dove si siano incontrati (su Facebook, ve lo dico io: tranquilli) Lory Del Santo (ma che mestiere fa? Boh) e un certo Rocco, fisico molto atletico, impietosamente più giovane di lei, a suo agio nella parte del bell’uomo? Sul litorale romagnolo se ne incontrano tanti come lui, con la falcata e lo sguardo del predatore. Balla e canta, chissà se troverà un palco degno della sua curatissima (e un po’ banalotta) avvenenza. E a chi davvero interessa sapere se l’attrice Patrizia Pellegrino (di Torre Annunziata, occhi stupendi e chiari) abbia mai tradito il marito, l’imprenditore Stefano? Patrizia fornisce a raffica pillole di buon sen-

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so spacciandole per profondità abissali dell’anima, ma gioca un po’ a fare la donna che accetta tutto pur d’essere moderna e felice. Soprattutto moderna. L’ha tradito o no, ci chiediamo con un fremito che si tiene difficilmente a bada? Lei, che è esperta di mondo, sorride e risponde: «Con il cuore mai». Capito tutto. Caterina Balivo è un elegante funambolo della leggerezza, non infierisce, non ride tra sé e sé (s’ha pur da magnà co la tv…). Sa che il mondo è spettacolo di se stessi. Sa che ci siamo proprio scordati la massima di Seneca: Sapiens secum est (stoico rifiutarsi agli altri, occasione per riflettere più che apparire).Vabbè. Entrano in studio personaggi che paiono viaggiatori nel tempo. Come Donatella Rettore, ancora bella se non fosse che vorrebbe essere a tutti i costi come una volta. Il luogo e l’occasione sono levatrici di narcisismo. E giù a valanga definizioni di sé. La Rettore è incontenibile: «Sono pazza, emotiva, stralunata, schiantata, fulminata… se dico una bugia la dico grande». E che sarà mai?! Spiace molto, ma a noi frega poco. Di stile diverso è Parla con me con Serena Dandini, che per fortuna ha attenuato un po’ il birignao della sinistra mondana che si diverte con il gossip pur di lanciare strali, tutti di sbieco. Sul divano rosso invita l’ospite di turno. S’è mostrato grandemente simpatico Emilio Solfrizzi (Tutti pazzi per amore, serial tv, lo vede in coppia con Neri Marcorè, attore superbo) e la Serena del marxismo che ride non l’ha castrato con i suoi motteggi e gorgheggi. Dimostrazione che quando le interviste sono condotte con sobrietà, il programma funziona. E se funziona, apprestiamoci a recarci al (quasi) funerale della carta stampata. Almeno di quella che si basa sui fatti e fattacci degli altri. Come già Plauto avvertiva di non fare, continuiamo a ficcare il naso (cascià el nas si dice in milanese) nelle altrui vite. Sarà che la nostra ci piace pochino? Gli avvertimenti dei grandi virtuosi del pensiero stanno solo a significare che sbirciare nelle camere non nostre è una vocazione incontenibile.

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I MONDI DI FINAL FANTASY XIII

PÉRON? ERA NATO IN BARBAGIA

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artorire un’idea, pascerla di parole fra bizze e rifiuti, e accudirla finché non è pronta a muovere i suoi passi nel mondo. La seconda generazione del web, costruita intorno all’user generated content, cioè grazie alla produzione di contenuti affidata ai navigatori, ha consentito la rapida crescita di un nuovo mercato editoriale alla portata di tutti gli scrittori. Il fenomeno del self-pu-

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empre più strette le frontiere che separano il cinema mainstream e i videogiochi ad alto tasso di spettacolarità narrativa, si fondono nell’ennesimo capitolo della saga di Final Fantasy. Giunto alla tredicesima avventura, la più sofisticata delle creature della casa nipponica Square Enix, ha fatto sinora parlare di sé lasciando ampio spazio alla fantasia. Poche notizie, alcune indiscrezioni e uno

Un’affascinante teoria di alcuni studiosi sardi come Peppino Canneddu e Gabriele Casula, vuole che il presidente argentino Juan Domingo Perón fosse in realtà un emigrato sardo, Giovanni Piras di Mamoiada. Sfuggito alla leva militare nel 1909, il giovane lasciò la Barbagia per cercare fortuna in Sudamerica, ma dopo una breve corrispondenza, i genitori ne persero le tracce.

Editoria on line: così “ilmiolibro.it”, riferimento dei giovani scrittori italiani, premia i più gettonati

Indiscrezioni sulla nuova avventura della celebre saga prodotta dalla nipponica Square Enix

Le possibili origini sarde del presidente argentino in un avvincente documentario d’inchiesta

blishing, ossia dell’autopubblicazione, è ormai una solida realtà anche in Italia. Consulenza e strategia di marketing è alla base di Lulu.com, società che vanta già una grande esperienza nel settore dell’editoria on line, ma il vero punto di riferimento dei giovani scrittori italiani è ilmiolibro.it che premia l’autore emergente più gettonato con la pubblicazione cartacea. Complice l’accesso immediato, la possibilità di mettersi in mostra senza costare nulla, il sollievo di non ritrovarsi ad affrontare spese di stampa, ma anche il piacere di testare l’impatto sul pubblico, e di rivedere sulla base dello screening, nodi e svolte narrative problematici, il servizio è già un grande successo.

stillicidio di teaser hanno portato l’attesa alle stelle. Alcune rivelazioni fatte filtrare ad arte dall’azienda nipponica, dicono che l’universo grafico di Final Fantasy XIII verterà sulla contrapposizione di due mondi diversi, Cocoon e Pulse, legati insieme a doppio filo da un tragico destino. Ciascuna delle due location avrà caratteristiche e features di gioco differenti, mentre gli sceneggiatori promettono che alcuni personaggi rievocheranno stile e personalità di vecchie conoscenze della serie come Cloud e Zell. Buone nuove anche dall’impianto ludico vero e proprio, dove combattimenti e magie dovranno essere fatti con cautela, perché assai costosi in termini energetici.

Le stesse inseguite un secolo dopo da Identità La vera storia di Juan Piras Perón, avvincente documentario d’inchiesta. Coincidenze, tasselli, stralci di lettere, voci della Barbagia e frammenti argentini si avvitano intorno a un congegno narrativo calibrato a perfezione sulla suspense, che non si pronuncia in modo definitivo sul caso né sospende l’indagine in una nebbiosa ebbrezza da thriller. La regia di Chiara Bellini non delinea soltanto un sentiero interrotto, ma riannoda anzi le fila di un mondo antico e insulare, attraversato dall’emigrazione, a quelle di un altro nuovo e sconfinato, in cui gli italiani potevano mutare condizione e vita.


cinema di Anselma Dell’Olio lla lista dei film plurinominati all’Oscar che non reggono la prova del tempo, si dovrà aggiungere Il curioso caso di Benjamin Button, candidato a ben tredici (13) statuette d’oro. Le uniche da sottoscrivere con entusiasmo sono quelle per la fotografia (sublime), l’art direction, il montaggio e i costumi, tutti ottimi. È la storia di un uomo, Button (Brad Pitt) che nasce al contrario: inizia la vita come un piccolo anziano pieno di acciacchi e raggrinzito come una scimmia, ma durante il corso dell’esistenza diventa sempre più giovane, fino a rimpicciolirsi in un infante ignaro. Dato che il film dura due ore e quarantasette minuti non velocissimi, sembra quasi di vederlo ringiovanire in tempo reale. Come ormai sanno quasi tutti, il film prende spunto da un breve racconto satirico di Francis Scott Fitzgerald del 1922. La sceneggiatura di Eric Roth abbandona tutto il senso e i dettagli del racconto, mantenendo solo l’idea di un protagonista che torna indietro nel tempo. Invece del tema, reso con fluida comicità da Fitzgerald, della fissazione con la giovinezza e con i ruoli sociali, gli autori propongono un generico «senso della vita», l’inevitabile perdita delle persone amate («Se no come faremo a sapere che ci sono preziosi?» rumina Button) e la ripetuta filosofia centrale: Nella vita non sai mai cosa ti può capitare; Non importa se vivi la tua vita a ritroso e come la vivi. Se trovate una somiglianza con la filosofia terra-terra di Forrest Gump - La vita è come una scatola di cioccolatini: non sai mai quale ti capiterà - non è casuale; è scritto da Roth anche il film premio Oscar con Tom Hanks. Al confronto, il film sul filosofo ritardato mentale era un capolavoro.

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Il film ha come prologo ed epilogo un triste orologiaio, che dopo la Grande Guerra inventa un orologio per la Grand Central Station che va all’indietro, con il romantico-patetico augurio che i ragazzi morti nel conflitto (tra cui suo figlio) tornino a vivere (forse per istruirci sul significato di un film molto confuso e pedissequo insieme). Non pago, Roth ha aggiunto altri siparietti: dopo la metafora dell’orologio, ci troviamo ai giorni nostri in una clinica con Daisy, una signora molto anziana (Cate Blanchett sfigurata da

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Benjamin Button senza ironia

altro flashback. Nemmeno Eleonora Duse si sarebbe salvata, e Ormond esegue il compito con la rassegnazione di una vittima designata. Finalmente si arriva alla ciccia, con la nascita del vecchio bambino. La madre muore di parto facendo giurare al marito di non abbandonare mai il mostruoso neonato; ma papà Button corre a lasciarlo davanti a un ospizio per anziani con qualche dollaro infilato tra le fasce. Queenie (Taraji P. Henson, candidata come attrice non protagonista) un’infermiera di colore che raccoglie Benjamin, commenta la bruttezza dell’infante, ma poiché «pure lui è figlio del Signore», se ne prende cura. L’anomalia di un bianco che cresce tra i neri a New Orleans non è degnata di un accenno né crea il minimo disturbo. Succedono molte cose a

È un melodramma lacrimoso senza appeal il film tratto dal racconto satirico di Francis Scott Fitzgerald. Neanche uno sconfortato Brad Pitt e una barcollante Cate Blanchett riescono a smuovere il piattume. E “Religulous” è un altro monumento al dubbio una tonnellata di trucco) e difficile da guardare tanto è malridotta, mentre fuori infuria l’uragano Katrina. Questi siparietti nella clinica compaiono lungo tutto il racconto. Non c’entra nulla Katrina, ma è una di quegli eventi storici in cui Roth ama inserire i suoi personaggi. Daisy chiede alla figlia Caroline di leggere un certo quaderno. Caroline è Julia Ormond, lanciata alla grande nello sfortunato re-make di Sabrina di Sidney Pollack, e la sua carriera non si è più ripresa. Qui la sua parte è tinca al cubo, perché deve solo leggere ogni tanto qualche riga dal diario di Benjamin Button, e fare domande alla mamma (che sembra più una trisavola fuggita da un film dell’orrore) le cui risposte danno il via a un

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Benjamin, nessuna di particolare importanza nella formazione del suo carattere; è vero che nasce vecchio, ma sembra nato senza personalità. È un film privo di passione che vuole commuoverci a tutti i costi, senza riuscirci. Restiamo sempre fuori da quel che vediamo sullo schermo, incluso l’amore eterno di Ben per Daisy sin dalla sua adolescenza, e il loro perdersi e ritrovarsi (mai per ragioni impellenti) non ci coinvolge minimamente. Nemmeno due astri conclamati come Brad Pitt e Blanchett riescono a smuovere il piattume. Pitt, sepolto pure lui sotto grinze finte per lungo tempo, e sovrapposto col computer su corpi più piccoli per la prima parte del film, sembra sconcertato, depresso e/o addolorato per qua-

si tutto il film. La storia d’amore non è credibile nemmeno per un nanosecondo, e se si voleva far credere che Daisy fosse una brava ballerina, nientemeno che nel corpo di ballo dell’immenso George Balanchine, avrebbero fatto meglio a non indurre la Blanchett a barcollare sulle punte. Non decollava nemmeno prima il ruolo di Daisy, ma l’effetto comico-kitsch del suo goffo sgambettare ci ha messo sopra una pietra tombale. È curioso che un regista come Fincher, che gira film macho e freddi come Se7en, Fight Club e Zodiac, si sia cimentato con una sorta di melodramma lacrimoso. Qualcuno ha suggerito che è per evolvere come cineasta, un coraggioso misurarsi con un genere che non è naturalmente nelle sue corde. Con tutte quelle candidature, capace pure che ci riprovi. Né si riesce a capire perché si rimpallano questo progetto a Hollywood da quarant’anni, e perché abbia infervorato artisti come Fincher, Pitt, e per bontà mettiamo pure Roth. A qualcuno è piaciuto, naturalmente, e molto, ma tutte quelle candidature dimostrano solo che il 2008 non rimarrà un anno da ricordare nella storia del cinema, se questo è il meglio sulla piazza. Quarto potere ha avute nove nomination, ma ha vinto solo un Oscar, quello per la miglior sceneggiatura originale. Come sempre, è il tempo che premia i veri meritevoli, e intanto, grazie a film come questo, la cerimonia degli Oscar perde audience ogni anno.

Non è il caso di approfondire troppo Religulous, parola che unisce religious e ridiculous, del comico Bill Maher, ateo militante, o meglio, adoratore all’altare del dubbio, nella chiesa del «Non lo so», come dice lui. O come insiste John Patrick Shanley nel suo film Il dubbio. In questo documentario Maher usa una tecnica simile a quella di Sacha Baron Cohen in Borat, che è diretto dallo stesso regista, Larry Charles. Gli autori non volano alto per trovare le loro vittime, soggetti marginali di provincia, disposti a farsi intervistare e a difendere la loro fede contro un clown con la parlantina. I televangelisti sono bersagli facilissimi: tronfi, avidi di denaro e narcisi come sono, la seduzione della macchina da presa li convince a cadere nella trappola di domande-trabocchetto, dello spedito jujitsu verbale di un satirico di professione. I due sacerdoti cattolici si difendono meglio, ma Maher non li ha intervistati a fondo, né ha scelto teologi stimati, o personaggi religiosi di livello, di cui il mondo, non solo cattolico, è pieno. Maher vuole dimostrare che la religione è la fonte di tutti i mali e di tutte le violenze nel mondo sin dalle origini. Ma quando deve affrontare islamismo e giudaismo, il gioco è molto meno facile e più scivoloso che con i cristiani fondamentalisti, che credono nella verità letterale della Bibbia. Le parti migliori del film sono quelli con la sorella e con la madre ebrea di Maher, e le loro rievocazioni del padre cattolico che ha cresciuto i figli nella sua religione, per poi abbandonarla senza spiegazione quando erano adolescenti. Bill afferma che a quel punto la sua famiglia «smette di essere credente»; ma è subito rintuzzato dalla simpaticissima mamma: «Niente affatto» ribatte lei. «Non crediamo più nel cattolicesimo; tutto qui». Maher non riesce a darsi pace che nonostante i molti difetti, danni, errori e crimini delle religioni, istituzioni fin troppo umane, vaste moltitudini continuino a credere che anche se Dio non si vede, si fa sentire, come il vento. Ma intanto ci campa, il simpatico buffone Maher, sfottendo religioni e credenti, e si è fatto finanziare un bel viaggetto intorno al mondo per girare questo documentario. Chapeau.


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poesia

In Giovanni Pascoli le vibrazioni del mondo di Filippo La Porta

LE MONACHE DI SOGLIANO Dal profondo geme l’organo tra ‘l fumar de’ cerei lento: c’è un brusio cupo di femmine nella chiesa del convento: un vegliardo austero mormora dall’altar suoi brevi appelli: dietro questi s’acciabattano delle donne i ritornelli. Ma di mezzo a un lungo gemito, da invisibile cortina, s’alza a vol secura ed agile una voce di bambina; e dintorno a questa ronzano, tutte a volo, unite e strette, e la seguono e rincorrono, voci d’altre giovinette. Per noi prega, o santa Vergine, per noi prega, o Madre pia; per noi prega, esse ripetono, o Maria! Maria! Maria! Quali note! Par che tinnino nell’infrangersi del cuore: paion umide di lagrime, paion ebbre di dolore. Oh! qual colpa macchiò l’anima di codeste prigioniere? qual dolor poté precorrervi la fiorita del piacere? Queste bimbe, queste vergini che offesero Dio santo, che perdòno ne sospirano con sì lungo inno di pianto? (…) Giovanni Pascoli da Myricae

elle poesie di Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna 1855 - Bologna 1912) si piange molto e ci si informa scrupolosamente che si sta piangendo: «Piango, e le dico: Come ho potuto,/ dolce mio bene, partir da te?/ Piange, e mi dice d’un cenno muto:/ Come hai potuto?» e dopo qualche verso «E piange, e piange - Mio dolce amore/(…)» - La tessitrice. Perfino alla volta del cielo accade di piangere: «sì gran pianto nel concavo cielo sfavilla» - X agosto. Anche perciò i liceali di ogni tempo a un certo punto hanno creduto di dover prendere le distanze da una poesia così umida, ricattatoria, leziosa, oltre che sentita, erroneamente, come troppo «facile». Come ci si poteva conciliare con quella «fabbricazione sadica di macchinette liriche per lacrime» (Sanguineti)? Personalmente ho attraversato fasi diverse nel mio rapporto di amore-odio con Pascoli, per attestarmi sulla posizione attuale, di rapimento per la musica estatica dei suoi versi («Don…don… E mi dicono, Dormi!/mi cantano, Dormi! sussurrano/ Dormi! bisbigliano, Dormi!/ là voci di tenebra azzurra…/ Mi sembrano canti di culla,/ che fanno ch’io torni com’era…/ sentivo mia madre… poi nulla/ nel far della sera» - La mia sera). E di commozione per quanto in essi vi è di straziante amore per la disarmata innocenza della vita. Tra elementari e medie venivo portato una volta l’anno a trovare una vecchia prozia, e sua figlia, anch’essa piuttosto anziana - in verità una coppia gozzaniana, dentro una casa ai Parioli ingombra di mobili e quadri d’epoca e divani polverosi -, e in cambio di cioccolato caldo con i wafer recitavo loro una dozzina di poesie pascoliane. Alla fine piangevano entrambe…

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Arrivato al liceo rifiutavo, come ho detto, la poetica del fanciullino in nome dei virili doveri della militanza e della grande cultura borghese (peraltro solo orecchiata). Poi ho ripreso varie volte in mano i suoi versi, con stato d’animo alterno ma con crescente interesse. Fui contento di leggere nella storia letteraria di Contini una cosa che mi sembrava troppo ovvia per poterla dire ma che sentivo come profondamente vera, e cioè il legame di Pascoli con certe «forme dell’esistenzialismo», in virtù del limite ineluttabile della morte presente in ogni componimento (una cosa legata, come si sa, alle vicende luttuose del poeta). Altro che simbolismo: siamo ben oltre! A ciò si aggiungano considerazioni di Contini (e poi di tanti altri, fino a Pasolini) sullo sperimentalismo di Pascoli, sul suo influenzare crepuscolari ed ermetici, sul suo plurilinguismo entro una matrice petrarchesca: uso di una lingua pregrammaticale (le onomatopee, giocate in modo virtuosistico: un verbo sfuma nel verso della rondine: «vide, vide… videvitt», in Dialogo), di gerghi tecnici, di dialetto, di inserti di inglese (il poema Italy sugli immigrati dall’America), etc.. Ma è solo da pochi anni che mi sembra di riconoscere in lui non solo il migliore della famigerata triade scolastica (Carducci, D’Annunzio…) ma una delle grandi, solitarie voci poetiche della nostra tradizione. Per quale ragione? Vorrei dirlo in modo apodittico: perché Pascoli, vittima di un io ipersensibile, claustrofilico, morboso ai limiti del patologico (tutto il doloroso romanzo famigliare su cui ha indagato magistralmente Cesare Garboli), crede però all’esistenza delle cose, crede al mondo e di questo vuole estrarre la misteriosa, spoglia poeticità. Prendiamo le lacrime. Sarà pure stato antiletterato, privo di cultura filosofica (e anzi rivendicava una «ignoranza» indispensabile al fare poesia),

tutto chiuso nella sua peraltro sofisticata sapienza metrica, etc., ma in uno dei Canti di Castelvecchio, cui pure appartiene La tessitrice, e cioè Le ciaramelle (le cornamuse) mostra di avere una consapevolezza tutt’altro che naif o improvvisata della propria vibrante effusività. Il suono delle ciaramelle è infatti «suono di chiesa, suono di chiostro,/ suono di casa, suono di culla,/ suono di mamma, suono del nostro/ dolce e passato pianger di nulla». E poco oltre: «(…) Ma il cuor lo vuole,/ quel pianto grande che poi riposa,/ quel gran dolore che poi non duole;/ (…)». Il poeta dunque sa bene che è dolce il «pianger di nulla», e che alla fine il cuore palpitante della piccola borghesia - patriottica e ipersentimentale - ama lo sfogo rilassante di pianto e quel gran dolore che però non faccia troppo male. E così il suo stesso «sadismo» è troppo trasparente, per fare veramente male...

C’è un altro aspetto di Pascoli che sento sempre più familiare: il suo elogio della prossimità. La poesia Nebbia sembra un anti-Infinito leopardiano: «Nascondi le cose lontane/ tu nebbia impalpabile e scialba/ (…)». Non ci sono più il titanismo romantico, il pathos per l’indefinito e l’ineffabile, ma l’attrazione per gli spazi limitati, domestici, misurabili. E tra le «cose lontane» bisognerebbe includere anche i doveri e gli idoli della Storia, benché poi Pascoli avesse fabbricato alcune pessime mitologie patriottarde… La critica si è divisa su quale sia il Pascoli migliore. Croce si fermava alle giovanili Mirycae e condannava il resto come artificioso e parassitario. Baldacci mette in primo piano i Poemetti, retrocedendo i Canti di Castelvecchio e relegando i Poemi conviviali nel decorativo e nel kitsch. Personalmente non riesco a fare distinzioni così rigide. Pascoli ha momenti altissimi e a volte incredibili bassure un po’ ovunque. Ad esempio la poesia che ho scelto benché tratta da Mirycae non assomiglia a quei componimenti brevi, quasi istantanee o illuminazioni improvvise. Piuttosto mette in scena un ambiente - alquanto affollato -, lo descrive, ce lo mostra nelle sue sfaccettature (il convento dove studiavano da educande le sorelle, il vecchio parroco, le beghine, il coro delle ragazzine novizie), lo sottopone alla nostra meditazione. Il massimo della soggettività lirica si converte nel suo opposto, nella rappresentazione tremante di un mondo - il convento delle suore - e degli esseri umani che lo abitano. Il poeta scompare, in quel mondo si annulla. La religiosità cristiana di Pascoli ha qualcosa di panico, legato probabilmente alla sua formazione classico-umanistica: il punto di vista può variare molto, e se improvvisamente ci ritroviamo dentro un bove scopriremo che tutto ingigantisce di fronte ai suoi occhi, e mentre il sole immenso tramonta, si allungano «l’ombre più grandi d’un più grande mondo». (Il bove). La poesia di Pascoli, così intimamente legata al suo etimo psicologico e autobiografico di tutto questo si libera felicemente. Nelle Monache di Sogliano Pascoli ci mostra, con il cuore spezzato, «queste bimbe, queste vergini», «codeste prigioniere» che pregano la Madonna per peccati inesistenti, che hanno scelto la rinuncia al piacere per colpe improbabili. A noi ci sembra di ascoltare il loro canto dolente - «o Maria, Maria, Maria» -, le loro squillanti voci di giovinette tra i gemiti dell’organo. Qui Pascoli si riscatta da ogni lacrimosa retorica perché aderisce a qualcosa, a qualcuno, di là nel «grande mondo», che ama davvero e di cui ci restituisce la più intima, precaria vibrazione.


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il club di calliope LA PIOVRA NERA Vorrei tanto capire quel crogiolo di lingue, di culture, di messaggi, di echi che si intrecciano come riflessi di mondi sepolti, ma non dimenticati, di conflitti mai sopiti. Vorrei tanto capire tutto ciò che affiora dai sospiri, dalle attese, dai rumori soffocati, da nenie antiche. Adesso le attese, le inquietudini riemergono come spade fiammeggianti. In agguato, ogni giorno, ogni ora. Dall’ombra dell’oblio piomba una piovra nera, che si nutre d’odio, che vive di sangue, di pianti ininterrotti. Non parlarmi più ora di pace, tolleranza, giustizia. Non parlarmi più di umanità recuperata, dopo secoli e secoli di conflitti. Ascolta la tempesta, gli odori del sudore, del sangue, del dolore che si annunciano sempre più forti. Senza pause, senza ragioni. Demoni silenziosi, vuoti d’anima. Aldo Forbice

IL NICHILISMO TRAGICO DI GOTTFRIED BENN in libreria

UN POPOLO DI POETI Eluana quale segreto ti porti con te, io che non so giudicare che non so dire cosa poter fare, quando vedo il tuo fisso sguardo al cielo che ti attende, che va su nel vuoto, io non so che dire, sento la voce dei tanti, ma penso solo a te che ci guardi e non dici nulla, solo silenzio. Franco Bastianini

Dolore del vento che torna dolore del fiore che sfiorisce quanti si spengono così senza parole nel tinto colore del sole, ti vedo cantare delle nenie sacre, loro volano e sfumano si abbracciano e si lanciano verso il vuoto fuori piove ancora forse l’inverno sarà duro. Angelo Bitossi

di Loretto Rafanelli oltanto la tomba di Gottfried Benn, uno dei più grandi poeti del secolo, è polverosa, abbandonata, coperta di ragnatele», scriveva Pietro Citati nel 1992, volendo in tal modo segnalare la scarsa attenzione che c’era verso questo poeta. Non sappiamo se nel frattempo la tomba di Benn sia stata dovutamente pulita, sappiamo però che proprio in questi giorni un altro libro di poesie dello scrittore tedesco è stato pubblicato in

«S

daveri come strumento di conoscenza degli altri». Benn ha una visione tragica, parla del crollo della società, parla di un «individuo sul quale incombono le catastrofi dell’esistenza, quel medesimo individuo che, come dice, scrive strofe su quelle catastrofi» (Magris). Egli ritiene che dell’epoca post bellica non sopravvivranno che «criminali o monaci». Ma pensa pure che l’esperienza creativa possa permettere un fondamento di salvezza. Congiunta, possibilmente, col recupero

Quaranta liriche tradotte da Giuseppe Bevilacqua restituiscono la poesia assoluta di un grande maestro della parola, “compiaciuto” dal dolore Italia dall’Associazione Il ponte del Sale di Rovigo (Benn, Poesie, 128 pagine, 15,00 euro), diretta dal poeta Marco Munaro. L’edizione è stata affidata a un grandissimo traduttore, Giuseppe Bevilacqua, per intenderci il curatore del Meridiano di Paul Celan. Un libro bellissimo, per i testi, per la grafica e ovviamente per la maestria di Bevilacqua, che in un saggio finale ci spiega i criteri della sua traduzione, e l’importanza, e la novità, di una fedeltà al testo attraverso la rima. La raccolta è composta da 40 poesie, forse le più belle di Benn. Sono versi che segnano il lettore col battito severo e martellante della fine. E forte si avverte il nichilismo del poeta, e quel suo espressionismo allucinato, che lo porta alla «dissezione di ca-

della tradizione classica e cristiana. Benn è fautore di una poesia assoluta, di una «poesia senza fede, senza speranza, non diretta ad alcuno… dietro fascino e parola ci sono abbastanza oscurità e abissi dell’essere da soddisfare il più profondo osservatore… sostanze di passioni, natura ed esperienza tragica». Nello spaesamento continuo, Benn, grande maestro della parola, affascina e sconvolge, col suo profondo, totale, «compiaciuto» dolore. Ve ne diamo una prova: «Non era neve, ma scendeva/ dall’alto un bagliore,/ non era morte, ma ognun d’esser/ prossimo alla morte era certo-/ era tutto così bianco, più non passava/ alcuna preghiera oltre l’opale,/ sopra questa valle s’innalzava/ un immenso: Ha sofferto».

Un saluto luminoso nella sera Lo sguardo che distante è profondo Come una catena ferma sulla terra, Canta la speranza nel mattino Per ritrovare la porta giusta, senza volare senza mancare agli impegni dei miei anni.

Sara Melchiondi

«Un popolo di poeti», che ogni sabato esce sulle pagine di Mobydick, è dedicata ai lettori. Chi voglia inviarci versi inediti, troverà accoglienza nella nostra rubrica. L’indirizzo al quale spedirli è: liberal Mobydick, Via della Panetteria 10, 00187 Roma


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mostre

ue occasioni apparentemente contrapposte, distinte ma in fondo vicinissime. Un maestro affermato e «storico», come un antico saggio, e un ancor giovane artista, che sale la difficile china dell’arte contemporanea, ma è già alla vetta (avendo già esposto in luoghi più che prestigiosi, come il Museo Barracco di Roma, mescolando le sue città impilate e i suoi volti sognanti, tra torsi greci e vasi archeologici). Uno, il più giovane, che tende a immagini archetipiche, monumentali e sovraposizionate (volti un poco cemeteriali e cementati nel silenzio, enfiati di serenità postuma e di leopardiana notturnità. Città ritagliate e pneumatiche, come post-dechirichiani sonni trasognati, messi a ronfare sopra italie piallate alla Fabro) l’altro, che riduce il suo virtuosismo scultoreo conclamato, di marmo e basalti, in minimi, preziosi «gioielli» di enigmaticità dischiusa e inquietante, aforismatica. Ma poi t’accorgi che anche il giovane, nella sua monumentalità - quasi da grande schermo pietrificato tende a un intimismo incantato e minimo, come un bambino che scopre la luna, posata dentro la propria culla; mentre il grande Nonno-cesellatore raggiunge, nel suo impegno di finissimo orafo dell’immaginario, una monumentalità grandiosa, contratta, filosofica: da fonda meditazione pop-heideggeriana (e non paia troppo una contraddizione). Basta guardare quell’inquietante pollice-anello-ouroburos a otto d’infinito reversibile (che ha qualcosa insieme di César e di Brancusi, di egizio e di scita, di oro abitabile come un divano orientale e di lucerna atavica) per capire quale dilatazione mentale riesca a suggerire e architettonicamente suscitare. Bruno Martinazzi, torinese, e Paolo Delle Monache, tosco-romano come un disegno di Zuccari (e con lo zucchero di bronzo costruisce le sue città immaginarie, almanaccate, filate di materia e colore) entrambi ospitati in due «cripte» prestigiose, simboliche: il primo al Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, vertice inavvicinabile a ogni vanità, e Delle Monache al Museo Marino Marini di Pistoia, meta non meno ineguagliabile. Anche perché, come bene spiega la direttrice del Museo di Pistoia, parlando della vera cripta recuperata al Museo, che per la prima volta ospita un artista-altro, osserva: «sarà interessante vedere come ogni artista giovane vorrà “vestire”questo spazio che idealmente si lega in un muto dialogo con le opere di Marino (...) avvalorato dal fatto che Marino Marini sia stato anche un grande insegnante, sempre vicino ai giovani e solidale con il loro entusiasmo. Come Marino anche Delle Monache ama molto il bronzo, materiale duttile e plasmabile e successivamente levigabile, così da poter creare superfici corrose, aspre, come lavorate dal tempo».

D

I missionari della

scultura di Marco Vallora

arti

«Etrusco», come Marini, anche Delle Monache predilege le patine sofferte e lise dall’amore dell’opera, dai troppi sguardi imploranti: e passa poi all’inconsueto, nella scultura moderna, colore, che invece ricorda assai, terra, cilestre, peltro, quella del Maestro di Pistoia, a evocare insieme le corrose, consunte superfici della plastica antica policroma («lavoro artigianale fatto di pazienti scalfiture, fino a ricreare un “passato ancestrale”, in opere moderne. Entrambi possiedono un’anima arcaica e moderna che trasferiscono sulla “pelle” delle loro sculture», scrive ancora Maria Teresa Tosi, nel bel catalogo Renografica). E se Martinazzi par aver ritrovato le sue regie oreficerie, di taglio astratto e vaglio metafisico, nel letto bruciato d’un Busento immaginario, sommerso d’acqua, ov’è inumato un qualsivoglia sovrano barbaro, Delle Monache lo diresti appena reduce da uno scavo archeologico, ove ha ritrovato questi cerei, sognanti nipotini-eterni di Pompei, queste città sotterranee, nate dalla feconda idea di «terra» heideggeriana, di humos friabile ancora da cuocere, di hoelderliniana «dimora dell’essere». Che dorme e respira, mitologicamente. Entrambi «gioiellieri, scultori, insegnanti» - per rubare la definizione che Cristina Acidini, sovrintendente fiorentina, usa nel catalogo Sillabe, per definire Martinazzi - hanno dato ampio rilievo all’insegnamento (Martinazzi è stato tra i primi, a Torino, a lavorare con ragazzi difficili, in classi non differenziate, integrandoli grazie al lavoro di fascinazione dell’arte), entrambi credono alla scultura come missione etica. Il più giovane, suggestionato dal suono della teoria di Augé dei non-luoghi, usa una consapevole storpiatura, che è «extra-luoghi» (e Meneguzzo ci ricorda che «extra è insieme “fuori”e “straordinario, superiore”»). «Ho pensato che lì dovevano esserci non-uomini, con non-cani, nondesideri, non-amore. Questo ha innescato in me la voglia - racconta Delle Monache - di cercare luoghi in grado di diventare una sala acustica dell’essere, in cui avvertire occupandoli qualcosa di “extra”, che fossero tempio, nel senso che suggeriscono la contemplazione portandoti a pensieri extra-ordinari», come i suoi mondi-padiglione. Martinazzi cita Broch, la Morte di Virgilio (e viene alla mente L’anello di Clarisse di Magris): «L’anello intorno al dito […] glielo aveva infilato a significare il legame, l’unione, la dolcezza senza fine. Perché il passato e il futuro confluivano nell’anello in un presente che non voleva aver fine».

Bruno Martinazzi. Mensura numera et pondere, Firenze, Palazzo Pitti, fino al 1° marzo; Paolo Delle Monache. Extra-luoghi, Pistoia, Museo Marino Marini, fino al 28 febbraio

autostorie

Tutto sull’Alfa dal dopoguerra alla MiTo di Paolo Malagodi oche marche al mondo hanno la capacità di poter contare, sin nei luoghi più impensati, su vaste schiere di appassionati che si esaltano all’apparire di ogni nuovo modello, salutato con entusiasmo da competenti estimatori di vetture dalla raffinata tecnica e dalla linea aggressiva. Caso che riguarda, ad esempio, un’Alfa Romeo ormai prossima al primo centenario di vita da quando, il 24 giugno 1910, un gruppo di imprenditori milanesi fondò la «Anonima lombarda fabbrica automobili» (A.l.f.a.). Che si insediò poco oltre la cinta daziaria, lungo la strada della cascina del Portello e con l’avvio di una produzione automobilistica destinata a diventare uno dei simboli del capoluogo meneghino, sin dall’inclusione delle inse-

P

gne araldiche comunali nel marchio di quella che fu da subito denominata «la casa del Biscione». Il debutto venne affidato alla 24 HP, una vettura veloce e di buona tenuta stradale, con doti che avrebbero costituito parte integrante dell’immagine di marca e con la realizzazione, nel maggio 1914, della prima vettura da gran premio della nuova marca; alla vigilia, però, dell’interruzione delle attività agonistiche per gli eventi bellici. Che generarono serie difficoltà finanziarie per l’azienda del Portello, acquisita il 2 dicembre 1915 dall’ingegner Nicola Romeo e con l’aggiunta del cognome del nuovo proprietario alla originaria denominazione e nella definitiva sigla «Alfa Romeo». Dopo la crisi finanziaria del ’29, l’azienda automobilistica passerà nel portafoglio dell’Iri, allora costituita

per rilevare attività industriali a rischio di fallimento e come avvenne, nel 1933, per un’Alfa Romeo che proprio durante gli anni Trenta coglierà i massimi allori sportivi. Così con Tazio Nuvolari al volante, nel 1936 la marca italiana manderà in visibilio le folle americane, vincendo a New York la prestigiosa Coppa Vanderbilt e trovando in Henry Ford un estimatore tanto convinto da arrivare, in segno di ammirazione, a togliersi il cappello davanti a un’Alfa Romeo. Fascino che la marca del Biscione ha preservato anche dopo il successivo passaggio nel 1986 dall’Iri alla Fiat, nel cui contesto ha saputo mantenere pressoché inalterato il proprio bagaglio di fama e sportività. Come ribadisce l’ultima nata del gruppo torinese, che nel nome MiTo rievoca l’intreccio dell’attuale sede con le origini milanesi della marca.

Non a caso trattata in innumerevoli testi, riguardanti sia le complesse vicende societarie sia le particolari doti tecniche. Come egregiamente fa, per le Alfa Romeo dal secondo dopoguerra in poi, un protagonista dello sviluppo progettuale di svariati modelli. Con un’attenta analisi supportata da chiari spaccati, nonché da precisi diagrammi, redatta da Domenico Quirico in un volume (L’Alfa e le sue auto, edizioni Nuovi Periodici Milanesi, 248 pagine, 20,00 euro) che non può fare a meno di «richiamare basilari concetti tecnici, fra i quali diversi principi motoristici e certi comportamenti delle sospensioni. Tuttavia in un libro non per ingegneri - come osserva l’autore - ma che cerca di esprimere tali nozioni nella maniera più semplice possibile, per renderle comprensibili alla maggioranza dei lettori».


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teatro

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Quattro istrioni per una carneficina di Enrica Rosso

perazione vincente sulla carta Il Dio della carneficina per la regia di Roberto Andò in scena al Teatro Argentina di Roma. Il nuovo testo di Yasmina Reza (autrice e regista d’oltralpe osannata in patria e molto apprezzata all’estero) è un pezzo di bravura per quattro attori di razza costruito con una precisione impressionante. Una macchina per far ridere nella quale i tempi comici degli interpreti vengono serviti da una scrittura irresistibile. Un congegno a orologeria ben costruito, ben rodato, ben tenuto a ba-

O

da, in cui battute di sicuro impatto vengono sfornate a raffica in un crescendo a effetto, tipo fuochi d’artificio. Una bomba innescata in modo irreversibile. Si diverte molto il pubblico a spiare i quattro individui presenti sulla scena che per un’ora e venti si fronteggiano e si smascherano a vicenda; che ciclicamente perdono la calma, la lucidità, la faccia, che si abbrutiscono, si trasformano, che tradiscono se stessi e creano nuove complicità, nuovi sodalizi, ma solo per un istante. Giusto il tempo necessario a rifiatare per poi ripartire al-

archeologia

l’attacco, gli uni degli altri, in un rito di devastazione collettiva in cui ognuno è padrone di lasciarsi andare al suo peggior istinto. Le quattro pedine del gioco si presentano a coppie: ogni coppia una regina e un re. Campioni di intolleranza e di egoismo, alto borghesi piccolissimi in bilico tra la grandeur e il naufragio della decenza. Si incontrano, forzatamente, in un interno borghese per dipanare una noiosa questione frutto della routine quotidiana: i reciproci figli hanno avuto un pesante alterco con conseguente perdita di denti di uno dei due; ai genitori l’ingrato compito di risanare in modo onorevole la questione. All’inizio le due opposte fazioni si studiano, con sussiego, senza troppo esporsi, dando prova di grande savoir faire. «Io penso che siamo come la creta, troveremo forma solo alla fine», esordisce il padrone di casa in un momento di vuoto per tenere a bada l’imbarazzo. Gli ospiti, un po’ ingessati, asseriscono grati per quel momentaneo, indolore, trascorrere del tempo.

Poi il disgelo. Quattro nomi eccellenti sono chiamati a incarnare i personaggi in scena: Anna Bonaiuto, Alessio Boni, Michela Cescon, Silvio Orlando. Ognuno di loro lo fa con competenza, personalità, istrionismo e una certa dose di divertimento personale. Il regista Roberto Andò, siciliano di Palermo, con uno spiccato gusto per il fermo immagine, li conduce in una direzione che rivela alcuni eccessi di forma, un certo indugiare in atteggiamenti estremi ed esteriori che a volte impoveriscono le credenziali del personaggio ridicolizzandolo in modo eccessivo. Gianni Carluccio (che firma anche i costumi decisamente glamour) architetta un contenitore a tuttotondo molto armonioso: un interno raccolto, contenuto in uno spazio più ampio. Muri stondati, colori avvolgenti e sobri alle pareti che acquistano profondità con le luci, pedana circolare sospesa, sedute comode e generose di un bel velluto rosso vivo (secondo i cinesi colore del buon auspicio e rappresentativo in ambito artistico di forza, successo e fuoco), vasi tondeggianti che contengono fiori senza spine. Insomma, un perfetto arredamento in stile Feng shui che promette serenità e pace interiore. Solo il commento musicale suggerisce altre atmosfere ed è presago di sventura.

Il Dio della carneficina, Teatro Argentina fino al 22 febbraio

A Efeso le pitture inedite della grotta di Paolo di Rossella Fabiani a città di Efeso, famoso centro ellenistico-romano dell’Asia Minore, risuona del nome dell’apostolo Paolo che vi soggiornò varie volte durante i suoi viaggi di evangelizzazione. Oltre ai testi del Nuovo Testamento, anche alcune tracce archeologiche sottolineano l’importanza che l’apostolo vi assunse nella memoria.Tra le altre, la scoperta di tre iscrizioni che citano il nome del santo, in una grotta vicino alla necropoli che domina la città antica sulle pendici del monte Balbul. L’équipe tedesca che le aveva notate nel 1955, ribattezza come «grotta di Paolo» questo sito localmente noto come la «santissima grotta». Renate Pillinger dell’istituto di Archeologia classica dell’Università di Vienna, riprese nel 1966 lo studio e lo scavo di questo monumento rupestre che si presentava come un lungo corridoio di 15 metri preceduto da un’anticamera coperta di una volta. Gli intonaci murali hanno riservato le scoperte più sorprendenti: a partire dal 1998, grazie al paziente lavoro di ripulitura di una squadra di restauratori italiani, hanno potuto essere studiati i resti dei dipinti che avevano decorato le pareti e quasi 300 graffiti. I rifacimenti sul muro orientale, individuati nei cinque strati di intonaco sovrapposti, vanno dall’antichità fi-

L

no ai secoli XI-XIII della nostra era. L’anticamera era ornata da una decorazione florale, ma le pareti del corridoio, molto danneggiate, mostravano varie scene narrative. Una di questa mostra un uomo con la barba, vestito del pallium, la veste romana di origine greca, che tiene in mano un codice, alza l’indice e il medio in un gesto discorsivo. Una legenda scritta in greco, Paulos, conferma la somiglianza con i tradizionali ritratti dell’apostolo. Alla sua destra è rappresentata una casa alla cui finestra si affaccia una donna indicata con le lettere Te(kla); alla sua sinistra un’altra donna, velata,

con la mano compie lo stesso gesto di Paolo. Un’iscrizione la chiama Teokli(a). Secondo Renate Pillinger, questa scena fa riferimento a un episodio riferito negli Atti Apocrifi di Paolo: in occasione di un soggiorno a Iconio, in Frigia, Paolo avrebbe sostato nella casa di Onesiforo. Tecla, una giovane vicina promessa a Thamyris, seguiva la predicazione dell’apostolo dalla sua finestra.Vi rimase tre giorni e tre notti per non perdere neppure una parola. La madre Theoklia era molto scontenta perché temeva che sfumassero i suoi progetti matrimoniali. Su questo stesso strato d’intonaco, il secondo, risalente al VI secolo, delle iscrizioni fatte con il dito conservano delle invocazioni accorate: «Paolo, dona al tuo servitore Sofronio una buona comprensione», o ancora: «Signore, accorda il tuo aiuto a Eusebio». Ma che cosa esattemente avveniva in questa grotta? Gli archeologi ancora lo ignorano, ma è certo che la memoria e il carismo dell’apostolo Paolo vi avessero un ruolo centrale. Oggi la preoccupazione maggiore è diventata la conservazione degli affreschi. Si tratta di lottare contro la condensa che vi si accumula in inverno. Una vera sfida affinché questa piccola meraviglia non sia sottratta all’entusiamo dei visitatori che già vi si affollano.


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fantascienza

nche la fantascienza italiana comincia ad avere un’età matura: ovviamente se ne scriveva anche nell’Ottocento, ma con altri nomi. Acquisì la denominazione attuale nel 1952 sulla copertina dei Romanzi di Urania: è questa la sua nascita ufficiale. Così, dopo oltre mezzo secolo anche la fantascienza inizia a contare i suoi morti, e tra essi coloro che l’hanno fondata sotto vari aspetti, a cominciare dai più anziani: così Luigi Rapuzzi (1905-1969), che con lo pseudonimo di L. R. Johannis scrisse molti romanzi e curò il mensile Galassia (1956); così Armando Silvestri (19091990), autore di racconti negli anni Trenta e fondatore nel 1957 di Oltre il Cielo, e il suo condirettore Cesare Falessi (19302007), anch’egli autore di racconti; così Lionello Torossi (1918-1998), che nel 1952 pubblicò la concorrente di Urania, Scienza fantastica su cui pubblicò storie con lo pseudonimo di Massimo Zeno. Tempus fugit inesorabilmente, e ci hanno lasciati coloro che sono nati negli anni Venti (Franco Enna, Peter Kolosimo, Gilda Musa, Roberta Rambelli, Anna Rinonapoli, Sandro Sandrelli), negli anni Trenta (Carlo Della Corte, Luigi Naviglio, Roberto Temporini, Maurizio Viano), ma ahimé anche negli anni Quaranta (Riccardo Leveghi). Collochiamoli tutti nel famedio fantascientifico. Così come il nostro decano, Lino Aldani, morto per un male incurabile la notte fra il 30 e il 31 gennaio scorsi. Aveva 82 anni ed era rimasto attivo sino all’ultimo.

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ai confini della realtà

A

Il profeta (italiano) del Duemila di Gianfranco de Turris

Si può dire che la fantascienza italiana, come ricordato in altre occasioni, sia nata sulle pagine di Oltre il Cielo, «quindicinale di astronautica e fantasie scientifiche», uscito a Roma nel 1957. Per la prima volta con continuità i nostri autori apparvero col loro nome, o al massimo con pseudonimi italianizzanti. Fra coloro che esordirono nel 1960 su quelle pagine vi fu anche un professore di matematica, romano di adozione, Lino Aldani, che si firmava N.L. Janda: cominciò con racconti umoristici per poi virare su trame più complesse e impegnate che, pur inserendosi nel filone «astronautico» e «spaziale» maggiormente gradito alla rivista, erano caratterizzate da spessore psicologico e umano, nonché da una sottile vena antitecnologica e da un pessimismo di fondo, tratti che sono sempre stati tipici dei nostri autori (ad esempio, Renato Pestriniero, Gianni Vicario, Ivo Prandin fra i più interessanti collaboratori della rivista). Sintomatico di questa vena aldaniana, ma anche premonitore fu Tecnocrazia integrale, storia amara e grottesca di un futuro in cui anche per fare i lavori più umili è necessaria una conoscenza scientifica, non alla portata di tutti. Proprio per promuovere e difendere la fantascienza degli italiani, Lino Aldani pubblicò nel 1962 per la casa editrice La Tribuna La fantascienza, il primo saggio autonomo sull’argomento apparso in Italia che, pur con quelle che oggi ci appaiono ingenuità e superficialità, lo diffuse presso un ampio pubblico. In quel testo Aldani cercò di scavare a fondo i temi della fantascienza e mise sullo stesso piano autori stranieri e italiani, di cui si rivendicava la specificità. L’anno dopo, insieme a Massimo Lo Jacono e Giulio Raiola, fondò il bimestrale Futuro, che uscì solo per otto numeri, troppo in anticipo sui tempi: era un modo ancora più concreto per dimostrare la validità della produzione nazionale nei confronti di quei critici e curatori di collana che all’e-

poca la snobbavano un po’ ottusamente favorendo a priori quella angloamericana. Non tutte le scelte della rivista furono felicissime e tutti i toni appropriati, ma su quelle pagine apparvero due delle storie migliori e preveggenti di Aldani: Buonanotte Sophia, tradotto 25 volte in 14 lingue, che con decenni di anticipo descrive le bambole erotiche e la crisi del sesso «naturale»; e Trentasette centigradi, amara e ridicola antiutopia di una società condizionata da un esasperato salutismo e in mano alla classe medica, insomma una «esculapiocrazia». Nato nel 1926 a San Cipriano Po (Pavia) e vissuto per quarant’anni a Roma, nel 1968 ritornò nel paese natale continuando a insegnare e scrivere, ma divenuto un «baby pensionato dell’istruzione», come lui stesso si definì, fu anche sindaco socialista della cittadina. Ha pubblicato, oltre a numerosi racconti, molti dei quali tradotti all’estero (è l’autore italiano di fantascienza più noto oltre i nostri confi-

ni), anche sei romanzi: Quando le radici (1977), un’opposizione avveniristica tra campagna e città, peraltro un po’ contradittoria; Eclissi 2000 (1979, ristampato su Urania nel 2006), ambientato su un’astronave-arca, sostanzialmente una meditazione sul potere che non può non scendere a compromessi, anche se «di sinistra», sino a mentire; Nel segno della luna bianca (1980, con Daniela Piegai), un fantasy politicamente impegnato ed erotico, che al di là della voglia di sconbussolare i lettori abituati a ben altro, resta un genere assolutamente fuori dei registri aldaniani; La croce di ghiaccio (1989), che riprende l’idea di un racconto, con uno sfondo tra religione ed esistenzialismo; poi, dopo una pausa di quasi vent’anni, Themoro Korik (2007), in cui viene ripreso un tema a lui molto caro già presente in passato, come quello degli zingari, la loro origine, il loro futuro; e infine l’anno scorso Aleph 3 (2008), ripresa di un testo inedito scritto per Oltre il Cielo, che è

Ricordo di Lino Aldani, padre fondatore della fantascienza di casa nostra. Che, nata nel 1957 sulle pagine di “Oltre il Cielo”, quindicinale di astronautica e fantasie scientifiche, è stata a lungo sottovalutata a favore della produzione angloamericana. Ma grazie a lui...

quindi un ritorno aggiornato alla fantascienza classica. La casa editrice Elara di Bologna (ex Perseo) ha riunito tutti i suoi scritti, a parte l’ultimo romanzo, in cinque volumi, oltre ai racconti pubblicati nell’antologia Millennium (2006), a quattro mani con Ugo Malaguti.

Nella sua fantascienza Lino Aldani ha sempre cercato di conciliare gli interessi personali e culturali: le sue radici padane, la provincia, la campagna, i valori collegati a tutto ciò, con le visioni verso le quali ci spinge il progresso: l’industrializzazione, la megalopoli, la tecnoscienza, la disumanizzazione, l’alienazione, contrapponendo gli uni alle altre e privilegiando ovviamente i primi. Socialista di formazione politico-filosofica, ha spesso mescolato in modo implicito nella sua narrazione questa militanza attiva, ma con risultati letterari del tutto insoddisfacenti, come di solito avviene per ogni scrittore anche grande, quando lo stile diventa più esplicito e didascalico. Lino Aldani se ne rendeva evidentemente conto se in una intervista in appendice all’edizione 2006 di Eclisse 2000 se ne esce con queste considerazioni alla fine della sua ultraquantennale esperienza: «Gli anni 2000 sono arrivati a vuoto, inutilmente tante cose che avrebbero dovuto mettersi a posto, invece si sono aggravate (...) Non so dirlo con precisione, ma non siamo pronti a gestire il futuro. Ci siamo capitati in mezzo e non ce la facciamo (...) Una delle cose che l’umanità non vuole assolutamente capire è che da quando è iniziato un certo tipo di sviluppo, non abbiamo fatto un momento di pausa. Stiamo continuando ad andare avanti in progressione geometrica, prosciugando tutto quello che avremmo dovuto conservare per il futuro. Le attese socialiste, che condividevamo in tanti, non si sono verificate. Sì, ci ho creduto a lungo, ma ormai l’unica rivoluzione che possiamo fare consiste nel coraggio di sopportare l’attuale situazione. È già un pensiero rivoluzionario perché non vuol dire condividere ma sopportare un certo stato di cose». Lino Aldani di certo non lo sapeva, ma esprimendosi così si metteva sullo stesso piano esistenziale di coloro i quali parecchi decenni prima avevano teorizzato una «rivolta contro il mondo moderno», avevano voluto «cavalcare la tigre» che esso rappresentava ed effettuare una resistenza interiore. E che erano agli antipodi delle sue idee.


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